MUSIC IN n. 3

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ACROSS THE UNIVERSE di Roberta Mastruzzi Prendete il più famoso gruppo della storia della musica, attori carini e vaga- mente somiglianti ai componenti del sud- detto gruppo, un pizzi- co di Joe Cocker e di Bono, la fantasia di Daniel Ezralow (sì, proprio lui, quello dei Momix), e mettete tutto in un bel frullatore colorato, di quelli che si trovano nelle cucine delle commedie americane anni Sessanta. Il risultato è un musical, che non è proprio un musical, a tinte pop (nel senso di pop- art) con l’ambizioso e un po’ furbo tentativo di raccontare una storia e renderla universa- le, almeno quanto la sua colonna sonora. Si tratta di un film i cui dialoghi sono per la maggior parte composti dalle canzoni dei Beatles, il titolo - come poteva essere altri- menti? - è «Across the Universe» e Julie Taymor la sua regista. (...) RAMIN BAHRAMI UN CRATERE PER FUGGIRE VIA di Romina Ciuffa e Flavio Fabbri Credere nella reincarnazione? Forse. Di Bach? Si. In un certo senso, Johann Sebastian è rinato a Teheran. Il pianista di Eisenach si è risvegliato 31 anni fa in una casa iraniana da padre ingegnere, Paviz Bahrami, che sarebbe rimasto ucciso in car- cere con l’accusa di essere oppositore del regime degli Ayatollah, in uno Stato in cui l’uomo non può toc- care le donne in pubblico. Si insidia Johann Sebastian, allora, dentro le mani di Ramin, come a dire: «Tocca, tocca i tasti, toccali in pubblico. Sono donne, e nessuno lo sa». Lui lo sapeva, perché aveva 7 (...) ULTIMO TANGO A ROMA di Rossella Gaudenzi Quaranta candeline spente lo scorso marzo. Un corpo fles- suoso, teso, come un nodoso ulivo adulto: vibrante, vigoro- so, nel pieno delle forze. L’età migliore per un uomo, si dice, il fior fiore degli anni. Eppure. 22 dicembre 2007, Buenos Aires: questa sarà la tappa finale di Boccatango, tour conclusivo della carriera dell’étoile della danza internazionale Julio Bocca. Si assicura che sarà una vera e propria festa, con entrada libre y gratuita. L’ultimo tour del ballerino argentino ha preso il via un anno fa, nel novem- bre 2006, e ha toccato i teatri storici della sua carriera, oltre a teatri nei quali non aveva avuto ancora l’opportunità di esibirsi. La sua «Terra d’Argento», l’Argentina; il Nord e Sud America; l’ Europa: Madrid, Parigi, Roma per citare solo le capitali più importanti toccate dal Ballet Argentino e dalla Orquesta Octango. Dicembre Gennaio 2008 Editore STEFANO MASTRUZZI Direttore Responsabile SALVATORE MASTRUZZI Direttore ROMINA CIUFFA Redazione Romina CIUFFA [email protected] Flavio FABBRI [email protected] Rossella GAUDENZI [email protected] Valentina GIOSA [email protected] Roberta MASTRUZZI [email protected] Corinna NICOLINI [email protected] Progetto grafico Romina CIUFFA Impaginazione Cristina MILITELLO Logo Caterina MONTI Redazione Via del Boschetto,106 - 00184 Roma Tel 06.4544.3086 Fax 06.4544.3184 Mail [email protected] Marketing e Pubblicità Mail [email protected] Tipografia Litografica Iride Srl Via della Bufalotta, 224 - Roma Web www.musicin.eu www.myspace.com/musicinmagazine Anno I n. 3 Dicembre2007-Gennaio2008 Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 349 del 20 luglio 2007 STEFANO MASTRUZZI EDITORE Periodico di informazione, attualità e cultura musicale a cura del Saint Louis College of Music PERIODICO DI INFORMAZIONE, ATTUALITÀ E CULTURA MUSICALE A CURA DEL SAINT LOUIS COLLEGE OF MUSIC C on cadenza regolare nascono associazio- ni temporanee di musicisti e musicanti che, come l’Italia nel patriottico inno, d’im- provviso si destano e si uniscono in coro rivol- ti al Palazzo. Questo Gospel di voci bianche (per il colore della pelle) chiede a volte più garanzie per la categoria, un’assistenza previ- denziale più concreta, ma troppo spesso il tutto si riduce ad una mera richiesta di soldi, quelli che fanno girare il mondo, ma non in maniera diretta e vena- le, bensì attraverso una richie- sta di ampliamento del FUS (Fondo unico per lo Spettacolo). I problemi della categoria sono tanti, a comin- ciare dal fatto che non esiste una categoria. Scusate se è poco. Qualunque fannullone può alzarsi la mattina (tardi chiaramente), prendere atto che si sente un grande artista, comprare una chitarra o una tastiera con i dischetti e giura- re al mondo di essere un musi- cista. Forse un saltimbanco. Guai a proporre in Italia una sorta di albo, per carità, si limiterebbe la libera creatività indivi- duale e il fluire delle idee; ma, forse, la paura vera è che alcuni non passerebbero l’esame di ammissione. Uno dei problemi, ai fini previdenziali, è l’Enpals: un Ente che, per come è regolamenta- to, elargirà pensioni solamente a chi non ne avrà bisogno. Per raggiungere e maturare il diritto alla pensione ci vogliono solo 2.400 concerti da spalmare in minimo 20 anni di brillante carriera. La normativa, la cui prima stesura risale al ‘47, ha certamente le proprie colpe e lacune - che le successive modi- fiche non hanno mai risolto - ma anche i musicisti hanno le loro. Sarò una voce fuori dal coro (il Gospel di prima), ma sono certo che pochissimi rinuncerebbero a un fottuto euro della propria retribuzione per pagare le tasse o i contribu- ti previdenziali. Eh già, le tasse e i contributi li devono pagare gli altri; io mi accontento di un importo al netto di tutto. Pochi, maledetti e subito ma sporchi, perché sono neri. Dati della Federculture ci illu- strano che l’affluenza ai concerti cresce spaven- tosamente: solo nel 2004 è stato venduto oltre il 40% di biglietti in più rispetto all’anno prece- dente. Se ci fosse una crescita simile nel settore industriale in un anno avremmo risolto tutti i problemi economici del nostro Paese. Quindi, anche se il FUS è stato ridimensiona- to - e ciò è alquanto criticabile -, anche se la maggior parte di questo fondo finisce ad Enti lirici e spesso ai salotti di ex-aristocratici che organizzano noiosissimi ascolti da camera (è tutto vero) - e ciò è deprecabile -, perlomeno il pubblico compensa di tasca propria queste defi- cienze, premiando gli spettacoli con un’affluen- za più numerosa. È chiaro che non serve a nulla chiedere più soldi per lo spettacolo: abbiamo bisogno di cambiamenti ben più radicali. Ma chi fa le leggi in materia in Italia? Ve lo dico io: dei parrucconi pieni di sé. Il problema risiede al solito nella «italian way» che prende in consi- derazione solo chi fa gol - che spesso è (...) CONTINUA NELLA PAGINA CLASSICA&OPERA CONTINUA NELLA PAGINA MUSICALL CONTINUA NELLA PAGINA SOUNDTRACKING CONTINUA NELLA PAGINA JAZZ&BLUES POCHI, MALEDETTI E SUBITO EDGE AND AND BACK BACK FEED FEED BACK P P O O P P C C K K pop&rock JAZZ JAZZ & & b b l l u u e e s s

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MUSIC IN n. 3DICEMBRE-GENNAIO 2008www.musicin.euwww.myspace.com/[email protected] A CURA DEL SAINT LOUIS COLLEGE OF MUSICDirettore: ROMINA CIUFFAEditore: STEFANO MASTRUZZISAINT LOUIS COLLEGE OF MUSICwww.slmc.itRubricheJazz&Blues Rossella GAUDENZIPop&Rock Valentina GIOSAEdge&Back Corinna NICOLINIClassica&Opera Flavio FABBRISoundTracking Roberta MASTRUZZIMusicALL Romina CIUFFAFeedback Romina CIUFFARedazioneVia del Boschetto, 106 - 00184 RomaTel 06.4544.3086 Fax 06.4544.3184

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ACROSS THE UNIVERSE

di Roberta Mastruzzi

Prendete il piùfamoso gruppo dellastoria della musica,attori carini e vaga-mente somiglianti aicomponenti del sud-detto gruppo, un pizzi-co di Joe Cocker e diBono, la fantasia di

Daniel Ezralow (sì, proprio lui, quello deiMomix), e mettete tutto in un bel frullatorecolorato, di quelli che si trovano nelle cucinedelle commedie americane anni Sessanta.

Il risultato è un musical, che non è proprioun musical, a tinte pop (nel senso di pop-art) con l’ambizioso e un po’ furbo tentativodi raccontare una storia e renderla universa-le, almeno quanto la sua colonna sonora. Sitratta di un film i cui dialoghi sono per lamaggior parte composti dalle canzoni deiBeatles, il titolo - come poteva essere altri-menti? - è «Across the Universe» e JulieTaymor la sua regista. (...)

RAMIN BAHRAMI UN CRATEREPER FUGGIRE VIA

di Romina Ciuffa e Flavio Fabbri

Credere nella reincarnazione? Forse. DiBach? Si. In un certo senso, JohannSebastian è rinato a Teheran. Il pianista diEisenach si è risvegliato 31 anni fa in unacasa iraniana da padre ingegnere, PavizBahrami, che sarebbe rimasto ucciso in car-cere con l’accusa di essere oppositore delregime degli Ayatollah, in uno Stato in cuil’uomo non può toc-care le donne inpubblico. Si insidiaJohann Sebastian,allora, dentro lemani di Ramin,come a dire: «Tocca,tocca i tasti, toccaliin pubblico. Sonodonne, e nessuno losa». Lui lo sapeva,perché aveva 7 (...)

ULTIMO TANGOA ROMA

di Rossella Gaudenzi

Quaranta candeline spentelo scorso marzo. Un corpo fles-suoso, teso, come un nodosoulivo adulto: vibrante, vigoro-so, nel pieno delle forze. L’etàmigliore per un uomo, si dice,il fior fiore degli anni.

Eppure. 22 dicembre 2007,Buenos Aires: questa sarà latappa finale di Boccatango,

tour conclusivo della carriera dell’étoile delladanza internazionale Julio Bocca. Si assicurache sarà una vera e propria festa, con entradalibre y gratuita. L’ultimo tour del ballerinoargentino ha preso il via un anno fa, nel novem-bre 2006, e ha toccato i teatri storici della suacarriera, oltre a teatri nei quali non aveva avutoancora l’opportunità di esibirsi. La sua «Terrad’Argento», l’Argentina; il Nord e SudAmerica; l’ Europa: Madrid, Parigi, Roma percitare solo le capitali più importanti toccate dalBallet Argentino e dalla Orquesta Octango.

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EditoreSTEFANO MASTRUZZI

Direttore ResponsabileSALVATORE MASTRUZZI

DirettoreROMINA CIUFFA

RedazioneRomina CIUFFA [email protected] FABBRI [email protected] GAUDENZI [email protected] GIOSA [email protected] MASTRUZZI [email protected] NICOLINI [email protected]

Progetto graficoRomina CIUFFAImpaginazioneCristina MILITELLOLogo Caterina MONTI

RedazioneVia del Boschetto,106 - 00184 RomaTel 06.4544.3086Fax 06.4544.3184Mail [email protected]

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TipografiaLitografica Iride SrlVia della Bufalotta, 224 - RomaWebwww.musicin.eu www.myspace.com/musicinmagazineAnno I n. 3 Dicembre2007-Gennaio2008Registrazione presso il Tribunale di Roman. 349 del 20 luglio 2007

STEFANOMASTRUZZI EDITORE

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PERIODICO DI INFORMAZIONE, ATTUALITÀ E CULTURA MUSICALE A CURA DEL SAINT LOUIS COLLEGE OF MUSIC

C on cadenza regolare nascono associazio-ni temporanee di musicisti e musicanti

che, come l’Italia nel patriottico inno, d’im-provviso si destano e si uniscono in coro rivol-ti al Palazzo. Questo Gospel di voci bianche(per il colore della pelle) chiede a volte piùgaranzie per la categoria, un’assistenza previ-denziale più concreta, ma troppo spesso il tuttosi riduce ad una mera richiesta di soldi, quelliche fanno girare il mondo, manon in maniera diretta e vena-le, bensì attraverso una richie-sta di ampliamento del FUS(Fondo unico per loSpettacolo). I problemi dellacategoria sono tanti, a comin-ciare dal fatto che non esisteuna categoria. Scusate se èpoco. Qualunque fannullonepuò alzarsi la mattina (tardichiaramente), prendere attoche si sente un grande artista,comprare una chitarra o unatastiera con i dischetti e giura-re al mondo di essere un musi-cista. Forse un saltimbanco.

Guai a proporre in Italia una sorta di albo, percarità, si limiterebbe la libera creatività indivi-duale e il fluire delle idee; ma, forse, la pauravera è che alcuni non passerebbero l’esame diammissione.

Uno dei problemi, ai fini previdenziali, èl’Enpals: un Ente che, per come è regolamenta-to, elargirà pensioni solamente a chi non neavrà bisogno. Per raggiungere e maturare il

diritto alla pensione ci voglionosolo 2.400 concerti da spalmarein minimo 20 anni di brillantecarriera. La normativa, la cuiprima stesura risale al ‘47, hacertamente le proprie colpe elacune - che le successive modi-fiche non hanno mai risolto -ma anche i musicisti hanno leloro. Sarò una voce fuori dalcoro (il Gospel di prima), masono certo che pochissimirinuncerebbero a un fottutoeuro della propria retribuzioneper pagare le tasse o i contribu-ti previdenziali. Eh già, le tassee i contributi li devono pagare

gli altri; io mi accontento di un importo al nettodi tutto. Pochi, maledetti e subito ma sporchi,perché sono neri. Dati della Federculture ci illu-strano che l’affluenza ai concerti cresce spaven-tosamente: solo nel 2004 è stato venduto oltre il40% di biglietti in più rispetto all’anno prece-dente. Se ci fosse una crescita simile nel settoreindustriale in un anno avremmo risolto tutti iproblemi economici del nostro Paese.

Quindi, anche se il FUS è stato ridimensiona-to - e ciò è alquanto criticabile -, anche se lamaggior parte di questo fondo finisce ad Entilirici e spesso ai salotti di ex-aristocratici cheorganizzano noiosissimi ascolti da camera (ètutto vero) - e ciò è deprecabile -, perlomeno ilpubblico compensa di tasca propria queste defi-cienze, premiando gli spettacoli con un’affluen-za più numerosa. È chiaro che non serve a nullachiedere più soldi per lo spettacolo: abbiamobisogno di cambiamenti ben più radicali. Machi fa le leggi in materia in Italia? Ve lo dico io:dei parrucconi pieni di sé. Il problema risiede alsolito nella «italian way» che prende in consi-derazione solo chi fa gol - che spesso è (...)

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POCHI, MALEDETTI E SUBITO

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PPPPOOOOPPPPCCCCKKKKpop&rock

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zzardo: trovarsi a dialogare con AdrianoMazzoletti ti fa sentire in balia di unasorta di incantatore di serpenti. Mi fac-

cio catturare dalla sua capacità narrativa. Iniziaa raccontare e ad ammaliare con le sue storie, isuoi aneddoti, le esperienze, come in pochi oggisanno fare. Tic-toc, il tempo scorre. Tic-toc, iltempo scorre. Tic-toc, il tempo scorre. Temposcaduto. E ne vorresti ancora, in un’atmosferaormai densa del suo spessore professionale.

Potrebbe illuminare con estrema competenzasu decine e decine di argomenti gravitanti ilmondo della comunicazione. È giornalista pro-fessionista dal ‘64; autore, regista, conduttoreradiofonico e televisivo; è stato dirigente Rai;per trent’anni ha fatto parte della direzionedell’Uer (Unione Europea di Radiodiffusione),come vicepresidente e poi presidente delDipartimento Jazz e Musica leggera; è stato cri-tico musicale per il quotidiano Il Tempo diRoma; sin dagli anni Cinquanta ha svolto ricer-che e raccolto documenti e testimonianze suljazz europeo e italiano e sui musicisti italo-americani. Fondamentalmente, è un instancabi-le amante del jazz. E della radio.

Ricorda l’inizio dell’avventura nel mondoradiofonico, legato ad un concorso vinto allaRai: La qualifica era di collaboratore, il ruolo,quello di creatore di programmi. Fino al 1976,anno di riforme , di una legge chiamata nell’am-biente Legge Sullo (dal Ministro FiorentinoSullo, ndr) che interveniva sul lavoro dipenden-te; estremamente adatta per vari settori lavorati-vi, ma non per un’azienda come la RAI. Da quelmomento si entra fissi. Uno spirito libero comequello di Adriano Mazzoletti non ha moltoamato il ruolo di lavoratore dipendente: indub-biamente ha messo un po’ il freno alla creativi-tà. Finchè si era collaboratori, il compito pre-ponderante era quello di produttori di idee; laproposta veniva valutata, si o no, piaceva o nonpiaceva. Dal ‘76 in poi, la creazione ha un ruoloinferiore, ma ci si continua ad avvalere di colla-boratori. Quindi le idee fresche circolano.

Perché, parliamoci chiaro: la radio, daglianni Settanta agli anni Novanta, era estrema-mente viva e piacevole. Si ricordano eccellentidirettori, tra cui Leone Piccioni. Fondamentale,il fatto che venisse realizzata da professionistidel settore, interni ed esterni, e non, come oggiaccade, da ascoltatori. E da telefonate.

Era la radio che ha fatto nascere le trasmis-sioni di cultura. «L’abilità di chi ha la responsa-bilità di condurre una trasmissione sta nel solle-ticare la curiosità e l’interesse dell’ascoltatore,

di esprimere concetti intelligenti. Oggi le ideein circolazione sono davvero poche. Si può pen-sare ad un ottimo Fiorello: è capace, comunica-tivo, intelligente, in grado di gestire una tra-smissione straordinaria. Ma non ci si puòimmaginare la qualità della radio affidandola adun unico personaggio».

«Ulteriori elementi fondamentali per un buonandamento dei programmi radiofonici, è un’at-tenta analisi del Target: il pubblico delle 6.00

vuole cose diverse da quello delle 13.00 o delle24.00. Indovinare ciò che piace, i ritmi delletrasmissioni, il linguaggio idoneo fanno il suc-cesso di un palinsesto ben studiato, e rispettosodi chi ascolta. Il linguaggio: non finirò mai diripetere la necessità di un vero e proprio lin-guaggio radiofonico, che un tempo esisteva edoggi non più. La radio è fantasia, deve sapercreare un rapporto magico tra ciò che si dice echi sta all’altro capo di un apparecchio, si èsintonizzato e affida a noi il proprio tempo».

«C’è una gran diffusione di scurrilità al gior-no d’oggi, nel linguaggio utilizzato nel mondodella comunicazione. Non sono mai stato uncastigatore di costumi, ma questa volgarità èfine a se stessa. In televisione è meno fastidio-sa, il contesto è diverso; mi chiedo perché deiconduttori bravi ed intelligenti come Lillo eGreg si affidino in radio ad un linguaggio spes-so scurrile Questa mancata attenzione al lin-guaggio radiofonico, ha portato a uno svilimen-

to della radio stessa. Paradossalmente, le radioprivate fanno meglio il loro mestiere rispettoalle pubbliche, le quali hanno - o avrebbero - ildovere etico di attenersi ad alcuni dettami. Laradio è fatta di voci, musica, silenzi.Importantissimo è chi va in onda, che deve cat-turare l’audience. Questa deve essere la forzadella radio. Saper stare ai tempi radiofonici,sapere quando la concentrazione di chi ascoltainizia a scemare, e variare».

A un certo punto i due grandi amori diAdriano Mazzoletti si incontrano, si fondono esi trasformano in due forti passioni che loaccompagnano da oltre cinquant’anni. «Il mioamore per il jazz risale proprio a quando, daragazzino, mi sintonizzavo sulle onde radio perascoltare una straordinaria trasmissione di Piero

e Leone Piccioni: La Galleria Del Jazz. Ilcritico e il musicista insieme, era una

trasmissione ben confezionata.Smettevo di fare i compiti per goder-mi questo momento di alta cultura.Quando ho iniziato a collaborare allaradio, il jazz era un po’ scomparso.Convinsi i responsabili di allora alasciarmi uno spazio per un pro-gramma di jazz».

Ha avuto vita lunga: dagli anniSessanta al 2000. Da qualche anno aquesta parte, da quando Mazzolettiha lasciato la radio, i programmi dijazz, fatta eccezione per Radio 3,

sono molto diminuiti, e non sononeppure più programmi di cultura. Egli

è stato l’ideatore della trasmissione jazzisticapiù originale in circolazione: Radio Uno JazzSerata. «A fine anni Ottanta, l’allora direttoreEnnio Ceccarini mi disse di avere un problemacon gli ascolti serali. L’audience calava. Duegiorni di tempo: ho pensato ad una trasmissioneche andasse in onda dal lunedì al venerdì conargomenti diversi ogni sera, entro specifici set-tori. Varietà, musica leggera, jazz. A condurre,grandi personalità dell’epoca».

«Tutto dal vivo. Si chiacchierava e si dibatte-va, con collegamenti da tutto il mondo ed inter-venti di mostri sacri della musica di tutti i gene-ri. La serata jazz era condotta da me. Il risulta-to fu ottimo». Parla a lungo Mazzoletti, com-mentando con amarezza come dagli anniNovanta il palinsesto della radio pubblica siastato uniformato a quello delle radio private).

«Ed è stato l’inizio di una parabola discen-dente. Come non riflettere sulle capacità per-suasive dei mass-media. Oggi se ne parla soloed esclusivamente per condannarli, perché ilcollegamento immediato è con la corruzionedei costumi, con la pubblicità che ci rende tuttidei consumatori incalliti».

Ma se quotidianamente, una voce calda ciilluminasse sulla storia del jazz o del soul, o delrock, e fosse capace di tenerci inchiodati allaradio per sete di conoscenza che cresce e dellaquale, da un certo momento in poi, non potessi-mo più fare a meno. Inizieremmo ad ascoltaremusica, a capire musica, a comprare musica.

Qualcosa si muove, nei negozi specializzati:pare che i cd migliori, li trovi nello scaffale conil cartello: € 9,90. Possiamo permetterceli.

Rossella Gaudenzi

a cura di ROSSELLA GAUDENZI

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Dicembre Gennaio 2008

ADRIANO MAZZOLETTI Tiinsegno il jazz per radio

DRUM C’è un batterista che ha tutta l’aria di battere

ONDE RADIO MAZZOLETTI

H a compiuto ottant'anni Lee Konitz, gigantedell'improvvisazione jazz che da oltre ses-

sant’anni continua a stupire la platea di appas-sionati con idee e soluzioni melodiche sempreoriginali, evitando gli eccessi dello sperimentali-smo e restando fermamente ancorato al fraseg-gio bop e swing.

