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Modulo didattico 1 – Il sistema economico e la sua evoluzione storica Unità didattica 3 – L’evoluzione storica dei sistemi economici Ad integrazione di quanto contenuto nel libro di testo alle pp. 326-344 puoi trovare nelle seguenti dispense degli approfondimenti degli argomenti trattati a lezione. Vengono anche introdotti alcuni concetti di cui si è solo accennato a lezione – la legge della domanda e dell’offerta, il P.I.L., il debito pubblico - e che saranno meglio approfonditi in seconda. Oltre a leggere con attenzione prova ad individuare di ogni pagina la parola od il concetto chiave e prova a rispondere alle domande poste a margine dei principali argomenti. Nel farlo poni a mente non solo ciò che hai già studiato e ciò di cui si è discusso a lezione, ma anche ciò che hai letto sui giornali e sul web, ciò che hai sentito alla radio ed alla televisione o, perché no, durante le discussioni con i genitori o con gli amici. Chissà che la lettura di queste dispense non ti spinga ad ulteriori approfondimenti su internet, in biblioteca, magari durante l’estate! Introduzione l’Europa, gli Stati Uniti e gli altri paesi occidentali industrialmente avanzati, il Giappone. i paesi emergenti (Russia, Cina, India, Brasile, le “tigri asiatiche” Taiwan, Sud Corea, Singapore e Hong Kongi Malesia, Thailandia, Indonesia, Vietnam) o in via di uscita dal sottosviluppo (Messico, Egitto, alcuni paesi africani della fascia del Maghreb) fanno ormai parte di un unico grande mercato globale. Abbiamo visto nella precedente unità didattica quali siano le funzioni dei soggetti economici (imprese – famiglie – Stato), quali siano le relazioni reciproche e cosa significhi per un sistema economico essere “aperto” al resto del mondo, cioè quali siano i rapporti dei soggetti economici con il resto del mondo dal punto di vista reale e dal punto di visto monetario. Abbiamo altresì visto nei due filmati di RAI Educational in cosa consista la terza rivoluzione industriale, quella dell’attuale economia della information technology, di internet e del commercio elettronico, come a partire dai anni ’90 sia nata l’attuale economia globalizzata senza più barriere doganali per le merci ed i capitali. Cosa significhi l’emersione prepotente dei sistemi economici in paesi di recente industrializzazione quali la Cina, l’India, il Messico, il Brasile e tanti paesi altri paesi che cercano di uscire dal sottosviluppo. Le imprese concorrono in uno spazio commerciale che copre ormai gran parte del pianeta e che non è governato dai singoli Stati sovrani ma dalle istituzioni finanziarie e del commercio internazionale. Il Fondo Monetario Internazionale (F.M.I.), la Banca Mondiale e il World Trade Organization (W.T.O) sorvegliano e sanzionano eventuali tentazioni protezionistiche di singoli governi nazionali. Questa configurazione del sistema economico è il frutto dei mutamenti intervenuta nella struttura economica della società, a partire dal basso medioevo, e dell’applicazione delle diverse dottrine e teorie economiche da parte dei governi degli stati nazionali dal XV secolo ad oggi. Nelle pagine seguenti parleremo di alcune tappe fondamentali di tale evoluzione. Kuala Lumpur - Malesia Contestazioni no-global al G20 di Londra del 2009

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Modulo didattico 1 – Il sistema economico e la sua evoluzione storica Unità didattica 3 – L’evoluzione storica dei sistemi economici Ad integrazione di quanto contenuto nel libro di testo alle pp. 326-344 puoi trovare nelle seguenti dispense degli approfondimenti degli argomenti trattati a lezione. Vengono anche introdotti alcuni concetti di cui si è solo accennato a lezione – la legge della domanda e dell’offerta, il P.I.L., il debito pubblico - e che saranno meglio approfonditi in seconda. Oltre a leggere con attenzione prova ad individuare di ogni pagina la parola od il concetto chiave e prova a rispondere alle domande poste a margine dei principali argomenti. Nel farlo poni a mente non solo ciò che hai già studiato e ciò di cui si è discusso a lezione, ma anche ciò che hai letto sui giornali e sul web, ciò che hai sentito alla radio ed alla televisione o, perché no, durante le discussioni con i genitori o con gli amici. Chissà che la lettura di queste dispense non ti spinga ad ulteriori approfondimenti su internet, in biblioteca, magari durante l’estate! Introduzione

l’Europa, gli Stati Uniti e gli altri paesi occidentali industrialmente avanzati, il Giappone. i paesi emergenti (Russia, Cina, India, Brasile, le “tigri asiatiche” Taiwan, Sud Corea, Singapore e Hong Kongi Malesia, Thailandia, Indonesia, Vietnam) o in via di uscita dal sottosviluppo (Messico, Egitto, alcuni paesi africani della fascia del Maghreb) fanno ormai parte di un unico grande mercato globale. Abbiamo visto nella precedente unità

didattica quali siano le funzioni dei soggetti economici (imprese – famiglie – Stato), quali siano le relazioni reciproche e cosa significhi per un sistema economico essere “aperto” al resto del mondo, cioè quali siano i rapporti dei soggetti economici con il resto del mondo dal punto di vista reale e dal punto di visto monetario. Abbiamo altresì visto nei due filmati di RAI Educational in cosa consista la terza rivoluzione industriale, quella dell’attuale economia della information technology, di

internet e del commercio elettronico, come a partire dai anni ’90 sia nata l’attuale economia globalizzata senza più barriere doganali per le merci ed i capitali. Cosa significhi l’emersione prepotente dei sistemi economici in paesi di recente industrializzazione quali la Cina, l’India, il Messico, il Brasile e tanti paesi altri paesi che cercano di uscire dal sottosviluppo. Le imprese concorrono in uno spazio commerciale che copre ormai gran parte del pianeta e che non è governato dai singoli Stati sovrani ma dalle istituzioni finanziarie e del commercio internazionale. Il Fondo Monetario Internazionale (F.M.I.), la Banca Mondiale e il World Trade Organization (W.T.O) sorvegliano e sanzionano eventuali tentazioni protezionistiche di singoli governi nazionali. Questa configurazione del sistema economico è il frutto dei mutamenti intervenuta nella struttura economica della società, a partire dal basso medioevo, e dell’applicazione delle diverse dottrine e teorie economiche da parte dei governi degli stati nazionali dal XV secolo ad oggi. Nelle pagine seguenti parleremo di alcune tappe fondamentali di tale evoluzione.

Kuala Lumpur - Malesia

Contestazioni no-global al G20 di Londra del 2009

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Il Medioevo

L’economia feudale tipica dell’alto medioevo (periodo storico che indicativamente va dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.c. sino all’anno 1.000 d.c.) nell’Europa continentale era un’economia

chiusa basata su di un agricoltura di sussistenza nella quale ogni feudo era tendenzialmente autosufficiente. L’apertura del sistema economico ai commerci con il resto del mondo nel basso medioevo (periodo storico che indicativamente va

dall’anno 1.000 d.c. alla scoperta dell’America avvenuta nel 1492) fu causata dalle innovazione

tecniche e tecnologiche introdotte progressivamente nell’agricoltura nonché dalla liberazione dei servi

della gleba. Ai contadini “liberati” furono affidati terreni al di fuori del feudo in conduzione a mezzadria. Con tale contratto

agrario - sviluppatosi in diverse forme dal XI secolo fino ad arrivare alla tipizzazione in forma giuridicamente riconosciuta a partire dal XIII secolo - il proprietario concedeva in uso al mezzadro un fondo completo di abitazione ed attrezzature, chiedendogli come corrispettivo la metà dei prodotti agricoli raccolti o la metà dei guadagni ottenuti con la vendita. Non è un caso che la mezzadria sia stata il contratto agrario regolante la conduzione della maggior parte delle terre coltivabili nell’Italia centro-settentrionale sino agli ’60-’70. Molti studiosi sostengono che la diffusione di tale forma di conduzione agraria favorisse la nascita di uno spirito imprenditoriale nel mezzadro e ciò abbia contribuito in modo decisivo a caratterizzare la peculiare forma dell’attuale sviluppo industriale tipica del nostro territorio: l’industrializzazione dei distretti industriali formati da una rete di piccole imprese nate ai margini di quelle antiche città che rifiorirono a partire dallo sviluppo della civiltà comunale nell’alto medioevo.

L’agricoltura curtense nell’alto medioevo

Prova a rispondere. Perché secondo te il mezzadro era indotto a produrre di più e meglio rispetto ad un servo della gleba?

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L’epoca del mercantilismo

Il mercantilismo non fu tanto una dottrina formale quanto una serie di misure pratiche adottate da molti paesi in Europa tra il XV e il XVIII secolo, finalizzate allo sviluppo delle

esportazioni ed all’incremento delle

riserve di metalli preziosi, in particolare dell’oro, ritenuto la fonte primaria della ricchezza di una nazione. Per i mercantilisti, l’intervento dello stato era considerato determinante per il raggiungimento di tali obiettivi. La dottrina mercantilista e la politica economica da questa suggerita si sviluppò contemporaneamente alla nascita ed allo sviluppo dei grandi stati nazionali europei. Questi eliminarono le barriere commerciali

interne ereditate dal Medioevo e incoraggiarono la nascita e lo sviluppo dell’industria, che rappresentava una fonte di entrate necessaria al mantenimento dei grandi eserciti e degli altri apparati dello stato. Le

nascenti grandi potenze europee – Gran Bretagna, Spagna, Francia, Portogallo, Olanda - avviarono inoltre lo sfruttamento delle colonie, considerato un metodo legittimo per fornirsi di metalli preziosi e di materie prime per le industrie. Dalla seconda metà del XVIII secolo il mercantilismo con rappresentava più in modo soddisfacente la realtà economica. L’espansione del commercio internazionale, lo sviluppo dell’industria e della tecnologia aprirono la strada, infatti, alla rivoluzione industriale ed al sistema di libero scambio fondato sulla libertà di iniziativa economica privata .

