MORTE SENZA FINE

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Un thriller adreanlinico che tiene col fiato sospeso dalla prima all'ultima pagina, in un susseguirsi di colpi di scena. di J.P. Marshall

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J.P. Marshall

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I edizione: maggio 2011 II edizione: settembre 2011 © 2010 La Corte Comunication Via Paolo Regis 44, Chivasso (To) Tutti i diritti riservati La Corte Editore è un marchio La Corte Comunication Progetto Grafico: La Corte Editore Realizzazione copertina: CC di Paulo Barcellos Jr ISBN 978-88-96325-08-7 Finito di stampare nel mese di settembre 2011 presso lo stabilimento grafico Impressioni Grafiche di Acqui Terme per conto di La Corte Comunication

www.lacorteditore.it

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A chi mette la spazzatura nella pattumiera.

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Ogni riferimento a cose, luoghi e persone è puramente casuale e

usato esclusivamente a scopi narrativi.

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PROLOGO La notte in cui Mary Keller sarebbe morta, la pioggia sembrava volesse sfon-

dare il manto stradale, il vento aveva abbattuto un vecchio albero di periferia, il freddo aveva ripulito interi quartieri dai barboni.

Aprì gli occhi. Dove... dove sono? Cosa mi è successo? Mio Dio! Seduta sul pavimento, schiena appoggiata alla parete, gambe libere. Polsi legati

a due anelli di ferro posti sopra la testa. Corde così strette da provocare abrasioni e ostacolare la circolazione.

Qualcuno deve avermi colpita a tradimento! Chi è stato? Muscoli indolenziti, gola secca, forte voglia di piangere. In balia della dispera-

zione, cercò invano di liberarsi. È così freddo e buio! Il sapore del bavaglio donava un senso di nausea. Le narici erano piene di mu-

co pronto a esplodere. Perché mi trovo qui? Cosa mi accadrà? Mi uccideranno? Quando la porta si aprì di scatto, il cuore le balzò in gola e la luce la colpì in

pieno volto. Rischio di essere soffocata dal mio stesso vomito! Rialzò le palpebre. Sulla soglia c’era qualcuno troppo lontano per distinguerne

i lineamenti. Chi sei? Dopo un istante interminabile, l'uomo iniziò a camminare. Il rumore dei passi

rimbombava nella mente di Mary come un martello pneumatico. Era terrorizza-ta.

Signore, ti prego, salvami! Aiutami! Non voglio morire! Tentò ancora di liberarsi. Mosse la testa in modo ossessivo. Cosa farà mia sorella senza di me? Avrebbe voluto urlare con tutto il fiato che possedeva. Le lacrime scorrevano

copiose sulle guance quando lui la raggiunse. Ti imploro! Fece un assurdo tentativo di togliersi il bavaglio. Se avesse potuto parlare, for-

se l'avrebbe convinto a non farle del male. Gli avrebbe chiesto cosa volesse da lei. Forse c'era stato uno scambio di persona.

Biascicò la parola "pietà". Lo sguardo dell'aguzzino era gelido. Avvicinò una mano al bel viso della gio-

vane, che si ritrasse. Una macchia comparve sui pantaloni all’altezza dell’inguine. Ti prego!

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L’uomo le asciugò una lacrima e le accarezzò i capelli neri con tenerezza. «La morte è un lusso che molti dovrebbero permettersi!» disse. E sorrise.

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PARTE PRIMA

PIOGGIA ROSSA

Colpisci in maniera che quello si accorga di crepare. Caligola

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1 Nonostante la pioggia rendesse precaria l'aderenza all'asfalto, l'auto sfrecciava

a gran velocità, come se alla guida ci fosse un angelo ribelle timoroso di Dio an-ziché un uomo con una fretta del diavolo.

Il detective di primo grado Mark Norton, cento per cento dei casi risolti, odiava guidare in condizioni di scarsa visibilità. Né amava il parco macchine del Dipar-timento, costituito in gran parte da mezzi vecchi e malandati. Qualcuno aveva dimenticato di stanziare i fondi per sostituirli.

Era un uomo alto e atletico, dai lineamenti regolari. Esibiva capelli neri che pettinava spesso malgrado fossero corti. Gli occhi neri come il carbone avevano la capacità di mettere in soggezione i suoi interlocutori.

Accanto a lui il parigrado David Moose, non esattamente amante degli impre-visti, mostrava evidenti segni di impazienza.

Era più giovane di qualche anno. Faticava a tenere fermi i folti capelli castani. Gli occhi azzurri brillavano di una luce inquieta e tormentata.

