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Memorie Teologiche Memorie Teologiche Rivista della Facoltà Teologica dell'Emilia Romagna Rivista della Facoltà Teologica dell'Emilia Romagna www.memorieteologiche.it Fascicolo n. 1 (2008) GIUSEPPE SCIMÈ, Il carattere edificante della «vita Benedicti» nel II libro dei Dialoghi di Gregorio Magno, 5-19. SERGIO PARENTI, Testimonianza e presenza reale, 20-31. PAOLO BOSCHINI, La chiesa tra autorità e libertà. Una lettura antropologica, ermeneutica e sociologica di: Lutero, «I concili e la chiesa», 32-39. LUCIANO LUPPI, Madeleine Delbrêl. Testimone di fortezza spirituale, 40-66. MASSIMO NARDELLO, Teologia e senso della storia. Paul Tillich e il suo contributo al pensiero teologico contemporaneo, 68-88. FABRIZIO MANDREOLI, «Un tempo per l’incontro». Note storico- teologiche su Andrea di san Vittore e i commentatori ebrei della bibbia del XII secolo, 89-107. MASSIMO NARDELLO, L’unità frutto della carità. Istanze ecumeniche negli scritti di Angelo Roncalli, 108-128. PAOLO BOSCHINI, Il cerchio aperto della verità. Brevi considerazioni su don Milani a quarant’anni dalla sua morte, 129-138. FABRIZIO MANDREOLI – ELISA DONDI, La teologia e la città. Note a partire dalla vicenda di Girolamo Savonarola, 139-162. Copyright Facoltà Teologica dell'Emilia Romagna • 2011

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www.memorieteologiche.it

Fascicolo n. 1 (2008)

GIUSEPPE SCIMÈ, Il carattere edificante della «vita Benedicti» nel II libro dei Dialoghi di Gregorio Magno, 5-19.

SERGIO PARENTI, Testimonianza e presenza reale, 20-31.

PAOLO BOSCHINI, La chiesa tra autorità e libertà. Una lettura antropologica, ermeneutica e sociologica di: Lutero, «I concili e la chiesa», 32-39.

LUCIANO LUPPI, Madeleine Delbrêl. Testimone di fortezza spirituale, 40-66.

MASSIMO NARDELLO, Teologia e senso della storia. Paul Tillich e il suocontributo al pensiero teologico contemporaneo, 68-88.

FABRIZIO MANDREOLI, «Un tempo per l’incontro». Note storico-teologiche su Andrea di san Vittore e i commentatori ebrei della bibbia del XII secolo, 89-107.

MASSIMO NARDELLO, L’unità frutto della carità. Istanze ecumeniche negli scritti di Angelo Roncalli, 108-128.

PAOLO BOSCHINI, Il cerchio aperto della verità. Brevi considerazioni sudon Milani a quarant’anni dalla sua morte, 129-138.

FABRIZIO MANDREOLI – ELISA DONDI, La teologia e la città. Note a partire dalla vicenda di Girolamo Savonarola, 139-162.

Copyright Facoltà Teologica dell'Emilia Romagna • 2011

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Giuseppe SCIMÈ, Il carattere edificante della «vita Benedicti» nel II libro dei Dialoghi di Gregorio Magno, Memorie Teologiche 1 (2008) 5-19

Giuseppe SCIMÈ

Il carattere edificante della Vita Benedicti

nel II libro dei Dialoghi di Gregorio Magno

Premessa

Lo scopo del presente contributo è di offrire qualche nota essenziale riguardante la biografia di Benedetto da Norcia stilata da Gregorio Magno, e più precisamente di sottolineare, mediante l’analisi di modalità espressive e di contenuti biografici, la fi-nalità edificante dell’opera storiografica gregoriana. Offrirò anzitutto qualche notizia relativa al monachesimo nell’antichità cristiana (par. 1), in secondo luogo introdurrò l’opera di Gregorio (par. 2), tratteggerò quindi l’epoca storica di Benedetto e del suo biografo (par. 3), farò qualche riferimento alle fonti dello storiografo (par. 4), ed infi-ne mi soffermerò sulle modalità e i contenuti della biografia gregoriana, illustrando in che senso si possa dire che l’intento principale di Gregorio Magno sia edificante (par. 5). Chiuderò il presente contributo con le Conclusioni e le note bibliografiche.

1. Il monachesimo cristiano antico

Anzitutto, precisiamo l’ambito della nostra ricerca, la quale verte in questa sede sul monachesimo cristiano, un fenomeno vasto e complesso che tuttavia non esauri-sce il quadro ancora più ampio e variegato del monachesimo in quanto tale. Potrem-mo citare per es. il monachesimo buddista, attestato fin dal III sec. a.C. 1, oppure, più

1 P. MASSEIN, «Monaci buddhisti», in Grande dizionario delle religioni. Dalla preistoria ad

oggi (Dictionnaire des Religions, Presses Universitaires de France, Paris 1984), diretto da P.

Memorie Teologiche http://www.memorieteologiche.it

Rivista on-line a cura del Dipartimento di Storia della TeologiaFacoltà Teologica dell’Emilia-Romagna (FTER, www.fter.it) – Bologna – Italy.

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Giuseppe SCIMÈ, Il carattere edificante della «vita Benedicti» nel II libro dei Dialoghi di Gregorio Magno

vicino a noi culturalmente e geograficamente, l’enigmatico caso degli Esseni di Qum-ran. Conviene perciò offrire rapidamente alcune note essenziali sull’origine e sulla diffusione del fenomeno del monachesimo cristiano nell’antichità.

Dal punto di vista letterario, la testimonianza più importante sul fenomeno del monachesimo nell’antichità cristiana è legata al nome di Atanasio (300-373), patriar-ca di Alessandria di Egitto. Atanasio ha conosciuto personalmente Antonio il Grande (250-356), tradizionalmente considerato il padre del monachesimo, e ne ha scritto una Vita. Quest’opera fu un autentico best-seller del IV secolo, e inaugurò un genere let-terario nuovo, quello del racconto biografico di un santo non martire. Santi fino ad al-lora, specialmente nei tempi delle persecuzioni, erano considerati i martiri: di essi si raccoglievano gli esempi – particolarmente la pazienza, la fortezza e la mitezza dimo-strate nell’ora cruenta dell’ultima testimonianza – e le preziose reliquie, collocate presso gli altari. Era già nota tutta una letteratura agiografica, Vite e Atti dei martiri. Con la Vita Antonii Atanasio, suo amico e ammiratore, dà l’inizio ad un nuovo genere letterario e ci mette a contatto coi primissimi rappresentanti del monachesimo cristia-no.

Si potrebbe utilmente istituire un confronto tra la Vita Antonii di Atanasio ed un’altra vita, quella dell’imperatore Costantino scritta da Eusebio di Cesarea (260-340). Se il modello letterario è sostanzialmente lo stesso, quello del genere letterario bios tipico della raffinata cultura ellenistica, il soggetto trattato è profondamente dif-ferente, per non dire opposto: Eusebio esalta l’imperatore romano, Atanasio l’uomo di Dio; Costantino è il simbolo più rilevante dell’impero che fino a lui, a fasi alterne, aveva perseguitato i cristiani; Antonio è il simbolo più eclatante di quanti, per la fe-deltà al Vangelo e in continuità con la testimonianza radicale dei martiri, fuggono il potere dell’impero, si allontanano anche fisicamente dal mondo, cercano nella solitu-dine e nella penitenza la comunione con Dio solo, hanno di mira la vera Chiesa, sce-vra da commistioni equivoche col potere mondano, e ne cercano il volto più autentico nel modello della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme descritta da Luca nei famosi sommari degli Atti (At 2 e At 4). Insomma, la vita di Costantino, il primo grande imperatore cristiano, è la rappresentazione ideale della possibilità di cristianiz-zare e quindi di sacralizzare il potere mondano, quel potere che nel linguaggio imma-ginifico dell’Apocalisse era rappresentato dalla bestia, dalla statua idolatrica o dalla stessa città di Roma, chiamata in tono di dispregio violento «Babilonia la grande, la madre delle prostitute e degli abomini della terra» (Ap 17,5); la vita di Antonio è al contrario la descrizione ideale del vir Dei, del nuovo santo, cioè del nuovo martire, additato come exemplum da seguire e da imitare.