Compagnie olandese delle indie orientali – sec. XVII

Prova a rispondere. Cristoforo Colombo nel 1492 per conto di chi intraprese il viaggio che lo portò alla scoperta dell’America? Sarebbe stato ipotizzabile che all’epoca tale esplorazione fosse finanziata da un’impresa privata?

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La fisiocrazia

La scuola fisiocratica si sviluppò nel secolo XVIII nella Francia dei filosofi illuministi e il suo fondatore fu François Quesnay

(filosofo e medico della corte di Luigi XIV - Méré, 4 giugno 1694 – Versailles, 16 dicembre 1774). Gli esponenti di questa scuola di pensiero sostenevano che esistesse un ordine

economico naturale, basato su leggi fisiche

necessarie e inderogabili e su leggi morali che l’uomo dovesse adottare nel suo interesse. Compito dell’economia era scoprire le leggi naturali che stavano alla base della produzione e distribuzione dei beni. Veniva teorizzata l’esistenza di un ordine naturale basato sul diritto di ognuno di intraprendere

un’attività economica ed arricchirsi. A ciò non doveva frapporsi lo Stato, anzi si riteneva dannoso qualsiasi intervento regolatore del libero mercato. Il limite di questa scuola di pensiero era il principio che solo la natura era produttiva di ricchezza in quanto moltiplicatrice dei beni esistenti. L’agricoltura, innanzitutto, ed anche le attività estrattive di materie prime erano le uniche attività economiche veramente produttive, mentre tutte le altre attività, sia quelle industriali che quelle commerciali o di servizio all’industria ed all’agricoltura, risultavano sterili in quanto si limitavano a trasformare i beni prodotti dalla natura.

F. Quesnay 1694-1774

Prova a rispondere. Pensando al concetto di utilità dei beni economici che abbiamo studiato nell’unità didattica precedente, perché oggi, secondo te, non è accettabile sostenere che l’unica vera ricchezza è quella prodotta dal settore primario?

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La teoria liberista E’ la dottrina economica fondata sulla libera iniziativa economica privata e sul libero commercio e sulla visione di una naturale tendenza armonica del mercato. Con la formula del laissez faire, laissez passer, intendeva proporre l'abbattimento di qualsiasi vincolo alla piena libertà economica, relegando lo Stato a puro garante del

funzionamento del libero mercato. Il liberismo nacque nella Gran Bretagna della seconda metà del VIII secolo, con gli studi di Adam Smith ed accompagnò gli sviluppi della prima e della seconda rivoluzione industriale. Nella storia economica dell'Ottocento e del Novecento fasi liberistiche si sono alternate, soprattutto nei paesi, come l’Italia, di seconda industrializzazione a fasi protezionistiche. In declino dopo la Prima guerra mondiale con la grande crisi del ‘29, la teoria liberista, seppur variamente combinata con le acquisizioni keynesiane, tornò dominante dopo la seconda guerra mondiale, allorché si amplia il mercato internazionale e si abbattimento le tariffe doganali fra i paesi europei. Negli anni ottanta i neoliberisti hanno ispirato negli Stati Uniti ed in vari paesi europei un vasto processo di privatizzazione di imprese pubbliche e di liberalizzazioni di mercati caratterizzati da monopoli pubblici e privati. Infine può considerarsi un’applicazione della teoria neoliberista la cosiddetta globalizzazione economica iniziata nei primi anni novanta con il progressivo estendersi di aree economiche prive di barriere doganali, prima in Europa, poi nel continente Americano e quindi in gran parte del mondo, a seguito gli accordi internazionali siglati in sede di WTO (World Trade Organization).

Approfondimento - Adam Smith (Kirkcaldy, 5 giugno 1723 – Edimburgo, 17 luglio 1790) è stato un filosofo ed economista scozzese, che, a seguito degli studi intrapresi

nell'ambito della filosofia morale, gettò le basi dell'economia politica classica. L'opera più importante di Smith è intitolata “Indagine sulla

natura e le cause della ricchezza delle nazioni” (1776). L'opera di Adam Smith chiude il periodo dei mercantilisti, da lui così definiti e criticati, dando avvio alla scuola degli economisti classici riprendendo per superare dialetticamente i concetti definiti dai fisiocratici. La ricchezza delle nazioni diventa il testo di riferimento per tutti gli economisti classici del XVIII e XIX secolo: David Ricardo, Thomas Robert Malthus, Jean-Baptiste Say, John Stuart Mill.

Adam Smith 1723-1790

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La teoria una regolazione spontanea dello scambio di beni e servizi e delle attività produttive di Adam Smith è incentrata sulla nozione di mano invisibile secondo la quale il sistema economico non richiede interventi esterni per regolarsi, in particolare non necessita l'intervento dello Stato. Il ruolo della mano invisibile, quale automatica regolatrice efficace ed efficiente del mercato e dell’intera società è triplice:

1. è un processo con il quale si crea un ordine sociale: data l'uguaglianza di fronte al diritto, il non intervento dello Stato il libero mercato assicurerebbe il realizzarsi di un ordine sociale che soddisfa l'interesse generale mediante la convergenza spontanea degli interessi personali verso l'interesse collettivo; in sostanza le imprese, lasciate libere di arricchirsi in un mercato concorrenziale offriranno prodotti sempre migliori a prezzi sempre più bassi alle famiglie;

2. è meccanismo che permette l'equilibrio dei mercati: domanda e offerta su differenti mercati tendono ad uguagliarsi; il libero funzionamento di un mercato concorrenziale, oltre a far convergere il prezzo di mercato al prezzo reale, tende a fare scomparire qualsiasi offerta eccedentaria evitando

fenomeni di sovrapproduzione; 3. è fattore che favorisce la crescita e lo sviluppo economico: le dinamiche

demografiche della popolazione sono regolate in gran parte dall’andamento mercato del lavoro; in caso di popolazione eccessiva, il salario scenderebbe al di sotto del minimo di sussistenza conducendo ad una riduzione della popolazione e viceversa in caso di popolazione deficitaria; la regolazione si applica pure al risparmio, condizione necessaria per l'accumulazione del capitale e quindi della crescita economica attraverso un maggiore risparmio; gli individui tenderebbero spontaneamente a risparmiare in quanto desiderosi di migliorare la propria condizione; infine la regolazione si applica anche alla allocazione dei capitali; gli investimenti sarebbero indirizzati spontaneamente verso le attività più redditizie.

La legge della domanda e dell’offerta

Si accenna qui di seguito alla legge della domanda e dell’offerta ed al prezzo di equilibrio – concetti che saranno approfonditi nella classe seconda allorché si parlerà del concetto di mercato e del suo funzionamento - cardine dell’attuale teoria economica neo-liberista. Tutto è basato sulla libertà di iniziativa economica privata in un regime di libera concorrenza in cui lo Stato non interviene direttamente nel mercato ma solo come regolatore garante della tutela della libertà d’impresa e della effettività della concorrenza fra le imprese, agendo contro i

monopoli e contro gli accordi di trust adottati delle grandi imprese a danno dei consumatori.

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La domanda

Ipotizziamo che la quantità domandata di una data merce sia determinata solo dal prezzo stesso della merce, notiamo come al crescere del prezzo si riduca la quantità domandata. Quindi la funzione di domanda di una merce è inversamente dipendente dal prezzo della merce.

Come si può notare dal grafico, la riduzione del prezzo della merce da 2 a 1 genera un incremento nella quantità domandata della merce da 6 a 10. Abbiamo individuato graficamente una delle due forze determinanti del mercato: la domanda.

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L’offerta

Il fine dell'impresa è rappresentato dalla massimizzazione del profitto, per cui possiamo attenderci una correlazione positiva tra il prezzo e le quantità offerte. Ovvero, "a parità di condizioni" ad un prezzo più alto corrisponde sempre un profitto più alto, quindi un maggiore incentivo ad aumentare la produzione.

Sulla base di questa semplice asserzione costruiamo la curva di offerta.

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L’equilibrio del mercato

Il mercato è il luogo (non necessariamente fisico) in cui ha luogo l'incontro tra la domanda di un bene o servizio e la relativa offerta.

Entrambe i concetti esposti di domanda e di offerta sono funzioni matematiche che assumono il prezzo come variabile indipendente e le quantità come variabile dipendente, anche se con una correlazione opposta.

Si avrà un equilibrio di mercato nella situazione in cui per un dato prezzo la quantità domandata dai consumatori eguaglia la quantità offerta dalle imprese.

Graficamente possiamo rappresentare l'equilibrio come il punto in cui la curva di domanda incontra la curva di offerta.

Nel luogo di incontro delle curve si avrà la medesima quantità q* della merce sia dal lato dell'offerta sia dal lato della domanda. Il prezzo di equilibrio sarà quindi p*.

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La tendenza verso l'equilibrio, in questo semplice caso, può essere spiegata tramite un esempio, consideriamo una situazione in cui il prezzo di mercato sia p', ovvero maggiore del prezzo di equilibrio p*:

La quantità domandata è chiaramente inferiore rispetto alla quantità offerta lasciando invenduta gran parte della produzione. In questa situazione di eccesso di offerta il prezzo della merce tenderà a ridursi.

Il processo di riduzione del prezzo terminerà solo nell'istante in cui l'eccesso di offerta è completamente rimosso, ciò vale a dire al raggiungimento dell'equilibrio di mercato.

Prova a rispondere . Secondo te esiste un legame tra la teoria liberista e l’eliminazione dei dazi doganali (cioè le tasse) applicati ai beni e servizi provenienti dall’estero? Prova a spiegarne i motivi. Viceversa può esistere un legame fra un regime politico autoritario ed autarchico non liberale e non liberista e l’adozione di politiche protezioniste, come l’applicazione di forti dazi doganali alle merci provenienti dall’estero?