L’infaticabile sassofonista di Chicago ha confe-zionato, con una formazione di nove elementi,uno spettacolo itinerante per il proprio comple-anno che ha debuttato alla Carnegie Hall di NewYork e che è approdato per la prima europea alManzoni di Milano di recente.

Nel frattempo, sta ultimando il mixaggio di bentre album che vedranno la luce a gennaio e chedovrebbero riassumere gli elementi essenziali diquesto vero e proprio outsider del jazz, che hapercorso, fiancheggiandole, le molte correntidella musica afroamericana preferendo tuttaviapreservare una propria personale espressività efungendo inevitabilmente da lampara anche per isuoi colleghi più innovatori, da Roscoe Mitchell aAnthony Braxton.

Sarebbe davvero un esercizio di stile o al piùuno stucchevole elenchismo cimentarsi nelricordare le centinaia di collaborazioni storiche diKonitz, la cui concezione armonica e melodica hasempre svolto il ruolo di filo d’arianna neimomenti di svolta del jazz; basti pensare all’insi-stenza con cui Davis lo volle al proprio fianco perregistrare The birth of the cool, con il quale iniziòil progressivo allontanamento dal fraseggio be-bop di Charlie Parker, prima che esso rischiassedi divenire «maniera».

Grazie anche ad una serrata attività didattica -Konitz è stato uno dei primi a promuovere la pos-sibilità di insegnare la tecnica improvvisativa -, lasua idea pilota è sempre stata quella di scavaredentro gli standard e i brani della tradizione folkper reperire il contesto dal quale avviare nuovemelodie; partendo da un abbellimento melodicoe ritmico, spostandosi poi ad una variazione sultema, l’improvvisatore deve sapersi allontanareprogressivamente da esso fino ad arrivare allapiena espressività, come un demiurgo capace diricamare dentro una data struttura armonica la

propria ispirazione. In uno degli ultimi semi-nari tenuti in Italia, Konitz ha spiegato il suoapproccio all’improvvisazione basato su unsistema di dieci differenti livelli che, parten-do dalla stessa forma canzone, progredisse-ro gradualmente verso qualcosa di nuovo,sfuggendo all’ansia di dover subito abban-donare lo spunto melodico iniziale (che è poi

una delle malattie principali di tanti e tanti jazzi-sti pur tecnicamente ineccepibili).

Allievo di Lennie Tristano, il pianista-filosofocome ebbe a ricordare lo stesso Konitz, restaconvinto che le coscienze e le sensibilità si diffe-renzino non per un mero fatto di progresso tec-nologico e di conoscenza, ma che esse sianoparte di una più complessa processualità socialeglobale che rende l’universo emotivo diArmstrong, ad esempio, differente da quello diColtrane. È quindi il processo storico in sé a ren-dere sempre differente l’interpretazione di unostandard, senza la necessità di ricorrere ad avan-guardismi spesso frutto più di operazioni mate-matiche e razionali fatte a tavolino che di unaautentica esigenza espressiva.

Con questo patrimonio di sapienza, Konitzcontinua a celebrare la gioia del jazz e della musi-ca, con il suo carattere discreto e lontano da ogniprotagonismo eppure sempre presente in ognifase di «superamento».

Paolo Romano

SS embra che avere sangue abruzzese chescorre nelle vene sia una garanzia di

gran talento e riuscita, se il tuo sogno è quel-lo di diventare batterista. Pensiamo aLorenzo Tucci e a un validissimo musicista diqualche generazione successiva, ossia al ven-tottenne Nicola Angelucci. Peraltro: maestroe discepolo, e sull’ascesa di questo discepolone abbiamo sentite e ne sentiremo delle belle.

Lo abbiamo incontrato spesso al CharityCafé in trio, il suo Nicola Angelucci Group(Enrico Bracco, chitarra; Francesco Puglisi,contrabbasso; Nicola Angelucci, batteria),proponendo standards con personali arrangia-menti e brani inediti. Ottimo traguardo, chetestimonia un consolidamento del drummerabruzzese come figura leader nel panoramajazzistico del momento, forte di un pubblicofedele che crede in lui, lo segue con amore ecresce esponenzialmente.

Il fuoriclasse non ama le etichette, ma èstato il jazz ad appassionarlo più di ogni altrogenere da quando, sedicenne, lo ha scopertoascoltando dischi dei Weather Report. Ed èattraverso il jazz che si esprime al meglio. Faparlare di sé ormai da tempo: Jazzitalia lo haintervistato qualche anno fa che era già unafigura autorevole con esperienza da vendere.

Non solo in dieci anni e poco più di carrie-ra può citare numerosi stages e seminari a cuiha partecipato in Italia e in America (presso ilColumbia College di Chicago), ma ha all’at-tivo collaborazioni con le più autorevoli per-sonalità jazzistiche nostrane e non. Solo percitarne alcune: Bob Mintzer, SteveGrossman, Miles Griffith, Andy Gravish,Amedeo Tommasi, Rosario Giuliani, EnricoPieranunzi, Luca Mannutza, Fabrizio Bosso,Stefano Di Battista, Javier Girotto, MaxIonata, Francesco Puglisi, Dario Deidda,Gianluca Renzi. Vince premi e concorsi: nel2000 Jazz Baronissi, nel 2002 con il quartet-to di Max Ionata il Grand Prix du Public alTrumplin Jazz d’Avignon.

È passato più volte per le sale registrazio-ne: la prima incisione a soli 18 anni con ilMax Ionata-Claudio Filippini Quartet(Zaira); per continuare con Mood Swings,Little Hand, A Secret Place, Internal Dance,The Dream of Love e Dreams. Ma soprattut-to, suona moltissimo dal vivo.

Non perdiamola di vista, questa personalitàche ha la stoffa per essere una promessa deljazz internazionale, sebbene il termine pro-messa comporti grosse responsabilità. E dun-que, senza aspettative esagerate, concedia-moci il lusso di godere dei suoi concerti.Dubitando che ci deluderà. (RG)

NNNNIICCOOLLAAIICCOOLLAA AA AA NNGGEELLUUCCCCIINNGGEELLUUCCCCII

Gli ottant’anni di LEE KONITZ PADRE NOBILE DEL JAZZ

Attenti a quel Attenti a quel BATTERISTA

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AUGURI A Ottant’anni e non sen-tirli: li fa Lee Konitz suonando ingiro per il mondo il suo sassofono

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C’è un legame particolare tra questo stru-mento e la musica da film?

Pochi lo sanno ma il suono del vibrafono èmolto presente nelle colonne sonore. Tutti i com-positori italiani, dagli anni Sessanta in poi,hanno usato spesso e volentieri le percussionisinfoniche. Lo stesso Morricone le usa molto. Intrent’anni di attività, non c’è una composizioneper film in cui non sia presente il suono delvibrafono o della marimba. E poi Nicola Piovanie Luis Bacalov, per citare altri due grandi com-positori con cui ho avuto il piacere di lavorare.Come vibrafonista ho lavorato tantissimo con lamusica da film e proprio da questo è nato un mioprogetto personale.

Di cosa si tratta?Il progetto si chiama «I soliti ignoti. Storie di

ladri, storie di jazz» ed è dedicato alla musica diPiero Umiliani, che per i due film de «I solitiignoti» aveva genialmente trovato una chiavejazzistica per raccontare una storia tutta italia-na. Nella colonna sonora di questo film straordi-nario c’è anche Chet Baker. È un progetto cheporto avanti con l’aiuto di altri grandi musicisti,Salvatore Bonafede e Maurizio Giammarco, coni quali abbiamo deciso di dedicare questo omag-gio al «Jazz Italiano in bianco e nero».

Come si diventa vibrafonista?Ho iniziato suonando la batteria e ho prose-

guito gli studi al Conservatorio. Pian pianodagli studi classici mi sono avvicinato alla musi-ca moderna e mi sono accorto che questo stru-mento, il vibrafono, era molto utilizzato nel jazz.Dopo il Diploma mi sono dovuto trasferire inGermania per perfezionare i miei studi, perchéal Conservatorio le percussioni sinfoniche ven-gono studiate in maniera classica. Ho studiato

con David Friedman-insieme a Gary Burton unodei più importanti vibrafonisti-e con un grandevibrafonista italiano che è Andrea Dulbecco.Purtroppo in Italia non c’è una vera scuola. Perquesto, quando mi hanno proposto di introdurreun corso di vibrafono al Saint Louis, mi è sem-brata una cosa molto utile.

Come mai non è molto diffuso lo studio delvibrafono?

Per i ragazzi che si accostano alla musica èpiù facile trovarsi in casa una chitarra o unbasso elettrico o mettere su un gruppo conbasso, batteria e tastiere. Il vibrafono non lo sivede quasi mai. Il suo suono ha un’improntamolto particolare ed è anche di difficile utilizza-zione in alcuni contesti. Si usa prevalentementenel jazz, ma non solo. Personalmente, sono sod-disfatto della mia scelta, perché è uno strumentoche mi consente di suonare in situazioni moltodistanti fra loro.

Tradizionalmente usato dai quartetti jazz,ora il vibrafono si sta facendo spazio anchenella musica elettronica. Qual’è la tua espe-rienza al riguardo?

Collaboro con due ingegneri del suono un po’folli, Adriano Lanzi e Omar Sodano. È una bellasfida da cui escono fuori cose inaspettate. Ilgruppo si chiama «El Topo», citazione di un vec-chio film western, un cult degli anni 70.Attraverso Myspace siamo stati contattati daun’etichetta tedesca che aveva ascoltato alcuninostri brani su internet e ora suoniamo in diver-si locali.

Cos’è «Makina/Fabric»?È una grande opera poesia che ruota intorno

al mondo del lavoro: importanti voci della musi-ca contemporanea, del jazz, della canzone edella poesia raccontano la storia sociale italia-na. Nasce da un’idea di Luigi Cinque, musicolo-go che gira il mondo e si innamora di artistimolto distanti fra loro e riesce ad unirli insiemesu un palco.

Così accade che mi ritrovo a suonare una seracon Danilo Rea o Gianluigi Trovesi, e magari ilcantante pakistano o il suonatore di doudukJivan Gasparyan. Siamo stati in Paesi particola-ri come lo Yemen o il Pakistan e abbiamo trova-to un accoglienza straordinaria, sia musicaleche umana. Questi progetti sono legati a gruppio cori locali ed hanno un grande successo dipubblico. La gente capisce che attraverso lamusica si può unire, ma unire veramente.

L unga vita all’Alexanderplatz. Il JazzClub più famoso d’Italia è al giro di

boa del quarto di secolo, ed ha compresoche la vera idea rivoluzionaria, la sua forza,la via del successo, è di rimanere così com’è.Complicato fare una gerarchia di quantimusicisti vi abbiano messo piede, perchénon basta dire tutti, sebbene davvero tutti ijazzisti che hanno fatto epoca siano passatiper questo locale. Documentato dai penna-relli che sono passati sulle mura con lefirme dei più grandi musicisti mondiale, daqui a 25 anni. Mica un gioco.

Un tempo fumoso, ed oggi purtropponon più, a detta del suo creatore,Giampiero Rubei. Perché il fumo fa atmo-sfera. Una presenza su tutte: il trombettistaChet Baker si è esibito all’Alexanderplatzper il suo ultimo concerto; Steve Geddes,Matthew Shipp, Wynton Marsalis; i nostriMarcello Rosa, Carlo Loffredo, EnricoRava; i giovani Danilo Rea, RosarioGiuliani, Stefano Di Battista; i giovanissimiPaolo Recchia, Oliver Mazzariello. Per il

jazz italiano, l’Alexanderplatz ha rappre-sentato un trampolino di lancio, una pale-stra, un’occasione unica ed irripetibile.

E dire che il Club è nato quasi a costozero, senza eccessive pretese, per divenireun unicum a livello musicale nazionale.Era letteralmente la cantina sotto casa dellafamiglia Rubei, luogo in cui si vuole esi-stesse negli anni Cinquanta un famosissi-mo locale, dal nome Johann SebastianBach; il quartiere Prati era d’altronde, giànegli anni Sessanta, zona di famosi punti diritrovo. Il giovane Giampiero negli anniOttanta prese in affitto la suddetta cantina,con l’idea di un locale multimediale antelitteram: l’ambiente ospitava una libreriamusicale, con testate internazionali sulmondo del jazz, dove potersi raccoglieretra amici. Nessun inizio di stenti: tra amicisi sistemò l’interno, si tinteggiò, e si diede ilvia a serate delle più varie.

Dal cabaret al jazz, al blues, alla musicabrasiliana. Se non che, si registrò un succes-so pazzesco, quasi immediato. Nasceval’esigenza di cambiare prospettiva, di pen-sare in grande, a un programma che preve-desse eventi serali quotidiani, non più diuna o due volte a settimana. Fu necessariauna chiusura d’emergenza per nuovi lavo-ri e per gettare le basi del Jazz Club di suc-cesso che l’Alexanderplatz è: una pietraangolare per questo genere di musica.

L’organizzazione e la programmazionesono oggi in mano alla generazione succes-

siva dei Rubei, che hanno, tra gli altri ilcompito di formare e «iniziare» al mondodel jazz le nuove generazioni, le promessemusicali nazionali. Lo spazio per i giovaniè presto creato, dedicando loro serate concadenza settimanale. Un accordo impor-tante è quello tra l’Alexanderplatz e il SaintLouis College of Music.

Ogni lunedì si esibiscono i gruppi jazzmigliori della scuola, nell’ordine: i SevenSince, legati all’originale iniziativa musicaledi omaggiare il teatro canzone all’italiana;Panebianco-Stabile, duo di chitarre perbrani originali; il Nicola Di TommasoQuartet; in duo, stavolta di chitarra e voce,il progetto di Antonio Nasone La Promessa;giovanissimo il leader degli Zut Quartet,Enrico Zanisi. A dicembre, per presentarlitutti, il progetto di Federico ProcopioQuartet, che condivide la serata con il CarloPetruzzellis Trio; bossa nova e non solo peril Quintetto Malandro, per finire conZogaroS, progetto solista di LauraMontanari, che si affida a musicisti diversidi volta in volta.

La visione dei giovani Rubei è diversa edi più ampio respiro rispetto a quella diGiampiero. Le attese sono di un jazz nuo-vamente fresco e di qualità, perché è diquesto che il jazz ha bisogno. Bando all’im-mobilismo e alla banalità.

L’Alexanderplatz è un punto fermo.Ineguagliabile. Intramontabile, da venti-cinque anni. Lunga vita all’Alexanderplatz.

«S uonare a New York, nel palazzo delle Nazioni Unite, è stata un’espe-

rienza unica». Per Andrea Biondi, vibrafono, da 3 anni membro sta-

bile di Roma Sinfonietta, l’orchestra che collabora stabilmente con Ennio

Morricone con cui tiene concerti nei più importanti teatri del mondo e incide le

colonne sonore per il cinema e la televisione. C’era anche lui quando l’Orchestra

che si esibiva in un concerto per l’Onu mentre Morricone dirigeva l’esecuzione

dei suoi brani più famosi davanti a un pubblico prestigioso. «Tra gli spettatori

c’erano anche Lou Reed e Pat Metheny, una cosa davvero incredibile».

ANDREA BIONDI L’occasionefa l’uomo vibrafonista. Soliti,ignoti, ladri di note

BLUES Rick Hutton, che eraquello di Video Music. Non scher-ziamo.

AUGURI A Alexanderplatz, ne faventicinque ma tutti, tutti suonati

Music In ¢

Dicembre Gennaio 2008

ANDREA BIONDI: IL SOLITO (IGNOTO)VIBRAFONO

a cura di Roberta Mastruzzi

IMPIASTRARE LE MURADELL’ALEXANDERPLATZ

RICKHUTTONBANDROCK_SOUL_BLUES

più che trendy Micca Club propone il prossimo 22 dicembre sotto l’alberodi Natale il ritorno della Rick Hutton Band, apprezzata e seguita band italo-britannica che ha registrato un crescente successo nella capitale grazie al

cocktail di energia e divertimento assicurato dalla riproposizione di tanti classicifunk, soul e rthytm and blues. Per chi marcia verso gli «anta» e per chi negli «anta»c’è già, il nome di Rick Hutton è sinonimo di conduzione musicale su Video Music,che fu il primo tentativo di canale dedicato alla programmazione musicale no-stop.Hutton, insieme al suo amico Clive con il quale venne in Italia da Liverpool, riuscì ainterpretare con ironia stralunata e un po’ surreale il ruolo del VJ, prima dell’av-vento della mai troppo criticata MTV, coi suoi stereotipi di massificazione delgusto (dis-gusto) musicale. Ma la vera, autentica e originaria passione di RickHutton è sempre stata la passione per la black music: stasera con la sua eccellen-te band e la sua voce graffiante saprà far ballare, divertire e smaltire un po’ dipanettone prima della vigilia. MICCA CLUB, VIA PIETRO MICCA, 7A - PORTA MAGGIORE - ROMA.

IL

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(...) un «pippone» con il senso della posi-zione in campo, un politico dello sport) o chi fal’acuto più lancinante (è importante che nellearie d’Opera ci siano sempre gli acuti altrimen-ti non scatta l’applauso, questo è il baudopen-siero; ma Riccardo Muti, quando diresse ilTrovatore di Giuseppe Verdi - quello delle millelire - suscitò polemiche perché volle rispettarela partitura originale, scevra da questi orpellida pubblico becero).

Voglio dire che i legislatori, quando provanoa riformare il settore, sono naturalmente incli-ni a consultare solo le grandi personalità, chespesso tanto grandi non sono ma famose sì; einvece di portarle sull’isola le scelgono comeconsulenti per la disciplina del settore, affinchépossano dar credito e visibilità alle loro buoneintenzioni e nessun contenuto degno di stima.Consulenti che spesso non hanno fatto la gavet-ta, che non hanno idea dei problemi che incon-tra un’arpista (con l’apostrofo perché in gene-re sono sempre donne) quando deve trasporta-re il proprio strumento per le prove.

Purtroppo il musicista è l’unico operaio chelavora con mezzi propri, ma questo fatto lalegge non lo ha mai preso in considerazione.

E la legge non considera il fatto che il lavorodel musicista non si possa limitare al giorno delconcerto, ma si dovrebbe estendere ai giorninecessari allo studio dei pezzi e alle prove; econ queste premesse, come si può pensare cheun artista maturi 120 concerti l’anno richiestiai fini Enpals? Nelle more della legge, faccia-mo meno prove, studiamo di meno, improvvi-siamo di più; se poi qualche nota sembreràfuori contesto possiamo sempre ammiccare alfree-jazz.

O cambiamo categoria professionale.Domattina mi alzerò presto, prenderò atto diessere un grande chirurgo e aprirò un sala ope-ratoria nella mia cucina, o forse farò il ministrodella giustizia.

R oberto Ciotti, musicista e compositoreromano, è noto ai più soprattutto per

avere creato l’indimenticabile colonna sonoradi Marrakech Express di Salvatores (1989).Nella sua lunga carriera di bluesman ha rag-giunto traguardi invidiabili, suonando al fiancodi Brian Auger, Jerry Ricks, JimmyWitherspoon. Un sogno iniziato da ragazzo, conuna Ariston regalata dal padre e le note deiRolling Stones, dei Led Zeppelin e di JimiHendrix nell’aria. Erano gli sfolgoranti anniSessanta, tutto era in fermento e la musica sifaceva bandiera di una ritrovatalibertà. Dai primi anni Settanta,dopo varie esibizioni con il grup-po jazz-rock romano BlueMorning, lavora come session-man con Francesco De Gregori edEdoardo Bennato; dopo una breveesperienza newyorkese torna aRoma per incidere il primo disco,andando in tour con Bennato perdue anni. Da questa collaborazio-ne nascono «Burattini senza fili»e «La Torre di Babele».Nonostante le pressioni dellagiornalista musicale Giulietti per-ché si «italianizzasse», RobertoCiotti ha sempre trovato nell’in-glese la lingua espressiva più effi-cace, affermando che un generemusicale deve essere fedele allalingua della cultura che lo ha generato, e inol-tre, se canto in italiano, non riesco ad esserefluido, immediato e spontaneo con la chitarra.È l’inglese che mi permette di suonare come miviene e di improvvisare: le sonorità della linguasi impastano alla perfezione con lo strumento.

È nel 1977, frequentando il Pit 77 e assisten-do ad un concerto di Dave Sumner, chitar-

rista dei Primitives, che Roberto conferma la

sua affinità elettiva con il Blues, un amore cheha festeggiato i trent’anni e che continua senzaesitazioni: una scelta complessa che ha portatoRoberto a viaggiare molto e a partecipare a tuttii maggiori Festival nazionali ed esteri.

Il primo disco solista arriva nel 1978: nasce«Super Gasoline Blues», un diario delle espe-rienze che Roberto colleziona in quegli anni diviaggi, amori e amici sparsi per il mondo.Seguono Bluesman (1979), un disco di bluesacustico, e «Rock’in Blues» (1982), una raccol-ta di cover blues. Nel 1980 apre uno degli ulti-

mi concerti di BobMarley a Milano,esperienza che gliporta grande visibilitàe emozione. Pocodopo conosce GingerBaker al Pistoia BluesFestival. Iniziano unagrande amicizia e unsodalizio artistico cheli portano a tornareinsieme in America.Dopo numerose esibi-zioni che gettano lebasi per alcuni branidel quarto disco, «NoMore Blue» (1989),decidono di tornare inItalia. È il 1983 e staper nascere il Big

Mama, locale presto famoso e molto frequenta-to: Ciotti forma un trio e si fa portavoce delBlues nella Capitale. Tra gli habitué, due giova-nissimi Alex Britti e Federico Zampaglione chesi innamorano della musica di Roberto. Di lorodice: Alex e Federico sono stati amici d’infan-zia perché anche se più piccoli di me, vivevanole stesse cose. Poi hanno cambiato strada per-ché il mondo della musica è duro e seguire unastrada come la mia per i giovani è molto diffi-

cile. Le chance di sfondare in Italia ce le haisolo con le canzonette nazional popolari, altri-menti…è dura! Negli anni Settanta, visto che ilmondo andava da un’altra parte, anche noiabbiamo avuto qualche possibilità con delleetichette indipendenti, ma ora non ci sono più enessuno ti dà retta se non ti omologhi a quelloche impone il mercato.