Poupard, trad. dal fr. di M. Comba Corsani, P. Cignoni, P. Vingiano e M. Girardet, Piemme, Casale Monferrato (AL) 32000, 1455-1458.

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Il monachesimo cristiano nasce in Egitto verso la metà del III secolo prima sotto forma di anacoretismo o eremitismo e poi nella sua forma di cenobitismo. Pacomio è il primo legislatore del monachesimo egiziano, che ebbe una straordinaria fioritura (il monachesimo copto con gli origenisti Palladio e Evagrio Pontico). Dall’Egitto l’asce-tismo cristiano si diffonde in altri ambienti: i rappresentanti più rilevanti di questo va-stissimo fenomeno che arriva fino ai giorni nostri sono in Palestina Girolamo e Rufi-no, in Siria Teodoreto di Ciro e Giovanni Crisostomo, in Cappadocia Basilio di Cesa-rea, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa, in Gallia Martino di Tours, in Italia Ambrogio e più tardi Giovanni Cassiano e Benedetto, in Africa del nord Agostino.

2. I Dialoghi di Gregorio Magno

La fonte principale antica relativa alla vita di Benedetto da Norcia è il II libro dei Dialoghi di Gregorio Magno (540-604), papa dal 590 dopo Pelagio II.

I Dialogi de vita et miraculis patrum italicorum sono stati composti da Gregorio tra il 593 e la fine del 5942. Sono costituiti da 4 libri, dove il II è interamente dedicato a Benedetto.

La forma dell’opera, cioè il suo genere letterario è quello del dialogo tra Grego-rio e un certo Pietro: leggendo i dialoghi appare chiaramente che tra i due si instaura un rapporto di dipendenza nei termini di un discepolo nei confronti del suo maestro. Pietro abbastanza spesso dichiara i suoi dubbi, esprime il suo stupore per i racconti del maestro riguardanti le parole e le gesta dei santi italiani di cui parla, pone delle domande che il più delle volte hanno un carattere immediato. Certe volte le brevi considerazioni di Pietro rivelano un animo popolare ed un livello molto semplice del-la sua personalità, qualche altra le sue domande hanno un carattere più profondo e teologico, e comunque offrono a Gregorio l’occasione ideale per precisare alcuni ele-menti dei suoi racconti e per svilupparne il significato morale.

È abbastanza evidente, dalle domande del discepolo Pietro e dalle risposte del maestro, il papa Gregorio, che il dialogo potrebbe anche essere stato composto a ta-volino e che le battute del colloquio risultino essere perciò sostanzialmente un artifi-cio letterario per rendere il racconto biografico più avvincente e appassionante, in quanto esso è interrotto dalle reazioni e dalla manifestazione delle emozioni di Pietro. In realtà Pietro era comunque una figura storica, e precisamente l’amministratore deipatrimoni fondiari della Chiesa di Roma in Sicilia e in Campania.

Gli argomenti trattati da Gregorio nelle sue vite risentono dell’ambiente popola-re sia perché sembrano provenire dalle tradizioni popolari (miracoli, prodigi, umilia-zione dei nemici e dei delatori dei santi, compreso il diavolo, sempre presente con le 2 Cf. P. SINISCALCO, «Gregorio I», in INSTITUTUM PATRISTICUM AUGUSTINIANUM, Patrologia, Dal

Concilio di Calcedonia (451) a Beda. I Padri latini, a cura di A. DI BERARDINO, vol. IV, Marietti, Genova 1996, 166-169.

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sue astuzie e i suoi inganni, esaltazione iperbolica delle virtù degli uomini di Dio, in particolare dei loro sforzi ascetici sovrumani, illustrazione dell’aldilà con racconti che riguardano la sorte ultraterrena dei morti e qualche volta la loro risurrezione cioè la restituzione di morti alla vita ad opera del santo) sia perché al popolo sembrano desti-nati con il preciso e dichiarato scopo di edificazione.

Dal punto di vista della critica letteraria, l’opera di Gregorio è stata sottoposta ad una severa vaglio da parte dei protestanti a partire dal secolo XVI. Dopo la reazio-ne dei dotti ed eruditi benedettini dei secoli successivi, che ovviamente hanno messo a tacere la questione dell’autenticità dei Dialoghi di Gregorio, essa si è ripresentata recentemente nella tesi fondamentale di F. Clark, il quale sostiene che i Dialoghi sia-no stati composti non da Gregorio Magno, cioè Gregorio I, ma da Gregorio II, papa dal 715 al 7313.

3. Il contesto storico della vita di Benedetto

L’epoca nella quale è situata la straordinaria vicenda storica e religiosa di Bene-detto (480-547) è indelebilmente segnata dal sacco di Roma, avvenuto il 24 agosto 410 ad opera del visigoto Alarico, il quale con la complicità del senato romano detro-nizza l’imperatore romano Onorio. Il saccheggio della città eterna, durato tre giorni, è un fatto dalla portata realmente epocale per gli antichi contemporanei: per la sua di-mensione simbolica – il crollo del mito della capitale di un impero invincibile ed uni-versale – potrebbe essere oggi significativamente confrontato con l’attentato alle Twin Towers di New York l’11 settembre 2001.

Dopo quel tragico evento, che suscita domande e perplessità anche in ambiente cristiano e diventa l’occasione per la monumentale risposta di Agostino, col De Civi-

tate Dei, ai quesiti, alle spiegazioni e alle accuse da parte pagana nei confronti dei cri -stiani, assistiamo ad un nuovo saccheggio della città eterna ad opera del vandalo Gen-serico nel 455. Una ventina d’anni più tardi, nel 476, Odoacre, re degli Eruli, detro-nizza l’imperatore Romolo Augustolo e si proclama re d’Italia. È la fine dell’impero romano d’occidente. Pochi anni dopo a Norcia nasce Benedetto (480).

Nel 489 Teodorico, re degli Ostrogoti, uccide Odoacre e gli succede. Inizia un’e-poca di relativa pace e di buoni rapporti con ciò che resta del defunto impero romano d’occidente: come già Odoacre, Teodorico, barbaro e ariano, conserva il diritto roma-no e il senato, ristabilisce il consolato, mantiene la libertà di culto ai cristiani. Anche il successore di Teodorico, il nipote Atalarico, che regna dal 526 al 534, garantisce al-l’Italia, come Teodorico, una sorta di nuova pace romana, dopo un secolo di guerre, saccheggi, massacri e incendi.

3 Cf. F. CLARK, «The Authenticity of Gregorian Dialogues: A Reopenig of the Question?», in Grégoire le Grand, Chantilly 15-19 sept. 1982. Actes publiés par J. FONTAINE, R. GILLET, S. PELLISTRANDI, Paris 1986, 429-443.

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Si succedono sul suolo italiano sei re ostrogoti fino a quando Belisario, il generale dell’imperatore romano d’oriente Giustiniano (527-565), riconquista l’Italia e la ri-porta sotto l’influenza del sopravvissuto impero romano orientale. Sono gli ultimi anni della vita di Benedetto, che muore a Montecassino tra il 547 e il 550.

4. Le fonti del II libro dei Dialoghi di Gregorio Magno

Torniamo alla fonte principale e pressoché unica per la conoscenza della vita di s. Benedetto che, come detto sopra, è il II libro dei Dialoghi di s. Gregorio Magno, composto tra il luglio 593 e l’ottobre 594. In esso sono confluite informazioni ricevu-te dall’autore da parte di quattro testimoni diretti: Costantino, secondo abate di Mon-tecassino, cioè il primo successore di Benedetto; Valentiniano, prima monaco cassi-nese e poi abate di San Pancrazio in Laterano; Simplicio, terzo abate di Montecassi-no, cioè successore di Costantino probabilmente alla sua morte; Onorato, abate di Su-biaco, ancora vivo al momento della stesura dei Dialoghi. È lo stesso Gregorio a di-chiarare le sue fonti di informazione:

«Certamente io non posso conoscere tutti i fatti della sua vita. Quel poco che sto per narrare, l’ho saputo dalla relazione di quattro suoi discepoli: il reverendissimo Co-stantino, suo successore nel governo del monastero; Valentiniano, che fu per molti anni superiore del monastero presso il Laterano; Simplicio, che per terzo governò la sua co-munità; e infine Onorato, che ancora dirige il monastero in cui egli abitò nel primo pe -riodo di vita religiosa»4.

