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ANATOMIA DI UN CUORE INNAMORATO

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SARA MENGO

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Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analo-gia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è puramente casuale.

Realizzazione editoriale: Elàstico, Milano

ISBN 978-88-566-5135-5

I Edizione 2016

© Sara Mengo 2016 Published by agreement with TZLA. Trentin Zantedeschi Literary & Film Agency

© 2016 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milano www.edizpiemme.it

Anno 2016-2017-2018 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

Stampato presso ELCOGRAF S.p.A. - Stabilimento di Cles (TN)

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A Pierina, Sergio e Massimo,per aver ascoltato il silenzio dei miei rumorosi pensieri.

“Tutti dicono che il cervello sia l’organo più complesso del corpo umano, da medico potrei anche acconsentire. Ma come donna vi assicuro che non vi è niente di più complesso del cuore, ancora oggi non si conoscono i suoi meccanismi. Nei ragionamenti del cervello c’è logica, nei ragionamenti del cuore ci sono le emozioni.”

Rita Levi MontaLcini

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Prologo

Quando m’innamorai di lui era già troppo tardi per tor-nare indietro.

Avete presente quegli amori folli? Quelli in cui ci si sente in balia della confusione fin dal primo istante? Quelli che logorano nel profondo e non lasciano dor-mire la notte, quelli che portano a fantasticare di giorno e costringono a strafogarsi di Nutella per superare lo psico-trauma dell’incertezza di cosa provi l’altro?

Ecco, io m’innamorai in quel modo di un uomo che non sapevo se potesse essere mio; eppure decisi ugual-mente di lasciarmi cullare dall’eterna speranza che, un giorno, lui mi sarebbe appartenuto. Decisi testarda-mente di amarlo, che ci fosse o meno la possibilità di un lieto fine.

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Prima ora di lezione ed è subito confusione

Finalmente sto seduta in aula aspettando l’inizio delle lezioni dell’ultimo semestre dell’ultimo anno di questa corsa a ostacoli che chiamano laurea in medicina e chi-rurgia.

Le lezioni si svolgono all’interno di quello che sem-bra un ospedale concepito per raggiungere la luna: un’enorme costruzione di trenta piani, adibiti ai vari reparti, che sale verso il cielo. In cima, un immenso ter-razzo di cui non si è mai capito bene lo scopo: la sola compagnia di cui goda lassù è data dalle implacabili raffiche di bora triestina.

L’aula, invece, è costituita da lunghi banconi di legno color mogano, consumati e scricchiolanti, ed è disposta su una scalinata rivestita da una tanto triste quanto sco-lorita moquette grigia. In alto, una porta sulla cui soglia compare la temuta Armata dei Docenti, incaricata da un’oscura e imbattibile forza del male di annientarci e infliggerci innominabili sofferenze.

Nelle file centrali c’è un bancone più corto degli altri e anche un po’ più cigolante.

Io mi trovo proprio seduta qui, con i miei fedeli com-pagni d’avventura, accanto a Teresa che non smette un attimo di parlare di quella festa.

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«Ehi, te la ricordi? Io ero fantastica!» dice a Andy, che annuisce poco interessato mentre lei si accarezza i folti capelli ricci e ripete all’infinito quanto era bella e sexy quella sera. E, non fraintendete, lo era davvero. È più che altro questo suo modo di mettersi in mostra che a volte infastidisce le persone, ma non è cattiva, solo un po’ frivola.

Chi di noi non ha un’amica del genere?Lancio un’occhiata a Andy, che solleva un sopracci-

glio e gira lentamente la testa spostando il ciuffo di ca-pelli biondi che gli cadono sugli occhi.

«Guardavano tutti me! Con quel vestito attillato non riuscivano a staccarmi gli occhi di dosso!» continua in-tanto Teresa.

«Oh, poveri noi!» esclama lui ai confini tra la pa-zienza e l’intolleranza.

«Be’, cosa vorresti dire?» domanda Teresa con tono altezzoso.

«Oh no, nulla.» Una smorfia gli compare sul viso. «Eri... davvero fantastica, hai ragione!» conclude con un sorriso tirato, prima di scoppiare a ridere.

Lei scuote un po’ il capo, fingendosi offesa, e con uno sguardo ammaliatore gli sussurra: «Fai così perché sotto sotto sei innamorato di me».

