Methodo #7

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MET HODO Anno 2 Numero 7 maggio-giugno 2015 Prezzo di copertina 1,99 € 7 OTTOLOBI

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Rivista tecnico scientifica riguardante metodi, approcci, strumenti ed esperienze sullo sviluppo di nuovi prodotti e sulla loro produzione.

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METHODOAnno 2 Numero 7

maggio-giugno 2015Prezzo di copertina 1,99 €

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OTTOLOBI

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maggio-giugno

design industrialeWATH WILL OUTLIVE US?

sviluppo prodottoMetodi per innovare, TRIZ, la teoria del problem solving inventivo

DOSSIERspeciali e incontriMaker Faire Rome 2015

project managementLa leadership nella gestione dei progetti

metodi di produzioneGestire il f lusso dei materiali con il pull system

valutazione del ciclo di vitaLa smart city: una scommessa per il futuro

i nostri autori

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Una vera rivoluzione, il progettista che diventa un clone degli artigiani digitali che popolano i Fablab.

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Proprietà OTTOLOBI editoria e comunicazioneVia A.Caretta, 320131 - Milanowww.ottolobi.itP.IVA 03559000983N.REA: MI-2021527

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LA PROGETTAZIONE FABLAB-LIKE

Qualche settimana fa ho conosciuto un giovane ingegnere, laureato da pochi anni, mi incuriosiva la sua esperienza in una famosa azienda che produce elettrodomestici, nota per essere leader nello sviluppare e proporre al mercato prodotti estremamente innovativi. Premetto che questa azienda non si trova in Italia, anche se credo abbia poca importanza. Ciò che sto per raccontarvi rappresenta una novità nel panorama internazionale, una pratica comunque ancora poco diffusa.Negli anni mi sono abituato a incontrare progettisti e a frequentare ambienti di progettazione di tutti i tipi, di tutte le tipologie di prodotto, dai detersivi ai divani, alla progettazione di servizi (trovando non poche analogie con i prodotti fisici nei temi di sviluppo). In questo girovagare ho sempre riscontrato un’arretratezza metodologica più marcata nelle aree “meccaniche”. Voglio spiegare perché ho usato il termine “arretratezza”: con questo termine non intendo la capacità organizzativa, la presenza o meno di organigrammi e di regole. Intendo la modalità con le quali i prodotti vengono sviluppati, testati e validati, specie dal punto di vista funzionale. La meccanica, essendo la disciplina che, storicamente, è nata prima nel mondo dell’industria, è vittima di una sindrome da “Fordismo acuto”, cioè crede fermamente nella sequenza: progetta (in dettaglio tutto) – fabbrica o acquista (la soluzione perfetta, completa) – testa (l’intero prodotto) – “ritorna al via perché qualcosa non funziona e quel qualcosa compromette molte parti del progetto”. Questo modo di procedere non si riscontra ad esempio nello sviluppo dell’elettronica, o almeno solo in parte. Avete mai osservato la scrivania di un progettista elettronico? Mettetela a confronto con quella di un meccanico. La differenza è lampante, dal meccanico troverete, se va bene, della documentazione e qualche componente sparso, dall’elettronico troverete una quantità incredibile di schede componenti, saldatori, tester. La differenza non è solo nella quantità di materiale, è nella sostanziale differenza nell’approccio. Il meccanico progetta al cad una soluzione che qualcuno approvvigionerà attraverso i canali classici, soluzione che sarà testata, nel migliore dei casi, qualche settimana dopo, con il rischio di dover riprogettare (e ri-approvvigionare) la soluzione e perdere settimane di sviluppo; l’elettronico invece, grazie alla possibilità di provare subito la soluzione, almeno dal punto di vista funzionale, non dovrà chiedere a nessuno (se non qualche componente non presente nel suo piccolo magazzino di

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scrivania) e nella maggior parte dei casi potrà sperimentare la logica e i parametri principali di funzionamento, correggendo al momento e accorciando il loop di modifica a poche ore. Questa capacità (e facilità) di testare le soluzioni è presente in molti settori, ad esempio: chi progetta prodotti alimentari, prodotti chimici per beni di largo consumo, non passa molto tempo davanti a monitor progettando la nuova merendina, ma sperimentando, provando, testando, fino a quando non viene trovata una soluzione, o un set di soluzioni che possono essere pre-industrializzate. Lo stesso vale per chi nel suo processo di fabbricazione utilizza materiali facili da lavorare e sagomare, vedi il mondo del mobile (grazie al legno) e speriamo non perdano questo grande vantaggio abbagliati dalla chimera di diventare cloni di affermate industrie meccaniche. Perché quindi la meccanica prosegue con la sua rigidità? Perché storicamente i materiali e i processi utilizzati non hanno mai consentito di provare e testare velocemente. Ora sappiamo bene che per molti settori le tecnologie additive non sono più rappresentate dalla stereolitografia, ma da un pool di soluzioni che permettono prototipazioni rapide molto simili alla soluzione reale. Un ulteriore problema del “meccanico” è la sempre più forte componente elettronica dei prodotti, l’anima delle loro costruzioni oramai viene da competenze diverse. Far collimare lo sviluppo di questi due mondi spesso comporta ritardi, rifacimenti, incomprensioni e molti sprechi di risorse. Ecco, il ragazzo che lavora nella nota azienda di cui parlavo all’inizio mi ha raccontato che nelle sue attività di sviluppo di sottogruppi dell’elettrodomestico non si occupa solo della parte meccanica, ma grazie ad Arduino i prototipi, stampati in 3d con macchine molto evolute, vengono animati e da lui testati nella parte funzionale (compresa l’elettronica quindi), chiudendo di fatto il primo loop, quello appunto della verifica funzionale, prima di iniziare lo sviluppo di dettaglio e della affidabilità. Questo comporta un radicale incremento della efficacia ed efficienza della progettazione, un radicale cambiamento anche nel paradigma su cui si fondono le R&D della maggior parte delle aziende. Una vera rivoluzione, il progettista che diventa un clone degli artigiani digitali che popolano i Fablab. Una progettazione Fablab-like, appunto.

Buona lettura, Nicola Lippi

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WHAT WILL OUTLIVE US?

At the same time that man became conscious of being the dominant species, he began to develop a tendency towards immortality. Apart from the conviction (or self-conviction) that we live in, that we create, reality is quite different and much less romantic for our future and for that of our loved ones. We live to make “things” that will outlive us, which somehow authenticate our passage through life as long as possible and as far away from the nucleus of our family and our knowledge. This perspective puts everything that was grand, and especially the creators of such, under a less golden light from the viewpoint of the mission and, more selfishly, of the practice.However, now?

In a civilization that is hegemonized by egoism, we should be “giants” compared to the greats of the past. It must be that the impatience of seeing great things in a perceptible time does not allow me to appreciate the sediment. However, I have the distinct feeling that if two thousand years from now archaeologists should study the traces of our passage, they will find a hole in history.In the semantic crowding that characterizes our era, we are no longer able to discern the quality of quality, which still remains the only guarantee for immortality.I do everything as if it’s the last thing I do. Are you willing to do the same to become immortal?

di Giuseppe Alito

design industriale

Walter Bendix Schoenflies Benjamin,(1892-1940), filosofo, scrittore, critico letterario

e traduttore tedesco.

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Qualche tempo fa un’amica che cura un blog il cui tema è il “dubbio” (ihaveadoubt.it) mi chiese di scrivere qualcosa al riguardo. L’argomento come avrete potuto notare è onnipresente e rappresenta il fulcro attorno al quale ruotano tutti i ragionamenti di questa rubrica e non solo.Ora, evitando di percorrere strade insidiose nei meandri della mente e della consapevolezza (o inconsapevolezza) umana circa l’origine della presa di coscienza (etc.), ritengo interessante, invece, indagare sull’effetto – e le sue conseguenze – nella vita di ognuno di noi.Il divertimento di immaginare ipotetici archeologi tra duemila anni alla ricerca di resti di una millenaria “cultura” (la nostra) è inversamente proporzionale alla certezza che ci sarà qualcosa da “ricercare”!Non vi è dubbio alcuno che la conoscenza acquisita in tutti i campi e le moderne tecnologie che ne sono figlie abbiano consentito solo (o prevalentemente) un progresso, in valori assoluti, di tipo quantitativo senza variare quello qualitativo che vede diluire il suo effetto e quindi il suo “peso ponderale”.Se da un lato la cosa potrebbe risultare anche comoda vista la enorme quantità di manufatti che le nostre industrie producono ogni minuto (provate a immaginare quanta spazzatura troverebbero), dall’altro viene il dubbio (appunto) di che cosa ne è valso del lavoro, della fatica di uomini e donne (e spesso, purtroppo, di bambini) che per tutta una vita hanno dedicato gran parte del loro tempo per produrre provvisorietà, oggetti che quasi certamente non saranno in grado di parlare di loro ai posteri.

Ma quando abbiamo cominciato a sbagliare e qual

è l’errore?

Paradossalmente quando la conoscenza è diventata accessibile alle masse le quali, giustamente, hanno cominciato a desiderare prima una vita migliore e dopo la stessa vita dei “migliori”, passando direttamente dal consumo di oggetti al consumo di surrogati saltando le “cose” di cui ci parlava Remo Bodei. Ancora più interessante – e probabilmente elemento

d’ispirazione per lo stesso Bodei – è il testo di Walter Benjamin “L’opera d’arte all’epoca della sua riproducibilità tecnica”. In questo libro Benjamin – che a sua volta viene ispirato dall’interesse crescente attorno agli effetti socio-economici dell’interazione dei processi della tecnica, la società di massa e le nuove forme artistiche (oltre che dalla scuola di Francoforte e da Pirandello con il romanzo “Si gira” del 1915) – ci regala una sintesi di quanto drammatico sarà il futuro che per noi oggi è presente. Certo, nel leggerlo andrebbe considerato il fatto che l’autore si trova davanti a una realtà dirompente nel suo essere “nuova” (sia per numero di applicazioni sia per efficacia delle stesse rispetto allo stato dell’arte) e credo che persino Benjamin abbia sofferto (almeno per qualche istante) dell’inerzia psicologica di cui abbiamo parlato nello scorso numero. Pur tuttavia ci restituisce una sintesi senza pari con una lucida valutazione di aspetti negativi e positivi senza assumere mai una posizione “politica”. Innanzitutto pone l’accento sugli attori “autenticità” e “riproducibilità”. In un tratto del testo: [... l’intero ambito dell’autenticità si sottrae alla riproducibilità tecnica – e naturalmente non solo a quella tecnica. – Mentre, però, l’autentico mantiene la sua piena autorità di fronte alla riproduzione manuale, che di regola viene bollata da esso come un falso, questo invece non è il caso della riproduzione tecnica (mass production). La ragione è duplice. In primo luogo la riproduzione tecnica si dimostra, di fronte all’originale, più autosufficiente di quella manuale...] [... in secondo luogo, essa può inoltre introdurre la riproduzione dell’originale in situazioni che sono inaccessibili all’originale stesso...].

Dopo ne trae le conseguenze: [... L’autenticità di una cosa è la quintessenza di tutto ciò che di essa, fin dalla sua origine, può venir tramandato, dalla sua durata materiale alla sua testimonianza storica. Siccome quest’ultima è fondata sulla prima, nella riproduzione, in cui la prima è sottratta all’uomo (in questo caso l’oggetto del business è la copia della copia), vacilla anche la seconda, la testimonianza storica della cosa...] [... Entrambi questi processi conducono a un violento sconvolgimento di ciò che viene tramandato – a uno sconvolgimento della

Walter Bendix Schoenflies Benjamin,(1892-1940), filosofo, scrittore, critico letterario

e traduttore tedesco.

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tradizione, che è l’altra faccia della crisi attuale e dell’attuale rinnovamento dell’umanità...]. Essi stanno in stretta connessione con i movimenti di massa dei nostri giorni il cui scopo è quello di avvicinare le cose sia spazialmente che umanamente, e questo può avvenire solo con la riproduzione, ma nell’istante in cui alla riproduzione manca il criterio dell’autenticità anche l’intera funzione sociale si trasforma. Al posto di una sua fondazione (e funzione) nel rituale si instaura una sua fondazione su una prassi diversa, vale a dire un suo fondarsi sulla politica.