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La teoria degli sbocchi di Say

Detta anche legge di Say (Lione, 1767 – Parigi, 1832), dal nome dell'economista J. B. Say che per primo ne ha dato una completa esposizione, afferma che l'offerta dei beni crea la propria domanda .

Questo fa sì che nel lungo periodo non vi sia mai sovrapproduzione. Secondo la legge degli sbocchi, quindi, nel sistema economico sussiste una situazione di equilibrio economico permanente tra domanda globale di beni e servizi e la relativa offerta. A qualsiasi spostamento da questo equilibrio corrisponde un riaggiustamento automatico ad opera delle forze di mercato, fino al raggiungimento di un reddito nazionale di piena occupazione. Say sostiene che se su alcuni mercati si verifica una insufficienza di domanda, su qualche altro mercato vi sarà un'insufficienza dell'offerta, rispetto alla domanda.

Questi squilibri parziali possono sempre essere

corretti da opportuni movimenti dei relativi prezzi, in base alla legge della domanda e dell’offerta. Se si accetta la legge degli sbocchi è gioco-forza dedurne che tutto ciò che viene prodotto sarà comunque venduto, qualunque sia il livello globale della produzione. Ogni imprenditore avrà, quindi, interesse a produrre al massimo della capacità del sistema economico. L'unico

limite che l'imprenditore potrebbe trovare è dato dalla forza lavoro disponibile. Quindi l’offera globale Y sarà sempre eguagliata dalla domanda globale cioè:

Y (offerta globale) = C+I (domanda globale data da consumi + investimenti)

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La confutazione della teoria degli sbocchi da parte di Keynes

La fiducia nella capacità del libero mercato di autoregolarsi garantendo nel contempo il maggior benessere possibile al maggior numero di persone fu propria dello Stato liberale e liberista, quello delineato dallo Statuto Albertino del 1848 esteso poi all’Italia unita nel

1861, che si doveva occupare solo della difesa esterna, dell’ordine pubblico e dell’amministrazione della giustizia. Tale dottrina fu predominante nel mondo occidentale sino alla grande crisi economica iniziata negli Stati Uniti nel

1929 durante la quale fu evidente che il mercato da solo

non riusciva a produrre ricchezza ed a riassorbire la dilagante disoccupazione. La crisi si era manifestata con il crollo della borsa di Wall Street ma in realtà era dovuta al crollo delle esportazioni di prodotti agricoli verso i paesi europei che dopo i primi anni del dopoguerra avevano aumentato la loro produzione agricola e ridotto sensibilmente le importazioni di derrate agricole dagli Stati Uniti. Alla luce anche delle evidenze della grande

depressione, con un disoccupazione che raggiunge un

quarto della popolazione attiva, J.M. Keynes confutò la tesi della teoria degli sbocchi di Say sostenendo che in

periodi di grave sovrapproduzione e/o sottoccupazione lo Stato doveva intervenire nelle dinamiche del sistema economico sostenendo la domanda aggregata (C+I) mediante la

leva della spesa pubblica (G) indirizzata innanzitutto alla creazione di opere pubbliche o

infrastrutture produttive (strade, autostrade, ferrovie, porti, aeroporti, dighe, reti

elettriche, ecc.) ma anche al sostegno diretto dei consumi introducendo sussidi ai poveri ed ai lavoratori temporaneamente disoccupati in modo da riportare in equilibrio la domanda globale con l’offerta globale: Y (offerta globale ) = C + I + G (domanda globale costituita da Consumi e Investimenti

privati e spesa pubblica Governativa). La teoria keynesiana fu applicata con successo negli ‘30 negli Stati Uniti dal

Presidente F.D.Roosvelt con il cosiddetto new deal ma anche, in forme diverse alla luce dei diversi regimi politici esistenti, in vari paesi europei compresi l’Italia sia prima che dopo il secondo conflitto mondiale.

Ancora oggi le crisi economiche vengono affrontate in gran parte con gli strumenti della teoria keynesiana di sostegno della domanda: in particolare la spesa pubblica (G) viene indirizzata al sostegno dei consumi (C) mediante i sussidi alle famiglie più povere ed all’investimento in opere pubbliche. Le opere pubbliche produttive possano fungere da leva del sistema economico favorendo da un lato lo sviluppo delle imprese impegnate nei lavori aumentandone quindi gli investimenti (I) e dall’altro facendo aumentare i consumi (C) dei dipendenti neo-assunti .

Prova a rispondere. Da dove trae lo Stato il denaro per pagare i sussidi di disoccupazione e costruire le opere pubbliche (strade, autostrade, ferrovie, centrali elettriche, ecc.)? Secondo te sarebbe utile al sistema economico che lo Stato in un momento di crisi da sovrapproduzione aumentasse le imposte alle imprese ed alle famiglie?

N.Y. 1929 Folla a Wall Street dopo il crollo della borsa

1929

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John Maynard Keynes (Cambridge, 1883 – Tilton, 1946).

I suoi contributi alla teoria economica hanno dato origine a quella che è stata definita "rivoluzione keynesiana". In contrasto con la teoria economica neoclassica, ha sostenuto la necessità dell'intervento pubblico nell'economia con misure di

politica fiscale e monetaria, qualora una insufficiente domanda aggregata non riuscisse a garantire la piena occupazione. Le sue idee sono state sviluppate e formalizzate nel dopoguerra dagli economisti della scuola detta appunto neokeynesiana. È inoltre considerato il padre della moderna macroeconomia con la sua opera principale “Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta” (1936) nella sistematizzò concetti gli studi dei due decenni precedenti.

In essa Keynes pone le basi per la teoria basata sul concetto di domanda aggregata, spiegando le variazioni del livello complessivo delle attività economiche così come osservate durante la Grande depressione seguita alla crisi del 1929. Se la domanda globale è data dalla

somma di consumi e investimenti in uno stato di sotto-occupazione e capacità produttiva inutilizzata, è possibile incrementare

l'occupazione e il reddito soltanto con l’aumento della spesa per consumi o con investimenti sostenuta dallo Stato. Nella Teoria generale Keynes afferma quindi che sono giustificabili le politiche economiche degli Stati finalizzate a stimolare la domanda in periodi di disoccupazione, tramite un incremento della spesa pubblica. Il mercato lasciato a se stesso sarebbe incapace di esprimere una domanda di tale volume da essere compatibile con la piena

occupazione. Queste argomentazioni troveranno una prima conferma nei risultati positivi della politica di intervento dello Stato del New Deal dal presidente degli Stati Uniti Roosevelt fra il 1933 ed 1937 ispirata dallo stesso Keynes. Politiche di sostegno alla domanda da parte dello Stato furono adottate in molti paesi europei sia negli anni ’30 e ’40 che dopo il secondo conflitto mondiale. Contribuiranno in molti paesi, tra cui l’Italia, non solo alla ricostruzione materiale ma anche all’avvio di quelle fondamentali politiche sociali che hanno dato vita al “Welfare state”o “stato del benessere”.

J. M. Keynes

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I problemi della società capitalista basata sul liberismo economico La potenza del capitalismo e della sua classe dominante, la borghesia capitalistica, portò ad tumultuoso sviluppo della società industriale tra la prima e la seconda rivoluzione industriale. Dall’Inghilterra della prima industrializzazione della fine del XVIII sec. della macchina a vapore e del telaio meccanico che utilizzava il carbone

come fonte di energia, che sperimentava i primi rudimentali modelli di divisione del lavoro nelle fabbriche, si passò in pochi decenni all’industrializzazione basata sull’elettrificazione, sull’utilizzo del petrolio come fonte di energia, ad un’organizzazione del lavoro nella fabbrica sempre più scientifica sino ad arrivare alla catena di montaggio. Tali trasformazioni produttive a partire dalla fine del XIX coinvolsero oltre agli Stati Uniti anche i paesi europei di cosiddetta seconda industrializzazione come l’Italia . Tuttavia questo sviluppo portava con sé una grande questione sociale irrisolta. Le condizioni di vita e di lavoro del

proletariato erano apparse, sin dalla prima industrializzazione, inaccettabili per il basso livello dei salari, per l’inesistenza di qualsiasi norma igienico-sanitaria, di sicurezza sul lavoro, per l’assenza delle più elementari tutele in caso di infortunio o di malattia, di invalidità o di vecchiaia. Basti pensare che la prima legge che ridusse

la giornata di lavoro a 10 ore giornaliere fu emanata in Inghilterra solo nel 1847! Nacquero così, sin dai primi decenni dell’ottocento, i sindacati a difesa dei diritti dei lavoratori, a tutela delle illimitate pretese dei capitalisti datori di lavoro. Contestualmente si diffusero idee e dottrine socialiste che teorizzavano la necessità di una trasformazione della società in senso egualitario, non solo dal punto di vista dei diritti formali riconosciuti dalla vigenti Costituzioni o Statuti liberali, ma sul piano dell’eguaglianza sostanziale economica e sociale.

Operai al lavoro nella catena di montaggio della Ford T – Dearborn (Detroit) 1908

Prova a rispondere. Che giustificazione economica aveva la corresponsione agli operai di bassi salari o meglio dei più bassi salari possibili, tali da consentire solo la sopravvivenza e la riproduzione della classe operaia? Può esistere, secondo te, una concorrenza tra i lavoratori, specie quelli disoccupati, e quali effetti avrebbe sui salari?