Nel 1990 Roberto Ciotti, dopo l’esperienza diMarrakech Express, si trova nuovamente acomporre per il cinema e per Salvatores: a NewYork incide infatti la colonna sonora di Turné,con Mandel (ex Dire Straits) alle tastiere,Herman (ex John Cale Band) al basso e Trumpalla batteria. Seguono altre collaborazioni cine-matografiche e una fase di autoproduzione checoincide con il boom della musica nera, eventoche gli permette di programmare anche cento-quaranta serate l’anno. È con un sound piùaggressivo che nasce «Road’n’Rail» (1992),pubblicato in Italia dalla Gala Records, piccolaetichetta indie veneta, per la quale nel 1994pubblica «King of Nothing». Quando l’etichet-ta chiude inizia una collaborazione con IlManifesto, che ormai dura dieci anni, pubbli-cando «Changes» (1996), un disco di ineditiche vende 26.000 copie, e «Walking» (1999),molto più introspettivo, dove Roberto sceglieper la prima volta la chitarra classica. L’ultimocd pubblicato con il quotidiano è del 2002 enasce da una collaborazione con l’ottimo jazzi-sta Andrea Pagani. «Behind the Door» ha sono-rità più positive ed energiche: chitarra acustica,percussioni, tastiere e qualche influenza latina.

Ora Ciotti continua a esibirsi con passione edincisività preferendo l’intimità dei piccoli clubai grandi palchi. Una vita densa di conoscenzeed esperienze da descrivere con minuzia perdelineare i contorni di un bluesman « made inItaly», pieno di emozioni e di ricordi, narratiattraverso la sua musica.

UNPLUGGED, (autobiografia), Castelvecchi Editore, 2007 - € 18,50

Clara Galanti

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Dicembre Gennaio 2008

RECENSIONE Roberto Ciotti (quello diBurattino Senza Fili di Bennato e della colon-na sonora di Marrakech Express) scrive di sé

L’EDITORIALE DI STEFANO MASTRUZZI Ma sì, facciamo fintaa fini Enpals che i musicisti non siano operai che si caricano il pianofor-te e l’arpa in spalla (si spiega ora il famoso testo di Antonello Venditti).

POCHI, MALEDETTI E SUBITO

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Stefano Mastruzzi

UNPLUGGED CIOTTI

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Page 5: MUSIC IN n. 3

a cura di FLAVIO FABBRI

Music In ¢

Dicembre Gennaio 2008

a cura di ROMINA CIUFFA

D ecidi di portarla a vedere il tango. C’è Miguel AngelZotto al Gran Teatro e tu vuoi farla vibrare questa

sera. È come una garanzia. E poi la compagnia si chiamaTangoX2, che è come un preludio alla tua mente, aquanto di più strumentale c’è, stasera, in quel tango.C’è sesso. C’è seduzione. C’è desiderio. Ma c’è insicu-rezza, la tua.

E c’è qualcuno, in fondo, che c’è arrivato damolto lontano per ballarle questa serena-

ta, da Vicente Lòpez, a Buenos Aires, con unaereo che ha fatto tappa, negli ultimi 50 anni,ovunque. C’era già suo nonno che ballava pervoi e tu dovevi ancora nascere. Lui, e il figlio,e poi il nipote-quello che è qui oggi-già stu-

diavano nelle Milongas per farla emozio-nare oggi e non ci sono coincidenze neldestino, il tango è nato per fartelaamare stanotte. Il fatto è che oggi tuda quel tango ti aspetti propriotanto, ti aspetti che tre generazionidi tangueros la facciano innamora-

re di nuovo, ti aspetti che le balle-rine abbiano vestiti provocanti

di colore rosso fuoco e che gliuomini le afferrino conpotenza, come a dire sei-al-sicuro-qui-con-me (mentre-sbatto-i-tacchi). Tu-seguimi-

che-io-ti-guido. Ti aspetti disentire bandoneones aprirsi e

chiudere come sesso non protetto e un pianoforte che si faccia pestare a sangue. Tiaspetti di ballare con lei taconeados e cayengues in Calle Corrientes e di pagarle unFernet con Coca al Cafè Marzotto.

Tusei al Cafè Marzotto con lei e stai bevendo un Fernet con Coca; accanto a te, gliuomini ballano con gli uomini e le donne, appena giunte nei bordelli di Buenos

Aires, suonano il bandoneòn di Eduardo Arolas. La porti a vedere uno dei più grandi tan-gueros viventi perché lei profuma di tango. La porti a vedere l’Argentina a Roma e lapovertà a Tor di Quinto. Ti aspetti emozioni dure. Ti aspetti anche di soffrire stasera.Stai rischiando di perderla così. Il Granteatro è fatto in discesa e più che vedere unospettacolo vedi teste e capelli, ti agiti, ti distrai su quinte dimenticate aperte e proiezio-ni di bassa qualità al posto di scenografie che sanno di legno e tanguerìa, ti perdi in un’il-luminazione sbagliata che ti fa dimenticare il sudore di un ballerino, soprattutto lampa-dine (blu) che si stallano tra te e la tua immaginazione e occhi di bue fuori tempo; ilGranteatro non merita il re del tango come tu non meriti lei.

Comunque Miguel Angel Zotto è qui stasera, universalmente riconosciuto come unodei tre migliori ballerini di tango di tutti i tempi, solo per ballare per lei. Ti aspetti chequesto basti a conquistarla. Siete qui solo perché tu nemmeno hai il coraggio di prender-le la mano, diciamoci la verità, si tratta di codardia e niente più: e allora lo fai fare a Zottoche la afferra come afferra la sua compagna di ballo Daiana Guspero, la fa girare senzache smetta di muoversi su carboni ardenti, distende il braccio sinistro e con il destro latrattiene-ma a distanza-a sé senza temerti o temerla, corre e batte i piedi e scalcia eripercorre secoli di tango argentino su di lei-che tu ami-ma che ama sprezzante davantiai tuoi occhi in abbraccio frontale mentre 12 ballerini affondano l’anima nei propri tac-chi, schiacciando la tua.

Soccorre Astor Piazzolla con la Balada para mi Muerte, quella para un Loco, con elGordo triste e con la Bicicleta Blanca. Soccorre con Libertango e Violentango. Perché iltango è libero e violento. Soccorrono registrazioni originali del 1912 e il Patetico diJorge Caldara, lezioni di tango e la storia del Cìvico e della Moreira.

Ma più Zotto la fa ballare, più lei si scorda di te.

Tiaccorgi che, se volevi fosse tua per sempre, non avresti dovuto darle tango. Oralei sa cosa vuol dire amare, e tu dovrai darglielo finché campi.

DALLETANGOMIGUEL ANGEL ZOTTO È BUENOS AIRES

LL uis Bacalov è un brillantearrangiatore di canzoni negli

anni 60, negli anni 70 si interessa alrock progressive (il "concerto gros-so" dei New Trolls deve molto alsuo arrangiamento contaminato diarmonizzazioni classiche), neglianni 80 e 90 scrive colonne sono-re, conquistando la nominationall'Oscar per ben due volte e por-tando a casa la statuetta per lamusica de "Il postino".Ultimamente, però, è il tango ad occupare il suo estro creativo; una passione sbocciata fin dal-l'infanzia, ma che negli ultimi anni ha assecondato in tutta la sua forza travolgente. Bacalov haomaggiato il tango in ogni sua forma (ricordiamo la sua Messa a ritmo binario, la "MisaTango"),adesso lo ripropone a Roma, sedendosi al pianoforte, suo strumento d'elezione, e dirigendo imusicisti della Roma Sinfonietta in nuove orchestrazioni. Il concerto, organizzato nell'ambitodella stagione dell'Accademia Filarmonica Romana, è intitolato "Tango story" e promette di sor-prendere anche per le musiche che il compositore argentino ha scelto di rivisitare: un percorsoguidato nella musica del '900 a ritmo sincopato.

Nicola Cirillo

(...) Solo a Buenos Aires, in cartellone per duemesi con oltre 20.000 spettatori. Con grande ram-marico si deve prendere atto che il mondo delladanza e nella fattispecie del tango, il ballo del ban-doneòn, sta per salutare uno dei suoi massimi rap-presentanti.

Qualche domanda viene da porsela, sul perchéoggi il tango sia una delle poche forme artistichead essere seguito, amato, praticato da un numerodi adepti crescente di ogni sesso, età, nazionalità.

Tango che nasce dalla vita della gente comune edella vita stessa è metafora. Che tocca tutte lecorde emozionali, dalla disperazione al visibilio.Che ci mette in diretto ed intimo contatto con lafisicità di un corpo che è altro da noi, in un giocodi attesa, di stimolo, di seduzione e dominio. È lanatura stessa di questa danza, a possedere le carat-teristiche dell’immortalità.

È frutto di un melting pot, dell’aggregazione diemigranti giunti alle foci del Rio della Plata allaricerca di lavoro e condizioni di vita dignitose, chehanno trovato miseria e durezza. Insieme si canta-no la tristezza e la nostalgia, ma anche le gioie e lesperanze; le delusioni e la solitudine, ma anche lospirito di fratellanza, in un clima fervente di pre-messe per un magico processo di creazione.

Dalla canzone alla danza, è il caso di dirlo, nonvi è che un passo: ed è subito tango. Nei bassifon-di il pianoforte è sostituito dal bandoneòn, che neaumenta il senso drammatico e malinconico, adaccompagnare temi quali le lotte di classe, lanostalgia, gli amori perduti. Quando su un palcoscenico un meraviglioso passo a due(Julio Bocca - Cecilia Figaredo) è in grado di farti dimenticare del mondo e di testesso, di ciò che grava sulla tua mente e del tuo immediato futuro…allora la danzaha fatto un miracolo: che tu sia spettatore per una sera o che tu abbia deciso di met-terti in pista ed imparare i passi di questa arte attraente.

Il tango ha a che fare con la corporeità, la corporeità ha a che fare con la cono-scenza dell’altro, la conoscenza dell’altro ha a che fare con le profondità dell’animoumano. Una ricerca, che in quanto tale è inarrestabile e ci mantiene vivi. Julio Boccavolteggia e non permette ai tuoi occhi di staccarsi per un attimo da ciò che ti staoffrendo, non ti permette di distrarti, non permette alla tua concentrazione di cede-re, non permette ai tuoi sensi di non risvegliarsi. Nel migliore dei casi, Boccatangoci farà riflettere a lungo sui rapporti umani, sulla loro complessità, sull’abbandonoalle emozioni. Ad ogni modo, quasi in preda a un processo catartico, ne usciremopurificati. Grazie Julio Bocca. Grazie Ballet Argentino. Grazie Orquesta Octango.

Come faremo a non sentirne la mancanza?Rossella Gaudenzi

Ultimo TANGO a Roma¢

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JULIO BOCCA - BOCCATANGO

BACALOV SINCOPATO

LUIS BACALOV AL TEATRO OLIMPICO IL 10 GENNAIO 2008 CON TANGO STORY

Romina Ciuffa

SSppee cc ii aa ll ee TTaann ggoo MIGUEL ANGEL ZOTTOSono tre i migliori ballerini ditango di tutti i tempi. Uno è lui.

JULIO BOCCA Nudoa dire addio al tango.

DI TANGOE D'ARIA

GALLIANOA SANTA CECILIA

It’s Wonderful" è la rasse-gna con cui l'AccademiaNazionale di Santa Cecilia

richiama l'attenzione su artisti nonspiccatamente classici ma che rap-presentano, comunque, l'espres-sione più moderna e universaledella musica. Dopo aver accoltoCaetano Veloso e Michael Nymangli appuntamenti continuano conGal Costa (il 17 novembre) eRichard Galliano che chiude la stagione proprio il giorno del suo compleanno, il 12 dicem-bre. Il fisarmonicista francese porta a Roma il suo nuovo progetto Tangaria (Fusione diTango con Aria come la intendeva Bach) che, come lui stesso dice, è "un invito a viaggiarein alto mare accompagnati dal tango (Des voiliers) e dagli squali (Esqualo)". Un viaggio, dun-que, in cui le note percorreranno "vicoli" e "boulevards", ma solo dopo essersi lasciate "lati-nizzare" dal clima, dai colori e dai ritmi delle "avenidas". È la nuovamusica europea che volasu ogni pregiudizio per mostrare tutta la bellezza dell'incontro tra popoli e culture.

Nicola Cirillo

TANGARIA Unincrocio tra tango edaria, tutto «galliano»

MMUUSSIICCALALLL

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a cura di FLAVIO FABBRI

Music In ¢

Dicembre Gennaio 2008

© Melina Mulas

a cura di FLAVIO FABBRI

RECENSIONE Sono mecenati, sonoamici, sono colti: sono tutto quello dicui Richard Wagner aveva bisogno.

RAMIN BAHRAMI Preferisce il maggiore che suona minore, i tastineri e la scala del mi bemolle maggiore, gli piace sorridere e toccare,fugge verso il cratere Bach. È il cratere Ramin, ed è esploso.

(...) bambini, a quattro dei quali va ilmerito di aver trasmesso, in epoca non digi-tale, l’opera del padre in modo che rimanes-se eterna.

Sapeva anche Bach, come lo sa Ramin,cosa vuol dire perdere un padre, perché nerimase orfano a 9 anni. Ma dal pianista ira-niano il giovane Johann Sebastian guadagnauna madre, che anche quella aveva perso ilgrande musicista tedesco: per la propria,Ramin adora suonare. Come Weimar accol-se Bach, l’Italia ha accolto Bahrami, omag-giando il suo talento di una borsa di studioche, da quando aveva 11 anni, gli ha permes-so di toccare le donne, oltre che gli uomini

fra il pubblico, prima sotto la guida di PieroRattalino presso il Conservatorio GiuseppeVerdi di Milano, poi con Danilo Lorenzini eall’Accademia Pianistica «Incontri colMaestro» di Imola. Quindi, ovunque.

È in questo modo che Johann Sebastianesce per la prima volta dalla Germania, den-tro il corpo di un giovane iraniano cui piaceviaggiare e che, diversamente dal suo ispira-tore che non se n’era mai partito, non torne-rà più a casa, dove «i giovani fanno fatica asorridere». Ramin passerà di lì, di nuovo,quando la Persia sarà un nuovo mondo: edha proprio l’arte della fuga in tasca.

Questo bambino che scoprì Bach in teneraetà, cui il padre soleva dire, scrivendoglidalla prigione: «Frequenta Bach, perché lasua musica ti potrà aiutare molto» (uno degliartisti non proibiti in Iran poiché privo diriferimenti al sesso e ai rapporti fra perso-ne), ha fatto il tutto esaurito con la sua inter-pretazione dell’ultima opera bachiana, quel-la dedicata all’ignoto, l’ultimo viaggio di unpianista che ha anche un cratere tutto suo suMercurio per scappare, il cratere Bach. Perdire, quanto di vero c’era nel suo intento.

Un cd di musica classica. Oggi. Sold Out:possibile?

È una cosa che nessuno riesce a spiegare, sesi pensa anche che si tratta di una musica moltodifficoltosa per la densità di polifonia che c’è inessa. Ma non c’è da spaventarsi.

Il mio approccio è stato puramente umano ecomunicativo e credo che sia stato il segreto:non bisogna avere timore di qualcosa di estre-mamente intellettuale, bensì pensare che può

arrivare sia ai giovani sia aglianziani, portando gioia e inse-gnando loro ad amare la musica.

Perché Bach e perché l’ArteDella Fuga?

Come mi diceva sempre la miaadorata insegnante, quando vienicoinvolto, penetrato dalla lucebachiana, questo ti rimane pertutta la vita. Avevo cinque anni emezzo quando feci il mio primoascolto bachiano e ne rimasitotalmente folgorato, perché èuna musica che entra nella tuaanima e non ne esce più.

Era inevitabile che, prima opoi, mi sarei avvicinato all’ArteDella Fuga per il semplice fattoche, avendo conosciuto tutte le 7Partite e le Variazioni Goldberg,mi mancava un tassello per dare ilmio omaggio al maestro di Lipsiaed Eisenach, città natale diJohannes Sebastian Bach, e misembrava doveroso riprendere ilsuo ultimo viaggio. Questo è ilsemplice motivo della mia scelta.

Ha definito l’Arte Della Fugaun «viaggio verso l’ignoto». Inche senso?

Sono credente e penso che,dopo la morte, ci sia qualche altracosa: questo io preferisco definir-lo ‘ignoto’. Ecco perché, nonavendo delle certezze né sapendonulla del paradiso o dell’inferno,immagino che tutto ciò che viene

dopo la nostra esistenza terrena sia ignoto.Quando Bach scrisse quest’opera, che stru-mento crede avesse in mente?

Il pianoforte, nel moderno senso del termine,non esisteva all’epoca di Bach. Dai recentissimistudi dei grandi interpreti bachiani come GustavLeonhard, siamo riusciti a stabilire che que-st’opera Bach l’avrebbe destinata alla tastiera.Tastiera, in lingua tedesca, ha un significatoabbastanza universale; loro chiamano claviertutti gli strumenti a tastiera compreso il piano-forte. Poteva dunque trattarsi di organo, clavi-cembalo, del pianoforte di BartolomeoCristofori, e in genere comunque gli strumenti atastiera. Possiamo anche essere uomini orgo-gliosi e dire che il nostro pianoforte a cordemoderno è lo strumento probabilmente più adat-

to per rendere la musica di Johann SebastianBach più concertistica. Se continuiamo ad ese-guire la musica bachiana su clavicembali antichio su altri strumenti di tastiera, è chiaro che ilpubblico che la ascolta è minore rispetto aun’esecuzione su pianoforte moderno che è ingrado di delineare, in maniera estremamenteprecisa, l’andamento di ogni voce e, contempo-raneamente - per il volume che ha - a riempire lesale di migliaia di persone colpendo profonda-mente i loro cuori. Non voglio fare nessunadistinzione, ma dire soltanto che gli strumentiantichi e quelli moderni hanno diritto di esisterenell’universo bachiano a pari merito.

Nei suoi prossimi lavori per l’etichettaDecca, lei si prepara a un’interpretazionepiù italiana del reportorio bachiano. Qualeritiene essere il lato italiano di Bach, e comelo ha visto ed interpretato Bahrami?

Il mio prossimo disco sarà dedicato all’Italia,è vero, e potrò usare le stesse intenzioni di Bach,che in alcuni testi ha prediletto egli stesso, e maicasualmente, un titolo italiano per avvicinarsi inqualche modo alla musica del vostro Paese;anche io cercherò di eseguire i brani secondotale approccio.

Perché proprio l’Italia per Ramin Bahrami,e non, ad esempio, la Germania?

Lo racconto molto volentieri anche per rin-graziare questo splendido Paese che è l’Italia.Dopo la rivoluzione islamica e dopo la guerrache abbiamo fatto contro l’Iraq per otto anni, inostri soldi non valevano più molto e, a fronte digrandi disagi e di difficoltà finanziarie che impe-divano di emigrare in un Paese occidentale,l’Italia fu il primo a concedermi una borsa distudio, quella dell’Italimpianti di Genova.Grazie ad essa potei proseguire la scuola inItalia, dove mi trasferii all’età di 9 anni e mezzo.

Così giovane e le idee già così chiare?Avevo le idee chiare già a 4 anni. Ho vissuto in

una casa dove, di solito, le culture occidentali eorientali significavano - e significano - unirsi eamarsi. Io sono per metà tedesco, in quanto natoa Berlino, e per metà iraniano, da parte di miopadre. Mia madre ha origini russo-turche puressendo nata in Iran. Scorre nelle vene della miafamiglia un po’di Russia, di Turchia, di Iran e diGermania. Questo agglomerato di origini mipermetteva a 4 anni di fingere di essere un diret-tore di orchestra e dirigere le sinfonie di LudwigVan Beethoven e di tutti i compositori occidenta-li, le cui opere alla fine sentivo davvero mie neimiei giochi.

Quando ha iniziato a suonare?Strimpellavo le mie melodie più o meno già a

6 anni e mezzo. Grazie a mia madre - che amavamoltissimo la musica e che ha provato a suona-re il pianoforte per anni, smettendo solo perpaura - io venni a contatto, forse anche prima dipronunciare alcuna frase nella mia lingua, conle note musicali e riuscivo, ancor prima di scri-vere le lettere dell’alfabeto, a leggerle e a scri-verle: questa fu una fortuna enorme, accantoalla mia grandissima fatica da autodidatta.

Solo clavier, per Lei, o sa anche «strimpella-re» dell’altro?

Purtroppo non so «strimpellare» altri stru-menti che non siano dotati di tastiera.

Italia: oltre alla sua borsa di studio, cosa c’è?

AMICI (AMICI (MAMA PROPRIOPROPRIO AMICIAMICI) ) DI WAGNERDI WAGNER

di Roberta Mastruzzi e Romina Ciuffa

ristano e Isotta rivivono, ancora, quasi una condanna, la loro infelice storia d’amo-re sul palco della Scala di Milano: l’opera che Richard Wagner scrisse per rega-lare «un monumento al più bello dei sogni» inaugura la nuova stagione di concer-

ti alla Scala. Diretto da Daniel Barenboim con la regia di Patrice Chèreau e le scene diRichard Peduzzi, il dramma sarà in scena dal 7 dicembre fino a tutto gennaio 2008 e locelebra l’associazione Amici della Scala - che si definisce «dal 1978 un’associazione dipiccoli e grandi mecenati al servizio della cultura» - con il libro «Wagner alla Scala», unaraccolta di immagini fotografiche curata da Vittoria Crespi Morbio (già presenza attivanelle pubblicazioni dell’Associazione) che illustra le numerose rappresentazioni dei dram-mi wagneriani presso il teatro scaligero.

È qui che centotrenta fotografie restituiscono al lettore tutta la grandiosità delle operedel compositore tedesco, alla cui realizzazione si dedicarono importanti artisti del secoloscorso sin da quando, nel 1873, il «Lohengrin» non si mostrò per la prima volta agli occhi

e al cuore del pubblico milane-se che a stento uscì incolumedal «Wagnerital» (così EugenioGara chiamò la moda wagne-riana in voga in quei decenni):fino a quel momento parlare diWagner, e più in generale diautori tedeschi, era quasi untabù alla Scala. Sarà che lafamiglia Ricordi, potenza indu-striale dei tempi, aveva unagrande influenza e sosteneva intutto e per tutto l’opera italiana,nonostante certi flop verdiani.

Fu la vedova di GiovanniLucca (solo un apprendista deiRicordi), signora GiovanninaStrazza, ad imporsi per pubbli-care per prima le opere deltedesco, per poi essere risuc-chiata dalla forza di Tito Ricordi,che godette dei ricavi (un nazio-nalista che però aveva già intui-to la musica internazionale nelfondare, nel 1864, la Societàdel Quartetto). E fu Bologna(non a torto ritenuta la capitale

wagneriana in Italia) la prima a osare una rappresentazione: un inizio incerto quello diWagner in Italia, ma che avrebbe dato seguito a una delle più fruttuose collaborazioni nelmondo operistico, quella con la Scala. Tanto che il teatro milanese è a ragion veduta rico-nosciuto come uno dei quattro che nel mondo hanno dato maggiore contributo alle regiee alle interpretazioni musicali delle opere wagneriane, insieme all’Opera di Monaco, ilBayreuth e il Metropolitan di New York.