Per fare un esempio banale, pensate alle cornici complete di foto in vendita all’Ikea. Capite come si sia completamente trasformata la funzione di quell’oggetto un tempo accessorio (cornice) per una memoria personale oggi elemento di arredamento chiunque sia l’autore della foto (la quale, in quanto tale, assolutamente marginale). Quindi si è passati dall’importanza che esistano (in quanto memoria) all’importanza che esistano perché vengano viste!

Benjamin ritiene che l’appassionato proposito delle masse di potersi “avvicinare” alle cose potrebbe essere soltanto il rovescio di quel senso di crescente alienazione che ha per conseguenza la vita attuale per l’uomo non soltanto rispetto a se stesso, bensì anche rispetto alle cose.Tutto ciò è quello che viene definito degenerazione verso il basso dove il convenzionale viene goduto senza alcuna critica e ciò che è veramente nuovo viene criticato con ripugnanza.Benjamin cita Madame de Duras: il vero è ciò che può; il falso è ciò che vuole. Oggi si potrebbe aggiungere: il falso è ciò che vuole, persino il vero!

Ma al fine di arricchire il quadro (e concludo), c’è un altro tratto dell’archivio dell’autore che trovo significativo: [... Il comparire su larga scala di beni, il cui valore un tempo non era per nulla connesso alla loro singolarità, non è un evento limitato soltanto all’arte. Vale forse la pena di richiamare l’attenzione sulla produzione di merci nella quale, naturalmente, questo fenomeno diventò tangibile sin da subito. La cosa importante è sottolineare che questo fatto non è circoscritto né all’ambito dei beni naturali né a quello dei beni estetici, bensì si impone non meno nell’ambito morale. Nietzsche ha annunciato un

criterio morale di valori proprio per ogni singolo individuo. Questa visione è fuori corso; nei rapporti sociali dati è infruttuosa. Tra questi, per la valutazione dell’individuo è determinante il suo standard morale. Non verrà contestato il fatto che il singolo debba essere giudicato in base alla sua funzione nella società. Il concetto di standard morale, però, va al di là di questa concezione. È il suo pregio. Dove infatti in passato si esigeva l’esemplarità morale, il presente esige la riproducibilità. Essa riconosce come giusti e conformi allo scopo solo quelle modalità di pensiero e di comportamento che mostrano accanto alla propria esemplarità anche la propria apprendibilità. In particolare qui viene richiesto più che non la loro apprendibilità da parte di un numero illimitato di singoli individui. Si esige da essi che siano immediatamente apprendibili da parte delle masse e da ognuno dei singoli all’interno di queste masse. La riproduzione su grande scala di opere d’arte non sta in connessione soltanto con la produzione su grande scala di oggetti industriali bensì anche con la riproduzione su grande scala di comportamenti e disposizioni umane. Trascurare queste correlazioni significa privarsi di ogni mezzo per stabilire l’attuale funzione dell’arte...].

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Non ci vuole tanto a intravedere in queste conclusioni il nostro presente ma come in quasi tutte le congiunture negative esiste un serbatoio di opportunità pronte da cogliere.

Certamente si tratta di questione etica e troppo spesso il termine ha rappresentato un antagonista debole del profitto (i nostalgici direbbero del capitalismo). Ma presto potrebbe non essere più così ed è uno degli stream più potenti di questo ultimo ventennio a testimoniarlo. L’ecologia (termine che rappresenta un mondo il cui confine non è ancora stato definito) offre oggi la possibilità di conciliare profitto (tanto) ed etica (certa). Lo stesso si può dire per tutto ciò che concerne il tema della salute (esclusa la ricerca medica) legato all’avanzata inesorabile dell’età media della popolazione mondiale che vede aumentare a vista d’occhio l’aspettativa di vita con buona pace per le casse degli Stati.

Ma più in particolare sono Paesi come il nostro che avrebbero le migliori chances. Il nostro è un popolo che ha tutti gli strumenti (oltre che per produrre qualità) utili a riconoscere (e quindi riprodurre) la qualità della qualità, che rimane la sola garanzia per l’immortalità. E quando parlo di qualità non mi riferisco solo a quella tecnica (oggettiva) bensì anche e soprattutto a quella estetica o meglio ancora alla compenetrazione delle due in una cosa sola. Lo stiamo facendo? Ci sono molti esempi nel nostro Paese che sembrano andare in quella direzione magari non tutti per “vocazione” molti certamente per passione.

C’è, però, un indicatore che conferma che ciò non è ancora sufficiente. In una recente inchiesta de Il Sole 24 Ore si parla di diseguaglianze in occasione della presentazione del rapporto della Fondazione David Hume e dell’uscita del libro di Anthony Atkinson massimo esperto mondiale sul tema. In sintesi si evince che nelle società avanzate del pianeta la diseguaglianza è oggi più alta che quarant’anni fa, ma attualmente (e da almeno un decennio) la tendenza dominante

Friedrich Wilhelm Nietzsche,(1844-1900), filosofo, poeta, compositore e

filologo tedesco.

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è alla diminuzione. Anche gli indicatori che misurano la diseguaglianza interna dei singoli Paesi (sempre avanzati) tendono allo stesso risultato.

In Italia la situazione (al contrario della percezione generale) non è tanto diversa, si potrebbe dire addirittura migliore. L’indice Gini che misura la diseguaglianza dei redditi stabilisce che per la media Ocse è pari a 0,35 mentre per l’Italia è 0,33 (valore più basso di quello del Regno Unito). Il paradosso di questi dati è che, così come sono, più che rappresentare un fattore positivo per la struttura economica del Paese, rappresentano lo scenario inverso.

Sergio De Nardis capoeconimista di Nomisma afferma che il dato è tale perché in Italia non si è innescato il meccanismo paradossalmente virtuoso delle economie che si trovano sulle frontiere specializzative più avanzate e a maggiore valore aggiunto (esattamente il “luogo” dove si troverebbe l’Italia), nelle quali le diseguaglianze aumentano perché vi è una domanda robusta e continuativa di competenze professionali di alto livello e di elevata remunerabilità. In pratica nonostante sia nelle nostre “corde” concepire e produrre valore aggiunto le nostre imprese continuano a lavorare nella parte bassa dei mercati e questo evidentemente non le spinge alla ricerca di profili di alto livello. Esattamente come per il caso delle domande di brevetto di cui abbiamo parlato nello scorso numero oggi aggiungiamo un altro tassello (negativo) che disegna ancor più dettagliatamente la nostra direzione (o deriva) strategica.

Dobbiamo prendere delle decisioni e dobbiamo farlo in fretta e l’unico modo è che siano decisioni di tanti singoli piuttosto che di “sistema”. Se ognuno di noi nel prendere le decisioni quotidiane, anche quelle più insignificanti, tenesse a giusto conto le ripercussioni delle proprie azioni nel lunghissimo periodo sono certo che riusciremmo a invertire la curva della qualità a scapito di quelladella quantità.

Dobbiamo decidere cosa vogliamo essere: un Paese di manutentori impegnati a preservare quanto fatto in passato da gente migliore di noi – ma a giudicare dai risultati (si veda lo stato degli scavi di Pompei) non sembra essere la nostra vocazione – oppure essere un Paese di persone impegnate nella costruzione di un passato, il nostro!

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METODI PER INNOVARE,

TRIZ, LA TEORIA DEL PROBLEM SOLVING INVENTIVO

Easy TRIZ - Gli strumenti per la creatività

Il primo approccio al triz è generalmente impegnativo. Questo perché ci si trova di fronte a una serie di strumenti, alcuni dei quali piuttosto complessi, come ad esempio i modelli subtance field. Il suggerimento che viene dato, suggerimento che proprio Altshuller usava dare, è quello di iniziare utilizzando i tools più semplici, in un crescendo di complessità, in modo che il nostro problema inventivo venga sottoposto progressivamente a una analisi sempre più approfondita fino a trovare la giusta risposta per livello di complessità del problema stesso.

Generalmente, durante la prima sessione di triz con un team di lavoro, si nota la tendenza a voler indirizzare la discussione fin da subito sulla ricerca delle soluzioni, o meglio, molti cominciano a indicare la soluzione prima ancora di aver condotto la benché minima analisi o comunque senza un approccio metodologico. Nel tempo si è consolidata la buona pratica di non lasciare cadere questo momento, tanto meno di denigrare le idee delle persone che iniziano ad approcciarsi al metodo. Un buon modo per iniziare è quello di raccogliere le idee che naturalmente vengono esposte, addirittura incoraggiandone la generazione. In questo modo si tolgono dal campo tutte soluzioni, le idee, i preconcetti che ogni partecipante rischierebbe di portarsi dietro cercando a ogni passo di trovare l’appiglio per giustificare la sua stessa idea, evitando di sforzarsi nell’utilizzare il triz per trovarne di migliori. Questo primo momento di brainstorming serve quindi a creare il cosiddetto “parcheggio delle cattive soluzioni” o

di Nicola Lippi

sviluppo prodotto

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“bad solutions park”. In questo modo si scaricano le menti dalle idee istintive e semplici, se poi, tra queste, ve ne sarà una buona, il problema non necessiterà di una analisi più approfondita con il triz. Il primo passo da compiere è quindi quello di fare punto e a capo, togliere l’istinto, le idee sedimentate, tipiche della inerzia psicologica, per trovarne se possibile di migliori. Il “bad solutions park” rimarrà comunque a disposizione per il resto della sessione dal quale attingere idee anche in un secondo momento. Queste genere di approccio generalmente spiazza il team, inoltre è un modo per rompere il ghiaccio anche se il vero obiettivo è fare piazza pulita di tutto ciò che già sappiamo e che, probabilmente, nel passato non ha prodotto risultati.

Smart little peopleIl primo vero tool che voglio presentarvi è veramente semplicissimo, consiste nell’immaginare il problema da risolvere, il problema inventivo, l’azione o la funzione da svolgere come se fosse ardita da tanti piccoli uomini intelligenti. In particolare da gruppi rivali di uomini intelligenti, un gruppo che svolge una azione dannosa o non voluta o che si vuole modificare, l’altro che cerca di combatterlo. In questo modo si stimolano le persone a scomporre il problema in sottocategorie, obbliga a descrivere il problema in maniera più dettagliata indicando chi e dove sta facendo cosa, dando dei ruoli, immaginando più “gruppi causa” e più “gruppi soluzione”. La cosa interessante di questo metodo è la possibilità di individuare le soluzioni “intelligenti”, modulate e organizzate proprio come se a intervenire dovessero essere dei piccoli uomini dotati della loro intelligenza e della loro forza su cui fare leva sapendo della possibilità di dare loro quindi una organizzazione, una gerarchia (figura 1).

I 9 schermi/9 finestreDopo aver elaborato, parcheggiato le prime le idee, abbiamo provato a immaginare il nostro problema composto da esseri intelligenti capaci

di diversi ruoli e responsabilità e allo stesso tempo abbiamo cercato di immaginare una soluzione partendo da questo tipo di schematizzazione. Se questo approccio non ha prodotto risultati, o vogliamo andare oltre e trovare soluzioni più intelligenti o efficaci, abbiamo la possibilità di utilizzare un altro strumento semplice ma potente, i 9 schermi (o 9 finestre). Alla base di questo approccio c’è una teoria secondo la quale chi naturalmente possiede una innata capacità inventiva nella soluzione dei problemi è in grado di visualizzare il problema in almeno 9 finestre (schermi) differenti. È una visualizzazione che si estende su 2 assi, uno temporale ovvero la capacità di guardare oltre al presente cercando le soluzioni prima e dopo, ma anche di sistema in cui si osserva il problema a differenti livelli, nelle sottoparti in cui è composto il nostro sistema, e nel supersistema ovvero il mondo di cui fa parte il nostro sistema e con il quale interagisce. Perché 9 se fino ad ora ne abbiamo contate 6? Lo vediamo nella figura 2.

Figura 1

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Nella figura 3 vediamo come sia gli elementi del sottosistema che quelli del supersistema vengono visualizzati nel tempo, incrementando la potenza dell’indagine e della ricerca delle soluzioni.

