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DOSSIER FOCUS PRIMO PIANO Rivista della Fondazione Missio • Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 Aut. GIPA/ C / RM • Euro 2,50 6 MENSILE DI INFORMAZIONE E AZIONE MISSIONARIA ANNO XXXIII GIUGNO 2019 In caso di mancato recapito, restituire all’ufficio di P.T. ROMA ROMANINA previo addebito

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DOSSIERFOCUSPRIMO PIANO

Rivista della Fondazione Missio • Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 Aut. GIPA/ C / RM • Euro 2,50

6M E N S I L E D I I N F O R M A Z I O N E E A Z I O N E M I S S I O N A R I A

ANNO XXXIII

GIUGNO2019

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Trib. Roma n. 302 del 17-6-86. Con approvazione ecclesiastica.

Fondazione di religione MISSIO

Miela Fagiolo D’Attilia, Chiara Pellicci, Ilaria De Bonis.

Emanuela Picchierini, [email protected]; tel. 06 6650261 - 06 66502678; fax 06 66410314.

Via Aurelia, 796 - 00165 Roma.

[email protected]; tel. 06 66502632; fax 06 66410314.

Chiara Anguissola, Mario Bandera,Roberto Bàrbera, Gaetano Borgo, Loredana Brigante, Anita Cervi, Franz Coriasco,Stefano Femminis, Francesca Lancini, Paolo Manzo, Pierluigi Natalia, Enzo Nucci,Maria Lucia Panucci, Anna Rosa Pizza, Giovanni Rocca, Paolo Raimondi, FilomenaRizzo, Paolo Scarafoni, Felice Tenero, Adriano Valagussa.

Alberto Sottile.

Isaac Kasamani / AFP.Fadel Senna / Afp, Mahmud Turkia / Afp, Michele Cattani / Afp, Afp Photo /

Philippe Desmazes, Angela Weiss / Afp , George Fominyen / Wfp / Afp, SadakMohamed / Anadolu Agency, Foto Afp / Au-Un-Ist / Bibbia Jones, Soulemaine Ag Anara/ Afp, Yasuyoshi Chiba / Afp, Daphné Benoit / Afp, John Wessels / Afp, Florent Vergnes/ Afp, Immagini Di Josse / Leemage, Alessandro Di Meo / Pool / Afp, Alberto Pizzoli /Afp, Mattes René / Hemis.Fr / Hemis, Junior D. Kannah / Afp, John Wessels / Afp,Adek Berry / Afp, Afriadi Hikmal / Nurphoto, Archivio Missio, Gaetano Borgo, Cbrescia,Franca Cicchella, Fabrizio Colombo, Laura De Marco, Duarte, Anna Maria Gervasoni,Ibama, German Mancilla Landin, Chiara Pellicci, Anna Rosa Pizza, Progetti “Cartoline diBallarò” e “Ballarò Tale”, Progetto Match-Cesie e Handala, Filomena Rizzo, GiovanniRocca, Vincenzo Russo, Paolo Scarafoni, Hillary Sedu, Adriano Valagussa.

Individuale € 25,00; Collettivo € 20,00;Sostenitore € 50,00; Estero €40,00.

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Mensile associato alla FeSMI e all’USPI, Unione StampaPeriodica Italiana.Chiuso in tipografia il 24/05/19Supplemento elettronico di Popoli e Missione:www.popoliemissione.it

Via Aurelia, 796 - 00165 RomaTel. 06 6650261 - Fax 06 66410314E-mail: [email protected]

S.E. Mons. Francesco Beschi

Don Giuseppe Pizzoli

Dr. Tommaso Galizia

Gaetano Crociata

P. Giulio Albanese, M.C.C.I

Segretario nazionale: Dr. Tommaso Galizia

Segretario nazionale: Don Ciro Biondi

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- Offerte per l’assistenza all’infanzia e alla maternità, formazione dei seminaristi, sacerdoti e catechisti, costruzione di strutture perle attività pastorali, acquisto di mezzi di trasporto.

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- Eredità, Lasciti e Legati La Fondazione MISSIO, costituita il 31 gennaio 2005 dalla Conferenza Episcopale Italiana, ente ecclesiastico civilmente riconosciuto(Gazzetta Ufficiale n. 44 del 22 febbraio 2006), è abilitata a ricevere Eredità e Legati anche a nome e per conto delle Pontificie OpereMissionarie.Informazioni: amministrazione (tel. 06 66502629; fax 06 66410314; E-mail: [email protected]).

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mazioni “tutto è missione” e “dovunqueè missione” rivelano confusione, stan-chezza e mancanza di motivazioni per lamissione ad gentes, non possiamo starealla finestra a guardare. Occorre più chemai riaffermare, con il cuore e con lamente, un impegno che trova il suo ra-dicamento nella consacrazione battesi-male. «I cristiani sono annunciatori e te-stimoni della gioia del Vangelo – ha rile-vato pertinentemente il presidente diMissio - nella misura in cui loro stessi l’hanno accolta e sperimentata. Questacondizione non può essere sostituita daaltre e tanto meno surrogata da qualcherappresentazione puramente esteriore:solo nella misura in cui il Vangelo diventala ragione inesauribile della gioia delcristiano, la missione assumerà i connotatidell’attrazione e della generatività, su-perando ogni assimilazione a forme dipropaganda o indottrinamento ed ognipessimismo paralizzante». Questo, in so-stanza, significa che se le nostre comunitàcristiane non torneranno ad essere davveroin ascolto della Parola, fonte di Vita, nonsaranno in grado d’interpretare i “segnidei tempi” e dunque capaci di agire,conseguentemente, rispetto alle istanzeposte dal dettato evangelico.I rigurgiti di sovranismo o nazionalismoche dir si voglia, quelle spinte respingentie pressanti che contaminano le societàeuropee, rendendole incapaci d’interpre-tare, ad esempio, il fenomeno della mo-bilità umana, sono sintomatiche di un

«A fronte di una riconoscibile“fatica missionaria”, alimen-tata da una molteplicità di

cause, è necessario riproporci le “ragioniappassionanti” della missione, consapevolidello sviluppo del magistero, della rifles-sione teologica e della loro ineludibiledimensione storica». Queste parole, cosìcariche di passione e ricche di significati,costituiscono uno dei passaggi centralidella riflessione che monsignor FrancescoBeschi, presidente della Commissioneepiscopale per l’evangelizzazione deipopoli e la cooperazione tra le Chiese epresidente della Fondazione Missio, hacondiviso con i suoi confratelli nell’epi-scopato, durante la 73esima Assembleagenerale della Conferenza episcopale ita-liana (Cei), lo scorso 21 maggio a Roma.Il tema scelto per l’assise dei vescoviitaliani – “Modalità e strumenti per unanuova presenza missionaria” – non puòlasciarci indifferenti. Forse mai comeoggi, riflettendo sulle sfide di una societàglobalizzata, segnata da continue e re-pentine trasformazioni, occorre volarealto – come, peraltro, ha sottolineatomonsignor Beschi – coltivando «l’imma-ginazione di una nuova “forma” di pre-senza missionaria» che «si alimenta cer-tamente alla consapevolezza della gioiadel Vangelo». A questo proposito, purnon ignorando che per alcuni le affer-

deficit di consapevolezza rispetto agliinsegnamenti di Nostro Signore. Non cisi può dire credenti se non si affermacon chiarezza un’apertura del cuore a360 gradi, dilatato fino agli estremiconfini. A questo proposito, il carismadelle Pontificie Opere Missionarie (Pom)- rappresentate in Italia dalla FondazioneMissio, nostro editore di riferimento -rappresenta una risposta concreta controle crescenti chiusure di fronte ad ognigenere di alterità. Si tratta di quellospirito cristiano universale, dunque cat-tolico, che costituisce l’antidoto controquella che papa Francesco ha giustamentestigmatizzato come «globalizzazione del-l’indifferenza». È emblematico quello cheleggiamo nell’Evangelii Gaudium: «Lacomunità evangelizzatrice sperimentache il Signore ha preso l’iniziativa, l’hapreceduta nell’amore, e per questo essasa fare il primo passo, sa prendere l’ini-ziativa senza paura, andare incontro, cer-care i lontani e arrivare agli incroci dellestrade per invitare gli esclusi. Vive undesiderio inesauribile di offrire misericordia,frutto dell’aver sperimentato l’infinitamisericordia del Padre e la sua forza dif-fusiva». Sta di fatto che la crisi delle vo-cazioni missionarie è sintomatica di unmalessere che va seriamente diagnosticato.Negli anni Novanta, i missionari/e italianierano circa 24mila tra preti fidei donum,religiosi/religiose, membri di società divita apostolica, laici e laiche. Oggi sonosettemila, e molti, anagraficamente

EDITORIALE

di GIULIO [email protected]

(Segue a pag. 2)

»

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Indice

EDITORIALE

1 _

di Giulio Albanese

PRIMO PIANO

4 _

di Pierluigi Natalia

ATTUALITÀ

8 _

di Paolo Raimondi11 _

di Paolo Manzo

FOCUS14 _

di Miela Fagiolo D’Attilia

STORIA DELLA MISSIONE18 _

di Ilaria De Bonis

MO(N)DI DI DIRE21 _ WANTOK

di Loredana Brigante

SCATTI DAL MONDO22 _ murales

A cura di Emanuela PicchieriniTesto di Loredana BriganteFoto di Vincenzo Russo e dei progetti menzionati

PANORAMA26 _

di Ilaria De Bonis

DOSSIER29 _

di Roberto Bàrbera

- G I U G N O 2 0 1 92

parlando, avanti negli anni. L’età media deimembri delle congregazioni religiose, storicamenteimpegnate nel servizio di evangelizzazione nelmondo, si attesta circa sui 68 anni. I preti fideidonum, prima dell’anno 2000, erano 713, oggisono 403. Da rilevare, comunque, che semprepiù famiglie e singoli laici/laiche - sono circatremila - decidono di dedicare mesi o anni alleChiese sorelle nei cinque continenti. Se da unaparte essi rappresentano il valore aggiunto dellenostre comunità disseminate lungo lo Stivale,dall’altra è evidente che se di crisi stiamoparlando, dobbiamo riconoscere che essa rap-presenta un punto di discontinuità, un passaggioche segna una differenza marcata tra un primae un dopo.Il cambiamento della domanda vocazionale nellasocietà italiana è emblematico di come occorrarinnovare in profondità le modalità dell’animazionemissionaria e in generale della cosiddetta pastoraleordinaria. In passato, una pastorale di “conser-vazione” o di “mantenimento”, nella cornice diuna Civitas Christiana, rendeva, per certi versi,le cose più semplici, non foss’altro perché nessunoaveva l’ardire nel nostro Paese di esprimeregiudizi temerari nei confronti del papa e dellaChiesa. Ma oggi quella Civitas rimane impressa,in molti casi, nella memoria degli anziani o suimuri delle cattedrali, ma non certo nei compor-tamenti della gente. Ecco perché le mutate con-dizioni storiche esigono una attualizzazione eduna concretizzazione di quanto affermato nelDecreto Ad Gentes del Concilio Vaticano: «LaChiesa che vive nel tempo è per sua natura mis-sionaria, in quanto è dalla missione del Figlio edalla missione dello Spirito Santo che essa,secondo il disegno del Padre, trae la sua origine».Questa è la ragione per cui monsignor Beschi haconcluso il suo intervento ricordando ai vescoviitaliani: «In questi decenni abbiamo percorsostrade impegnative e sofferte, ma non abbiamorinunciato alla missione: se al Convegno nazionalemissionario di Bellaria avevamo aperto il “librodella missione” e con quello di Montesilvanoabbiamo alimentato il “fuoco della missione”, apartire da Sacrofano e dal Mese missionariostraordinario vogliamo percorrere la “Via dellamissione”, quella “Via” che il Crocifisso risortoapre davanti a voi, precedendoci sempre in ogniGalilea geografica, storica, esistenziale: quellaVia che è Lui stesso: “Io sono la Via”. Noi siamoquelli della “Via”!».

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

37 _

di Miela Fagiolo D’Attilia

40 _

di Ilaria De Bonis

42 _

di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo

43 _

di Stefano Femminis

44 _

di Ilaria De Bonis

47 _ a cura di Chiara Pellicci

RUBRICHE50 _

di Miela Fagiolo D’Attilia52 _

di Maria Lucia Panucci

di Chiara Anguissola

53 _

di Franz Coriasco

VITA DI MISSIO

54 _

di Miela Fagiolo D’Attilia

3- G I U G N O 2 0 1 9

OSSERVATORIPAG. 6

di Miela Fagiolo D’Attilia

PAG. 7

di Chiara Pellicci

PAG. 10

on line

di Enzo Nucci

PAG. 16

di Chiara Pellicci

PAG. 17

di Francesca Lancini

PAG. 19

di Felice Tenero

56 _

di Chiara Pellicci

58 _

di Loredana Brigante

60 _

di Anita Cervi e Giovanni Rocca

MISSIONARIAMENTE

62 _ di Mario Bandera

63 _

di Gaetano Borgo

29

26

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PRIMO PIANO

L a Libia sprofonda ancora di piùnella guerra civile che si protraeda otto anni e a complicare la

partita su quello scacchiere contribui-scono i contrastanti interessi interna-zionali. Al momento in cui questo articoloviene scritto, il Paese sembra più lontanoche mai da una soluzione politica e inbalia delle armi, dopo l’offensiva lanciataa inizio aprile scorso dalle forze del ge-nerale Khalifa Haftar, che controlla la

Cirenaica, contro la capitale Tripoli,difesa da quelle schierate con il governoguidato da Fayez al-Sarraj e riconosciutodall’Onu. L’offensiva è stata contenutae intorno a Tripoli si continua a com-battere, con già migliaia di morti eferiti tra la popolazione civile e decinedi migliaia di nuovi profughi. Un esitomilitare della crisi sembra improbabilee anche gli incontri politici delle dueparti con i rispettivi sostenitori, regionalie internazionali, sembrano orientati arafforzare le rispettive posizioni in vistadi uno scontro prolungato. Intanto è

di PIERLUIGI [email protected]

Il rebus della Libia è ungrattacapo perl’Unione Europea masoprattutto per l’Italia.Interessi economici econtese sui profughinon contribuisconoalla pacificazione delPaese in guerra datroppi anni ormai.

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saltata la conferenza nazionale convocatadall’Onu per metà aprile a Ghadames.Del resto, erano da tempo evidenti lepoche o nulle speranze di realizzare ilprogetto dell’inviato speciale dell’Onu,Ghassan Salamé, che mirava ad arrivarea elezioni generali già entro il 2018 eche ancora sperava di poterle tenerequest’anno.Ed è chiaro, in proposito, che a vanificarel’azione dell’Onu siano proprio le divisionidei suoi principali soggetti, almeno cor-responsabili del protrarsi dello scontrotra le fazioni libiche. Gli Stati Uniti ap-

si è dimostrato servire a poco: all’avviodell’offensiva di Haftar, l’Eni ha ritiratotutto il suo personale italiano. E apparedifficile che ormai possano ottenere ilproprio scopo i meno confessabili aiutielargiti a Tripoli in cambio del bloccodei flussi migratori, tradottisi nella crea-zione di veri e propri lager in Libia per imigranti subsahariani, con buona pacedella tutela dei diritti umani.

Con Haftar, l’Italia ha cercato un dialogosolo alla fine, in particolare con la con-ferenza di Palermo dello scorso novem-bre, rivelatasi un fallimento, soprattuttoa causa del disinteresse degli Stati Uniti.Ma anche questo tardivo tentativo, agiudizio di molti osservatori, ha provocatouna caduta di credibilità sia tra le forzelibiche finora più vicine a Roma, sia traquelle di Haftar, che vi hanno lettol’ammissione di una impossibilità di so-stenere oltre il supporto a Fayez al-Serraj. Né certo, a un Paese di relativopeso come l’Italia può giovare che lapropria azione diplomatica sia percepitacome ambigua. A questo si aggiungeche recenti vicende, dapprima lo scontropolitico tra Italia e Francia sulla questionemigratoria, sfociato in una crisi diplo-matica senza precedenti, ma poi anchee forse soprattutto l’adesione italianaal progetto della “Nuova via della seta”cinese, in dissenso dalla politica comuneeuropea, non sembrano il modo mi-

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paiono assenti e senza l’intenzione o lacapacità di influire sui loro alleati re-gionali - in particolare Egitto ed EmiratiArabi Uniti - che da anni sostengonoHaftar, se non altro perché ritenuto ilpiù efficace argine alla minaccia jihadista,ma ormai anche Arabia Saudita, Turchiae Qatar. Il presidente statunitense DonaldTrump, che teoricamente appoggia l’ini-ziativa dell’Onu, alla vigilia di Pasquaha avuto un colloquio telefonico conHaftar, da alcuni considerato una sortadi riconoscimento implicito del suoruolo, senza che ciò sembri aver portatoa sviluppi significativi.

Di contro, dopo quello della Francia, èormai chiaro il sostegno della Russia alleader cirenaico, secondo fonti concordianche attraverso l’impiego informale dimercenari del Gruppo Wagner. Ma altempo stesso Mosca mantiene aperto ildialogo con Tripoli, con un duplice ap-proccio al dossier libico che ne confermal’intenzione di rafforzare il proprio ruolonella regione mediorientale e nordafri-cana, già più che palese nella vicendasiriana. La Cina, da parte sua, evita ogniintervento, fedele alla sua politica diun imperialismo solo economico, pazientee determinato nella sua penetrazionein Africa.Quanto all’Unione Europea, ancora unavolta si dimostra inesistente sul pianodella coesione politica e della capacitàdi influenza. Ad agire sullo scacchierelibico, di fatto, sono in proprio la Franciae, in misura minore e abbastanza vel-leitaria l’Italia, nel tentativo di salva-guardare i propri interessi nel Paese,più o meno confessabili. L’appoggio ita-liano al governo di Tripoli si spiega conil controllo, relativo, che esso esercitanelle aree di interesse dell’Italia: Fezzane Tripolitania, dove passano i flussi ener-getici e quelli migratori. Nel primo caso, »

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PRIMO PIANO

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«S ono un albero con le radici in Sicilia checerca di dare frutti in Zambia». Questo

dice di sé Cristina Fazzi, missionaria in Africa da19 anni come chirurgo in un ospedale alla periferiadi Ndola, città che si trova quasi al confine con lavicina Repubblica Democratica del Congo. Lachiamano il “medico della foresta” perché quandoha deciso di sostituire una collega volontaria inAfrica, si è ritrovata in un piccolo presidio medicodi un villaggio sperduto nella parte centrale delloZambia, senza luce, acqua corrente, strade. Macon tanti ammalati, soprattutto bambini. Chiunquealtro sarebbe fuggito, ma Cristina ha fatto lascelta della sua vita: restare perché dice: «hovisto troppa povertà, degrado, mortalità altissima,epidemie... Non avrei potuto risolvere tutto dasola, ma non aveva senso tornare indietro».Sembra una follia, invece è la cosa giusta malgradole febbri malariche che la assalgono spesso, lasolitudine e le diffidenze degli africani a farsicurare da una donna bianca. La tenace dottoressasiciliana diventa in breve tempo presidente delprogetto sanitario della Twafwane association edà vita al Majo Mwana project per curare mammee bambini delle baraccopoli della periferia diNdola, una regione grande quanto la Val d’Aostain cui ci sono 25mila famiglie e vengono sommi-nistrati seimila vaccini l’anno. Per questo suoservizio vissuto sempre col sorriso sulle labbra,Cristina è stata nominata Cavaliere della Repubblicaitaliana e ha ricevuto numerosi premi. Ma la ri-compensa più importante per lei è stato l’arrivonel 2004 di Joseph, un piccolo orfano di cui è di-ventata mamma adottiva, come racconta: «Dopoquattro anni di affido, sono riuscita ad adottarloin Zambia e nel 2008 ho iniziato la mia battagliaper adottarlo anche in Italia, nonostante il miostatus di single. E ci sono riuscita». Oggi Josephha 14 anni e altri sei fratelli nella «nostra casa fa-miglia a Ndola. Mi affidano bambini che finirebberosulla strada o in istituto. Bambini malati, con pro-blemi di ogni genere. Li curiamo, li seguiamo,vanno a scuola».Cristina svolge il suo lavoro grazie al sostegno dimolti amici generosi dei social network, di par-rocchie siciliane e dell’associazione Crescere In-sieme onlus di Verona. L’entusiasmo della dotto-ressa Fazzi è contagioso, come sa bene la gentedi Ndola.

di Miela Fagiolo D’Attilia

CRISTINA MEDICODELLA FORESTA

OSSERVATORIO

DONNE INFRONTIERA ha tralasciato di spiegare perché i Mirage

dell’aviazione francese dislocati in Ciadabbiano bombardato i ribelli ciadianiin fuga dalla Libia. Tutti gli osservatorilibici, sia in Tripolitania sia in Cirenaica,interpretarono quell’azione come unprimo concretissimo sostegno militarefrancese ad Haftar, i cui interessi com-baciano con quelli del presidente cia-diano, Idriss Deby che, come autocrate,ha ben poco da invidiare a Gheddafi.

In quel caso, Roma e Parigi non avevanolitigato. Il mese prima, a gennaio, ilpresidente del Consiglio dei ministriitaliano, Giuseppe Conte, era andatoprima in Niger, dove aveva incontrato i90 militari della missione italiana, e poidallo stesso Deby, dichiarando che «le

gliore per ottenere un consenso inter-nazionale a tutelare gli interessi italianiagli approvvigionamenti energetici inLibia.Da parte sua, la Francia non viene menoalla sua storica abitudine – chiunque laguidi, Sarkozy o Macron, per citare soloi due ultimi presidenti - a intervenire inproprio, con ogni mezzo, dove ritienein pericolo i propri interessi post o neo-coloniali in Africa. Durante una visitain Tunisia nel febbraio 2018, Macrondefinì l’intervento armato in Libia chenel 2011 portò al rovesciamento e al-l’uccisione di Gheddafi, un grave errore,un metodo sbagliato, un’azione militarepriva di una chiara tabella di marciapolitica e diplomatica. All’epoca gover-nava a Parigi Sarkozy. Ma Macron, ap-pena un anno dopo, nel febbraio scorso,

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nostre forze armate possono sicuramentecontribuire ad addestrare, formare leforze armate locali per rafforzare il pe-rimetro di sicurezza (...) e contrastarepiù efficacemente le minacce terrori-stiche e i trafficanti di esseri umani,droga, armi». Ma a litigare hanno ripresosubito. Alcuni dei principali esponentidell’attuale maggioranza italiana hannoribadito che quanto accade in Libia vaascritto a responsabilità francese. Incompenso, litigano anche tra loro. Perfare solo un esempio, il ministro del-l’Interno, Matteo Salvini, prima ha di-chiarato alla radio che non c’è nessunaguerra in Libia (dove a suo giudizio cisono «porti sicuri» in cui riportare i di-sgraziati che cercano scampo da violenzee miseria attraversando il Mediterraneo)e poi ha diramato una circolare nella

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quale si «intima ai destinatari di vigilaresulla situazione e in particolare sul com-portamento delle navi che fanno soccorsoin mare». Peccato che la circolare siastata inviata non solo alle forze dipolizia, ma anche alla Marina e allaGuardia costiera, che non dipendonodal Ministero dell’interno, ma da quellodella Difesa e che hanno reagito ma-luccio. Un comunicato dell’ufficio delcapo di Stato maggiore della Difesa hasostenuto che «queste cose accadononei regimi, non in democrazia». E lostesso ministro competente, ElisabettaTrenta, sia pure con toni meno perentori,ha bacchettato sotto questo aspetto ilcollega di governo, ricordandogli inoltreche la guerra c’è e che quanti fuggonosono profughi, non migranti economici(distinzione, comunque, che a molti,compreso chi scrive, ormai appare ab-bastanza ipocrita).In ogni caso, è palese che i rigurgiti na-zionalisti – o sovranisti, come si diceora – e la crescente xenofobia in moltiPaesi stanno minando l’idea stessa diEuropa unita. La Francia è stata ancorauna volta unilaterale, ma gli altri Paesidell’Unione si sono mostrati incapaci,dalla caduta di Gheddafi in poi, di so-stenere efficacemente l’azione dell’Onu.Una ritrovata unità europea sarebbeindispensabile per ottenere il cessate-il-fuoco e per riportare belligeranti eattori regionali al tavolo negoziale. Lasensazione, però, è che si vada in dire-zione opposta e che il risultato delleelezioni del Parlamento europeo privinoulteriormente l’Unione di una credibilitàtanto più necessaria in una fase storicasegnata dall’assenza di leadership politicadegli Stati Uniti, nell’area e non solo, agiudizio di molti osservatori dispersacon la presidenza di Donald Trump. Unaltro personaggio che legge la storiacon strani occhiali e nei migranti vedenon le principali vittime dell’attualedissesto internazionale, ma dei nemiciinvasori da respingere alle frontiere.