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Il socialismo

Il socialismo è una corrente di pensiero politico, sociale ed economico che ha dato vita a movimenti politici e sindacali che, a partire dalla fine del XVIII, secolo hanno lottato e lottano tuttora per modificare la vita sociale ed economica delle classi meno abbienti e in particolare del proletariato. Dapprima fu elaborato un socialismo che definito utopistico da K. Marx (1818-1883) che si riteneva viceversa fondatore del socialismo scientifico. Alla base di tale teorizzazione vi era il concetto di lotta di classe tra capitalisti e proletariato illustrato compiutamente nel “Manifesto del Partito Comunista” scritto assieme a F. Engels (Barmen 1820 – Londra 1895) nel 1867. Dalle rovine del capitalismo sarebbe sorta, dopo un periodo transitorio di dittatura del proletariato in cui il partito comunista avrebbe controllato i mezzi di produzione, una società in cui i mezzi di produzione sarebbero diventati di proprietà collettiva dei lavoratori. Lo Stato borghese si sarebbe dissolto e la proprietà privata sarebbe stata limitata quindi ai solo effetti personali. Con la proprietà collettiva dei mezzi di produzione sarebbe scomparsa definitivamente la divisione della società in

classi, sarebbe terminata ogni forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo giungendo così alla piena realizzazione dell'individuo.

Il famoso dipinto di Pellizza da Volpedo, intitolato Il quarto stato (1901)

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Karl Marx (Treviri, 5 maggio 1818 – Londra, 14 marzo 1883) è stato un filosofo, economista e rivoluzionario tedesco. Il suo pensiero è interamente retto, in chiave materialista, sulla critica all'economia, alla politica, alla società e alla cultura a lui contemporanea. È stato il fondatore e primo teorico del Socialismo scientifico, del Materialismo storico e del Materialismo dialettico.Marx è considerato uno tra i filosofi maggiormente influenti sul piano politico e filosofico nella storia del Novecento.

Nel libro “Il Capitale” (1867) Marx sostiene che una merce non si scambia con equivalente universale (come prima l'oro). Ad un certo grado di sviluppo della produzione mercantile il denaro si trasforma in capitale. Prima la formula della circolazione delle merci era M (merce)- D (denaro)- M (merce). Ora diventa D-M-D'

(ove D' è la somma di denaro originalmente anticipata più un incremento: il plusvalore). Ora si compra non per l'uso ma per la vendita, per il profitto. Da dove viene questo profitto? Il plusvalore non può scaturire circolazione delle merci, perché questa conosce solo lo scambio tra equivalenti, né può sorgere da un aumento dei prezzi, perché i guadagni e le perdite reciproche dei venditori e degli acquirenti si compenserebbero. Per ottenere plusvalore il possessore di denaro deve trovare sul mercato una

merce il cui valore d'uso abbia la proprietà peculiare di essere fonte di altro valore. Questa

merce è la forza-lavoro dell'uomo. Il capitalista non paga tutta la forza-lavoro dell'operaio, ma solo quella parte sufficiente all'operaio per riprodurla, cioè gli elargisce uno stipendio che ne garantisce la mera sopravvivenza. Contemporaneamente il capitalista può disporre di questa forza-lavoro per un tempo superiore a quello necessario per ripagare il proprio salario: è sulla base della differenza di questo tempo che il capitalista realizza il plusvalore. Poniamo ad esempio, dice Marx, che in 6 ore giornaliere di lavoro l'operaio crei un prodotto la cui vendita basta a coprire le spese del proprio salario di mantenimento. Siccome il capitalista gli ha offerto in anticipo un contratto sulla sua forza-lavoro complessiva, ne risulta che per il tempo di lavoro giornaliero residuo di 4 ore (sul totale giornaliero di 10 ore) l'operaio non verrebbe in realtà retribuito, ma solo sfruttato, per cui il plusvalore non sarebbe altro che pluslavoro non retribuito.

K. Marx 1818-1883

Prova a rispondere. Secondo Marx la rivoluzione socialista sarebbe stato la naturale conseguenza dello sviluppo della società industriale capitalista. In realtà rivoluzione comuniste di ispirazione marxista si verificarono perlopiù in paesi prevalentemente agricoli, come avvenne nel caso della rivoluzione in Russia del 1917 guidata da Lenin, nel caso della rivoluzione guidata da Tito in Yugoslavia nel 1943, nella caso della rivoluzione guidata da Mao in Cina del 1949, nel caso della rivoluzione guidata da Castro a Cuba del 1959. Del resto anche in Italia movimenti, partiti politici e sindacati di ispirazione marxista, si svilupparono o comunque ebbero largo seguito in aree prevalentemente agricole del paese, tra i braccianti e anche tra i mezzadri. Cosa ti suggerisce questa considerazione?

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L’economia collettivista dell’Unione Sovietica

Marx ed Engels avevano previsto che la rivoluzione comunista si sarebbe realizzata nei paesi di prima industrializzazione, in particolare nell’Inghilterra della prima metà del XIX secolo perché lì sembrava esplodere la contraddizione tra la borghesia capitalista sempre più ricca ed il proletariato industriale sempre più povero. In realtà in quel paese l’opera dei sindacati (le trade unions) prima e del partito laburista di ispirazione socialista poi, incanalarano ben presto le legittime rivendicazioni dei lavoratori all’interno del sistema economico liberale, portando i lavoratori ad accettare il

principio della libertà d’impresa. La

rivoluzione comunista viceversa si realizzò nell’ottobre del 1917 nell’arretrata Russia degli Zar caratterizzata da un’economia agricola, dove la classe dominante non era tanto la nascente borghesia capitalista quanto la nobiltà proprietaria terriera. Il partito bolscevico comunista di ispirazione

marxista guidato da V. I. U. Lenin (Simbirsk 1870 – Gorki 1924, dopo aver espropriato tutti i beni alla nobiltà e alla borghesia capitalista, s’impadronì dello Stato ed attraverso l’organizzazione in Soviet (consigli territoriali elettivi di operai, soldati e contadini) pose progressivamente sotto il controllo dello Stato e del Partito comunista tutti mezzi di produzione, dai terreni coltivabili, alla banche, alle fabbriche. Fu presto abolita la proprietà privata delle imprese. Lo Stato decideva cosa produrre, quando e come produrre con una rigida pianificazione sulla base di programmi quinquennali e non vi era alcuno spazio per la libera iniziativa privata. Il sistema collettivista sovietico raggiunse nei primi decenni successivi alla rivoluzione del 1917 significativi risultati nel miglioramento delle condizioni materiali di vita della popolazione. Iniziò però ad andare in crisi a partire dagli ’60, sino all’ implosione dell’inizio degli anni ’90, allorché non fu più in grado di soddisfare i bisogni economici di una popolazione in crescita. Inoltre larghi strati di popolazione non erano più disposti ad accettare il divario sempre più grande con il benessere che sembravano garantire i paesi dove vigeva la libertà di iniziativa economica privata e nei cui mercati si potevano acquistare beni e servizi di qualità incomparabilmente superiore.

Propaganda sovietica, lavoratori delle fabbriche e dei campi - Mosca, 1930

Prova a rispondere. Perché, secondo te, la qualità dei prodotti industriali dell’U.R.S.S. era, di norma, di gran lunga inferiore a quella dei paesi occidentali?

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Il sistema economico italiano ed europeo

L’Italia unita del 1861 uscita dal risorgimento era uno Stato

politico e sociale e liberista in economia.

1848 si doveva occupare dell’amministrazione della giustizia. La crisi dello staventennio fascista (1922-1943). Lo Stato autoritario e totalitario fascista intervenne invece

accanto al riconoscimento della libertà di iniziativa economica privata Stato un ruolo non solo di controllore del mercato

moderne teorie liberiste, ma anche di programmatore dell’attività economica delle imprese pubbliche e private. Il sistema proprietà delle grandi imprese bancarie ed industriali nei settori cosiddette strategici - banche, petrolchimica, siderurgia, cantieristica navale e ferroviaria, spaziale, meccanica, produzione e distribuzione dell’energia elettrica del gas e dell’atelefonia e telecomunicazionidell’I.R.I. e la creazione dell’accompagnò il “boom” economico degli anni ’60

quale l’Italia da paese prevalentemente agricolo divenne una delmaggiori potenze economico-mista fu progressivamente abbandonata a partire dagli grandi imprese statali e la liberalizzazione tutti i settori economici in conformità alle direttive europee in applicazione del trattato della Comunità Europea e del dell’Unione Europea sottoscritto a Maastricht nel 1992

un grande mercato unico europeo fondato sulla cui l’Unione ed i singoli Stati Viene inoltre vietato, o comunque fortemente limitatocome proprietario di imprese che come finanziatore o programmatore delle attiviteconomiche private.

Pubblicità dell’Eni del 1953

Prova a rispondere. Cosa si intende per economica mista? Secondo te a quale dottrina si ispira il concetto di economia mista? Invece il sistema economico europeo a quale

Il sistema economico italiano ed europeo

L’Italia unita del 1861 uscita dal risorgimento era uno Stato liberale

liberista in economia. Lo Stato disegnato dallo Statuto Albertino del solo della difesa esterna, dell’ordine pubblico interno,

dell’amministrazione della giustizia. La crisi dello stato liberale e liberista sfociò nel 1943). Lo Stato autoritario e totalitario fascista intervenne invece

nel sistema economico, anche in risposta alla crisi che negli anni trenta dagli Stati Uniti raggiunse l’Europa, con la nazionadelle più importanti banche e di importanti imprese in settori strategici a mezzo dell’Istituto di Ricostruzione Industriale (I.R.I.)

adottate politiche protezionistiche

piano del commercio internazionale. Anche la Costituzio

del 1948 delineava all’art. 41 un sistema economico misto,

accanto al riconoscimento della libertà di iniziativa economica privata Stato un ruolo non solo di controllore del mercato, come suggerito nell’ambito delle moderne teorie liberiste, ma anche di programmatore dell’attività economica delle imprese pubbliche e private. Il sistema che ne seguì, chiamato delle partecipazioni statali

proprietà delle grandi imprese bancarie ed industriali nei settori banche, petrolchimica, siderurgia,

cantieristica navale e ferroviaria, spaziale, meccanica, produzione e distribuzione dell’energia elettrica del gas e dell’acqua, telefonia e telecomunicazioni attraverso la rivilitalizzazione dell’I.R.I. e la creazione dell’Ente Nazionale Idrocarburi - accompagnò il “boom” economico degli anni ’60, al termine del quale l’Italia da paese prevalentemente agricolo divenne una delle