Si tratta di analizzare i motivi (e trovare le soluzioni) che fanno perdere alla pizza consegnata a domicilio le condizioni ottimali di quando è appena sfornata. È interessante notare come si possano ricercare soluzioni non solo osservando la pizza nella sua condizione (afflosciata, non croccante, fredda) ma anche nei suoi sottosistemi o supersistemi come il sistema di trasporto della pizza, ad esempio, ma ancora si sarebbero potuti mettere molti altri elementi.

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Figura 2

Figura 3

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Un secondo esempio riguarda una penna (figura 4) dove in questo caso si analizza la penna non solo nel momento in cui scrive, ma anche prima che scriva o dopo la scrittura, e ancora sia a livello di sistema che di supersistema e sottosistemi. A questo punto la penna diventa improvvisamente meno semplice di quello che poteva sembrare, le 9 finestre possono fornire spunti per introdurre nuove soluzioni, modificare il modo di utilizzare la penna o di riporla, agendo non solo sulla intera penna ma anche sui singoli componenti o sul mondo circostante.

Linguaggio sempliceUn ulteriore metodo per comprendere meglio il problema e individuare ulteriori possibili soluzioni è quello di descriverlo senza utilizzare il comune linguaggio tecnico o acronimi tipici.

Questo aiuta a rompere la barriera della inerzia psicologica. Ad esempio una nave rompighiaccio ce la immagineremo sempre fatta allo stesso modo fino a quando non utilizzeremo dei termini diversi per descriverla. Se usiamo “rompighiaccio” saremo sempre portati a creare

sistemi in grado di rompere il ghiaccio per consentire alla nave di procedere. Se invece descriviamo il problema come “nave che deve andare da un punto a un altro attraversando un mare coperto da una coltre di ghiaccio” le possibili soluzioni possono diventare altre, dalla soluzione “Hovercraft” (viaggio sopra il mare) a modi alternativi per disgregare il ghiaccio (vibrazioni, calore, composti chimici, etc.).

Un diverso esempio è quello dello spazzolino da denti. Il termine spazzolino già ci indica la

soluzione tecnica adottata per pulire i denti. In questo caso sarebbe più opportuno descrivere

l’oggetto come un “ausilio per evitare che si accumuli placca sui denti”. A questo punto le soluzioni sono molteplici, la rimozione meccanica mediante spazzole è una delle soluzioni, abbiamo poi ultrasuoni, rimozione chimica, ricopertura dei denti in modo che la placca non possa aderire, una rimozione ottica (un qualche dispositivo laser) o ancora l’acqua in pressione.

Figura 4

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The other way round

Quando stiamo cercando di trovare una soluzione al nostro problema, un altro modo di pensare, spesso utile, è quello di provare a invertire l’azione che risolve il problema, “invece di riscaldare raffredda”, “invece di fare girare l’esterno, prova a fare girare l’interno”. Come in figura 5, “invece di fare girare i bagagli, fai girare le persone”.

Il tapis roulant è un esempio classico di questo modo di pensare, è il terreno che si muove non la persona, oppure i mezzi cingolati dove il cingolo, istante per istante è fermo rispetto al terreno ma si muove rispetto al mezzo consentendone l’avanzamento.

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Figura 5

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COS’ È MAKER FAIRE?

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Maker Faire è il più importante spettacolo dell’innovazione al mondo, un evento family- friendly ricco di invenzioni, creatività e inventiva, e una celebrazione della cultura e del movimento makers. È il luogo dove maker e appassionati di ogni età e background si incontrano per presentare i propri progetti e condividere le proprie conoscenze e scoperte. Maker Faire ha vantato 131 eventi nel solo 2014, e ha raggiunto oltre 1.5 milioni di visitatori complessivamente, sin dal suo lancio a San Mateo, in California nel 2006.

La 9° edizione della Maker Faire Bay Area ha accolto oltre 110 makers e oltre 130.000 visitatori. World Maker Faire New York, l’altro evento chiave, è cresciuto in quattro anni fino ad ospitare oltre 600 maker e ad accogliere oltre 75.000 visitatori.

Detroit, Kansas City, Atlanta, Milwaukee, Orlando, Rome, Paris, Hannover, Berlin, Trondheim, Oslo, Newcastle, Tokyo Singapore, Taipei e Shenzhen ospitano altri gli altri eventi di alto profilo, mentre oltre 120 Mini Maker Faire – eventi indipendenti – sono curate da community locali in tutto il mondo, ispirano e motivano a innovare le comunità che aggregano intorno a sé.

MAKER FAIRE ROME – THE EUROPEAN EDITION

Maker Faire Rome è l’edizione europea di Maker Faire. Con oltre 600 invenzioni in mostra nel 2014 e 90 mila visitatori, la Maker Faire Rome è la più grande esposizione al mondo dopo le americane Area Bay e New York. Quest’anno, dopo il successo delle edizioni 2013 e 2014, sono attese centinaia di invenzioni e attrazioni da 65 nazioni. In programma: live performance, panel, workshop, seminari, conferenze e molte sorprese soprattutto per i più piccini ai quali sarà riservata una speciale Area Kids ancora più grande e ricca di attività rispetto alle precedenti edizioni.

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Maker Faire Rome – The European Edition è organizzata da Asset Camera, Azienda Speciale della Camera di Commercio di Roma la cui la mission è mettere la città di Roma al centro del dibattito sull’innovazione, attraverso la diffusione della cultura digitale e lo sviluppo dell’imprenditorialità individuale e collettiva, propria del DNA del movimento dei Makers.

La Maker Faire 2015 si svolgerà dal 16 al 18 ottobre 2015 a “La Sapienza” Università di Roma che diventerà, per l’occasione, una vera e propria “città del futuro”.

È una fiera che unisce scienza, fantascienza, tecnologia divertimento e business e dà vita a qualcosa di completamente nuovo. Maker Faire è una manifestazione nata per soddisfare un pubblico di curiosi di tutte le età che vuole conoscere da vicino e sperimentare le invenzioni create dai makers, invenzioni che nascono dalla voglia di risolvere piccoli e grandi problemi della vita di tutti i giorni. Maker Faire è un evento pensato per accendere i riflettori su centinaia di progetti provenienti da tutto il mondo in grado di catapultare i visitatori nel futuro.

Non solo una fiera per addetti ai lavori. Alla Maker Faire, infatti, si possono trovare invenzioni in campo scientifico e tecnologico (dalle stampanti 3D ai wearables, passando per droni, robot e il digital manifacturing) ma anche nuove forme di arte, spettacolo, artigianato, sperimentazioni sul cibo e attrazioni mai viste prima.

Le parole d’ordine della Maker Faire sono: incontro, confronto, formazione, divertimento e interazione.Il pubblico può sperimentare e provare a giocare con queste nuove invenzioni e l’innovazione diventa alla portata di tutti attraverso percorsi di esperienze in cui i visitatori sono parte integrante della fiera stessa.

È un evento per famiglie in cui sia i bambini che gli adulti vengono coinvolti in centinaia di divertenti attività educative e dimostrative. Un modo per imparare a costruire il proprio smartphone, i propri giocattoli, “stampare in 3d” scarpe, gioielli, borse e perfino ravioli commestibili o anche scoprire come rendere domotica la propria casa con pochi e semplici accorgimenti.

Sono attesi oltre 600 espositori maker insieme a PMI innovative, scuole e Fab Labs che presenteranno progetti nei seguenti settori:

• 3D printing• 3D scanning• Arduino• Art• Artisans & New Craft• Biology• Cultural Heritage• Drones• Education• Energy & Sustainability• Fabrication• Fashion & Wearables• Food & Agriculture• Games• Hacks• Home Automation• Internet of Things

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Kids & Education• Music & Sound• Open Source• Recycling & Upcycling• Robotics• Science• Steam Punk• Wellness & Healthcare

Inoltre:

• Educational• Workshops• Hackathon• Live Talk• Attrazioni Spettacolari

Confermata per l’edizione 2015 una speciale Area espositiva dedicata ai progetti dei ragazzi degli Istituti Tecnici e Professionali provenienti da tutta Italia.

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Sono appassionati di tecnologia, educatori, pensatori, inventori, ingegneri, autori, artisti, studenti, chef, artigiani 2.0, insomma tutti coloro che creano e stupiscono con la forza delle proprie idee. Sono persone che, con un forte approccio innovativo, creano prodotti per avvicinare la nostra società a un futuro più semplice e divertente.

Il loro motto è “fai da te” ma soprattutto “facciamo insieme”.

Sono, infatti, una comunità internazionale presente in oltre 100 paesi e condividono informazioni e

conoscenze sia attraverso il web sia attraverso veri e propri luoghi fisici, i cosiddetti Fab Lab.

Usano macchinari come frese o stampanti 3D ma anche software e hardware open source che si possono scaricare gratuitamente dal web per dare vita a qualcosa di originale. I makers, oggi, vengono identificati come un vero e proprio movimento culturale dalle enormi potenzialità sul piano dello sviluppo sociale ed economico, grazie alla loro capacità di esplorare nuove strade o semplicemente di percorrere in modo “moderno” quelle esistenti.

CHI SONO IMAKERS?

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Nuove tecnologie del digital design e della prototipazione stanno dando a tutti il potere

di inventare e creare “la coda lunga delle cose”

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Conosciamo le persone che cambiano il mondo in cui viviamo: Tomas Diez

MEET THE INNOVATOR

Tomas Diez è un urbanista di origine venezuelana specializzato in digital fabrication e nelle sue implicazioni nello sviluppo delle città del future. Attualmente coordina il progetto Fab Lab dell’Istituto Superiore di Architettura Avanzata della Catalogna e la Fab Academy, espressione del network internazionale dei Fab Lab. Le sue ricerche si concentrano sull’uso degli strumenti digitali per la trasformazione della realtà fisica, allo scopo di trovare una relazione più fluida tra uomo e macchina.

Come ti sei avvicinato al mondo maker?

Si è trattato di un caso (come diverse altre cose importanti della mia vita). Stavo completando i miei studi in urbanistica in Venezuela nel 2006 e avevo appena deciso di trasferirmi in Europa: a Londra, Madrid o Barcellona. Mandai

oltre 25 domande di internship a diverse realtà; ne avevo bisogno per completare la mia tesi. Fui accettato da due di loro ma decisi comunque per Barcellona: avevo sempre amato la città e l’offerta dallo IAAC era davvero allettante. E una volta li, mi sono ritrovato nel meeting sbagliatio... ero al tavolo con i direttori dello IAAC quando Vicente Guallart (uno dei fondatori e direttore a quell tempo) disse: Neil Gershenfeld arriverà tra 3 mesi, ci serve un Fab Lab. Questo è il libro e questa la lista dei macchinari, chi può occuparsene?” Ovviamente fu lo stagista a vincere la sfida. Una volta iniziato il libro e le ricerche sulla digital fabrication mi ritrovai a pensare “dimentica la progettazione di piazza e strade, questo è il vero modo di cambiare le città, cambiando I modelli di produzione e il ruolo dei cittadini in tutto questo”. E quindi iniziai a progettare l’inventario ed a lavorare con Victor Viña e Shane Salisbury (entrambi grandi maestri) per lanciare Fab Lab Barcelona all’inizio del 2007.

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Cosa apprezzi di più dell’universo maker?

Mi piace l’idea di restituire il potere alle persone, ai singoli, e la presenza di opportunità e di opzioni, che considero la vera idea di ‘uguaglianza’. Non credo nei sistemi che disegnano per noi percorsi predefiniti, o che pongono tutti sullo stesso piano, a prescindere Credo invece che abbiamo bisogno di scelte per evolvere, e che dotare le persone sia degli strumenti che delle piattaforme per condividere ed innovare sia la cosa migliore che possiamo fare, l’essenza del “maker movement” (anche se non condivido fino in fondo questo naming). Siamo stati maker per secoli, cercando di bilanciare l’industrializzazione che manteneva distanti produzione e consumo. Mi suona un po’ strano ora parlare di ‘making’ come fosse qualcosa del tutto nuovo, perché siamo makersda sempre! Preferisco definirci come protagonisti di un’era di transizione, una volta ancora, come addadde all’inizio del XX secolo e, prima, alla fine del XV secolo.