L a notizia è apparsa sul web ed è statarilanciata anche dal corriere.it. Ma, come

tutte le buone notizie, non ha fatto clamore.Eppure è esemplare e degno di nota il gestocompiuto da Tignate Kwajo, giovane ghanesedi 27 anni, che da quattro è stato accolto in unafamiglia italiana vicino a Rimini. Qui il ragazzolavora come lavapiatti in un ristorante, con unregolare contratto: il suo stipendio non è granché,ma era riuscito a mettere da parte circa 8milaeuro. Cifra che, nel totale anonimato, ha regalatoad un suo amico rimasto in Ghana, dove si èlaureato come medico ed ha voluto costruireun piccolo ospedale per bambini.La donazione è avvenuta da un giorno all’altro,senza dire niente ai suoi nuovi familiari. Soloche Sandra - la sposa che, insieme al marito eai loro tre figli, dà ospitalità a Tignate - mentrestava facendo delle operazioni bancarie sulconto del giovane, si è accorta che non c’erapiù nemmeno un centesimo. Anche se imba-razzata, ha dovuto chiedere spiegazioni. E la ri-sposta (che la giornalista Giusi Fasano riportanell’articolo uscito in Cronache sul corriere.it) èstata sorprendente: «Li ho mandati al mio amicomedico: ne aveva bisogno perché sta costruendouna clinica a Techiman», ha risposto Tignate,vergognandosi per aver tenuto nascosta l’ope-razione bancaria.I due amici per la pelle si erano salutati nel2013: Tignate decise di partire per l’Europa(non avendo più nessun familiare nella suaterra), mentre Sootey rimase e cominciò a stu-diare medicina. Quando tramite Whatsapp èarrivata la notizia della laurea, il lavapiatti nonci ha pensato due volte nel fare la donazioneall’amico d’infanzia. A breve il piccolo ospedaledovrebbe aprire i battenti, nel frattempo aTignate arrivano le foto dell’avanzamento deilavori e di Sootey che indossa il camice biancoda medico.Incontenibili la commozione e l’orgoglio diSandra e di tutti i suoi familiari per il gestocompiuto da Tignate che ha scelto forse il modopiù bello per ringraziare dell’accoglienza ricevutae della vita ritrovata.

di Chiara Pellicci

TIGNATE E LASUA DONAZIONEINASPETTATA

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GOODNEWS

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ATTUALITÀ

è stato mediato dall’African DevelopmentBank, che negli anni passati si è mossacon grande impegno per la realizzazioned’infrastrutture in Africa e per portare ilcontinente e la sua popolazione fuoridal sottosviluppo e dal continuo spettrodella povertà.A causa di una gestione del lago quasiinesistente e, soprattutto, dell’avanza-mento del deserto, nei decenni passati èstato perso il 90% della sua superficie,con catastrofici effetti climatici e sociali.Intorno al bacino vivono circa 30 milionidi persone che di giorno in giorno vedonole loro vite e il futuro sempre più mi-nacciati. Di conseguenza, sono sorti con-flitti tra i Paesi rivieraschi per l’approv-vigionamento dell’acqua e forti tensionitra agricoltori e pescatori. Una vera lottatra poveri.

di PAOLO [email protected]

Non c’è quindi da essere sorpresi che igiovani di queste terre vogliano o deb-bano emigrare e che altri possano finirenelle reti del terrorismo e del crimineorganizzato. Com’è noto, sono propriola mancanza di lavoro e le guerre locali,le cause principali delle migrazioni ancheverso l’Europa. È il caso di ricordare chela parte centrale del programma d’inve-stimenti ipotizzato sarebbe la realizza-zione del “Progetto Transaqua”, elaboratoben 40 anni fa dall’impresa italiana “Bo-nifica” del gruppo IRI per la creazionedi un canale lungo 2.400 chilometri perportare acqua dolce dal fiume Congoverso il Lago Ciad. Già nel febbraio 2018nella Conferenza internazionale sul LagoCiad, tenutasi ad Abuja in Nigeria conla partecipazione anche dell’Italia e del-l’Unesco, si era sostenuto con forza la

I l Segretario generale delle NazioniUnite, Antonio Guterres, ha recente-mente dichiarato l’intenzione di af-

fiancare il presidente della Nigeria, Mu-hammadu Buhari, nella raccolta di fondiper la realizzazione del progetto di “tra-sferimento idrico” dalla regione dell’Africacentrale verso il Lago Ciad nel Sahel. In-tendono presenziare insieme a un Forumspeciale dove coinvolgere sponsor pubblicie privati per finanziare il progetto.L’intero grande progetto richiederebbe50 miliardi di dollari che i Paesi diretta-mente interessati dal bacino acquiferodel Lago Ciad, cioè la Nigeria, il Camerun,il Niger e il Ciad, ovviamente non sareb-bero da soli in grado di disporre. L’accordo

Un progetto internazionale mira allacostruzione di dighe e canali per salvare ilLago Ciad che negli ultimi anni ha perso buonaparte della sua acqua. Un modo per proteggereun’importante fonte di vita per milioni dipersone che abitano nella regione africana.

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ricchimento infrastrutturale e produtti-vo.Come prevedibile, la Cina è il primoPaese a essere interessato, non solo perragioni geopolitiche ma anche per sod-disfare la sua necessità di importarebeni alimentari. Già nel 2016 PowerChina,il gigantesco conglomerato industrialecinese che ha costruito anche la digadelle Tre Gole, aveva discusso del progettocon il governo della Nigeria, esprimendola sua disponibilità a partecipare al fi-nanziamento e alla realizzazione dellostesso.Oltre ai grandi investimenti miliardariin molti Paesi dell’Africa, Pechino orga-nizza ogni due anni uno specifico Forumcon la partecipazione di tutti i capi diStato africani. L’ultimo si è tenuto loscorso settembre, quando la Cina ha

realizzazione di Transaqua. Si prevede iltrasferimento di 100 miliardi di metricubi di acqua all’anno dal bacino delfiume Congo al Lago Ciad, equivalentea circa l’8% della portata del fiume,che, comunque, la scarica tutta nel-l’Oceano Atlantico. Il piano prevedeanche la costruzione di un sistema didighe, bacini artificiali e canali che for-niranno energia pulita, trasporto fluvialee acqua dolce per le popolazioni inte-ressate e per lo sviluppo di un modernosettore agroindustriale nell’Africa cen-trale.Transaqua affronta molti aspetti dellacrisi africana, offrendo la possibilità dilavoro e benefici per i Paesi a Sud delSahel, inclusa la Repubblica Democraticadel Congo, che metterebbe a disposizionel’acqua in cambio di un importante ar-

presentato il piano d’integrazione del-l’Africa nelle Vie della Seta, la Belt andRoad Initiative. Nel frattempo si è mossaanche la Russia che il prossimo ottobreorganizzerà il primo Russian AfricanSummit con i leader di tutti i Paesi afri-cani.L’Italia, fin dai tempi di Enrico Mattei, »

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è sempre stata attenta all’idea di unavera cooperazione allo sviluppo dell’Africa.Da sola, però, non è riuscita a smuoveregli altri grandi attori internazionali. Loscorso ottobre è stato firmato un me-morandum d’intesa tra il nostro Ministerodell’ambiente e la Commissione delbacino del Lago Ciad per il finanziamentodello studio di fattibilità del ProgettoTransaqua. L’Italia vi contribuisce con1,5 milioni di euro. Anche PowerChinacofinanzia lo studio.Negli ultimi anni l’Europa ha ripetuto lanecessità di lanciare un “Piano Marshallper l’Africa” per sviluppare il continentee per contenere il flusso dei cosiddetti“migranti economici” verso l’Europa.

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Questo a parole. L’Italia ha sempre man-tenuto un rapporto storico positivo conmolti Paesi africani. Siamo conosciuticome i costruttori di dighe e d’importantiinfrastrutture. È interesse nostro e del-l’Europa lavorare per una genuina col-laborazione, superando anche qualchevecchio retaggio del colonialismo dicerti Stati europei.La realizzazione del grandioso progettoin questione sarebbe un aiuto concretoallo sviluppo del continente africano eun modo serio di “aiutarli a casa loro”.Sarebbe, inoltre, anche una scelta coe-rente per difendere la Terra dal processodi desertificazione evidenziato dallostesso Onu.

mazon è l’incontrastato colosso di ven-dite on line in Occidente, così come

Alibaba lo è in Cina. Ma l’Africa non stacerto a guardare. Jumia è il primo sito di e-commerce del continente. Nasce in Nigeriaed è attivo in 14 nazioni. Ha un fatturato di760 milioni di dollari. Non solo vendeprodotti (abbigliamento, cosmetici, tecno-logia, ecc.) ma gestisce anche servizi ditake away, prenotazioni di viaggio e alber-ghiere, annunci. Insomma, su un unico por-tale sono riunite le funzioni dei vari gigantidel commercio virtuale. Una rivoluzioneper l’Africa dove l’accesso ad internet è an-cora limitato, e avere un conto correntebancario è ancora considerato un lusso perla maggioranza della gente che lavora ed èpagata a giornata in contanti. Eppure Jumiaha convinto i clienti a preferire i pagamention line piuttosto che in cash alla consegnadel prodotto, attraverso la creazione di unproprio sistema. Lo scorso anno la societànigeriana (che a breve esordirà nella borsadi Wall Street, prima azienda tecnologicaafricana in campo) ha evaso più di 13milioni di pacchi. Tra gli investitori ci sonogiganti delle telecomunicazioni. La credibilitàcommerciale è stata la sua chiave di successoin un continente dove un terzo degli abitantiabita lontano dalle strade asfaltate e doveil costo del trasporto su ruota è più alto chealtrove. Jumia consegna entro due giorninelle aree urbane ed entro sei nelle areerurali grazie ad una logistica che conta suimponenti centri di distribuzione nelle grandicittà integrati dalle forniture di commerciantilocali. Un successo dovuto anche all’usodello smartphone che in Africa è cresciutodel 70% tra il 2017 e 2018.Nel 2017 il commercio via internet ha crea-to un fatturato pari a 16,5 miliardi di dollarimentre per il 2022 si prevede che toccheràquota 29 miliardi di dollari. Una bella fettadi affari che può contare su una basepotenziale di 660 milioni di utenti internet.L’Africa non sta a guardare.

di Enzo Nucci

IL COMMERCIOON LINE ARRIVANELLA SAVANA

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AFRICA

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P er il missionario lasalliano PaulMcAuley l’Amazzonia, il polmoneverde del mondo che si estende

tra nove Paesi, era come un figlio dadifendere, anche a costo della vita. Cosìcome da proteggere ed educare al ri-spetto della “madre Terra” erano gliindios e i loro discendenti che vivononella parte di Perù, dove dal 1995 avevadeciso di compiere la sua missione. Pur-troppo, il 2 aprile scorso fratel Paul,come lo chiamavano tutti, è stato ucciso.Il suo corpo è stato ritrovato carbonizzatoda alcuni studenti all’interno del

di PAOLO [email protected]

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Il Sinodo sull’Amazzoniariaccende l’attenzione delmondo sulla tragicacondizione di quest’area verdee delle popolazioni che laabitano da millenni. Perché nessuno possa piùignorare i drammi, leingiustizie e le speculazioni acui uomini come il missionarioPaul McAuley hanno dedicatoil loro servizio e la vita.

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laureato ad Oxford, aveva competenzein teologia ma dopo un periodo trascorsoa Roma, si era trasferito nella capitaledel Perù, Lima. Qui nel 1995 aveva fon-

dato la scuola diFe y Alegría, in unquartiere poveris-simo, quello diPuente Piedra Za-pallal, e per questaopera educativameritoria aveva ri-cevuto una dellepiù prestigioseonorificenze delRegno Unito. Mafratel Paul era an-che il presidentedella Rete Am-bientale Loreto econsulente perl’Organizzazionedegli studentidell’Amazzonia pe-ruviana, era un co-nosciuto sosteni-

tore ambientale, identificato pienamentecon la realtà della regione di Loreto edi problemi delle popolazioni indigene.Nella sua vita sudamericana aveva par-tecipato a vari progetti di sviluppo nellecittà fluviali dell’Amazzonia e di Huallaga,oltre a dedicare i suoi sforzi per otteneremaggiori finanziamenti perché gli stu-denti indigeni che arrivano a Iquitosper studiare non disertassero per motivieconomici.La sua morte apre adesso interrogativiinquietanti, in un anno simbolo per ilrapporto tra Chiesa cattolica e Amaz-zonia. Il prossimo ottobre, infatti, pervolontà di papa Francesco si terrà il Si-nodo proprio sull’Amazzonia, in conti-nuità profonda con l’enciclica LaudatoSi’. E proprio al tema del polmone verdedel mondo ormai drammaticamente inpericolo, il Pime sta dedicando una suaCampagna dal titolo eloquente “Il gridodell’Amazzonia”. E se commuove ilricordo dei Fratelli delle Scuole Cristianeper i quali «fratel Paul ha donato la sua

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ATTUALITÀ

dormitorio della Comunità studentescainterculturale La Salle nel quartiere diBelén di Iquitos, città peruviana dimezzo milione di abitanti, capitale dellaregione di Loreto che confina con ilBrasile. La Conferenza episcopale peru-viana (Cep), con un comunicato pub-blicato sul suo sito, ha subito invitato ilgoverno del Perù «a chiarire i fatti e atrovare i responsabili di quanto accaduto»ma al momento in cui andiamo in stam-pa, ancora non è chiaro chi abbia uccisoPaul. Le autorità locali stanno indagandosu due possibili piste ed i primi refertiautoptici non sono ancora stati resinoti.Di sicuro la storia di vita e le battaglieportate avanti da McAuley lascianoaperto più di un sospetto. Cioè che adeliminarlo in un modo così barbaro siastato qualcuno a cui aveva dato fastidio.I moventi non mancano, erano molti apoter avere un motivo per volerlo eli-minare, se solo si pensa che già nel2010 il governo di Lima aveva persinotentato di espellerlo dal Paese. Poi untribunale aveva annullato il decreto elui aveva potuto continuare la sua operamissionaria nel Paese andino, il quartopiù pericoloso al mondo secondo le sta-tistiche di chi difende i diritti ambientalie degli indigeni. Certo, una campagnadiffamatoria dell’epoca sui media locali- ricorda oggi The Guardian - lo aveva

descritto come un “attivista Tarzan”, un“prete incendiario” e per di più “gringo”,persino un “terrorista bianco”. Paulaveva sofferto per questi epiteti manon aveva ab-bandonato il suosogno di unmondo migliore,né la sua lottaper combattere ipredatori clande-stini di legname,le compagnie mi-nerarie, petroli-fere e di gas, dicui il sottosuoloamazzonico èricchissimo, maanche gli hotelextralusso per tu-risti costruiti nelbel mezzo dellaforesta.

Era colto e molto intelligente fratelloPaul e la sua è una perdita grave, nonsolo per la Chiesa cattolica ma ancheper chi ogni giorno si batte per difenderegli indios. Nato nel 1947 a Portsmouth,in Inghilterra, in una famiglia di originiirlandesi, era arrivato ad Iquitos dopoun lungo percorso. Filosofo e matematico,

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nerale del Sinodo dei vescovi. Il Sinododi ottobre stabilirà per questo un pontecon altre aree geografiche simili, dalBacino del Congo al corridoio biologicocentroamericano, passando per le forestetropicali asiatiche e l’enorme (1,2 milionidi chilometri quadrati) sistema acquiferoGuaraní.

che avrà un impatto du-rissimo su tutto il pia-neta.

Sono temi cruciali per ilprossimo Sinodo e so-stenuti ormai da annidalle varie pastorali locali.Che confidano nell’in-contro in Vaticano di ot-tobre, perché da Romail grido in difesa del-l’Amazzonia si declini inun messaggio concretoe trasformatore. Per l’ar-civescovo di San Paolo,il cardinale Odilo PedroScherer, il problema delloscarso numero di mis-sionari presenti si sta fa-cendo importante. «Quel-lo che è fondamentale -ha dichiarato - è che ilVangelo converta e pro-muova la dignità degliabitanti dell’Amazzoniae che sia forza di solida-rietà nella costruzionedi nuovi modelli di svi-luppo e condizioni divita».Nel documento prepa-ratorio al Sinodo elabo-rato dai vescovi, si fa ri-ferimento al viaggio delpapa nell’Amazzonia pe-ruviana quando France-sco chiese che venissemutato il paradigma sto-rico che sempre ha vistol’Amazzonia come una«dispensa di risorse naturali senza tenereconto dei suoi abitanti». E tra le lineeguida stilate per il Sinodo, quella didare voce e dignità ad una “Chiesa dalvolto Amazzonico”. Un volto nel qualenon può non specchiarsi quello dell’interaumanità, come ha sottolineato il cardi-nale Lorenzo Baldisseri, Segretario ge-

vita per i poveri dell’Amazzonia con unimpegno per custodire la “Casa Comune”che ha rappresentato il suo mandatoevangelico», non è stato purtroppo laprima vittima della foresta più impor-tante del pianeta, né sarà l’ultima.

Tra le biografie in questo senso più ce-lebri, sicuramente rimane, sul versantebrasiliano, quella di suor Doroty Stang,missionaria statunitense, in Amazzoniadagli anni Settanta a fianco dei lavoratorirurali della regione dello Xingu. Impe-gnatissima nella Commissione pastoraledella Terra, si era battuta a lungo, no-nostante le ripetute minacce di morte,per la riforestazione nelle aree limitrofealla Transamazzonica, l’immensa stradache divide l’Amazzonia brasiliana indue. L’hanno uccisa con sei colpi dipistola nel 2005. In carcere è finito ilmandante dell’omicidio, il latifondistaRegivaldo Peireria Galvão.Già, perché la lobby dei latifondisti, in-sieme all’estrazione mineraria selvaggia,è la vera minaccia costante per l’Amaz-zonia in America Latina. Presente nellapolitica, nella finanza, nelle campagneelettorali, è diventata il vero ago dellabilancia a tutto svantaggio del polmoneverde. Che negli ultimi dieci anni nelsolo Brasile, secondo i dati divulgati dalWwf, ha visto distrutta un’area grandecome cinque volte la gigantesca me-tropoli di San Paolo. Se il Brasile è re-sponsabile per metà della deforestazioneglobale dell’Amazzonia, i Paesi andininon sono da meno, soprattutto Perù eBolivia. Se si continuerà di questo passo,entro il 2030, sempre secondo il Wwf, il27% dell’Amazzonia sarà senza alberi.Un disastro ecologico - la regione ospitail 10% delle specie conosciute e il 75%delle sue piante esiste solo qui, per nonparlare delle tremila specie di pesci -ma anche umano per le sue centinaiadi migliaia di indios (450mila solo inBrasile). Il bilancio è sempre più cata-strofico: perdere radici e cultura, oltread un rapporto ancestrale con la natura,

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FOCUS

tempo e nella storia per raggiungeremete lontane, scambiare odori, colori,idee e costumi, tessuti e oggetti scono-sciuti, memorie di grandi civiltà.Per il viaggio di andata e ritorno tra Oc-cidente e Oriente erano necessari mesi,a volte anni per coprire gli oltre ottomilachilometri di distanza. La mitica Via dellanotte dei tempi è diventata oggi unastrada a scorrimento veloce, il traitd’union tra la Cina e l’Europa, il MedioOriente e l’Asia centrale e oltre, fino alSud-est asiatico. Basta guardare la mappadel pianeta per comprendere la vastitàdella Nuova Via della Seta che si allargasu tre direttive più importanti: la prima

rendo il tracciato di quella che fu lamitica Via della Seta con le carovane dicammelli e migliaia di mercanti che dallacosta del Mediterraneo orientale si ad-dentravano fino all’antica capitale cineseXi’an. Erano uomini coraggiosi comeMarco Polo che da Venezia raggiungevanoil porto di Antiochia in Turchia per unirsiai viaggiatori che facevano tappa a Ba-ghdad e a Samarcanda. Tra una sostanelle oasi e una pausa nei caravanserragliper ristorare uomini e animali, si affron-tava un viaggio favoloso tra le pianuredesertiche, le montagne e le aride steppedell’Asia, incontrando antiche città etribù nomadi. Camminando indietro nel

P iù che una Via sarà un’autostrada.Una gigantesca rete di contattisu terra e via mare che in parte

già collega e collegherà due continentiper creare un unico mercato. Come laGrande Muraglia (costruita a partire dal215 a.C. con i suoi settemila chilometri,il progetto One Belt One Road (Obor) èla nuova titanica impresa cinese delTerzo millennio. Organizzata su due per-corsi commerciali - uno via terra e l’altrovia mare - attraversa l’Eurasia ripercor-

di MIELA FAGIOLOD’ATTILIA

[email protected]

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Sri Lanka, Mar Rosso per arrivare allecoste d’Europa; la seconda attraversa ilMar Cinese e collega Pechino alle isoledell’Oceano Pacifico. Un progetto di por-tata enorme, destinato a cambiare radi-calmente gli scenari geopolitici ed eco-nomici del pianeta. Annunciato nel 2013dal presidente Xi Jinping in un discorsoalla Nazarbayev University in Kazakistan,il progetto Obor coinvolge 120 Paesiche hanno aderito alle politiche di scambicommerciali con la Cina ed è al centrodegli interessi del governo di Pechino.Se sul breve periodo la scommessa èquella di non perdere la guerra dei dazicon gli Usa di Trump, nel lungo, grazie aqueste politiche commerciali su largascala, l’obiettivo è quello di arrivare araddoppiare il Pil cinese, con la creazionedi nuovi e più stretti legami internazionali.Nel complesso, il progetto Obor vedrà allavoro 4,4 miliardi di persone (più dimetà degli abitanti della Terra) per unbudget di 21 miliardi di dollari (il 29%circa del Pil mondiale) con la partecipa-zione delle più grandi banche mondialie asiatiche in particolare. Roba da farimpallidire la realizzazione delle piramidinell’antico Egitto, le città andine degliInca e tutte le altre meraviglie createdall’uomo messe insieme.In era post ideologica, le guerre espan-sionistiche non si fanno più a colpi dislogan ma con l’apertura di nuovi mercatia cui fornire merci, prestiti capestro ebraccia di lavoro. Il resto viene dopo, acolpi di firme degli accordi bilaterali pergli scambi commerciali. In questo l’Imperodel Drago è imbattibile: perché investiresoldi (soprattutto) in armamenti

La Nuova Via della Seta è un progetto di portataenorme, destinato a cambiare radicalmente gliscenari geopolitici ed economici del pianeta.Composto da diversi tronconi e modulato su seicorridoi a scorrimento veloce, è il proclama dileadership mondiale della Cina di Xi Jinping.

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parte dal centro della Cina, da Xi’an eattraversa l’Asia con la tratta Kazahistan- Mosca - capolinea al Mar Baltico; laseconda si dirige verso il Pakistan, passaper l’Iran e raggiunge la Turchia; la terzainfine è diretta alla Thailandia, attraversail Myanmar e arriva fino a Delhi in India.I collegamenti saranno effettuati graziea ferrovie ad alta velocità con treni diultima generazione in grado di trasportaremerci da Kunming (Cina meridionale)fino a Bruxelles o a Madrid in un numerosempre minore di ore, grazie anche aduna serie di collegamenti su tratte giàesistenti. Come a dire che i pomodoriraccolti alle pendici del Vesuvio arrive-ranno ancora freschissimi sulla tavoladel signor Ping a Pechino.