«E allora?! Che cos’è tutta questa confusione? Vi ri-cordo che questo è un ospedale, mica siete al mercato!»

Una voce, tanto ruvida e severa quanto profonda e capace di farmi venire la pelle d’oca, riecheggia nell’aula zittendo tutti. Mi volto in direzione di quella che mi è sembrata essere la voce di un doppiatore del cinema e sono certa che tra un attimo sarò faccia a faccia con Luca Ward.

Ma le mie fantasie sono smentite in tempo record. Mi

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ritrovo infatti a fissare un uomo di circa cinquant’anni che scende la scalinata con passo spedito. Ha occhi blu oceano e un’espressione imbronciata.

È piuttosto alto, un po’ calvo, barbetta incolta, pan-taloni in velluto verde militare, scarpe scamosciate into-nate al pantalone, camicia beige con cravatta dai colori abbinati in modo improbabile. Con gli occhiali sulla punta del naso e lo sguardo fiero e determinato, avanza deciso verso Teresa che, incurante del tutto, si sta con-templando in uno di quegli specchietti che ogni donna porta nella borsetta. Il suo, ovviamente, è rosa tempe-stato di brillantini.

«Signorina!» esplode in un urlo agghiacciante. Se non si calma, dovremo ricoverarlo presto in unità

coronarica. Ho la strana sensazione che lui sia il Gene-rale d’Armata.

Teresa, con la solita aria da diva, lo scopre riflesso alle sue spalle e lui sembra talmente inviperito che temo davvero gli stia per esplodere la giugulare. «Lei invece crede di essere dall’estetista? Questo è un ospedale! Un O-SPE-DA-LE! Voi sarete medici, iniziate a compor-tarvi come tali!»

Poi, senza degnarla più della sua ira, si dirige verso la cattedra. Il suo obiettivo credo sia stato raggiunto: ha zittito l’intera platea, compresa Teresa che ha final-mente riposto nella sua Louis Vuitton nuova di zecca il suo amato specchietto. Si siede e ci osserva. Ha un diavolo per capello e, sì, d’accordo, di capelli non ne ha poi molti ma credetemi, è veramente fuori di sé. Non penso sia realmente arrabbiato con noi, ma qual-cosa deve essergli capitato perché non ho mai visto un docente sbottare con tanta furia per qualche schia-mazzo.

«Signori, io sono il professor Fabio Zaffiri, terrò il

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corso di medicina interna insieme al professor Corbelli. Nello specifico tratterò la parte concernente la cardio-logia. Quello che mi auguro è che alla fine delle lezioni sarete un po’ più vicini all’essere dei veri medici.»

Ancora non sapevamo, noi ignari studenti, quanto quella frase si sarebbe rivelata vera.

«Do per scontato che ricordiate tutto dell’anatomia e della fisiologia cardiaca» continua snobbandoci con aria di sufficienza.

Non oso fiatare perché io non sono mai stata un asso in materia, ma vedo attorno a me sguardi rivolti alle pa-gine bianche degli appunti, sguardi al soffitto, al pa-vimento e sento un sottile vociferare: “Sì certo”, “Di-ciamo di sì”, “No, col cavolo che mi ricordo”. Accanto a me la vispa Teresa blatera sottovoce: «Proprio darlo per scontato mi sembra un po’ eccessivo».

Bene, mi rincuora non essere l’ultima ruota del carro.«Okay, ho capito, farò un breve ripasso prima di in-

trodurre il corso» ci dice vagamente annoiato, forse abituato a queste scene.

E così inizia la lezione; gesso alla mano comincia a disegnare un cuore riassumendone brevemente l’a-natomia. Le penne iniziano a trascrivere le sue pa-role. Alcuni intervengono per fare domande e Zaffiri, a poco a poco, si calma rivelando di essere meno se-vero di com’era apparso al suo ingresso. Lancia bat-tutine e cerca di catturare l’attenzione di questa pla-tea, così che, tra una risata e un richiamo, gli sguardi e le orecchie di centodieci studenti sono completamente rapiti da lui.