Qual è la tua idea di sistema dell’innovazione perfetto?

Molti sostengono che sia quello al quale tutti i settori partecipano, e mi trovano d’accordo. Suonerà forse scontato ma, per me, l’innovazione dovrebbe derivare non da repliche di modelli genere Silicon Valley, o comunque modaioli, ma da ciò che non mi aspetto, come quando siedo vicino a qualcuno con il quale non dovrei avere niente in comune, o parlo a chi mai avrei immaginato di voler coinvolgere in qualcosa. E quindi, si: industria, governi, società civile,

formazione, istituzioni, imprese...tutti dovrebbero essere parte del sistema e perchè accada c’è bisogno di spazio, fisico e mentale, e di piattaforme in cui tutto questo possa realizzarsi. Ecosistemi come questi dovrebbero poter crescere liberi in ogni città e in ogni regione, a partire dalle loro proprie risorse, secondo modelli bottom-up puro.

Quali attività definiscono al meglio la tua idea di ‘smart city”?

Ad oggi, “smart city” è stato un brand molto utilizzato sia dal pubblico che dal private per vendere prodotti e servizi e giustificarne i relative costi. Sono convinto che la tecnologia serva, e che custodisca il potenziale necessario ad abilitare nuovi approcci al governo ed alla gestione delle città. Ma ritengo anche che la visione di una città ‘smart’ non debba limitarsi agli aspetti infrastrutturali sotto il profilo tecnologico, specie se questo è funzionale al ‘controllo’ di chi ci vive! Ricordo la mia sorpresa quando il progetto Control Operation Room (COR) di Rio de Janeiro vinse come miglior progetto allo “Smart City Expo and World Congress” di Barcelona, nel 2013: per me, COR era una moderna trasposizione di 1984 di George Orwell: una stanza piena di schermi dai quali monitorare tutta la città. Immaginavo già il sindaco vestito come Doctor Evil spegnere ed accendere i semafori a suo piacimento...Decisamente, non la mia idea di “smart”. D’altro canto però, anche il nostro progetto “Smart Citizen” vinse, nella stessa occasione, nella categoria “Progetti Innovativi”; nel 2014, il termine “smart citizen”

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è stat oil più utilizzato da sindaci, imprenditori, ricercatori.L’intera idea di smart city non ha molto senso se non avviene attraverso la valorizzazione del ruolo dei cittadini: nuove infrastrutture sono utili e necessarie ma lo sono anche le opportunità di trovarsi, condividere, apprendere che ai cittadini devono essere, quindi, riservate. Il ruolo dei cittadini va nella direzione opposta a quella del controllo; sono convinto che vedremo molte battaglie sul tema nei prossimi anni, esattamente come sta avvenendo per Internet.

Come possono le città far fronte alle esigenze di sempre nuovi servizi in un momento come questo di tagli ai budget, senza compromettere il proprio orientamento all’innovazione?

La chiave, per me, è nell’allocazione delle risorse. Viviamo in un mondo surreale, dove quasi tutto è appannaggio delle autorità di governo, perlomeno in Europa. Le persone vanno al lavoro, guadagnano quanto possono, vanno in vacanza. A tutto il resto pensa lo stato. Ma questo modello ha già ampiamente dimostrato di non essere più sostenibile. A parer mio, dovremmo chiedere ai nostri governanti piattaforme ed infrastrutture che abilitino i cittadini a creare loro stessi lavoro. Non dico che tutti faremmo meglio a perseguire una carriere da imprenditori, né che dovremmo lanciarci in nostre attività, ma che abbiamo bisogno di diversificare il modo in cui il business è generato, e per perseguire questo obiettivo abbiamo bisogno anche di comprendere meglio i contesti piuttosto che di importare modelli dall’esterno. Dobbiamo lavorare sulla creazione di nuovi modelli di produzione, perché avranno un effetto domino, senza dubbio. Non parlo di una rivoluzione ma di evoluzione, un upgrade dei sistemi attualmente in uso. Perché, per esempio, ancora non votiamo digitalmente? Perché i bambini non imparano programmazione (bene!) findalla scuola primaria? Città e governi dovrebbero passare da ‘fornitori di servizi’ a ‘fornitori di opportunità’. Suona faticoso, me ne rendo conto, ma è in quella direzione che dobbiamo andare.

Quali aspetti dell’innovazione – secondo te – sono

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“Non c’è bisogno del permesso di nessuno

per fare grandi cose.”

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sono stati meglio recepiti dagli urbanisti e dai city manager? E dalle amministrazioni locali?

Devo essere onesto: ho la sensazione che ‘innovazione’ rischi di diventare soltanto l’ennesimo strumento di marketing di molti. Ogni governo locale ha inseguito il sogno di replicare una nuova Silicon Valley o un nuovo ecosistema dell’innovazione anche nel suo recinto. Anni fa fu il ‘la sostenibilità ambientale’; oggi tocca ai fablab e ai makers essere oggetto di questa curiosità ‘interessata’, e questo rischia di indebolire il movimento, se il cambiamento radicale di paradigma, sociale in primis, che porta con se’ non viene correttamente comunicato. Città come Barcellona o San Paolo sono (s)oggetto di moltissime iniziative, dal fablab pubblici a makerspace. Ci diranno cosa accadrà nel futuro. Questi spazi e le occasioni che portano con se’ saranno gestiti come tanti altri, da persone con mentalità 9-17, o piuttosto da appassionati, carismatici progettisti che restino tutto il tempo che serve a completare un progetto? E, ancora: saranno chiamati a costruire su quell’infrastruttura tutto un nuovo ordine di cose? O...? FabLab burocratizzati o liberi di trasformarsi, di evolvere in altro? La pianificazione urbana non ha solo a che fare con lo spazio costruito, e i designer non sono soltanto coloro che organizzano rotatorie e trasporti locali. L’urbanistica riguarda il design delle interazioni umane con, per la città e – secondo me – con la costruzione di piattaforme in grado di adattare le città ai bisogni di chi ci vive, piuttosto che il contrario e con un ritrovato ruolo di questi ultimi, che trasformi il contesto complessivo in qualcosa di nuovo a sua

volta. La tecnologia lo permette, e siamo soltanto all’inizio. E’ questo il momento di tirar dentro la conversazione tutte le discipline, per combinarle in nuovi modelli di sviluppo.

Ross Atkin, su input di Bruce Sterling, ha recentemente pubblicato il “Manifesto for the Clever City”. Atkin supera l’idea di ‘smart’ e suggerisce attenzione all’inclusività come elemento chiave. Quanto c’è della tua visione della FabCity in questo approccio?

Credo che la tecnologia sia inclusiva per sua natura. Acquisiamo nuove capacità per disegnare, sviluppare e costruire soluzioni, e la tecnologia ce lo consente. Mi piace il “Manifesto for the Clever City”: è semplice e chiaro, dritto al punto. Le città sono sistemi complessi: siamo noi, umanissimi, a definirle, e quello umano è il sistema più complesso per definizione. Il network di FabLab che si sta ora realizzando a Barcellona è pensato per rispondere a quei bisogni, e fornire ai cittadini l’infrastruttura che mancava. Simili a biblioteche, i Fabrication Athenaeums (il nome che abbiamo scelto per I nostri FabLab) mira a “spargere la voce” sull’innovazione in città (ogni municipio ne avrà uno) e a rappresentare la porta d’accesso all’innovazione per tutti, anche per quanti non abbiano alcuno specifico background, e per avvicinarli alla manifattura digitale, al coding, alla programmazione, alla stampa 3D. Tutto questo è molto ‘clever’, non trovate anche voi?

Austin (TX) prevede di aumentare I suoi residenti da 750.000 a 2 milioni

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in poco meno di 1 anno grazie ad un massiccio investimento in connettività e digitale. Una piccola città che diventa attrattiva e che invita a trasferirvisi da tutto il mondo. Che tipo di modello immagini per una città europea che volesse seguirne le orme?

In Europa stiamo assistendo al fenomeno inverso: molti talenti lasciano la grande città e rientrano nelle proprie regioni, spesso meno ricche di opportunità. La gentrificazione di aree precedentemente dismesse è un trend in crescita. L’Europa si muove lentamente, e dentro regole e schemi spesso inadeguati, percepiti come una limitazione all’iniziativa individuale. Allo stesso tempo, però, alcune città già importanti consolidano la lororeputazione e il potere d’attrazione: Barcellona, Milano, Amsterdam, Londra, Berlino o anche Copenhagen e Ljubljana stanno polarizzando conoscenze e opportunità . Gli scenari sono diversi in Europa, vedremo.

Quali caratteristiche dovrebbe avere una città mediterranea per diventare maggiormente attrattiva verso un pubblico d’innovatori?

Prima cosa da fare: smettere di copiare modelli di altre città. L’idea che ogni destinazione possa diventare la nuova Silicon Valley è insensata ma, sfortunatamente, è stata inseguita diverse volte. Le città del mediterraneo si fondano su valori culturali, geografici e sociali molto forti; libertà, accoglienza, informalità sono caratteri distintivi che le rendono attraenti ed eccitanti. Dovremmo lavorare per valorizzare

questa eredità piuttosto che per sconfessarla, e su di essa costruire nostri propri modelli. Sono consapevole che il costo di queste operazioni – anche culturale – sia alto e che maggiori siano anche i rischi, ma il risultato sarebbe sorprendente.

Sei riuscito a creare un ambiente davvero fertile intorno al tuo FabLab di Barcellona. E’ stato difficile? Ti sei mai sentito solo in questo sforzo di stringere relazioni con la città intorno a te?

Abbiamo aperto il FabLab tra il 2006 e il 2007. A quel tempo ce n’erano meno di 10 in tutto il mondo...gli inizi sono sempre un po’ solitari, si. Abbiamo dovuto letteralmente trascinare le persone nel lab e spiegare e mostrare cosa volessimo farne. Portare la digital fabrication a un livello più personale, avvicinarla agli utenti, è stato difficile ma si è rivelato vincente, anche grazie al support del Master in Architettura di IAAC, alla Biennale di Venezia, dove abbiamo curato il padiglione Hyperhabitat, e al progetto Fab Lab House (progetto abitativo interamente sostenibile). Si tratta di progetti che ci hanno guadagnato visibilità internazionale attraverso una sfida locale. Quando nel 2011 il nuovo sindaco appena eletto – Xavier Trias – scelse tra i membri dello IAAC e del Fab Lab Barcellona chi lo avrebbe aiutato a governare l’innovazione in città, e io e Vicente Guallart (IAAC co- founder e City Planner della città) siamo stati chiamati a guidare il progetto, abbiamo capito di essere stati compresi a nostra volta. Oggi è tutto molto diverso: al Fablab abbiamo visite ogni giorno, e

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lavoriamo col vicinato su diversi livelli: dall’apertura del ristorante nel FabLab alle attività proprie del service, all’organizzazione di eventi, alla formazione.

Qual è il tuo piu grande timore rispetto all’innovazione?

Temo chi vi si avvicina con superficialità, e chi ci vede uno strumento di brand e auto- promozione, perché mettono a rischio quanto realizzato finora. E temo i modelli calati dall’alto: ciascuno deve trovare il suo; copiare non è sempre bene.

Qual è la tua più grande soddisfazione come direttore del FabLab? E come sostenitori delle FabCity?

Mi sento onorato e fortunato di poter lavorare con il team di IAAC e di Fab Lab Barcellona. Condividiamo visione, progetti e idee. Esistere, come siamo, è il nostro più grande risultato, viste le difficoltà che abbiamo incontrato. Siamo tutti molto fieri di chi siamo e di quello in cui crediamo, e vogliamo continuare a crescere e ad evolverci.

Quale aspetto dell’innovazione credi dovremmo approfondire per rendere migliori le nostre città?

Manifattura digitale sostenibile, per tutti, subito. Riportare le persone a ‘fare’, a creare ed educare a questo fin da giovanissimi, portando programmazione e coding nelle scuole fin dalle prime classi.

Quale talento vorresti avere (o vorresti poter rubare ad un altro

innovatore)?