Il percorso marittimo è invece diviso indue rotte commerciali: la prima collegail porto di Fuzhou con le coste di Malesia,

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FOCUSFOCUS

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È un pezzo di Terra Santa in Afghanistan,l’ulivo che nella Domenica delle Palme

è stato piantato di fronte alla chiesa dellaMissione nell’Ambasciata d’Italia a Kabul. Iltipo di albero non è certamente il più adattoper il clima rigido del Paese asiatico, mal’Ulivo della pace – come è stato ribattezzatol’esemplare – è arrivato da quasi due anniin questa terra martoriata e per farlo accli-matare, una volta invasato, è rimasto espostoai raggi del sole durante l’estate e protettodalla serra durante l’inverno. Fin tanto chenon è stato trapiantato, come auspicio dipace per l’Afghanistan.Quest’ulivo proviene da Nazareth e nelluglio 2017 è stato donato alla Missione af-ghana da fratel Carlo Fondrini, guanelliano,direttore del Centro per bambini disabili,gestito nella capitale dalla onlus italiana“Pro Bambini di Kabul” (PBK). A raccontarloè padre Giovanni Scalese, sacerdote bar-nabita, titolare della Missio sui iuris dell’Af-ghanistan e guida della piccola comunitàcristiana locale.Ricordando l’ulivo come simbolo di pace, ilmissionario fa notare che «l’origine del sim-bolismo la troviamo nel racconto del diluviouniversale: al termine del diluvio, Noè feceuscire dall’arca una colomba, e questa tornòcon un ramoscello di ulivo nel becco. Noècomprese così che le acque si erano ritiratedalla terra». Il semplice gesto della messa adimora di questo ulivo dalla provenienzaspeciale «vuole essere, come il ramoscellonel becco della colomba, l’annuncio dellafine di un periodo buio e l’inizio di un’epocaluminosa nella storia dell’Afghanistan» com-menta padre Scalese. Per questo è statochiamato “Ulivo della pace”.La piccola comunità cristiana qui presenteoffre ciò che può per la pacificazione e laricostruzione di questo Paese: servizio aipiù poveri, assistenza ai bisognosi, forma-zione ai meno fortunati, ma anche e so-prattutto la preghiera, «arma segreta chepuò produrre effetti inimmaginabili, infini-tamente superiori a quelli che possono rea-lizzare i nostri sforzi materiali» perché lapace metta radici anche qui. Proprio comeha fatto quest’ulivo.

di Chiara Pellicci

OSSERVATORIO

MEDIO ORIENTE

EMIGRAZIONEDI UN ULIVO

bellici quando con lo stesso budget sipossono comprare cemento, laterizi, ac-ciaio, tubi per costruire ponti, autostrade,oleodotti, ferrovie, ospedali e quantepiù infrastrutture possono cambiare lavita di un popolo, di tanti popoli? LaCina è oggi la più grande impresa ediledel pianeta, con cantieri che stannocrescendo a ritmi vertiginosi in tutti icontinenti.

Di fatto, il progetto Obor è la versionecinese all’America first di Donald Trump;nonché la sfida, con il posizionamentocinese al centro di una rete mondiale discambi, lanciata al suo competitor fron-tale, gli Stati Uniti appunto. La Cina diXi Jinping è molto cambiata rispetto alpassato anche recente, quando la politicacinese sembrava più concentrata sullosviluppo interno (il più rapido dellastoria dell’umanità), sull’urbanizzazionee sull’incremento della produzione peri consumi nazionali, che non su politicheespansionistiche. L’invecchiamento dellapopolazione e il rallentamento dellacrescita economica hanno spinto Pechinoa cambiare i piani economici e a cercarenuove fonti di crescita oltre confine.Dopo avere assunto un peso enorme intutta l’area del Sud-est asiatico (proprioin questa regione sono stati posati iprimi mattoni della Nuova Via dellaSeta) dal Myanmar alla Corea del Nord,

dal Laos alla Malesia e all’Indonesia,ora la Cina assurge a ruolo di “potenzaglobale”, scavalcando i quadranti geo-politici di organizzazioni strategichecome l’Association of South East Nations(Asean). Senza dimenticare che in questaregione del mondo anche gli Stati Unitigiocano un ruolo importante con laCampagna Rebalance to Asia, e nellerelazioni commerciali e non solo conpartner storici come Filippine, Giappone,Corea del Sud, in un quadro di alleanzeche risale in alcuni casi alla fine dellaSeconda guerra mondiale.Ora la Nuova Via della Seta impone ri-pensamenti importanti. Yun Sun, unadelle direttrici del programma economicoamericano per l’Asia del CentroHenry Stimson di Washington, stig-matizza così gli obiettivi dell’Obor:«Questa iniziativa sta aiutando laCina ad utilizzare il surplus eco-nomico interno, ad espandere imercati esteri e le relazioni com-merciali, a rafforzare i rapporti po-litici con i Paesi beneficiari, i legamimilitari e l’influenza sulla sicurezza.Alla fine, tutto ciò contribuiscealla formazione di un nuovo ordinemondiale in cui la Cina svolge unruolo sempre più importante».

Ma per l’Impero del Drago nonmancano rischi economici e Xi Jin-

memorandum

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A dieci anni dalla fine della guerra, lo Sri Lankanon ha pace. Gli attentati della scorsa Pasqua

si collocano in un quadro irrisolto di ferocidivisioni politiche. Lo stesso decimo anniversariodel Remembrance Day, celebrato il 18 maggioscorso, è macchiato dai crimini commessi negliultimi mesi del conflitto fra i guerriglieri tamil el’esercito srilankese. L’Onu stima che in quelbreve periodo siano stati uccisi 40mila tamil. Aqueste vittime, si aggiungono i 100mila morti in25 anni di scontri e gli abusi commessi daentrambe le parti. Una commissione d’inchiestaindipendente, però, non è mai stata avviata. Nel2015, con la sconfitta del presidente Mahinda Ra-japaksa, che aveva ordinato l’offensiva finale, sisperava in un processo di riconciliazione e giustizia.Purtroppo, il suo successore Maithripala Sirisena– tuttora in carica - non è stato all’altezza di taliaspettative, ma ha addirittura cercato di riportareMahinda a capo del governo, con un’azione poigiudicata incostituzionale.Nello Sri Lanka, come in Myanmar, il nazionalismoreligioso ed etnico alimenta l’odio. Entrambi iPaesi a maggioranza buddista sono guidati daélite che discriminano le minoranze e assecondanogruppi fondamentalisti. Tutti gli analisti invitano anon puntare il dito contro l’ennesimo nemico in-terno. Prima i tamil (indù e cristiani), ora i musul-mani. Dopo gli attacchi suicidi contro chiese ehotel, che domenica 21 aprile hanno causatooltre 350 morti, Alan Keenan dell’InternationalCrisis Group scrive: «Non bisogna demonizzarel’intera comunità musulmana che è pacifica enegli anni della guerra ha dimostrato calma econtegno». Il difensore dei diritti umani M.A. Su-manthiran, cristiano tamil, dice preoccupato alNew York Times: «Ora abbiamo un nuovo nemicoma lo stesso odio». E aggiunge: «La mano pesantedello stato di sicurezza nutrirà estremismi di ognitipo. I diritti delle minoranze, religiose o etniche,sono trattati dal governo con disprezzo e con laforza. Fino a quando non risolveremo questoproblema, lo Sri Lanka sarà segnato dal sangue».Intanto, l’accusa per crimini di guerra di untribunale californiano non ha scoraggiato il falconazionalista Gotabaya Rajapaksa. Il fratello diMahinda ed ex segretario della Difesa si ècandidato alle elezioni del 2020.

di Francesca Lancini

SRI LANKA,L’ODIO A 10 ANNIDALLA GUERRA

OSSERVATORIO

ASIA

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ping sta giocando una partita a rischioaltissimo: quello della “trappola del de-bito”, una incognita che vale sia per lasituazione interna della Cina, sia per iPaesi coinvolti nella realizzazione delprogetto Obor. Il debito cinese in terminidi Pil è da tempo più alto di quellodegli Usa ed è più che raddoppiato inpoco più di 10 anni, passando da 27milaa 72mila miliardi di dollari, cifra cherappresenta il 92% del Pil globale. Daireport degli analisti emerge che a farlievitare i numeri in rosso sono statesoprattutto le insolvenze delle aziendeprivate, le stesse che ora cercano dirifarsi con investimenti all’estero, orain particolare lungo la Nuova Via. AiPaesi cui viene proposta la realizzazionedi infrastrutture funzionali al progetto,vengono offerti vantaggiosi finanzia-menti in cambio di accesso ai porti(anche alle basi navali) in Myanmar,Pakistan, Sri Lanka. Chiaro che questastrategia rappresenta un rischio di di-minuzione della sovranità degli Statiche ben presto saranno forniti di in-frastrutture di marca cinese.E tutto questo come funziona con l’Eu-ropa? L’import di merci cinesi in Europa(13 i Paesi che hanno già aderito) rap-presenta il 28% degli scambi mondiali,mentre per farci una idea, l’Italia esporta

in Cina 13,5 miliardi di merci e ne im-porta per quasi 30. L’integrazione pro-gressiva di Cina ed Europa porterebbead un aumento di scambi commercialidel 12%, cambiando gli attuali equilibrieurocentrici e occidentali, spostandol’asse dei rapporti con gli storici alleati,gli Stati Uniti. In Italia durante la visitadel 24 marzo scorso, il presidente Mat-tarella e Xi Jinping hanno firmato ilmemorandum d’intesa, malgrado il di-sappunto del presidente americanoTrump. Ventinove i punti dell’accordoche prevede la realizzazione di infra-strutture viarie, collegamenti marittimie terrestri per far viaggiare uomini emerci in sei corridoi tra Italia e Cina,via Asia centrale. Ampio spazio vienedato anche alla collaborazione nelcampo delle tecnologie connettive edei sistemi energetici, per un valore di2,5 miliardi che nel tempo potrebbecrescere. Come cresceranno i porti(strategici) di Trieste e Genova con labenedizione della Cassa Depositi e Pre-stiti e della Bank of China. Con moltealtre aziende italiane sul piede di par-tenza. Buona parte del prestigiosomade in Italy parla già da tempo inmandarino. E in Italia non c’è più laseta di una volta, ma l’onnipresenteacrilico made in China.

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la Cina almeno quanto la Cina affascinòlui. L’attrazione inziale esercitata dallescoperte scientifiche europee fu lachiave di volta del successo di MatteoRicci nel complesso mondo della DinastiaMing. Nato a Macerata il 6 ottobre 1552 emorto a Pechino l’11 maggio 1610,Ricci è stato un geografo e scienziato,oltre che naturalmente un missionarioesploratore, che usò l’intelletto per pe-netrare la cortina di fumo cinese ed

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STORIA DELLA MISSIONE 6

di ILARIA DE [email protected]

entrare definitivamente nei cuori deigovernanti mandarini. Dalla testa all’anima: per evangelizzareMatteo doveva tradurre la scienza inqualcos’altro e rendere accessibile ilVangelo ai rappresentanti cinesi, impresaquanto mai delicata in una terra deditaal confucianesimo.La Cina è un altro mondo, e questoMatteo Ricci sembra fin dall’inizio com-prenderlo molto bene. In una lettera alconfratello Girolamo Costa afferma chela Cina è un regno diversissimo da tuttigli altri, «è l’unico altro mondo paralleloe anche alternativo al mondo cristianoeuropeo». In effetti non era solo la di-stanza geografica a separare Roma daPechino: a distinguere i due emisferiera una differente mappatura culturale,una forma mentis che seguiva vie al-ternative. Ricci questa diversità la comprese tal-mente a fondo da individuare quattrovie di accesso nella Cina del 1600, comescrive il gesuita Francesco Occhetta: lalingua e la cultura locale, il «complessosistema sociale che tiene unito l’Impero»e «l’influenza sull’imperatore e sui suoiMandarini (la testa) per poter parlare atutto il popolo (il corpo)». «QuandoRicci – dice ancora padre Occhetta -

E ccoci giunti al cuore pulsantedella missione cristiana in terrelontane: in questa sesta puntata

della nostra Storia della missione an-dremo nell’Estremo Oriente a conoscerela figura e l’opera di uno straordinariogesuita: il matematico Matteo Ricci.Uomo di enorme cultura ed intelligenza,teologo poliglotta, che seppe affascinare

Nel 1601 il gesuitaMatteo Ricci,matematico e geografo,riesce finalmente adentrare a Pechino. Lasua missione in Cinasarà favorita dallagrande conoscenzascientifica: Ricciaffascinò l’imperatoredella Dinastia Mingalmeno quanto la culturacinese affascinò lui.

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senza successo una permanenza in Cina.Quando nel 1582 Matteo arriva a Macao,ha 30 anni, è vestito da bonzo, ha ilcapo rasato ed è accompagnato dalconfratello Michele Ruggeri. Macaoperò resta a lungo la sua meta finale acausa dell’interdizione della Cina aglistranieri: Ricci e il confratello non siscoraggiano e si dedicano per oltredieci anni all’apprendimento della linguae degli usi cinesi. Nel 1598 tenta ancoradi raggiungere Pechino, ma deve rien-trare subito a Nanchino dove rimanefino al 1601. «Confrontando il cristia-nesimo con le tradizioni del confucia-nesimo - spiega monsignor ClaudioGiuliodori in un suo scritto - Matteocomprende che il popolo cinese ha unagrandissima tradizione secolare, che ègeloso della sua cultura, lingua, tradi-zioni. Il gesuita non si pone mai in unatteggiamento di conquista culturaleo religiosa». Anzi: cresce e si rafforza inlui il legame con la classe colta e conle schiere governative cinesi, tanto cheproprio grazie al rispetto di cui gode,viene raccomandato finalmente nel1601 per il suo ingresso a Pechino, ca-pitale del “Regno di Mezzo”, alla CorteImperiale di Wanli.

offre ai Mandarini orologi, prismi ve-neziani, cartografia e mappamondi, libri(la Bibbia poliglotta di Aversa, rilegatain oro), stampe di città europee, dipinticon prospettiva, non faceva doni perpropiziarsi amicizie, ma offriva esempidella cultura europea, fino alla geometriadi Euclide e all’astronomia». Ma chestoria aveva Matteo Ricci e perchéscelse proprio l’Oriente? Matteo nasceda una nobile famiglia di Macerata,primo di 13 figli: nel 1561, a noveanni, inizia gli studi nella scuola deigesuiti, mentre aiuta il padre farmacistache lo vuole avvocato. Nel 1571 entranel noviziato dei gesuiti a Sant’Andreaal Quirinale a Roma, interrompendo glistudi di giurisprudenza e dedicandosialla filosofia e alla teologia. Intraprendeanche studi scientifici, di astronomia,geografia, cosmologia e in particolaredi matematica. Entra ben presto nellaCompagnia di Gesù dove padre Ales-sandro Valignano, visitatore generaledelle missioni dei Gesuiti in Oriente, èincaricato della preparazione di alcunimissionari per una spedizione cattolicain Cina. Ricci è uno dei candidati miglioriper quell’impresa niente affatto scontata:già altri prima di lui avevano tentato

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«L a terra del Mozambico è in agonia profonda».Così si esprimevano i vescovi del Mozambico,

sottolineando, nella loro Lettera pastorale del 2016,che «ogni giorno giungono a noi la preoccupazionee il disincanto di tante comunità cristiane e noncristiane che affrontano conflitti di terra, ponendo inpericolo la propria sicurezza alimentare e la stabilitàfamiliare e sociale».Tra tutti i Paesi africani, attualmente il Mozambico èfra quelli maggiormente presi di mira dalle impresee dai Paesi stranieri. In questi ultimi anni ha vendutoper progetti di agroindustria 536mila ettari di terra. Ilmercato della terra è fertile e gli investitori non sonopiù soltanto le multinazionali del cosiddetto Nord delmondo. I Paesi del Golfo Arabo e le economie emer-genti come Cina, Brasile o Sudafrica, ad esempio,giocano un ruolo sempre più forte, anche in nome diuna cooperazione Sud-Sud dai tratti a volte ambigui.In Mozambico la terra non si vende, si dà in conces-sione. E il prezzo può scendere fino a un dollarol’ettaro. All’anno. Le concessioni arrivano fino a 99anni e sono rinnovabili. In Mozambico la terra è pra-ticamente gratis. Oltre che fertile e abbondante: 36milioni di ettari di superficie arabile, secondo ilMinistero dell’agricoltura, di cui solo il 10% coltivato.I dati parlano di un’estensione pari a oltre 2,4 milionidi ettari contrattualizzati. Per farsi un’idea, è come seil Mozambico avesse dato in concessione un’areaestesa almeno quanto la Toscana.Ma la gente non ce la fa ad accettare tutto in silenzio.Più di 30 organizzazioni hanno deciso di unire glisforzi per difendere terra e risorse naturali, dandovita ad una campagna nazionale contro la privatizza-zione della terra: si denuncia la mancanza di chiarezza,la disinformazione sui progetti e sulle motivazioniper le quali il terreno è stato dato in concessione,l'assenza di un dibattito pubblico ampio, trasparente,democratico e di uno studio sull'impatto ambientale.L'accaparramento della terra - il land grabbing - pro-mette sviluppo, ma è un pericolo per le popolazionie le comunità rurali locali, le quali, afferma padreAndrea Facchetti, missionario Saveriano a Charre nelNord, rischiano di diventare manodopera a bassocosto per le multinazionali.

di Felice Tenero

AGONIA PROFONDADELLA TERRAMOZAMBICANA

OSSERVATORIO

TUTELADEL CREATO

Nella foto:Il planisfero realizzato daRicci e conservato pressola Biblioteca Ambrosiana,a Milano.

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a Ricci vi è il tentativo di mostrareil cristianesimo come il compi-mento della religiosità cinese ela morale cristiana come il per-fezionamento della morale “con-fuciana”» scrive Cervellera.La presenza dei Gesuiti e il ben-volere degli imperatori porterà lacomunità cristiana di Pechino finoa oltre 100mila fedeli nel corsodel XVIII secolo. Dopo accaddeche «l’ incomprensione del metododi “inculturazione” usato dai Ge-suiti portò alla proibizione ai cri-stiani di partecipare ai riti inonore dei defunti e di Confucio(“bolle papali” del 1715 e 1742,sollecitate dai Francescani). Quan-do Li Ma Dou, così veniva chia-mato Ricci in Cina, muore, l’11maggio 1610, c’erano già tremilaconvertiti in Cina numero chesale a 200mila il secolo successivo.Non tutti però ebbero la sua pa-zienza: «Dopo la morte di MatteoRicci – scrive la storica Giulia

Grassi – la sua strategia venne contestatae poi abbandonata: i pontefici con-dannarono più volte i riti cinesi (adesempio Clemente XI con la Ex illa dienel 1715, e Benedetto XIV con la bollaEx quo singolari nel 1742), di fattosconfessando l’opera di Matteo Ricci.Ma nel frattempo l’imperatore Chunxiaveva espulso i missionari dalla Cina(1724), chiudendo le porte di quel mon-do non solo alla Chiesa, ma all’Occidenteintero.Un atteggiamento che aiuta a capirecome mai Matteo Ricci sia quasi piùconosciuto in Cina che in Europa (Italiacompresa), al punto che, scrive AntonioPaolucci su l’Osservatore Romano, «pervedere riconosciuta la gloria del gesuitadobbiamo andare nel Millennium Mu-seum di Pechino dentro il monumentocelebrativo di uno Stato socialista eateo. Mirabile esempio di eterogenesidei fini. O di ironia di Dio, come prefe-risco dire».

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STORIA DELLA MISSIONE

all’idea di Dio insegnate da Ricci, ri-guardavano la creazione del mondo,l’immortalità dell’anima e il giudiziofinale. La sua prima opera in cinese è “Iltrattato sull’amicizia”, nel quale sonoraccolti i detti più famosi della letteraturaclassica occidentale. Questo concentratodi sapienza sull’amicizia impressionòmolto i cinesi e ruppe chiusure e pre-giudizi nei confronti degli stranieri. Mala missione evangelica di Ricci non po-teva di certo esaurirsi con la sociologia:come fa giustamente notare padre Ber-nardo Cervellera, direttore di Asia News:«Non si parla del motivo per cui Ricciha fatto tutto questo: l’amore cristianoverso il popolo cinese, il desiderio cheesso conoscesse la persona del Salvatore».Solo negli ultimi anni, rari studiosi del-l’Accademia delle Scienze di Pechinomostrano il sottofondo religioso comela ragione ultima di tutto l’impegno diMatteo Ricci a favore della Cina: «Grazie

Convocato dal governatore di Zhaoqingsi presenta insieme al suo compagnocome un religioso al servizio di «IddioSignore del Cielo, venuto dalla ultimeparti dell’Occidente» per poter fare «unacasetta e una chiesuola» dove staresino alla morte. E così gli viene concessodi fondare una chiesa (sostenuta aspese dell’erario) ma la sua fama di in-tellettuale è quasi più forte di quella diteologo, e viene introdotto nella cerchiadei più importanti funzionari imperia-li.Si può ritenere che Matteo Ricci si li-mitasse intenzionalmente nell’esporretutti i misteri della fede cristiana, comelui stesso scrive in una lettera del 1596:aveva adottato questa condotta limi-tandosi a esporre i dogmi fondamentali,o una sorta di “credo minimo”, per fa-vorire quanto più possibile la percezionedi una sostanziale identità di veduteriguardo al principio di tutte le cose.Le principali novità introdotte riguardo

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MO(n)DI DI DIRE

uanto più un Paese ci appare lontano, tanto più è sco-nosciuto. Come le Isole Salomone, uno Stato insulare

dell Oceano Pacifico meridionale, in Oceania. Dove alcuneparole fanno sì che le persone non siano “isole” accanto adaltre, nonostante vivano in un territorio che ne comprendecirca mille. Qui, come ci dice suor Anna Maria Gervasoni, del-le Figlie di Maria Ausiliatrice, «ci sono 90 lingue diverse pervia dell isolamento in cui le popolazioni, lontane e nemichetra loro, hanno vissuto per secoli». In Papa Nuova Guinea,anche a causa delle fitte foreste, ci sono addirittura 800 et-nie.Ma 60 anni fa, è nato il pijin – idioma molto simile all ingle-se - e, con esso, l espressione “wantok” che indica l appar-tenenza ad una stessa lingua e cultura (one talk).«Quando due provengono dalla stessa zona, sono auto-maticamente fratelli e si devono sostenere a vicenda»,spiega la missionaria salesiana. Questa parola diventa,quindi, la porta che mette in comunicazione mondi che siappartengono e si riconoscono: «La lingua madre scatta inautomatico, come l amicizia e l aiuto».

Oggi succede più spesso che le persone, gli studenti sispostino; così, se ci si reca a Honiara, si alloggia (anchein 20 nella stessa abitazione…) nella casa di un wantok,pur non essendo parenti. Rachel è «orgogliosa di averequesta tradizione di sostegno reciproco nella propria tribùo isola», ma vorrebbe vederla «estesa a tutti i cittadinidelle Solomon Islands».Una visione forse ancora lontana, considerando che que-sta nazione ha ottenuto l indipendenza e l unità solo 40anni fa (7 luglio 1978), oltre ad essere stata, nel 1997, ter-reno di violenti scontri etnici. Per Joan «è un sistema posi-tivo che viene troppo spesso usato male da persone chese ne approfittano. Tu sei un mio wantok, allora ti aiuto omi aiuti a lavorare in quell ufficio o ad avere quell autoriz-zazione».Senza troppi giri di parole, «si sfocia nel wantok system:una sorta di nepotismo e di corruzione di cui il governo egli uffici pubblici sono infestati». Al di là di questo malco-stume, c è un altro aspetto positivo che la salesiana evi-denzia: «Anche noi stranieri possiamo essere wantokquando entriamo in amicizia con qualcuno». Per esempio,la chiama così chi va a trovarla a Gizo da Henderson(dove ha vissuto fino a due anni fa) e «quando vengonoqui i volontari italiani; se parlo con la gente riferendomi aloro, non dico “the Italian volunteers”, ma “my wantoks”».Wantok. E nessun uomo sarebbe più né isola, né uno stra-niero.

WANTOK

Ci sono parole oespressioni che apronomondi: di valori,atteggiamenti, approccialla vita. In ogni numeroapprofondiremo modi didire diversi, attraversandopopoli e culture dei cinque continenti eattingendo all esperienzadiretta di persone del luogo, missionari,volontari, migranti.

"I ragazzi non fanno le boccacce, è parte della cultura.I guerrieri fanno così per spaventare i nemici".

Di Loredana BriganteFoto: suor Anna Maria Gervasoni

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l mercato di Ballarò, a Palermo, la gente non urla. Abbannìa.Perché lo scopo è farsi sentire, per avvicinare. Non è il

vociare soverchiante di chi, dai salotti della tv e dalle poltrone deiPalazzi, si allontana dal mondo reale; è la voce di chi esprime ildiritto di esistere. Così, succede anche che all’Albergheria, unodei quartieri più multietnici d’Italia, la politica si faccia dal bassotra i vicoli stretti e sui muri delle case diroccate.