Gli impermeabili marroni che indossavano non erano il massimo perché non ponevano l'eleganza tra le priorità. Ma era fondamentale l’uguaglianza di vedute sui metodi da adottare per svolgere al meglio il proprio dovere, altrimenti non avrebbero potuto lavorare insieme.

L'orologio digitale sul cruscotto segnava le tre di notte. Moose prese una sigaretta. «Non fumare qui dentro» disse Norton con tono perentorio. Moose, indispettito, ripose la sigaretta nel pacchetto. «È stato Rhodes a chiamarti?» «Chi altri?» «Ero con una donna quando hai telefonato. Non potevano mandare qualcun al-

tro?» «È nostro dovere rispondere alle chiamate.» «Da un grande potere derivano grandi responsabilità.» «Questa l'ho già sentita.» «Spider-Man è il personaggio più improbabile che esista.» «Perché?»

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«Nessuno può avere una donna come la sua e passare le notti a salvare il mon-do!»

«Sono assolutamente d'accordo.» L’auto attraversò l’ultimo incrocio ed entrò in una zona industriale. Quasi tutti

gli edifici ospitavano impianti per la lavorazione dei metalli. A vederli dall'ester-no non sembrava un settore molto redditizio. Il veicolo imboccò una stradina la-terale piena di pozzanghere, superò un vecchio cimitero e si fermò nei pressi di una discarica abusiva.

I detective indossarono i cappelli marroni e scesero. «La vita è una merda.» proclamò Moose. «Poi si muore e si va all'inferno per

l'eternità.» «Viva l’ottimismo. Cosa c’è?» «Ho un buco nella scarpa. È entrata l’acqua.» «Fa piacere lavorare con uno che non si lamenta mai: sei peggio dell'AIDS!» «Non adularmi.» Videro una luce agitarsi nell'oscurità. «Da questa parte» urlò un uomo. Norton e Moose lo raggiunsero e gli mostrarono i distintivi con la stella dorata. «Agente Smith, del Distretto Generale.» Smith, entrato in polizia con l'inten-

zione di cambiare il mondo salvo poi capire quanto fosse ingenuo, scrisse su un taccuino i nomi dei detective e i numeri dei distintivi per l'aggiornamento della cronologia degli eventi. «Eravamo nei pressi quando ci hanno contattato. Siamo arrivati subito.»

«La Scientifica e il coroner?» chiese Norton. «Saranno qui tra poco.» «Chi l'ha rinvenuto?» «Un barbone che cercava riparo dalla pioggia. Ha chiamato appena ha trovato

una cabina telefonica.» «Dov'è adesso?» «In auto con il mio collega.» «Solo voi due siete entrati lì dentro?» «Sì. Il barbone aveva lasciato la porta spalancata. L'ho richiusa per non alterare

la temperatura e l'umidità all’interno della baracca.» Moose tirò fuori un pacchetto da una tasca dell’impermeabile. Come prevede-

va la procedura, i tre indossarono guanti di lattice e copriscarpe di plastica mo-nouso. Armati di torce elettriche, raggiunsero la costruzione.

Smith si fermò sulla soglia. «Cosa c'è?» domandò Moose. «Ecco... non è un bello spettacolo.» «Da quanto tempo sei in servizio?» chiese Norton.

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«Tre mesi.» «Ti ci abituerai. O ci si abitua o si muore. Sai quanti sbirri si suicidano ogni

anno negli Stati Uniti? Troppi!» «È nella seconda stanza» borbottò Smith. I tre entrarono nella baracca. L'odore degli escrementi e dell'urina dei cani ran-

dagi era quasi insopportabile. A destra alcune lamiere disposte alla rinfusa. A si-nistra due sedie rotte, uno stereo e un frigorifero. Il pavimento fangoso era regno incontrastato di pezzi di vetro, scatole di cartone, libri, pneumatici, coperte e og-getti di ogni tipo. Non si poteva camminare senza guardare in basso. C’erano ra-gnatele ovunque. Un topo sparì dentro uno scatolone con un balzo.

«Come trovi l'arredamento?» domandò Norton. «Spumeggiante» rispose Moose. Badando a non sporcarsi e seguendo il percorso di Smith, i detective entrarono

nell'altra stanza. Era piena di cavi elettrici, assi di legno, radio, borse, valigie, un termosifone e molte altre cose. Il vetro della finestra era opaco a causa della pol-vere depositata.