Credo fortemente che ciascuno di noi possa essere o diventare ciò che desidera; c’è del genio in ciascuno di noi. Detto questo, però, ti confesso che vorrei essere un musicista migliore.

Se potessi offrire un consiglio ad un amministratore locale, quale sarebbe?

Di valutare, supportare, promuovere pratiche e progetti innovativi ma di astenersi dal cedere alla tentazione di mettersi al centro della scena. Valorizzare, piuttosto, i talenti e le risorse locali; snellire la burocrazia; investire in innovazione. E, prima ancora, credere nelle persone e nella loro passione. Quello è il percorso.

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LA LEADERSHIP NELLA GESTIONE DEI PROGETTI

La leadership del project manager è importante?

In un precedente articolo apparso in questa rubrica abbiamo proposto qualche considerazione su quelli che possono essere considerati dei fattori di successo nei progetti, e abbiamo molto brevemente citato fra questi la leadership di chi ha la responsabilità finale sul progetto.

Pensando alle moltissime problematiche che devono essere affrontate in un progetto ci possiamo domandare quanto importante possa essere il ruolo della leadership del Project Manager. Facendo una graduatoria dei fattori di successo di un progetto, dove si potrebbe posizionare questo elemento rispetto agli altri elementi di base quali un’accurata pianificazione, un efficace controllo dell’esecuzione, una intelligente gestione dei rischi, una buona performance del team di progetto?

Riflettendo su questa tematica possiamo notare comunque che molti degli elementi che determinano il successo di un progetto possono essere favoriti e rafforzati dalla leadership di chi ha la responsabilità ultima del progetto, e quindi la presenza della leadership del Project Manager può essere posizionata se non al primo posto sicuramente nella parte alta della classifica.

Ricordando quelle che sono le caratteristiche della leadership comunemente riconosciute, ci appare subito evidente quanto la sua presenza sia fondamentale in un progetto. Il leader ispira il team

di Alberto Fischetti

project management

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di progetto, lo proietta verso l’obiettivo, ne rafforza il senso di appartenenza, lo sprona ad affrontare gli ostacoli che si presentano senza mai perdere la fiducia ed evitando che esso cada nel pessimismo.Ecco la ragione per la quale riteniamo che possa essere di qualche interesse mettere a fuoco meglio il profilo che dovrebbe avere un leader identificando nelle cronache capi progetto che si avvicinino il più possibile a tale profilo. La spedizione Endurance di ShackletonPer stabilire il contesto nel quale esamineremo alcuni elementi sui quali basare una descrizione della leadership di un capo progetto, abbiamo scelto tra i molti fornitici dalla storia delle imprese umane un esempio tra i più impressionanti, quello di Sir Ernest Shackleton e della storia della sua spedizione “Endurance”. Ci auguriamo vivamente che nessun Project Manager debba mai trovarsi nella drammatica situazione in cui si trovò Shackleton, ma riteniamo che dalla storia della spedizione Endurance possano trarsi molti insegnamenti.

La storia che vogliamo molto sinteticamente evocare ebbe inizio con la Imperial Trans Antartic Expedition, il cui obiettivo era l’attraversamento del continente antartico partendo dal mare di Weddell a ovest fino al mare di Ross a est attraversando il Polo Sud. La spedizione, chiamata brevemente “Endurance” (potremmo tradurre questo appellativo con “Resistenza”), era ideata da Sir Ernest Shackleton, un navigatore ed esploratore anglo-irlandese che già aveva avuto esperienze di esplorazioni polari con la spedizione antartica “Discovery” condotta da Robert F. Scott e con la spedizione “Nimrod” durante la quale l’equipaggio aveva attribuito a Shackleton l’appropriato appellativo di “the boss”. Shackleton fece costruire in Norvegia un veliero a tre alberi da 348 tonnellate con propulsione ausiliaria con motore a vapore da 350 HP. La nave, battezzata “Endurance”, era stata minuziosamente progettata e fu considerata

la più robusta nave di legno esistente al mondo. L’equipaggio fu composto da Shackleton come comandante e capo spedizione e 27 uomini tra i quali due medici, un geologo, un metereologo, un biologo, un fisico e James Francis Hurley, un bravissimo fotografo che ha lasciato a testimonianza della spedizione una notevolissima quantità di splendide fotografie.

Ernest Henry Shackleton,(1974-1922),

esploratore britannico di origine irlandese.

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L’Endurance salpò da Plymouth il 9 agosto 1914. Il precedente 28 giugno era stato assassinato a Sarajevo l’Arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, e il 4 agosto, lo stesso giorno in cui il re Giorgio V aveva donato a Shackleton per la sua spedizione la bandiera dell’Union Jack, la Gran Bretagna aveva dichiarato guerra alla Germania. Nonostante questi tragici avvenimenti, dopo molte discussioni, la decisione di procedere ugualmente con la spedizione antartica fu confermata: Winston Churchill, allora Primo Lord dell’Ammiragliato, fu il maggiore sostenitore di questa decisione.

L’Endurance navigò, con una sosta intermedia a Buenos Aires durante la quale vennero imbarcati molti membri della spedizione e 69 cani da slitta, fino al mare di Weddell, in Antartide, raggiungendo la latitudine di 76° Sud. Ma nel gennaio del 1915 sfortunatamente la nave rimase intrappolata nella banchisa. L’Endurance andò alla deriva nel mare di Weddell bloccata dai ghiacci della banchisa per molti mesi, risalendo il mare fino a raggiungere la latitudine di 69° Sud.

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Il 27 ottobre 1915, l’equipaggio, su ordine di Shackleton, abbandonò la nave che stava per essere stritolata dal ghiaccio, e si attrezzò per la sopravvivenza in un precario accampamento battezzato “Ocean Camp” su un grosso lastrone della banchisa. Dopo pochi giorni, il 21 novembre 1915, l’Endurance, distrutta definitivamente dalla morsa del ghiaccio, si inabissò. I membri della spedizione restarono accampati in condizioni durissime ed estremamente precarie sulla banchisa. Il loro nutrimento era sostanzialmente basato sulla carne e il grasso

delle foche e dei pinguini che venivano cacciati. Erano state recuperate dalla Endurance tre scialuppe. Il 9 aprile 1916 gli uomini, notato che il ghiaccio iniziava a frantumarsi, salirono a bordo delle scialuppe e dopo sette giorni di navigazione riuscirono a raggiungere alla latitudine di 61°Sud l’isola Elephant, isola questa assolutamente inospitale poiché ricoperta da neve e ghiaccio per la maggior parte della sua superficie e per il resto costituita esclusivamente da rocce.

Shackleton capì che era indispensabile ripartire

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al più presto e ritenne che la destinazione migliore fosse la Georgia del Sud, anche se questo significava navigare per oltre 1500 chilometri in pieno oceano con la James Caird, una delle tre scialuppe salvate dal naufragio dell’Endurance.

Le acque che gli uomini avrebbero dovuto affrontare a bordo di una barca lunga sette metri erano conosciute per essere tra le più tempestose del mondo. Il viaggio della James Caird resta a tutt’oggi uno dei più temerari viaggi marittimi mai effettuati. Per questo

viaggio Shackleton si fece accompagnare dai due marinai e dall’ufficiale in seconda Thomas Crean. Venne inoltre imbarcato il carpentiere della spedizione, Harry McNish e il navigatore Frank Worsley cui spettava il compito di verificare la rotta con il solo ausilio di un sestante e di un cronometro. Tutti gli altri uomini rimasero nell’isola Elephant. Essi utilizzarono una scialuppa come ricovero di fortuna.

L’8 maggio 1916, dopo 15 giorni di navigazione l’equipaggio della James Caird avvistò alcune isole della Georgia del Sud e, dopo una violenta tempesta, riuscì finalmente a toccare terra il 10 Maggio nella costa sud dell’isola South Georgia Ia. Il 19 maggio 1916, dopo 36 ore di marcia attraverso l’isola, percorrendo con notevoli difficoltà un territorio sconosciuto fatto di aspre montagne e ghiacciai, i navigatori giunsero finalmente alla stazione baleniera Stromness nella costa nord dell’isola, dove furono accolti dal locale amministratore.

Appena in salvo nella Georgia del Sud Shackleton iniziò a organizzare la spedizione di soccorso per recuperare gli uomini rimasti sull’isola Elephant. Il primo tentativo venne effettuato soltanto tre giorni dopo l’arrivo a Stromness. Il 23 maggio 1916 il peschereccio “The Southern Sky” che si trovava nella baia salpò con destinazione l’isola Elephant. Questo primo tentativo, operato grazie all’aiuto dei pescatori locali, non ebbe però successo poiché la nave, sebbene giunta in prossimità dell’obiettivo, fu costretta a tornare indietro a causa dello spessore della banchisa.Shackleton fece rotta allora verso Port Stanley nelle isole Falkland. Però, una volta capito che il Regno Unito, ancora impegnato nella guerra contro gli imperi centrali, non avrebbe inviato soccorsi ai naufraghi prima di almeno sei mesi, decise di cercare aiuto

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in Sud America. Arrivato in Uruguay il governo locale gli fornì una barca, la “Instituto de Pesca No.1” e successivamente anche la nave privata “Emma”. Entrambi i tentativi furono però vani poiché la banchisa risultava essere ancora troppo spessa e le condizioni meteorologiche inasprite con il proseguire della stagione invernale. Tuttavia, il 30 agosto 1916, quattro mesi dopo la partenza dall’isola Elephant, Shackleton riuscì a raggiungere tutti i 22 naufraghi rimasti sull’isola e a imbarcarli su una nave militare cilena, la “Yelcho”. Seppure estremamente provati dalla dura esperienza, tutti gli uomini del gruppo del mare di Weddell furono tratti in salvo.

Gli elementi della leadership di ShackletonSebbene l’obiettivo fondamentale alla base del progetto Endurance non fosse stato realizzato, non possiamo non provare un grande senso di ammirazione per come Shackleton abbia

perseguito e raggiunto il nuovo obiettivo che si pose quando l’Endurance rimase intrappolata nei ghiacci: quello di salvare e riportare a casa i suoi compagni di spedizione. E indubbiamente nel grande successo di questo nuovo obiettivo possiamo identificare gli elementi di una forte ed efficace leadership di colui che continuò a essere chiamato “the boss”. Elenchiamo dunque alcuni dei principali componenti di questa leadership.