Molti, e gloriosi, sono i registi, i direttori, gli scenografi impegnatisi nelle messe in scenasusseguitesi alla Scala: tra i primi Arturo Toscanini, che nel 1899 diresse «I maestri can-tori di Norimberga», e Adolph Appia, storico scenografo che teorizzò la necessità di ripen-sare interamente l’arte scenica per far diventare anch’essa protagonista della rappre-sentazione, in una fusione totale tra gli attori, la musica e la luce a creare una scena vivamentre lo sfondo piatto lascia il posto a una più coinvolgente tridimensionalità.

Sfida non facile, dinnanzi a un Wagner che aveva concettualizzato e ritualizzato pro-gressivamente la nozione di teatro gettando le basi per l’arte astratta del Novecento, chescriveva da sé tutti i libretti e le sceneggiature, che aveva tenuto a costruire un suo tea-tro d’opera, il Festspielhaus di Bayreuth, solo per cercare di rappresentare le proprieopere così come lui le aveva immaginate: come dire un «fissato» - o un teorico.

E poi Mario Sironi, il gran-de pittore del Novecento chepartecipò all’allestimento discene e costumi nel 1947proprio in occasione dellarappresentazione di «Trista-no e Isotta»; quindi, il contri-buto di importanti artisti, daGiorgio Strelher ad EzioFrigeri - che lavorarono insie-me al «Loehngrin» del 1982- fino a Luca Ronconi, Pier-luigi Pizzi, Nikolaus Lehnoff.

Wagner, un compositorelirico di drammi ma primauno scrittore (con titoli deltipo «L’astuzia maschile èpiù grande di quella femmini-le, ovvero La felice famigliadegli orsi» e «Pellegrinaggioa Beethoven»), ispiratoredell’heavy metal di oggi (adetta del bassista Joey DeMaio), un antisemita amatoda Hitler che soffriva d’in-sonnia e malinconia; maanche una festa solenne diimmagini, musica, suoni, luci,che si fondono insieme inun’unica opera d’arte totale,quasi gestaltiana, capolavoriche nel tempo non hannomai smesso di esercitare illoro fascino, magia propriadelle opere immortali.

Di questo danno atto gliAmici della Scala.

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RAMIN BAHRAMI: UN CRATERE PER FUGGIRE VIA

a cura di Romina Ciuffa e Flavio Fabbri

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CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA

CCLLAASSSSIICCAA&opera

Page 7: MUSIC IN n. 3

V iene ricordato quest’anno, a sessant’annidalla morte, Luigi Russolo (1885-1947),

pittore, compositore e musicista appartenente almovimento futurista italiano. Non uno dei suoimassimi rappresentanti certo, ma a posterioriconsiderato un visionario, un grande precursorenonché primo uomo ad aver teorizzato e pratica-to il concetto di musica elettronica, sostenendoche la musica doveva essere composta prevalen-temente di rumori e non di suoni armonici.Nel1913 al Teatro Costanzi di Roma Russolo un po’inaspettatamente presenta «L’arte dei rumori,Manifesto futurista», cercando di coinvolgere unaltro militante e musicista di prestigio del movi-mento, Francesco Balilla Pratella.

Si trattava di uno scritto in cui si teorizzaval’utilizzo dei rumori in campo musicale, presen-tando una macchina nuova, l’Intonarumori,capace di sviluppare suoni disarmonici e avan-guardistici subito battezzati «musica futurista».In esso venivano indicate alcune idee per unreale ammodernamento della musica, renden-dola partecipe della grande ricchezza di suoni-rumori da cui era già caratterizzata l’era delprimo progresso tecnologico.

Tre erano i punti sviluppati: 1) Enarmonia,consistente nel superamento della divisione dia-tonica e cromatica della scala; 2) Asimmetriaritmica, che non rispetta la tradizionale quadra-

tura ritmica della battuta; 3) Allargamento dellepossibilità timbriche dell’orchestra, reso possi-bile proprio dall’Intonarumori.

A completamento dell’opera nel 1922Russolo costruì il Rumorarmonio, mezzonecessario ad amplificare gli effetti musicalicreati dall’intonarumori. In realtà questa mac-china altro non era che un insieme di scatolevoluminose da cui girando una manovella siproduceva ‘rumore’. Niente di esaltante per iltempo, fino a quando alcuni lungimiranti artisti,tra cui Edgar Varèse, Igor Stravinsky, MauriceRavel, Darius Milhaud, Paul Claudel e PietMondrian cominciarono a vedere in quellamacchina qualcosa di ‘nuovo’, ma di tropponuovo per gli anni Venti del Novecento.

Sarà proprio Varèse (morto nel 1965) adavere la possibilità di veder confermato, colprogresso tecnologico del tempo, il reale valoreinsito nell’Intonarumori con la nascita dellamusica elettronica e gli sviluppi contigui nellaproduzione-riproduzione dei ‘rumori’ (ad esem-pio con il campionatore).

Arte, Musica e Rumore alla fine si ritrovarononel nome di Russolo e di quel movimentoFuturista che tanti mutamenti, in enorme antici-po, aveva intravisto nelle luci del progresso.

Flavio Fabbri

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Dicembre Gennaio 2008

LUIGI RUSSOLO L’inventore dell’Intonarumori e del Rumorarmonio.Praticamente, il padre dell’elettronica e degli afterhours.

IL CORRIERISTA Non solo per chi s’interessa di giornalismo. Per chianche legge di verità e frustrazioni mediatiche. Anche il motivo per cui imusicisti emergenti non sfondano sui giornali. Leggetelo. Capitelo.

Sono otto anni che vivo in Italia e qui ho avutola fortuna di studiare con un vero maestro d’ar-te, Piero Rattalino, al Conservatorio di MusicaGiuseppe Verdi di Milano, dove ho condotto imiei studi classici. Ho potuto studiare ancheComposizione, un’arte necessaria per impararea reinterpretare la musica. Era chiaro che sareirimasto in Italia per terminare la mia carriera;quindi, ho avuto l’altra grande fortuna di studia-re all’Accademia internazionale pianistica diImola, dove ho avuto dei contatti preziosi conRosalyn Tureck, András Schiff e AlexisWeissenberg. Dopo la scuola italiana, per moti-vi familiari mi sono trasferito a Stoccarda e lì hocominciato studi esemplari alla Hochschule FürMusik, dove ho ottenuto un’altra laurea.

Ora sono residente in Germania, nelle campa-gne intorno a Stoccarda, ma l’Italia rimane sem-pre il mio secondo Paese dopo l’Iran, la terradove sono nato; ma credo di aver preso alcunedelle abitudini italiane e, soprattutto, il cuoreitaliano, che è molto grande e pieno d’amore per

il bello. L’Italia, per me, è il luogo più bello epiù ricco di cultura che ci sia al mondo.

Quanta lontananza dall’Iran c’è nel suomodo di suonare?

Ce n’è molta. Nel mio modo di interpretare irecitativi bachiani c’è proprio questa tristezza,questa nostalgia e quest’amore per l’infinito eciò non lo devo né alla Germania né all’Italia,ma alla mia antica e gloriosa Persia, che pur-troppo oggi sta passando un momento dramma-tico, di intolleranza e di inciviltà. E pensare chela civiltà è nata propria nella Mesopotamia,nella terra da dove io provengo. Settemila anniprima di Cristo, l’Impero persiano non avevaschiavi, a differenza dei greci, dei romani: unimpero sotto cui vivevano settanta grandi popo-li, diverse culture che dialogavano tra loro senzache ci fosse uno schiavo. Questa era la genera-zione di un tempo, non quella di oggi, che haavuto un impatto negativo.

Ha mai suonato in Persia?No, purtroppo no. Manco da quasi venti anni.

Quello che mi ricordo come fosse ieri della miaPersia è che da bimbo, a 3 anni, avevo una pas-sione per le noci fresche, non quelle dure delsupermercato, ma quelle appena scese dall’albe-ro. Se vogliamo vedere la vera faccia dellaPersia dobbiamo cercarla nella sua poesia ,nella sua gente comune e non nel regime chepurtroppo ci sta opprimendo, sta rovinando i piùgiovani e mostrando una faccia che non appar-tiene al popolo iraniano.

Torna a trovare la sua famiglia?Ho la fortuna di avere mia madre e uno dei

miei fratelli in Occidente, più vicini. Ho semprepensato che il cielo e la terra sono dello stessocolore dappertutto, e le uniche cose che mi man-cano sono i miei famigliari che non ci sono più,mio padre, mia nonna paterna e quella materna:gli affetti mi mancano, ma la terra di origine lapuoi tenere dentro di te senza averne nostalgia.

Cosa dovrebbe chiedere e saper prendereun giovane studente di pianoforte?

Composizione: la consiglio a tutti i giovanipianisti anche se non s’intende divenire compo-sitori: attraverso tale arte saranno in grado diinterpretare la musica in modo diverso e più

consapevole. Ma uno studente di pianoforte,prima di iniziare a frequentare il Conservatorio,deve domandarsi perché: se decide di intrapren-dere questa strada a livello professionale, infat-ti, dovrà dedicarsi con grande umiltà e discipli-na allo studio dello strumento, ogni giorno, edessere anche in grado di saper rinunciare a tantealtre cose. Suonare e ripetere i passaggi.

La smettano poi di essere soltanto pianisti es’impegnino di più nella musica, perché essapermetterà loro di essere persone migliori, menopropense all’egoismo e alla vanità.

Consiglio di studiare anche l’Arte Della Fugaai giovani: una cosa che mi riempie di gioia èvedere ai miei concerti molti giovani sotto idiciottanni. Fa piacere anche a noi che facciamoquesta musica antica, vecchia di tre-quattrocen-to anni, e vedere i nostri coetanei ascoltare lanostra musica ci riempie di fiducia, di stima edamicizia; è bello il dialogo. Ascoltare la musicaa 360 gradi, amare qualsiasi genere, purché siamusica fatta bene; da piccolo ascoltavo non sol-tanto Bach o Beethoven, ma Frank Sinatra, ElvisPresley, e non dimenticavo mai di ascoltare

Claudio Monteverdi.

Un maestro va in discoteca?Purtroppo si, ci sono andato

due volte. La prima è stata a NewYork, la sera alla vigilia di un mioconcerto americano: è statal’esperienza più brutale della miavita.

La seconda è stata migliore, inItalia. Non che non ci si diverta,ma il volume della musica è tal-mente esagerato che il giornodopo rimane addosso, note rim-bombanti che ti traforano la testatanto da non avere più orecchioper sentire note più fini.

Le piace suonare per qualcunoin particolare?

Mi piace suonare per tutti, permia madre, per me stesso, per leie per tutti quelli che hanno vogliadi ascoltarmi.

Mi piacerebbe molto suonareanche per il Papa tedesco, che soessere un grande cultore di musi-ca classica e suonare molto beneil pianoforte. Non ho distinzionidi pubblico.

Le piace più il minore o il mag-giore?

Mi piace il maggiore che suonacome il minore, che è un maggiore gonfio dinostalgia entro se stessa, come ad esempio l’ariadelle Variazioni Goldberg che mi fa commuove-re e mi fa piangere. Poi c’è il minore che miriempie il cuore di tristezza, e la Messa delSignore di Johannes Sebastian Bach, che tutti igiovani dovrebbero conoscere perché in essapossono scopirire dei valori e dei contenuti cheli salveranno dalla grossa piaga che porta lanostra società odierna.

Al giorno d’oggi i giovani sono senza stimoli esenza direzione, non sanno dove andare e nonhanno minimamente idea di che cosa voglionodalla vita: se si avvicinassero a cose grandicome la Messa del Signore di Bach, la DivinaCommedia di Dante o i capolavori di Michelan-gelo, riuscirebbero a capire che non è poi tantomale stare sulla terra.

La sua scala preferita?Il re minore, come l’Arte della Fuga. Anche il

mi bemolle maggiore, quello dell’Imperatore diBeethoven, o il do maggiore delle VariazioniGoldberg.

Preferisce il tasto nero o il tasto bianco?Il tasto nero: è più elegante e, in quanto diesis,

rende malinconica la musica alzando la nota.

CCLLAASSSSIICCAA&opera

Arte eRumore: LUIGIRUSSOLOIl padre dell'elettronica

c i si può chiedere perché prima si scriva nelCorriere della Sera, poi del Corriere della Sera,come se il lavoro non finisse mai. Victor Ciuffa,quarantennale esperienza da «corrierista», ne dàuna risposta più che logica: perché, come si scri-ve degli animali in via d’estinzione dopo esservissuti nella giungla e averli studiati da etologo -li si compatisce, li si ricorda nostalgicamente, avolte li si chiude in uno zoo, tutto fuorché interve-nire per ripristinare la razza con azioni energichee, a volte, estreme -, cosí si scrive dei giornalistidopo essere vissuti in quello che era l’habitatnaturale della scrittura professionale - li si rilegge,li si descrive, ma sempre li si chiude in uno zoo.Lo zoo del nuovo secolo del giornalismo, in cuic’è il blog insieme a capitalismo, Internet e grafi-ci, gossip e scuole di giornalismo, «stage» e

«master», «freelancers» e Co.co.co. politica el’idea che il direttore responsabile sia ancoraresponsabile e non un mero imprenditore-esecu-tore della linea editoriale. Tutto a rendere anche lapiù grande inchiesta una cartina tornasole di colo-ri, passare come nulla fosse dal TimesNewRomanal FranklinGotTDemCon, scambiare la foto per lanotizia, non avere più il locus of control dell’ideo-logia e il coraggio delle proprie affermazioni. Ilcorrierista è uno che veniva pagato poco, cheaveva un contratto di lavoro a tempo indetermina-to, non scaldava la sedia e non passava-i-comuni-cati. Uno che leggeva. Uno che sapeva. Uno chescriveva di tutto e non «di cosa ti occupi? No, madico precisamente, di cosa scrivi?». Uno che, fon-damentalmente, scriveva. Uno dell’epoca in cuidire «l’ho letto sul Corriere» era dire tutto.

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Dicembre Gennaio 2008

TALENTOPOLI Èdove ha piantato ban-diera Mychance.

Che cosa è accaduto di così grave in occasio-ne del concerto della Roma Sinfonietta aPiazza San Marco del 10 e 11 settembrescorsi?

È accaduto che anche in eventi musicali dirilievo internazionale, qual è stato il concerto-omaggio di Piazza San Marco dedicatoall’Oscar del Maestro Ennio Morricone, i musi-cisti siano trattati dai responsabili dell’organiz-zazione come i lavoratori stranieri irregolarinell’edilizia o nel bracciantato agricolo: nientecontratto e guai a chi sgarra perché non lavore-rà più. Quel concerto è stato mandato in ondadalla Rai.

Anche in Italia, fino a prova contraria, ènecessario chiedere a chi mette faccia e capaci-tà a disposizione di un prodotto (il concerto), cheviene poi venduto a un network che lo diffonde,l’autorizzazione (diritto morale) all’utilizzodella sua faccia e delle sue capacità, ed è inoltrenecessario corrispondergli un corrispettivo con-trattato (diritto economico). Invece qui si hal’idea bizzarra che il vero produttore di musicasia l’organizzatore, e il musicista sia un costo diproduzione. Da abbattere.

A partire dai due giorni precedenti il concertoho cominciato a ricevere dai musicisti dellaRoma Sinfonietta telefonate rese in forma anoni-ma per il terrore che si venisse anche solo asapere che qualcuno aveva parlato con un sinda-cato. Questo è il clima in cui scandalosamentevive il 95% dei musicisti italiani. L’altro 5%, lestar ed i dipendenti delle Fondazioni liriche, vivebene.

Quale è il profilo di un musicista precario?Piuttosto che precario, sarebbe meglio chia-

marlo musicista intermittente o discontinuo, per-ché l’intermittenza e la variabilità delle presta-zioni sono una condizione connaturata al tipo diattività, mentre la parola «precario» evoca unacondizione forzatamente provvisoria, di eternaattesa. I lavori artistici sono naturalmente flessi-bili, che è cosa molto diversa dalla precarietà,ma in Italia condividono la medesima condizio-

ne. E la precarietà fa male perché spegne il futu-ro, il progetto, perché abbruttisce ed immiseriscematerialmente e moralmente, altro che stimoloall’intraprendenza. Per non parlare della malat-tia, dell’infortunio e di tutto quel che segue.

Non che negli altri Paesi i musicisti siano tuttiassunti dallo Stato, né qualcuno ha mai pensatodi chiederlo; più semplicemente in Francia,Germania, Inghilterra, esistono quegli ammor-tizzatori sociali che consentono a un precario dinon annegare nei momenti difficili e, in alcunicasi, esistono dei regimi speciali: previdenziali,assicurativi e fiscali per i lavori fisiologicamen-te speciali e/o discontinui, come le arti dal vivo,le performing art e tutti i lavori creativi.

Economia instabile, logorio psicologico dellavoratore, perdita di garanzie sul posto dilavoro. È questo che accade nel mondo‘incantato’della musica classica?

Altro che garanzie, si vive alla giornata, sitiene duro per non buttare nella spazzaturadecenni di studio e applicazione, per non arren-dersi a canticchiare in un call center a 35 anni.

Lo spettacolo in Italia andrebbe rivoltatocome un calzino. A partire dalla previdenza, per

continuare con le collecting societies come laSiae che toglie ai piccoli per dare ai grandi.

Questo sia sul fronte diretto dei finanziamenti,sia sul fronte indiretto delle agevolazioni fiscaliche dovrebbero stimolare il privato a sostituirsia un pubblico già evanescente e in ulteriore eva-porazione.

Esiste anche qui il problema della fuga dei‘cervelli’ all’estero, o per un musicista pro-fessionista è una condizione ‘normale’ cerca-re lavoro all’estero?

Si cerca lavoro all’estero per fare esperienzema anche perché in Italia il lavoro buono manca.

La fuga c’è, eccome, non appena è possibile econciliabile con i propri legami si scappa, spes-so i migliori emigrano, perché all’estero lanostra è una professione rispettata e sincera-mente amata.

Da noi, invece, c’è molta ipocrisia. Dietro lequinte anche il musicista eccellente deve litigarequasi ogni sera per farsi pagare il cachet pattui-to, magari in nero.

Quali gli interventi concreti e più validi neltamponare questa contagiosa e dannosissimainstabilizzazione del mondo del lavoro?

La soluzione è più semplice di quanto si credae non consiste nello stabilizzare il lavoro nellospettacolo, cosa irrealizzabile e neanche auspi-

cabile, ma nel renderlo accessi-bile e possibile per quantivogliono misurarsi con questaprofessione, adeguando le tutelesociali alle caratteristiche diun’attività che è fisiologicamen-te discontinua e atipica.

Anzitutto con l’istituto delladisoccupazione a requisiti ridot-ti, come gli stagionali, perché illavoro è concentrato in alcuniperiodi e perché un concerto haalle spalle almeno qualche gior-no di prova e molti di studio chenon sono né pagati né coperti dacontributi; poi con l’assicura-zione contro gli infortuni, per-ché il palcoscenico è un ambien-te ad alto rischio e gli incidentidurante gli spostamenti frequen-

ti, spesso notturni, sono una realtà drammatica. Infine, con una modifica della previdenza che,

senza entrare troppo nel sindacalese, vuol diredare al musicista una ragione, un motivo validoper cui versare i contributi (l’Enpals è un enteche non eroga quasi più pensioni) e un adegua-mento della fiscalità che vuol dire permettergli didetrarre i costi che deve sopportare per la pro-fessione e fare una media su più anni per stabili-re l’imponibile fiscale.

idi Pagliaccio, una delle ariepiù famose del melodramma

italiano, cavallo di battaglia dei piùgrandi tenori lirici del Bel Paese, daCaruso a Gigli, da Del Monaco aPavarotti. Il «Pagliacci» di RuggeroLeoncavallo (1892) da più di centoanni conosce un successo senza limiti ein qualche modo è anche l’immaginedell’Italia nel mondo. Un’immaginedella musica italiana che all’estero èviva e importante, con un mercatoenorme, dietro solamente a Stati Unitie Inghilterra.

Solo che a guardar bene la situazionedel comparto musicale italico non sicapisce più ‘chi debba ridere di chi’,chi siano i pagliacci e se qualcuno inve-ce non faccia che piangere.

Il 95% dei musicisti nostrani che nongode di alcuna tutela né rappresentan-za, lavora spesso in nero, non ha ildiritto di ammalarsi, di acquistare arate, di accendere un mutuo.

Tutto ciò poi costringe spesso questi‘precari’ a svolgere un secondo lavoroa discapito della propria crescita pro-fessionale, a danno della creatività,dell’innovazione e della ricerca.

Una ricerca che non è solo individua-le ma collettiva, dell’industria e di chi,come noi, ne gode i risultati.

Cerchiamo di capire assieme adAntonino Salerno, segretario delS.I.A.M. (Sindacato Italiano Artistidella Musica), quale è esattamente lasituazione e cosa bisogna fare peruscirne, partendo dai gravi fatti diVenezia.