Tutto è iniziato a giugno 2018, quando Igor Scalisi Palminteri,pittore palermitano impegnato nel sociale, è stato coinvolto nelprogetto “Match”, coordinato dal CESIE. L’Associazione Handala,per l’11esima edizione di “Mediterraneo antirazzista”, gli chiededi dipingere il muro che dà sul campetto di calcio dove ragazzi diogni colore giocano ogni giorno la loro partita di convivenza.«In un momento in cui il razzismo è tornato in voga, sentivo la re-sponsabilità di dire qualcosa», racconta Igor che, prima didiventare padre di famiglia, è stato frate francescano tra iCappuccini per sette anni. E ha scelto Benedetto il Moro, religiosodi colore vissuto nel 1500, co-patrono di Palermo dal 1713 esanto dal 1807. «Lui, con la pelle nera, nato in Sicilia da genitori

S C A T T I D A L M O N D O

A cura di EMANUELA [email protected]

Testo di LOREDANA [email protected]

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africani e schiavi, mi è sembrato l’esempio perfetto dell’immigratodi seconda generazione».A riprova del fatto che «la paura è dettata dalla non conoscenza»,dopo il primo “Ma chistu cu è?”, “lu turcu” con le scarpe da gin-nastica è diventato il santo di tutti.Dove ora si ammira il suo murale di diciotto metri, c’era unachiesa del 1500 dedicata al Santissimo Crocifisso, colpita rovi-nosamente da una gru nel 1950. «Da allora, l’abside e le duepareti rimaste hanno ospitato “una piscina di spazzatura”. In queigiorni, invece, la gente era entusiasta; i ragazzi del progettotoglievano i rifiuti e i bambini dipingevano il marciapiede». Poi, lasvolta. O il miracolo della “bellezza che chiama bellezza”. La Con-fraternita dei Fornai gli chiede di ritrarre anche Santa Rosalia. «Aquel punto, è scattata la scintilla ed è partito il progetto “Cartolineda Ballarò”», ideato da Igor Scalisi Palminteri e Andrea Buglisi e

sostenuto da Elenk’Art, per «la riqualificazione urbana attraversol’arte».Con loro anche Alessandro Bazan, Angelo Crazyone e Fulvio diPiazza che, con 20 secchi di vernice donati da Tommaso Piazza,dal 21 al 27 luglio 2018 hanno dato colore a delle zone degradatedell’Albergheria. Cinque muri a disposizione, per «fare del bene ailuoghi e alle persone». Cinque murales che, per Scalisi, «noncambieranno il mondo, ma saranno la spina nel fianco di chi, peranni, ha trascurato queste persone creando sacche enormi di po-vertà».Andrea Buglisi, in via Villanueva, ha dipinto un colibrì che trasportaun masso: «L’ho chiamato Fides perché in latino significa fede,ma anche fiducia in se stessi, nella capacità di riscrivere il propriodestino e incidere su quello altrui». Un messaggio che i residentihanno fatto proprio, «immedesimandosi in quel colibrì che

I MURALES DI BALLARÒ

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“Lu turcu”

(Foto di Vincenzo Russo)

(Foto di Vincenzo Russo)

(Foto di Vincenzo Russo)

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caparbiamente tenta di reagire alle difficoltà e alla pesantezzadella vita». Oltre al fatto che «sono orgogliosi di vedere arrivareturisti fin sotto le loro abitazioni per fotografare le opere. Diconoche è bello che ci si interessi al quartiere». Palermo, aggiungeBuglisi, «è piena di contrasti; la grazia e la meraviglia convivonocon la bruttura e il degrado».È quanto cattura il documentario di Salvo Cuccia e Antonio Bellia,girato tra il caldo afoso «in un mondo in ebollizione, dove tuttopuò restare in pace come scoppiare». Cuccia, che ha amato dasubito l’idea di «questi artisti scesi per strada», ha colto «il cortocircuito nell’incontro tra arte e vita». Lo stesso titolo deldocumentario, “Prospettiva Ballarò” – aggiunge Bellia – «nonriguarda solo le proiezioni sui muri, ma è un auspicio per il futurodel quartiere».

Sui volti dipinti da Alessandro Bazan sul muro dell’ex arenaTukory, “Faces are places” è «una constatazione: siamo tanti edobbiamo farci spazio». Imparando a stare bene insieme, tra altie bassi. Come a Ballarò dove, tra resistenze e curiosità, il passodalla diffidenza all’accoglienza è stato breve, fino al “Ci vulieva”

(ci voleva, ce n’era bisogno). Bisogno di fare memoria (“FrancoFranchi” di Angelo Crazyone) e di omaggiare lo storico mercatodel pesce (“Turbo Ballarò” di Fulvio di Piazza). O di imprimere suuna parete scrostata “viva Santa Rosalia”, un misto di religiositàpopolare e di fede.Prevalgono su tutto la partecipazione dal basso e la rigenerazioneurbana. Per esempio, con i fondi della tassa di soggiorno, dietro ilmurale di Benedetto il Moro, sorgerà con “BallarArt” un’area mul-tifunzionale. Buone prassi che nascono da buone idee, nonostante

S C A T T I D A L M O N D O

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Faces are places

(Foto di Vincenzo Russo) Mi negrita bonita

(Foto di Vincenzo Russo)

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il timore iniziale di imporre delle immagini, forti e potenti pernatura. L’esperienza, invece, è stata positiva, come dimostraanche la folta partecipazione all’inaugurazione del primo agostodello scorso anno, con il tour di street art della Cooperativa Terra-damare.Un mese dopo, inoltre, il format “Spago” ha legato alla Capitaledella Cultura 2018 un artista messicano, German Mancilla Landin,«stupito da colori, sapori e culture che convivevano in un unicoluogo». Il suo murale “Mi negrita bonita”, ispirato alla Vergine diGuadalupe, è «un’allegoria delle donne e madri di colore, checontinuano a sperare che un giorno saremo tutti uguali». Spesso,infatti, a Palermo come in tanti posti del mondo, molta gente deveabbassare la testa. Al contrario, le “cartoline da Ballarò” hannofatto sì che tutti, indistintamente, rivolgessero lo sguardo all’insù.Come dice Igor Scalisi Palminteri, «tra cinque anni, i colori sbia-diranno, ma resterà la vita che c’è dietro, l’aver letto negli occhidelle persone la voglia di cambiamento… L’aver provato la faticadi lavorare in questi quartieri ed avere il desiderio di “dipingere”ancora».

I MURALES DI BALLARÒ

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N on sempre, le favole si rac-contano prima di andare

a letto. A volte, possono apriregli occhi e mescolare vissuti efantasia in un gioco di colori.Come in “Ballarò Tale”, un pro-getto di arte collettiva nato nel2016 con “Per Esempio Onlus”nel percorso “SOS Ballarò” econdotto dallo scrittore AlbertoNicolino e dal pittore Igor ScalisiPalminteri: 120 bambini, 50 in-terviste, cinque murales. «Ognimurale – racconta Scalisi – hacancellato una discarica oun’aiuola devastata: dopo treanni, i muri sono intonsi e lepiazzette ripulite ancora integre.Dio ci ha collocati in un giardino bellissimo e, se sentiamo unospazio più nostro, impariamo a prendercene cura».Quelli sui muri di Ballarò sono le rielaborazioni da parte deibambini dei ricordi di un quartiere. Il quinto, all’aeroporto diPalermo, è un aeroplano che ha come passeggeri vari animali:«Un’Arca di Noè contemporanea, la capacità di fidarsi di Dio e diconvivere nella diversità».Un processo creativo e trasversale in continua evoluzione, sfociatonel libro “Le avventure di Peppe SenzaSuola” (2018) in cui SarahDi Benedetto e Luca Lo Coco, della Glifo Edizioni, hanno credutoperché «nato dall’ascolto di personaggi reali». Come dice l’autore,Alberto Nicolino, «è il tentativo di trovare un equilibrio tra fiaba erealtà, di trasformare quest’ultima pur non negandola». Ledifficoltà di Peppe, di un quartiere o dell’umanità intera sonocomuni, ma «ogni essere umano è un’avventura su questa terra»e può essere “grande festa” se cominciamo a pensare come nelfinale del libro: “Cambierò”, “Amerò”, “Comincerò”, “Lotterò”.«Ci vogliono solo ingegno e cuore».

L.B.

CON I BAMBINIDI BALLARÒ

Mama Africa

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rappresentanti delle Nazioni Unite parlano di un “delirio totale” tra la po-polazione del Nord Kivu, preda di una devastante epidemia di Ebola, ma

sempre più convinta d’esser vittima di un complotto governativo. Nella zonaorientale della Repubblica Democratica del Congo si è diffusa una stranateoria: la gente crede che l’Ebola non esista e che ad infettarla siano i vac-cini stessi, iniettati ad arte da sicari governativi con l’intento di uccidere lepopolazioni di Beni. Parlano di genocidio, rifiutano di farsi curare, si chie-dono da dove sia partita l’infezione, e così il morbo anziché arginarsi si esten-de a macchia d’olio.Tanto che i casi in pochi mesi sono raddoppiati: a metà maggio, secondofonti del ministero della sanità congolese, i casi accertati di Ebola eranopiù di 1.700, di cui 1.617 confermati e 88 probabili. I morti accertati era-no 1.124, mentre 456 persone sul totale di quelle infettate, erano guarite.Ma pare che le statistiche siano nettamente sottostimate, anche perché nel-le campagne i decessi non vengono comunicati e le persone hanno pau-ra di avvicinarsi agli ospedali. Gli operatori umanitari, i medici della CroceRossa Internazionale e dell’Oms sono molto preoccupati e fanno appelloalla ragionevolezza: «Questa storia che la malattia non esisterebbe e che

Ebola e la teoria de

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noi stiamo venendo qui per avvelenarvi eguadagnare dei soldi, è un delirio totale!»,ha dichiarato a metà maggio Leïla Zerrou-gui, a capo della Monusco, missione del-l’Onu in Congo, parlando alla tv locale. «Noisiamo qui per lavorare con le autorità – hadetto - e per dire alla popolazione locale cheè davvero incredibile attaccare chi lavoraper somministrarvi delle cure».

Il virus dell’Ebola può essere arginato intempi brevi, se preso in tempo la malat-tia è curabile, ma se si arriva al punto di«vomitare sangue, allora vuol dire che siè oltrepassato il limite ed è finita». DavidMiliband, a capo dell’International Rescue

Committee, citato da The Guardian dice

che «questa epidemia è la seconda piùgrande nella storia del Paese e la sospen-sione dei servizi primari minaccia di crea-re un’impennata letale di casi».I missionari italiani in Congo sono altret-tanto allarmati: contattati da noi al telefo-no si dicono sconcertati del fatto che lagente sia convinta d’essere caduta inuna trappola. «Sentiamo moltissime per-sone, soprattutto nelle campagne dire:“L’Ebola non esiste, ci vogliono solo faredel male”. Il punto è che è in corso una ma-nipolazione della realtà, le milizie Mai Maie molti politici locali stanno facendo unacampagna di disinformazione totale», cispiega padre Eliseo Tacchella, combonia-no a Butembo. «A Nord di Beni si è veri-ficato prima qualche caso isolato – pro-

segue – poi l’epidemia ha iniziato a diffon-dersi a ritmi più serrati. Dopo qualche gior-no la gente ha cominciato a dubitare e adire che il vaccino imposto dall’Oms erauna strategia governativa per massacra-re una parte del popolo».

Ma perché questa campagna di disinfor-mazione in atto, a chi conviene? «È chia-ro che qui la gente è stufa della guerra esi lascia prendere in giro: dopo 25 anni diguerriglia e di massacri si è tentati di cre-dere che persino un vaccino possa esse-re un’invenzione per uccidere – spiega ilmissionario –. C’è poi anche un discorso disuperstizione e di credenze popolari, cheper fortuna non riguarda l’intera popolazio-ne congolese». Il terrore numero uno, istil-lato da politici locali, è quello della selezio-ne eugenetica: si è diffusa la diceria chele case farmaceutiche assoldate da ele-menti governativi starebbero sperimentan-do vaccini per iniettare dei virus ed elimi-nare fisicamente alcune popolazioni di Beni,come quella di etnia Banande.I discendenti di queste etnie del Nord Kivu«si sono sempre opposti alle invasioni:hanno tentato di cacciarli via e prendere leloro terre e massacrarli, ma loro non ri-spondono mai con la violenza ma facen-do figli in quantità». Le milizie locali più nu-merose sono quelle dei Mai Mai: con que-sto termine in realtà si indicano gruppi diautodifesa armati, combattenti compostida leader locali che arruolano giovani uo-mini e anche bambini prelevandoli dai vil-laggi in base a criteri etnici. I gruppimaggiori di combattenti Mai Mai sono iCongolese Resistance Patriots (PARECO)e l’Alliance of Patriots for a Free and So-

vereign Congo (APCLS).Un altro missionario storico, il fidei donum

Giovanni Piumatti, da noi contattato al te-lefono, ci spiega nei minimi dettagli il cli-ma di confusione e di caos che regna inquesta regione del Congo. «Ci sono per-fino medici dell’Organizzazione Mondialedella Sanità che, stanchi di questo climadi diffidenza, vorrebbero dare le dimissio-ni – dice padre Giovanni, 80 anni com- »

el complotto

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piuti, da sempre missionario in un villag-gio della foresta – . Il dato di fondo è chela gente ha paura e non si fida di nessu-no. Circola la diceria che il virus dell’Ebo-la sia venuto da fuori. Una cosa è certa:la malattia c’è, ma molti pensano che il go-verno abbia interesse a diffonderla inquesta zona».

E così nel Nord Kivu si sommano paure le-gittime, dicerie e teorie complottiste. A ri-metterci sono le famiglie, le persone piùpovere, i diseredati: «Io penso che i poli-tici abbiano un ruolo – aggiunge padre Gio-vanni – quantomeno nel voler tenere altal’emergenza e la confusione. Non a casoquesto è uno dei territori più ricchi di ma-terie prime, di certo c’è un interesse ad ac-caparrarsi le risorse. Ci sono persone chenon hanno scrupoli e pur di fare affari conle multinazionali potrebbero uccidere e ma-nipolare le milizie sul campo. Ma il risul-

tato finale è una confusione totale: il NordKivu si rivela ogni giorno di più una ma-ledizione e una enorme miniera a cieloaperto dove dentro c’è di tutto, dall’oro aidiamanti al coltan al cobalto».Possibile che la gente possa ipotizzare checi sia una volontà premeditata di elimina-re fisicamente un popolo, pur di avere cam-po libero sulle sue ricchezze? Effettivamen-te questo in un certo senso avviene in Con-go: la vita umana ha un valore molto bas-so. «La loro interpretazione mi pare ecces-siva, ma di certo il popolo Banande e an-che altre etnie si sentono nel mirino del go-verno di Kinshasa e le persone parlano digenocidio: hanno paura di essere al cen-tro di un complotto. Io ho 80 anni, primadormivo tranquillo, adesso non più: lo sco-po qui è creare uno stato di terrore perma-nente», risponde.I nostri missionari in Congo ritengono che,essendo il Kivu una delle province più ric-che dal punto di vista dei minerali, è an-

che una delle più ambite. «Vi basti pensa-re che quando io sono arrivato nel 1974c’erano dei geologi francesi che venivanoda noi e facevano prelievi nel terreno – ri-corda padre Piumatti -. Mi dicevano chedentro la terra trovavano di tutto, dagli sme-raldi all’oro. Qui le multinazionali hanno loscopo di mantenere un certo livello di di-sordine per penetrare in certe zone».Certamente la tesi del complotto per de-cimare le persone attraverso i vaccini nonsta in piedi e sa di vera e propria psico-si; però, dicono i missionari, qualcosa divero c’è nel sentore della gente di esse-re da intralcio all’arricchimento dellemultinazionali e dei politici al potere. Lapaura di fondo è che la vita umana nellezone più remote e ricche del Congo nonabbia valore: la guerra e la lotta intestinaper l’accaparramento della terra e delle ri-sorse sono una prassi che dura da trop-po tempo e che serve al controllo della ric-chezza.

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AFRICA, LE GUERRE DIMENTICATE

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Non bastachiuderegli occhi

di Roberto Bà[email protected]

TRA IL CORNO D’AFRICA E LA REGIONE DEI GRANDI LAGHI, MA ANCHENELLA PARTE OCCIDENTALE DEL CONTINENTE, CI SONO CONFLITTIINTERNI CHE DURANO DA DECENNI, COME IN SOMALIA; ALTRI SONOCAUSATI DA INTERESSI ECONOMICI STRANIERI, COME NELLA REPUBBLICACENTRAFRICANA. MOLTA VIOLENZA È GENERATA DALLA FORMAZIONE EDALL’ESPANSIONE DI GRUPPI TERRORISTICI. QUESTO DOSSIER CI AIUTA ACOMPRENDERE I PERCHÉ DELLE SOFFERENZE CHE TOCCANO MILIONI DIAFRICANI PRIVATI DEL PRIMO DIRITTO DI UN UOMO: QUELLO DELLA PACE.

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I l 9 novembre 1989 cadeva il Muro di Berlino.Quell orrore di cemento armato aveva diviso non

solo le due Germanie, quella Federale e quella De-mocratica, ma soprattutto aveva marcato il confinetra due mondi lontani: uno controllato dagli StatiUniti d America e l altro in mano all Unione Sovieti-ca.Con la fine del Bipolarismo le regole della geopoliticasono cambiate radicalmente. Per alcuni anni gliUsa hanno immaginato di poter estendere ovunquela propria influenza, anche su quei Paesi che primaerano sudditi di Mosca. Ma il “dominio di uno solo”non poteva funzionare perché gli altri attori in com-media non l accettavano ed allora si è assistito adun “liberi tutti” che ha moltiplicato i conflitti regionali.

Soprattutto si è diffuso il terrorismo, un tipo diguerra nella quale i confini non hanno più senso edove le organizzazioni paramilitari colpiscono ovun-que, non di rado a distanza di migliaia di chilometridalle proprie basi operative.Oggi tre grandi Paesi esercitano una forte leadershipsul palcoscenico planetario: Stati Uniti, Cina eRussia. Ma a loro si sono aggiunti altri comprimaripiù piccoli, detti “potenze regionali”. Questi ultimi,approfittando della frammentazione, cercano di au-mentare il proprio potere: Francia, Regno Unito,Arabia Saudita, Israele, Iran, Turchia, Egitto, per ci-tarne alcuni. Infine ci sono i Paesi che usano laforza economica: Germania, India, Giappone, EmiratiArabi.

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Il continente dilaniatoTra spinte, controspinte, spio-naggio, speculazioni finanziarie,sanzioni unilaterali, interventimilitari dissennati, post-post co-lonialismo, sostegno a formazioniarmate di ogni genere, doppi,tripli e quadrupli giochi, sembrache molti leader mondiali non sirendano conto di una situazionediventata esplosiva.In un recente discorso papaFrancesco ha detto: «Premessaindispensabile del successo delladiplomazia multilaterale sono labuona volontà e la buona fededegli interlocutori, la disponibilitàa un confronto leale e sincero ela volontà di accettare gli inevi-tabili compromessi che nasconodal confronto tra le parti. Laddoveanche uno solo di questi elementiviene a mancare, prevale la ri-cerca di soluzioni unilaterali e,in ultima istanza, la sopraffazionedel più forte sul più debole».L instabilità politica, la necessitàda parte dei colossi industrialimondiali di rifornirsi di materieprime e prodotti energetici, loscontro industriale e finanziariotra Stati Uniti e Cina nutrono unclima di tensione che distribuisceviolenza su tutto il pianeta. È ilconcime che determina il clima

favorevole per l espandersi del terrorismo interna-zionale. In una situazione così difficile, i mediasono poco attenti alla politica internazionale e so-prattutto non si interessano per nulla di alcuniconflitti che da tempo dilaniano il luogo più colpitodalle guerre dimenticate: l Africa.Secondo gli ultimi dati aggiornati da Armed ConflictLocation & Event Data Project (ACLED) che risalgonoal 2017 ed alla prima metà del 2018, gli scontri inquel continente sono in aumento ed i morti causatidai combattimenti sono stati 71.233. Somalia,Nigeria, Sud Sudan, Repubblica Democratica delCongo e Repubblica Centraficana guidano la tristeclassifica degli orrori, ma si uccide anche in Libia,Mali e Sudan.

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Nel periodo studiato da ACLED, figura al primoposto la Somalia con novemila vittime e devastatada una guerra senza fine. Nel Paese nel 1991 ècominciato un duro scontro interno. I somali nonsono una nazione unica, ma un popolo compostoda quasi 100 tra clan e sotto clan. Ognuna diqueste entità governa un territorio e stringe alleanzeo combatte contro gli altri. A seguito della cadutadel regime di Siad Barre, prese il via una crudelelotta per il potere. Dal 92 al 95 la missione OnuRestore Hope tentò di riportare la pace, ma dopoirreparabili errori politici e militari, le forze stranierea guida americana dovettero lasciare il territorio so-malo. Da quel momento, nonostante decine di ten-tativi, nessun accordo di pacificazione ha avutobuon esito.

Fondamentalismo somaloNella seconda metà del decennio scorso alla tradi-zionale struttura clanica si è aggiunta una nuovaentità “interclanica”, al-Shabaab.L organizzazione, ispirata da al-Qaeda, ha in pocotempo raccolto centinaia di militanti e preso ilcontrollo di numerose aree del Paese. L Unione »

Decine i morti e feriti,edifici distruttinell’attentatocompiuto dai milizianidi al-Shabaab loscorso 1° marzo aMogadiscio.

Soldato delcontingenteAMISOM, lamissione militarecostituitadell’Unioneafricana nel 2007.

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presidente Mohamed Abdullahi Mohamed Farmajo.Per tutta risposta, Arabia Saudita ed Emirati hannocominciato a premere sulle autorità somale, tantoche lo scorso anno l International Crisis Group, unaorganizzazione non governativa che svolge attivitàdi analisi dei conflitti, sosteneva che Riad ed AbuDhabi «hanno interferito negli affari interni, dispen-sando pagamenti a politici per incitarli contro ilgoverno federale a prendere una posizione di nettacondanna nei confronti del Qatar, a tal punto da fardiventare la Somalia terreno di scontro delle potenzedel Golfo». Infine, l intervento di Nairobi nellaquestione somala non ha prodotto la sconfitta deglijihadisti che per tutta risposta si sono infiltrati anchenel territorio kenyota. Al momento Jaysh Ayman,una cellula dell organizzazione madre, attiva dal2009 e composta da militanti della regione costieradel Kenya, colpisce nell area della foresta di Boni,1.350 chilometri quadrati tra le contee di Garissa eLamu, al confine con la Somalia. I miliziani utilizzanoanche stranieri, tra i quali è stato segnalato persinoun americano, Maalik Alim Jones. In Kenya è attivaanche al-Qaeda che farebbe comunque riferimentoa gruppi armati preesistenti.

Africana per risolvere l affaire somalo e contrastareil nascente estremismo islamista, nel 2007 diedevita alla missione militare Umisom. Dopo un lungoperiodo di azioni militari infruttuose, in una missionecoordinata con le forze armate del fragilissimogoverno di Mogadiscio nel 2011 arrivarono le truppedel Kenya. L obiettivo era quello di eliminare al-Shabaab nel Sud del Paese. Ad agosto 2012 il co-stante lavorio diplomatico costrinse la rissosa As-semblea Nazionale a varare una Costituzione. Nac-que la Repubblica Federale di Somalia. I combatti-menti, però, non cessarono, mentre entravano inscena anche quelli dell Islamic State. Oggi il governocentrale combatte contro i guerriglieri, che a lorovolta si combattono tra loro e colpiscono con raffichedi attentati la popolazione civile.Altri antichi e nuovi nodi locali sono quelli che ri-guardano il Somaliland, dichiaratosi indipendentedel 1991, il Puntaland, resosi autonomo nel 1998,e le regioni del Galmudug, Khatumo e Jubalandche di recente hanno scelto la secessione. Ma nonbasta. Il Qatar, da sempre alleato della Turchia, so-stiene il governo di Mogadiscio ed i due Paesihanno costruito uno stretto legame con l attuale

Migranti dal Niger edalla Nigeria riposanoprima di proseguire illoro viaggio attraversoil deserto dell’Air.