Scegliere gli uomini

Quando Shackleton pubblicò un bando per il reclutamento del team di spedizione, pur

non offrendo salari particolarmente attraenti, ricevette oltre 5000 candidature (fra le quali quelle di tre donne), il più delle volte motivate da spirito di avventura. La selezione fu effettuata da Shackleton stesso, con colloqui che duravano al massimo cinque minuti. I criteri di selezione erano basati essenzialmente sul “gut feeling” e

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alle volte le domande che Shackleton poneva ai candidati erano quantomeno strane, puntando comunque a individuare i tratti caratteriali e dando per scontate le capacità professionali. Al dottor Reginald James, uno dei due medici che furono inclusi nel team, Shackleton chiese semplicemente se “aveva un buon carattere” e se “sapeva cantare”. Evidentemente Shackleton dava la massima importanza al contributo che il candidato avrebbe dato allo spirito del gruppo. La storia della spedizione ha dimostrato che Shackleton dimostrò un’ottima capacità di selezione e che diede un’importanza elevatissima alla composizione del suo team (“first who, then what” dice Jim Collins nel suo interessantissimo libro “Good to Great”). Quindi:

lezione n.1: saper scegliere le persone

Definire un obiettivo e condividerlo

Quando l’Endurance rimase imprigionata nella terribile morsa della banchisa e si dovette constatare che i ghiacci l’avrebbero inesorabilmente stritolata, Shackleton annullò l’obiettivo iniziale della spedizione antartica e si pose il nuovo fondamentale obiettivo di riportare a casa i suoi uomini. Tale obiettivo scaturiva dal fortissimo senso di responsabilità di Shackleton, il quale riteneva suo imprescindibile dovere quello di salvare le persone che aveva lui stesso coinvolto nell’avventura antartica. Tutti i suoi piani e le sue azioni furono indirizzati al raggiungimento del nuovo obiettivo. Per ogni decisione Shackleton convocava tutto il team e comunicava chiaramente la decisione in modo da condividerla con tutti. Quindi:

lezione n.2: definire e condividere chiaramente un obiettivo

Indirizzare tutte le azioni verso l’obiettivo

Shackleton, da quando l’Endurance fu stritolata dai ghiacci, valutò e perseguì ogni azione possibile sulla base delle risposte alla domanda: “questa azione contribuisce al raggiungimento dell’obiettivo fondamentale?”. Ogni decisione doveva essere basata su questo criterio di valutazione. Quando Shackleton pose un limite

di 2 libbre al peso totale di oggetti personali che ciascun membro del team poteva portare con sé dal relitto dell’Endurance, permise al meteorologo Leonard Hussey di tenere il suo banjo di 12 libbre, superando il limite di peso concesso, poiché ritenne che fosse un oggetto necessario al mantenimento del morale del gruppo. Quindi:

lezione n.3: vagliare tutte le alternative e decidere solo per quelle che

contribuiscono all’obiettivo

Saper affrontare gli ostacoli con spirito positivo

Shackleton, avendo una solida esperienza di spedizioni antartiche e avendo uno spirito molto pragmatico, era capace di capire subito le situazioni e individuare con precisione e realismo i problemi, a volte veramente drammatici, che si presentavano. Pur non celando a se stesso le difficoltà, egli non abbandonò mai un atteggiamento molto positivo (che oggi potremmo sintetizzare con la frase resa famosissima “yes we can”). Un fattore determinante fu l’atteggiamento positivo dimostrato e il coraggio che egli continuamente infuse nei membri del suo equipaggio. Quindi:

lezione n.4: individuare gli ostacoli e saperli affrontare senza perdere la fiducia

Fare scelte difficili

La situazione in cui si trovarono Shackleton e il suo gruppo era estremamente critica, e Shackleton non esitò ad affrontare scelte estremamente penose. Calcolata la situazione delle razioni e della difficoltà di approvvigionamento, Shackleton dovette decidere di uccidere tutti gli animali che non erano in grado di contribuire allo sforzo richiesto dagli spostamenti. Particolarmente dolorosa e straziante fu l’eliminazione di alcuni cuccioli di cane cui tutti erano molto affezionati, e del gatto “Miss Chippy” del carpentiere Mc Neish. Quindi:

lezione n.5: essere in grado di fare scelte difficili ma necessarie per il conseguimento

dell’obiettivo

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Attenzione alle persone

Shackleton dette sempre la massima priorità al benessere del suo equipaggio. Già nelle spedizioni precedenti “the boss” aveva dimostrato un atteggiamento del tutto discosto da quello comunemente tenuto in quei tempi in cui era in voga soprattutto la disciplina e l’obbedienza. Egli considerò sempre i suoi collaboratori come dei suoi pari anziché delle risorse spendibili in qualunque modo. L’attenzione alle persone fu dimostrata dalle decisioni su come alloggiare gli uomini negli spazi ristretti dell’Endurance prima e degli accampamenti poi tenendo conto delle caratteristiche degli individui, dall’attenzione e dalla cura poste nel capire gli stati d’animo e nel mantenere uno spirito di gruppo positivo. Uno degli episodi emblematici in tal senso fu il licenziamento all’inizio della spedizione di

un cuoco incompetente e la sua sostituzione con un abilissimo cuoco, poiché Shackleton riteneva che un buon cibo fosse fondamentale per mantenere alto l’umore dell’equipaggio. Quindi:

lezione n.6: porre la massima attenzione alle persone

Infondere fiducia e coraggio

Ne abbiamo già parlato nella lezione n.4, Shackleton trasmise sempre ai suoi uomini un senso di fiducia nelle capacità che il gruppo possedeva per uscire dalle difficili situazioni in cui veniva a trovarsi. Come ci insegnano tutti i coach più famosi, se si parte con la convinzione di sbagliare o di non riuscire a fare qualcosa, il fallimento diventa quasi una certezza. Diviene quindi fondamentale affrontare i problemi con la convinzione che ci sarà un modo per risolverli e che tale modo si troverà. Le difficoltà devono essere percepite solo come elementi da superare. Quindi:

lezione n.7: mantenere nel team uno spirito positivo rafforzandone la fiducia

Mantenere un forte spirito di team

L’equipaggio che Shackleton formò era molto eterogeneo e composito. Le persone provenivano dai più diversi strati sociali e avevano i più disparati background culturali. Si andava da marinai a scienziati, da giovanissimi senza esperienza a persone mature. Shackleton riuscì ad amalgamare le persone in un team efficace ed efficiente, basando tale riuscita su una serie di elementi fondamentali nella gestione di un team:

• rompere le gerarchie e far condividere fra tutti a turno i lavori più pesanti implementando una rotazione dei compiti;

• dare l’esempio: Shackleton non affidava a nessuno un lavoro che non fosse in grado di eseguire lui stesso;

• ascoltare le persone ed essere sempre accessibile;

• comunicare e informare;

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• utilizzare le diversità ritagliando i ruoli e le responsabilità in funzione delle capacità individuali;

• celebrare i successi e mantenere a ogni costo pause di relax e di divertimento.

Quindi:

lezione n. 8: rafforzare e mantenere lo spirito di team

ConclusioniCi siamo alquanto dilungati nella narrazione dell’impresa di Sir Shakleton, “the boss”, affascinati dalla vicenda e dal personaggio. Dalle peripezie dell’Endurance abbiamo potuto trarre moltissime indicazioni di quanto sia importante la leadership nel condurre un progetto al suo traguardo. Abbiamo elencato solo alcuni, per motivi di spazio, dei molti elementi sui quali era fondata la leadership di Shakleton. Per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento ci

permettiamo di suggerire la lettura del bellissimo libro “Shackleton’s Way” di Margot Morrell e Stephanie Capparell.

La leadership di Shackleton permise a un gruppo di uomini di affrontare e superare situazioni impreviste assolutamente avverse e di raggiungere l’obiettivo di riportare a casa la pelle (cosa non da poco). Pensiamo sia dunque utile che tutti i responsabili di progetto riflettano sugli insegnamenti forniti dalla storia dell’Endurance, e a essi auguriamo di cuore di non trovarsi imprigionati nella morsa dei ghiacci antartici, di non doversi nutrire per lungo tempo di carne di foca e di pinguino (non l’abbiamo mai assaggiata personalmente ma pensiamo che non possa essere annoverata tra i piatti più gustosi), e invece di realizzare con successo tutti gli obiettivi dei loro progetti.

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Page 42: Methodo #7

GESTIRE IL FLUSSO DEI MATERIALI CON IL PULL SYSTEM:

vantaggi e punti di attenzione da non dimenticare

Uno dei 3 principi operativi di riferimento del modello “lean production” è il Pull System (sistema di produzione “tirato”)¹, che si contrappone al Push System (sistema di produzione “spinto”), cioè a un sistema nel quale il materiale avanza tra le diverse fasi del processo produttivo in base alla programmazione/schedulazione della produzione: in questo sistema i materiali avanzano da una fase all’altra a prescindere dall’effettivo consumo avvenuto nella fase successiva, andando eventualmente a essere depositati in magazzini inter-operazionali.

In un sistema produttivo tirato ciascuna fase del processo è fornitore, se vista dalla fase successiva, o cliente, se vista dalla fase a monte. La fase fornitrice deve produrre solo e soltanto ciò che la fase cliente ha già consumato, mentre la fase cliente deve consumare solo e soltanto ciò che realmente gli serve in un determinato momento: il materiale prelevato dalla fase cliente si trova in un magazzino inter-operazionale denominato supermarket, dove il cliente ha la garanzia di trovare sempre ciò che gli serve.Il meccanismo di prelievo dal supermarket da parte del cliente e di ripristino della quantità consumata da parte del fornitore viene governato dai kanban (in Giapponese “segnale”). I kanban sono spesso dei “cartellini” che riportano una serie di informazioni sul prodotto che si vuole utilizzare o che si deve produrre: di fatto, essi rappresentano l’autorizzazione a prelevare o produrre del materiale all’interno del processo produttivo.

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metodi di produzione

di Alberto Viola

1 Gli altri 2 principi sono il Takt Time, indicatore utilizzato per uniformare il ritmo della produzione a quello delle vendite finali, e il One-Piece-Flow, principio che spinge le aziende a cercare di produrre con lotti sempre più piccoli al fine di avvicinarsi il più possibile a una produzione “a flusso” (vedere anche n° 2 di METHODO).

Page 43: Methodo #7

ll supermarket è diverso da un tradizionale magazzino inter-operazionale di componenti e/o semilavorati perché nel supermarket la scorta massima e minima di ciascun materiale è definita: la quantità di ciascun codice presente nel supermarket viene dimensionata, esattamente come succede a qualsiasi altra risorsa del sistema produttivo (spazi, macchine e attrezzature, uomini).

Un’altra importante differenza tra il Push System

e un sistema tirato è che nel Push System tutte le fasi del processo richiedono di essere programmate, mentre nel Pull System viene programmata dal sistema che recepisce gli ordini clienti solo una fase del processo produttivo, denominata “pacemaker”. I materiali prodotti dalle fasi a monte del pacemaker vengono appunto “tirati”: le fasi a valle del pacemaker non richiedono programmazione in quanto collegate tra loro dalla produzione a flusso.

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Fig.1 - Push e Pull System

Page 44: Methodo #7

Un errore commesso nel passato

Il sistema produttivo “pull”, nato in Giappone alla Toyota Motor negli anni ’50, è noto in Occidente già dagli anni ’80, e noti sono anche gli enormi benefici che questo sistema può portare alle aziende, tuttavia ancora oggi viene applicato pienamente e con successo da poche realtà, soprattutto in Italia.

Come mai?I motivi della difficoltà che trovano le aziende nell’introdurre questo sistema sono molteplici, ma uno dei principali è sicuramente da ricondurre all’approccio semplicistico con il quale si è pensato di realizzarlo: spesso infatti le aziende hanno confuso il “Pull System” con la mera applicazione dei cartellini kanban.

Come già detto, il kanban non è altro che uno dei tanti semplici strumenti suggeriti dal modello per dettare i tempi del prelievo e della produzione dei materiali all’interno del processo produttivo: tutt’altra cosa è invece il “Pull System”, che consente alle aziende di semplificare drasticamente la programmazione della produzione e di definire e regolamentare il rapporto fornitore-cliente che esiste tra due fasi dello stesso processo produttivo, e che è il risultato finale di un’importante opera di miglioramento delle stesse fasi produttive.

Condizioni necessarie per implementare il Pull System

Come sopra menzionato, il Pull System tra 2 fasi di un processo produttivo funziona ed è regolato da un supermarket, un magazzino inter-operazionale definito e dimensionato secondo regole ben precise. Le quantità di ciascun codice di componente/semi-lavorato presente nel supermarket vengono infatti calcolate sulla base delle caratteristiche delle 2 fasi considerate; ad

esempio, quanto più lunghi sono i tempi di setup della fase a monte per poter cambiare il codice da produrre, nonché il tempo necessario per la produzione del lotto di materiali, tanto maggiore dovranno essere le quantità dei codici prodotti da quella fase da posizionare nel supermarket: analogamente, anche le modalità con le quali il cliente preleva il materiale dal supermarket impattano notevolmente sulla quantità necessarie (per l’impatto di una produzione livellata sulle scorte di un supermarket si può consultare il secondo numero di METHODO). Il livello delle scorte in un supermarket dipende anche dal tasso di difettosità delle due fasi produttive a monte e a valle del supermarket: quanto maggiore è il tasso di difettosità, tanto maggiore dovranno essere le quantità presenti.Si sottolinea che quanto sopra riportato vale anche quando la fase a monte del supermarket è un fornitore esterno dell’azienda: le logiche per il dimensionamento sono esattamente le stesse.