-industriali del mondo. L’economia mista fu progressivamente abbandonata a partire dagli anni ’80 con la privatizzazione

grandi imprese statali e la liberalizzazione tutti i settori economici in conformità alle opee in applicazione del trattato della Comunità Europea e del

dell’Unione Europea sottoscritto a Maastricht nel 1992. Dal 1° gennaio 1993 è nato così un grande mercato unico europeo fondato sulla libera concorrenza delle imprese private in

Stati hanno il ruolo di regolatori antimonopolisti

o comunque fortemente limitato, l’intervento diretto dello Stato

come proprietario di imprese che come finanziatore o programmatore delle attivit

dell’Eni del 1953

16 dei 27 paesi dell’ad oggi adottato c

Prova a rispondere. Cosa si intende per economica mista? Secondo te a quale dottrina si ispira il concetto di economia mista? Invece il sistema economico europeo a quale dottrina economica si ispira?

liberale dal punto di vista Lo Stato disegnato dallo Statuto Albertino del

solo della difesa esterna, dell’ordine pubblico interno, to liberale e liberista sfociò nel

1943). Lo Stato autoritario e totalitario fascista intervenne invece nel sistema economico, anche in risposta alla crisi che negli anni trenta dagli Stati Uniti raggiunse l’Europa, con la nazionalizzazione delle più importanti banche e di importanti imprese in settori strategici a mezzo dell’Istituto di Ricostruzione

(I.R.I.). Furono inoltre politiche protezionistiche sul

piano del commercio internazionale. Costituzione Repubblicana

del 1948 delineava all’art. 41 un sistema economico misto, dove

accanto al riconoscimento della libertà di iniziativa economica privata si assegnava allo

, come suggerito nell’ambito delle moderne teorie liberiste, ma anche di programmatore dell’attività economica delle imprese

partecipazioni statali nella

anni ’80 con la privatizzazione di grandi imprese statali e la liberalizzazione tutti i settori economici in conformità alle

opee in applicazione del trattato della Comunità Europea e del trattato

Dal 1° gennaio 1993 è nato così delle imprese private in

regolatori antimonopolisti del mercato. l’intervento diretto dello Stato sia

come proprietario di imprese che come finanziatore o programmatore delle attività

16 dei 27 paesi dell’Unione Europea hanno ad oggi adottato come moneta l’Euro

Prova a rispondere. Cosa si intende per economica mista? Secondo te a quale dottrina si ispira il dottrina economica si ispira?

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Conosciamo il mondo in cui viviamo

Il Ruolo dello Stato nel sistema economico – Il debito pubblico

Nella teoria liberista classica, a partire da A. Smith, lo Stato non doveva intervenire nell’economia ma occuparsi solo della difesa esterna, dell’ordine pubblico interno e della amministrazione della giustizia. La ricchezza della nazione sarebbe stata invece prodotta dalle imprese lasciate libere di aumentare il loro profitto in un mercato concorrenziale dove tendenzialmente non vi sarebbero mai crisi di sovrapproduzione e sottoccupazione. Lo Stato, mantenuto dalla imposte e tasse delle famiglie e delle imprese, doveva puntare al pareggio del bilancio, cioè la spesa per i pochi servizi pubblici resi doveva essere pari alle entrate per imposte e tasse.

Nella logica della teoria keynesiana non sempre gli “animal spirit” che spingono l’imprenditore a cercare il profitto sono capaci di creare la ricchezza della nazione (il prodotto interno lordo o PIL) ed assorbire la disoccupazione. Sarebbero sempre possibili, se non addirittura inevitabili, periodiche crisi di sovrapproduzione (Y > C+I) che possono essere superate solo con l’intervento con la spesa pubblica dello Stato (G), indirizzata da un lato al sostegno dei consumi (C) con i sussidi ai poveri ed ai disoccupati, dall’altro allo stimolo degli investimenti (I) mediante la costruzione od il finanziamento di opere pubbliche produttive (strade, autostrade,

porti, aeroporti, ferrovie, stazioni, centrali elettriche, ecc.). La costruzione di un’opera pubblica produttiva o infrastrutturale è capace da un lato di assorbire la disoccupazione e quindi stimolare i consumi (C) già nella fase della realizzazione e, una volta terminata, è capace di offrire nuovi servizi alle famiglie ma soprattutto alle imprese riducendone i costi e favorendone gli investimenti (I). Di fronte a una crisi economica che produca un’alta disoccupazione passerebbe quindi in secondo ordine l’obiettivo del pareggio di bilancio dello Stato, peraltro impossibile da mantenere in tali circostanze. Infatti l’aumento delle imposte e

tasse alle imprese in un periodo di crisi sarebbe in gran parte inutile - essendoci meno profitto calerebbe la base imponibile delle imposte - mentre l’aumento delle imposte alle famiglie farebbe diminuire i consumi e quindi potrebbe essere addirittura controproducente. Gli Stati finanziano i sussidi ai poveri ed ai disoccupati, le opere pubbliche e, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, il cosiddetto “Stato sociale del benessere” o “Welfare State” - quello che garantisce a tutti l’istruzione e l’assistenza e la cura in caso di malattia, infortunio, invalidità e vecchiaia - non solo con le imposte e tasse ma contraendo dei debiti con le imprese, le famiglie e gli stati esteri. I Governi pur avendo costante l’obiettivo della riduzione

Disoccupati in coda per il sussidio governativo - N.Y. 1934 N.Ygovernativo

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e razionalizzazione delle spesa accettano una certa quota di indebitamento. A partire dagli anni ’40 del XX secolo tutti gli Stati dove era garantita la libertà di iniziativa economica privata, anche quelli tendenzialmente più liberisti, promossero l’intervento dello Stato nell’economia nei periodi di crisi. Si consolidò inoltre il ruolo dello Stato di fornitore di servizi pubblici alle famiglie ed alle imprese finanziato con l’emissione di titoli pubblici da offrire alle stesse famiglie, alle imprese ed agli stati esteri. Uno più gravi problemi economici attuali che hanno i paesi europei e gli Stati Uniti è l’ammontare del debito pubblico, cioè l’enorme volume dei titoli del

debito in circolazione. Tali titoli non solo andrebbero restituiti alla scadenza, ma per essere venduti devono fruttare un tasso interesse periodico ai loro possessori. In realtà molti Stati non sono già oggi in grado di rimborsare a scadenza tutto il loro debito, per cui prima della scadenza dei titoli ne vengono emessi altri per un volume uguale o superiore. Ma perché famiglie, imprese e/o stati esteri dovrebbero acquistare titoli del debito pubblico di uno Stato? Semplicemente perché

offrono un tasso di interesse quasi sempre superiore a quello offerto dalla banche per il deposito dei propri risparmi. Ma c’è un limite all’indebitamento degli Stati? Certo, esistono limiti non tanto in termini assoluti quanto in rapporto con la ricchezza nazionale misurata con l’indicatore del Prodotto Interno Lordo, costituito dalla somma di tutti i beni e servizi finali prodotti all’interno di una nazione in un anno moltiplicato per il loro prezzo di vendita. I livelli massimi raggiungibili nel rapporto tra deficit annuale/P.I.L. e debito accumulato/P.I.L. sono stati fissati per i paesi europei nel trattato di Maastricht entrato in vigore il 1°gennaio 1993. Sul debito di tutti paesi vigila inoltre un’istituzione internazionalmente riconosciuta rappresentata dal Fondo Monetario Internazionale. Ma cosa succede se il debito di uno Stato aumenta a dismisura “sforando” i parametri fissati dalle istituzioni internazionali, come purtroppo sta accadendo ora in molti paesi europei? Diventa sempre più difficile per tale Stato garantire la restituzione del debito a scadenza quindi aumenta il rischio per chi sottoscrive quei titoli di non avere restituito a scadenza il proprio capitale investito, come avvenne nel 2002 in Argentina quando lo Stato dovette dichiarare “default”, cioè ammettere l’impossibilità di restituire ai risparmiatori di tutto il mondo (tra cui molte famiglie ed imprese italiane) il capitale investito nei propri titoli. Come si misura il rischio che uno Stato non riesca a

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restituire ai risparmiatori il valore dei titoli del debito pubblico sottoscritto? Dal livello del tasso d’interesse che lo Stato garantisce ai sottoscrittori, più alto è il tasso

di interesse od il rendimento più è alto il rischio e viceversa.

Per fortuna lo Stato italiano, pur avendo accumulato a fine 2009 un debito pubblico complessivo pari al 115,8% del P.I.L. prodotto nel 2009 dall’Italia – mentre il deficit annuale prodotto nel 2009 era pari al 5,5% del P.I.L. – viene per ora considerato affidabile e quindi riesce a vendere i titoli del debito pubblico (B.O.T., C.C.T. e B.T.P.)

ai risparmiatori ad un tasso d’interesse annuo fra il 1% e 2%, cioè di poco superiore a quello offerto sui depositi dalle banche. Invece gli Stati che non vengono considerati affidabili dai mercati finanziari e dalle istituzioni internazionali per la crisi della loro economia, per vendere i loro titoli pubblici, debbono offrire alti tassi

di interesse a compensazione del rischio che corrono i risparmiatori sottoscrittori. E’ il caso della Grecia che deve pagare sugli ultimi titoli emessi, perlopiù in mano ad investitori esteri, cioè famiglie, imprese e Stati esteri, un tasso di interesse annuo fra il 6% e 8% per i titoli a breve termine e fra il 10-11% per quelli a lungo termine.