O forse dovrei dire cento e nove: io non riesco a scrivere una sola parola. Quest’uomo ha una voce che mi manda in confusione. È così calda e seducente, mi sento come se fossi a una lezione di meditazione in cui,

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tra un esercizio di respirazione e l’altro, mi immagino stesa in riva al mare, su un’isola tropicale, durante un massaggio zen con il suono delle onde in sottofondo.

Lo ascolto ma non sento davvero quello che sta di-cendo.

Qualcuno, però, mi riporta tra i comuni mortali. Sento Andy punzecchiare una Teresa che, incredibil-mente, sta prendendo appunti con grande interesse.

«Donna fantastica, hai deciso di far cadere ai tuoi piedi anche lui?» le chiede indicando il prof.

«Sei matto per caso? È vecchio, ma non lo vedi?»«Ah... mica per il fatto che è un professore allora.»«Be’ no. Ripeto, è vecchio e...»«E?»«Niente. Lascia perdere, fammi ascoltare.»«E?» insiste lui.«È brutto, la miseria!» sibila Teresa con un tono di

voce decisamente troppo sostenuto.«Signorina! Ancora lei! Di grazia, ci illumini, cos’è

che le sembra così brutto?» chiede Zaffiri con sguardo indisponente.

L’aula intera si gira a guardare Teresa, mentre Andy trattiene a fatica una risata. Io cerco di nascondermi dietro ai compagni che mi siedono di fronte: mi trovo nel suo stesso stato e non so come la mia amica riuscirà a cavarsela stavolta.

Lei, per nulla turbata, con sicurezza risponde: «La rappresentazione del cuore che ha fatto, prof, non è molto bella».

Andy non si trattiene più e gran parte dell’aula ride con lui, me compresa perché davvero penso che ne sia uscita con notevole maestria. Alcuni hanno un’aria sba-lordita, interdetti di fronte a tanta sfacciataggine.

Zaffiri, dal canto suo, indignato e sconcertato al

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tempo stesso, osserva il suo disegno e dice: «D’accordo... le sembra brutto». Poi le rivolge uno sguardo di sfida. «Lei che è la paladina della bellezza, come ci ha rivelato poco fa con il suo specchietto rosa, venga, venga qui.»

«Devo... devo venire lì?» chiede titubante la mia amica.

«Sì, venga e ci disegni lei un bel cuore.»Teresa, con l’aria di volerlo mandare a quel paese,

per fortuna alzandosi si limita a dire: «No, mi scusi, non volevo offenderla».

«Ah ragazzi! Quanta pazienza ci vuole con voi! La-sci stare, si risieda e si concentri sui concetti fondamen-tali, non sul disegno. Due atri, due ventricoli, quattro valvole, sistole-diastole, sistole-diastole, sistole-dia-stole, okay? Sono felice per lei se è più brava di me a di-segnare, ma quel che conta è che capiate com’è fatto e come funziona. Chiaro?!» grida, poi uno sguardo sibil-lino prima di ricomporsi.

Teresa non osa fiatare fino a fine lezione, quando Zaffiri se ne va, dirigendosi di tutta fretta in reparto.

«Che palle questo!» esclama, finalmente sollevata. «Non trovi anche tu?» mi chiede puntando lo sguardo sul mio quaderno. «Celeste? Ma quelli sarebbero i tuoi appunti? Tre misere righe?! Ti senti bene?» mi do-manda controllando i fogli che ho sopra al banco.

«Io? Sì... sto... sto bene» mi limito a blaterare.«Celeste, si può sapere a cosa pensavi mentre spie-

gava?»Punta sul vivo, non so cosa risponderle. M’invento

un impegno che non ho ed esco di corsa tra le occhiate perplesse di Andy, Teresa e Paolo che, sfogliando il li-bro di cardiologia da secchione modello qual è, per un attimo ha sollevato il naso per osservare la scena.

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Paolo è un bravo ragazzo, il classico bravo ragazzo. Dedito allo studio e al volontariato. Non è il tipo che Teresa definirebbe bello, diciamo che è un tipo.

Andy invece è il genere di uomo che fa impazzire Te-resa: bello, biondo, occhi azzurri, amante dello sport. Peccato che lui non la consideri minimamente. È impe-gnato con la sua fidanzatina delle scuole medie, stanno insieme da una vita e vorrebbero sposarsi. Teresa lo sa, però le piace ugualmente provocarlo per vedere se ce-derà al suo fascino; ma non cederà mai.