È notevole la precisione – diremmo oggi l’onestà intellettuale e quasi l’acribia scientifica da vero storico – con cui l’autore dei Dialoghi riporta le notizie riguardanti Benedetto ed indica la validità delle vere fonti di cui si serve. Quando per es. riporta la profezia dell’uomo di Dio riservata a Totila, re dei goti, Gregorio avverte il disce-polo Pietro con queste parole:

«Questa profezia me l’ha riferita il suo discepolo Onorato: egli però attestava di non averla mai udita dalla sua bocca ma era stata riferita a lui dai fratelli che l’avevano ascoltato parlare così»5.

È evidente che siamo di fronte ad un narratore che vuole presentarsi fedele e au-tentico interprete della vita di Benedetto, e che soprattutto ha, per così dire, le mani in pasta nelle tradizioni dirette dei primi discepoli dell’uomo di Dio. In questo senso si possono addurre altri passi tratti dal libro II dei Dialoghi:

«C’è un altro fatto che credo bene non lasciare sotto silenzio. Mi fu raccontato dall’illustre e nobile Antonio. Mi diceva, dunque, che…»6;

4 GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, Intr. di A. Stendardi, [Minima di Città Nuova], Città Nuova, Roma 62004, 56.

5 GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, 15, p. 78.6 GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, 26, p. 90.

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«Voglio raccontare ancora un altro fatto, riferito molto spesso dal suo discepolo Pellegrino. Eccolo»7.

Resta comunque che la fonte principale di Gregorio è da lui attribuita alle tradi-zioni orali trasmesse dai quattro testimoni citati all’inizio del II libro, cioè Costantino, Valentiniano, Simplicio e Onorato. A loro Gregorio torna a fare un riferimento espli-cito verso la fine del II libro dei Dialoghi:

«Mi pare che sia opportuno inserire qui alcuni di quei fatti che, come ti ho accen-nato all’inizio di questo colloquio, mi furono riferiti dai suoi quattro discepoli. Eccone uno»8.

5. L’intenzione edificante dell’opera gregoriana

Chiarita l’attendibilità storica del II libro dei Dialoghi di Gregorio Magno, possia-mo ora chiederci quale fosse l’intenzione dell’autore, dato il rilievo particolare dato alla figura di Benedetto, che spicca tra gli altri santi italici se non altro per il fatto che il papa dedica a lui soltanto un intero libro dei quattro che costituiscono i Dialogi de

vita et miraculis patrum italicorum.

Gregorio Penco ha fatto al riguardo la seguente osservazione:

«Grande è quindi il valore storico della narrazione gregoriana, pur priva di indi-cazioni cronologiche vere e proprie, ma più grande è il suo valore spirituale, tale da permettere una precisa ricostruzione della figura religiosa del Santo. S. Gregorio non è infatti soltanto o prevalentemente un agiografo, ma in primo luogo un dottore della mi-stica, testimone quindi egli stesso degli straordinari fatti narrati, esposti certo secondo un già fissato schema, ma vivi di una superiore realtà che soltanto i santi possono per-cepire e capire»9.

Ritengo personalmente che il valore spirituale e la dimensione mistica del raccon-to di Gregorio di cui parla Gregorio Penco nella sua Storia del monachesimo in Italia

si possano cogliere in quei punti del II libro dei Dialoghi nei quali il maestro e il di-scepolo, cioè Gregorio Magno e Pietro, citano esplicitamente o alludono chiaramente alla sacra Scrittura. In effetti la vita di Benedetto raccontata da Gregorio richiama più o meno direttamente la sacra Scrittura, ed in particolare la vita dei santi che sono i protagonisti delle pagine bibliche; d’altra parte, le pagine bibliche in qualche modo e misura illuminano e spiegano la biografia di Benedetto. In pratica, fatti della vita di Benedetto raccontata da Gregorio e fatti della vita dei santi descritti nella Bibbia si il-luminano e si spiegano reciprocamente. Vediamo in proposito alcuni esempi.

7 GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, 27, p. 90.8 GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, 27, p. 91.9 G. PENCO, Storia del monachesimo in Italia. Dalle origini alla fine del Medioevo.

Complementi alla storia della chiesa diretta da H. Jedin, a cura di E. G UERRIERO, [Già e non ancora 286], Jaca Book, Milano 31995, 51.

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Durante il periodo in cui Benedetto abitava da solo in una spelonca a Subiaco, fu assalito dalla tentazione carnale. Pare si sia trattata di un’esperienza particolarmente dura, che addirittura aveva indotto nell’uomo di Dio il pensiero di abbandonare la ca-verna dove viveva. Gregorio racconta la reazione quasi immediata di Benedetto che

«si spogliò delle vesti e si gettò, nudo, tra le spine dei rovi e le foglie brucianti delle ortiche. Si rotolò a lungo là in mezzo e quando ne uscì era lacerato per tutto il corpo; ma con gli strappi della pelle aveva scacciato dal cuore la ferita dell’anima, al piacere aveva sostituito il dolore»10.

Gregorio annota di seguito che Benedetto risolse così definitivamente il problema della sessualità, al punto da non sentire più «l’incentivo alla sensualità». Ma soprat-tutto, Gregorio osserva che, proprio in coincidenza con la vittoria sulla tentazione car-nale, la vita di Benedetto subisce una svolta radicale:

«Dopo ciò, molti abbandonando la vanità del mondo, accorrevano gioiosi sotto la sua disciplina e giustamente, libero ormai dall’insidia della tentazione, egli poteva farsi per gli altri maestro di sante virtù. Del resto anche Mosè aveva avuto da Dio questo co-mando: che i leviti dai venticinque anni in su prestino i servizi nel tempio e dopo i cin -quanta diventino custodi dei vasi sacri dell’altare»11.

Come si vede, Gregorio ha concluso la descrizione del frangente particolare vissu-to da Benedetto con un esplicito riferimento biblico. È proprio da questo riferimento che prende l’avvio la domanda del discepolo Pietro, incuriosito dalla citazione biblica per lui misteriosa, e il successivo chiarimento del maestro:

«Pietro: Non capisco bene il significato del passo che hai ricordato: vorrei che me lo spiegassi un po’ meglio.

Gregorio: Eppure mi sembra abbastanza chiaro, Pietro; nella gioventù le tenta-zioni della carne sono più impetuose, ma dopo i cinquant’anni l’ardore del sangue co-mincia a raffreddarsi. I vasi sacri poi sono le menti dei fedeli. Gli eletti quindi, finché sono ancora nel periodo delle tentazioni, è meglio che stiano in sott’ordine, che presti-no i servizi e si affatichino nell’obbedienza e nel lavoro; quando poi nell’età più matura il calore della tentazione scompare, allora essi diventano custodi dei vasi sacri, diventa-no cioè guide e maestri delle anime.

Pietro: Ecco, adesso la tua spiegazione mi soddisfa. Ho capito benissimo il signi-ficato della tua citazione. Ora però, giacché mi hai raccontato gli inizi della vita di que-sto giusto, ti dispiace di raccontarmi il resto?»12.

Come si può facilmente ricavare, l’interesse primario del discepolo non è la vita di Benedetto e neppure una naturale ed eventualmente morbosa curiosità per i dettagli della tentazione subita e superata, ma il significato del riferimento biblico fatto dal

10 GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, 2, p. 59.11 GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, 2, p. 60.12 GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, 2, p. 60.

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maestro. È infatti questo riferimento che illumina il racconto di Gregorio e lo rende significativo. La parola di Dio contiene, come si deduce da questo primo e semplice esempio, la luce che spiega quell’episodio oscuro della vita di Benedetto. Inoltre, la parola di Dio non si applica solo a Benedetto ma a tutti i cristiani, chiamati in un pri -mo tempo a stare sottomessi alle guide e ai maestri delle anime e poi, superata la ten-tazione – scompare a questo punto un riferimento troppo puntuale all’età anagrafica (50 anni?) – a divenire essi stessi «custodi dei vasi sacri…cioè guide e maestri delle anime».