Al centro del pavimento, in posizione supina, c’era il cadavere di una donna. Aveva la temperatura dell'ambiente esterno e la putrefazione non era ancora i-

niziata. Sul dorso presentava delle macchie rosso-vinose. Mora, di razza bianca, corporatura media, braccia distese lungo i fianchi, mani chiuse a pugno, gambe serrate, bulbi oculari flaccidi, cornea opacata, labbra dall’aspetto pergamenaceo, mandibola serrata, collo rigido. Le ferite di colore rossastro, presenti ovunque tranne che sulla testa, avevano margini irregolari, escoriati e infiltrati di sangue.

Norton si chinò sul corpo e si guardò intorno per cogliere una visione d'insieme della scena del crimine.

«Sembra che abbia incontrato il diavolo in persona.» «Sbaglierò, ma non deve averle fatto una buona impressione» osservò Moose. «È morta da parecchie ore. Ma non è stata uccisa qui: non c’è abbastanza san-

gue.» «Che arma ha usato il bastardo?» «Credo un corpo contundente. L’ha picchiata con furia animale. Chiunque sia

stato si è divertito parecchio.» «Tremo al pensiero di raccogliere le deposizioni degli abitanti di questo leta-

maio.» «Non saranno di alcuna utilità. Nessuno avrà visto o sentito nulla. C'è molta

paura in giro.» «L'ondata di crimini che ha investito la città nell'ultimo anno non ha preceden-

ti.» «Appena farà giorno cominceranno ad arrivare i curiosi» osservò Smith.

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«Se è furbo, l'assassino non sarà tra loro» disse Moose. «Tuttavia li faremo fo-tografare. Non si sa mai.»

«Come ci dobbiamo comportare con gli sciacalli della stampa?» «Fosse per me, li fucilerei tutti» rispose Norton. E aggiunse: «Se valessero la

spesa di una pallottola.» «Considerando le modalità del delitto, ci andranno a nozze» sentenziò Moose. «Mi raccomando, per quanto ovvio sia, ricordatevi di omettere dei particolari

nei comunicati che rilascerete. Servirà a riconoscere i mitomani.» Poco dopo arrivò la Crime Scene Unit. Avrebbe bloccato tutte le strade di ac-

cesso alla zona tranne una, recintato l’area intorno alla baracca con paletti e na-stro giallo, e fissato la scena del crimine mediante squadre di intervento specia-lizzate.

Moose disse a Smith: «Segna l’ora e i nomi delle persone che entrano. Assicu-rati che siano autorizzate dal capo della Scientifica.»

2 Anche sotto la pioggia scrosciante il rispetto della distanza di sicurezza rima-

neva il punto debole della guida di Anthony Corrigan, forse perché non era mai stato coinvolto in un incidente stradale degno di essere ricordato. La prontezza di riflessi e le ottime condizioni dei freni si erano sempre rivelate provvidenziali.

Portava i capelli neri con la riga a sinistra fin da quando era bambino. Gli occhi verde smeraldo addolcivano la mascella squadrata. Aveva una massa muscolare degna di nota. Si teneva in forma correndo tutti i giorni, eseguendo flessioni e al-tri esercizi ginnici.

Indossava un impermeabile nero molto costoso. Negli ultimi anni aveva svi-luppato una spiccata predilezione per i colori scuri e gli abiti firmati.

Ted, seduto a fianco, era un ragazzino allegro, intelligente e vivace. Di quasi dodici anni, amava la vita e rispettava i genitori. Restio a eseguire alcuni ordini, come allacciare la cintura di sicurezza o chiudere le portiere senza sbatterle, era sempre pronto ad aiutare gli altri.

I capelli castani presentavano un vistoso ciuffo e gli occhi azzurri erano pro-fondi e curiosi.

Indossava una maglia di lana fatta a mano, un paio di blue jeans e un cappelli-no da baseball di cui andava orgoglioso. Il suo zaino mostrava i personaggi Di-sney che più apprezzava: Topolino e Paperino.

«Quando smetterà di piovere, papà?» «Le previsioni dicono che domani tornerà il sereno.» «Speriamo. Non mi piace la pioggia. Non posso andare fuori a giocare.»

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«Fa comunque troppo freddo per uscire.» «Ho anche tanta fame.» «Fra poco saremo arrivati.» Anthony scalò la marcia per superare una curva. «Com'è andata a scuola?» «Bene.» Ted si sistemò i capelli e alzò il tono di voce. «L'insegnante di inglese

si è sentita male e non abbiamo fatto lezione!» Il padre gli lanciò uno sguardo di rimprovero. «Non parlare così, Ted.» «Dai pa’, non ti arrabbiare, non è niente di grave. Ci manderanno una supplen-

te.» «Perché non vi hanno fatto uscire prima?» «Dicono che è contro il regolamento della scuola.» Anthony accese la radio e ascoltò le notizie trasmesse da una stazione locale.