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Focolai di violenza in NigeriaDall inestricabile puzzle della Somalia si va inNigeria. Il Paese è sconvolto da numerosi focolai diviolenza. Nel settore orientale della Nigeria, sotto leceneri, cova ancora la spinta separatista legata allavecchissima questione del Biafra. Tra il 6 luglio1967 e il 13 gennaio 1970, gli abitanti Igbo delleprovince sudorientali si dichiararono indipendenti,ed il governo centrale schiacciò la rivolta in unbagno di sangue. In seguito Abuja esercitò una re-pressione inumana, tanto che ci furono accuse digenocidio. Tensioni anche nel Delta del Niger, dovegli immensi giacimenti di petrolio sono nelle mani dialcune multinazionali occidentali (Shell, ExxonMobil,ChevronTexaco, TotalFinaElf, Eni/Agip) che, estraendol oro nero, devastano il territorio. Lì il Movimentoper l emancipazione del Delta del Niger (MEND) edil Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni(MOSOP) combattono lo sfruttamento dei giacimentida parte delle compagnie straniere, chiedono labonifica del territorio, dell acqua e soprattutto pre-tendono la divisione della ricchezza prodotta dalpetrolio. E poi c è il crimine organizzato, pericolo-sissimo ed estremamente violento.L area più colpita, tuttavia, è a Nord, lo Stato del

Borno ed i territori adiacenti. Lì è attiva quella chemolti osservatori internazionali considerano la piùpericolosa e crudele organizzazione islamista almondo, Boko Haram. I miliziani hanno proclamatola fondazione dell Emirato di Borno (a Nord-est) edel Califfato di Sokoto (a Nord-ovest). Le bande ji-hadiste sono numerose e non si conosce neppurechi le guida. Mentre è in atto l eliminazione fisicadei cristiani e degli oppositori, a centinaia fuggonodove possono.Inoltre, il collasso dello Stato Islamico (IS) in Iraq ein Siria fa pensare ai servizi di intelligence cheBorno sia diventato il più grande bacino integralistaal momento, sebbene non sia chiaro in che modo efino a che punto sia assimilabile ai modelli diCaliffato elaborati dall IS. Le fazioni Shekau e al-Barnawi di Boko Haram continuano ad evolversi epersino a crescere. Dal 2010 al 2017 il numero dicombattimenti con gli jihadisti è aumentato.Lo Stato del Borno è parte di una complessaoffensiva che coinvolge ampie aree della fascia sa-heliana. Le varie frange dell integralismo islamista,di matrice salafita, sono arrivate fino alle coste delMediterraneo e colpiscono in Algeria, Tunisia, Libiaed Egitto. E la ragnatela si estende anche in »

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Il Delta del Niger, nelSud della Nigeria,ricoperto dal fangooleoso prodotto dallefuoriuscite di petrolio.

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altre direzioni, come si è visto in Somalia e Kenya,ma pure in Niger, Mali, Burkina Faso e Senegal.Nelle aree dei Paesi coinvolti dalle infiltrazionijihadiste operano truppe francesi, britanniche e sta-tunitensi. Parigi dal 1° agosto 2014 ha in corsol operazione Barkahne, con obiettivo il presidio delSahel, mentre in Niger Washington affianca l esercitoregolare. Ci sono anche reparti italiani, tedeschi,canadesi e francesi. I Paesi occidentali, inoltre, fi-nanziano il “G5 du Sahel”, una alleanza militare traBurkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger, ma adifferenza di quanto accade in Somalia, dove Wa-shington ha mandato 500 soldati ed effettua bom-bardamenti con i droni contro gli integralisti, il giàcorrotto ed inefficace governo nigeriano non ricevealcun sostegno nella guerra contro Boko Haram.La Casa Bianca ha inoltre una presenza militare inMauritania, Senegal, Mali, Burkina Faso e Ciad. Gliamericani non opererebbero in Sudan ed Eritrea,mentre nel Sahel sono dislocate anche truppe dei

Paesi dell Unione Europea, di Israele e persinodella Colombia e del Giappone. Gli islamisti trovanospazio politico per radicarsi perché nei Paesi inte-ressati il risentimento verso il malgoverno è altissimo,le prospettive per il futuro inesistenti e le differenzesociali troppo marcate.

La supplica di Francesco per il Sud SudanIn Sud Sudan, ricco di legname, ferro, rame, cromo,zinco, tungsteno, argento, oro e soprattutto petrolio,nel 2013 è scoppiato un conflitto interno nel qualeun terzo dei 12 milioni di abitanti sono stati costrettia fuggire dalle proprie case ed i morti sono almeno400mila. Nonostante i numerosi cessate il fuoco, icapi dei due schieramenti in lotta, il presidente KiirMayardit ed il ribelle ex vicepresidente Riek Machar,non intendono porre fine agli scontri. Così il SantoPadre ha ricevuto i due in Vaticano nello scorsoaprile e, come mai era successo prima, si è ingi-nocchiato e baciando loro i piedi ha detto: «Vi

Truppe della missione francese nel Sahel,nella città maliana di Gossi.

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chiedo di rimanere nella pace. Le liti ri-solvetele negli uffici, non davanti al vostropopolo».Le radici del conflitto sudsudanese sonolegate al controllo dello Stato ed ai diversiinteressi, come il businnes dell oro nero,ma anche a rivalità etniche. L ex vice-presidente è un Nuer, mentre il presidente- prima dell indipendenza, capo dell Eser-cito di Liberazione del Popolo del Sudan- è legato ai Dinka. La rivalità tra i duepopoli è ancestrale. In quell area delmondo le tribù sono dedite alla pastoriziae dalle dispute sui pascoli o sulle transu-manze è nato un odio profondo che inseguito, a ridosso della fine del colonia-lismo anglo-egiziano nel 1956, è cresciutoe le frizioni tra i Dinka e Nuer si sonoesasperate. Come spesso accade, inoltre,interessi esterni seminano tempesta.Sebbene Bruxelles abbia imposto unembargo sin dal 1994, l autorevole quo-tidiano britannico The Telegraph, ripor-tando un indagine realizzata da ConflictArmament Research (Car), ha reso notoche le armi per il conflitto arrivano nelPaese da Bulgaria, Slovacchia e Romania.I ricercatori hanno scoperto che pistole,fucili e mitragliatrici vengono esportatein Uganda per poi essere trasferite alSudan People s Liberation Army (Spla)

del presidente Kiir ed ai suoi alleati. Kampala fa daintermediario e sostiene la fazione governativa. Se-condo Car, una rete di compagnie ugandesi e sta-tunitensi, controllate da cittadini britannici, israeliani,ugandesi e americani, ha procurato allo Spla un jetmilitare statunitense e un aereo spia austriaco. LaCina naturalmente non rimane alla finestra aguardare e infatti sono stati segnalati dalla societàcivile depositi di armi e munizioni nei pressi dellacapitale Juba provenienti dall Impero del Drago.

La galassia dei gruppi armati in CongoViolenza anche nella Repubblica Democratica delCongo (RDC). Qui le infiltrazioni jihadiste infestanole regioni del Nord Kivu, Goma, Butembo-Beni edanche il Kivu del Sud dove ci sono le preziosissimeminiere di coltan. Nella zona imperversano i com-battenti dell Allied Democratic Forces (Adf), ungruppo islamista di origine ugandese attivo anchenella RDC. Gli integralisti sarebbero collegati a

Boko Haram, al-Shabaab, al-Qaeda. Nel Paesesarebbe recentemente comparso anche lo StatoIslamico che, dopo aver rivendicato l uccisione didue militari e un civile a Bovata, vicino al confinecon l Uganda, ha proclamato la nascita della WilayatWasat Ifriqiyah, la Provincia dell Africa Centrale.Nella parte settentrionale del Kivu i morti sonomigliaia, milioni i fuggitivi e la malnutrizione colpiscei bambini. A ciò si aggiunga la galassia dei gruppiarmati congolesi preesistenti, come i Mai-Mai cheinfestano le regioni orientali da oltre un ventennio.Poi c è l Ebola. Nelle città di Beni, Butembo nelKivu settentrionale e poi più a Nord, anche nella re-gione dell Ituri, il virus sta provocando migliaia dimorti. Si tratta della seconda epidemia dopo quellache nel 2014 ha colpito Liberia e Sierra Leone. Inquei Paesi le vittime furono oltre 11mila. Ma l emer-genza sanitaria del Congo somma alla pericolositàdella malattia il fatto che i soccorsi debbano operarein una zona di guerra. Da gennaio di quest anno aiprimi di maggio le azioni contro i centri medici sonostate 119. Nel Sud del Paese, dal Kasai al Katanga,scorrazzano i combattenti del Kamwina Nsapu,altra banda armata. Tuttavia, la crisi congolese nonsi limita alla sola guerriglia islamista. Il governo delPaese è al centro di uno scontro di potere tra l expresidente Joseph Kabila ed il suo successoreFelix Tshisekedi, eletto nel gennaio di quest anno.Nodo della questione sono le enormi risorse naturalie gli interessi delle compagnie minerarie straniere,come la Barrick Gold Corporation, canadese, e laGlencore International plc, multinazionale anglo-svizzera con sede a Baar. E pesano sul quadro »

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Il funerale di una delle vittimedegli attacchi del gruppoislamista dell’Allied DemocraticForces (Adf) a Beni, RepubblicaDemocratica del Congo.

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politico le minacce continue di Martin Fayulu Madi-didel, secondo arrivato alle presidenziali e primaancora ex dirigente della compagnia petroliferaExxon Mobil. La trasparenza della consultazionepopolare per la scelta del nuovo capo dello Statoha, peraltro, sollevato molti dubbi, tanto da spingereprima della proclamazione del vincitore la Conferenzaepiscopale cattolica congolese, i giornalisti indipen-denti, gli attivisti per i diritti umani e gli Statidell Unione Africana a chiedere il riconteggio delleschede.

Il fragile accordo di KartoumUn altra carneficina dimenticata dai media occidentaliè quella della Repubblica Centrafricana. Il 5 febbraioscorso, a Khartoum capitale del Sudan, è stato fir-mato un accordo di pace tra il governo di Banguied i capi dei 14 gruppi armati in azione nel Paese.In quel territorio africano ci sono ricchissimi giacimentidi diamanti, oro, petrolio e uranio, oltre a legnamemolto richiesto a livello mondiale. Alla fine di marzo2013, la capitale cadde nelle mani dei miliziani Se-leka, una alleanza piena di mercenari ciadiani esudanesi e composta da gruppi di varia origine,con obiettivi diversi, ma unita dalla comune fedeislamica. Il presidente François Bozizé fuggì e ilcapo dei ribelli, Michel Djotodiae, prese il suoposto. Subito si aprì una pesante fase di vuoto po-litico. Le strutture statali collassarono, il sistemaeconomico andò in fumo, la corruzione si diffusesenza freni e soprattutto le varie componenti diSeleka diedero il via ad una stagione di crudeltàinaudite contro i cristiani.I massacri dei Seleka innescarono la nascita delle

Dos

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milizie Anti-balaka, gruppi paramilitari di matriceanimista e cristiana. Djotodiae il 10 gennaio 2014si dimise e si determinò la frammentazione del ter-ritorio: ad Ovest i gruppi animisti e cristiani e adEst quelli musulmani. Tutte le forze in campo sisono macchiate di crimini di guerra. Nel 2014 Am-nesty International denunciò le atrocità degli Anti-balaka nei confronti dei civili di religione islamica eHuman Rights Watch nel 2017 realizzò un corposodossier sugli omicidi indiscriminati. Va spiegato,però, che dietro il conflitto religioso si nascondonoin realtà interessi economici interni ed internazionali.Le ricchezze del sottosuolo scatenano gli appetitisoprattutto di Francia, Russia, Sudan, Cina e Su-dafrica. Le milizie controllano gli schiavi che lavoranonelle miniere ed insieme agli “stranieri” fanno affari.L Africa, tra i suoi giganteschi squilibri, si trova asubire gli effetti dei mutamenti climatici, il radicarsidel terrorismo islamista, il saccheggio delle risorsenaturali ad opera delle compagnie multinazionali edei cinesi e la crudeltà di conflitti locali del tutto di-menticati.In uno scenario così complesso, la formazione diuna società civile reattiva e consapevole non èsempre facile, così come è indispensabile il raffor-zamento delle classi dirigenti, specialmente nei Paesicoinvolti nei conflitti o a rischio. E la fragilità deigoverni apre le porte alle formazioni terroristiche, unpericolo da scongiurare presto e senza cedimenti. Imedia italiani farebbero bene ad essere più attenti.In questo contesto il mondo missionario e leChiese cristiane testimoniano nel servizio ai piùpoveri la speranza e il desiderio di un riscatto delcontinente.

La sigla a Khartoumdell’accordo di pacetra il governo diBangui ed i capi dei14 gruppi armati inazione in Centrafrica.

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sistema dei media prima che arrivasseroi social network e i servizi via digitale.Diceva che la comunicazione del futurosarebbe avvenuta per interconnessione,prefigurando in qualche modo il sistemainternettiano. Con la sua visione apertaha cercato di fare una piccola rivoluzioneproprio sul modo di comunicare e dievangelizzare attraverso la comunica-zione».La mission del Crec - che nei decenniha formato oltre 800 religiosi comuni-

catori in 100 Paesi - è quella di ripensareforme e linguaggi efficaci di comuni-cazione religiosa in una dimensione in-terculturale, ecumenica e globale. Te-nendo il passo con le innovazioni tec-nologiche in trasformazione, il panoramacrossmediale e le culture dei popoli. Perfare questo, il Crec si serve di una retedi formatori internazionali e partnerlocali che vengono chiamati da diocesi,istituti e Conferenze episcopali di tutti icontinenti per la progettazione e lo

S ommare la creatività e il messaggiocon le emozioni. Portare al qua-drato la comunità ed ecco il pro-

dotto: la comunicazione. Come McLuhan, anche padre Pierre Babin eraconvinto che “il mezzo è il messaggio”e questa è la chiave (più che mai attuale)delle attività che dal 1971 svolge ilCentre de recherche pour l’education àla communication (Crec), fondato dalmissionario oblato nella cittadina francesedi Lione. All’alba di quello che stava di-ventando il “villaggio globale”, padreBabin era già un attento conoscitoredelle modalità comunicative legate all’usodei nuovi media, tanto da essere ingrado di intuire e adombrare gli scenarifuturi della rivoluzione digitale basatasulla legge dell’algoritmo, con le sueinevitabili conseguenze sui consumi,sulle abitudini e sulle relazioni inter-personali e sociali degli utenti stessi.Spiega padre Fabrizio Colombo direttoredel Crec da un anno, che padre Babin«aveva una modernissima visione del »

di MIELA FAGIOLOD’ATTILIA

[email protected]

Il Centre de recherche pour l’education à la communication

(Crec) forma i nuovi comunicatori dei media cattolici,portando professionalità, tecnologie e aggiornamentoa radio, televisioni e centri culturali di tutti i continenti.

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In questi anni caratterizzati dal passaggiodi molte rivoluzioni - da quella genera-zionale a quella dei flussi migratori, finoall’omologazione dei consumi su scalamondiale e alla cultura del meticciato -il Crec aggiorna continuamente il pianoformativo in modo che chi all’internodella Chiesa si occupa di comunicazionisociali abbia una formazione aggiornatae usi le nuove tecnologie senza paura

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

delle nuove frontiere della comunicazione.Dice padre Colombo: «Insegniamo a rac-contare storie di Vangelo attraverso inuovi media, i social, curiamo lo storytelling. Diceva padre Babin che il lin-guaggio di propaganda non funziona,la gente non recepisce i discorsi che

sviluppo di progetti dicomunicazione. PadreColombo, missionariocomboniano, già diret-tore del Signis ServiceRome, continua spie-gando che «dopo la mor-te di Babin, nel 2012, cisi è chiesti se continuarea tenere aperta la sededi Lione. C’erano pro-blemi economici per farvenire gli studenti a stu-diare in Francia e così è stata chiusa. Lamissione di questa scuola, però, continuagrazie al lavoro degli ex studenti cheora sono docenti e vanno in altri conti-nenti nei luoghi in cui sono chiamati afare formazione. Ora il lavoro è ancorapiù missionario: invece di accoglierestudenti dall’estero, i professori vannodirettamente nei luoghi in cui è richiestala loro competenza».

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vengono dall’alto. Funziona unanarrazione che parte dall’espe-rienza e gioca sulle emozioni checoinvolgono di più l’ascoltatore».La consulenza del Crec è di stampotecnico e professionale e puntaall’aggiornamento dei media cat-tolici, come radio, televisioni,centri di comunicazione multi-mediale, dalle Filippine al Paraguayal Sudafrica. Per costruire nuovipalinsesti narrativi in cui tuttoparli di Vangelo. «Spieghiamo chela comunicazione deve esserefatta liberando la creatività: “Ilmessaggio sei tu”. E’ quello che

diciamo ai seminaristi ma anche ai ve-scovi: “Liberate la creatività”. Il metodoCrec non è fatto di regole rigide ma èesperienziale. Da questo nascono prodottimultimediali molto validi. Durante unrecente corso in Liberia, all’inizio glistudenti ci guardavano con un certodisorientamento perché non ci presen-tiamo con una attitudine professionale,ma amicale, stimolante. Per l’Uganda(dove c’è il digitale terrestre e un altonumero di canali) stiamo cercando dimettere in piedi una smart tv, unareality tv, più che il solito palinsesto.Vogliamo portare le telecamere nellastrada e nella vita della gente. Offrireun prodotto di qualità che sia inclusivoper il maggior numero di persone».

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ra un missionario delle nuove frontieredella comunicazione. Padre Pierre Babin,

Oblato di Maria Immacolata, morto nel 2012a 87 anni a Lione, dove nel 1971 ha fondatoil Crec, era sociologo e massmediologo,amico di Marshall Mc Luhan e come luiprofeta di un nuovo modo di trasmettere in-formazioni, cultura, stili di vita. Diceva che«l’elemento fondamentale per cambiare leculture e le relazioni non sono le ideologie,le guerre o le religioni ma le nuove tecnologiedella comunicazione. Sono queste che strut-turano le società: quando arriva una nuovatecnologia di comunicazione, la società neè rimodellata, così come la Chiesa. Ieri era la stampa, oggi l’elettronica. Il piccolodio che sta sconvolgendo la cultura è l’elettronica, il fondamento di tutte le nuovetecnologie di comunicazione».Uomo di fede al servizio della Chiesa in un nuovo campo dell’evangelizzazioneglobale, il pioniere Babin ha studiato il fenomeno internet, promuovendo ildialogo tra le persone, le generazioni e le diverse religioni nel mondo. Conoscevabene i giovani e intuiva che stava per sorgere l’alba dell’era delle comunicazioni,basata sull’immagine e su una fruizione diversa degli audiovisivi. Per questorileggere oggi le sue parole ci permette di affacciarci su una finestra conprospettive spazio-temporali del tutto particolari. Perché il missionario dell’etere,come tutti coloro che hanno “inventato” i tempi nuovi, ha saputo comprendere isegni dei tempi non solo attraverso la profondità dei suoi studi, ma anche con gliocchi e il cuore di un visionario che sapeva andare oltre i numeri e le scoperte.Nato nel 1925 a Paray-le-Monial in una famiglia molto religiosa, a 17 anni fuggedall’occupazione tedesca per raggiungere il noviziato degli Oblati a Lablanchèrenel dipartimento di Ardèche, nel Sud della Francia. Alla fine degli studi vieneinviato a Lione dove si applica nel campo della pedagogia religiosa, convinto chela catechesi dei giovani non deve partire dalla teologia del dogma ma deve faremergere piuttosto l’immagine di Dio che è in ciascuno. Nel 1957 parte per ilCanada e l’anno seguente è negli Stati Uniti, dove intuisce che è da Cristo chescaturisce sempre la visione nuova dell’uomo sulla base della Buona Novella.Autore di una ventina di testi tradotti in molte lingue (uno dei più noti è “Uomonuovo, cristiano nuovo nell’era elettronica” 1979), padre Babin è convinto chel’audiovisivo caratterizzi un nuovo modo di comunicare e di essere, una modalitàche la Chiesa deve comprendere e fare sua in modo da poter evangelizzare ilmondo moderno. Nel 1971 Propaganda Fide delega il neonato Crec ad organizzarecorsi intensivi di comunicazione per missionari e preti autoctoni per realizzare neiloro Paesi materiale audiovisivo catechetico.A tutti padre Babin ha ripetuto che «Gesù parlava il linguaggio dei media», datoche predicava narrando storie, proverbi, parabole. Nel villaggio globale la Terrapromessa è la grande sfida del ricongiungimento delle diversità. Dove anche unimpulso elettronico è la scintilla per camminare verso l’immensa armonia di Dio.

M.F.D’A.

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di ILARIA DE [email protected]

Un giovane avvocatonigeriano è la nuovastella forense deiragazzi italiani diorigine straniera aiquali viene negata lacittadinanza. FinoraHillary Sedu ha vintotutte le cause mettendoi diritti umani primadello Ius Sanguinis.

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anni, avvocato di origine nigeriana diistanza a Napoli. Lui è il difensore deiragazzi di origine straniera ai quali leamministrazioni locali, per varie ragioni,hanno negato la cittadinanza italiana,rigettando le loro richieste. Ma questecause l’avvocato Sedu alla fine le havinte tutte. Lo chiamiamo al telefonoper farci raccontare qualcosa in più dellasua “missione” e della storia dei giovaniai quali i giudici hanno dovuto riconoscereun diritto sacrosanto, in base allo Ius

Soli. Sebbene in Italia viga ancora ildiritto di cittadinanza per filiazione,ossia lo Ius Sanguinis.«Essendo figlio di cittadini stranieri –dice l’avvocato - e testimone viventedelle loro sofferenze, non posso essereestraneo alla tematica delicata dei dirittidi cittadinanza. Il mio vissuto mi spingead empatizzare con chi si trova ad af-frontare le stesse sofferenze patite daimiei genitori». Prima di scegliere quelladi avvocato, Sedu aveva intrapreso unapromettente carriera di calciatore pro-fessionista, ma poi la vita lo ha portatoaltrove. Lui comunque ha scelto subitouna strada impegnativa: il Diritto. Èstato il primo Consigliere di origine afri-cana ad entrare a pieno titolo nell’Ordinedegli avvocati italiani, ma in realtà lamolla che lo spinge ad agire non è tantoil desiderio di fare carriera, come luistesso ci racconta, quanto il senso digiustizia e il desiderio di ripristinare idiritti violati delle persone.«È molto più difficile oggi ottenere lacittadinanza italiana – precisa – per viadi modifiche alla legge nel corso deglianni e di ostacoli posti dall’attuale go-verno al riconoscimento di questo diritto».Capita spessissimo ad esempio che «moltiragazzi nati in Italia, pur avendo fre-quentato le scuole da noi e vissuto

«L ei è Aaliyah Smith, da oggicittadina italiana, almeno bu-rocraticamente, perché è nata

italiana e vive qui dal primo vagito, ècresciuta in Italia e si è innamorata inItalia. Chi finora le aveva negato la cit-tadinanza le aveva sfregiato l’identità,umiliato l’origine e strangolato la voce».A scriverlo sui social è Hillary Sedu, 33

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che esistono dei diritti dell’uomo chevengono cristallizzati dalla nascita e de-rogare ad essi vuol dire ledere le fonda-menta di qualsiasi stato di democrazia».Il decreto-legge Sicurezza, spiega, «èentrato a gamba tesa anche nel settoredella cittadinanza italiana. Storicamentei termini per esprimere parere favorevoleo meno alla naturalizzazione dei cittadinistranieri era di sei mesi, poi è statoportato a due anni e con la nuova leggeSalvini addirittura può adesso arrivare a48 mesi». Un tempo infinito che «stravolgeulteriormente i termini previsti dallalegge del 1990»: in questo periodo lepersone vivono un limbo di incertezza eprecarietà, costrette a stravolgere la lorovita e a lasciare magari promettentipercorsi già intrapresi. Come è accadutoad un ragazzo di origine marocchina,nato in Italia nel 1988, al quale la citta-dinanza italiana è stata addirittura re-vocata. «Inizialmente gli era stata rico-nosciuta la cittadinanza, ma a quantopoi è risultato, era stato un errore delfunzionario comunale. Sta di fatto chein tutti questi anni il ragazzo ha vissutosempre in Italia con carta d’identità ita-liana», spiega. Quando si è trasferito alNord, il suo fascicolo è stato sottopostoa controlli e il ragazzo «di punto inbianco è diventato un clandestino. C’èvoluto un calvario di tre anni prima chegli fosse restituita la cittadinanza».Ma la nostra politica oggi fa anchealtro, manipolando l’opinione pubblicaa discapito dell’integrazione: «Nel mo-mento in cui si associa subdolamente il

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fenomeno dell’immigrazione clandestinaalla questione della cittadinanza italiana– afferma - l’intento è quello di travisaree rendere cattiva informazione alla po-polazione italiana autoctona. La questionedella cittadinanza non c’entra nulla colfenomeno migratorio!». In effetti «questiragazzi non migrano da nessuna parte enon sono oggetto di richiesta di prote-zione internazionale, perché non scap-pano da nessuna guerra»: sono sempli-cemente cittadini ai quali è chiesto diseguire la legge “del sangue” anzichéquella “del suolo” e della cultura.«Il mio obiettivo – dice Sedu - è quellodi restituire i figli alla patria: questigiovani nascono e crescono secondo lacultura italiana e sono soggetti allanostra giurisdizione; se vogliamo, questomancato riconoscimento equivale unpo’ a quello del padre che non riconoscesuo figlio. Loro non devono essere i figliabortiti della nostra società, perché sonoa tutti gli effetti un dono legittimo».Sedu va anche oltre e parla di introdurrein Italia lo Ius Culturae, un’idea che haportato in Senato nel 2014 duranteun’audizione. Essere cittadini di un datoPaese significa molto più che essere natisu un certo territorio o avere ereditatoun diritto per nascita: essere italiani si-gnifica aver penetrato a fondo una cul-tura, una lingua, una civiltà che rendetutti parte integrante della stessa so-cietà.

sempre nel nostro Paese, non abbianopotuto presentare richiesta di cittadinanzaitaliana perché i genitori biologici risul-tavano irregolari sul territorio della Re-pubblica». Ma in questo modo si negaun diritto soggettivo e Sedu puntaproprio sulla “pretesa” di un riconosci-mento universale. Ogni individuo godedi diritti inalienabili che sono umani ecivili e lo status dei genitori non puòinfluire su di essi. «Qualche settimanafa – racconta Hillary - è stata emanatauna sentenza del Tribunale di Napoli inmerito ad una cittadina nata e cresciutain Italia, Aaliyah, che ha genitori nigeriani.Non ha mai ottenuto un permesso disoggiorno perché i suoi genitori eranoclandestini. Quando si è presentata ladomanda di opzione di cittadinanza ita-liana, il Comune di Castel Volturno glielaha negata». Dopo una lunga causa adessoAaliyah ha potuto finalmente tornaread essere quello che in realtà è semprestata: una cittadina italiana.