Un altro esempio ancora più chiaro per riconoscere il valore spirituale e la dimen-sione mistica del racconto della vita di Benedetto scritta da Gregorio lo trovo un po’ più avanti, in una battuta del dialogo che intercorre tra Pietro e Gregorio, dopo che quest’ultimo ha descritto una prima serie di miracoli compiuti dall’uomo di Dio. Pie-tro, infatti, non riesce a trattenere l’entusiasmo che il racconto gregoriano delle gesta di Benedetto gli suscita, e dice al maestro:

«Pietro: Sono veramente stupende e meravigliose le tue narrazioni. Quando fa scaturire l’acqua dalla pietra io rivedo un nuovo Mosè; quando richiama il ferro dal profondo dell’acqua, un nuovo Eliseo; quando fa camminare sull’acqua, ripenso a Pie-tro, e quando esige obbedienza dal corvo un nuovo Elia. Quando infine lo sento piange-re per la morte del nemico, non posso pensare che a David. Questo uomo fu davvero ri-pieno dello spirito di tutti i giusti!»13.

Anche sul piano letterario, la reazione di Pietro ha un significato strategico e pro-priamente retorico, in quanto rappresenta una sorta di sommario dei miracoli di Bene-detto che Gregorio ha appena finito di descrivere diffusamente: l’acqua dalla pietra (par. 5); il ferro che torna nel manico (par. 6); Mauro cammina sull’acqua (par. 7); il pane avvelenato, con le scene del corvo e del pianto di Benedetto alla notizia della morte del suo avversario, il prete Fiorenzo (par. 8). Si tratta di cinque fatti prodigiosi della vita di Benedetto, che nell’anima di Pietro, discepolo di Gregorio, richiamano immediatamente altrettante figure ed episodi biblici: Mosè, Eliseo, Pietro, Elia e il re Davide. Il discepolo di Gregorio non può evitare di cogliere i collegamenti vitali tra i fatti della vita di Benedetto e i fatti dei santi della Bibbia. Rispetto all’esempio prece-dente, quello della tentazione superata vista come momento di passaggio dalla vita guidata da altri alla responsabilità di guidare gli altri, dove il riferimento biblico ser-viva ad illuminare l’episodio della vita di Benedetto, e quindi del discepolo Pietro e di ogni altro cristiano, cioè di qualunque lettore dei Dialoghi di Gregorio (= l’intento edificante dell’opera di Gregorio), in questo esempio che stiamo studiando sembra di cogliere un procedimento che va in direzione opposta: i fatti narrati da Gregorio esemplificano, cioè rendono chiari e luminosi i fatti raccontati dalla Scrittura. In que-sto caso è la biografia di Benedetto ad illustrare la parola di Dio, e non il rovescio,

13 GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, 8, p. 71.

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come nel primo esempio riportato sopra. Più precisamente, il discepolo Pietro usa un linguaggio estremamente significativo:

«Quando fa scaturire l’acqua dalla pietra io rivedo un nuovo Mosè; quando ri-chiama il ferro dal profondo dell’acqua, un nuovo Eliseo; (…) e quando esige obbe-dienza dal corvo un nuovo Elia»14.

È da notare l’aggettivo «nuovo»: agli occhi del discepolo di Gregorio, Benedetto appare come un altro Mosè, un altro Eliseo, un altro Elia. Benedetto in pratica ripre-senta il modello biblico. La sua vita è l’attualizzazione ai tempi di Gregorio e di Pie-tro (= ai tempi di ogni lettore dei Dialoghi) della vita dei santi biblici. Il passo ci aiuta a vedere non solo quale è il sistema fondamentale di riferimento di un uomo come Pietro (= evidentemente la Bibbia, in particolare i santi dell’AT e del NT), ma anche a cogliere che per lui la storia raccontata da Gregorio continua la storia raccontata dalla Bibbia: la storia della Chiesa non è un’altra storia rispetto alla storia sacra, è sempre la stessa storia che continua. Dunque Benedetto è un exemplum e Mosè, Eli-seo, Elia, come del resto l’apostolo Pietro e il re Davide sono il modello perenne; Be-nedetto incarna i loro ideali di vita. È quanto il discepolo di Gregorio ricava al termi-ne della sua entusiastica osservazione: «Questo uomo fu davvero ripieno dello spirito di tutti i giusti!»15. Si vede bene, perciò, che la vita di Benedetto in qualche modo illu-mina la vita dei santi biblici.

Possiamo dedurre dai due esempi sopra riportati l’indizio di un procedimento nar-rativo che ci rivela effettivamente il valore spirituale e la sfera mistica dei Dialoghi gregoriani: i fatti della vita di Benedetto raccontati da Gregorio da una parte sono il-luminati dalla parola di Dio, cioè dai fatti della vita dei santi biblici, e d’altra parte li illuminano, li inverano, li attualizzano, li ripresentano.

Per completare il quadro che stiamo osservando, vale la pena di leggere come Gregorio riprende l’ammirata lode del suo discepolo nei confronti dell’uomo di Dio, come la sviluppa e come in certo senso la corregge, precisandone l’autentico signifi -cato:

«Gregorio: Vedi, Pietro, questo uomo di Dio ebbe un unico spirito: quello di Co-lui che mediante la grazia della redenzione, riempì i cuori di tutti gli eletti. Di lui dice Giovanni: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”. Di lui an-che è scritto: “Dalla pienezza di lui, noi tutti abbiamo ricevuto”. I santi di Dio hanno potuto ricevere da Dio questi poteri, ma non poterono trasmetterli ad altri. L’unico che concesse ai discepoli il potere di far miracoli fu Colui che promise ai suoi nemici di dare se stesso come segno di Giona: e di fatto si degnò di morire sotto lo sguardo dei superbi e risorgere sotto lo sguardo degli umili, affinché quelli vi vedessero una cosa spregevole, questi invece un oggetto di venerazione e di amore. Per questa misteriosa

14 GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, 8, p. 71.15 GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, 8, p. 71.

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economia avviene che mentre i superbi vedono in lui solo l’umiliazione della morte, gli umili invece contemplano la sua gloriosa potestà sulla morte»16.

Al discepolo Pietro che supponeva che la grandezza di Benedetto stesse nell’illu-strazione di tanti spiriti, quelli dei giusti dell’AT e del NT - «Questo uomo fu davvero ripieno dello spirito di tutti i giusti!» -17, Gregorio propone un’altra prospettiva, che senza negare l’entusiasmo di Pietro, corregge e precisa la sua impostazione:

«Vedi, Pietro, questo uomo di Dio ebbe un unico spirito: quello di Colui che me-diante la grazia della redenzione, riempì i cuori di tutti gli eletti»18.

In pratica, Gregorio sta dicendo a Pietro che Benedetto non ha avuto la capacità di incarnare tanti spiriti, tanti ideali sublimi di vita, non ha mostrato l’eroicità di tutti i singoli santi della Bibbia. Benedetto ha avuto al contrario un unico spirito, quello di Gesù Cristo: Benedetto ha ricevuto da Cristo incarnato e risorto «il potere di fare mi-racoli». Del resto, dice Gregorio,

«I santi di Dio hanno potuto ricevere da Dio questi poteri, ma non poterono tra-smetterli ad altri. L’unico che concesse ai discepoli il potere di far miracoli fu Colui che promise ai suoi nemici di dare se stesso come segno di Giona»19.

Gregorio vuole di fatto istruire il suo discepolo circa l’unicità della figura di Cri -sto: i santi dipendono tutti da lui, incarnato e risorto; la santità non è una conquista operata da virtù umane e realizzata in fatti miracolosi, ma l’eccedenza della grazia della redenzione procurata da Cristo. Si noti al riguardo la finezza con cui Gregorio ricorda a Pietro che Cristo non si presentò con la forza dei miracoli ma diede «se stes-so come segno di Giona: e di fatto si degnò di morire sotto lo sguardo dei superbi e ri-sorgere sotto lo sguardo degli umili»20, quasi a voler dire che quello che conta non è la virtù o il miracolo del singolo santo, ma l’Unico che attraverso i santi si ripresenta e agisce.

Si potrebbero addurre molti altri esempi significativi per mostrare il valore spiri-tuale e la dimensione mistica della vita di Benedetto raccontata da Gregorio in coinci-denza, come sostengo, della citazione di testi biblici.

Ne troviamo uno, ancora durante uno scambio di battute tra Gregorio e Pietro. Lo riporto perché succede un piccolo incidente tra il maestro e il discepolo. Gregorio sta raccontando una serie di esempi che mostrano la capacità particolare di Benedetto di conoscere fatti accaduti anche se assente. Dopo il caso del fratello del monaco Valen-tiniano, che durante il viaggio per andare a trovare Benedetto viene ingannato dal dia-

16 GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, 8, p. 71.17 GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, 8, p. 71.18 GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, 8, p. 71.19 GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, 8, p. 71.20 GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, 8, p. 71.