Anche gli Stati Uniti negli ultimi anni hanno accumulato un enorme debito pubblico, ulteriormente aumentato per gli interventi keynesiani adottati a sostegno delle famiglie e delle imprese (in particolare le banche) per far fronte all’attuale crisi economica iniziata nel 2006. Leggi questo articolo del 07/01/2009 tratto dal sito web www.glocus.it :

Un trilione di dollari di deficit, tanto per cominciare

“La mia amministrazione dovrà fare i conti con un deficit

federale da un trilione di dollari”. Un trilione di dollari ovvero mille miliardi di dollari di deficit, questa è l’eredità, questo il punto di partenza del presidente eletto Barack Obama. E’ lo stesso Obama – al lavoro in questi giorni sulla messa a punto di un piano di stimolo economico da 800 milioni di dollari - a riconoscerlo ai margini di una riunione con il suo team economico. Da una parte, salvare l’economia dalla peggiore depressione dagli anni trenta aumentando e riqualificando la spesa pubblica, ma anche tagliando le tasse; dall’altra, porre vigorosamente sotto controllo un deficit stellare pena la totale

perdita di credibilità dell’amministrazione dinnanzi ai mercati. Questa è la forbice entro la quale dovrà muoversi il nuovo presidente. Data la situazione di doppia emergenza, non è ipotizzabile alcuna terapia shock così come sarebbe rischioso qualunque tentennamento. Bisognerà essere coraggiosi e prudenti al tempo stesso. Risoluti e determinati nella consapevolezza che i risultati potranno giungere solo da uno sforzo coerente di lungo periodo nella giusta direzione.”

Il Presidente USA Barack Obama

Rapporto debito accumulato/P.I.L. nei paesi dell’area euro

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Il problema più grande relativo al debito pubblico americano degli Stati Uniti, di gran lunga superiore al proprio P.I.L., proprio come quello italiano, è che i titoli di

Stato relativi sono in gran parte di proprietà di famiglie, imprese e Stati esteri, in particolare delle imprese e dello stesso Stato Cinese. Ciò è causato dal fatto che le famiglie statunitensi non hanno una forte propensione al risparmio, a differenza delle famiglie italiane che invece investono da decenni parte del loro risparmio nei titoli di Stato di cui ne detengono, unitamente alle imprese (perlopiù banche) la gran parte.

Nella prassi socialista in pressoché tutti i paesi del mondo che hanno conosciuto rivoluzioni di ispirazione marxista - in Unione Sovietica, nei paesi europei del patto di Varsavia, in Cina, in Yugoslavia, nella Corea del Nord, in Vietnam, in Laos, in Cambogia, a Cuba - lo

Stato ha assunto la

proprietà di tutti i mezzi di

produzione, espropriando

le terre, le miniere, le

banche e tutte le

imprese industriali e commerciali. Diretto dagli organi del Partito (unico) Comunista lo Stato vi ha

attuato una rigida pianificazione e programmazione di ogni attività economica finalizzata a soddisfare i bisogni economici delle famiglie. Ciò in spregio alla stessa teoria marxista per la quale lo Stato non era altro che uno strumento creato dalla classe borghese per sottomettere il proletariato. Quindi, decorso un necessario termine di dittatura, il proletariato impossessatosi con la forza dello Stato, avrebbe dovuto provvedere a dissolverlo. Solo a quel punto si sarebbe affermata la società comunista senza classi sociali e senza proprietà privata, dove la conduzione delle imprese sarebbe stata esercitata collettivamente dai lavoratori. In realtà ancora oggi nei paesi comunisti fedeli all’ortodossia marxista (quali per esempio Cuba e Corea del Nord) collettivismo significa

proprietà dei mezzi di produzione dello Stato. Non sono comunque mancati nel corso del XX secolo interessanti tentativi di conduzione veramente comunitaria, comunista o cooperativa delle imprese da parte dei lavoratori sia nell’Unione Sovietica che a Cuba ma, soprattutto, nella Repubblica Socialista Yugoslava (1943- 1992).

La Yugoslavia prima e dopo la sua dissoluzione seguita alla fine della Repubblica Socialista

Prova a rispondere. Secondo te, come mai nella prassi dei paesi comunisti, una volta assunto il controllo dello Stato, i partiti comunisti non hanno adempiuto all’obiettivo teorico indicato da Marx di eliminare le istituzioni dello Stato per affidare la proprietà e la conduzione collettiva delle imprese direttamente ai lavoratori?

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Caso a parte quello della Cina (o Repubblica Popolare Cinese) unico grande paese comunista composto da varie nazionalità non dissoltosi negli anni ’90 contrariamente a quanto successo all’Unione Sovietica ed alla Repubblica Socialista Yugoslavia. Paesi o addirittura imperi che oggi non esistono più, al posto dei quali le diverse nazionalità che le componevano hanno dato vita a Stati che riconoscono la libertà di iniziativa economica privata. La Cina invece, pur avendo da almeno quindici anni la libertà di iniziativa economica privata, continua ad essere governata dal Partito Comunista che dal punto di vista politico esercita una vera e

propria dittatura, non essendovi libertà politica e sindacale al di fuori delle strutture del partito unico comunista. Dal punto di vista economico lo Stato, pur riconoscendo ampia autonomia ai gruppi industriali privati, che ormai hanno spesso raggiunto dimensioni multinazionali, continua a pianificare e programmare con piani quinquennali lo sviluppo economico del paese. Lo Stato, in tutti i settori economici, è inoltre proprietario

di molte grandi imprese che spesso sbaragliano la concorrenza occidentale offrendo beni e servizi nei mercati internazionali a bassi prezzi. Infatti il governo cinese, spesso in modo autoritario e antidemocratico, garantisce alle imprese pubbliche e private la pacifica disponibilità di una manodopera capace di grande produttività. Una pace sociale, indispensabile per governare un paese di un miliardo e mezzo di persone, mantenuta nonostante la corresponsione di salari inferiori sino a cinquanta volte quelli medi dei paesi occidentali, nonostante l’assenza delle coperture ed assistenze contro la malattia, gli infortuni, la validità e la vecchiaia, nonostante il mancato riconoscimento del riposo settimanale e delle ferie retribuite. Inoltre lo

Stato Cinese, anche in spregio ad accordi e convenzioni internazionali, come peraltro succede ad altri paesi emergenti od in via di sviluppo come l’India e le altre “tigri asiatiche”, non pretende dalla imprese elevati standard di sicurezza sul

lavoro, non fissa norme rigorose contro l’inquinamento dell’aria delle acque e del suolo contribuendo all’ulteriore riduzione dei costi d’impresa. Ciò ha indotto molte imprese occidentali (anche italiane) e giapponesi, a trasferirvi o “delocalizzarvi” tutto o parte dei propri impianti produttivi cercando di approfittare dei minori costi “ambientali”, noncuranti della disoccupazione così prodotta in patria. Inoltre grandi

gruppi industriali cinesi, sia privati che statali, stanno acquistando imprese negli Stati Uniti ed in Europa anche in settori tradizionali dell’industria manifatturiera italiana quali quello della meccanica e degli elettrodomestici, come riportato dall’articolo del Corriere della Sera del 09/02/2010 di cui si riporta il titolo.

Smog a Pechino - 2008

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La attuale crisi economica

Sarai certamente informato del fatto che gran parte del mondo sviluppato è in preda ad una grave crisi economica, iniziata negli Stati Uniti nel 2004 ed esplosa nel 2006, e che è forse la più grave crisi dopo quella del 1929.

In questo articolo del 12/10/2008 tratto dal sito www.finanzainchiaro.it vengono percorse le tappe iniziali della crisi analizzando le cause del suo esplodere nel circuito finanziario/monetario degli U.S.A, e del suo propagarsi nel mondo intero.

“Quando gli Stati Uniti starnutiscono il mondo prende il raffreddore. Questo detto del Ventesimo secolo non è mai stato tanto azzeccato quanto lo è oggi, momento in cui le economie d’Europa incespicano per via di una crisi economica creata a migliaia di chilometri di distanza. Ciò che era cominciato con degli incauti prestiti concessi negli Stati Uniti è andato espandendosi a macchia d’olio sull’intero pianeta e minaccia oggi di trasformarsi in una nuova grande depressione di portata globale. Tutto è cominciato con un mutuo. La crisi ha raggiunto proporzioni allarmanti. Tutto ha avuto inizio con lo scoppio della bolla del mercato immobiliare americano nel 2004, dopo un lungo periodo in cui i prezzi delle case erano cresciuti costantemente. A un numero crescente di

famiglie veniva data l’opportunità di accendere un mutuo, in maniera quasi indiscriminata. I creditori, infatti, si erano dati ad una pratica chiamata dei “ prestiti subprime” – concedendo prestiti a persone poco solvibili, gente a cui normalmente non sarebbe mai stato accordato un mutuo per comprar casa. I mutui subprime prevedevano un tasso d’interesse molto basso per i primi anni e un brusco aumento nei successivi. Di solito i rischi non venivano spiegati nei dettagli, mentre i debitori imboniti con la prospettiva di poter rifinanziare il mutuo negli anni a venire per mantenere il tasso di interesse ai livelli iniziali. Alcuni economisti misero in guardia riguardo ai rischi che si correvano, ma la maggioranza non volle interrompere l’atmosfera festosa che regnava nel mercato immobiliare statunitense. Sembrava che tutti ci stessero guadagnando: compagnie di costruzione, agenti immobiliari, istituti bancari e produttori di materiali edili. I felici consumatori diventavano, spesso per la prima volta nella loro vita, proprietari di una casa. Il settore passò praticamente inosservato agli occhi del Governo americano, dopo anni di deregolamentazione costante ad opera del partito repubblicano.