RIDI PAGLIACCIOPIANGI PRECARIO

I musicisti in Italia secondo ANTONINO SALERNO

a cura di Flavio Fabbri

emergenza

BBEEYYOONNDDBBEEYYOONNDD&furthera cura di ROMINA CIUFFA

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Musicisti venite fuori, c'è il Roma Music FestivalR oma grida, l’Italia risponde: musicisti

fatevi avanti, la vostra occasione è arriva-ta! Finalmente una grande novità sulla scenamusicale, il Roma Music Festival, un sogno chediviene realtà per centinaia di cantanti e gruppinon solo romani ma di tutto il Paese. Un even-to pensato e realizzato per dare la possibilità aimusicisti non professionisti di avere una chan-ce tutta loro, resa ancora più importante dal-l’utilizzo di internet come piazza virtuale doveesporsi ed essere votati. Perché ciò che rendeunico il RMF sarà proprio la stretta integrazio-ne con i nuovi mezzi di comunicazione, un verobattito elettronico, con il reclutamento, la sele-zione dei candidati idonei e le votazioni finalida parte del pubblico tutto on-line. Due le cate-gorie in competizione: gli interpreti, che potran-no esibirsi con brani editi o inediti, italiani ostranieri e i cantautori che a loro volta potrannoproporre canzoni inedite italiane o straniere.Audizioni dal vivo che vedranno coinvolti 128artisti tra singoli e gruppi emergenti, di cui 32arriveranno alle fasi finali. Queste ultime sisvolgeranno negli spazi del Cinema TeatroMultisala Adriano in Roma fino all’evento cloudel 31 gennaio 2008 seguito in diretta televisi-va e sul web, quando saranno decretati i vinci-tori delle due categorie, i quali avranno dirittoalla produzione di un mini cd contenente due

brani che sarà distribuito a carattere nazionale epromosso mediante passaggi radiofonici e tele-visivi dall’etichetta indipendente del Festival.Dal sito internet www.romamusicfestival.it gliorganizzatori porteranno avanti le selezioni e levalutazioni dei brani con l’ottica di cercare e faremergere nuove sonorità, nuovi talenti e nuovecapacità artistiche. Perché l’obiettivo è unosolo: far emergere musica. Un enorme corpo infermento col cuore qui a Roma e il battito chefa ballare e sognare tutta Italia. (Flavio Fabbri)

Ho una chance a Talentopoli

AA perte le iscrizioni, fino al 31 gennaio2008, alla seconda edizione del concorso

Angeli del Rock 2008, organizzato dawww.mychance.it, che partirà il prossimo feb-braio 2008. Gratuito, con un obiettivo: offrirevisibilità alle band emergenti e ai cantautori, econtemporaneamente un sostegnoall’Associazione onlus Ciai (www.ciai.it), ilCentro italiano Aiuti all’Infanzia, che dal 1968si batte per promuovere il riconoscimento delbambino come persona e difenderne ovunque idiritti fondamentali, alla vita, alla salute, allafamiglia, all’educazione, al gioco e all’innocen-za. Tre le linee di intervento, la Solidarietà eCooperazione, l’Adozione Internazionale e losviluppo di una vera e propria Culturadell’Infanzia. E proprio con il preciso intento difondere in un’unica realtà l’arte emergente e lasolidarietà, nell’aprile 2005 è nato (a

T a l e n t o p o l i ,Milano, come indi-cato suMyspace/mychan-ce_it) il sito no pro-fit di Mychance, unportale internetdove gli artisti, nonancora famosi,inserirscono gratui-tamente i propri provini in una vetrina virtualeper essere visionati dagli addetti ai lavori e daisemplici utenti di internet, e contemporanea-mente avere la possibilità di creare eventi emanifestazioni sia virtuali che dal vivo a favoredella solidarietà anche attraverso il programmaradiofonico Mychance Onair. My Chance èsuddiviso in quattro sezioni e relative categorie:Musica (Band, Cantanti, Cantautori,Compositori, Corali/Gospel, Deejay,Strumentisti); Letteratura (Poeti, Scrittori); ArtiVisive (Fotografi, Illustratori, Pittori, Scultori),Spettacolo (Attori, Cabarettisti, Doppiatori,Modelle, Modelli, Registi). Info [email protected]. (Romina Ciuffa)

EMERGENTI Il Battitoelettronico del RomaMusic Festival.

LAVORO La precarietà del musicista fa male perché spe-gne il futuro e immiserisce. Lo spiega il segretario delSindacato Italiano Artisti della Musica, Antonino Salerno.

chance

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a cura di FLAVIO FABBRI

PIZZICA NicoMorelli La taranto-la che jazza a Parigi

JAZZ John Scofield Giùla maschera: con lui nonsi può essere obiettivi.

POP Roberto VecchioniNon c’è più spazio per leputtanate

ELETTRONICA The Dreamers& Jerry Bouthier Al Boomboxdi Londra noi ci entriamo così

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Dicembre Gennaio 2008

a cura di ROMINA CIUFFA

Ho in mano l'ultimo lavoro di JohnScofield, il titolo è accattivante e,com'è nel suo stile, attento all'uso

giocoso delle parole (c'è ancora qualcuno che sidiverte a pensare titoli e a credere che sia unascelta importante): This meets That. Ho tuttal'emozione e la paura del fan che lo segue daanni e teme una caduta, una delusione da que-sto eccezionale chitarrista dell'Ohio.

Quindi, giù la maschera... questa è unarecensione di parte. Lo ascolto un po' di volte,ma da subito mi cattura e mi affascina il sensodella novità, l'impressione che i vari filoni porta-ti avanti negli ultimi lustri da Scofield abbianopreso una strada di sintesi, un mood unicocapace di racchiudere l'anima jazz, quella funk,quella ryhtm & blues equella più squisitamentefolk tradizionale. E cosìScofield inizia a far diver-tire con un uso frequentee ben dosato di citazioni,ma anche di ironicheautocitazioni (come l'in-tro della lirica Down D,probabilmente il branopiù convincente di questocd, dove riprende la frasericorrente in ogni branodi Up all night di qualeanno fa). Dal poco cono-sciuto, ma importante,Scorchead per laDeutsche Grammophonporta l'impianto compositivo classico edorchestrale, da That's What I Say-acclamatotributo alla musica di Ray Charles-porta i ritmisoul e il gusto per l'arrangiamento dei fiati, daUberjam e dai lavori con il Medeski, Martin eWood trio la grinta timbrica del funk, il tuttotenuto insieme dal suo tipico fraseggio jazzisti-co stralunato e altalenante nel gioco dentro-fuori tonalità, che ne ha disegnato il trattoinconfondibile nel panorama jazzistico e chitar-ristico contemporaneo.

Una cosa però va sottolineata: Scofield è unmusicista straordinario che ha sempre rifiuta-to di sottomettersi alla logica, abusata per

ragioni di utili privati e di mercato discografico,degli "istant cd", album sfornati a bella postaper accompagnare tour e (se pure suonatimeravigliosamente) completamente algidi esenza un briciolo di idee e di personalità.

Ogni suo lavoro è il frutto di una personalis-sima ricerca, di uno stile che-proprio come ilsuo fraseggio-lo fa stare continuamente in bili-co tra il dentro e il fuori da un contesto musi-calmente definito. Lo accompagnano in que-sta avventura due suoi vecchi amici, con i qualigià nel 2004 registrò per la Verve il cd liveEnroute: alla batteria Bill Steward e al bassoSteve Swallow, sul cui talento non occorrespendere parole. In più, la forza di questoalbum va ricercata nel potere dell'insieme,

cioè non un trio benrodato con una sezioneritmica grossolanamen-te arrangiata, ma unavera macchina da guer-ra in grado di giocaresugli scambi, sui contro-tempi e su interventi rit-mici pensati in modo dacreare il massimo delgroove in ogni traccia.

E così il trio diventa coifiati "settetto" in sensoproprio, in una continuaosmosi tra musicisti ingrado di fare dell'inter-play la base ideale perl'improvvisazione chitar-

ristica, particolarmente feconda di idee in que-sto album. Scofield resta un insuperabile crea-tore di riff che invitano a ballare i tempi anchepiù difficili e a muoversi nel contesto modalecon assoluta scioltezza.

Per chi, invece, volesse scoprire nuovepotenzialità di superclassici come The Houseof the Rising Sun o di (I Can't Get no)Satisfaction consigliamo di seguire con atten-zione i sentieri melodici che qui inaugura con ilsuono graffiante, ironico, aggressivo e anchedispettoso della sua fida seicorde Ibanez.

Paolo Romano

NICO MORELLI - UNICO MORELLI - UN(FOLK)ETTABLEN(FOLK)ETTABLEdi Romina Ciuffa

Questo è un disco che ascolto in una macchina vecchia andando aBrugge dalla Francia. Mi è stato dato proprio a Parigi perché, pur essen-do italiano Nico Morelli, anzi, tarantino, mischia i due popoli intorno ai

fuochi e alle ballate pizzicate, e su Un(folk)ettable lancia delle mani accanite, affama-te, sul pianoforte, le sbriglia e queste attaccano tutte le note che vedono, izzate.

Nel viaggio verso il Belgio passo da 7 Show 7 a Contropizzica e la mente non puònon andare a Eugenio Bennato e a tutti coloro che rischiano di non vendere mai pur difare tradizione, e velocemente il piano di Nico Morelli segue gli urletti di quelli che,nella mia macchina vecchia, sembrano tutti Pulcinella come le coccinelle di quella pub-blicità, anche se poi, in realtà, sono pugliesi e non suonano mandolini ma tamburi.

Per questo se la rischia, perché ignoranti siamo molti e non tutti apprezziamo i vico-li popolari in cui si infilano questi pezzi, nostalgici come Auralba e Meriggi, ma anchepericolosi come Tarantelle e Mena Mena Mo', e non è detto che vogliamo entrarvi e

rischiare la pelle: di solito il jazz ci dà sicurezzaperché ci avvicina alla nostra solitudine, men-tre la pizzica è un ballo schietto, di gruppo, gua-ritore, sudato, sessuale - non tutti siamo pron-ti a questo tipo di lealtà frontale.

Mentre la macchina corre ancora e, in effet-ti, sembra dirigersi verso il Salento e ilBarese, per un sole che batte stranamente, oil Materano, e non più verso il freddo di unartista che dall'Italia è razionalmente fuggito,Nico Morelli fa il bruto a Parigi.

Con lui ancora non supero la frontiera esuona una cantilena che sembra di essere tradue set in un locale jazz che è universale, dovelui ha un whisky in mano e i suoi musicisti accor-dano. Abbasci' A è il secondo set ed è quandopasso la dogana, e i salentini urlano per scon-giurare la morte al punto tale che la macchinasfreccia e i belga non mi fermano nemmeno,nonostante abbia una tarantola nel cofano.

Parte l'inseguimento e le mani di Morelli lisuperano su Lesson 45, sfrecciano e Tonino

Cavallo sfotte con proverbi nonsense in Pizzica Strana e Yes O' Sol. Arrivo a Brugge,lascio le coccinelle in macchina con la radio che dimostra che l'Americadell'Unforgettable Nat King Cole e le ballate salentine convivono nella pazzia e nel pia-noforte morelliano, tutti comunque schiavi di qualcuno. Negri e meridionali.

E non ci sono miracoli per il morso di certe tarantole, se non godersene il veleno interra straniera. Apro il cofano e la tarantola scappa oltre frontiera: abbiamo frega-to i controlli.

Romina Ciuffa

NICO MORELLI UN(FOLK)ETTABLE

JOHN SCOFIELD THIS MEETS THAT

ROBERTO VECCHIONI DI RABBIA E DI STELLE

THE DREAMERS & JERRY BOUTHIER BOOMBOX PARTY

LANG LANGBEETHOVEN , CONCERTI PER PIANOFORTE E ORCHESTRA NN. 1 E 4

«A sessan-t'anni nonc'è più spa-zio per leputtanate»,dice Rober-to Vecchio-ni. E inevita-b i l m e n t epensi se luice ne abbia

mai propinato attraverso i suoi dischi. Oggiperò ho nelle mani questo nuovo CD, strug-gente e sincero, intitolato «Di rabbia e di stel-le»: il genitivo indica chiaramente un'imposta-zione classica che non vuole concedere nullaalla comunicazione «moderna».

Poi due vocaboli così diversi, rabbia e stelle:un sentimento, e una metafora di sentimenti,una parola cangiante (per citare De André)

che allude alle speranze, ai sogni, all'ideale.Singolare e plurale: vorrà pur dire qualcosa?

Per un poeta come Vecchioni sì: vuol direche a dominare è sempre il volto sorridentedella vita, nonostante la volgarità dei tempi,l'aridità del cuore (ammessa senza paura nellasplendida «Non amo più»), le preoccupazioniper il tempo che passa e lascia troppi vuoti(«lontano adesso è un tempo/spaventosa-mente breve»).

Ma le stelle coperte da queste nubi, in un lin-guaggio ermetico e sofferto, si lasciano scor-gere anche grazie alle ampie melodie classi-cheggianti e alla vivezza degli arrangiamenti,dai rimandi jazz di Fariselli fino alle meraviglio-se trovate di Lucio Fabbri (tra tutte la popularsong «Il violinista sul tetto», cantata in duettocon Teresa De Sio, spontanea ed energica).

E poi la sua voce, sempre emozionata, aricordarti che «i poeti non saranno anche nes-suno/ma hanno il potere di sputtanarvi».

Nicola Cirillo

La serata più cool del nigthlife londi-nese in Hoxton Square diventa unacompilation autentica, che scappa

dalla trappola dell'elettro che annoia e regala unsound "french touch" puro alla ThomasBanglader-Para One e mixaggio graffiantedegno dei Daft Punk.

La label francese Kitsuné presenta, mixato daJerry Bouthier, il BoomBox Party, manifesto delprogetto The Dreamers che vede come prota-gonisti i giovani talenti inglesi, i creativi, i visiona-ri: sognatori, appunto, gli eccentrici animatoridel club culto frequentato da Kate Moss e dainomi grossi. È unico nel suo genere: dal dj set difotografi, attrici o modelle alla stregua della topAgyness Deyn, a un'esperienza a sorpresa(lesbiche che ballano in topless si stringono aragazzi dalle tensioni greche), remix di Madonnainsieme all'ultimo elettro-sound dei Digitalism odei Gossip. Quando si apre, la scatola dei para-dossi si mostra mentre i dj più famosi delmondo (Glimmers,Gildas&Masaya, Justice,Bang Gang, Boys Noize, Alexander Robotnick) visuonano a costo zero e senza preavviso, scari-cando la stampa all'ingresso con le sue teleca-mere. È il BoomBox lo scrigno dei nuovi reali, deigioielli del fashion e del circuito delle celebrities.

Ne siamo esclusi e aspettiamo gli upload delsito dal fotografo Alistair Allan (www.dirtydirty-dancing.com), ma ne ascoltiamo ora i pezziimperdibili: la traccia n. 8 dei Daft Punk e la n.13 dei The Young Punx.

Matteo Zini

Probabilmente in molti loconoscono per la prima esibi-zione virtuale mai eseguita in

assoluto nella storia della musica classica.Infatti, grazie alla piattaforma virtuale diUniversal Music Classics & Jazz, il pianistaLang Lang ha presentato l’uscita del suonuovo cd «Beethoven-Concerti per pianofortee Orchestra nn. 1 e 4» nello strabiliantemondo virtuale di Second Life. Altri ancora loavranno conosciuto in occasione del concertodi apertura della II Festa del Cinema di Roma,quando Lang Lang ha accompagnato al piano-forte la voce di Andrea Bocelli.

Eppure, tralasciando le bizzarre scelte dimercato e le cerimonie internazionali, il giova-ne e bizzarro artista cinese Lang Lang (in con-certo a Roma il 25 gennaio 2008all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia) èormai acclamato in tutte le capitali musicalidel mondo, con uno straordinario livello dimusicalità e un repertorio molto vasto.

La sua arte e la capacità ed abilità di rappor-tarsi con i pubblici più diversi lo hanno resouno degli artisti più interessanti e carismaticidei nostri giorni.

Nato nel 1982 in Cina, a Shenyang, ha inizia-to a studiare il pianoforte a 3 anni per arriva-re al successo nel 1999 a soli 17 anni, sosti-tuendo all’ultimo minuto, su segnalazione diIsaac Stern, l’indisposto André Watts alRavinia Festival, per il concerto di Ciaikovskij.Tale fu il successo di questa esibizione che nelgiro di pochissimi mesi tutte le principaliorchestre americane chiesero di Lang Lang,sino al debutto alla Carnegie Hall conTemirkanov nel 2001.

In questo nuovo lavoro è evidente un’inter-pretazione di Beethoven lucida e forte, malizio-samente resa giovane da un calore espressi-vo e passionale, da un fraseggio estremamen-te curato, variegato nelle sfumature e nellenuances. Sbalordisce di questo giovane lasemplicità esecutoria quanto il rigore tecnicodi base. Un artista possiamo dire che deltalento ha fatto uno stile inimitabile.

Flavio Fabbri

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a cura di FLAVIO FABBRI

ENNIO IL TEMPO MOR-RICONE La sua è propriouna cantata kamikaze

INTO THE WILD Nonch’io ami l’uomo dimeno, ma la natura di più

ELISABETH THE GOLDEN AGE Così comel’amore, anche le civiltà oggi si misurano positiva-mente dalla loro lontananza e dalla loro diversità

Music In ¢

Dicembre Gennaio 2008SSOOUUNNDDSSOOUUNNDDttttrrrraaaacccckkkk iiii nnnngggga cura di ROBERTA MASTRUZZI

There is society, where none intrudes, By the deep sea, and music in its roar:

I love not man the less, but Nature more.

I nizia così, citando il poeta inglese GordonByron, l’ultimo lavoro di Sean Penn, «Into

the wild», un piccolo gioiello apparso comed’incanto nella seconda edizione della Festa delCinema di Roma. La storia vera di ChristopherMcCandless (dal libro di Jon Krakauer), un gio-vane brillante laureato in scienze sociali, chedecise di fuggire dalle convenzioni di una vitafamiliare e sociale che non sentiva più sue, pertrasformarsi in Alexander Supertramp, il ‘SuperVagabondo’. Questa l’origine di un affascinan-te e perturbante viaggio americano con velespiegate verso un unico traguardo: L’Alaska.Un viaggio che è passaggio nell’età adulta, vis-suto come mitologia dell’American Dream perarrivare, disilludendosi, alla saggezza del dram-matico epilogo.

Un’ottima prova per Sean Penn, con unastrizzatina d’occhio ai grandi maestri del cine-ma come Malick, Herzog e forse Lynch, porta-ta avanti come una ricerca proustiana del‘nostro tempo’, miscelata ai grandi mostri sacridella letteratura mondiale come Dostoevskij,London, Twain, Tolstoy o altri più ‘locali’ comeThoreau, Emerson e Goldman.

Un omaggio alle tradizioni politiche e socialidell’anarchismo americano, del pacifismo e delnaturalismo, il tutto splendidamente evocatonella ballata «The Society». Il regista infatti hascelto, come voce narrante, il tono malinconicoe rabbioso di Eddie Vedder, frontman dei PearlJam, qui accompagnato da chitarre acustiche earrangiamenti scarni dove troviamo raccontate

le vicende di ‘Supertramp’ nelle generose e forti«Rise» e «Hard sun», per poi passare alle sug-gestioni di «Toulumne» e «The Wolf». È ilprimo album da solista di Vedder le cui fugaciperformance precedenti le avevamo ascoltate inalcuni live e nella colonna sonora di «DeadMan Walking» e «Big Fish», finalmente in unaprova a tutto tondo.

L’unico, a detta di Penn, che fa fluire, sangui-nare e gioire la sua giovane terra e il cuore ame-ricano in modo così appassionante, da riuscire afondere immagini e testo. Un’inconfondibilevoce, di una grazia spaventosamente cinemato-grafica, per 8 brani da due minuti e mezzo, piùtre songs complete. Difficile fare a meno diquesto gioiellino della durata di un vecchio LP,con canzoni che senza aver visto il film (inItalia arriverà con il nuovo anno), riescono giàa ricreare un’impressione cinematografica.

«Hard Sun», il primo singolo estratto dallasoundtrack, è una cover di Gordon Peterson(della band Indio), suonata da Eddie Vedder incompagnia di Corin Tucker (un tempo leaderdelle Sleater-Kinney), mentre «The Society» èstata scritta da Jerry Hannan che ha anche suo-nato la chitarra e cantato i cori.

Le restanti nove canzoni che compongono ildisco «Music from the motion picture Into thewild» sono state scritte, cantate e suonate daEddie Vedder, che ha anche curato i disegni, ilmix e il concept del disco, mentre la foto sul cdè uno scatto del famoso fotografo AntonCorbijn.

Flavio Fabbri

D opo il fortunato «Elizabeth» del 1998 ilregista indiano Shekhar Kapur ci propone

un nuovo episodio della vita di QueenElizabeth: «Elizabeth, The Golden Age». L’etàdell’oro è attraversata da una sanguinosa lottafamiliare per il trono, mentre cresce nella sovra-na la consapevolezza dei cambiamenti religiosie politici dell’Europa di fine Cinquecento e si faaperto lo scontro con il Re Filippo II di Spagna,in procinto d’invadere l’Inghilterra. Nella vitadi Elisabetta, donna guerriero e regina vergine,si fa strada però anche l’amore e con esso ledebolezze di ogni essere umano.

Cate Blanchet, nei panni di una regnante sta-tuaria della dinastia Tudor, ritorna con un’inter-pretazione superba e impressionante per tono evigore, supportata da un ottimo Clive Owen(Sir Raleigh), da Geoffrey Rush nel machiavel-lico Sir Walsingham e «Mary Queen Stuart»Smantha Morton. Anche per questo film lacolonna sonora è parte integrante dell’eccellen-te risultato, come nel precedente, quando lemelodie di David Hirschfelder gli valseroun’ennesima candidatura all’Oscar.

Qui la scelta è ricaduta su due musicistidiversi ma di eguale spessore artistico: CraigArmstrong e A.R. Rahman. Il primo è un gran-de di Hollywood, il secondo è un’icona diBollywood. Uno è scozzese, l’altro è indiano.

Il primo, arrangiatore, compositore e produt-tore, si presenta come un artista versatile egeniale dividendo la sua produzione tra cinema,teatro e composizioni classiche, con una produ-zione di musica per cinema di cui ricordiamoalcune soundtrack di successo: «World TradeCenter», «Moulin Rouge» (per il quale è statosommerso da una pioggia di premi) e «Il

Collezionista di Ossa». Il secondo ha vendutoquasi 100 milioni di dischi, soprannominatonegli Stati Uniti «Il Mozart di Madras», con unaproduzione di 50 colonne sonore, sia per pelli-

ENNIO IL TEMPO

INTO THE WILD Un'altra America

quella di Penn e Vedder

ELIZABETHThe Golden Age

La Regina vergine e la donna guerriera

DD ire che Morricone è oggi il più grande compositoredi musiche per cinema ad alcuni suona azzardato,

ma ascoltare dal vivo le sue esecuzioni è indiscutibilmen-te prender parte a una comunione di emozioni e ricordi.Ogni suo concerto diventa un’occasione unica di ascolta-re e riascoltare musiche senza tempo e piene di storia. Lastoria del grande e del piccolo schermo è scandita in quasi500 pellicole da Morricone musicate che ne fanno, se nonil più grande, il compositore più prolifico. Affetto del pub-blico, ammirazione dei colleghi e, tra i tanti premi, l’Oscaralla Carriera ricevuto a febbraio 2007 dalle mani dell’atto-re simbolo del cinema Spaghetti-Western, Clint Eastwood.

Un cinema che ci riporta a Sergio Leone e al suo soda-lizio artistico con Ennio Morricone. Perché, mai come in

questo caso, la musica ha davvero plasmato la pellicola cinematografica e non dobbiamo aver timo-re ad affermare che Leone, Brian de Palma, Roland Joffè, Giuseppe Tornatore e molti altri debbo-no gran parte di quei loro successi alle partiture del maestro romano. Ecco perché ogni sua esibi-zione diventa un evento, come quello in occasione della II Festa Internazionale del Cinema diRoma. In una Sala Santa Cecilia piena e trepidante Morricone, autore anche di un centinaio diMusiche assolute (brani da concerto), ha eseguito «Voci dal silenzio-Cantata contro le stragi di tuttala storia dell’umanità» per la voce recitante di Mariano Sigillo, e «Musiche per il cinema».