La stampa ha parlato diverse volte del-l’impegno di Hillary, poiché questo ram-pante avvocato, preparatissimo e ap-passionato, sta diventando un po’ laspina nel fianco del nostro ministro del-l’Interno, Matteo Salvini. A propositodel decreto Sicurezza, Sedu dice che «inItalia siamo abituati a legiferare in mo-menti di passione: quando il rancore di-venta il motivo principale per agire,stiamo pur sicuri che il disastro è dietrol’angolo. Dobbiamo sempre ricordarci

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drusi. L’associazione Offre joie organizzacampi scuola per ragazzi cristiani e mu-sulmani per farli crescere nella com-prensione reciproca. Cosa manca? Farel’unità del Paese. Siamo stati divisi nellaguerra civile del 1975».Giovanni Paolo II ha detto che il Libanopiù che un Paese è un messaggio. Chesignifica? «Non dobbiamo farlo diventareuno slogan: questa è una profezia! L’espe-rienza del Paese potrebbe essere un puntodi partenza, magari da risistemare, unmodello a cui ispirarsi, in Europa o altrove,per la moltitudine di fedi che oggi sitrovano un po’ dappertutto nel mondo».Tanti i libanesi nel mondo: devono tor-nare?«Dobbiamo affidare loro il mandato dievangelizzare. Facciamone dei missionari.Il cristiano rimane cristiano. Ad AbuDabhi, a Dubai ci sono chiese pienissime.A noi tocca accompagnarli. Tu vai comemissionario. Vivi il vangelo. TestimoniaCristo lì dove sei. Non dire soltanto:torna in Libano. Una Chiesa o è missio-naria o non lo è».

MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

stoliche. Una bella gioventù piena disperanza sempre accompagnata, graziealla ricchezza della presenza cristiana.Io ero al Sinodo dei giovani. Non cisiamo ritrovati sulla visione negativadei giovani». Sul documento di AbuDabhi sulla fratellanza, in Libano c’èuno sforzo di passare dalla coesistenzaislamo-cristiana al vivere insieme. «Cisono esperienze folkloristiche, senza re-lazioni vere, di pura apparenza. E poi cisono piccoli gruppi di dialogo interreli-gioso, di laici. Per esempio, l’associazioneAdyan: propone il pluralismo come datofondante dell’unità. Il Carmelo di SanGiuseppe a Meshlef con una scuola difratellanza umana: cristiani, musulmani,

I n Libano abbiamo incontrato il vi-cario apostolico latino, monsignorCésar Essayan, frate minore con-

ventuale, che rappresenta bene questoPaese: «Le nostre famiglie sono fatte dicristiani di diversi riti e confessioni. Iosono nato nella Chiesa armena ortodossa.Mio padre armeno ortodosso, mia mam-ma greco ortodossa, ho studiato daifratelli Maristi: andavo a Messa nellachiesa latina e nella chiesa maronita.Sono cresciuto nel Movimento eucari-stico dei giovani, poi la vocazione fran-cescana, e sono passato al rito armenocattolico. Come stato civilesono rimasto armeno orto-dosso ancora oggi. Ora sonovicario apostolico per i latini.Nella mia famiglia ci sonomaroniti, ortodossi; mio cu-gino è sposato con una mu-sulmana. È inconcepibile ri-manere in un pensiero diChiesa statico, ideale. Pur-troppo come gruppo cat-tolico non abbiamo ancorauna visione comune, unavisione realmente sinoda-le».In Libano i laici sono valo-rizzati? «Sono presenti e as-sidui nelle commissioni. Stu-diano teologia. Abbiamo laricchezza dei movimenti edelle nuove comunità apo-

di PAOLO SCARAFONIE FILOMENA RIZZO

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L’ultima Messadi padreRagheed

i rischi che correva dopo le minacce deimesi precedenti, ha risposto sereno:«Non posso chiudere la casa di Dio».Poi la raffica di mitra.Nato nel 1972, laureato in Ingegneria a

soli 24 anni, ordinato prete nel 2001, Ra-gheed parlava correntemente italiano,

francese e inglese (e anche per questo eradiventato corrispondente dell Agenzia di

stampa AsiaNews). Nel 2003, dopo un lungoperiodo trascorso a Roma per studiare Teologia

ecumenica, ha deciso di tornare comunque nel suoPaese, piombato nel caos dopo il maldestro interven-to militare angloamericano che ha di fatto scatenato unaguerra civile tra sunniti e sciiti e spianato la strada al-l espansione del radicalismo islamico (Mosul, pochi annidopo, diventerà una delle roccaforti dello Stato islami-co fondato dall Isis).Una scelta che Ragheed ha pagato con la vita, divenen-do il primo sacerdote cattolico ucciso nell era post Sad-dam, e che potrebbe farne anche il primo beato nellastoria della Chiesa caldea: nel maggio dello scorso annosi è infatti aperto il processo di beatificazione del sacer-dote e dei suoi tre collaboratori. Ma già oggi padre Gan-ni, amatissimo dalla sua comunità, è un simbolo dellapersecuzione a cui i cristiani sono stati e sono sottopo-sti in Iraq: secondo il patriarca caldeo, Louis RaphaelSako, «dal 2003 al 2018 almeno 1.920 cristiani sono sta-ti uccisi per la loro fede e 58 chiese sono state attac-cate e bombardate. Il tutto senza contare ciò che l Isisha fatto a Mosul e nella Piana di Ninive. Almeno un mi-lione di cristiani sono stati costretti a lasciare le loro ter-re ed emigrare».

A Mosul quell anno, le celebrazioni del giorno di Pen-tecoste erano state annullate: impensabile viola-

re il coprifuoco imposto dopo che in città erano esplo-se in poche ore sette autobombe e 10 ordigni, causan-do decine di morti. Ma la domenica successiva, il 3 giu-gno 2007, padre Ragheed era lì sull altare a celebrarela Messa: non poteva tradire i suoi fedeli, perché ripe-teva sempre «senza l Eucaristia i cristiani in Iraq non pos-sono vivere».E quel giorno, nella parrocchia dello Spirito Santo, Ra-gheed Ganni, 35 anni, sacerdote cattolico caldeo, ha tro-vato la morte. Un gruppo di terroristi lo ha ucciso a san-gue freddo subito dopo la fine dell Eucaristia, assiemea tre suddiaconi che erano con lui: Basman Yousef Daud,Wahid Hanna Isho, Gassan Isam Bidawed. La mogliedi uno di loro, sopravvissuta, ha potuto raccontare le ul-time parole del sacerdote: all uomo armato che gli chie-deva come mai non fosse stato rispettato l ordine di chiu-dere la chiesa, padre Ragheed, il quale conosceva bene

Alcuni sono personagginoti, altri pressoché sconosciuti persino nel mondo ecclesiale.

Diversi hanno trascorso una vita inmissione, ma sono numerosi anche

quelli morti giovani, spesso in modoviolento. Forse, qualche anno fa,

non li avremmo nemmeno definiti“missionari”, ma oggi capiamo

meglio che la missione è un’immensa opera di misericordia a cui sono

chiamati tutti i cristiani.

TestimonidellaChiesa

in uscita

di Stefano Femminis

[email protected]

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L’altraedicola

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LA NOTIZIA

L’INDONESIA HAAFFRONTATO LO SCORSO 17APRILE UN ELECTION DAY DAGUINNES DEI PRIMATI, IL PIÙCORPOSO DI SEMPRE:PRESIDENZIALI, POLITICHE EREGIONALI INSIEME.L’EVENTO HA STRONCATO LARESISTENZA DEGLI ADDETTIAI SEGGI, PROVOCANDO LAMORTE DI OLTRE 300PERSONE. LA STAMPAEUROPEA NE HA PARLATOPOCHISSIMO MA È STATO UNDRAMMA NAZIONALE.

di ILARIA DE [email protected]

I l 17 aprile 2019 alle 7.00 del mattino in punto un uomo di 45 anni, Zul-kifli Salamuddin, con una vita tutto sommato tranquilla, fa il suo ingres-so ai seggi di una piccola cittadina indonesiana. Per la prima volta nel-

la sua esistenza Zulkifli si sperimenta come scrutatore per il voto in Indo-nesia. L’uomo è nervoso ma felice: è uno delle centinaia di migliaia di “vo-lontari” ingaggiati per le presidenziali, a fronte di un compenso di 35 dol-lari al giorno. La sua vicenda ha un epilogo drammatico: l’uomo morirà ilgiorno dopo l’election day. Ma la sua sorte è identica a quella di altri 300

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Dallo Straits Times di Singapore al Jakarta Post, dal Jakar-ta Globe al Tempo, tutti i principali giornali indonesiani e iloro cronisti sono rimasti scioccati dall’improvvisa e prema-tura morte di centinaia di persone nel fiore degli anni. In ef-fetti i numeri erano da capogiro: l’election day è stato il piùconsistente mai visto in tutta l’Asia e in tutto l’Occidente. Ol-tre 190 milioni di aventi diritto al voto sono stati chiamati adeleggere il presidente e rinnovare il Parlamento e le rappre-sentanze locali: il più alto numero di votanti al mondo con-centrato in un singolo giorno.I seggi elettorali erano 800mila in tutto il Paese, 245mila i can-didati che si contendevano 20mila posti fra distretti e pro-vince di una nazione arcipelago. La stampa italiana si è oc-cupata poco di questa copertura elettorale e solo marginal-mente dell’incredibile ecatombe: i 300 scrutatori morti di stan-chezza non hanno quasi fatto notizia in Europa.La giovane moglie di Zulkifli Salamuddin (il New Naratif neha scritto in modo commovente) ha raccontato ai cronisti del-l’enorme sforzo compiuto dal marito che non aveva potutodormire per 24 ore di seguito, impegnato nello scrutinio deivoti, senza mai pause, soggetto anche ad una responsabilitàdisarmante. «Mi aveva raccontato – dice lei - che al momen-to della conta, dopo essere stato sveglio tutta la notte, se sba-gliava a pronunciare un nome veniva linciato dalla gente checontrollava la correttezza dello scrutinio per conto dei rispet-tivi candidati». Il ministero della Salute ha cercato quasi su-bito di minimizzare la vicenda, dicendo che oltre 130 perso-ne decedute nelle quattro province di Jakarta, West Java, RiauIslands e Southeast Sulawesi, erano o in là con gli anni o af-fette da malattie cardiovascolari pregresse. Sta di fatto che,come scrive lo Straits Times, al momento di accedere ai seg-gi erano tutte perfettamente sane e in grado di lavorare.Il team elettorale di Prabowo Subianto e Sandiaga Uno, chesfidavano il presidente uscente, Joko Widodo, ha addirittu-ra insinuato che queste morti potessero essere collegate allosforzo di commettere infrazioni ed illeciti elettorali per svan-taggiare alcuni dei candidati. Ma è molto più probabile chei decessi siano correlati soltanto ad una immane stanchezza.L’imprevisto della morte, in un Paese che conta 264 milionidi persone e si candida ad essere una delle più grandi econo-mie digitali asiatiche e del mondo, è stato un fulmine a cielsereno.L’Asia Nikkei Review aveva scritto che «la spinta del presi-dente Joko Widodo a rendere l’Indonesia la più grande eco-nomia digitale della regione ha contribuito ad uno slan- »

scrutatori indonesiani misteriosamente deceduti il giorno dopoil voto. Morti letteralmente di fatica per lo sforzo fisico e lostress accumulato.Il voto ha accorpato le elezioni presidenziali, parlamentari eammnistrative e ha coinvolto 190 milioni di persone, 40 mi-lioni delle quali di età compresa tra i 20 e i 30 anni. I gior-nali indonesiani come il New Naratif, magazine on line delSud-est asiatico (che titola “Death and election day”), ne han-no parlato per giorni e ancora oggi i media si chiedono comesia stato possibile arrivare a morire per le conseguenze del-la fatica fisica e psichica.

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L’altraedicola

a due trafficanti di droga australiani, as-sumendo una linea durissima. Tolleran-za zero verso la tossicodipendenza: i dueuomini sono stati sottoposti alla penacapitale. Più di recente è invece piaciu-ta la mossa di Widodo di spostare la ca-pitale del Paese da Jakarta ad altra cit-tà da definire: il presidente ha promes-so di ribilanciare la distribuzione geogra-fica della crescita economica, decentran-do la capitale e mettendo le periferie alcentro. «La ragione di questa “decisio-ne irrinunciabile” sta nel permettere an-che ad altre zone la crescita economi-ca – scrive anche AsiaNews - finora con-centrata soprattutto nell’isola di Java.Qui vive quasi il 60% dei 260 milioni diindonesiani. Jakarta ospita oltre 10 mi-lioni di persone, circa un terzo dei resi-denti nelle aree circostanti. La capitaleè anche soggetta ad inondazioni e staaffondando, a causa dell’eccessivo sfrut-tamento (spesso abusivo) delle falde ac-quifere».

cio: la sua amministrazione sta sostenen-do diverse iniziative per promuovere mil-le startup entro il 2020 con una valuta-zione complessiva di 10 miliardi di dol-lari e svolge un ruolo chiave nel program-ma Nexticorn, che riunisce prometten-ti startup locali con investitori interna-zionali per aiutare con finanziamenti diultima generazione».Possibile che tutto questo sforzo di mo-dernizzazione non preveda anche un si-stema di voto più evoluto e capillare, chepossa raggiungere le zone più remote enon sottoporre gli scrutinatori ad una fa-tica insopportabile? Il voto elettronico èstato evocato diverse volte in questi mesi.Sta di fatto che da questo drammaticoelection day è emerso ancora una vol-ta vincitore il presidente uscente Wido-do, 57 anni, e così l’Indonesia tira drit-to sulla strada già tracciata. Il sito di BBCNews delinea un bel profilo del presiden-te che piace anche all’Occidente perchéespressione di un islam moderato. Il mo-

tivo per cui invece negli ultimi anni cisono state tensioni tra Unione Europeae Indonesia è piuttosto commerciale:come ricorda bene l’Asia Times cinese,il presidente Widodo e il primo ministrodella Malaysia Mahathir Mohamed recla-mano il diritto a produrre e vendere oliodi palma. Hanno spedito una lettera con-giunta alla Commissione e al Parla-mento europeo il 5 aprile scorso, prote-stando per il boicottaggio dell’olio di pal-ma (considerato dannoso alla salute deiconsumatori). «Se questa regolamenta-zione dovesse entrare in vigore - scrivo-no - i nostri governi potrebbero rivede-re i propri rapporti generali con l’Ue, ol-tre che con i singoli Stati che ne fannoparte».Ma Widodo è un presidente molto de-cisionista e intransigente anche in pa-tria. In un Paese dove ancora vige la penadi morte, si è trovato ad affrontare unaforte pressione internazionale nel 2015,quando si rifiutò di concedere l’amnistia

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legno, molto povera, dovequando piove scende l’acquada tutte le parti. Mi accoglieuna signora di 80 anni chevive con il figlio 50enne congravi problemi psichici. Miriceve con tantissima gioiae mentre mi sta raccontandoun po’ della sua vita, arrivaalla porta di casa, che èsempre aperta, un uomo di

circa 60 anni, anche lui con problemipsichici. La donna mi racconta chequest’uomo vive in strada, non ha nes-suno e nemmeno vuole andare allamensa in parrocchia. Ogni giorno arrivadavanti alla casa di questa donna e leigli dà da mangiare, condividendo conlui quel poco che ha. Tutto questo consemplicità, con letizia, felice di viverecosì la sua fede perché, mi dice, «iosono contenta di essere cattolica: midispiace di non poter venire a messatutti i giorni, però alla domenica nonmanco mai». Così, attraverso la semplicitàe la gioia di questa donna, il Signoremi ha sorpreso.

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È proprio vero che il Signore misorprende sempre. Stiamo pre-parando la parrocchia alla Gior-

nata mondiale della Gioventù che quia Cuba celebreremo dall’1 al 4 agostoprossimi, vivendo questo appunta-mento come occasione missionaria pertutti. Stiamo cercando di condividereanche il momento difficile, a causadella mancanza di cibo e di medicine,per la paura di ciò che sta accadendoin Venezuela e che qui ha e avrà unaforte ripercussione. Eppure, nonostantele tante attività che mi impegnano ognigiorno, finora era come se tutto ciò an-dasse avanti in modo scontato. Poi èbastato poco per rendermi conto della

»

a cura diCHIARA PELLICCI

[email protected]

A sinistra:

Don Adriano Valagussa(a sinistra) con altrimissionari italiani a Cuba.

In basso:

Monsignor Delfini,arcivescovo di Milano, invisita alla missione diPalma Soriano.

cosa grande che Dio mi sta donando.Ed è per questo che dico che il Signoremi sorprende sempre. Sì, è bastatopoco…È bastato andare a trovare una personamalata. Entro nella casa, una casa in

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quotidiana con fedeltà, gioia, cuoreaperto al bene, senza far rumore, consemplicità, come se fosse la cosa piùnormale… Questa donna mi ha fattovedere che con il Signore si può af-frontare tutto, anche la fatica di seguireun figlio malato, anche la difficoltà

economica, con uncuore sereno, che nonsignifica indifferente,tanto che subito si apreal bisogno dell’altro,condividendo quelloche ha. Così il Signoremi sorprende, mi ac-compagna, mi ridestaa vivere tutto non inmodo scontato, macome occasione di vita,di crescita, proprio den-tro le cose di ogni gior-no, attraverso le qualichiedere a Lui che micambi dentro.Tra le novità più recentic’è il crollo del tettodella chiesa, avvenutoall’improvviso, la notteprima della Domenicadelle Palme. Abbiamodovuto adattare a chie-sa la tettoia che usa-vamo come garage eluogo per il doposcuola

Mentre tornavo a casa pensavo: chissàquante persone ci sono qui in città,come questa donna, che non fa nientein parrocchia perché ha il figlio da se-guire tutto il giorno, ma vive una rela-zione così vera con il Signore che larende capace di affrontare la fatica

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

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e il catechismo dei ragazzi. Che cosaregge l’urto del tempo? Il nostro vescovo,guardando a ciò che è successo, diceva:«Questo tetto ha più di cento anni edha resistito a terremoti e tifoni… e oraè crollato!». Mi veniva spontaneo con-frontare questo crollo con la gioia cheho visto sul volto dei catecumeni adultiche la notte di Pasqua hanno ricevutoil Battesimo, la Cresima e la Prima Co-munione. Mentre la chiesa di muracrolla, Cristo risorto costruisce la Chiesaviva, fatta di persone che sperimentanola gioia di appartenere a Lui.Ciò che mi ha meravigliato è anche ilfatto che dopo la messa delle Palmecelebrata sotto la tettoia-garage, michiama un uomo che non ho mai vistoin chiesa e mi consegna un pacchettodicendomi: «Questo è per restaurare lachiesa». Nel pacchetto ho trovato un’of-ferta equivalente a due anni di stipendio.E così stiamo assistendo a fatti che cisorprendono. Persino una donna che hadetto di appartenere alla Chiesa evan-gelica è venuta a portare la sua offertaper la nostra chiesa. Ciò che potevaessere solo motivo di preoccupazionesta diventando occasione attraverso laquale il Signore ci fa vedere che operanella vita delle persone anche là dovenoi non ce lo aspettiamo.Tutto ciò ci dà coraggio e speranza nelcontinuare la missione anche quando,dopo anni e anni di lavoro pastorale,sembra che non si muova nulla. Diventasempre più evidente che ciò che Cristomi sta chiedendo è di seminare, di se-minare dovunque, di seminare senzascegliere prima qual è il terreno adatto.È Lui che fa crescere. È Lui che vincel’urto del tempo.

Don Adriano Valagussa,

della diocesi di Milano

Palma Soriano (Cuba)

A sinistra:

Don Valagussa in una piccolacomunità della Sierra Maestra.

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tuo fratello, tuo figlio, tuomarito. Una vita che c’è eall’improvviso non c’è più.Un cerchio che non si chiu-de perché non sai come la-sciare andare qualcuno chenon hai più.Ci hanno parlato di Leo cheamava suo figlio di un annopiù di se stesso, di Thiagoche era andato in ditta perconsegnare i documenti perla pensione, di Adilson chesuonava in chiesa... di chivoleva vivere.Un olocausto che si ripetedopo 70 anni: vite impri-gionate dal fango, un gran-de campo di sterminio a cielo apertodove anche i sopravvissuti non vivonopiù.Abbiamo incontrato chi si è salvatoperché era in ferie, perché non era nelsuo turno di lavoro e ci hanno raccontatoquanto era duro il lavoro e di comeerano trattati male molte volte, e dellasicurezza della diga che poi, invece, haceduto.Chi ha visto la morte negli occhi e si èsalvato, è ricoverato in un ospedale psi-chiatrico perché non capisce più qual èil senso: Luis ascolta tutte le notti le vocidei suoi compagni di lavoro, ciò che sisono detti l’ultima volta, e non riescepiù a dormire.Dopo un mese da tutto questo, il dolorepiù forte: la ditta Vale sapeva che la diganon era sicura. Allora la voce mi si spezzain gola: non è tragedia, è assassinio, sonostate uccise più di 300 persone, da chi?Dall’interesse, dal guadagno senza scrupoloche non si ferma davanti alla vita e non

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si preoccupa di chi lo pagherà.Hanno fatto di una montagna un cimitero,di un giardino un deserto, dove tutto èstato trascinato via: vite, sogni, desideri,case, uffici, Creato e creature.E torna la domanda che non mi lascia inpace: ed io?La luce arriva nelle parole del nostropapa: «Chiediamo a Dio di aiutarci amettere in atto un cammino di vera con-versione. Abbandoniamo l’egoismo, losguardo fisso su noi stessi, e rivolgiamocialla Pasqua di Gesù; facciamoci prossimidei fratelli e delle sorelle in difficoltà,condividendo con loro i nostri beni spi-rituali e materiali. Così, accogliendo nelconcreto della nostra vita la vittoria diCristo sul peccato e sulla morte, attireremoanche sul Creato la sua forza trasforma-trice».