Poi la spense. «Cosa studierai questo pomeriggio?» «Matematica. Mi piace come materia.» «Se ricordo bene, il tuo compagno di banco ha gusti diversi.» «A Bob piace la storia americana. Conosce a memoria i nomi di tutti i presi-

denti in ordine cro...» «Cronologico» lo soccorse Anthony. «Anche tu dovrai impararli.» Il veicolo svoltò a destra, percorse una stradina e si fermò in aperta campagna

davanti a una casa a tre piani, tetto d'ardesia e pareti bianche. A circa mezzo chi-lometro scorreva un ruscello, che d’estate diventava poco più di un rigagnolo. Un ponticello di legno consentiva di raggiungere l'altra sponda.

Sulla soglia apparve Lucy. I lunghi capelli biondi esibiti con una frangetta a-simmetrica e gli occhi blu marino la rendevano sensuale oltre il livello di guar-dia.

«Ciao, mamma» disse Ted scendendo dall’auto. Lucy ricambiò il saluto e lo baciò su una guancia. «Cos’hai preparato di buono?» «Lasagne al forno e pollo con patate e rosmarino.» «Fantastico!» esclamò Ted entrando in casa. Anthony notò una punta di tristezza sul volto della moglie. «Cosa c'è?» Gli mostrò una lettera e disse: «È arrivata questa mattina.» Anthony lesse il messaggio:

Sei una lurida puttana da quattro soldi.

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Il volto di Anthony si fece duro, ma si sforzò di rassicurare Lucy. «È solo uno scherzo di pessimo gusto.» «Lo credo anch'io.» «Ma se scopro chi è l'autore, gli farò passare la voglia di scherzare una volta

per tutte.»

3 Finalmente aveva smesso di piovere e la temperatura era salita di due gradi. La

grande città appariva meno spettrale, ma le pattuglie della polizia presenti nei quartieri ricchi ricordavano che era in corso una guerra non dichiarata.

Katherine Sears, donna intelligente e splendida, era dal parrucchiere di fiducia per la consueta seduta settimanale. Durante le operazioni fu irritata dai pettego-lezzi che le clienti incartapecorite dispensavano con generosità.

Aveva molti corteggiatori ma nessun compagno. Le piaceva sentire gli sguardi degli uomini su di sé. Coltivava un buon rapporto col proprio corpo. Sapeva di avere fascino e come valorizzare la sua bellezza. Era indipendente e fiera di es-serlo.

Cris Barrow, seduto su una panchina intento a divorare una ciambella con glassa e canditi, dava l’impressione che non avesse mai mangiato. Era un tipo basso e magro, con pochi capelli, invecchiato precocemente. La bocca era un di-sastro totale: tre denti cariati, due capsule e diverse otturazioni al mercurio. Una tarantola tatuata sul polso sinistro rivelava che aveva fatto parte della tipica ban-da di criminali di mezza tacca. Gli orecchini di serie B non erano l’unica merce rubata che indossava.

Odiava fare il meccanico e aveva bisogno di una pausa. Non sopportava i clienti, né gli piaceva indossare una tuta sporca d'olio. Spesso fantasticava di uc-cidere il principale, rubare i soldi contenuti nella cassa e poi dare fuoco a tutto. Che spettacolo magnifico sarebbe stato!

Barrow vide Katherine mentre usciva dal parrucchiere. Rimase colpito dall’avvenenza, dalla grazia dei movimenti, dalle gambe torni-

te, dal seno prosperoso, dalle labbra carnose. Un impulso intenso gli disse di se-guirla. Non poteva né voleva sottrarsi.

Era scattato il meccanismo. Quel quartiere era molto animato. C'erano negozi per tutti gusti, per tutte le ne-

cessità e per tutte le tasche. Soprattutto ospitava compagnie assicurative, locali esotici, librerie, enoteche e boutique di alta moda.

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Camminando di buona lena, Katherine entrò in un bar e ordinò una tazza di quella brodaglia che gli americani hanno il coraggio e la spudoratezza di chiama-re "caffè". Non affrontava mai la giornata senza una buona dose di caffeina.

Barrow avrebbe voluto udire la sua voce: pensava fosse dolce. Avrebbe voluto spogliarla, baciarla, leccarla.