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volo e smascherato al suo arrivo al monastero dal santo che ha seguito a distanza tutta la scena, Pietro osserva:

«Pietro: Ancora una volta, in questo fatto di trovarsi presente ad un discepolo as-sente, io vedo nell’uomo di Dio lo stesso spirito del Profeta Eliseo»21.

A questo punto troviamo la reazione delicata ma ferma di Gregorio:

«Gregorio: È bene, Pietro, che tu per adesso non m’interrompa, perché tu possa conoscere prodigi ancor più rilevanti»22.

In genere, comunque, il rapporto tra il maestro e il discepolo è molto buono e ric-co di valenza spirituale. Un altro bell’esempio lo trovo quando Gregorio parla del ri-torno di Benedetto alla vita solitaria, dopo il tentativo di uccisione ordito dai monaci del monastero di Vicovaro che prima lo avevano scelto come abate e poi non lo ave-vano sopportato come guida. Gregorio conclude il suo racconto drammatico dicendo:

«E se ne tornò alla grotta solitaria che tanto amava, ed abitava lì, solo solo con se stesso, sotto gli occhi di Colui che dall’alto vede ogni cosa.

Pietro: Non capisco bene l’espressione che hai detto: “abitava solo solo con se stesso”»23.

A questo punto Gregorio risponde diffusamente a Pietro, e gli spiega la scelta di Benedetto facendo ricorso ovviamente ai testi biblici. Anche Pietro cita un passo del NT e Gregorio lo riprende per soffermarsi sui diversi significati della vita solitaria24.

Per concludere questo excursus di testi dei Dialoghi gregoriani che mostrano la ri-levanza spirituale e la dimensione mistica delle narrazioni relative alla vita di Bene-detto, vorrei aggiungere che lo stesso Gregorio si mostra perfettamente consapevole della scelta del suo modulo narrativo. Lo si può vedere per esempio nel seguente te-sto:

«Pietro: Ti faccio una domanda: dobbiamo pensare che il servo di Dio aveva di continuo il dono della profezia, oppure veniva illuminato solo ad intervalli di tempo?

Gregorio: Io penso, Pietro, che lo spirito di profezia non illumina in modo conti-nuo la mente dei profeti. È scritto che lo Spirito Santo “spira dove vuole”; così deve anche ammettersi che spira quando vuole. Questa è la ragione per cui Natan, interroga-to dal re se gli era permesso di costruire il tempio, prima assentì e poi lo proibì. Così pure, anche per Eliseo quando vide la donna che piangeva e non conoscendone i moti-vi, disse al servo che voleva allontanarla: “Lasciala stare, perché si vede che ha una grande pena, ma non so quali ne siano le cause perché il Signore non me le ha ri-velate”. Se Dio dispone così, lo fa per misericordiosa provvidenza, perché ora conce-dendo e ora sottraendo il dono della profezia, eleva e allo stesso tempo custodisce le

21 GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, 13, p. 76.22 GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, 13, p. 76.23 GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, 3, p. 62.24 Cf. GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, 13, pp. 62-63.

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anime dei profeti, così che quando ricevono il dono percepiscano quello che Dio opera in loro, e quando vengono privati del carisma conoscano quanto valgono da se stessi.

Pietro: Le tue ragioni mi convincono che deve essere proprio così. Riprendiamo di nuovo i racconti del Padre Benedetto, se ancora ne hai in mente qualche altro»25.

Come si evince, si tratta di un dialogo sapienziale molto intenso e ricco tra mae-stro e discepolo. La Scrittura è sempre sullo sfondo, rimane l’alveo fondamentale, il contesto di riferimento essenziale per raccontare la vita di Benedetto e per capirne l’autentico significato. Gli uomini santi della Scrittura, da Natan a Eliseo, a tutti i pro-feti, fanno vedere quello che anche Benedetto fa vedere, cioè che è sempre e solo Dio ad operare nell’uomo:

«Se Dio dispone così, lo fa per misericordiosa provvidenza, perché ora conce-dendo e ora sottraendo il dono della profezia, eleva e allo stesso tempo custodisce le anime dei profeti, così che quando ricevono il dono percepiscano quello che Dio opera in loro, e quando vengono privati del carisma conoscano quanto valgono da se stessi»26.

L’ultimo esempio che vorrei portare per concludere l’argomento che stiamo trat-tando riguarda un ulteriore carisma di Benedetto, cioè la facoltà che aveva ed eserci-tava di visitare i suoi discepoli assenti e lontani durante il sonno mediante i sogni. Dopo il racconto di quanto successe in occasione della fondazione di un nuovo mona-stero, quello di Terracina, troviamo il seguente dialogo tra Pietro e Gregorio:

«Pietro: Io ho qualche dubbio. Vorrei sapere in che modo egli poté andare lonta-no ad istruire persone che dormivano e queste udirlo in visione e riconoscerlo.

Gregorio: Come mai, Pietro, rimani perplesso, esaminando come si è svolto il fatto? Lo capirai se ricorderai prima di tutto che lo spirito è di sua natura molto più agi-le del corpo. Difatti, per testimonianza della Scrittura, sappiamo che un profeta fu leva-to in alto in Giudea col pranzo che portava e in un batter d’occhio deposto in Caldea e poi, dopo aver ristorato col cibo un altro profeta, di nuovo si trovò in Giudea. Se Aba-cuc in un istante poté andare così lontano col suo corpo e portare anche un pranzo, per -ché meravigliarsi che il Padre Benedetto abbia ottenuto di recarsi in spirito a indicare le diverse necessità allo spirito di monaci addormentati? Come il profeta era andato col corpo a consegnare cibo corporale, così Benedetto fu presente con lo spirito per orga-nizzare cose di vita spirituale.

Pietro: La tua risposta ha cancellato, direi quasi con la mano, tutti i miei dubbi. Vorrei adesso sapere quale era il suo modo di parlare ordinario»27.

Più che negli altri esempi che ho selezionato precedentemente, in quest’ultimo emerge un elemento che può sembrarci oggi sorprendente: la assoluta mancanza di soluzione di continuità tra la storia sacra e la storia della Chiesa, ed in particolare tra la vita dei santi biblici e la vita dei nuovi santi, dopo i martiri, cioè la vita dei monaci. 25 GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, 21, pp. 84-85.26 GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, 21, pp. 84-85.27 GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, 22, p. 86.

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Non dovrebbe meravigliare il miracolo di Benedetto che visitava in sogno i suoi mo-naci se ricordassimo il trasferimento miracoloso di Abacuc col suo pranzo. Benedetto e Abacuc sono sullo stesso piano!

Conclusioni

A quasi cinquant’anni dalla venerabile morte di Benedetto, suo maestro e padre, Gregorio, da poco salito sulla cattedra di Pietro a Roma, rilegge la vicenda straordina-ria del fondatore del monachesimo occidentale. Lo fa in compagnia del suo discepolo Pietro, in un dialogo sapienziale che segue i canoni letterari del genere del dialogo platonico e ha come sfondo e riferimento continuo la Sacra scrittura. Raccontando a Pietro verba et res di Benedetto, Gregorio pensa e fa pensare il discepolo in termini biblici: le parole e le gesta di Benedetto prendono luce e illuminano parole e gesta dei grandi personaggi di cui la Bibbia ha testimoniato la fede e la carità. Lo scopo dello storiografo non è meramente storico ma teologico: crescere e fare crescere il lettore della sua opera, rappresentato dal discepolo Pietro, nella fede e nella conoscenza delle Scritture che si incarnano incessantemente nella storia della Chiesa, specialmente nel-la storia dei santi. La storia diviene così l’ambito in cui naturalmente si compiono pa-role e gesta vitali, comprensibili pienamente e attualmente soltanto a chi le elabora alla luce delle parole e delle gesta dei personaggi biblici.

Giuseppe SCIMÈ

[email protected]

Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna

Nota bibliografica sugli argomenti trattati

Sul monachesimo cristiano

GOBRY I., Storia del monachesimo/1. Le origini orientali: da sant’Antonio a san Basi-

lio. Il radicamento in Occidente: da san Martino a san Benedetto, (Les moines en occident (3 voll.). Vol I: De saint Antoine à saint

Basile: Les origines orientales. Vol. II: De saint Martin à saint

Benoît: L’enraciment, Arthème Fayard, Paris 1985-1987), Trad. dal fr. di A. Marchesi, Città Nuova, Roma 1991.