Due lati artistici e concettuali dell’uomo Morricone: da una parte la personale commemorazionedell’11 settembre 2001, il ricordo delle vittime newyorkesi che diviene unico dolore per tutte lestragi e le guerre dell’umanità; dall’altra il cinema (la «Musica applicata»), quasi 50 anni di com-posizioni ormai leggendarie. Di queste, nella prima Suite s’inizia con la semplice e lineare espres-sione musicale melodica e melodrammatica di «Per le antiche scale», film di Mauro Bolognini del1975, passando poi a «Bugsy» del regista Barry Levinson (1991) in cui Morricone riesce a restitui-re le atmosfere americane anni Venti grazie al timbro inconfondibile del filicorno acuto abilmentesfruttato per un fraseggio geniale di matrice blues, finendo con l’astratta piece di «H2S» di RobertoFaenza (1969), caratterizzata da uno studio pianistico ironico e irrealmente allegro, fino all’inquie-tante e teso, come le immagini, a un effetto straniante.

Nella seconda Suite si parte subito con le sonorità esotiche e le giustapposizioni di flauti, sitar etabla, di «City of Joy» di Roland Joffè (1992), per raggiungere una poetica dell’azione e della spi-ritualità, che ritroviamo in linea di studio nel cosmopolitismo epico-esotico conradiano di«Nostromo», sceneggiato tv di Alastair Reid (1996). Per la III Suite invece Morricone offre al suopubblico un piccolo evento nell’evento: l’esecuzione prima del suo nuovo lavoro «Sicilo e altriframmenti». Sicilo è un epitaffio del I-II secolo dopo Cristo, ma anche un documento musicale, per-ché costituito da 12 righe di cui la metà accompagnate dalla notazione di una melodia frigia.

Una partitura fatta di percussione e flauto, greca rinascita eterna, come quella del sole, il ‘Solinvictus’ dei romani, che irradia un contesto ritmico primevo e aurorale. Un’opera che nasce con-cettualmente sui ‘frammenti’, nel loro senso di unità assoluta caro ai greci e alla musica diMorricone. Avviandosi verso la fine non poteva che crescere l’attesa, poi soddisfatta nella IV Suite,per «Mission», il film di Roland Joffè, per molti vertice stilistico delle composizioni morriconiane.Alcune musiche vengono eseguite per ultime in un concerto proprio perché hanno il raro dono diessere portatrici di un linguaggio universale, massimamente coinvolgente, nella drammaticità e nel-l’esaltazione della condizione umana. Nel caso di «Mission» quindi, com’anche per «Sacco eVanzetti» (eseguita nel primo bis), la musica è presentata come tangibile presenza e consapevolez-za dell’anima, preghiera cristiana e laica nel belcanto dei soprani Patrizia Poli e Susanna Rigacci,per una sorta di ecumenismo universale e utopico al quale, tramite Morricone, noi tutti aderiamo.

Flavio Fabbri

CANTATA KAMIKAZEC' era una volta in America un simbolo della grandezza umana, quella

che tende verso il cielo a conquistarsi spazi grandi. C’era una voltail West, quello regolato prima da pistole, poi da democrazie in cui tutti gliuomini hanno pari dignità. E poi, Giù la testa, perché arrivano gli aereidall’Oriente. Sembrava già scritta nella trilogia del tempo di Sergio Leone,musicata da Ennio Morricone, la sua opera «Voci dal silenzio - Concertocontro tutte le stragi della storia dell’umanità». Come un presagio che dispaghetti non sapeva per niente. Più di McDonald’s forse, e di cosa signi-fica massacrare un simbolo.

«C’era proprio bisogno di questa strage? Ti avevo detto soltanto di spa-ventarli!», dice Frank a Morton, dopo aver ucciso McBain e i suoi figli inC’era una volta il West. Morton risponde: «Chi muore è molto spaventato».C’era bisogno di questa strage. Perché chi muore è molto spaventato, machi non è morto lo è di più. E chi sopravvive si vendica o ci scrive sopra uno,mille pezzi, ci fa tutta una sequenza da una finestra che dà sulla piazza delWorld Trade Center se si chiama Spike Lee e sta girando La 25esima Ora,o ci scrive una cantata per voce recitante, voci registrate, coro e orche-stra per più di duecento musicisti e coristi, se si chiama Ennio Morriconee ha visto crollare le torri.

Ci sono un buono, un brutto e un cattivo in quest’opera triste, angoscio-sa, lancinante, dannata. C’è Ennio stesso, il buono. C’è il brutto, che è unpresidente. C’è il cattivo. E ci sono tutte le stragi, quelle per un pugno didollari, che esplodono nelle note e nei cori del buono che le dirige. Musica,musica, non si può orchestrare che musica qui, non aerei, non kamikaze.Solo sensi, da barcollare.

Non si può dirigere il dolore, ma Morricone lo fa come un kamikaze, esoffre e fa soffrire mentre ricorda, terrorizza, mentre muove i musicistitorna a tutti i crimini contro l’umanità, incomprensibili, ne raccoglie il dolo-re puro, lo tormenta ancora e lo convoglia in una cantata che, quella sì, enon le torri, arriva al cielo.

ROMINA CIUFFA

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Music In ¢

Dicembre Gennaio 2008

ACROSS THE UNIVERSE Tutte le regole per guar-dare (e sentire) il film sui Beatles senza sentirsi pro-fondamenti traditi e pensare «dove l’ho già visto»

AMEDEO TOMMASI La leggendadel pianista che suonò con Chet Baker

TAN DUN È uno che suona la carta (e i suoiorchestrali letteralmente gli spartiti) e l’acqua. Cheha vinto agli Oscar. Che è sciamano.

SSOOUUNNDDSSOOUUNNDDttttrrrraaaacccckkkk iiii nnnngggg

A medeo Tommasi, la leggenda delpianista che suonò con Chet

Baker. In oltre 40 anni di carriera hacomposto le musiche dei primi film diPupi Avati, ha portato lo studio del-l’armonia jazz a Roma e ha collabora-to con Ennio Morricone per la colonnasonora della «Leggenda del pianistasull’oceano», scrivendo alcuni brani eprestando le sue mani a Tim Roth.Ricordate la scena in cui i due protago-nisti danzano con il pianoforte a ritmodi walzer nel bel mezzo di una tempe-sta? Il brano è «Magic Waltz» e l’auto-

re è proprio lui, AmedeoTommasi. Un breve sguardo atanti anni di carriera all’insegnadell’eclettismo e della trasforma-zione.

Il primo passaggio è stato dal livenei jazz club al palco dei grandidella musica italiana: la sua verveimprovvisativa e creativa ne èrimasta in qualche modo frustra-ta o ha potuto mantenere la pro-pria identità musicale?

Quando ho cominciato, negli anniSessanta, ero un perfetto sconosciu-to. Il cambiamento è iniziato dopoche ho vinto la Coppa del Jazz perdue edizioni consecutive. Nei dueanni successivi ho combinato molti

guai per quanto riguarda concerti e premivari, poi nel ‘67 mi sono trasferito a Roma esubito ho cominciato a muovermi in unmondo nuovo, soprattutto intorno alla RCAdove ho iniziato a lavorare prima come assi-stente musicale, poi come arrangiatore. Quiho conosciuto Ennio Morricone, ArmandoTrovaioli, Luis Bacalov e tutti gli altri musi-cisti. Ho cominciato a vedere l’orchestra infunzione tutti i giorni e sono passato rapida-mente dalla situazione del Trio, l’unica checonoscevo allora, a qualcosa di molto piùgrande e completamente diverso. Quandosuoni jazz poi puoi suonare qualsiasi altracosa, e ti porti dietro tutto il tuo bagaglio.

Com’è arrivato da qui alla composizionedi musica da film?

Alla RCA a un certo punto è arrivato PupiAvati da Bologna. Lui da ragazzo aveva suo-nato in una Dixieland Jazz Band, e di queitempi magici a Bologna poi ne ha fattoanche un film. Io invece facevo parte del cir-colo dei modernisti, stavo con AlbertoAlberti, ma comunque ci vedevamo, ci incon-travamo. Quando l’ho conosciuto stava pre-parando il suo primo film, «Balsamus» e michiese di farne la musica. Eravamo tutti edue alla prima esperienza.

Da dove trae l’ispirazione per la messa inmusica di una storia?

Dal racconto del film fatto dal regista,innanzitutto. Quando Pupi raccontava eracome vedere tutto il film. Da qui io mi ispira-vo per tirare giù un tema conduttore.Quando glielo sottoponevo, di solito appro-vava senza problemi. A questo punto si face-va un montaggio lungo del film girato su pel-licola, che diveniva sempre più stretto finchénon arrivavamo al punto in cui si diceva«ecco il film». Allora veniva chiamato ilmusicista per prendere i tempi, vedere il filmcol regista e dire «qui, quando lei toglie lamano dalla testa di lui parte la musica e devefinire quando lui diceohibò»; allora si registra iltempo in secondi per questascena e si comincia a nomi-nare gli «M», ossia la musi-ca: M1, M2, M3.

È stato lo stesso procedi-mento che ha usato per«La leggenda del Pianistasull’Oceano»?

Certamente. Nella«Leggenda» la musica è di

Morricone, ma io ho collaborato con lui e hocomposto otto brani. Mi diceva «devi fare unwalzer particolare che sia anche un po’swing, un po’jazz…», per cui diciamo che midava delle direttive precise, che poi erano lestesse date dal regista quando si vedeva ilfilm.

Ed eccoci al terzo passaggio, l’insegna-mento. La prima collaborazione con ilSaint Louis College of Music risale aglianni Settanta. Cosa insegnava allora?

Solfeggio e armonia, armonia spicciola.Poi sono andato a Siena a fare «ear trai-ning», che non è solo una copiatura, un det-tato musicale; lì non bisogna solo capirecosa suona il sax in quel momento ad esem-pio, ma si deve capire l’armonizzazione chec’è sotto. E allora ho pensato, perché nonparliamo di armonia partendo dai brani,dagli standards? Uno studente viene al SaintLouis per imparare a suonare gli standards,vuole suonare i brani, che siano jazz o rock eha bisogno di suonare con gli altri e per farlodeve decidere un pezzo. Allora ho detto, per-ché non partiamo proprio da lì?Prendiamolo, impariamolo, vediamo come èfatto, e da qui prendiamo la scusa per faredei discorsi. Si può parlare di lettura delbrano, di solfeggio, ma anche di classifica-zione degli accordi che lo sostengono. Aquesto punto ci si accorge che tanti branihanno degli accordi simili. Curiamo l’armo-nia, che è la scienza di mettere correttamen-te un accordo dopo l’altro, partendo dal-l’esperienza di vari brani. Li studiamo, lisuoniamo, ed impariamo l’armonia dalpunto di vista pratico. È uno studio ed unlaboratorio.

Come si è evoluta la didattica musicaleda allora ai giorni nostri? Gli studentisono cambiati nel modo di rapportarsialla musica?

Gli studenti cambiano in base all’inse-gnante che hanno, se questo li sa interessaree divertire o meno. E gli standard sono sem-pre gli stessi. Oltre la parentesi del «freejazz», che per fortuna come è venuta se n’èandata, nulla è cambiato dagli anni Sessantaa parte i metodi per approfondire lo studiodella musica: libri di testo, internet. Grazie aquesti mezzi tutti oggi sono bravissimi, ma ilrischio è che sono anche tutti uguali.

E come si può risolvere questa tendenzaalla stereotipizzazione?

Se ne esce cercando di pensare di più a ciòche si vuol dire piuttosto che a una esecuzio-ne perfetta. Chet Baker diceva: «Questo èvuoto riempito di note». Bisogna cercare diparlare, di comunicare, esprimendo tanti

concetti in pochenote.

Questa intensa atti-vità non le impedi-sce però di conti-nuare a coltivare iltuo «primoamore», ovvero laperformance live,vero?Assolutamente.

cole occidentali di successo come «Lord of War» e«Inside Man», sia per quelle orientali come il cine-se «Warrior of Heaven and Earth».

Il risultato di tale connubio: un enorme successo.Mentre nel primo film Hirschfelder tentò di ricon-testualizzare le tecniche di composizione rinasci-mentali con partiture originali del tempo,Armostrong e Rahman si distaccano dal XVI seco-lo per lasciarsi trasportare dal ritmo delle immaginie dalle atmosfere inventate da Kapur.

Il tutto introducendo l’orchestra sinfonica, il corolatino, un soprano femminile (quasi a stilizzare lapresenza ‘vocal’ di Elizabeth) e la miscela di diver-si strumenti caratterizzanti le immagini, chitarrespagnole fuse al ‘dilruba’ indiano, generandoun’onda sonora variegata e sincronica come letonalità di una tavolozza di Paul Gauguin.

La performance al violino di Clio Gould, «TheOpening», permette da subito al pubblico di entra-re in questa ‘età dell’oro’, mantenendo come temacentrale ‘la passione’, l’infatuazione malata attornoa cui le note danzano fino al soffocamento del-l’amore di Elizabeth, per poi piegare su temi mili-taristici, quando Re Filippo di Spagna entra inscena.

Così, alla passione elegante della prima partesubentra la percussione ritmica dell’elettronica e ilrigore dei sintetizzatori. Un tumultuoso e rabbiosoagire, quello della battaglia e dell’orgoglio di regi-na, «Battle», aumentando l’impatto della musica elasciando che profonde voci maschili portino l’om-bra della guerra.

Un classico esempio di sincretismo musicalemoderno, dove strumenti sinfonici si fondono amelodie etniche e timbri elettronici.

Probabilmente Armstrong e Rahman nel lorofelice incontro ci hanno voluto evidenziare che cosìcome l’amore, anche le civiltà oggi si misurano‘positivamente’ dalla loro lontananza e dalla lorodiversità.

Flavio Fabbri

Tan Dun, l'HeroTan Dun, l'Herodella naturadella natura

hero di Hero e di La Tigre e ilDragone, Tan Dun, arriva quat-to al passo di una tigre a dirige-

re l’Orchestra del Santa Ceciliaper suonare classica cinese e interna-zionale e - la sua preferita - l’organicmusic prodotta attraverso stimolazionidi acqua e carta. Di fronte alle intense suggestioni createdai suoi suoni non è retorica parlare dimagia. Cresciuto con una nonna sciama-na, Tan Dun coinvolge l’anima con viaggimusicali di potente effetto straniante.Ascoltandolo si apprezza la sua attitudi-ne alla sperimentazione; Tan Dun haridefinito la natura durante il suo cele-bre Water Concert: percuotendo l’ac-qua e liquidando le percussioni, letteral-mente immergendole.Difficile da immaginare, ardito forse dapensare, naturale per Tan Dun da suo-nare. L’accostamento di concetti musi-cali differenti crea sentimento quando siè fortunati, magia solo quando si è deimaestri. Come Dun, che suona ceramica, acqua ecarta, ma soprattutto mente nei suoi«mind concertos», uno che, più che undrago, è un dragone di carta.

di ELENA COLEINE

L’

(...) È la storia di cinque ragazzi che condividono un appartamento a New York ai tempidella guerra nel Vietnam e i passaggi più importanti della propria vita, i momenti di crescitae di ribellione, i desideri e i sentimenti repressi trovano una via per esprimersi attraverso lamusica, come se tutto fosse già stato scritto nei versi del quartetto di Liverpool. Se state pen-sando - e non vi dò torto - che un film che ha tra i titoli di coda le canzoni dei Beatles valgacomunque la pena di essere visto, badate però di attenervi alle seguenti indicazioni.

Prima regola fondamentale: le canzoni sono di chi le ascolta. Il film reinventa il significa-to delle strofe di Lennon e McCartney. «Revolution» diventa una scenata di gelosia contro laragazza, «Strawberry fields forever» un manifesto pacifista e «I Wanna Hold Your Hand» unostruggente lamento di una ragazza innamorata della persona sbagliata, che non potrà maiavere. I più conservatori vivranno questo stravolgimento come un tradimento.

È un rischio da mettere in conto: le canzoni dei Beatles sono parte di una coscienza col-lettiva, incise nel Dna di qualunque persona nata nel mondo occidentale dagli anni 60 inpoi. Il tradimento poi diventa ancora più evidente quando lo zio Sam esce dal famosomanifesto di reclutamento per l’esercito americano per cantare, pensate un po’, I WantYou! D’accordo, forse l’idea non è tanto originale così come quella di chiamare i personag-gi Jude, Lucy, Prudence, perché si sa già che prima o poi verrà il momento in cui quei nomiritorneranno utili.

Regola numero due: vietato chiedersi «questa storia non l’ho già vista da qualcheparte?». È vero, la trama non brilla per spessore e profondità, ma è una storia fresca e viva-ce che parla di amore, di amicizia, di crescita personale. E poi ancora impegno sociale,prese di coscienza, guerre ingiuste. E infine, droghe, amore più o meno libero, piccole tra-gedie personali. Nient’altro? Ah si, due dei personaggi del film ricordano rispettivamenteJanis Joplin e Jimi Hendrix, due icone dell’epoca. Forse la smania di raccontare quegli anniè eccessiva e in due ore di pellicola si è voluto far rientrare un po’ tutto e un po’ troppo.Ma ha il merito di insinuare un dubbio: che i giovani di allora fos-sero meglio di quelli di oggi perché, seppure a volte sbagliando,perlomeno provavano a reagire alle ingiustizie e non si adagiava-no nel nichilismo tipico di questi ultimi decenni, in cui si viveall’insegna del living is easy with eyes closed, misunderstanding allyou see. (Ecco, l’ho fatto anch’io. Mi sono appena appropriata delsenso di versi che non sono i miei). Oppure è il revival del passa-to a far sembrare tutto sempre più bello di quanto in realtà fosse?

Regola numero tre: quello non è…? Per evitare che passiate tuttoil tempo a chiedervi «ma dove l’ho già visto?» e perdervi così l’im-mediatezza e la spontaneità del film, ecco tutto quello che c’è dasapere. Julie Taymor è la regista di Titus (1999) e Frida (2002). I pro-tagonisti sono Jim Sturgess e Evan Rachel Wood e sono loro stessi ainterpretare le canzoni dei Beatles, alcune in versione molto simileall’originale, altre riarrangiate completamente da Elliot Goldenthal,che ha curato l’intera colonna sonora. Joe Cocker canta «ComeTogether» e Bono degli U2 interpreta Mr Robert una specie di guruche trascina i protagonisti in un mondo dissoluto, interpretando, amodo suo, «I am the Walrus». In alcune sequenze compare ancheSalma Hayek nei panni di una infermiera, anzi cinque. E le coreografie, originali comesempre, sono di Daniel Ezralow, il creatore dei Momix.

Ultima regola: stracciate questa recensione. Lasciate da parte tutte le vostre aspettati-ve, tutti gli stereotipi sui musical (si, lo so, è una cosa assurda e irrealistica che ogni 7minuti i protagonisti si mettano a cantare e ballare per strada senza alcun ritegno, nessu-no lo farebbe mai nella vita reale) e tutte le belle e cattive parole che vi diranno quantihanno già visto il film. Infilatevi tra le poltroncine rosse del vostro cinema preferito egustatevi la colonna sonora più amata di tutti i tempi.

Da «Girl» a «All You Need Is Love», sarà piacevole riscoprire l’attualità di brani che hannofatto storia e non sarà difficile trovare la propria preferita. La mia è questa: I’ve just seen a face,I can’t forget the time or place, Where we just met. Esci dalla sala e non puoi smettere di canta-re. E sulla strada verso casa, ti viene quasi voglia di improvvisare due passi di danza, se nonfosse una cosa così assurda e irrealistica. (Roberta Mastruzzi)

Across the Universe¢

CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA DAL LIVEALLA DIDATTICAE RITORNOIntervista ad AMEDEO TOMMASI

a cura di Marzia Bagli

ERITORNO

Page 12: MUSIC IN n. 3

a cura di CORINNA NICOLINIROMA GOSPEL FESTIVALSono i neri di Mario Ciampà

CINE-CONCERTO Piazza Vittoriotornerà italiana. O l’Apollo sarà unbingo. Delle due l’una.

MEET IN TOWN L’elettronicaè di casa. Pure a Roma.

Music In ¢

Dicembre Gennaio 2008

Per dirigere un festival per tanti anni ci vuolesicuramente una grande passione. Si ricordail primo incontro che ha avuto con la musicagospel? Ne è stato subito conquistato?

Il mio primo incontro lo ricordo benissimo. Èstato a New York in una chiesa di Harlem, doveancora oggi la gente del posto si riunisce per lafunzione domenicale. Sono rimasto meravigliatodall’atmosfera e dalla partecipazione emotivache c’era per questo tipo di messa. Pur essendoun vero concerto di musica e gioiosità, restavapur sempre una preghiera che trascinava tutti.

Le origini della musica gospel si ritrovanonell’America nera degli anni Trenta e incon-trano quelle del jazz. Cosa hanno in comunesecondo lei questi due generi?

Il jazz è sempre stato una fusione di diversetendenze che si sono avute tra la finedell’Ottocento e i primi del Novecento. Non soquanto questo abbia preso dal gospel ma sicura-mente entrambi hanno preso dal blues. Il gospelprima era costituito soltanto da cori, anche

bianchi, e veniva usato dalle diverse professionireligiose per trovare dei proseliti. Quando poi èdiventato anche un’espressione del popolo neroafroamericano, e c’è stata l’aggiunta della ritmi-ca, è arrivata l’influenza del blues.

All’inizio questa contaminazione ha datoluogo a una netta reazione degli integralisti, iquali la definirono addirittura come la musicadel diavolo, non ammettendo che si potesserousare strumenti musicali quando si andava apregare. Poi però qualcuno li convinse del fattoche se gli strumenti potevano dare maggior vigo-re alla preghiera e avvicinare così a Dio, questidovevano essere usati.

Quando la musica gospel è uscita dalle chie-se e si è presentata al pubblico profano deinight club?

Intorno agli anni Cinquanta. Quando si sonoiniziati a produrre anche dei dischi, sulla sciadel successo che il gospel stava avendo. Il gene-re a quel punto ha assunto un altro ruolo e sisono avute le prime esibizioni, più che nei night,nei teatri. Ma anche in quei luoghi i canti resta-vano un atto di fede e di preghiera.

Esiste un gospel moderno? E cosa racconta?È ancora presente l’elemento religioso?