E poi il resto. Katherine si sedette a un tavolino vicino all’entrata. Aprì la borsa e prese uno

specchietto ovale. Decise che non era necessario rifinire il trucco. Barrow osservava la donna come il leone osserva la gazzella. Si augurò che

non stesse aspettando qualcuno e che vivesse da sola: un ostacolo da eliminare gli avrebbe fatto perdere tempo.

Katherine uscì dal bar e iniziò a camminare in direzione del Thomas Jefferson Park. Si soffermò a guardare una vetrina di un negozio di abiti femminili. Espo-neva un’ampia scelta di creazioni di stilisti europei. I modelli apparivano confor-tevoli e impeccabili. In particolare, c’era una gonna adorabile. Entrò nel negozio e chiese di provarla.

Barrow entrò in fibrillazione immaginando Katherine che si spogliava. Il batti-to cardiaco accelerò. Iniziò a sudare. Peccato che non fosse né il posto né il mo-mento giusto. Estrasse un punteruolo di ferro da una tasca e iniziò a colpire con violenza il palmo della mano sinistra: un metodo per non esplodere consigliato da un compagno di cella. Il palmo diventò una grossa piaga sanguinante: meglio questo che tornare in carcere.

Katherine uscì dal negozio con la nuova gonna da duecento dollari e salì su un autobus sporco e affollato. Per farsi spazio Barrow spinse un bambino in malo modo. I corpi dei viaggiatori premevano gli uni contro gli altri. Essendo alcune linee soppresse per motivi di bilancio, i trasporti pubblici erano il luogo migliore per sentire la puzza di sudore e l'alito cattivo del prossimo, nonché i lamenti dei vecchi che non avevano trovato posto a sedere. Dopo un percorso lungo e tortuo-so, Katherine scese dal veicolo. Pochi minuti ed entrò in casa.

Barrow avrebbe continuato a spiarla, ma non voleva rischiare di farsi scoprire. Finora era stato abile e non voleva rovinare tutto. Aveva visto la tana della nuova preda e doveva solo attendere. Certo, non era semplice tenere a bada il demone che albergava dentro di lui, ma non avrebbe potuto aspettare troppo.

Aveva notato due cose: l’abitazione era isolata ed era modesta, per cui quasi sicuramente mancava l'allarme antifurto e lui avrebbe potuto agire indisturbato.

Guardò sull'orologio i secondi che lo separavano dalla festa.

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4 La George Washington School era ubicata in un enorme edificio, dotato di

strutture moderne e di misure di sicurezza restrittive. Ogni giorno oltre seicento studenti la raggiungevano con vari autobus e occupavano trenta aule spaziose e soleggiate.

La classe di Ted, costituita da venti alunni equamente ripartiti tra i due sessi, era quella che faceva impazzire tutti i professori a causa della presenza di Kevin Monroe, due volte ripetente e con uno strano problema che gli aveva fatto perde-re tutti i capelli. Nonostante questo, era più alto, più robusto e più forte di tutti i suoi compagni. E, soprattutto, era più cattivo. Per lui ogni occasione era buona per insultare, picchiare o umiliare qualcuno, e nei suoi compagni di banco, i fra-telli Denzel e Jared Brolin, aveva trovato delle spalle ideali.

Ted, Bob e Glory erano seduti in prima fila. Bob portava i capelli a caschetto. Era alto per la sua età e aveva un'intelligenza

vispa. Suo padre era svanito come neve al sole quando aveva solo due anni. Nes-suno sapeva che fine avesse fatto.

Bob e Ted avevano subito legato e, per quanto potesse sembrare strano, non avevano mai bisticciato. Condividevano i gusti in fatto di musica e si scambia-vano i fumetti per spendere meno soldi. A Ted piaceva la collezione di conchi-glie della madre di Bob e quest’ultimo apprezzava la cucina di Lucy.

Glory invece era la ragazzina più carina dell'intera scuola. Aveva lunghi capelli castani con la riga in mezzo e occhi azzurri. Grazie alla madre vestiva in maniera più ricercata rispetto alle ragazzine della sua età. Il suo sorriso irradiava un’allegria infinita. Si spegneva solo quando ripensava al padre morto di cancro qualche anno prima, ma Ted era sicuro che non ci fosse niente di più bello. I tre costituivano un gruppo affiatato fin dalle elementari e spesso studiavano insieme.

Quando la docente di matematica terminò di spiegare la lezione, Ted chiese il permesso di uscire e si alzò. Non riuscì a raggiungere la porta che Kevin lo man-dò a gambe all'aria facendogli lo sgambetto. Iniziò a ridere, spalleggiato dagli amici.