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Una voce così speciale che non so smettere di amare

Ore 10: lezione di ortopedia con l’Arpia, la professo-ressa Tigli, donna acida e inequivocabilmente affetta da un malsano desiderio di affliggere torture medievali in sede d’esame. Lei non ci vede come studenti, no, lei ci vede come prigionieri di guerra da seviziare psicolo-gicamente al fine di estorcerci informazioni... informa-zioni, peraltro, che conosce solo lei.

Non oggi però, oggi di andare a lezione non se ne parla.

Sto vagando senza meta tra i corridoi dell’ospedale, solo perché ho bisogno di far uscire dalla mia testa quella voce. Insomma, è un uomo con un certo fascino, ha due occhi da svenimento, una voce che mi fa andare fuori di testa e, sotto sotto, parecchio sotto, ritengo sia pure simpatico, ma rimane quel piccolo, insignificante dettaglio: è un mio docente!

Che sto facendo? Non posso prendermi una cotta per lui.

«Celeste!» mi sento chiamare. «Ciao! Sei uscita pre-sto da casa stamattina, pensavo seguissi le lezioni.»

È Giulia, la mia fedele coinquilina e compagna di sventure. Ha deciso di fare il pediatra e sono certa che i bambini la adoreranno. Sembra una fata dei boschi. Ha i

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capelli scuri, ondulati, occhi color nocciola con un taglio da cerbiatto. È una ragazza molto dolce, meno male che esiste. Non so come sarei potuta arrivare alla fine di que-sto corso di laurea senza di lei. Ci siamo date sostegno a vicenda a ogni esame, inutile dirvi che lei è molto più brava di me. Io mi impegno, ben inteso, non sono una scansafatiche, ma mi ritrovo un libretto dai voti modesti e la necessità di risalire la china con qualche bel 30, come mi ha caldamente raccomandato il professor Tombali a cui ho chiesto la tesi. Il suo nome è tutto un programma, dato che è il direttore del reparto di anatomia patologica.

«Giulia, ciao cara! Sì, ho seguito la lezione di cardio-logia. E tu?»

«Io devo ripassare per dopodomani, ho l’esame di morti, ricordi?»

«Sì, è vero, scusami, ho la testa altrove. Comunque stai tranquilla perché, se ha promosso me, può farcela chiunque.»

Morti è il nome che diamo all’esame di anatomia pa-tologica. Gli studenti di medicina non sono persone normali, ci piace affibbiare nomignoli strani agli esami, ma è solo un modo per sopportare lo stress che com-portano, soprattutto quello di una materia così pesante e complessa come questa disciplina che, come suggeri-sce il nomignolo, incentra la questione su biopsie, au-topsie, tumori, cadaveri e... morte, per l’appunto. Non è mancanza di rispetto, è solo che la morte non è facile da gestire nemmeno se si è già medici affermati, e noi siamo solo dei giovani inesperti che ancora non sanno cosa sia la vita, figuriamoci la morte.

Giulia sta davanti a me con un sorriso stanco e una pila infinita di appunti tra le mani.

«Scusa, ma perché non sei in aula a seguire la lezione dell’Arpia?» domanda.

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Aiuto! Cosa m’invento adesso? So che è impossibile nasconderle un segreto.

«Lascia stare, ti dirò... ora perdonami ma devo scap-pare, ci vediamo a casa stasera» le dico sperando sia così presa dal suo esame da non notare la mia clamo-rosa ritirata.

«Eh no, mascherina! Ti conosco troppo bene, cosa ti è successo?»

«Mi vergogno troppo per raccontartelo» mi limito a dire senza nemmeno guardarla negli occhi.

«Okay, andiamo al bar qui fuori e parliamo con calma.»

«Ma non dovevi studiare?» le chiedo sperando che l’ansia per l’imminente esame la distolga dal voler inda-gare oltre.

«Studierò dopo, cammina!» Come non detto.

Andiamo al bar e ordiniamo un nero e un capo, quelli che per capirci nel resto d’Italia sarebbero un caffè espresso e un macchiato, ma non a Trieste.

«Allora, Celeste, che cosa ti succede?» domanda fis-sandomi.