GOBRY I., Storia del monachesimo/2. Il tempo dell’espansione: da san Colombano a

san Bonifacio (Les moines en occident (3 voll.). Vol. III: De saint

Colomban à saint Boniface: Le temps des conquêtes, Arthème

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Giuseppe SCIMÈ, Il carattere edificante della «vita Benedicti» nel II libro dei Dialoghi di Gregorio Magno

Fayard, Paris 1985-1987), Trad. dal fr. di A. Marchesi, Città Nuova, Roma 1991.

PENCO G., Storia del monachesimo in Italia. Dalle origini alla fine del Medioevo.

Complementi alla storia della chiesa diretta da H. Jedin, a cura di E. GUERRIERO, [Già e non ancora 286], Jaca Book, Milano 31995.

Su Gregorio Magno

GODDING R., Bibliografia di Gregorio Magno (1890-1989), [Opere di Gregorio Ma-gno. Complementi 1], Città Nuova, Roma 1990.

Testo lat. del libro II dei Dialogi de vita et miraculis patrum italicorum con trad. gr.: PL 66,126-203.

Trad. ingl. del libro II: http://www.voskrese.info/spl/dia2.html

Trad. it. del libro II: GREGORIO MAGNO, Vita di san Benedetto e la Regola, Intr. di A. Stendardi, [Minima di Città Nuova], Città Nuova, Roma 62004.

Sulla vita di Benedetto

S. GREGORIO MAGNO, S. Benedetto da Norcia, Trad. di A. Valeriani, xilografie del sec. XVI, Libreria S. Scolastica, Subiaco 1964.

GRÜN A., Benedetto da Norcia (Benedikt von Nursia, Herder, Freiburg im Breisgau 2002), Trad. dal ted. di A. Aguti, [Sintesi], Queriniana, Brescia 2006.

PAMPARANA A., Benedetto. Padre di molti popoli, Pref. di M. Pera, [Medioevalia], Àn-cora, Milano 2006.

Sul secolo di Benedetto

SALVATORELLI L., San Benedetto e l’Italia del suo tempo, Giuseppe Laterza & figli, Bari 1929.

Sull’esegesi di Gregorio Magno

CREMASCOLI G., L’esegesi biblica di Gregorio Magno, [Interpretare la Bibbia oggi 3.6], Queriniana, Brescia 2001. In particolare: «I personaggi come simboli» pp. 69-75; «Bibbia e agiografia» pp. 127-134. Cremascoli stesso cita: MÄHLER M., «Evocations bibliques et hagiographiques dans la vie de saint Benoît par saint Grégoire», in Revue Bénédictine

83(1974)3-4, 398-429.

SIMÓN A., «Il metodo teologico di Gregorio Magno. Il processo plurisemantico della analogia metaesegetica», in L’eredità spirituale di Gregorio Magno

tra Occidente e Oriente, Atti del Simposio Internazionale “Gregorio

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Giuseppe SCIMÈ, Il carattere edificante della «vita Benedicti» nel II libro dei Dialoghi di Gregorio Magno

Magno 604-2004”, Roma 10-12 marzo 2004, a cura di G.I. GARGANO – Pontificio Ateneo “S. Anselmo” – Pontificio Istituto Orientale – Monastero di S. Gregorio al Celio, Il Segno dei Gabrielli, Negarine di San Pietro in Cariano (VR) 2005, pp. 153-180.

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Memorie Teologiche 1 (2008) 20

Sergio PARENTI, Testimonianza e presenza reale, Memorie Teologiche 1 (2008) 20-31

Sergio PARENTI

Testimonianza e presenza reale

Noi siamo salvi in quanto «tralci della vite», prolungamento dell’Incarnazione di Dio. Con la nostra condotta dobbiamo testimoniare questa nostra fede. Occorre dunque saper riconoscere Cristo che ci incontra tramite i nostri fratelli, realtà umana della Chiesa, nonostante i loro limiti.

Introduzione

Vorrei partire da uno dei significati più comuni della parola «testimonianza»: quello giuridico. Testimone è chi ha visto e può riferire in un processo. La falsa testi-monianza è uno dei peccati condannati dal decalogo, essa induce il giudice ad emette-re una sentenza ingiusta.

Il nome si estende a significare, più in generale, chi può riferire agli altri ciò che ha potuto osservare. Tali sono molte testimonianze storiche1. L’importanza sociale della conoscenza mediante comunicazione di notizia è molto più grande di quanto sembri: quasi tutte le verità più importanti della nostra vita non possiamo conoscerle per evidenza diretta. Chi sono i miei genitori? Quando sono nato? Mi ami davvero? Che intenzioni hai? ... Le scelte più importanti che la vita ci chiede di fare sono spes -so legate ad informazioni che dobbiamo chiedere ad altri. Non esiste molta possibilità di autarchia in questo campo. Per questo la menzogna, che sta al nostro intelletto

1 Il nome si estende pure ad effetti che ci fanno conoscere le cause, senza che vi sia comunicazione di notizia: per esempio le rovine di una città testimoniano la presenza di un certo popolo.

Memorie Teologiche http://www.memorieteologiche.it

Rivista on-line a cura del Dipartimento di Storia della Teologia

Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna (FTER, www.fter.it) – Bologna – Italy.

Memorie Teologiche 1 (2008) 21

Sergio PARENTI, Testimonianza e presenza reale

come il cibo adulterato sta al nostro metabolismo, è un danno immensamente grave, nonostante il costume attuale ritenga la bugia un danno irrilevante, mentre il timore di cibi che possano danneggiare la salute scatena sdegno e persino violenza.

Il nome si estende anche a significare chi si schiera a favore di qualcuno chia-mato in qualche modo in causa, e ancor più in generale a tutto ciò che può contribuire a far vincere qualcuno in una contesa. Noi diciamo che «depone a favore di qualcuno» non solo chi può riferire ciò che ha visto, ma anche chi semplicemente ne sostiene la causa, e diciamo che depongono a suo favore anche fatti o cose che produ-cano argomenti a suo favore.

Forse da quest’ultimo significato ne viene un altro molto comune nei nostri di-scorsi. Quando riveliamo agli altri le nostre intenzioni o i nostri ricordi, l’uditore non è in grado di verificare se sappiamo veramente quello che diciamo di sapere, e se in-tendiamo riferirlo senza mentire. Tuttavia, poiché le nostre azioni volontarie manife-stano in qualche modo le nostre intenzioni, esse diventano come prove: testimoniano, cioè, se è vero o falso quello che affermiamo. Per questo, davanti a chi sostiene di avere certe intenzioni, gli diciamo che non ci bastano le parole, ma vogliamo i fatti. Per questo Giacomo dice che con le sue opere mostrerà la sua fede 2. Così chiamiamo «testimoni» tutti coloro che con il loro agire ci manifestano un ideale, e chiamiamo «testimonianze» tali opere. Questo significato è talmente importante che chiamiamo per antonomasia «martire», cioè testimone, colui che dà la vita per la fede o anche per un ideale moralmente nobile. Gesù ci disse di distinguere i veri profeti da quelli falsi dai loro frutti3.

Tutti questi significati si possono intrecciare. Chi è testimone nel senso che, con i fatti della sua condotta, dimostra le sue vere intenzioni, diventa un testimone atten-dibile quando sostiene a parole queste sue intenzioni: la sua condotta depone a favore della sua sincerità, e la sua eventuale testimonianza in un tribunale acquista valore.

Questo insieme di significati fanno parte della nostra vita quotidiana, e la valu-tazione critica di ciò che conosciamo sulla parola altrui, per comunicazione di notizia, passa inevitabilmente per un accurato vaglio della testimonianza data dall’agire vo-lontario di chi ci parla: quali interessi gli stanno a cuore? Quali interessi può avere di mentire?

Ma la valutazione critica di ciò che conosciamo sulla parola altrui passa anche per un vaglio critico dei nostri stessi interessi. Sovente siamo mossi non da un deside-rio di verità, ma da altri motivi. Banale è l’esempio delle valutazioni delle dichiara-zioni di amore del fidanzato che fa una ragazza innamorata. Sovente esse sono assai 2 Gc 2,18.3 Mt 7,20.