«Hai bevuto per caso? Guarda dove metti i piedi!» L'insegnante ammonì Kevin, ma a lui continuò a sghignazzare. Ted, nonostante la differenza di età si rialzò da terra con la voglia di fargliela

pagare, ma Bob, con la preoccupazione dipinta in volto, gli fece cenno di no con la testa.

Così fece un respiro profondo e si limitò a dire: «Scusa Kevin, non volevo spettinarti.»

La battuta di Ted scatenò l'ilarità dell'intera classe. Persino la docente dovette sforzarsi per non ridere.

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Con grande sorpresa dei fratelli Brolin, Kevin non reagì. Non era un fulmine di guerra, ma non era nemmeno stupido. Se avesse messo le mani addosso a Ted davanti all'insegnante, sarebbe stato espulso dalla scuola. E suo padre, l'unica persona al mondo in grado di incutergli paura, non l'avrebbe presa bene.

Avrebbe dovuto rimandare la sua vendetta. Ted lasciò l'aula e raggiunse il bagno. Non era la prima volta che Kevin lo metteva in imbarazzo davanti a tutta la

classe. E lo stesso trattamento lo riservava a Bob. In effetti a Kevin piaceva mol-to Glory, ma lei non se lo filava e preferiva la compagnia di Ted e Bob. Per que-sto non perdeva occasioni per attaccarli.

Quando Ted tornò a casa triste e arrabbiato, trovò i genitori ad attenderlo sulla soglia.

«Abbiamo una sorpresa per te» annunciò Lucy. Lo sguardo del ragazzino si illuminò. «Davvero? Che cos'è?» «Ora vedrai» disse Anthony. Aprì la porta di casa scoprendo uno splendido cucciolo di pastore tedesco. Era un cane a pelo corto, dal mantello nero con focature rosso-brune, e un mu-

so che trasmetteva un’infinita tenerezza. Ted non riusciva a credere ai propri occhi. Lo prese in braccio e lo accarezzò. Il

cucciolo iniziò a leccargli il volto. «Che bello, che bello, che bello! Mi avete fatto uno splendido regalo! Grazie

mille.» «Devi decidere come chiamarlo» disse Lucy. «Jolly» lo battezzò Ted.

5 La sede del Dipartimento di Medicina Legale era in un vecchio palazzo vicino

al Distretto Generale. Norton e Moose vi entrarono senza troppe aspettative. A-vevano l'impressione che il caso fosse difficile da risolvere e che la Scientifica e la medicina legale non sarebbero state di grande aiuto. Raggiunsero il sotterraneo con un ascensore che sembrava volersi guastare da un momento all'altro. Percor-sero un corridoio deserto, illuminato dalla fioca luce dei neon. Il rumore dei passi produceva un'eco sorda.

«La senti la puzza di morte?» chiese Moose. «Sì.» «Fuori di Testa avrà finito?»

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«Credo di sì. Ricordati che ama il suo lavoro e non dimenticarti che tipo di per-sona è.»

«Già. So che vuole ordinare una bara di zinco, come se dovesse morire doma-ni. Dice che è importante.»

«L'importanza di una bara dipende dal lato da cui la si guarda.» Bussarono a una porta sulla destra. Una voce roca li invitò a entrare. La stanza delle autopsie era enorme: tre tavoli di acciaio inossidabile con cana-

line di scolo ai lati, lampade di elevata potenza, macchine fotografiche, macchi-nari per eseguire radiografie e TAC, strumenti taglienti, bilance, siringhe, micro-scopi, due lavandini e altre diavolerie. Un’intera parete ospitava le celle frigorife-re per i cadaveri di passaggio.

Il medico legale Ron Nelson, figura minuta, capelli grigi, denti ingialliti, volto devastato dalle rughe e pessimo dopobarba, era seduto lontano dall’ingresso. Come d'abitudine, stava sgranocchiando una barretta di cioccolato fondente.

«Vi stavo aspettando» disse. «Hai fatto il tuo dovere?» domandò Moose. «Da bambino, la maestra mi chiese cosa volessi fare da grande. Io risposi:

"Voglio sezionare cadaveri. Devo solo decidere se farlo al di sopra o al di sotto della legge". Da quel momento la maestra non mi chiese più niente.»

«Chissà perché» proferì Norton. «Cos'hai concluso?» Nelson si alzò e raggiunse i detective. «Considerando il raffreddamento, la rigidità, le macchie ipostatiche e la con-

centrazione di cloruro di potassio nell’umor vitreo, la morte risale a circa venti-quattr’ore prima del ritrovamento. Tenete presente che c'è un margine di errore di almeno quattro ore. Ancora un po’ e le prime mosche avrebbero iniziato a de-porre le uova. La posizione delle ipostasi rivela che il cadavere non è stato spo-stato.»

