Monologo di un poeta - neobar.files.wordpress.com · papaveri tra i riflessi chiari della mattina...
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Monologo di un poeta
Ditemi, ombre
dove posso trovare una zappa
per dissodare il mio terreno?
Non voglio che le zolle diventino aride.
Indicatemi la sorgente dell’acqua
dove immergere le mie radici.
Berrò a sazietà, berrò con ingordigia
succhierò dalle profondità l’umido
come un cactus in un deserto desolato.
Ditemi, ombre
a che ora fa giorno?
quando potrò dischiudere i miei petali
alla luce e respirare nella clorofilla della follia?
Lasciatemi ora, lasciatemi riposare
in un sonno rigenerante di vigore e di quiete:
all’alba sorgerò per dissodare il mio terreno.
Poesia
Vibra in me la poesia:
nei silenzi abissali
tra la salsedine marina
nella quiete del cielo mattutino
urla
disperata
la sua voce di magmatica potenza
poi
fievole filo di fumo
si propaga nell’inchiostro
che pretenzioso si posa
vagante sul foglio bianco
s’intreccia nella mente stanca
sull’animo affannato e confuso
si libra farfalla tra le rondini migranti.
Grano
S’imbiondano i miei occhi
sui campi di grano pennellati dai rossi
papaveri tra i riflessi chiari della mattina
Le mie mani sfiorano il solletico delle spighe
e si arricciano di sensazioni
davanti al nettare volare delle api
Nella semplice e rupestre sembianza
tra luoghi senza mura incatenate
sotto una coperta di solo cielo
la mia anima si libera - arieggiando tra la luce
e capriole a non finire mi abbracciano di gioia
Yin-Yang
Forse è nel silenzio che si ascolta
la musica più sublime
In quel vuoto che avvolge di nuvola
tra la sospensione ansante del respiro
e l’attimo incerto sul bordo del destino
Nella polvere lucente delle stelle
si nasconde il buio del deserto,
zampillano gocce di vita
tra le dune arse dal sole
Si sfiorano i sentieri del domani
nell’apparente conclusione di un percorso.
Germoglio
(sul buddismo e sulla trascendenza dalla materia)
A mio padre
In te, nella tua tomba
mi distesi, padre
e così divenni pietra di cera
e colai goccia a goccia
sullo stelo del fiore appassito
Nel marmoreo tuo profilo dell’oltre
mi ghiacciai di perdenza
e mi gettai nel vuoto
io, aquila senza ali
con gli artigli recisi di rosa e di spine
provai il Nulla e in esso mi dispersi.
Vagai, dunque, per praterie desolate
attraversai nei deserti le tempeste di sabbia
mi arrampicai esitante e affannata
sulle cime innevate
e lì mi posai
per abbeverarmi alle sorgenti della luce.
Mi sciolsi, allora, come la neve
e percorsi i torrenti tramutata in acqua
e nel viaggio mi ritrovai molecola
e poi atomo
e poi ancora soffio
e quando giunsi a valle divenni erba
e – ti vidi – padre
affianco a me, anche tu germoglio
e capii infine
che mai ci separammo.
L’ascesa
Vaghi sentori di luce
baluginano tra i rami intrecciati
Gioca lo scintillio con le
retine assorte in vani pensieri
Si scuotono le folte chiome
al fresco agitarsi del vento
Sussurra il viale sulla strada percorsa
si apre a inchino verso il tratto restante
e
verdeggia orgoglioso nell’attesa.
I viaggi del pensiero
Tra i viali alberati di ricordi
nella danza del vento autunnale
mi trasformo in una foglia gialla
Le luci sospirano di riflessi
nel caldo torpore della memoria
e vaghe sensazioni di piacere
volteggiano tra la mente e il sospiro
I profumi del passato aleggiano nell’aria
e il talco profumato del bagno caldo
avvolge di bianco lo sguardo antico.
Una ruga vedo ora felice nel mio volto,
un segno inciso a fuoco nella pelle
mi abbraccia di tempo con le mani aperte del dare.
Burqa
Nel silenzio si cela
il volto smarrito nel buio
occhi chiari sanguinano lacrime
dietro ad una rete di dolore
e tra la polvere degli uomini cade
il nero mantello dell’orrore
ed esso trascina in sé l’assurdità del mondo
nasconde vigliacco i seni materni
afferra di catene i corpi piagati
dalla spietata stupidità dell’uomo
e tu
donna –vergogna
che di macerie senti il tuo ventre
e nel vuoto aleggiare la tua anima
subisci pietosa il tuo carcere
percorri affranta la tua condanna
e
piangi, piangi silenziosa
per aver messo al mondo
la mano crudele che ti ha ingabbiato.
Amina
Amina guardava sua figlia. La guardava e basta.
Non osava dire nulla.
Non osava fare nulla.
Anche a lei, quando era bambina, fecero la stessa cosa.
Era una tradizione.
Ricordava ancora, come fosse in quel preciso momento, tutto
quello che era successo.
Tutto quello che aveva provato.
La sua famiglia era intorno a lei, mentre una vecchia del villaggio
cantilenava sottovoce preghiere antiche.
La fecero sdraiare su un tavolo. Non sapeva cosa sarebbe successo.
Le avevano detto solo che stava per diventare donna.
Ma Amina era solo una bambina.
Gli occhi di tutti era posati su di lei. Chi taceva. Chi pregava.
La vecchia le legò le mani ed i piedi ai lati del tavolo dopo averle
fatto allargare le gambette magre.
Amina si vergognava.
Perché farla mettere così?
Tutti potevano vederla nel luogo suo più segreto.
Amina piangeva, mentre sua madre la guardava.
La guardava e basta.
Non osava dire nulla.
Non osava fare nulla.
E come un fulmine che squarcia la terra con tutto l’impeto e la
forza che solo la natura può avere Amina si sentì squarciare in
mezzo alle sue gambette magre.
La vecchia continuava. Con una lametta in mano.
Amina urlava.
Amina urlava.
Urlo dopo urlo tutto il suo essere donna venne strappato via. Per
sempre.
Alla fine un ago e un filo per chiudere quasi del tutto la porta di
accesso alla sua verginità.
Amina piangeva.
Non aveva mai provato un dolore così.
Tutti la guardavano, mentre quella vecchia le faceva così male,
mentre le strappava via la sua carne, il suo pudore, la sua dignità.
Tutti la guardavano, mentre quella vecchia la condannava a soffrire
per sempre.
Nessuno diceva niente.
Guardavano e basta.
Era una tradizione.
Dopo di allora Amina non fu più la stessa.
Le avevano detto che stava per diventare donna, ma lei, in cuor
suo, sapeva.
Non sarebbe mai più stata una donna.
Sarebbe stata solo una procreatrice.
Nessun piacere concesso.
Solo un mezzo per soddisfare un uomo che avrebbe dovuto servire
per tutta la vita.
Un uomo che l’avrebbe squarciata come un fulmine squarcia la
terra con tutto l’impeto e la forza che solo la natura perversa e
malvagia può avere.
Amina ricordava e temeva quei momenti di intimità che per lei
significavano una cosa sola: dolore.
Amina ricordava e temeva quei periodi del mese duranti i quali il
suo ventre diventava di fuoco e ogni più piccola cellula tra le sue
gambe sembrava ardere.
Amina era ormai adulta.
Amina era ormai una madre.
Amina guardava ora sua figlia. La guardava e basta.
Non poteva dire nulla.
Non poteva fare nulla.
Ma una lacrima silenziosa scese dai suoi occhi.