Anna Rosa Pizza,

Comunità missionaria di Villaregia

Belo Horizonte (Brasile)

È accaduto ad un’ora da qui. Una ca-tastrofe. La furia della morte ha por-

tato via vite intere, senza lasciarne traccia.Ed io? Qualcosa è cambiato anche nellamia vita: davanti a Dio non riesco a nonpiangere, a non sentire il dolore per unacosa assurda. Nel cuore una domandami tormenta: cosa faccio io davanti aquesto pezzo di umanità che soffre?Arrivando a Brumadinho una settimanadopo quel 25 gennaio (dove è crollatauna diga di contenimento di scarti mi-nerari, ndr), la natura sembra esploderenella sua bellezza, facendo pensare adun paese di campagna con le sue tradizionie costumi. Ma il rumore continuo deglielicotteri che trasportano corpi senzavita o ciò che resta di essi, il dolore e lastanchezza dei volontari che tentano diriorganizzare ciò che rimane della vita diquesto paese, ti fa intravedere la terribilerealtà di un dramma.Occhi stanchi, cuori spezzati dal doloredi aver perso tanti amici, tentano dicapire cosa fare e come continuare. Cichiedono di visitare le famiglie di chi èdisperso nel fango. “Disperso” è unaparola che ha un suono orribile comequello dell’agonia di non sapere dov’è

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è stato contagiato dal virus Hiv e200mila bambini sono orfani.La storia della piccola, coraggiosaeroina si sviluppa nel racconto coralein cui ognuno dei protagonisti metteun pizzico della propria esperienzapersonale. Zweli, Sibusiso, Nomceboe gli altri attraversano le verdi mon-tagne dello Swaziland con lo zainoin spalla per andare a scuola, lasera cenano in compagnia degliamici e degli infermieri e quandosono liberi portano i buoi al pascoloo curano il pollaio. O semplicementeinventano giocattoli con pezzi di pla-stica e fil di ferro recuperato dairifiuti. Liyana è una di loro, unapiccola guerriera che non si arrende,che subisce i disastri della vita e sirialza per combattere ancora. Rimastasola a casa con la nonna, viene pic-

chiata dai ladri che le portano via i fratelliniper venderli come merce al migliore offe-rente. In compagnia di un toro affronta lemontagne, il deserto e l’oceano per cercarei piccoli; non si fa spaventare dai coccodrilli

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Nei disegni che la raffigurano, ha i capelliricci che le circondano gli occhi comeuna corona che il vento non può scom-porre. Nel Paese africano, su poco più diun milione di abitanti, il 25% degli adulti

resentato in Burkina Faso nellaselezione ufficiale del Fespaco

2018, “Liyana” è un film che ap-partiene ad un genere tutto suo. InItalia è arrivato grazie alla vetrinadel 38esimo Festival del CinemaAfricano di Verona che ha portatonelle sale opere di grande valore diartisti del continente africano. Unpiccolo gioiello narrativo, una favolain cui disegni e realtà si alternanoper intessere una trama a tratti durama sempre piena di speranza eamore per la vita. I registi Aaron eAmanda Kopp ci regalano il sognodi cinque orfani dello Swazilandospiti di una casa-famiglia in cuistudiano e sono curati perché nonhanno più nessuno che possa oc-cuparsi di loro. Dalla loro fantasiascaturisce il personaggio di unabambina «nata nella stagione delle piog-ge»: si chiama Liyana, abita in una ca-panna fatta di rami e fango sulla collina epresto rimane sola con due fratellini e lanonna perché i genitori muoiono di Aids.

“LIYANA”UNA BAMBINA

FORTECOME LA VITA

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né dagli avvoltoi che le girano sulla testaaspettando che ceda alla sete e allo sfini-mento. Infine arriva alla misteriosa grottain cui sono prigionieri tanti bambini rubati,affronta la banda di ladri e quando sta perdichiararsi vinta, i ragazzi dell’orfanotrofiodecidono che deve ancora resistere e vin-cere. «Non voglio che rinunci a combattere.Liyana è forte, non può arrendersi» com-menta Zweli. «Lotta, lotta, sei forte. Ancheio sono forte… Voglio decidere io comefinirà la storia. Posso decidere. Voglio chelei viva. Voglio vivere». Questa è la moraledi una storia molto vera dell’Africa di oggi.Dove l’amore per la vita vince sempre.

Miela Fagiolo D’Attilia

[email protected]

accontare la storia coni disegni animati. Una

novità che ci permette di as-sistere ad una commistionedi generi in cui cronaca e untipo di intrattenimento finoralegato per lo più all’infanzia,ci permettono di assisterealla nascita di un genere nuo-vo: una narrazione senza at-tori in cui i disegni raccontanola storia recente dell’Angolacon la tensione narrativa diun romanzo. Questa è la sor-presa del lungometraggio“Ancora un giorno” per laregia di Raul de la Fuente eDamian Nenow che ci riportanella Varsavia del 1975 doveil brillante giornalista RyszardKapuscinski viene speditodalla sua agenzia di notiziein Angola, dove una guerra

civile sta seminando morti e violenza, all’alba della conquista della sua indipendenzadal Por togallo. Vincitore dell’European Film Awards come miglior film dianimazione, di un premio ai Goya, e accolto da un buon successo di pubblicoin Italia (dove ha incassato oltre 70mila euro nelle sale), il film è tratto dall’omonimolibro “Ancora un giorno” (1976) di Kapuscinski ed ha una originale narrazioneibrida da graphic novel, in cui le sequenze di disegni sono intercalate da filmatid’epoca e interviste ai testimoni sopravvissuti.Nello scontro tra il Movimento popolare di liberazione dell’Angola - Mpla (sostenutodalla Russia) e l’Unione nazionale indipendenza totale dell’Angola (Unita) dietrocui si celavano gli Usa, nel conflitto che sarebbe durato 30 anni, il film accompagnail reporter Ricardo nella ricerca di un incontro col comandante Farrusco nelSud dell’Angola. Farrusco è un personaggio par ticolare, ex paracadutistaportoghese delle Forze armate, decide di schierarsi col popolo angolano passandonelle file dell’Mpla e dice al reporter polacco: «Mi sono trovato davanti ragazzinidi 12 anni con il mitra in mano. Non volevo combattere contro dei bambini. Quisiamo in prima linea circondati dall’Unita a 100 chilometri dal confine con laNamibia controllata dal Sudafrica, il cui esercito sta invadendo l’Angola con idollari della CIA. Siamo in 50. Tutti destinati a morire». Tra le persone cheincontra muovendosi nella polvere della guerra, c’è anche la giovane guerriglieradell’Mpla Carlota che col suo fucile in spalla gli aveva raccomandato prima dimorire: «Fai in modo che non ci dimentichino» e Kapuscinski ha rispettato lapromessa fatta a lei e ai combattenti per l’indipendenza del Paese africano.Prima con la forza della penna e ora con l’impatto delle immagini. Quell’autunno1975 a Luanda è ancora davanti ai nostri occhi.

M.F.D’A.

Angola, cronaca dalla guerrigliaANCORA UN GIORNO

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n esempio da imitare e un cuore a cui affidarsi. Roberto ItaloZanini con questo suo nuovo libro dedicato alla “santa moretta”

ne approfondisce l’attualità come donna nera (nasce in Darfur/Sudan),schiava e migrante. Bakhita è una Sorella universale, come la definisceGiovanni Paolo II, che ha avuto il coraggio di ribellarsi alla schiavitù,al suo terribile destino, senza violenza, né prevaricazioni. Da donnalibera, è diventata un’esemplare guida «per sostenerci nelle difficoltàquando, incatenati dalle nostre schiavitù, la libertà torna a sembrarciuna cosa lontana». Il libro racconta come avvicinandosi e identificandosiin lei, le donne possano trovare «l’orgoglio della libertà del cuore».La giovane Bakhita fugge dagli harem ottomani per raggiungerel’Europa, come una qualunque africana che giunge oggi nelle nostrecittà. Varie vicissitudini la portano a Schio e nell’anno 1895 GiuseppinaBakhita prende i voti ed entra nella Congregazione delle Figlie dellaCarità, fondata da Maddalena di Canossa. Portata agli onori deglialtari nel 2000 da san Giovanni Paolo II che trova in lei «un’avvocataluminosa di emancipazione passiva», la santa sudanese è l’icona diuna religiosa che ha sempre operato per liberare ragazze e donnedall’oppressione e dalla violenza e per restituire loro dignità e diritti.Nel volume si intrecciano episodi della vita di Bakhita con storie mi-racolose di preghiera, di riscatto, di benedizione che si manifestanoanche ai giorni nostri. Tante interviste e toccanti testimonianze di

el 2009 un giovane di Oslo, AndersBehring Breivik, vuole fermare l’isla-

mizzazione dell’Europa e arrestare il cresceredell’Eurabia cacciando via tutti gli immigrati.Prepara due attentati: uno sotto la sededel premier norvegese e uno nell’isola diUtoya. Era il 2011. Fu una strage in cui intotale morirono quasi 90 persone.Cosa accadrebbe se le idee di questo ter-rorista diventassero maggioritarie nel no-stro continente? E come cambierebbe ilmondo se in poco più di un decenniol’Europa scivolasse in una deriva xenofoba,sovranista, violenta? Guardando al futurolo scenario sembra chiaro: nel 2039 po-tremmo vedere sulle banchine dei portidi tutta Europa, da Marsiglia a Genovafino a Barcellona, migliaia di immigrati,per lo più musulmani, che hanno accettatodi tornare nel loro Paese in cambio di unchilo d’oro. Per coloro che restano si

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dovrà fare piazzapulita o convertirlial cristianesimo. Manon solo. I nuovigoverni avranno ri-tirato la loro adesio-ne all’Onu perché è una organizzazioneormai pesantemente condizionata daiPaesi islamici e del Terzo mondo.Da più parti si alza il grido che l’Europasia finita, che l’esperimento nato dalla vo-lontà di portare pace ed equilibrio econo-mico al continente sia fallito sotto i colpidi burocrazia, immigrazione e compromessifinanziari. Ecco allora che i promotori diIsagor, il motto gramsciano che sta per“istruitevi, agitatevi, organizzatevi” (che èanche il nome collettivo degli autori del li-bro), affermano la necessità di ripensarein maniera radicale la forma che vogliamodare all’Europa, superando gli Stati nazionali

guarigioni del corpo e dell’ani-ma.Zanini, giornalista, da 20 annistudioso della figura della santa,attesta in prima persona fatti in-credibili e coincidenze che lohanno portato a scrivere e di-vulgare la potenza della sua santità e fedeltà a Cristo. In chiusura dellibro viene riportato un avvenimento particolarmente significativo:alcuni vescovi sudanesi vennero in Italia per andare a pregare sullatomba di Bakhita a Schio, poi fecero visita a papa Francesco edinsieme pregarono per la pace in Sudan, chiedendo l’intercessionedella santa. Tornando in Sud Sudan il 12 settembre 2018, i vescoviscoprirono che era stato firmato un incredibile accordo di pace chesanciva la fine della guerra civile. Scrissero alle Canossiane parlandoapertamente di miracolo.

Chiara Anguissola

Roberto Italo Zanini

Edizioni San Paolo - € 16,00

La donna del riscatto

Isagor

Add Editore - € 9,00

e costituendo una nuova realtà politica,economica, culturale e strategica. Questanuova realtà si chiama Repubblica d’Eu-ropa, dove i cittadini possono costruireun futuro nel quale le guerre sono illegalie i bambini sono liberi di crescere in totaleserenità. Una repubblica, insomma, unita,democratica, laica e pluralista, capace diricucire e non dividere, costruire ponti enon alzare nuovi muri, capace di scom-mettere sulla convivenza e non marciaresulla paura.

Maria Lucia Panucci

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ino al 1972, quando divenne una Re-pubblica, si chiamava Cylon. Lo Sri

Lanka, “l’Isola che risplende” in sanscrito,si trova nell’Oceano poco a Sud dell’Indiaed è rientrata tragicamente nelle cronachedopo la strage di Pasqua in una chiesa diNegombo: più di 300 morti con la folliaislamista di Daesh come detonatore.Una terra meravigliosa, ma attraversata dacontinue tensioni, prima tra tutte quelle trala maggioranza singalese e l’etnia minoritariaTamil. Dopo più di 25 anni di guerra civile,il Paese si era avviato verso una faticosariconciliazione, ma il recente attentato sem-bra fatto apposta per rinfocolare le antichecontrapposizioni. Tanto più che anche perquel che riguarda la religione, la convivenzaè complicata: il 70% della popolazione èbuddista, il resto è composto da induisti(12%), musulmani (poco più del 9%) ecristiani (circa l’8%). Tutt’altro che irrilevanteinfine è la spiccata emancipazione femminilee vale la pena ricordare che la prima donnapremier al mondo fu proprio la singaleseSirimavo Bandaranaike.

LA MUSICACHE UNISCELA MUSICACHE UNISCE

Sri Lanka

singalesi e ha nutrito l’ispirazione dellaband Jayasri, una delle più note del Paese).Oltre alla ruvida rapper M.I.A, inglese diorigini tamil, a completare il quadro con-temporaneo, tocca menzionare anche lecadenze e le melodie dal gusto spiccata-mente pop importate dalla non lontanaBollywood, il neo rhythm’n’blues del duoBathiya & Santhush e un’infinità di rock

band più o meno ruvide, come i Cancer egli Stigmata.C’è di tutto insomma, e la speranza è cheanche grazie a questo variopinto intrecciodi suoni e ritmi il popolo dello Sri Lankapossa ritrovare il suo bene più prezioso.

Franz Coriasco

[email protected]

rapper

Detto questo, è evidente che l’arte e la cul-tura sono sempre stati i principali collantiin grado (almeno potenzialmente) di unireun panorama socioculturale teso e com-plesso come questo: la letteratura che giànel V secolo ha prodotto un poema storicofondamentale come il Mahavamsa, ma an-che l’architettura, la scultura, la pittura ela danza. E ovviamente la musica, le cuiprincipali radici locali sono frutto dell’in-contro tra la cultura buddista e quella im-portata dai portoghesi, primi colonizzatoridell’isola. Furono proprio loro a far arrivaresull’isola strumenti come la chitarra e l’uku-lele, le antiche ballate cantiga, intrecciandoulteriormente tutte queste commistioni sti-listiche con le sonorità e i ritmi ancestralidegli schiavi africani. La musica da ballotradizionale bayila è appunto uno dei fruttipiù evidenti di questi incontri, per quantola recente globalizzazione ha fatto sì cheanche il pop occidentale sia ormai parteintegrante del costume e del consumo mu-sicale degli abitanti odierni, singalesi omeno che siano.In quest’isola, che per sua natura è unaperfetta palestra di multiculturalismo, spi-ritualità e folklore convivono e si mescolanoperennemente. Commistioni che hannocome padri nobili Ananda Samarakoon (unsuo testo è stato modificato, contro il suovolere, per farlo diventare l’inno nazionale),ma anche il pianista e compositore operi-stico Premasiri Khemadasa e Pandit Ama-radeva, vera e propria istituzione del cantosingalese, scomparso nel 2016. Tra le so-norità più moderne ed orecchiabili vale lapena citare le allegre commistioni afro-iberiche di Wally Bastian, e il calypso deiMoonstones di Clarence Wijewardena (pa-dre dei moderni cantautori), per non diredel reggae di Bob Marley (la rockstar gia-maicana è tuttora uno dei miti dei giovani

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VITA DI MISSIO

di MIELA FAGIOLOD’ATTILIA

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P iccole comunità cristiane vive, incui giovani preti si formano perannunciare il Vangelo. Tre retto-

ri di Seminari portano a Roma le vocidi Chiese d’Africa e d’Asia. In visita allaDirezione nazionale della FondazioneMissio, don Florent Konè del Grand Se-minaire Saint August di Bamako inMali, don Raymond Sobakin del GrandSeminaire Saint Gall di Ouidah in Be-nin e don Patrik Simon Gomes dell’Ho-ly Spirit Major Seminary di Dhaka inBangladesh, sono stati accolti dal di-rettore don Giuseppe Pizzoli e dal vi-cedirettore Tommaso Galizia. L’impegno

dei tre rettori nella formazione del cle-ro autoctono è sostenuto dalla Ponti-ficia Opera di San Pietro Apostolo(POSPA) italiana, con cui da un anno èstato istituito un partenariato – comestabilito dal Segretariato internaziona-le - per aiutare questi Seminari ad im-plementare il loro servizio alle Chieselocali e alla Chiesa universale.Nominato rettore nel 2017, don FlorentKonè ringrazia innanzitutto i benefat-tori italiani che con la loro generositàpermettono al Seminario di guardarecon fiducia al futuro. Racconta con pas-sione il suo impegno nel Mali: «Il Se-minario Saint August è stato fondatonel 1984 ed è una realtà in crescita cheoggi ospita 85 seminaristi, di cui set-te sono della Guinea Conakry. Il com-plesso si trova un po’ fuori da Bama-ko, vicino al fiume Niger, e ospita i duecicli di formazione, quello di teologiae quello di filosofia. Nel Paese la mag-

Nella pagina:Don Giuseppe Pizzoli, direttore diMissio e Tommaso Galizia, vicedirettoredi Missio con i tre rettori.

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za e i seminaristi sonoimpegnati con le comu-nità di cristiani e i movi-menti ecclesiali; facciamoanimazione per i giova-ni, cerchiamo di essereuna presenza dinamicaper dare risposte ai biso-gni del territorio». DonPatrik è molto attentoalla formazione dei gio-vani studenti e ai bisognipastorali dei cristiani che in Bangladeshsono solo lo 0,6% della popolazione:«Vengo da una zona molto tradiziona-le dove da 500 anni ci sono cattolici;la maggior parte delle persone appar-tiene a tribù ed è legata alle tradizio-ni. Abbiamo molto da fare per educa-re coloro che hanno una base di cul-tura cattolica ma che l’hanno persa, equindi abbiamo chiesto ai vescovi dimandare i giovani nelle nostre parroc-chie ma anche presso il nostro Semina-rio per ricevere una formazione cristia-na. Abbiamo bisogno di incrementarel’arrivo di nuove vocazioni dalle altrediocesi, non ci sono molti preti che ven-gono dal Sud dell’India. Per quanto ri-guarda la vita socio politica, è vero cheil Bangladesh sta facendo progressi manon c’è ancora stabilità politica».Ancora una testimonianza dall’Africa èstata quella di don Raymond Sobakin,rettore del Grand Seminaire Saint Galldi Ouidah in Benin: «Il nostro Semina-rio interdiocesano ha 105 anni di vita,una istituzione che ha profondi lega-mi con le Pontificie Opere Missionarie,ha formato molti preti, vescovi e duecardinali: Bernard Agrè, vescovo diAbidjan in Costa d’Avorio, e il grandeBernardin Gantin, già prefetto dellaCongregazione per i vescovi, che veni-va spesso a pregare nella nostra cap-pella che, malgrado sia stato arcivesco-vo di Cotonou, ha voluto essere seppel-

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lito presso il Seminario dopo la suamorte nel 2008. Da allora la sua tom-ba è meta di pellegrini che vengonodall’Africa e da tutto il mondo, la suamemoria è viva anche nei moltissimipreti che ha ordinato. Quest’anno ab-biamo 123 seminaristi provenienti dal-le 10 diocesi del Benin, ma anche daTogo, Congo, Costa d’Avorio e Nigeria.Formiamo preti servitori del popolo lo-cale. Essere sacerdote non significa as-sumere un ruolo di potere ma metter-si al servizio. Come i veri missionari fan-no in tutto il mondo. E un prete chenon è missionario non è un prete. Ol-tre a quello che riceviamo dai benefat-tori e dai vescovi, cerchiamo di prov-vedere all’autosufficienza alimentare,coltivando mais e altre verdure locali.Queste attività a contatto con la ter-ra sono formative per i giovani che cosìhanno un approccio diretto ai ritmi del-la natura e al rispetto del Creato, a par-tire dai piccoli gesti quotidiani. Ognianno piantiamo alberi da frutto e nonusiamo prodotti chimici o pesticidi. Seavessimo almeno un trattore potrem-mo fare di più. In Benin la maggioran-za della popolazione pratica la religio-ne tradizionale, il vodoo con i suoi riti.I rapporti con i cristiani sono buoni an-che se la Chiesa combatte il sincretismo.Ogni anno ci sono tante conversioni esi celebrano molti battesimi di adulti so-prattutto a Pasqua».

gioranza della popolazione è musulma-na (80%), mentre i cristiani sono solol’1% su oltre 16 milioni di abitanti. I no-stri studenti vanno a visitare i villaggivicini, abbiamo bisogno di mezzi perspostarci, biciclette e moto, per affron-tare distanze a volte considerevoli».Don Patrik Simon Gomes del Semina-rio Holy Spirit di Dhaka, porta una in-teressante testimonianza dal Bangla-desh: «Abbiamo ora 121 seminaristi, ilnumero delle vocazioni è in crescita, èmolto alto, considerato il numero dicattolici del nostro Paese: su 160 mi-lioni di persone i cattolici sono lo0,36%. Coltiviamo orti e campi, allevia-mo animali da cortile e maiali per cer-care di provvedere all’autosufficienzaalimentare, vorremmo anche fare del-la pescicoltura approfittando delle ac-que del vicino fiume. Viviamo immer-si nelle esigenze del nostro territorio,nella zona non ci sono preti a sufficien-

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la gioia della Carità». «La missione – si leg-ge ancora nel documento finale - èun’esigenza di ogni battezzato e non soloun impegno. È un qualcosa di connatu-rale». Ma i seminaristi entrano anche neldettaglio: in questo cambiamento d’epo-ca, dicono, l’annuncio deve avvenire inascolto del destinatario, adattandosi adun linguaggio che aderisca alla suavita. Per questo, vogliono proporre qual-che spunto concreto ai loro vescovi, comel’inserimento, nel cammino di formazio-

H anno le idee chiare i 180 semi-naristi intervenuti al 63esimoConvegno missionario nazio-

nale svoltosi nel Seminario arcivescovi-le maggiore di Firenze dal 2 al 5 maggioscorsi. Lo si percepisce leggendo il lorodocumento finale, un testo di sintesi cheraccoglie il lavoro di confronto nei varilaboratori: in esso sono stati definiti glispunti di riflessione da indirizzare all’epi-scopato italiano sul tema “Modalità estrumenti per una nuova presenza mis-sionaria” in vista del Mese missionariostraordinario del prossimo ottobre.Nel documento finale approvato a con-clusione del convegno, si fa riferimen-to all’icona biblica della visitazione di Ma-ria ad Elisabetta, entrambe ricolme del-lo Spirito: chi è impegnato nella missio-ne – è la tesi scaturita da questi quat-tro giorni - non può che essere impre-gnato di Spirito Santo. Ed è stato pro-prio il protagonismo del Paraclito nel-l’evangelizzazione, il fil rouge del con-vegno.Ispirati dall’immagine di Maria ed Elisa-betta, i seminaristi affermano di poter«riconoscere le caratteristiche essen-ziali del missionario: egli non si identi-fica con un fare, ma con un essere, in co-stante relazione con Chi lo invia. Egli èservo dello Spirito, della Parola, della co-munità, della fraternità, dei poveri, nel-

ne in Seminario, di un’esperienza di mis-sione ad gentes e di gemellaggi con al-tri Seminari nel mondo, per riscoprirel’universalità della Chiesa, per dilatare ilcuore e crescere a livello personale.Come lo Spirito Santo sia protagonistadella missione è stato sviscerato nella re-lazione di don Ciro Biondi, segretario na-zionale della Pontificia Unione Missio-naria (Pum) e responsabile di Missio Con-sacrati che ha organizzato l’evento.«Non tutti sanno – ha spiegato il sacer-

di CHIARA [email protected]

VITA DI MISSIO

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Università Urbaniana, ha trattato iltema da un punto di vista pastorale. Ilprofessore ha sottolineato come daidocumenti che scaturiscono dal Conci-lio Vaticano II si evince che sono due isoggetti missionari più importanti: la mis-sione di Gesù di Nazareth e la missionedello Spirito Santo. «La Chiesa – ha spie-gato don Meddi – scopre di essere a ser-vizio di queste due missioni, ma ancoranon comprendiamo tutte le conseguen-ze».Infine la Tavola rotonda, coordinata da

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dote - che il protagonismo dello Spiri-to Santo nell’evangelizzazione ha trova-to espliciti riferimenti nel Magisterograzie al terreno preparato dal contribu-to del Beato padre Paolo Manna», fon-datore nel 1916 dell’Unione Missionariadel Clero, poi Pum. «Ritengo che la Ma-ximun Illud, considerata la magna char-ta dell’attività missionaria della Chiesain epoca contemporanea, sia anchefrutto del pensiero di Manna, essendostato proprio lui il primo a parlare delprotagonismo dello Spirito Santo nel-l’azione missionaria. Ed è da qui che Be-nedetto XV prende lo spunto per la nuo-va lettera apostolica, di cui quest’annosi festeggia il centenario».Del protagonismo dello Spirito si è con-tinuato a parlare anche con il cardina-le Giuseppe Betori, arcivescovo di Firen-ze, che da esperto biblista ha approfon-dito il tema analizzando gli Atti degliApostoli. Concentrandosi su come la Pa-rola di Dio si è diffusa nel mondo, il car-dinale Betori ha affermato che «senza loSpirito non ci può essere missione».Non solo: lo Spirito è colui che ci fa ca-pire che Gesù è il salvatore. «Gli aposto-li dicono che Gesù è morto e risorto peresperienza e lo trasmettono come testi-monianza, ma lo Spirito ne spiega il pie-no significato salvifico». E’ questo l’an-nuncio che i missionari non devono maidimenticare di diffondere.Don Luciano Meddi, sacerdote delladiocesi di Roma e docente ordinario diCatechetica missionaria alla Pontificia

Fratel Charlbel è un seminarista di Fie-sole, ha 33 anni e arriva dal Benin. Fa

parte della Comunità monastica dei Fi-gli di Dio, che ha conosciuto nel suo Pae-se: ogni giorno partecipava alla preghie-ra delle suore che per otto anni hannotenuto in vita un’esperienza missiona-ria in Benin. Qui ha scoperto la sua vo-cazione. «Poiché là non c’era una casadove poter vivere in comunità – raccon-ta - mi è stato chiesto di venire in Ita-lia per fare il postulandato e il noviziato. Dopo la vestizione, ho vis-suto tre anni di vita monastica. Poi sono entrato in Seminario». Per il suo fu-turo vuole essere missionario ovunque, cioè «dove mi manderanno, in virtù delmio voto di obbedienza: desidero solo portare gli uomini a Dio».Dal Seminario di Verona arriva Francesco Quoc Vinh, 22 anni, nato in Italia daentrambi i genitori vietnamiti. «Già da piccolo sentivo il desiderio di diventa-re sacerdote. Poi a 16 anni ho lasciato il liceo scientifico e sono entrato in Se-minario minore». Sogna «una Chiesa che ha coscienza di appartenere ad unsolo corpo, quello di Cristo, e non è fatta di tante piccole nicchie: una Chie-sa missionaria che annuncia il suo Signore». C .P.