«L'arma del delitto?» «Forse un bastone di legno. L'assassino ha sferrato con furia ventisette colpi. In

massima parte le ferite sono lacero-contuse, ma non mancano lussazioni articola-ri e fratture scheletriche. Queste ultime sono circoscritte, per cui l'arma aveva una superficie stretta e limitata. La vittima ha le braccia e le gambe rotte. È morta per emorragia interna causata dalle lesioni degli organi.»

«Non c'è che dire: un gran bel modo per andarsene.» «C'è un particolare divertente.» «Quale?» «La testa non presenta ferite. L'assassino non voleva che il sollazzo finisse pre-

sto. Credo sia rimasto a guardare la donna mentre agonizzava. L’analisi delle do-cimesie dimostra che la morte è stata lenta. Ha impiegato più di dieci minuti a ti-rare le cuoia.»

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«Ci sono ferite post mortem?» Nelson inarcò un sopracciglio. «Che gusto c'è a picchiare un morto?» «Era legata?» «Non ho rilevato abrasioni ai polsi e alle caviglie. Infatti la vittima ha cercato

di difendersi. Il medio e l'anulare della mano destra e il pollice della mano sini-stra sono spezzati. Forse essere rapita, brutalizzata e uccisa a bastonate non era proprio il massimo delle sue aspirazioni!»

«Sì» rincarò la dose Moose. «Sono quasi sicuro che ci siano sistemi migliori per passare il tempo!»

«Simpatici. Voi due dovreste andare in televisione. Ha subito violenza sessua-le?»

«No. E non ho trovato tracce di sperma sui vestiti. Dopo averli esaminati, li ho spediti al laboratorio di merceologia.»

«Residui di cibo nello stomaco?» «Nessuno. Quindi al momento della morte erano passate almeno tre ore

dall’ultimo pasto.» «Sostanze estranee nel corpo?» «Le analisi effettuate finora non hanno rivelato nulla. I risultati complessivi del

test tossicologico arriveranno tra una settimana.» «Ci sono impronte digitali sul cadavere? Tatuaggi? Segni di morsi? Anomalie

dei denti?» Nelson scosse la testa. «Niente di niente.» «Hai trovato capelli, peli, sangue non appartenente alla vittima? Lembi cutanei

sotto le unghie?» «No. Anche terriccio e liquidi organici sono del tutto assenti. C'era solo un po'

di polvere che ho spedito per l'analisi al laboratorio di chimica. Non credo vi sarà d'aiuto.»

«Cos'altro puoi dirci?» «C'era una scheggia di vetro in una ferita da taglio sotto la spalla destra. Sup-

pongo che il resto sia poco importante. Comunque è tutto scritto nel referto. Ora ve lo prendo.»

Nelson si avvicinò al lavabo e iniziò a lavarsi le mani sporche di cioccolata. «Signore onnipotente!» esclamò. «Cosa c'è?» chiese Norton. Il patologo mostrò il sapone. «Made in Auschwitz!»

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Moose impiegò tre minuti per smettere di ridere. Era davvero Fuori di Testa. Non aveva rispetto per niente e per nessuno. E non era possibile rimanere indif-ferenti al suo cinico umorismo.

6 Il capitano Rick Adams spense il sigaro nel posacenere di alabastro sulla scri-

vania del suo ufficio. Aveva la tendenza a camminare curvo e a toccarsi i baffi. Negli ultimi anni aveva messo un po' di pancia a causa della passione smodata per i dolci.

Era famoso per essere un poliziotto serio e impeccabile, pignolo e intransigente sulle regole. Pretendeva il rispetto certosino della procedura da parte di tutti i sot-toposti. Questo atteggiamento aveva causato diversi alterchi in passato, special-mente con Norton. Lui riteneva un problema la mancanza di elasticità mentale del capitano.

Era difficile non notare il suo nervosismo. Le forze dell’ordine erano sotto ac-cusa a causa dell'aumento dei reati violenti. Un delitto efferato, seppur non raro, scatenava sempre la stampa. E Adams odiava la stampa. Considerava i giornali-sti gente abituata a nuotare nella merda da loro stessi creata. Provava un sottile piacere quando i fatti dimostravano che aveva ragione. Il che accadeva spesso!

Il tenente Frank Rhodes, invece, era uno spilungone a cui la palestra non era servita a molto. Aveva subito un trapianto di capelli e un intervento di rinoplasti-ca per eliminare il gibbo del naso.