«Tu credi che ci si possa innamorare di una voce?» chiedo rimanendo nel vago.

«Di una voce? Intendi innamorarsi di un cantante?»Posso anche ammettere che la mia vita amorosa fac-

cia piuttosto pena, ma non sono più un’adolescente che si innamora dei cantanti, per quanto nella mia stanza, a casa dei nonni, con i quali sono cresciuta, ancora ci siano appesi al muro i poster delle boy band che seguivo con gli occhi a cuore e tanta passione da ragazzina.

«No. Intendo di una voce. Amare il suono delle pa-role che escono da quella bocca. Amare i silenzi tra le

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parole che dice. Amare i respiri... i sospiri. Amare l’in-tonazione che dà a ogni frase che pronuncia. Amare una voce, capisci? Ecco, io mi sono innamorata di quella voce» affermo lapidaria come se fosse facile compren-dere quello che sto dicendo.

«Di’ un po’, era un caffè con del latte o con della grappa il tuo?»

Come volevasi dimostrare, mi vede come un’adole-scente ubriaca. Le sorrido perché so che mi vuole bene e le dico: «Non fa niente, è una strana giornata, mi pas-serà. Domani rideremo di queste mie follie, come sem-pre».

«No, non mi sembra come sempre» insiste guardan-domi con un misto di curiosità e preoccupazione.

«No, neanche a me» ribatto sconsolata.«Allora vediamo... innamorarsi di una voce... penso

di sì, insomma, ci s’innamora delle canzoni anche per il modo in cui sono cantate, dipende tutto dalla voce, dalla passione che sa emanare. Tu, però, non parli di canzoni. Sai cosa mi aiuterebbe a capire meglio?»

«Cosa?» chiedo con aria di chi sa già dove l’altro vuole andare a parare.

«Dimmi, di chi è questa voce? Di chi ti sei innamo-rata?»

E adesso cosa le dico? Oddio!«Di nessuno. Mi piace la sua voce, tutto qui» taglio

corto terrorizzata.«Celeste, parla. Voglio il nome».Taccio, prendo tempo. Che m’invento? Forza cer-

vello, su, aziona quei quattro letargici neuroni che an-cora possiedi ed escogita qualcosa!

«La voce di chi ti fa sobbalzare il cuore in gola?»«Doc, il cuore in gola?! Dovevi seguire cardiologia

prima, ti serve un ripasso.»

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Con un fiacco sorriso risponde: «Già! A proposito, com’è il prof?».

E io che speravo di essere riuscita a cambiare di-scorso... mannaggia, mannaggissima!

«Un prof...» dico senza troppi fronzoli.«Ma dai? E io che pensavo fosse un idraulico.»«Che stupida che sei».«Dai, com’è? Dicono che sia severo e pure un po’ lu-

natico. A te com’è sembrato?»«Un prof» continuo a dire, incapace di aggiungere

dettagli.«Ancora, ti sei incantata?»Ha ragione, lo so, ma mica posso dirle: guarda, prof

davvero interessante, trovo che abbia un fascino tutto suo, unico. Ha due occhi color zaffiro – giusto per non smentirsi con il nome che porta – che farebbero invi-dia a un divo di Hollywood e una voce che mi fa per-dere ogni capacità di raziocinio... come se poi ne avessi molta.

Così improvviso. «Prof. Con una parola dici tutto. Severo, lunatico, le cose che hai detto. Che dicono tutti. Spero solo che non sia come quello con cui dovevi fare l’esame tu quando sei stata in Erasmus. Te lo ricordi? Quello che dava 30 solo ai raccomandati, anche se sa-pevano due cose in croce, e alle tipe che sfoggiavano profonde scollature e svenevoli sorrisi? Questo qui in-vece, vedrai! Se è lunatico come dicono, avrà di certo la luna storta il giorno in cui interrogherà noi e ci boc-cerà seduta stante.»

«Wow! Zaffiri ha proprio fatto colpo su di te. Due ore di lezione e già lo detesti.»

«Non lo detesto,» sospiro «è solo che...»«È solo che?»Rimango in silenzio con lo sguardo perso nel vuoto,

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non la sto nemmeno più ascoltando, sono già partita per la tangente.