Tuttavia il fattore che maggiormente impatta sulle dimensioni di un supermarket, nonché, ancor più grave, sullo stesso funzionamento corretto del Pull System, è la variabilità delle prestazioni delle fasi a monte e a valle del supermarket: in genere questa variabilità viene contrastata utilizzando delle scorte di sicurezza che ovviamente vanno ad aumentare le quantità di materiali stoccate.²

La scorta di sicurezza viene dimensionata sulla base della variabilità dei processi e sul livello di servizio che si vuole garantire al cliente: la questione è che, per quanto possa essere accurato il calcolo, il dimensionamento avviene su una variabilità “media” delle prestazioni del processo. Che cosa succede se, in alcuni casi, fatto salvo il valore medio di questi parametri, le 2 fasi performano peggio? Semplicemente, il cliente (la fase a valle) non trova il materiale nel supermarket e il sistema si blocca per mancanza di materiali (per un eccessivo consumo non previsto o per un tempo di rifornimento superiore al normale).

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2 Le scorte di sicurezza (SS) vengono in genere calcolate con la seguente formula:

SS = k * σ * √LTdove:• k è un coefficiente che dipende dal livello di servizio che si intende garantire al cliente;• LT è il tempo di attraversamento necessario al fornitore per rifornire il materiale;• σ è la deviazione standard della domanda

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Page 45: Methodo #7

Poiché alla base del concetto di supermarket (e quindi del Pull System) c’è il cliente soddisfatto perché trova sempre ciò che gli serve nel momento in cui gli serve (il termine supermarket ha origine infatti da supermercato, dove in linea teorica chiunque può trovare ciò che gli serve quando va a fare la spesa) è ovvio che la scarsa prevedibilità (o, in altri termini, l’alta variabilità) delle performance operative delle fasi interessate è il problema principale che può impattare su un corretto funzionamento del Pull System.

Il punto chiave del Pull System è che il supermarket è anche e soprattutto uno standard del sistema produttivo, esattamente come lo sono i cicli di lavorazione o le istruzioni operative. La quantità presente in un supermarket è infatti standard, compresa tra un valore minimo e massimo, e per poter soddisfare sempre il cliente è necessario che anche le fasi a monte e a valle abbiano un comportamento “standard”.

Garantire sempre la soddisfazione del cliente finale con un livello di scorte standard, è quindi possibile solo con fasi e processi produttivi con performance standard (cioè “sotto controllo”): senza questo pre-requisito, la semplice messa in circolo di cartellini kanban non può che essere destinata a un sicuro fallimento.Il successo del sistema pull-kanban è invece garantito da una attenta valutazione ed eventuale miglioramento delle prestazioni dei processi produttivi su cui si vuole realizzare il sistema lean.

In sintesi, le condizioni che consentono di realizzare un Pull System che funzioni e dove le scorte del supermarket siano contenute, sono le seguenti:

• affidabilità: il grado di affidabilità delle fasi considerate deve essere tale da garantire un rifornimento costante (e “sotto controllo”) di materiale conforme da parte della fase fornitore e un costante (e “sotto controllo”) consumo dello stesso materiale da parte della fase cliente;

• flessibilità: il grado di flessibilità delle fasi considerate deve essere tale da consentire a entrambe di cambiare i codici da produrre secondo le esigenze del cliente finale con dei tempi di setup il più possibile contenuti per mantenere basso il livello delle scorte

necessarie;

• capacità produttiva: le capacità produttive delle fasi considerate devono essere sufficienti a soddisfare le richieste del cliente e uguali tra loro, per evitare delle frequenze di ripristino e di consumo dei materiali tra loro significativamente diversi.

Quanto più queste condizioni sono soddisfatte tanto più è possibile realizzare il Pull System con supermarket ridotti e quindi un flusso produttivo più snello. Pertanto l’implementazione del Pull System deve essere considerato il punto di arrivo e non il punto di partenza di un percorso di cambiamento che si articola in diverse fasi e che vede nel costante miglioramento delle performance delle fasi produttive (tempi di attraversamento, flessibilità e qualità) il punto chiave: l’introduzione dei cartellini assume in questi termini una rilevanza assolutamente secondaria.

I vantaggi del Pull System

È stato già menzionato in precedenza che il Pull System consente alle aziende di semplificare drasticamente la programmazione e schedulazione della produzione andando a regolamentare secondo degli standard operativi (livello di scorte nel supermarket, logiche di prelievo e di ripristino delle quantità consumate) l’avanzamento dei materiali tra le diverse fasi del processo produttivo e limitando a un’unica fase del processo le esigenze di programmazione (processo “pacemaker”). Questo è sicuramente uno e, forse, il principale vantaggio di una gestione dei materiali secondo una logica “tirata”: sicuramente è il vantaggio più noto e citato sulle pubblicazioni che trattano questo argomento.Tuttavia, implementare il Pull System porta ad altri vantaggi, altrettanto importanti e, se vogliamo dal punto di vista della mentalità e dell’approccio nella gestione dei materiali, ancor più rilevanti. Abbiamo detto in precedenza che l’implementazione del Pull System rappresenta il punto di arrivo di un’opera di miglioramento del processo produttivo, senza la quale il sistema non si regge in piedi: e questo è sicuramente vero. Tuttavia, la questione può essere vista

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Page 46: Methodo #7

in modo diametralmente opposto andando a considerare le quantità di materiali presenti nel supermarket come il “segnale” di quanto sono performanti le fasi a monte e a valle, e la loro continua e costante riduzione come il “trigger” che trasforma il percorso di implementazione del Pull System in un fantastico motore per il miglioramento continuo dei processi aziendali, al fine di renderli sempre più snelli ed efficienti.Attenzione solo ad aver creato in precedenza un minimo di condizioni operative capaci di garantire un minimo di affidabilità e flessibilità del sistema produttivo!

Limiti di applicabilità del Pull System

Qualcuno potrà obiettare che il Pull System non è sempre applicabile in tutti i contesti aziendali. Questa considerazione è effettivamente vera perché è vero che il concetto di supermarket si presta molto bene alla gestione dei codici di componenti e semilavorati ad “alta rotazione” e un po’ meno ai codici a “bassa rotazione”: per quale motivo dovrei mettere a supermarket (che resta pur sempre un magazzino) dei materiali che non so neanche se andrò a consumare con il solo obiettivo di metterli a disposizione della fase a valle per un futuro (eventuale) consumo?

Immaginate cosa succederebbe se in un punto vendita di una catena di fast food mettessero alle spalle delle cassiere oltre agli hamburger anche altri prodotti pronti come insalate o piatti particolari, con la pretesa di poter “indovinare” quanti ne verranno consumati durante la giornata!

Ciò nonostante, l’esperienza insegna che, se è vero che il sistema deve essere adattato ai diversi contesti aziendali, il Pull System può e deve essere applicato in tutte le realtà visto che:

• in tutte le realtà aziendali esistono “pochi” codici ad alta rotazione che generano la maggior parte del consumo di materiali (secondo la legge universale di Pareto): questo è vero anche per le aziende che lavorano su commessa dove, sicuramente, si possono trovare comunanze nelle distinte base dei prodotti e sicuramente si può lavorare su di esse per poter aumentare questa comunanza;

• per i codici a bassa rotazione è possibile comunque mantenere la logica visiva del

“segnale” (kanban) per attivarne la produzione o il prelievo, a garanzia della semplicità delle logiche di programmazione e avanzamento dei materiali;

• il Pull System è un motore per il miglioramento dei processi produttivi che può essere utile comunque in tutte le realtà produttive.

Possibili configurazioni di un Pull System

Quando si parla di Pull System in genere si pensa solo a un sistema dove tra le diverse fasi di un processo produttivo sono presenti dei supermarket governati, per il prelievo e il ripristino dei materiali, da un certo numero di cartellini kanban.

Nella realtà, le modalità attraverso cui introdurre il principio “pull” nel processo produttivo possono essere anche altre, riconducibili tuttavia ad altre 2 possibilità:

• la prima consiste nel collegare alcune delle fasi interessate con una logica FIFO LANE: in questo caso tra le fasi è ancora presente un “magazzino”, con una quantità massima di materiale definita che viene consumata dalla fase a valle nell’esatta sequenza con la quale è stata prodotta dalla fase a monte (FIFO = First In First Out);

• la seconda non prevede, in una condizione standard, materiale tra le diverse fasi, prevedendo tuttavia degli spazi dove depositarlo in caso di necessità (sistema CONWIP = CONstant Work In Process): con la logica CONWIP, se necessario, e questo avviene quando il sistema ha problemi di affidabilità, è data possibilità a singole fasi del processo di produrre il proprio semilavorato sempre è solo se è arrivato il segnale “pull” dal magazzino di prodotti finiti.

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Fig.2 - Il Pull System

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Page 47: Methodo #7

Ovviamente, situazioni ibride rispetto alle 2 sopra presentate sono sempre possibili.Questo significa che, se è vero che per implementare il Pull System occorre avere processi produttivi con un certo livello di affidabilità e flessibilità, è anche vero che non è richiesta la “perfezione” (che non si avrà mai) e che è possibile applicare il principio “pull” modulando il grado di implementazione agendo su diversi parametri, tra i quali ricordiamo:

• i codici che si vogliono gestire a supermarket;• le quantità di ciascun codice che si intende mettere a

supermarket;• la configurazione scelta (supermarket, FIFO Lane,

CONWip) o una combinazione tra queste.

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Fig.3 - FIFO Lane e CONWip

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Page 48: Methodo #7

Tre spunti di riflessione

Nella tua azienda è stato mai utilizzato il cartellino kanban? Ha avuto successo? Se no, che cosa ha contribuito al fallimento dell’iniziativa? Al contrario, quali sono stati i fattori di successo?

Nella tua azienda esistono codici di prodotti finiti, semilavorati o componenti che possono essere gestiti con logica “pull”?

Quali possono essere le motivazioni che non rendono possibile implementare il Pull System con i fornitori?

Tre suggerimenti

Prima di introdurre il Pull System, considera attentamente quali interventi di miglioramento dovrai realizzare per migliorare e avere il controllo dell’affidabilità e della flessibilità del tuo processo produttivo.

Dimensiona i supermarket e scegli quale configurazione “pull” (Supermarket, FIFO Lane, CONWip) dare al tuo sistema produttivo in base ai livelli di affidabilità e flessibilità che hai raggiunto con i miglioramenti introdotti.

Riduci progressivamente e con continuità le quantità presenti nel supermarket per migliorare continuamente il tuo processo produttivo, per renderlo più snello e quindi con sempre meno sprechi.

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La Smart City: una scommessa per il futuro

Page 49: Methodo #7

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La Smart City: una scommessa per il futuro

IntroduzioneNegli ulti anni tanto si è parlato di Smart City a molti livelli, siano essi politici, economici e popolari. Spesso però si associano a questa parola concetti variegati e idee poco chiare, soprattutto per i cittadini che vedono le proprie realtà locali coinvolte in progetti di sviluppo che richiamano tale terminologia, senza bene comprenderne il reale e ampio significato.

In questo articolo ci concentreremo su come capire meglio cosa sia una Smart City, quali strumenti riconosciuti sono presenti in Italia per valutare le nostre realtà locali e quali sono i benefici estesi dell’intraprendere progetti in tale direzione.

di Massimo Granchi e Riccardo Bozzo

sostenibilità

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Page 50: Methodo #7

Che cosa significa Smart City

Dietro alla parola di origine anglofona Smart, la cui traduzione in lingua italiana è un insieme delle parole brillante, rapido, semplice e acuto, c’è un significato più ampio e riconosciuto a livello nazionale e internazionale che si collega al concetto di Smart Cities. Le Smart Cities sono ambienti urbani in grado di agire per migliorare la qualità della vita della comunità con l’obiettivo di soddisfare contemporaneamente le esigenze di cittadini, imprese e istituzioni.

Una Smart City è quindi una città intelligente che cresce facendo crescere parallelamente tutte le aree che contribuiscono a risolvere le criticità per gli aspetti sociali, ambientali ed economici.

Detto ciò siamo ancora distanti dal comprendere come la Smart City si declina nella nostra realtà e come deve agire il cittadino intelligente.