Cattolico praticante, da bambino aveva frequentato l'oratorio con grande entu-siasmo. Da ragazzo aveva fatto il chierichetto nella parrocchia del quartiere, do-ve anni dopo avrebbe conosciuto sua moglie. Quale membro di spicco della co-munità, organizzava spesso raccolte di fondi per beneficenza. Solo la mancanza di tempo gli impediva di prestare attività di volontariato in favore dei cittadini più sfortunati.

Norton e Moose si chiedevano quando il capitano avrebbe preso la parola. «Non c'è bisogno che vi dica che abbiamo i riflettori puntati addosso» esordì

Adams. «Mi aspetto da tutti il massimo impegno. Voglio chiudere l’indagine al più presto. Qual è il quadro della situazione?»

«La vittima non aveva documenti» rispose Norton. «Stiamo controllando vari database, tra cui quello delle persone scomparse. Verificheremo se esistono pre-cedenti penali.»

«La baracca dove è stato ritrovato il corpo è piena di impronte e mozziconi di sigaretta lasciati dai barboni di periferia» continuò Moose. «Abbiamo portato al laboratorio tutti gli oggetti che conteneva. Anche se il luogo del ritrovamento

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non è quello dove è stato commesso il delitto, la speranza che salti fuori qualcosa c'è sempre. Sarà un lavoro lungo. Sembra che ogni cittadino abbia usato quel tu-gurio come pattumiera.»

«Gli animali randagi e chi ha scoperto il cadavere hanno influito sulla scena del crimine?» chiese Rhodes.

«Riteniamo di no.» Adams incrociò le braccia. «L'arma del delitto?» «Non l'abbiamo trovata» rispose Norton. «Stiamo ancora setacciando la zona e

la discarica. Fossi in voi non mi farei troppe illusioni. Dubito che l'assassino l'ab-bia abbandonata nelle vicinanze.»

«Forse l'ha conservata in previsione di un ulteriore utilizzo» intervenne Moose. Rhodes si agitò sulla sedia. «Pensate che sia un serial killer?» «Sul campo ci sono varie ipotesi di lavoro, tra cui il regolamento di conti e l'o-

micidio su commissione» rispose Norton. «Però la ferocia dell'esecuzione fa pensare a un maniaco. Questa è l’ipotesi peggiore: se l'ha fatto una volta, può far-lo ancora.»

«Prego che non sia così» osservò Adams. «Avete letto i quotidiani? Lo chia-mano il Rottamatore.»

«I giornalisti hanno una fantasia straordinaria» ironizzò Moose. «Testimoni?» «Nessuno» rispose Norton. «La zona non è neanche illuminata. In compenso,

come sempre, ci sono parecchi mitomani. Abbiamo segnato le marche e i numeri di targa dei veicoli parcheggiati in zona. Stiamo controllando se i proprietari ab-biano avuto guai con la giustizia.»

«Ci sono impronte di pneumatici vicino alla baracca?» domandò Rhodes. «No. Il killer ha fermato l’auto sulla strada asfaltata e ha trasportato il cadavere

in braccio, probabilmente avvolto in un telo di plastica. Sull’asfalto ci sono di-verse impronte di gomme, ma non servono a niente perché sono confuse e pos-sono appartenere a veicoli estranei.»

«Impronte di calzature?» chiese Adams. «Quelle esterne alla baracca sono state cancellate dalla pioggia. All'interno ne

abbiamo trovato anche troppe e sono inutili. L’interno dell’auto dell'assassino si sarà sporcato di fango, ma se è intelligente avrà già fatto pulizia.»

«Di bene in meglio!» commentò Rhodes. «Sarebbe opportuno assegnare al caso altri detective» propose Moose. «Purtroppo non è possibile» rispose Adams. «Sono tutti impegnati fino al col-

lo. Dovrete cavarvela da soli.» «Almeno non rischiamo di perdere il posto.»

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«Andate a stanare il nostro amico. Tenetemi informato in tempo reale di ogni novità di rilievo.»

Norton e Moose si alzarono. «Un'altra cosa» disse Adams a Norton. «Ti ricordo che in ben due occasioni

hai rischiato di finire davanti alla Disciplinare per un'interpretazione disinvolta delle regole e per un uso eccessivo della violenza durante le operazioni di polizi-a. Ora vedi di rigare dritto.»

«Non preoccuparti: mi conosci.» «Appunto.» In quel momento l'agente Hartnell, capelli ricci e occhi vispi, entrò e disse:

«Abbiamo identificato il cadavere.»