«Solo che?» insiste la sua vocina curiosa.«Solo che mi sono innamorata della sua voce» con-

fesso tutto d’un fiato. Sto arrossendo, lo sento. Mi co-pro il viso con le mani e scuoto la testa per quel misto di vergogna e disperazione che mi sta assalendo.

«La voce del professor Zaffiri? La voce di cui par-lavi...» chiede incredula.

«Sì» confermo timidamente.«Ah.»«Eh.»«Okay.»«Okay.»Dopo un breve silenzio, Giulia mi snocciola la sua

perla di saggezza. «No, Celeste, non c’è nulla di okay.»«A me lo dici? Lo so bene» le faccio notare con un’a-

ria sconcertata almeno quanto quella che ha assunto lei.«Okay.»«Okay.»Finiamo i nostri caffè e, senza aggiungere altro, tor-

niamo in ospedale.

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Già me lo sento, ha deciso di darmi il tormento

Non ho scampo! Continuo a pensare alla voce di Zaf-firi. Non riesco a smettere, è più forte di me. Il cuore mi batteva così forte quando ho sentito quel «E allora?! Che cos’è tutta questa confusione?» con cui ha esor-dito entrando in aula, che non capivo più nulla. E solo a ripensarci. D’accordo, mi stava venendo un accidente anche per la paura che mi ha fatto prendere urlando in quel modo, ma c’è qualcosa di più.

Oddio oddio oddio, no, Celeste, ti prego, non pen-sarci neanche! Avrà il doppio dei tuoi anni. È un tuo professore. Toglitelo dalla testa!

Come se servisse a qualcosa impedirsi di pensare a un uomo. Non lo avevo ancora visto in faccia e già me ne ero invaghita. Mi sono innamorata di una voce, di un’idea, di una folle illusione.

E ne ero cosciente.Mannaggia a me!

Ormai è sera e me ne torno a casa passeggiando nel crepuscolo, come farebbe il Conte Dracula, ansiosa di mettere qualcosa sotto i denti. La mia mente sembra un frullatore di sentimenti e non capisco più cosa provo, né cosa sia giusto o sbagliato provare.

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Con la voce di Zaffiri che insiste a mulinare nei me-andri del mio cervello, trascorro la serata sdraiata sul mio letto con le cuffie alle orecchie ascoltando musica. La track list del lettore mp3, strano scherzo del destino, parte con gli Smiths, There Is a Light That Never Goes Out. C’è una luce che non si spegne mai. Sbuffo senza ritegno pensando: “Altro che luce, è la sua voce che non si spegne mai”. Cambio canzone sperando che Battisti sia più cordiale e non voglia prendersi gioco di me. Con il nastro rosa. Non ricordo mai i titoli delle sue canzoni, perciò la seleziono senza indugi, convinta di aver fatto un’ottima scelta. Arrivata al ritornello, però, la smorfia, che si materializza sul mio viso, la dice lunga sulla mia capacità di scegliere la canzone meno adatta possibile.

“Chissà, chissà chi sei, chissà che sarai, chissà che sarà di noi, lo scopriremo solo vivendo.”

Ogni canzone mi sembra un pretesto in più per con-tinuare a pensare a lui.

Forse sto impazzendo. Spengo tutto e mi infilo sotto le coperte mentre in questo sciagurato encefalo che mi ritrovo ancora riecheggia il suono di quell’unica, in-confondibile, amabile voce. Chiudo gli occhi e provo a addormentarmi, sperando in un risveglio privo di quell’eco nelle orecchie.

E il sonno ha funzionato, certo, almeno fino a quando non sono arrivata in ospedale.

«Ehi, Celeste, dove sei sparita ieri? Sei tornata tardi a casa, che hai fatto di bello?» mi chiede, curiosa, Teresa.

«Avevo delle cose da fare, scusate se sono scap-pata...» mi limito a rispondere lasciandola affogare nel desiderio di sapere.

«Non preoccuparti» mi rasserena Andy. «Abbiamo preso noi gli appunti.»

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Come farei senza di loro?«Ora c’è lezione di chirurgia, giusto?» domando in-

certa.«Sì, due ore di chirurgia, poi c’è ortopedia, poi...»«Oh Paolo!» sbotta Teresa. «Chiedeva solo cosa

c’è adesso, non fino al giorno della nostra laurea, sec-chione!»