L’elemento religioso è sempre presente.Esistono diversi generi di gospel. Perché il

gospel è la parola del Vangelo e come tale puòessere interpretata in diversi modi e, quindi, stilimusicali. Esiste il gospel rap, quello punk oquello pop. Ci sono dei festival che presentanoproprio il New Gospel, ossia tutte quelle formeevolute che noi profani possiamo definire com-merciali, ma che poi sono quelle che avvicinanoil grande pubblico. Nella nostra manifestazionein effetti facciamo un gospel molto tradizionale,ma il gospel è una musica viva in continua evo-luzione e quello che ascoltano gli americani e gliinglesi è tutt’altro rispetto a questo.

Quale disco consiglierebbe a chi vuole avvici-narsi a questo genere?

Non me la sento di consigliare un disco in par-ticolare perché essendoci tale diversità di stili,bisogna scegliere secondo i propri gusti. Il mer-cato mondiale del gospel è molto fiorente, ma inItalia non c’è una grande produzione e non sitrovano molti dischi nei negozi, ma per chi fosseinteressato ci sono moltissimi siti specializzati.

Ci parla degli artisti di spicco di questa dodi-cesima edizione del Roma Gospel Festival?

Abbiamo qualche conferma e qualche novità. Tra le prime c’è Tony Washington, cantante

rhythm and blues, e Robin Brown, compositricee organizzatrice di cori ad Atlanta.

Tra le novità c’è Sue Conway, cantante moltovaria e profonda, e il gruppo di Joe Pace, com-posto da venti persone, più vicino alla linea popdel gospel. Tra l’altro lui si esibirà proprio il 25dicembre, e questa è una novità anche riguardoalla scelta di passare il giorno di Natale insieme.

Un’altra cosa interessante è il Capodanno alle22, con replica il 1 gennaio alle 18, per unaserata tutta dedicata al gospel di New Orleans,con un gruppo originario di lì.

Il nostro giornale è molto attento alla situa-zione discografica italiana. Lei è alla direzio-ne artistica dell’etichetta dell’Auditorium.Ci accenna quali sono, nella sua esperienza, ilati più affascinanti e quelli più faticosi diquesta attività?

Il lato più affascinante è quello di potercostruire un progetto originale, intervenire nelledecisioni artistiche e costruire insieme ai musici-sti. Il lato più faticoso è che i tempi di realizza-zione di un disco sono abbastanza lunghi e perchi come me organizza concerti ed è abituato adun’attività adrenalinica a volte può stancare.

MIT MEET IN TOWNELETTRONICAMENTE

ROMA

A vanguardie a Roma. «Meet In Town»continua. Snob Production saluta il 2007

con due serate di fibrillazioni elettroniche, il 14e il 15 dicembre, per poi dare il benvenuto al2008 con un esclusiva performance, il 12 gen-naio. Il nesso è un concetto di elettronica intesocome veicolo culturale capace di intersecarsicon il pop, il rock e la world music, in un per-corso in divenire che porta il passato ad esserel’approccio con quel che sarà e le performancedel festival ad occupare uno spazio preciso: lacontemporaneità.

Venerdì 14 dicembre è di scena ChristopherStephen Clark. Dietro di lui c’è un marchio digaranzia: la Warp Records, etichetta inglese chevanta nella propria scuderia Aphex Twin eJamie Lidell. Clark presenterà un set in cui labatteria tradizionale si integra perfettamentecon i suoni digitali in una performance ritmicaed elettrizzante. La stessa sera si esibisce losvizzero Kalabrese, portando in concerto la suaattitudine deep, accorpata ad un’indole funk-soul, costruita su melodie e fiati.

Il giorno dopo sul palco uno spettacolo dedi-cato all’etichetta berlinese Shitkatapult.L’evento è composto dal live di Apparat , artistatedesco che dopo essersi cimentato con le mac-chine assieme a Ellen Allien, porta a Roma,accompagnato da un una vera e propria band, ilsuo ultimo album intitolato «Walls».

Se Sonb Production saluta il 2007 con uncalendario tanto ricco, le premesse per il nuovoanno sono tutt’altro che scontate. Il 12 gennaioM.I.T. inaugura il 2008 con una serata speciale.Carl Craig, uno dei pionieri della techno si pre-senterà assieme alla Innerzone Orchestra, perun set in esclusiva in cui elettronica e funk siintrecciano in uno spettacolo senza pari, capacedi raccogliere la sfida tra analogico e digitale, edi risolverla in un’armoniosa contemporaneitàgià catturata nell’album «Programmed», uscitoper la Talkin’ Loud di Gilles Peterson.

M.I.T. scioglie il freddo inverno in un’altracalda stagione galvanizzata. L’elettronica conti-nua ad essere un mezzo espressivo più che unacategoria musicale ben definita. E il suono nonrinuncia a stupire.

Stefano Cuzzocrea

LA MUSICA CHE ARRIVA FINO AL CIELOIntervista a MARIO CIAMPÀdirettore artistico del Roma Gospel Festival

a cura di Corinna Nicolini

I l Roma Gospel Festival è giunto con enorme successo alla sua dodicesima edizione. Anchequest’anno ospiterà i migliori cori e gruppi di spiritual provenienti da tutto il mondo, lascan-

do invadere l’Auditorium Parco della Musica di Roma di echi di ieri e suoni di oggi. Abbiamo parlato con chi del gospel si è innamorato in viaggio e l’ha portato a casa, nella sua

città. Mario Ciampà è direttore artistico di alcuni dei maggiori festival musicali italiani, come ilFestival del Mediterraneo e il Roma Jazz Festival e dell’etichetta discografica Parco dellaMusica Records. Oggi ci ha portati per mano in un viaggio antico attraverso la storia della musi-ca gospel, quella che parte dallo spirito e arriva al cielo.

APOLLO: TRASFORMARE ROMA IN UN BINGO

Il cine-concerto dell'Orchestra di Piazza Vittorioos’è un cine-concerto? Lo scopriamo a gennaio all’Auditorium di Roma.Lo schermo vibrerà di musica per novanta minuti e poi la festa si materializze-rà sul palco. Per chi se l’è perso è arrivata l’occasione di vedere il pluripremia-to film sulla storia dell’Orchestra di Piazza Vittorio. Un documentario che ritrae

Roma senza parlare di Roma. Un documentario che non è una ricostruzione di una sto-ria, ma è la storia stessa. Una storia raccontata dalla voce e dalla telecamera di chi que-sto progetto l’ha creato e l’ha portato per mano fino al successo che oggi ci fa scrive-re di loro.

Mario Tronco, tastierista degli Avion Travel, vive all’Esquilino, il quartiere più multiet-nico di Roma e ha imparato ad affezionarsi a tutte le voci, i suoni e gli odori stranieriche si intrufolano tra gli infissi delle sue finestre e arrivano come fossero una musica.Così inizia a sognare un’orchestra in cui possano esprimersi.

C’è qualcun altro che nel quartiere sibatte per una buona causa. È AgostinoFerrente, documentarista. Lui non puòaccettare l’idea che l’Apollo, l’unico cine-ma-teatro rimasto nella zona, stia peressere trasformato in una sala Bingo. Aisuoi occhi quel posto storico è la locationideale per un laboratorio multidisciplinareche proietti film che parlino delle culturedella gente di quel posto. I loro sogni sisomigliano e allora decidono di unirli econ l’apporto di altri artisti, intellettuali egente comune, creano l’Apollo 11. Intantogli abitanti della zona cercano di farsi spa-zio e di rivendicare quella che è la lorocasa. Una grossa scritta su un muro grida:«Piazza Vittorio tornerà italiana».

I nostri protagonisti vanno alla spasmo-dica ricerca di musicisti di ogni lingua ecolore che cantino insieme le tradizioni diogni parte del mondo. Una ricerca ardua, perché tutti hanno il diritto di suonare suimarciapiedi, nelle metropolitane e ai semafori di una città. Ma i veri artisti sono pochi.E allora la telecamera ci porta in giro per Roma, passando per i posti che vediamo tuttii giorni, dagli storici monumenti della città eterna ai palazzi delle zone popolari e fati-scenti. Ma li vediamo con occhi diversi, i nostri sguardi cercano musica straniera, vocida scoprire, volti nuovi. L’Orchestra alla fine prende forma e movimento.

Scoprirete che sfregando le mani sui pantaloni nasce una musica, che il tappo disughero di un barattolo di sale può fare da percussione.

Ho l’impressione che quando, alla fine del film, gli artisti arriveranno sul palco visarete già affezionati a loro. Amerete già i loro capelli, raccolti in strettissime trecceafricane o avvolti in affascinanti turbanti indiani, amerete le loro mani di ogni colore chescivolano sugli strumenti più originali, amerete le loro labbra muoversi pronunciandoparole ignote. Amerete i loro suoni e le loro voci.

E vi sorprenderà una cosa. Questa gente non ci somiglia affatto. E non è solo unaquestione di colore di pelle. Loro non sono qui perché vogliono essere come noi.Scoprirete che le radici dell’uomo non devono restare impiantate nella sua terra per tra-smettergli la linfa di cui ha bisogno per vivere. La sua terra, l’uomo, se la porta nelcuore e nella memoria. E te ne accorgi quando canta, quando suona e quando balla.Perché a quel punto per capirlo non ti serve conoscere la sua lingua.

Corinna Nicolini

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CCBINGO

Page 13: MUSIC IN n. 3

CHIARA CIVELLO Si leggeRoma si scrive New York

GIOVANNI IMPARATO La suaAfrica. E Cuba, e New York. E Napoli.

MOLTHENI Linguaferma psichedelica.

UNITED DJS AGAINST AIDS Sono i Dj piùfamosi del mondo e Tracy Young è la preferita diMadonna. Di passaggio a Roma contro l’Aids

Music In ¢

Dicembre Gennaio 2008

CHIARA AMERICA CIVELLO

R oma-Boston-New York e ritorno. ChiaraCivello, cantautrice romana, torna nella

sua città per presentare l’ultimo lavoro «TheSpace Between». E lei è una che di grandi spazise ne intende. A 16 anni prende la valigia eattraversa l’oceano per andare a studiare jazz einseguire la sua grande passione coltivata neltempo, fin quando da ragazzina, zaino in spalla,andava a studiare musica al Saint Louis, lascuola nel cuore di Roma.

Da qui alla Berklee il passo è breve e unaborsa di studio le consente di perfezionarsi nelprestigioso College di Boston. Finiti gli studi,New York è lì che la aspetta. Altro trasloco,altra valigia. Ma la scelta si rivela vincente.Come nei più classici copioni hollywoodiani, ilsogno americano si realizza e questa volta laprotagonista è una giovane ragazza italiana. Lavoce di Chiara viene notata da Russ Titelman.Firma per la Verve Records, storica etichettajazz che per la prima volta mette sotto contrat-to una musicista italiana e pubblica il suo esor-dio discografico, «Last Quarter Moon».

Con alcuni mesi di anticipo rispetto al merca-to americano, è uscito a settembre in Italia ilsuo secondo lavoro, «The space between», 13canzoni scritte e composte dall’artista romana.Nella musica Chiara rispecchia la sua vita. Itesti parlano di distacchi, di lontananza e delbisogno di trovare un punto fermo in cui ritor-nare ogni volta che la vita impone delle scelte.Il suo stile è stato definito di volta in volta jazz,etnico, pop, musica d’autore.

Sicuramente le diverse città e le diverse cul-ture in cui è vissuta hanno lasciato un segno.

E la contaminazione tanto ricercata da molti

artisti in lei trova una sintesi perfetta. Non acaso la band con cui si presenteràall’Auditorium di Roma l’8 dicembre è compo-sta da musicisti di diversa nazionalità: un piani-sta americano Pete Rende, un chitarrista brasi-liano Guilherme Monteiro, un bassista neoze-landese Richard Hammond e alle percussioni ilgiapponese Yusuke Yamamoto.

E poi lei, la sua voce, che in modo soffice edelegante sa comunicare a chi ascolta tutta labellezza nascosta nei momenti della vita, anchequelli più malinconici. I suoni sudamericani, labossanova, un gusto raffinato uniti a parolericercate, creano un’atmosfera calda e quasinostalgica. Nostalgia per gli anni ‘60, quando ildigitale ancora non c’era e il suono era piùdiretto e ricco di tensione. Nostalgia apertamen-te dichiarata dalla stessa Civello che per incide-re un disco così intimista si è rivolta ai suoiamici che lavorano con lei da anni e oltre allesue composizioni originali ha voluto inserireanche due classici standard, «Without her» diHarry Nilson e «Skylark» di HoagyCarmichael.

«Questa collezione di canzoni è il mio trenoverso casa» così Chiara descrive il suo cd. E ilsuo amore per i treni è racchiuso in uno deibrani dell’album: «L Train», impreziosito que-st’ultimo dalle percussioni del venezuelanoLuisito Quintero. I treni a volte si perdono, avolte sbagliano direzione, lei ne ha preso uno alvolo ed era quello giusto.

Roberta Mastruzzi

radioattivo. Batte nelle vene di tuttiperché è lui che manda avanti i ritmidi tutte le leggende italiane. È quelloche pesta i pezzi di tipi come Dalla,

Ramazzotti, Zero, Paco De Lucia, RayCharles, e pure Mina lo ha nelle vene. Mina,proprio lei. Non a caso si chiama Imparato.E insegna tamburo, congas, batà, bongò,l’arte di percuotere ed essere percossi, losciamanesimo, il sangue, al Saint Louis diRoma e nel mondo, da New York, a Cuba,alla sua Africa.

Fino a Napoli. Scorre. Come dire, coman-da le pulsazioni dei cuori, e lo fa bene. Perchéè un sacerdote cubano. Ma è napoletano ecrede nella Madonna e in Olofi, all’Africa eallo spirito guida di sua madre, e al suototem, un pesce che vola sull’acqua come undelfino. Ha quarantamilioni di anni, è zero Dpositivo e si chiama Giovanni.

Kuba Sound System Proyecto e TammumbaTour: di cosa si tratta?

Kuba Sound System Proyecto è il disco che harisvegliato il leone che dormiva TammùmbaTour è il progetto col quale siamo stati invitati alprimo Festival Timbalaye di rumba all’Habana,grosso fiore all’occhiello che fonde la mia matri-ce partenopea e l’amato patrimonio afrocubano.Il nome stesso è: tammurriàta +rumba. Perché Cuba?

Cuba, perché condensa una fucina incontrol-lata di inno alla vita, uno dei misteri africani piùpoderosi stemperati dall’influenza mediatricedell’Europa e del Mediterraneo.

Non c’è nulla di più palese di un tamburo chestaglia «geometrie» armonizzanti! Cuba ha inte-grato quattro tra le etnie più evolute di tuttal’Africa (Yoruba, Ararà, Abakwà, Bantù) con ilatini del vecchio continente,con i cinesi presen-ti sull’isola fino ai russi dell’ex Unione

Sovietica.Cuba Libre o Rum&Cola?

Cuba Libre, ma mi auguro una nuova bevan-da con auspici meno rivoluzionari e più univer-salizzanti. Vanti collaborazioni con Mina, OrnellaVanoni, Gigi Proietti, Gino Paoli, FrancescoDe Gregori, Lucio Dalla, Renzo Arbore,Eugenio Bennato, Ray Charles, Paco DeLucia e molti altri. Cosa sei per meritarli?

Mio malgrado, un artista... che ama incessan-temente la professione del musicista.Chi è stato il tuo vero ispiratore?

Il chitarrista Carlos Santana. La tumbadoraascoltata dalla composizione di Tito Puente(ibaè). Oye Còmo Va, e Samba Pa’ Ti.

Materialmente, Armando Peraza; quindiPatato Valdez (per i primi tamburi Batà ascolta-ti), Mongo Santamaria (ibaè), Steve Wonder. E lecanzoni napoletane.Come definiresti Giovanni Imparato?

Una persona che sta ricercando. Ti confesso che ho imparato a stimarlo.

Cosa sono i disegni pubblicati sul tuo sitowww.giovannimparato.com?

Sono miei: vengo dall’Istituto d’Arte ma avevogià scelto la musica nella mia vita.

Da piccolo non facevo che disegnare: quel-l’avventura vissuta ogni volta che mi accingevoad iniziare un foglio bianco l’ho continuata poicon la musica. Puoi descrivere le tue percussioni?

Scatole cilindriche di detersivo, mobili, fino aldorso di una chitarra acustica. A dieci anni hoavuto il primo paio di bongos, ma sempre le con-gas nei miei sogni. Ora ho venti cinque congas,quindici batà, otto bongò.Percosso o percussionista? Cosa di più?

Abbastanza percosso dalla vita, specie all’ini-zio: è stata la morte di Immacolata Pesacane,

mia madre (ibaè) ad iniziarmi all’età di dueanni. Mi è venuta in soccorso sotto le spoglie dimadre universale attraverso la musica e il ritmodel tamburo.Ti abbandoni alla musica come uno sciama-no. Il tuo percorso musicale sviluppa i settechakra, la ricerca degli animali totem deri-vata dalla sapienza amerindiana, la ruota dimedicina. Qual è il tuo totem?

Il mio totem è un pesce che nuota come un del-fino, tra acqua e cielo. Fu iniziatore ed autenti-co stregone Arnold Keyserling (ibaè), che con iltamburo a vent’anni mi incaricò di guidare ungruppo di praticanti. Invece, il mio «angelo dellaguardia» yoruba è: Changò, patrono del tambu-ro, del canto e della danza. La musica vieneemanata dal nostro corpo più sottile (che non èfisico): ecco perché lo sciamano (colui cheimpara ad intessere una costante relazione conle dimensioni parallele non ordinarie) è il pre-cursore del musicista... se non proprio musici-sta, che è allo stesso tempo sacerdote.La musica guarisce?

La musica sgorga nella specie solo per guari-re: è nella nostra società che è divenuta esaspe-ratamente estetica fino a perdere la sua essenzapiù profonda nella preoccupazione eccessiva diciò che salta all’occhio. Da cosa hai preso l’uso rituale del tuo tam-buro, di ispirazione tribale?

È la sua potenza che ha fatto tutto, continuan-do a riservare consistenti verità per la mia cre-scita. A Cuba sono un sacerdote dei tamburi con-sacrati e ufficialmente posso presenziare musi-calmente le cerimonie del culto della Ocha (ilpantheon di Deità Yoruba).Se dovessi pubblicare un tuo libro dal titoloLa mia Africa, cosa scriveresti nella quartadi copertina?

Il mal d’africa esiste: l’ho provato! Si viene acapo della propria provenienza remota dal grup-po sanguigno, ed io sono: zero D positivo:appartengo al ceppo più antico dell’umanità cheproviene dall’Africa, circa 40 milioni di anni fa. Quanta Napoli c’è in Africa? E quanta Africa a Napoli?

La mia percezione della terra unisce tutti i ter-ritori sui quali ho camminato. Napoli, con la suaforma del golfo, mi accoglie come se Partenopepotesse ridestarsi. Da piccolo è per le strade diNapoli che ho scelto la mia professione, suonan-do e pregando Olofi (Yoruba) e la Madonna(Napoli). È così che Partenope, l’Habana eMatanzas diventano una sola cosa per me.Certi ritmi neutralizzano l’iper controllo edequilibrano i due emisferi cerebrali. Quantoc’è di psicoanalitico ed evocativo nella tuamusica?

Una pulsazione del tamburo, sincera e sentita,trasforma le onde frequenziali del cervello dabeta in alfa, che è il risultato che si raggiungecon la meditazione, lo yoga e il sonno profondo.Le cellule cerebrali si rigenerano completamen-te... e non solo. La psicoanalisi e la bioenergeti-ca sono state delle potenti accompagnatrici neimiei momenti cruciali, indispensabili per imbat-tersi nell’autentico: è una ricerca degli archetipie non ha confine di razze né di culture. E questoè ciò che ho definito lo Statuto Tammumba.

GIOVANNI IMPARATOil sacerdote a cura di Romina Ciuffa

MolthenisofficeLa sua musica prende forma su suoni

acustici, minimali, scarni ed essenziali - conechi folk che ammiccano a Nick Drake eDavid Sylvian - vagamente psichedelici edecisamente ambient ma non privi di slan-ci pop-rock. Tutto il resto è Moltheni: unavoce soffice, anima romantica e scanzona-ta, lingua ferma e meraviglia, piccolo gran-de uomo, cantautore capace di colorare la

sua poesia semplice quanto profonda con unamusica mai banale. Canta l'amore Moltheni:sia esso l'amore per un'amata acerba e dolceinsieme; o per la vita che cuoce l'uomo al vapo-re; per il rosso di un vino buono o il profumodell'alloro e del grano; per madre terra, ruvidaquercia e solida grandi-ne, sangue caldo di uncinghiale morente nelbosco.

Canta, altresì, ladecadenza Moltheni: ilmorire di ciò che era,l'agonia di un fiume che

era in piena o di un'idea morta in unrequiem inudito, la sofferenza della naturae del ricordo di alberi ed erba verde chenon ci sono più, sommersi da internet e dalpetrolio. Moltheni è un artista da capire escoprire con pazienza. L'occasione giusta

è il tour di presenta-zione dell'ultima fati-ca "Io non sono comete".

ManueleAngelucci

UNITED DJSAGAINST AIDS

U na serata con igrandi deejay

della scena interna-zionale, per nonlasciare cadere ilmessaggio di solida-rietà e speranza lan-ciato dalla GiornataMondiale della Lotta

all'Aids. A pochi giorni dal Red RibbonDay, il 6 dicembre i fiocchetti rossi chesimboleggiano la battaglia contro lamalattia del secolo sono tornati a colora-re per sensibilizzare i giovani sulla pre-venzione. Il Gay Village, in collaborazionecon una delle più grandi associazioni dilotta all'Aids, la LILA, ha curato il GayVillage No Aids, United Djs against Aids.

Per tutta la notte allo Spazio Novecentoalternatisi alla consolle, un'ora ciascuno,alcuni fra i maggiori Dj in circolazione(Cristiano Spiller, aka Dj Spiller; la dj pre-diletta di Madonna, l'americana TracyYoung, vera icona del gay clubbing mon-diale; Lorenzo LSP, Pisti, Fiore Dj, SamPerez, Luca Marano, Slide, AntonelloLove, aka Stereologic) donando le perfor-mances alla causa, accompagnati dalvocalist Kevin Delite. Romina Ciuffa

èè

EEDDGGEEANDAND BACKBACK

sacerdotesacerdote

Page 14: MUSIC IN n. 3

a cura di FLAVIO FABBRIJOSÈ FIORILLI Il tastierista diLigabue spiega la medianità

VINILE Ma sì che è meglio. Masì che torna. Ma sì che ci va.

BLONDE REDHEAD Duegemelli e una japnewyorkese.No, non è un film di Bertolucci

Music In ¢

Dicembre Gennaio 2008

C' è sempre qualcosa di misterioso,angolare, e stranamente asimmetri-

co nella visione dei gemelli.Nel caso dei Blonde Redhead,

l’impressione aumenta, perchè aigemelli Simone e Amedeo Pace,si aggiunge la presenza dei dueocchi a mandorla di KazuMakino, eccentrica musa jap-newyorchese, che sembrauscita come un elfo dal collodi una bottiglia.