Rapporti reali e monetarie fra i soggetti economici

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La festa è finita. Nel periodo 2004-2006 arrivò il momento di ripagare. I tassi d’interesse sui mutui subprime schizzarono alle stelle. Molti debitori non erano semplicemente in grado di ripagare o

rifinanziare. La crisi sarebbe potuta rimanere confinata agli Stati Uniti. Sfortunatamente le banche e i creditori di questi prestiti avevano venduto i debiti ad altri investitori. I debiti sminuzzati in azioni erano

stati venduti a investitori stranieri e ad istituti bancari di tutto il mondo sotto forma di cavillosi pacchetti finanziari incomprensibili ai più. Nel 2007, 1,3 milioni di proprietà immobiliari sono state messe all'asta per insolvenza, il 79% in più rispetto al 2006. Fu il panico: nessuno sembrava sapere di chi fossero

questi debiti “ senza valore”, sparsi nel sistema finanziario a tutte le latitudini del globo.

Improvvisamente le banche non erano più disposte a farsi prestiti a vicenda, diffidenza che risultò in un cosiddetto “ credit crunch” ossia un periodo in cui c’è poca liquidità (cioé soldi contanti) nel sistema perché nessuno presta denaro. Le perdite cominciarono ad accumularsi. A luglio 2008, grandi banche e

istituzioni finanziarie a livello mondiale

denunciarono perdite per circa 435 miliari di dollari. Oggi, banche e istituti finanziari non riescono a ottenere crediti e sono in fase di stallo con valori negativi nei loro libri contabili. Molti hanno dovuto dichiarare fallimento o sono sul punto di farlo. I Governi sono stati obbligati a venire in soccorso di questi istituti per scongiurare un collasso dell’economia dalle conseguenze disastrose. Ecco solo alcuni nomi per tutti quelli per cui i Governi sono intervenuti, Freddie Mac e Fannie May negli Usa, il gigante delle assicurazioni AIG, Northern Rock in Gran Betragna e Fortis e Dexia in Belgio. Sentori di bancarotte imminenti hanno spinto il Governo americano a predisporre un pacchetto di salvataggio (bailout) del valore di 700 miliardi di dollari per scongiurare i fallimenti prima che avvengano. “ autore D. Keating

In realtà la crisi sviluppatasi dapprima nel circuito montario/finanziario ha contagiato ben presto il

circuito reale, anzi secondo molti economisti la crisi ha la sua vera causa in fattori strutturali dell’economia, in particolare nella struttura del commercio delineatasi a partire dai primi anni ’90 e nella concorrenza al ribasso esercitata dai paesi emergenti. I paesi più sviluppati hanno visto crollare le loro esportazioni di prodotti industriali e sono quindi andati incontro ad una grave crisi di sovrapproduzione caratterizzata dalla carenza della domanda estera e dalla conseguente esplosione della disoccupazione (in Italia oggi il tasso di disoccupazione è del 8,5% in Spagna quasi del 20%). L’Italia nel corso del 2009, probabilmente l’anno più nero della crisi, ha visto il proprio PIL calare del 6% rispetto al 2008, mentre Cina e India crescevano a tassi del +4-5%, cioè con tassi di crescita simili a quelli dell’Italia negli anni ’60 del boom economico. Basti pensare che il

tasso di crescita previsto per l’Italia nel 2010 è di poco superiore all’ 1% mentre per la Cina si prevede una crescita superiore all’ 11%. Il tema del crollo delle esportazioni dell’industria manifatturiera è ben riassunto dall’articolo riportato nella pagina seguente.

Fabbrica di scarpe di una nota multinazionale in Vietnam

Ex dipendente di Lehman Brothers lascia gli uffici della banca d’affari dopo il fallimento del 2008. Lehman Brothers è stata l’unica grande banca degli Stati Uniti non salvata dall’intervento dello Stato

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Tratto da La Stampa del 10/02/2010.

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Proviamo a ragionare ed a discutere insieme

Assieme al tuo gruppo di compagni individuato a lezione, prova a riflettere ed a discutere, sulla base di quanto hai letto nel libro di testo e nelle presenti dispense, delle discussioni svoltesi in classe, di quanto hai letto sui giornali o sul web, sentito alla radio ed alla televisione, di quanto hai sentito in discussioni in famiglia o con gli amici cercando di dare una risposta al seguente quesito. Ogni gruppo nominerà al suo interno un relatore – o più di uno nel caso vi siano nel gruppo opinioni differenti difficilmente conciliabili – che esporrà alla classe una sintesi finale. In ogni caso metti per iscritto alcune tue riflessioni personali maturati individualmente o a seguito della discussione di gruppo.

Delinea in modo sintetico le analogie e le differenze che a tuo avviso, sulla base delle tue

conoscenze, si possono cogliere tra la crisi economica iniziata negli Stati Uniti d’America nel

1929 e l’attuale crisi economica che colpisce anche l’Italia, sia dal punto delle cause economiche

sia dal punto di vista dei rimedi adottati dal Governi.

Crisi del 1929 Crisi attuale Come si è manifestata

Come si è manifestata

Analogie

Differenze

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Crisi del 1929 Crisi attuale

Cause economiche reali

Cause economiche reali

Analogie

Differenze

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Crisi del 1929 Crisi attuale

Rimedi adottati dai Governi per superare la crisi

Rimedi adottati dai Governi per superare la crisi

Analogie

Differenze

Reggio Emilia, aprile 2010 Prof. Michele Bagni

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Aggiornamento al dicembre 2010 Nel 2010, mentre i paesi cosiddetti emergenti (Cina, India, Brasile, Russia oltre alle tradizionali “tigri asiatiche”) crescono a livelli da boom economico (con un P.I.L. tra il +5% e il +10%) guadagnando peso negli organismi economici internazionali, nei paesi europei, negli Stati Uniti e in Giappone l’economia riprende a crescere ma non in misura sufficiente da diminuire la disoccupazione né tantomeno il debito pubblico (vedi la tabella sottostante tratta da “La Stampa

del 15/12/2010 riferita all’Italia) che rappresenta ormai il problema economico e sociale più grave della nostra epoca.

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articolo tratto da “La Stampa del 24/10/2010

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Cosa succederà in Italia

“Il Centro studi di Confindustria rivede al ribasso le stime sul Pil. Il Prodotto interno lordo dell’Italia nel 2010 crescerà dell'1% (stima di settembre +1,2%), nel 2011 dell'1,1% (stima di settembre +1,3%) e nel 2012 dell'1,3 per cento. La revisione al ribasso, rileva il CsC nei nuovi scenari economici, «incorpora il rallentamento più forte di quanto atteso».

Secondo il CsC «l'Italia delude. La frenata estiva e autunnale é stata decisamente più netta dell'attesa e il 2010 si chiude con produzione industriale e Pil quasi stagnanti. La malattia della lenta crescita non é mai stata vinta, come la migliorata dinamica della produttività nel 2006 e nel 2007 aveva lasciato sperare. Il comportamento durante la crisi ha dissipato ogni dubbio al riguardo». L'Italia «ancora una volta rimane indietro» e «il confronto con la Germania é impietoso».

La presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia ha ribadito oggi che «siamo in una situazione di incertezza politica, con il governo che ha avuto la fiducia ma che adesso deve trovare la maggioranza per fare le riforme e non solo iniziative per il contenimento del debito pubblico. Se sprechiamo anche i prossimi mesi, per il paese è un serio rischio».

Disoccupazione al 9% nel 2011, tornerà a scendere solo nel 2012

Con la crisi, dal primo trimestre 2008 al terzo trimestre 2010, il numero di occupati in Italia è diminuito di 540mila, senza contare le ore di Cig che hanno un impatto pari a 480mila unità di lavoro. Lo calcola il centro studi di Confindustria, stimando che «il numero delle persone occupate continuerà a diminuire nel 2011», con un calo atteso dello 0,4%. Il tasso di disoccupazione toccherà il 9% nel quarto trimestre 2011, e «inizierà a scendere molto gradualmente nel corso del 2012». Il numero dei disoccupati è ad ottobre 2010 (2,167 milioni) «più del doppio rispetto ad aprile 2007.

Si tornerà a livelli prerecessivi solo nel 2015

Con la crisi «la contrazione economica è stata violenta: -6,8% il Pil da massimo a minimo, 35 trimestri perduti». Lo sottolinea il Centro studi di Confindustria sottolineando che «il recupero si dimostra indeciso e lentissimo: +1,5% finora». Così, spiegano gli economisti di via dell'Astronomia nel rapporto di autunno, «non si ritornerà sui valori prerecessivi che nella primavera del 2015. Per riagguantare entro la fine del 2020 il livello del trend, peraltro modesto, registrato tra 2000 e 2007, l'Italia dovrebbe procedere d'ora in poi ad almeno il 2% annuo». Un obiettivo «raggiungibile in un arco di tempo ragionevole, come insegna la lezione tedesca, entro il 2012 secondo gli stessi documenti governativi». Ma «per coglierlo gli strumenti messi in campo appaiono insufficienti»”.