«Capito, capito... sempre la solita sei. Poi però i miei appunti ti fanno comodo. Ridi, ridi, tanto non te li darò stavolta» le risponde indispettito.

«Paolo, lo sai che ti adoro e senza di te non potrei vi-vere» lo adula lei sbattendo le ciglia.

«Senza di me... senza i miei appunti semmai».«È uguale.»«Come è uguale?!»«Paolo, rassegnati, Teresa è un caso disperato» inter-

viene Andy ridendo.«Voi due, sempre a prendermi in giro» replica lei,

perennemente inorgoglita quando è al centro dell’at-tenzione.

«Sempre mercato qui?! Di solito i mercati si fanno un giorno solo alla settimana, com’è che qui lo fate tutti i giorni?» ci sentiamo rimproverare alle nostre spalle.

Sto sbiancando, me lo sento... lipotimia, portami via!

Alzo lo sguardo in direzione di quella voce.È proprio quella voce. Ancora.«Professor Zaffiri!» esclama Paolo. «Ci scusi per la

confusione, modereremo i toni.» «Bravi» risponde con un complimento che suona

quasi come un insulto.Ma che ci fa lui qui?«La lezione di chirurgia è rimandata, il vostro do-

cente ha avuto un’emergenza ed è in sala operatoria.

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Occuperò io le sue due ore di lezione oggi» dice spa-zientito guardandomi. Un’espressione diabolica si trat-teggia sul suo volto accattivante.

Non l’avrò mica chiesto a voce alta?No, sono sicura di no, ma sono altrettanto certa che

se non la smette di fissarmi in questo modo gli sverrò davanti.

Forse mi legge nel pensiero perché – lanciando un’ultima occhiata alla sottoscritta come se si stesse im-maginando la mia testa sulla cima di una picca – decide di distogliere l’attenzione da questo gruppo di confu-sionari indegni di praticare la professione medica, quali certo ci ritiene, e si avvia rapido giù, verso la cattedra, ad accendere il suo argenteo portatile in attesa di ini-ziare la lezione.

«Oddio» sospiro, quasi senza energie.«Già!» concorda, senza sapere su cosa, Teresa, se-

dendosi e continuando con un amletico interrogativo: «Chi lo regge questo?».

«Che cos’avete contro di lui?» ci domanda Paolo.«Mi ha detto che sono la paladina della bellezza ieri»

risponde Teresa a occhi sbarrati.«Era una lusinga» sostiene Andy ironicamente. L’i-

ronia non è colta dalla diretta interessata che volge su di lui lo sguardo domandando: «Tu dici?».

«...»Ridiamo tutti quanti, ma mi rendo subito conto che

dovremmo smettere anche solo di respirare in presenza di Zaffiri.

«Signorina! Lei sì, lei accanto alla ragazza che non apprezza i miei disegni. Lei che ride, mentre aspet-tiamo che il computer si accenda, che ne dice di fare un breve riassunto degli argomenti trattati ieri?»

Merda.

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Parla con me. Sta guardando proprio me. Due occhi del colore delle profondità oceaniche mi osservano mi-nacciosi. Ecco, perfetto, già mi odia.

«Certo» gli rispondo sperando di sprofondare all’i-stante nelle viscere della Terra. Non ho la minima idea di che cosa abbia detto ieri. Potrei fare come Dante Ali-ghieri nella Divina Commedia: ogni tanto, sul più bello, lui sveniva e poi lo si ritrovava a vagare in un altro gi-rone senza sapere bene come ci fosse arrivato. Sto per fingere uno svenimento quando, per mia fortuna, Paolo mi passa i suoi appunti, precisi e schematici, così, un po’ balbettante, riesco a riassumere la trattazione del giorno precedente.

«Ottimo. Vedo che ieri era attenta» sentenzia con una mezza smorfia di apprezzamento.

“Non immagina quanto” penso, rispondendo con un maldestro sorriso.

«Paolo, ti devo un favore» sussurro. Lui ricambia strizzandomi l’occhio.

Sono due ore interminabili, fatico a capire di cosa stia parlando Zaffiri. Continuo solo a pensare: “Non posso innamorarmi di un professore. Non sta capi-tando a me”.

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