Misteriosa e angolare èstata a tratti anche la loromusica, disseminata inquesti anni (dall’ormailontano ‘93, anno del loroprimo omonimo album)come piccoli pezzi dipane per ritrovare la via

di casa. Seminali, come tantaparte della produzione newyorchese,

alla fine i Blonde Redhead la via di casa sem-brano averla davvero trovata.

23 infatti è il numero della via e della casa diKazu Makino, e anche il titolo dell’ultimoalbum uscito in aprile per la 4AD Records, incui i nostri sembrano approdare alla stabilità diun pop ‘post’ emozionale e gestaltico, forse atratti rassicurante rispetto alle inquietudinisonore del passato, ma sempre raffinato e pre-zioso, come i Blonde sanno sempre essere. Saràproprio la presentazione dell’ultimo album alcentro del concerto tenutosi il 2 dicembre nellaprestigiosa cornice dell’Auditorium di Roma,un riconoscimento importante per il gruppoitalo-nipponico cresciuto all’ombra dellaGrande Mela, e che da qui ha assorbito lo sple-en e l’attitudine avantguarde, fino a diventareuno dei punti di riferimento della scena alterna-tive dell’ultima decade, per uno stile inconfon-dibile fatto di sonorità tese e voci strozzate,melodie ossessive e dilatate su testi di remine-scenza dada-surrelista.

È il 2000 quando esce Melody of certaindamaged lemons, vero e proprio oggetto diculto, e a tutt’oggi il loro lavoro forse più bello.

Il trio aggiusta la mira mettendo a punto unart pop al tempo acido e notturno, giocato suiriff ossessivi e lievemente variati della chitarradi Amedeo Pace (una per tutte la bellissima EnParticolar, ormai un piccolo classico dellascena indie) e sull’intensità della voce di Kazu,

con riverberi e echi a metà fra i Television diMarquee Moon e i Beatles dell’ Abbey Road.

Il seguente Misery is a Butterfly ha una gesta-zione di tre anni ed è quasi una seduta terapicaper la cantante Kazu, reduce da un brutto inci-dente da cavallo. L’attesa viene comunque ripa-gata. Inquietante e ipnotico, Misery vive sullaragnatela incantata delle orchestrazioni piùampie e barocche. Il suono si fa più etereo, leatmosfere sospese.

23 sembra a metà tra il volo della farfalla e lepsicoderive di Melody. Sette anni non passanoinvano, i gemelli Pace incanutiscono, lo stile sidefinisce.L’album vanta collaborazioni impor-tanti, da Chris Coady (Yeah Yeah Yeahs, Tv onthe Radio), a Alan Moulder (My BloodyValentine) e Rich Costey (Franz Ferdinand eBloc Party), e non per niente appare percorso daechi new wave come nella title track d’apertu-ra, 23, con la spinta prog della batteria diSimone a tracciare la linea guida, o inPublisher, con il crescendo iniziale di piano esynth. La sognante Silently ricorda da vicino gliAir più pop di Cherry Blossom Girl, mentre lavena post-moderna vibra nelle corde di Kazu, inpezzi che sono delle piccole caramelle pop ametà tra Gainsbourg e la rivisitazione a laPizzicato Five (Top Ranking e My ImpureHair).

Si registrano forse alcuni passaggi a vuoto(Heroine, Sw) ma restano impressi comunquemomenti notevoli come Spring and by SummerFall, densa di riverberi noise primi anni novan-ta, e soprattutto la notturna e spettrale Dress,con il recitativo roco di Kazu a levarsi accenna-to sopra una delicata trama synthetica.

Dal vivo il trio da vita a un concerto-perfor-mance che è quasi un evento d’arte rileggendotutto alle perfezione, quasi da partitura, convirate rumoriste e incendiarie sul passato piùprossimo e luminoso destinate a contagiare ilpubblico, anche quello (forse) più posatodell’Auditorium .

Lorenzo Bertini

a cura di VALENTINA GIOSA

... Il magnetofono, lo stereo8, il giradischi, i nastri. Poi sono arrivati i cd e il vinile èstato dimenticato divenendo desiderio e preda solo di fanatici e collezionisti. Ora ancheil cd sta subendo la stessa sorte. La virtualità ha assorbito tutti quegli oggetti che con-tribuivano alla magia della fruizione musicale e che in fondo un pò rimpiangiamo.

Il supporto fisso è andato col tempo scomparendo: i lettori walkman hanno permessoalla musica di divenire portatile, i lettori mp3 e i cellulari l’hanno resa mobile, continua-mente disponibile. La musica è ormai diventata liquida e la fine del disco pare esserearrivata. E cosa ne sarà del mercato discografico? Già nel 2000 i Pearl Jam per scon-figgere il fenomeno dei bootleg pubblicarono 25 album live ufficiali inizialmente solo sulweb. Madonna, Aerosmith, Rolling Stones diversi anni fa presentarono in anteprimasulla rete le loro nuove produzioni. Nell’aprile del 2006, un brano pubblicato esclusiva-mente da mp3 raggiunse la prima posizione della classifica inglese. Un anno faSamuele Bersani anticipò su iTunes il singolo Lo scrutatore non votante.

Anche la Sony-Bmg ha cercato tempo fa di adeguarsi alla digitalizzazione della musi-ca creando H20 Music, un sistema dove viene meno l’obbligo dell’uscita di un cd (unacanzone può essere pubblicata anche ogni tre settimane). Tutto è un work in progress:i brani vengono venduti in una ventina di negozi online (iTunes, Tiscali, RossoAlice) e sui mobiles della telefonia e nel frattempo si ha il modo di tara-re l’artista. H2O Music ha per ora lanciato soltanto due grup-pi: Corveleno (8mila copie vendute all’uscita dell’al-bum fisico e 15 mila i download registrati) e TheStyles.

L’ultimo caso è quello dei Radiohead, che perl’uscita del nuovo album In Raimbows hanno decisodi voler fare tutto da soli per essere liberi da qualsiasivincolo di contratto (contando esclusivamente sullaforza della rete) attuando una distribuzione diretta aifans. La band inglese ha infatti lanciato il nuovo albumsul web permettendo allo stesso pubblico di deciderequanto pagarlo. «Quella di Thom Yorke e soci dev’esse-re interpretata come un risuonare di sveglia che noi tuttidovremmo accogliere e corrispondere con creatività edenergia.

L’industria del disco è stata sin troppo a lungo dipendentedal numero di cd che è possibile vendere, e piuttosto cheimbracciare la digitalizzazione e le opportunità ad essa con-nesse per la promozione di un prodotto e la distribuzione attraverso diversi canali ha infi-lato la testa nella sabbia», ha affermato Guy Hands (responsabile di EMI Group) che,dopo l’iniziativa dei Radiohead - gruppo di punta dell’etichetta - ha capito che è arrivatoil momento di cambiare per evitare la rottura definitiva. Cavi, computer, internet, satelli-ti stanno soppiantando le case discografiche e sempre più stretto si sta facendo il rap-porto diretto fra l’artista e il consumatore. Le reazioni a queste nuove sperimentazioniappaiono però ancora incerte.

La stessa operazione di In Raimbows non sembra esser stata accolta molto positiva-mente dal pubblico visto che secondo la comScore Inc più della metà di chi ha scarica-to i brani (il 62%) ha deciso di non pagare nulla mentre il restante 38% ha invece paga-to una media di 6 dollari. C’e ancora tantissima incertezza nell’aria dovuta ad un cam-biamento evidente che è difficile stabilire se sia evoluzione o rivoluzione. Siamo certa-mente in un momento di passaggio in cui è forte l’incapacità di controllare qualcosa dicosì estremamente imprevedibile e sfuggente come la rete che, per alcuni, è stata addi-rittura causa di una degenerazione: «Internet rovina l’arte e la vita, bisognerebbe spe-gnerlo per cinque anni: verrebbe fuori musica molto più interessante di quella attuale»ha ammesso saggiamente Elton John.

C’è chi invece come Patti Smith, si dimostra ottimista e ammette che l’atteggiamentodi chi fa musica oggi è finalmente indipendente e libero proprio grazie alla rete: «Il punk-rock oggi sono tutte le persone su Internet che decidono di fare la propria musica. Quelliai quali non importa se saranno in venti ad ascoltarla. Lo fanno e basta». Per fortuna,di fronte a uno scenario virtuale tanto anarchico quanto caotico resta sempre la dimen-sione magica del live, dove la tattilità del contatto che si instaura tra gli applausi (e chemanca ad un prodotto di fabbrica solido o liquido che sia!) diviene una forte ricchezza.

Valentina Giosa

C hissà, forse ci arriva in bicicletta a tuttii suoi concerti, quelli dell’Ellesette

Tour, poiché proprio pochi giorni fa LucianoLigabue, ex metalmeccanico e bracciante,era alla ricerca del «Grande Fiume», il Po,insieme a Francesco Guccini, e motivato daistanze ambientali. Certo che il suo tourstanca. Perché lo fa pensare a quando erapraticamente un ragazzino: magrissimo,anzi snello, ma sempre una voce profonda, lavoglia di sfondare.

Il rock, sì, ma poi il rock italiano è più pop,perché forse non si è pronti per ragazzi che

siano Beastie, ma più per melensi accordimaggiori e storie d’amore. In questo, lui èferratissimo. Parla d’amore da quandosuona, di rock ha la pelle nera delle sue giac-che, mette molto pianoforte (che fa cantarepiù facilmente) ed ora lo fa suonare a Josè.

Il rock in Italia è...Partiamo dal presupposto che la lingua italiana,come quella francese e spagnola, nasce già unpò «sfigata» per il rock, nel senso che ha unsuono troppo morbido rispetto all’inglese e tuttele parole finiscono sempre con una vocale. In più ci metti che la nostra tradizione musicaleè basata sulla melodia: ecco che fare rock inItalia risulta più difficile. Ma è possibile.Dunque esiste. E chi lo fa?

Ci sono molti gruppi che da anni scrivonobelle canzoni in italiano ma che hanno una chia-ra ispirazione alla musica anglosassone; bastacitarne alcuni come gli Afterhours, i MarleneKunz, i Deasonika e i Verdena. Questi ultimiaddirittura sembra che cantino in inglese.

Ligabue dove si colloca nell’immaginarialinea tra il rock e...

A metà tra la tradizione melodica italiana etutto ciò che, dagli anni Cinquanta in poi, haportato al rock in tutte le sue forme. Nei suoipezzi c’è il rock’n’roll classico, Bar Mario oMarlon Brando è sempre lui; c’è il blues (che èla base del rock) in Almeno Credo o Seduto inriva al fosso; c’è il rock più moderno come ne Ilgiorno dei giorni o in È più forte di me.

Non c’è rock crudo, pesante, quello in cui sisbatte la chitarra per terra in Italia: è perchénon vende?

Non credo: tanto ormai non vende più nessu-no. Semplicemente perché non tutti sono ingrado di farlo. Ci sono molti gruppi che da anniscrivono belle canzoni in italiano ma che hannouna chiara ispirazione alla musica anglosasso-ne; basta citarne alcuni come gli Afterhours, iMarlene Kunz, i Deasonika e i Verdena. Questiultimi addirittura sembra che cantino in inglese.

Il tastierista di Ligabue: una vita da mediano?La vita di un tastierista è quasi sempre da

mediano, il rock si fa principalmente con le chi-tarre. Ma Luciano mi lascia molto spazio, forseperchè sono cresciuto a pane e rock’n’roll quin-di la mia cultura mi permette di interpretare lesue canzoni senza renderle pop con qualchesuono anonimo di tastiera.

Chi sei, tu? Il 70% delle parti che suono sono di hammond,strumento che amo fin dall’infanzia, ma mi sbiz-zarisco anche con suoni elettronici psichedelici eovviamente con piano e wurlitzer. Ho iniziato asuonare a 13 anni imitando Jerry Lee Lewis,senza però dar fuoco al piano... Poi mi sono subi-to appassionato al blues con cui ho scopertoanche l’hammond. Da lí ho allargato al rock anniSettanta, al funk e alla musica elettronica in tuttele loro forme e contaminazioni. Ed ecco a voiJosè Fiorilli.

SENZA DAR FUOCO AL PIANOuna vita da medianoIntervista a JOSÈ FIORILLItastierista di Ligabue

a cura di Romina Ciuffa

IN PRINCIPIO FU IL VINILE

BLONDEREDHEADasimmetriciangolarigemelli

PPPPOOOOPPPPCCCCKKKKpop&rock

Page 15: MUSIC IN n. 3

DAVID SYLVIAN Uggioso e bri-tannico. Dandy glam-pop. In piena

IL TEATRO DEGLI ORRORIEcco l’angoscia umana.

FRANCESCO DE GREGORI Checanta l’amore ma ha detto «ti amo» insole due canzoni. Di sinistra o destra

NEGRAMARO Dolci e amari,salentini ed etnici. Teatrali.

Music In ¢

Dicembre Gennaio 2008

D olci all’apparenza e amarognoli in fondoproprio come il vino da cui prendono il

nome, con cui condividono anche la terrapugliese del Salento, i Negramaro si stannoconquistando una fetta sempre più numerosa difans tanto che gli ultimi concerti continuano aregistrare il sold out. Sono quasi dieci anni chela band è attiva ma solo negli ultimi tempi è riu-scita a crearsi un’identità ben definita che vedeun’ interessante commistione di influenze tipi-camente british (Coldplay, Muse) e un rockautoriale di matrice italiana ispirato ad autoricome Tenco e Battisti.

Dopo i successi ottenuti nelle arene estive, iNegramaro hanno deciso di portare in tour illoro ultimo successo «La Finestra», in un’am-bientazione del tutto nuova, quella del teatro.

«Abbiamo fortemente voluto portare il tournei teatri per ricreare l’incanto, l’atmosferadella stanza nella quale nascono le nostre can-zoni - dice Giuliano Sangiorgi, voce deiNegramaro - perché noi e chi ci ascolta possia-mo godere insieme dell’emozione più forte chescaturisce da ogni pezzo, quando ancora ènudo e vibra solo grazie al fluire delle sensazio-ni che scorrono».

«Il concerto acustico è la situazione più vici-na a questo nostro sentire. Stiamo preparandoun nuovo spettacolo, completamente diverso daquello estivo, ma anche da qualunque cosa pro-

posta finora».«Utilizzeremo strumenti etnici, ma anche

l’uso dei nostri abituali strumenti sarà diversodal solito: ad esempio le manipolazioni elettro-niche di Pupillo saranno l’elemento onirico diquesto live».

GIOSA

FRANCESCO DE GREGORI

PER MANCINI E DESTRORSIdi Roberta Mastruzzi

Auditorium della Conciliazione apre i propri spazi alla musica d’autore e lo fa conil «Principe» dei cantautori: Francesco De Gregori. Il tour estivo che l’ha visto pro-tagonista nelle maggiori città italiane è ora diventato un cd, «Left &Right», uscitoa fine novembre, e per presentarlo il cantautore riprende il suo viaggio. Con lui,l’immancabile Guido Guglielminetti al basso e la band composta da Alessandro

Valle, Lucio Bardi e Paolo Giovenchi alle chitarre, Alessandro Arianti alle tastiere eStefano Parenti alla batteria. Assistere a un concerto di De Gregori è sempre un’espe-rienza nuova: è noto ormai a tutti che l’artista romano ama cambiare spesso l’arrangia-mento, la melodia e il ritmo dei suoi brani più famosi, spiazzando a volte gli ascoltatorimeno attenti. Di certo, questa è un’ottima tecnica per sfuggire ai cori del pubblico, riu-scendo così a dare maggiore risalto all’interpretazione e alla canzone in se stessa.

E chi non gradisce può sempre ascoltarsi le sue vecchie canzoni dallo stereo di casa ecantare quanto vuole. Prendere o lasciare. Un concerto è e deve essere invece un’espe-rienza unica e irripetibile, il momento in cui, come in una favola, le canzoni prendono vitae riemergono dal limbo dove la nostra memoria le ha conservate. La musica di DeGregori ha questo potere, le sue parole non perdono nel tempo la loro forza, la sua vocenon smette di ricordarci la nostra vita.

«Left&Right», sinistra e destra come i punti di vistada cui si possono guardare le cose, ma a seconda dichi guarda i punti di vista cambiano e in un attimopossono diventare destra e sinistra. Registratadurante le date estive del tour 2007, la raccolta dibrani live si propone di riannodare il filo della memo-ria, conducendoci nella ricostruzione di una carrierache dagli anni del Folkstudio e del primo album pub-blicato insieme a Antonello Venditti (TheoriusCampus, 1972) fino ad oggi, ha toccato tutti gliaspetti dell’essere umano, sempre con una inconfon-dibile grazia ed eleganza.

Spesso è stato definito un cantante impegnato e disinistra, anche se - qualcuno stenterà a crederci -«Viva l’Italia» è stata all’epoca adottata dal MSI ad uso propagandistico. Come tutti i veriartisti, De Gregori in realtà non ha fatto altro che essere una voce contro. Le critiche allasocietà sono spesso presenti nei suoi testi: da «Festival», dedicata alla scomparsa di LuigiTenco, a «Titanic», aperta denuncia dell’Ïmpostazione classista della società fino alla piùrecente «Vai in Africa, Celestino» (vale a dire, scappa finchè puoi). Ma più di tutto ha can-tato la gente, la sua vita, le sue difficoltà, i suoi rimpianti, le sue battaglie quotidiane, senzadistinzioni di classe, quelli che hanno letto un milione di libri e quelli che non sanno nem-meno parlare. E poi l’amore, raccontato per immagini e frammenti, ricordato primaancora che vissuto, sempre troppo difficile da afferrare nel momento in cui c’è.

Le parole «ti amo» compaiono solo due volte nei suoi testi, la prima nel 1975 in «Pezzidi vetro» e la seconda, trent’anni dopo, in «Cardiologia» del 2006. Eppure, più di tutti hasaputo dare un’immagine al sentimento, senza usare parole da pubblicità, ma impressio-ni e sensazioni, come nella descrizione di due buoni compagni di viaggio, quelli che non«dovrebbero lasciarsi mai».

L’U n’uggiosa serata tipicamente britannica accoglie l’attesissimo concerto romano di David

Sylvian. L’occasione è di quelle da non lasciarsi sfuggire. L’artista inglese questa sera, che èil 27 settembre 2007, ha percorso in poco meno di due ore ben trent’anni di carriera dimostrandoquanto siano labili i confini tra i generi musicali. Look algido ed impeccabile da perfetto «Bowieberlinese». Sembra che il tempo per l’ex dandy glam-pop non sia mai passato. Glaciale, pacato,concentratissimo.

La sua voce, inconfondibile e profonda, ha sprigionato emozioni per tutta la durata del live. Solodi rado si concede al pubblico che si dimostra in ogni caso entusiasta. Seduto, con la chitarra fra lemani, manifesta appieno il distacco di chi si sente estraneo alla realtà odierna farcita di majors inquanto già proteso al futuro. A fare da sfondo: un telone dove si alternano immagini rarefatte esognanti, tinte di colori tenui che emananno un’atmosfera rilassata che proietta lo spettatore dirittonel «pianeta Sylvian».

Con questo concerto Sylvian ha salutato definitivamente il suo passato: «È tempo di muoversiverso nuove mete, dice l’artista. Per farlo devo fare il punto sul passato e gettarlo alle spalle inmodo da avere la mente libera per ripartire. La mia storia musicale è importante ma non vogliorimanerne intrappolato. Così canto per l’ultima volta il mio repertorio».

Lo stile è (come sempre) essenziale e ricercato. Brani vecchi e nuovi vengono arrangiati sotto unanuova veste: i consueti paesaggi ambient e minimali si colorano di atmosfere jazz.

Questo tentativo di amalgamare il vecchio ed il nuovo ha fatto si che alcuni brani fossero, a volte,proposti in versioni medley. L’esperimento, però, non ha sempre dato i risultati sperati sfociando avolte in sequenze troppo lunghe e ridondanti.

Se una The Scent of Magnolia apre molto bene il concerto, la versione japaniana di Ghost, risul-ta priva dell’antico patos. Ad ogni modo la classe fascinosa e catalizzatrice dell’artista è riuscita adarginare agevolmente questi frangenti regalando comunque al pubblico momenti di profondità ini-mitabili. Solipsistico autocompiacimento? No, è solo il prezzo da pagare alla costante ricerca di unartista che vuole rimanere integro, senza abbassarsi mai a «progetti lets dance».

«Il pop è ripetizione. Se andassi sempre nella stessa direzione impazzirei; mi sento come un albe-ro che deve cambiare le foglie, la mia strada è la sperimentazione, qualcosa di minimale ma altempo stesso sostanzioso. Ciò che faccio oggi è rinunciare a un grosso pranzo per fare un ottimobreakfast»». E noi tutti gliene saremo per sempre grati.

Eugenio Vicedomini

DAVID SYLVIANThe River of Constant Change

MA È UN FIUME IN PIENA

IL TEATRODEGLI ORRORI

Ecco l’angoscia umana in cui lo spettatoredovrà trovarsi uscendo dal nostro teatro. Eglisarà scosso e sconvolto dal dinamismo internodello spettacolo che si svolgerà sotto i suoiocchi. E tale dinamismo sarà in diretta relazio-ne con le angosce e le preoccupazioni di tutta lasua vita... Egli deve essere ben convinto chesiamo capaci di farlo gridare (Antonin Artaud,«Il teatro e il suo doppio»).

Il Teatro Degli Orrori prende il nome propriodal Teatro delle Crudeltà di aurtaudiana memo-ria proponendosi presto come una delle realtàmusicali nazionali attualmente più interessanti.La formazione nasce all’inizio del 2005 e solodopo ben due anni di provedà vita a «Dell’Impero DelleTenebre», debutto discografi-co che rivela ben presto lasottigliezza e il genio delaband. Registrato e mixatodallo stesso Giulio al BloccoA di Padova e al NaturalHead Quarter di Ferrara neimesi di Novembre eDicembre 2006 e Gennaio2007, il disco esce il 6 aprileper l’editore Tempesta e

viene distribuito da Venus. 12 tracce di rock moderno ed alternativo, con

un occhio agli amori di sempre (Scratch Acid,Jesus Lizard, Birthday Party, Melvins) e unoalla tradizione tipicamente italiana (da DeAndrè a Carmelo Bene) fanno di questo discoqualcosa di veramente raro ed inedito grazieall’effetto singolare e spiazzante del contrastofra asprezza, potenza e violenza dei suoni e uncantato tradizionale italiano ricco di fascino eromanticismo.

GIOSA

NEGRAMAROcome il vino

PPPPOOOOPPPPCCCCKKKKpop&rock

Foto di DAVIDE SUSA