Maria Chiara Pallanti del Centro missio-nario diocesano di Firenze, ha datovoce a tre esempi di vocazioni diverse,ciascuna impegnata nell’unica missionedi testimoniare il Vangelo nella propriavita.I seminaristi sono ritornati nelle rispet-tive diocesi ancora più convinti che, seper tutti vale l’imperativo rivolto a Pie-tro: “Seguimi”, per esserne degni si deb-ba invocare il dono dello Spirito.

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te presbiteri del SeminarioRedemptoris Mater, in Eu-ropa e negli Usa. Di contro, in va-rie parrocchie, i sacerdoti stra-nieri rappresentano il 12% delclero. Dati alla mano, AnnaMaria, 59 anni, cresciuta nelMovimento Giovanile Missiona-rio e nelle Pontificie OpereMissionarie, sposata da 30anni con Francesco e madre diSimone, parla anche di 28laici e 18 famiglie in AmericaLatina, Nord Europa, Israele, Usa, Ango-la.Provengono dal Cammino neocatecume-nale, dai Salesiani e, in particolare, dal-l’Operazione Mato Grosso che «pur es-sendo nato come movimento laicale conil compianto padre Ugo De Censi, ha dato

D ici Umbria e pensi al Santo d’As-sisi. È il valore aggiunto che«permea fortemente i nostri in-

contri regionali». Per Anna Maria Fede-rico, segretaria regionale dell’Ufficio diCooperazione missionaria tra le Chiese,unica donna in Italia a rivestire questoruolo, «lo stile di Francesco è il nostro bi-glietto da visita, ma deve essere semprepiù vissuto nel profondo». Una regionedi otto diocesi e 890mila abitanti che, permonsignor Luciano Paolucci Bedini, ve-scovo delegato dal 2018, «ha avuto unadelle più belle storie di fidei donum».Attualmente ce ne sono cinque da Ter-ni, Perugia e Gubbio, in Congo, Bolivia,Brasile e Perù, a cui si aggiungono set-

di LOREDANA [email protected]

VITA DI MISSIO

tante vocazioni sacerdotali». Lo ricordail vescovo di Gubbio che, subito si è «ac-corto della grande vivacità di questa re-gione rispetto alla dimensione missiona-ria».Monsignor Paolucci Bedini, infatti, ag-giunge che «non c’è diocesi o parrocchia

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si svolgono ad Assisi a fine agosto). C’èpoi «una presenza vitale di forze missio-narie laiche» che la signora Federico hascoperto negli anni, già prima del suomandato, affiancando suor Felicita De-cio.Sul territorio, si contano una cinquan-tina di movimenti: un punto di forza chepuò ribaltarsi se «sono frammentati edoperano autonomamente ed in modo se-parato dagli altri». E lei, che dal 2015 vivequesto compito «come un servizio», de-finisce il panorama regionale «un puz-zle non facile da mettere insieme».«Spesso, questi gruppi sono piccoli o le-gati a singole persone o formati da adul-ti», continua il vescovo, evidenziando lafatica di coinvolgere i giovani con nuo-ve modalità e di fare rete. I gruppi gio-vanili, per la Chiesa missionaria umbra,sono croce e delizia: tanto fermento, mapoca partecipazione agli incontri unita-ri. Missio Giovani non è presente, «anchese dei ragazzi hanno partecipato alCO.MI.GI e ad alcune nostre iniziative».Grazie al contatto diretto e alla perse-veranza, invece, in «un clima di comu-nione con i Centri missionari diocesani,la partecipazione alla Commissione Re-gionale è generalmente costante». Ci siincontra tre volte all’anno e si riflette«sulla necessità di rendere l’azione pasto-rale diocesana più missionaria, pla-smando gli ambiti della catechesi e del-la liturgia, e non solo della carità».Dello stesso avviso è monsignor Paoluc-ci, perché la missione non rimanga «solola passione di alcuni, ma diventi occasio-ne di evangelizzazione e di reciprocità traChiese sorelle». Né si limiti all’Ottobre mis-sionario, che deve essere rilanciato.In programma per il MMS, un pellegri-naggio (probabilmente ad Assisi) e l’As-semblea ecclesiale regionale delle Chie-se dell’Umbria che si svolgerà a Folignoil 18-19 ottobre (con una stima di 400presenze) e vedrà impegnata la CMR altavolo di lavoro “Fede e bene comune.

in Umbria che non abbia un collegamen-to con le missioni», con gemellaggi,campi di lavoro, adozioni a distanza eprogetti missionari. E ciò non è da attri-buire soltanto agli Istituti missionari deiFrati Minori, dei Cappuccini e delleSuore Francescane. L’Umbria, che a Pe-rugia vanta anche l’Università per Stra-nieri, ha una vocazione alla pluralità. Inol-tre, è da sempre meta di pellegrinaggi,oltre che sede di diverse iniziative nazio-nali come “La Fabbrica delle Idee” (No-cera Umbra, 22-25 aprile 2017) e le“Giornate nazionali di formazione espiritualità missionaria” (che ogni anno

Per una fede incisiva e decisiva nella eper la costruzione della città a partire daipiù deboli e ultimi: politica e solidarie-tà”.Ora più che mai, uscire dall’autoreferen-zialità è la sfida più urgente ed è neces-saria una collaborazione più organica congli Istituti missionari, il Seminario regio-nale e, al di là dell’incontro semestraleCEU, con gli altri Uffici regionali.Anche lo scambio tra diocesi è importan-te. Si segnala, per esempio, la mostra“Laudato Si’ mi’ Signore” promossa dalCmd di Terni-Narni-Amelia lo scorso ot-tobre, per far conoscere le esperienzemissionarie umbre attraverso opere di pit-tura, poesia, fotografie e documentari.«Un invito – come scrivono don Leopol-do, Vilma, Rita, Elisabetta ed Emanuela- a vivere con gioia la propria fede e atrovare il coraggio di raggiungere tuttele periferie che hanno bisogno della lucedel Vangelo e di segni di ascolto e acco-glienza. Un momento di comunioneper pregare per le missioni nel mondo eper aprire il cuore di ognuno a quella mis-sione che ogni giorno è nelle strade del-le nostre città».

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O gni anno giovani provenienti da tutte le regioni d’Ita-lia decidono d’investire la loro estate in un’esperien-

za unica e straordinaria, qualcosa che resterà nei ricordi enei loro cuori per sempre: la missione.Missio Giovani, infatti, organizza annualmente una “visita mis-sionaria”, giornate a migliaia di chilometri distanti da casa alfianco di chi ha scelto la missione h24, 7 giorni su 7, per tut-ta la vita. Stiamo parlando dei missionari, donne e uominiche percorrono le vie del mondo, portando la Buona No-tizia ai lontani, agli ultimi. Forti motivazioni spingono i gio-vani ad intraprendere questo viaggio: essi stessi la definisco-no una tappa molto importante nel loro cammino di vita, allaquale ci si approccia con un unico obiettivo: farsi stravol-gere, spalancare gli orizzonti, cambiare prospettiva.La Fondazione Missio da sempre crede e scommette in que-sta attività, convinta del fatto che la vicinanza con l’altro, di-verso da sé, aiuti i giovani ad innamorarsi della vita, del Van-gelo, a trovare il proprio posto nel mondo. Insomma, a sen-tirsi chiamati.Il lavoro di formazione dei Centri missionari diocesani, del-le parrocchie e delle associazioni si completa quindi con que-sto passo importante. Per una realtà territoriale inviare un gio-vane è sempre un “investimento” a colpo sicuro. Chi torna daquesti viaggi infatti ha sempre la voglia di mettersi in giocoa casa propria, laddove vive, lavora e studia ogni giorno.Siamo consapevoli inoltre che per un giovane italianoun’esperienza come questa, seppur breve, può diventaretotalizzante. Ci si immerge completamente in un’altra cul-tura, fatta anche di suoni, odori, sapori, colori che qui sa-rebbe difficile incontrare, nonostante viviamo in una socie-tà globalizzata.L’esperienza di quest’anno si snoderà tra la diocesi di Chang-Mai e la diocesi di Chang-Rai nel Nord della Thailandia con-finante con Laos e Myanmar (ex Birmania). È una regione co-nosciuta per le montagne ricoperte di fitte foreste, all’inter-no delle quali sono presenti numerosi villaggi abitati da di-verse popolazioni indigene, ciascuna con lingua, cultura etradizioni religiose proprie.

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Per i giovani cristiani il vivere questa esperienza che rimet-te in gioco anche la propria fede e il sentirsi minoranza inuna cultura a maggioranza buddista saranno occasione percomprendere come la nostra tradizione cattolica millena-ria appaia completamente nuova agli occhi dei pochi cri-stiani thailandesi. La freschezza e la novità del Vangelo si ma-nifestano con più vigore lasciando stupito anche chi ha di-mestichezza con la Parola.Il centro storico di Chiang-Mai, capitale della provincia, con-serva importanti templi buddisti, molto frequentati dai fe-deli provenienti da tutto il Paese e anche dall’estero. Oltreche dai maestosi e ben conservati templi sparsi sul territo-rio, la presenza buddista è testimoniata dai numerosi mo-naci, resi facilmente riconoscibili dalle loro caratteristiche ve-sti di colore arancione, che frequentano i luoghi pubblici an-che per officiare nelle frequenti occasioni cerimoniali. I ra-gazzi, suddivisi in piccoli gruppi, saranno accolti in quat-

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A SCUOLA DI UMILTÀA SCUOLA DI UMILTÀMISSIONE THAILANDIA

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Giovanni Rocca,Segretario NazionaleMissio Giovani eAnita Cervi.

VITA DI MISSIO

sto rende ancor più affascinante scoprire la gioiosa sempli-cità con la quale i missionari operano in particolare a soste-gno delle persone che vivono ai margini della società, so-prattutto per incoraggiare i giovani che provengono dallezone montagnose ad intraprendere percorsi formativi cheli possano rendere pienamente partecipi della vita sociale.Le sfide che si presentano in questa esperienza missiona-ria sono tante e capaci di stimolare certamente il desiderioed il piacere di conoscere, di condividere e di mettersi ingioco anche per trovare il senso dell’essere cristiani in un mon-do sempre più multicolore, in cui per la Chiesa le diversitàsono una ricchezza che crea unità.

tro missioni della diocesi di Chang-Rai e avranno l’opportu-nità di immergersi in una realtà sociale molto ricca di occa-sioni di incontro e scambio sul piano culturale e religioso,toccando con mano che cosa vuol dire essere “discepolimissionari”.Potrà diventare, così, un’occasione unica per permettere airagazzi di entrare in contatto con stili di vita profondamen-te diversi dai propri, praticando la sobrietà e la discrezio-ne nella quotidianità delle relazioni umane. Guidati dai mis-sionari che li ospiteranno con la loro profonda conoscen-za della cultura locale, saranno facilitati all’incontro con lepopolazioni rurali. Infatti, la religiosità che permea la vita del-le popolazioni nella regione della Thailandia settentrionaleha fatto assumere ai missionari uno stile di annuncio evan-gelico fatto di piccoli passi, ascolto, dialogo e presenza pa-ziente.Proprio i missionari vogliamo ringraziare calorosamente finda ora, per la loro disponibilità, per aver spalancato le por-te delle loro case, per la voglia di rimettersi in gioco e scom-mettere su giovani innamorati del Vangelo.La missione in Thailandia è vera scuola di umiltà. E per que-

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G I U G N O

I N T E N Z I O N E D I P R E G H I E R AM

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di MARIO [email protected]

V iviamo in un tempo in cuigli stili di vita si imborghe-siscono sempre di più, e i

modi di fare, di agire, di parlare cheassumiamo sono più spesso legati adun galateo di facciata che non allaschiettezza legata al nostro modo diessere, alla nostra educazione, alla ca-pacità di relazione costruita con fa-tica e senso di responsabilità.Qualche tempo fa papa Francesco,rivolgendosi ai vescovi italiani, li hainvitati a essere più sobri; nel con-tempo il pontefice ha invitato i sa-cerdoti ad avere uno stile di vita sem-plice ed essenziale, “bruciando sulrogo” le ambizioni di carriera e di po-tere. Questo nodo cruciale dellavita del clero (non solo italiano), sot-tolineato più volte dal Santo Padrenei suoi discorsi, è il richiamo costan-te alle ambizioni di carriera e pote-re di cui sono vittime alcuni (alti ebassi) prelati cattolici. A tal fine, papaBergoglio ha ripetuto in più occasio-ni che il prete a cui la Chiesa devetendere è un prete scalzo, un preteche «si è avvicinato al fuoco e ha la-sciato che le fiamme bruciassero lesue ambizioni di carriera e potere».

sco, «e dunque estraneo alla monda-nità spirituale che corrompe, comepure a ogni compromesso e meschi-nità, nonché libero da una autorefe-renzialità che imprigiona e isola».

È un prete che «si fa prossimo diognuno, attento a condividernel’abbandono e la sofferenza», un pre-te «semplice, essenziale e soprattut-to credibile». Il pontefice ha attin-to più volte alla semplicità francesca-na per descrivere lo stile al quale de-vono mirare tutti i sacerdoti, invitan-do i vescovi a non ridurre i sacerdo-ti ad impiegati. «Il sacerdote non èun burocrate o un anonimo funzio-nario dell’istituzione – ha commen-tato Francesco – non è consacrato aun ruolo impiegatizio, né è mossodai criteri dell’efficienza».Il sacerdote è «servo della vita, cam-mina con il cuore e il passo dei po-veri; è reso ricco dalla loro frequen-tazione» e rivestito di uno «stile divita semplice ed essenziale, sempredisponibile», egli diventa «credibileagli occhi della gente» e nel contem-po si «avvicina ai poveri e agli umi-li, con una carità pastorale che fa li-beri e solidali». La figura del sacer-dote cui la Chiesa deve tendere, è«un uomo di pace e di riconciliazio-ne, un segno e uno strumento del-la tenerezza di Dio, attento a diffon-dere il bene con la stessa passione concui altri curano i loro interessi», haancora sottolineato papa France-

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“Preti servidella vita

“PER I SACERDOTI,PERCHÉ CON LASOBRIETÀ EL’UMILTÀ DELLALORO VITA SIIMPEGNINO IN UNAATTIVA SOLIDARIETÀVERSO I PIÙ POVERI.

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I N S E R T O P U M

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di GAETANO [email protected]

L e parole incalzanti di padre Ni-coletto mi fanno respirare le fa-tiche di una terra e di una

Chiesa. Le percepisco sempre comerealtà in cammino che potrebbero aiu-tarci a decifrare anche il nostro vissu-to qui. Queste righe mi hanno raccon-tato un po’ di Amazzonia, con indi-cazioni utili forse a semplificare le no-stre articolate pastorali. Dobbiamomettere semplicemente in circolo lequattro parole capisaldi che padre Lu-cio, con i suoi occhi brasiliani, racco-glie dal “fare pastorale” di papa Ber-goglio: misericordia, discepolato,

P O N T I F I C I A U N I O N E M I S S I O N A R I A

Il grido profeticodella foresta

profezia, Regno, paradigma per unapastorale globale e veramente signi-ficativa.

Come si sta impegnando la Chie-sa e in che modo la comunità cri-stiana è coinvolta? Sei fiducioso nelgrido profetico che da qui si può al-zare?«La Chiesa è in conversione, a fian-co dei più deboli, feriti e impoveriti.L’Amazzonia ci chiede questa presen-za. E per chi vive ferito, nella solitu-dine di minacce di morte e di discri-minazioni, non bastano gli avverti-menti e le minacce perché si rialzi ilcapo, bisogna avere speranza e che sicominci a vedere la situazione con ot-timismo rinnovato. È necessario pri-ma di tutto prendersi cura delle feri-te del cuore, accogliendo con moltatenerezza e bontà... Come seguaci diCristo abbiamo bisogno di assume-re i tratti tipici di Gesù attraverso at-teggiamenti di misericordia e compas-sione: che bello vedere quanta speran-za sboccia dalla presenza e dalla »

“ “Riprendiamo il lungoracconto di padre LucioNicoletto, missionarionelle terre degli indiosYanomami, che inquesta seconda partedell’intervista (raccoltada don Gaetano Borgo)spiega l’importanza delruolo della Chiesaaccanto alle etnieminacciate in Brasile.

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testimonianza di una Chiesa chetratta e accoglie il popolo con gran-de rispetto. Credo che davanti alle ag-gressioni del modello economico eculturale attuale, la presenza dellaChiesa sia ancora considerata come se-gnale della presenza del Regno che fa-vorisce la conversione alla solidarie-tà, ad un nuovo stile di vita e uno svi-luppo umano soprattutto per i più po-veri e disperati. Questa presenza si ri-vela come un grido profetico di avver-timento per il mondo intero, per noiqui in Brasile e nella fattispecie per ilpopolo dell’Amazzonia. È questo ilgrido che, se da un lato rivela il corag-gio e la parresia dei discepoli di Cri-sto per la denuncia lucida e violentadi questo modello economico neoli-berista, dall’altro lato non smette diriconoscere i cammini, anche se an-cora timidi, per una nuova società piùsolidale, per un nuovo modello di cit-tadinanza qui integrato dal sogno del-la maggioranza dei popoli indigeni edelle comunità fluviali dell’Amazzo-nia».

Racconti una Chiesa non in secon-da linea, ma “artigiana”, un termi-ne che papa Francesco ama molto.Una Chiesa che lavora, che si spor-ca le mani di terra e dell’umanitàpiù impoverita. Ma i grandi delmondo riusciranno mai a “conver-tire” una volta per sempre la lorosete di ricchezze?«Probabilmente i popoli amazzonicioriginari non sono mai stati così mi-nacciati nei loro territori come sonoora. Davanti alle innumerevoli sfideche devono affrontare ogni giorno perdifendere la loro dignità, si percepi-scono le scie dello sgomento che a vol-te sembra prendere il sopravvento sulcuore di tutti e sulla stessa speranza...

A volte questo sgomento è frutto del-la distruzione del patrimonio foresta-le amazzonico causato dalla sete diguadagno delle multinazionali del le-gno che, sostenendo una visione ca-pitalista del progresso, non si rendo-no conto delle conseguenze delladeforestazione sulla salute globaledel nostro pianeta e di tutta l’umani-tà. Rimangono così inascoltati gli ap-pelli che papa Francesco rivolge a tut-ti noi con la bellissima enciclica Lau-dato Si’ attraverso cui richiama l’atten-zione su argomenti urgentissimi comel’inquinamento e i cambiamenti cli-matici, l’acqua, la perdita della biodi-versità, il deterioramento della qua-lità della vita umana, il degrado socia-le e le disuguaglianze planetarie, la fra-gilità delle relazioni e la diversitàdelle opinioni, oltre alle insignifican-ti prese di posizione da parte del po-tere pubblico nei confronti di questestesse urgenze. Come Chiesa abbia-mo il bisogno e la necessità di tenta-re di usare il buon senso e fareun’analisi critica della realtà. Consa-pevoli del fatto che dobbiamo averecoraggio per smascherare il potere cheopprime i più deboli e l’ideologia do-minante che li inganna».

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Perché le minacce al continenteamazzonico non riescono a sve-gliarci dalla cecità, lasciando inal-terato il nostro stile di vita? Nem-meno più di tanto nelle nostre co-munità cristiane sta facendo brec-cia il passaggio epocale che stia-mo vivendo sul clima e sulla sal-vaguardia del Creato…«Come discepoli missionari di Cri-sto abbiamo bisogno di concretizza-re un’azione evangelizzatrice che,usando le stesse parole di papaFrancesco, contribuisca a rompereun paradigma storico che conside-ra l’Amazzonia come una dispensasenza limiti per tutti gli Stati senzaprendere in considerazione i suoiabitanti. Abbiamo bisogno di ritro-vare il nostro posto specifico a fian-co di questi impoveriti poiché sonoloro il soggetto principale dell’azio-ne evangelizzatrice della Chiesa, in-viata a proclamare il Vangelo aipiù dimenticati e marginalizzati.Questa posizione della Chiesa ci aiu-ta a non cadere nella tentazione didimenticare qual è il contesto prin-cipale e primordiale di tutta la teo-logia della missione, ossia la soffe-renza dei poveri».

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«Guardo alla Chiesa italiana, la miaChiesa madre che sta vivendo unmomento storico molto simile aquello di tante altre Chiese nelmondo, probabilmente a causa tan-to della globalizzazione quanto deibisogni come pure dei valori e del-le sfide. Mi viene spontaneo augu-rarle quello che anche la Chiesa bra-siliana si è presa come impegnonella Conferenza di Aparecida nel2007: che si cresca sempre più nel-l’impegno di diventare una “Chiesa,casa dei poveri”, uno spazio di gra-tuità totale che germina dal cuore diCristo crocifisso e dall’esperienzapasquale dei discepoli. È grazie a que-sta esperienza di amore gratuito euniversale che la Chiesa, rinata e rin-novata dall’amore di Cristo, mette ifondamenti di tutta la sua azioneevangelizzatrice a partire dall’amoreche si dona pienamente come solu-zione per tutti i conflitti della storiae come fondamento di una nuova so-cietà. Per questo la Chiesa, per esse-re casa dei poveri, ha bisogno lei stes-sa di riconoscersi povera, di farsi po-vera. E tutta l’azione missionaria del-la Chiesa ha la sua origine nella mis-sione di Dio che è la missione di Cri-sto Gesù per la quale “ha svuotato sestesso assumendo la condizione diservo” (Fil 2,7). E poiché è la mis-sione del Maestro, deve diventare an-che la missione della sua Chiesa, chia-mata, inviata sui crinali della storiaad essere motivo di speranza soprat-tutto per i poveri; non più facendo-si avvocata dei poveri, ma diventan-do lei stessa casa dei poveri. A par-tire da ciò, riprendendo il nostrocammino di Chiesa, fedele al man-dato di Cristo, a partire da questo cri-terio fondamentale, tutto può esse-re diverso. E lo sarà».

Guardando più da vicino la missio-ne della Chiesa in un mondo sem-pre più incentivato dalla competi-zione, si può percepire come la vo-stra presenza di discepoli missiona-ri del Vangelo sia legata alla scon-fitta di una cultura del profitto im-mediato e sia orientata al recupe-ro di progetti alternativi di gratui-ta?«Di fatto, riconosciamo dallo stile diCristo che è nella gratuità dei beni chericeviamo che è possibile percepire chetutti hanno diritto alla vita in pienez-za, mentre il lucro e il guadagno ge-nerati dall’economia di mercato sonofondati sul principio che i beni di cuidisponiamo non sono per tutti masolo per chi ha un potere di acquisto».

Una bella chiacchierata! Sentoche la tua esperienza di missiona-rio ti sta modellando giorno pergiorno, ormai è il tuo Dna. Qua-li sono i capisaldi di una pastora-le necessaria anche per noi, cioèper la Chiesa che è in Italia? Cosaauguri alla Chiesa italiana in basealla tua esperienza?

Guardando alla attuale situazionepolitica del Brasile sotto la presiden-za Bolsonaro, come vedi il futurodi questa terra che oramai ti appar-tiene?«Attualmente in Brasile il popolo devefare i conti con l’incubo di un possi-bile ritorno di situazioni storiche didisuguaglianza sociale e di degradoambientale, nella paura dello svilup-po di una cultura politica dominatadalla prospettiva di uno Stato accen-tratore e di un mercato fatto di poli-tiche autoritarie. Ciò che è stato og-getto di lotte e sforzi da parte di mo-vimenti sociali e di leader vicini al po-polo con politiche democratiche,sembra sia dimenticato. O forse an-che il popolo sembra aver messo daparte l’impegno di responsabilizzar-si in prima persona nella costruzionedi un ordine sociale. L’accompagna-mento di processi di politiche pubbli-che e la denuncia di tutto ciò che sadi autoritarismo confermano la neces-sità della partecipazione del popolostesso nell’articolare un governo tipi-co di un Paese veramente democra-tico.».

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