(articolo tratto Da Il Sole 24 ore del 16/12/2010)

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Mentre in Cina……. (estratto di un articolo pubblicato ne Il Sole 24ore del 12/12/2010 di N. Ferguson tradotto da F. Galimberti)

…”Il via all'industrializzazione

Oggi il Pil pro capite della Cina è pari al 19% di quello degli Stati Uniti, mentre al momento in cui furono avviate le riforme economiche, poco più di trent'anni fa, arrivava appena al 4 per cento. Hong Kong, il Giappone e Singapore erano già arrivati a quel livello nel 1950; Taiwan ci arrivò nel 1970 e la Corea del Sud nel 1975. Secondo l'istituto di ricerca Conference Board, il Pil pro capite di Singapore ora è superiore del 21% a quello degli Stati Uniti, Hong Kong è più o meno allo stesso livello, il Giappone e Taiwan circa il 25% al di sotto e la Corea del Sud il 36% al di sotto. Solo un temerario potrebbe scommettere che la Cina nei prossimi decenni non seguirà lo stesso percorso. L'industrializzazione della Cina è di un'ampiezza e di una rapidità senza precedenti. Nello spazio di 26 anni, il Pil cinese si è decuplicato. Il Regno Unito aveva impiegato 70 anni, a partire dal 1830, per quadruplicare il proprio Pil. Secondo l'Fmi, la quota della Cina sul Pil globale (calcolato ai prezzi correnti) nel 2013 supererà quota 10 per cento. La Goldman Sachs insiste a prevedere che la Cina, che recentemente ha sopravanzato il Giappone, effettuerà il sorpasso del Pil sugli Stati Uniti nel 2027. Ma il secolo asiatico per certi aspetti è già arrivato. La Cina si appresta a superare l'America per quota della produzione manifatturiera globale, dopo aver già sorpassato, negli ultimi dieci anni, la Germania e il Giappone. La più grande città cinese, Shanghai, è già al primo posto fra le supermetropoli mondiali, con Mumbai subito dietro; le città americane sono molto lontane. L'incombente crisi dei conti pubblici negli Stati Uniti accelererà senza dubbio il trasferimento del potere economico da Occidente a Oriente. Con un rapporto fra debito e introiti del 312%, la Grecia naviga già in cattivissime acque. Ma secondo la Morgan Stanley il rapporto fra debito e introiti negli Stati Uniti è del 358 per cento. L'Ufficio del bilancio del Congresso degli Stati Uniti calcola che i pagamenti degli interessi sul debito del governo federale cresceranno, di qui al 2020, dal 9 al 20% degli introiti fiscali, al 36% nel 2030 e al 58% nel 2040. Solo l'"esorbitante privilegio" dell'America derivante dal fatto di avere la maggiore valuta di riserva a livello mondiale le concede un po' di respiro. Ma questo privilegio è sempre più nel mirino del governo cinese. Per molti commentatori, il rilancio delle misure di espansione quantitativa da parte della Federal Reserve sembra aver scatenato una guerra valutaria tra gli Stati Uniti e la Cina. Se «i cinesi non prenderanno misure» per mettere fine alla manipolazione della loro valuta, ha dichiarato il presidente Obama a New York a settembre, «abbiamo altri mezzi per proteggere gli interessi dell'America». Il primo ministro cinese Wen Jiabao si è affrettato a replicare: «Non fateci pressioni sul tasso di cambio dello yuan. Molte nostre compagnie esportatrici dovrebbero chiudere i battenti, i lavoratori immigrati sarebbero costretti a tornare nei loro villaggi. Se la Cina fosse colpita da disordini sociali ed economici per il mondo sarebbe un disastro». Questi botta e risposta sono una forma di pi ying xi, il tradizionale teatro delle marionette cinese. In realtà, la guerra valutaria in corso è tra la "Cinamerica" (come definisco io le economie unite di Cina e America) e il resto del mondo. Se gli Stati Uniti stampano moneta e la Cina riesce a

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mantenere la sua valuta agganciata al dollaro, entrambe le parti ne trarranno beneficio. A rimetterci saranno paesi come l'Indonesia e il Brasile, che hanno visto il tasso di cambio ponderato su base commerciale apprezzarsi, dal gennaio 2008, rispettivamente del 18 e del 17 per cento. Ma adesso chi è che ci guadagna di più in questa partnership? Con la produzione cinese che attualmente è il 20% al di sopra del livello di prima della crisi e quella degli Stati Uniti che è ancora il 2% al di sotto, la risposta sembra evidente. Le autorità americane possono ripetere quanto vogliono il mantra che "loro hanno bisogno di noi quanto noi abbiamo bisogno di loro", e fare inquietanti allusioni alla famosa frase di Lawrence Summers sulla «distruzione finanziaria reciproca assicurata». Ma i cinesi hanno già un piano per ridurre la loro dipendenza dall'accumulo di riserve in dollari e dai sussidi all'export. È una strategia che non punta tanto a dominare il mondo come fece l'imperialismo occidentale, ma a fare nuovamente della Cina l'impero del Centro, lo stato dominante nella regione dell'Asia-Pacifico.

La nuova strategia Dovendo riassumere la nuova e ambiziosa strategia di Pechino la definirei, in stile cinese, i "quattro più": più consumi, più importazioni, più investimenti all'estero e più innovazione. In ogni caso, un cambiamento di strategia economica frutta un ragguardevole dividendo geopolitico. Consumando di più, la Cina può ridurre il suo surplus commerciale e contemporaneamente accattivarsi la benevolenza dei suoi maggiori partner commerciali, in particolare gli altri mercati emergenti. La Cina recentemente ha superato gli Stati Uniti diventando il primo mercato mondiale dell'automobile (14 milioni di auto vendute in un anno contro 11 milioni) e secondo le previsioni la domanda nei prossimi anni dovrebbe decuplicare. Entro il 2035, secondo l'Agenzia internazionale per l'energia, la Cina arriverà a usare un quinto di tutta l'energia globale, con un incremento del 75% rispetto al 2008. Nel 2009 consumava il 46% di tutto il carbone del mondo, secondo i calcoli del World Coal Institute, e assorbe una quota analoga della produzione mondiale di alluminio, rame, nickel e zinco. Lo scorso anno la Cina ha utilizzato una quantità di acciaio grezzo pari a due volte quella dell'Unione Europea, degli Stati Uniti e del Giappone messi insieme. Queste cifre si traducono in grossi guadagni per i paesi che esportano queste e altre materie prime. La Cina è già ora il principale mercato di esportazione per l'Australia (22% dell'export australiano nel 2009). Assorbe il 12% delle esportazioni del Brasile e il 10% di quelle del Sudafrica. Il Celeste impero è diventato anche un importante acquirente di prodotti lavorati di gamma alta da Giappone e Germania. Una volta la Cina esportava principalmente prodotti lavorati a basso prezzo, ma ora che pesa per un quinto sulla crescita globale è diventata il nuovo mercato più dinamico per i prodotti altrui. E una cosa del genere ti procura parecchi amici. I cinesi, tuttavia, sono comprensibilmente nervosi per i capricci dei prezzi delle materie prime. E come dargli torto, considerando le enormi oscillazioni dei prezzi negli ultimi anni? È logico dunque che cerchino d'investire di più all'estero. Solo nel gennaio del 2010 la Cina ha effettuato investimenti diretti per un valore complessivo di 2,4 miliardi di dollari in 420 imprese estere, in 75 nazioni e regioni in tutto il mondo, nella stragrande maggioranza dei casi in Asia e in Africa. I settori su cui hanno investito di più sono l'estrazione mineraria, i trasporti e il petrolchimico. Il modus operandi cinese è ormai ben consolidato in ogni parte dell'Africa: normalmente i cinesi investono in autostrade e altre infrastrutture e in cambio ricevono in concessione per periodi lunghi miniere o terreni agricoli, senza fare domande sulle violazioni dei diritti umani o la corruzione politica.

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Il potente fondo sovrano Accrescere gli investimenti nelle risorse naturali in altri paesi non è solo una strategia di diversificazione finalizzata a limitare il rischio legato a un deprezzamento del dollaro, è anche una politica che consente alla Cina di accrescere il suo potere finanziario, grazie anche al suo cospicuo e potente fondo sovrano, e che giustifica gli ambiziosi piani di espansione navale. Per usare le parole del contrammiraglio Zhang Huachen, vice comandante della Flotta navale est: «Con l'espansione degli interessi economici della nazione, la Marina è determinata a offrire maggiore protezione alle vie di trasporto del paese e a garantire la sicurezza delle nostre principali rotte marittime». Il Mar della Cina meridionale è già stato dichiarato «d'interesse nazionale fondamentale» e ci sono progetti per la costruzione di porti in acque profonde in Pakistan, Birmania e Sri Lanka. Infine, smentendo le teorie di chi vede la Cina condannata a rimanere una catena di montaggio per prodotti "progettati in California", il grande paese asiatico ora punta maggiormente sull'innovazione: per esempio vuole diventare leader mondiale nel campo delle turbine eoliche e dei pannelli fotovoltaici. Nel 2007 la Cina ha superato la Germania per quantità di domande di brevetti. Tutto questo s'inserisce in una tendenza più generale: nel 2008, per la prima volta, il numero delle domande di brevetti in Cina, India, Giappone e Corea del Sud ha superato quello dei paesi occidentali. Ogni potenza "entrante" pone sempre angosciosi dilemmi alla potenza "uscente". Tenere testa all'ascesa della Germania rappresentò un costo enorme per la Gran Bretagna, mentre fu molto più semplice scivolare quietamente nel ruolo di socio di minoranza degli Stati Uniti. L'America deve cercare di contenere la Cina o di adeguarsi? I cittadini americani sono incerti al riguardo quanto il loro presidente. In una recente inchiesta del Pew Research Center, il 49% degli intervistati si è detto convinto che la Cina «non prenderà il posto degli Stati Uniti come prima superpotenza mondiale», ma il 46% la pensa al contrario. Non è stato facile scendere a patti con un nuovo ordine globale dopo il tracollo dell'Unione Sovietica, che diede alla testa a parecchi opinionisti qui in Occidente (oggi fa sorridere ripensare a tutte le chiacchiere sull'"iperpotenza" americana). Ma la Guerra fredda durò poco più di quarant'anni, e l'Unione Sovietica non fu mai vicina a superare gli Stati Uniti sul piano economico. Quella a cui stiamo assistendo oggi è la fine di cinque secoli di predominio occidentale. Stavolta lo sfidante da Est fa sul serio, economicamente e geopoliticamente. Forse i gentiluomini di Pechino non sono ancora i padroni. Ma di certo non sono più gli apprendisti”.

Reggio Emilia, 20/12/2010 Prof. Michele Bagni