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22 Memorie Teologiche 1 (2008)

Sergio PARENTI, Testimonianza e presenza reale

diverse da quelle che fanno le sue amiche o i genitori, più obiettivi e disinteressati. Di esempi se ne possono fare fin che si vuole: vale in qualche modo il proverbio che «non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire». Uno dei criteri biblici distintivi dei falsi profeti era appunto il fatto che essi dicevano alla gente le cose che la gente vole-va sentirsi dire.

1. Cose umane e mistero di Dio che si fa uomo

Tutti sappiamo che il IV Vangelo volentieri sovrappone a qualcosa di umano e tangibile qualcosa di misterioso, che non appartiene a questo mondo e che questo mondo non può accogliere. Tre esempi sono il discorso a Nicodemo4 sul fatto che oc-corre rinascere dall’alto a vita nuova, il discorso alla Samaritana5 sull’acqua di vita, ed il discorso a Cafarnao6 sul pane di vita. Una interpretazione puramente fondata sul-l’uso quotidiano del linguaggio, su un senso cioè puramente umano, porta ad un fraintendimento: un uomo vecchio dovrebbe rientrare nel seno di una donna; Gesù darebbe una sorgente eterna che risolverebbe il problema di andare alla fonte ad attin-gere; Gesù vorrebbe darci in pasto il suo corpo ed il suo sangue quasi fossimo canni-bali.

Il sangue e la carne, cioè l’umanità, da soli non giovano a nulla: l’uomo trova troppo duri questi messaggi per potervi credere. Occorre essere attratti dal Padre di Gesù, occorre rinascere. Il credere si accompagna in qualche modo con l’avere la vita nuova che Gesù vuole darci, vita eterna, divina. Ognuno ha interessi proporzionati alla sua natura. Il bambino ha interessi da bambino, l’adulto ha interessi da adulto, il delinquente ha interessi da delinquente. Per credere occorre avere interessi da Dio e non solo da uomo.

Tali interessi che lo Spirito pone nel cuore del peccatore lo purificano dagli in-teressi da peccatore (Grazia divina che risana), e lo rendono partecipe della vita nuo-va in Cristo, vita divina, in modo da poter avere interessi da Dio (Grazia che eleva).

Abbiamo visto solo tre esempi di sovrapporsi di umano e di mistero divino. Questo genere di verità apparentemente paradossali toccano l’umanità stessa di Gesù. Egli viene dal cielo, eppure la gente sapeva che era nato tra loro (Gv 7, 27-28); pur essendo un uomo si fa uguale a Dio (Gv 8,25-28.58), e dichiara di essere una cosa sola col Padre (Gv 10, 30. 38) e per questo la gente vorrebbe lapidarlo (Gv 8,59; 10, 33. 37-39). La glorificazione del Cristo si compie anche nella crocifissione (Gv

4 Gv 3,1ss.5 Gv 4,1ss.6 Gv 6,22ss.

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Sergio PARENTI, Testimonianza e presenza reale

12,23; 17,1), e nella sconfitta e nell’umiliazione egli vince il mondo (Gv 12,31; 16,33).

Non fa quindi meraviglia che questo sovrapporsi tocchi pure noi. Come tralci della vite, noi peccatori diventiamo il prolungamento della Incarnazione del Signore. Se in Gesù era duro credere che nella debolezza della natura umana fosse presente Dio, in noi è duro credere che nella ripugnante umanità di peccatori Dio continui a farsi uomo per incontrarci, chiamarci, annunciarci il suo Vangelo. Eppure Gesù chia-ma solo i peccatori ad essere suoi tralci. Ed è proprio per questo che il Vangelo è una buona notizia. Infatti è solo come tralci della Vite che noi siamo salvi.

Satana, invidioso7 che l’uomo potesse avere ciò che lui, per orgoglio, rifiuta, si è fatto nostro tentatore, invitandoci a seguirlo nella sua ribellione. Essendo riuscito nel suo intento, è diventato il nostro accusatore8: dove è finito lui, è giusto che finia-mo pure noi, che l’abbiamo seguito volontariamente. E Dio è un giudice giusto, che non fa preferenza di persona9, e non può chiudere un occhio per l’uomo senza essere ingiusto nei confronti di Satana. Il Padre ha così mandato il Figlio, fattosi uomo tra noi, a chiamarci. Era inevitabile che venisse rifiutato dall’umanità ribelle. Ma essen-dosi fatto uomo ha potuto chiedere a noi peccatori di essere i suoi tralci, per poter così dire: «Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato, siano con me dove sono io, ...» (Gv 17, 24), portandoci a casa sua, a godere del misterioso abbraccio che lo uni-sce al Padre nello Spirito. Questa è l’unica salvezza dell’uomo.

Questo significa che, come l’umanità di Gesù, anche noi rendiamo realmente presente Dio, a patto di essere in Grazia (cioè tralci vivi) e di comportarci in modo da essere perfetti come è perfetto il nostro Padre celeste. Significa che lo facciamo cono-scere facendolo incontrare tramite la nostra umanità, che però di suo resta incline al peccato. Ogni volta che un tralcio della vite prende una decisione incompatibile con l’essere tralcio, si stacca e diventa un tralcio morto: la sua umanità non è più segno e strumento della bontà divina, finché la misericordia del Signore non lo porta ad essere reinnestato, rinnovando nel sacramento della Penitenza la grazia ricevuta col Battesi-mo.

I fraintendimenti al riguardo sono tanti. Alcuni cercano Dio in persone apparen-temente impeccabili, superiori alla normalità (anche se il Signore ci ricorda che tutti siamo peccatori, e noi stessi professiamo di esserlo, forse solo con le labbra, all’inizio delle nostre cerimonie liturgiche). Altri cercano di incontrare Dio nella sua Parola scritta, oppure in luoghi e riti, ma rifiutando di incontrarlo attraverso l’umanità di chi

7 Sap 2,24.8 Ap 12,10.9 Sir 35,12; At 10,34; Ef 6,9.

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Sergio PARENTI, Testimonianza e presenza reale

tante volte pecca, facendo del male proprio a loro (è difficile accettare di incontrare Dio nel sacerdote o nel semplice fedele che ci hanno anche solo trattato sgarbatamen-te). Altri dicono di credere in Cristo, ma non nella Chiesa. Altri cercano di costruire una chiesa di perfetti escludendone chi non è tale...

Tutti questi fraintendimenti, come gli altri che abbiamo visto prima, avvengono perché non stiamo credendo anche quando diciamo di credere. Il capitolo 6 del Van-gelo secondo Giovanni, col racconto della moltiplicazione dei pani, che porta all’en-tusiasmo per Gesù, quando tutti si dichiarano credenti, e col successivo discorso a Cafarnao sul Pane di vita, che porta all’abbandono di Gesù, potrebbe essere una sorta di esempio della realtà di tutti noi.

2. Tralci della vite: una presenza reale

Come tralci della vite noi veniamo coinvolti nel processo tra Gesù ed il mondo che lo rifiuta. Veniamo coinvolti in quanto, diventando una cosa sola con Lui, anche noi ci troviamo ad essere accusati, condannati, perseguitati, messi a morte. Gesù insi-ste a lungo nel preparare i suoi discepoli a prendere parte al mistero della croce. Se ri -fiutassimo di prendervi parte, non potremmo entrare alle nozze dell’Agnello, nozze nelle quali, diventando una cosa sola con Lui ed entrando a far parte di quella miste-riosa famiglia che è la Santissima Trinità, noi siamo a tutti gli effetti la Sposa dell’A-gnello.

Questo partecipare al mistero della croce rende la nostra redenzione qualcosa di attivo, e non solo un essere salvati passivamente. Gesù ci salva facendoci salvatori. Del resto, che prolungamento saremmo della Incarnazione di Dio, se non partecipas-simo al ruolo di salvatore del Cristo? S. Paolo dice che in noi deve compiersi quello che manca ai patimenti di Cristo10, non per dire che tali sofferenze non bastino a me-ritare la salvezza dell’uomo, ma perché tutto il corpo del Cristo, la Chiesa, deve cre-scere nella misura della maturità che compete al suo capo11.