Il concetto di Smart City viene generalmente separato in macro aree di azione e misurazione, aree sulle quali i gestori dell’ambiente urbano devono intervenire per avvicinarsi alla città intelligente. Queste aree vengono così individuate:

• Smart economy – Competitività (spirito d’ innovazione, imprenditorial i tà, produttività);

• Smart people – Capitale umano e sociale (pluralità etnica e sociale, creatività, partecipazione alla vita pubblica);

• Smart governance – Partecipazione (partecipazione al processo decisionale, servizi pubblici e sociali, governo trasparente, strategie politiche e prospettive);

• Smart mobility – Trasporto e ICT (accessibilità locale e internazionale, disponibilità di infrastrutture ICT, trasporto sostenibile);

• Smart environment – Risorse naturali (protezione dall’inquinamento, gestione sostenibile delle risorse);

• Smart living – Qualità della vita (strutture culturali, salute pubblica, sicurezza, qualità dell’abitare, strutture per l’educazione, attrattività turistiche).

Quanto è Smart una città

Esistono al momento varie metodologie per misurare la smartness di una città; non esiste un sistema di classificazione unico e condiviso, esistono tanti progetti in via di sviluppo, che stanno arrivando a livelli di dettaglio sempre maggiori, per avvicinarsi di più alle vere esigenze del cittadino.Il comune denominatore di queste metodologie è comunque quello di mostrare sempre la globalità della prestazione della città, in tutte le macro aree sopra definite, in modo da riuscire a confrontare le peculiarità di ogni città evidenziandone le caratteristiche; ad esempio una città può essere diventata nel tempo il modello della sostenibilità ambientale, ma allo stesso tempo essere carente di stimoli sul piano economico. La valutazione delle singole smartness può far capire dove si può migliorare.Altro concetto comune delle varie metodologie sviluppate è quello di trovare molteplici indicatori per fornire una prestazione delle macro aree di interesse.Gli indicatori devono inoltre avere caratteristiche specifiche, che garantiscano una determinata rintracciabilità e utilità:

• devono essere rappresentativi di un certo fenomeno e documentabili in modo oggettivo;

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Page 51: Methodo #7

• devono essere semplici, poco costosi da ricavare e forniti da fonte attendibile;

• devono essere misurabili;• devono essere utili a confrontare tutte

le città che appartengono al set di città selezionate;

• devono essere semplici da interpretare e facilmente riproducibili e rappresentabili per mezzo di tabelle, istogrammi, diagrammi;

• devono essere controllabili.

Nel panorama italiano le iniziative di ranking delle Smart City sono due: ICity Rate, promosso da ICity Lab di Forum PA, e Smart City Index promosso da Between. Entrambi i metodi sono stati sviluppati su un gruppo di città scelte a priori; dopodiché sono stati individuati gli indicatori.

Dal 2014 esiste inoltre una Norma ISO che può essere utilizzata allo scopo di creare o migliorare metodologie di valutazione delle Smart Cities; la norma è la ISO 37120: Sustainable development of communities — Indicators for city services and quality of life, la quale offre inoltre un esteso pannello di indicatori.

Ulteriori sviluppi delle metodologie di analisi riguardano ora la creazione di valori di

riferimento per i singoli indicatori, ovvero valori che ci dicono appunto se l’indicatore calcolato rivela una buona o ottima prestazione o al contrario un cattivo risultato, in modo tale da avere sempre un riferimento su cui normalizzare il valore ottenuto. Differente importanza ha invece l’aggregazione del risultato, ove per ogni indicatore è necessario fornire un peso, in modo da dare una scala di importanza ai singoli indicatori: nella globalità del percorso verso la città intelligente è ad esempio più importante lo sviluppo della rete di piste ciclabili o l’ampliamento della produzione di energia fotovoltaica sfruttando i tetti degli edifici comunali? Logicamente tale peso ha un forte valore politico e quindi riveste uno degli aspetti più delicati.

Esempi di indicatori

Per rendere quindi il tutto maggiormente comprensibile proponiamo un elenco ristretto di indicatori classici impiegati in varie metodologie, separati per macro aree.Area di valutazione smart economy:

• numero di imprese certificate secondo la ISO 14001 in rapporto al numero di imprese totali;

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• imprese del settore innovative IT (Information Technology) sul totale delle imprese;

• imprese del settore innovative R&D (Research & Development) sul totale delle imprese;

• incidenza di imprese giovanili sul totale;• incidenza delle imprese femminili sul totale;• tasso di occupazione.

Area di valutazione smart environment:• numero massimo dei giorni di superamento

dei limiti per la protezione della salute umana previsto per il PM10;

• raccolta differenziata dei rifiuti urbani;• densità di verde urbano (percentuale sulla

superficie comunale);• dispersione della rete idrica (differenza

tra l’acqua immessa e quella consumata espressa in quota %);

• capacità di depurazione delle acque di scarico;

• numero di centri di raccolta RAEE (rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche) per 1000 abitanti;

• quantità di energia rinnovabile prodotta da strutture comunali e private in relazione al totale;

• progetti volti alla formazione della cultura della sostenibilità;

• progetti di riduzione delle emissioni di anidride carbonica in atmosfera, anche tramite compensazione;

Area di valutazione smart governance:• utilizzo di carta riciclata negli edifici

comunali;• raccolta differenziata nell’amministrazione

comunale;• certificazione ISO 14001 e registrazione

EMAS per l’intera amministrazione;• criteri ecologici per le procedure di acquisto

(green public procurement);• politiche energetiche attuate (introduzione

di incentivi economici per risparmio energetico, diffusione di fonti energetiche rinnovabili, semplificazione procedure per l’installazione di impianti solari termici e fotovoltaici, presenza di energy manager, acquisto di energia verde, audit energetici, etc.);

• promozione di servizi di digitalizzazione (accessibilità e usabilità, servizi, dati

pubblici, etc.);• indice di trasparenza del sito web del

Comune.

Area di valutazione smart living:• spese per funzioni relative alla cultura e ai

beni culturali per abitante;• spese per funzioni nel settore sociale per

abitante;• domande di iscrizione per asili nido

soddisfatte su domande presentate;• tasso emigrazione ospedaliera;• librerie ogni 1.000 abitanti;• spettacoli ogni 1.000 abitanti;• numero di hotspot nel comune per 1000

abitanti;• indicatore di digital divide (quota di

popolazione priva di banda larga da rete fissa e/o mobile);

Area di valutazione smart mobility:• indicatori di trasporto pubblico locale;

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Page 53: Methodo #7

• mobilità sostenibile (presenza di autobus a chiamata, controlli varchi ZTL, mobility manager comunale, piano spostamento casa-lavoro, car sharing);

• ciclabilità (adozione biciplan, ciclo parcheggi di interscambio, bike sharing, etc.);

• zone traffico limitato o ZTL;• dotazione di parcheggi di corrispondenza.

Area di valutazione smart people:• differenze tra tassi di attività maschile e

femminile;• laureati ogni mille giovani;• attrattività di studenti stranieri (iscritti

stranieri all’università su iscritti);• università per la terza età su anziani;• lettori quotidiani per giorno medio;• associazioni di promozione sociale per

100.000 abitanti;• unità attive nell’ambito dello sport, del

volontariato, della solidarietà.

Benefici e ConclusioniIl principale beneficio dell’adozione di metodologie di monitoraggio del livello di smartness di una città è sicuramente quello di valorizzare e meglio comunicare al cittadino ciò che già è stato fatto nelle diverse aree di azione per la gestione di un territorio comunale. Inoltre si crea così uno strumento dinamico per monitorare i miglioramenti effettuati e individuare campi di intervento che necessitano soluzioni a breve, medio o lungo termine, valutandone a priori l’effetto positivo sulla popolazione e in che modo la stessa lo potrà percepire.Quanto visto brevemente in questo articolo riveste comunque una sfida molto importante e molto dispendiosa di energie per i nostri comuni, ma è sicuramente la strada da intraprendere per avvicinarsi allo standard di benessere e vivibilità delle città delle altre nazioni europee e mondiali che in questo campo ci precedono.

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gli autori diMETHODO

NICOLA LIPPI

Ingegnere, consulente di direzione, dopo diversi anni trascorsi in aziende multinazionali di primaria importanza nelle aree di Ricerca e Sviluppo, collabora con importanti società di consulenza italiana, occupandosi con passione e professionalità dei temi dello Sviluppo di Nuovi prodotti. Nell’ambito della professione ha contribuito con numerosi interventi in azienda a organizzare e migliorare la capacità di sviluppare prodotti, aumentandone i contenuti in termini di innovazione, di rapporto tra costi e prestazioni nel rigido rispetto dei tempi. Metodo, visione sistemica, spirito imprenditoriale e capacità di sintesi sono i suoi principali fattori distintivi. Esprime con ironia e leggerezza il suo libero pensiero sui temi dello sviluppo prodotto nel blog personale www.sviluppoprodotto.com

GIUSEPPE ALITO

Dopo la laurea in Disegno Industriale e un Master in Design Management, nel 1998 entra in Baleri Italia, azienda di prodotti di arredamento alta gamma, come Direttore tecnico del centro ricerche e dello sviluppo prodotti. Un anno dopo è in Ferrari come “design techniter” dove si occupa dello sviluppo delle postazioni di rilevamento telemetrico (muretto) utilizzate poi per i campionati del mondo F1 dal 2002 al 2004. Nel 2001 entra in Grand Soleil, azienda di prodotti di arredamento per esterni e di giocattoli mass market come engineering manager e con la responsabilità dello sviluppo prodotti per diventarne, due anni dopo, Responsabile R&S. All’attività professionale affianca la docenza di Design Management ai Master di Car Design e Industrial Design della Scuola Politecnica di Design SPD di Milano. Nel 2005 entra in Gio’Style Lifestyle come Responsabile Ricerca & Sviluppo.

MASSIMO GRANCHI

Massimo Granchi ha conseguito la laurea in Ingegneria presso il Politecnico di Milano nel 1993 e nel 2003 il titolo di Master in Business Administration presso la SDA Bocconi di Milano (Chartered Master in Direzione Aziendale ex lege 4/2013).Dopo una brillante esperienza presso una multinazionale nel settore metalmeccanico nell’anno 2000 ha fondato la società mtm consulting s.r.l. che offre servizi di consulenza organizzati su quattro linee di prodotto che coprono tutti gli aspetti di sicurezza e ambiente: dai servizi per la marcatura CE agli studi del ciclo di vita (LCA).Nell’anno 2013 ha ideata, creato e avviato GreenNess, divisione di mtm consulting s.r.l., che propone servizi per lo sviluppo sostenibile non più solamente al settore industriale/metalmeccanico, ma anche al settore del commercio attraverso lo sviluppo di una piattaforma proprietaria che, utilizzando le tecnologie di ultima generazione, consente a ogni tipologia di impresa commerciale di offrire ai propri clienti non più solo prodotti, servizi o sconti, ma una vera e propria esperienza di acquisto sostenibile come leva di fidelizzazione.

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METHODO

ALBERTO FISCHETTI

Laureato in Ingegneria, nel corso di una carriera di oltre trent’anni in grandi industrie multinazionali dei settori della metalmeccanica, ingegneria, cosmesi e farmaceutica, ha maturato significative esperienze manageriali fino a far parte dell’alta direzione aziendale. Fra le varie responsabilità ricoperte è stato Project Manager in importanti progetti a livello di affiliata italiana e di gruppo europeo. Dal 2005 collabora nei settori della formazione, consulenza e coaching professionale con la Change Project. E’ autore di libri su project management, creatività e problem solving, coaching e gestione delle risorse umane.

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ALBERTO VIOLA

Management consultant & lean specialist. Direttore della Divisione Industria, ha maturato in questi ultimi 15 anni numerose esperienze in Italia e all’estero in aziende industriali di diversi settori e dimensioni. Esperto di “lean organization” e di miglioramento continuo (kaizen) ha utilizzato in queste aziende le tecniche, gli strumenti e gli approcci specifici del Lean Production System. Relatore di numerosi seminari aziendali e interaziendali sulla “lean organization” nel 2005 e 2006 è stato docente del MIP Politecnico di Milano su queste tematiche. Nel 2012 ha pubblicato il libro “A Gemba! Guida operativa per la produzione snella”. È stato partner della Galgano & Associati Consulting srl, società di consulenza italiana fino a dicembre 2014.

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