Gesù rende testimonianza a se stesso. Giuridicamente ciò non vale (Gv 5,31), ma moralmente è corretto, perché sa chi è, sa da dove viene e dove va (Gv 8,14). An-che noi, prolungando la sua Incarnazione, di fatto gli rendiamo testimonianza. Lui sa donde viene e dove va, nessuno è mai salito al cielo eccetto lui che è disceso dal cielo (Gv 3,13), lui, che viene dal cielo ed attesta ciò che ha visto ed udito, anche se nessu-no accoglie la sua testimonianza (Gv 3,31-32).

Però chi ne accetta la testimonianza certifica che Dio è veritiero (Gv 3,33). Let-teralmente si dovrebbe dire «sigilla» che Dio è veritiero, secondo l’uso, analogo al

10 Col 1,24.11 Ef 4, 13.

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Sergio PARENTI, Testimonianza e presenza reale

nostro porre una firma, di apporre il sigillo ad un documento legale come approvazio-ne12.

Anche se la nostra consapevolezza si fonda sulla fede che abbiamo in Lui, ed il nostro vedere si ferma all’umanità assunta dal Verbo, anche noi possiamo essere te-stimoni ed annunciare. Così Giovanni inizia la sua prima lettera:

Ciò che era fin dal principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo ve-duto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani han-no toccato, ossia il Verbo della vita (perché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo ve-duta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo.

Essere testimoni del Cristo comporta il prendere la sua parte nel processo tra lui ed il mondo che rifiuta di credergli, significa annunciare il Vangelo con la parola e con la vita. L’annuncio ha un valore che va al di là del trasmettere e rendere credibile un messaggio. Significa anche un rendere presente. L’umanità della Chiesa, prolun-gamento dell’umanità di Gesù, è anch’essa segno e strumento, cioè sacramento 13, che rende realmente presente Dio tra gli uomini. Tuttavia questo può coglierlo solo chi già crede. Chi non crede ancora non si rende conto della presenza di Dio 14, tuttavia nella condotta dei cristiani, dei «tralci», egli cerca un motivo di credibilità, analoga-mente a quando anche noi cerchiamo di distinguere il falso pastore da quello vero. Questo apre una importante riflessione sul nostro esser testimoni.

3. La credibilità umana dei tralci della vite e gli altri motivi di credibilità

Essere testimoni esige una nostra credibilità umana, che deve risultare tale a chi ancora non crede.

Vale la pena, a questo proposito, riflettere sui motivi di credibilità che hanno ac-compagnato la predicazione del Vangelo nel corso della storia della Chiesa. Lo fare-mo solo per grandi linee, consapevoli che questo è estremamente riduttivo nei con-fronti della complessità delle persone e della storia.

12 Cf. il commento a questo versetto in LAGRANGE, Évangile selon Saint Jean, Gabalda et C. Paris 1936; R.E. BROWN, Giovanni, commento al Vangelo spirituale, 2 voll., Cittadella ed., Assisi 1979.

13 CCC, n. 738; cf. n. 515.14 Questo comporta una situazione analoga a quella di chi, incontrando Gesù, si fermava

all’aspetto umano rimanendo perplesso, come Nicodemo, o la samaritana, o gli uditori del discorso sul pane di vita a Cafarnao.

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Sergio PARENTI, Testimonianza e presenza reale

L’Antico Testamento aveva lasciato come eredità culturale ai cristiani alcuni criteri per riconoscere il vero profeta dal falso profeta.

In Esodo, Mosè pone il problema a Dio, che lo incarica di andare dal popolo e dire che il Signore gli è apparso incaricandolo di liberarli dalla schiavitù dell’Egitto: «Ecco, non mi crederanno, non ascolteranno la mia voce, ma diranno: Non ti è appar-so il Signore!» (Es 4, 1).

La soluzione che Dio gli offre è quella dei segni, che Mosè opererà fino al pun-to che anche i maghi del Faraone riconosceranno: «È il dito di Dio» (Es 8, 15). Il se-gno dal cielo è come una garanzia, un sigillo (noi diremmo una firma autenticata), perché Dio conferma, con un’opera che solo Lui può compiere, l’autenticità del mes-saggio del profeta.

Un altro criterio si fonda su ciò che solo Dio può conoscere: esso viene dato nel Deuteronomio. Vale la pena notare che questo libro (al cap. 13) apre una problemati-ca nuova: quello dei falsi prodigi, che Dio permette (e dunque in realtà non sfuggono al suo controllo) per mettere alla prova la fedeltà del popolo. Il nuovo criterio è fon-dato su ciò che solo Dio può sapere, quindi il profeta solo da Lui può averlo saputo:

Se tu pensi: Come riconosceremo la parola che il Signore non ha detta? Quando il profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l’ha detta il Signore; l’ha detta il profeta per presunzione: di lui non devi aver paura. (Dt 18,22).

Questi criteri sono ampiamente presenti nel Nuovo Testamento, compreso il tema dei falsi prodigi, e sono condivisi anche da chi rifiuta la predicazione di Gesù, dicendo che egli scaccia i demoni perché amico del principe dei demoni15, o invitan-dolo a dimostrare di essere profeta indovinando chi lo stava percuotendo16. Non ci di-lungheremo quindi su questi argomenti. Tuttavia vale la pena notare l’importanza dei segni che accompagnano la predicazione iniziale, importanza implicita nella finale del Vangelo secondo Marco e nel racconto che gli Atti ci danno della prima predica-zione degli apostoli.

Vi è poi il criterio più legato alla persona che predica: «dai loro frutti li ricono-scerete» (Mt 7,16; cf. Mt 12,33; Lc 6,44).

Questo criterio è più legato alla persona di chi predica per due motivi.

15 Mt 9,34; 12,24; Mc 3,22; Lc 11,15.16 Mt 26,68; Mc 14,65; Lc 22,64. La traduzione italiana «indovina» del greco προφήτευσον,

usato dai Sinottici, non rende assolutamente questo aspetto. In latino si traduceva giustamente «prophetiza».

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Sergio PARENTI, Testimonianza e presenza reale

Il primo è che miracolo e profezia possono essere compiuti anche da chi ha il cuore lontano da Dio17. Questo non può accadere nel porre i frutti con un atto volon-tario. Indubbiamente tale condotta avviene con l’aiuto divino: i frutti dello Spirito elencati da Paolo (Gal 5,22) coincidono con la descrizione della condotta propria del-la carità (1Cor 13,4-6) e con la descrizione della sapienza che viene dall’alto fatta da Giacomo (Gc 3, 17-18). Tuttavia è una condotta verificabile da parte di chi non crede che, vedendo queste opere buone, rende gloria al Padre celeste di chi annuncia il Van-gelo (Mt 5,16).

Il secondo motivo è ovvio, anche se non sottolineato dai Vangeli, eccetto, a mio parere, quello secondo Giovanni18. Chiedere un segno dal cielo implica aver sfiducia nella credibilità umana di chi pretende di avere per noi un messaggio da parte di Dio. Il rammarico di Gesù quando non gli si crede sulla parola, presente nel IV Vangelo 19, a mio parere è spiegato da questo motivo, umanamente ovvio, e non dalle altre spie-gazioni che si possono leggere (cioè che Gesù preferirebbe una fede senza miracoli, senza pretese di prova razionale, ecc.: tutte spiegazioni che risentono della cultura moderna, estranea agli autori del testo sacro).

Il criterio dei miracoli rimase vivo nell’attenzione dei cristiani, soprattutto per via dei maestri gnostici e dei loro presunti miracoli. Ireneo ci ha lasciato una descri -zione dettagliata di questo fenomeno nell’Adversus haereses. Gli Atti di Pietro ci pre-sentano la sfida tra Simon Pietro e Simon Mago20, una sfida a colpi di miracolo. La politica imperiale accentuò il problema. Giulia Domna, moglie di Settimio Severo, aveva fatto scrivere da Filostrato una Vita di Apollonio di Tiana21, presentandolo come santo taumaturgo, vero contraltare di Cristo. I cristiani si ponevano dei proble-mi al proposito, e li troviamo nelle Quaestiones et responsiones ad ortodoxos, alla

17 La profezia la compie anche Caifa, condannando a morte Gesù (Gv 11,49-52), ma soprattutto è Gesù stesso, dopo aver dato il criterio di riconoscere i falsi profeti dai frutti, che dice: «Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità» (Mt 7,22).

18 Cf. S. PARENTI, Comunicazione, credibilità di Cristo, fede. La conoscenza per comunicazione di notizia e la credibilità umana di Cristo in rapporto all’atto di fede, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1991, pp. 95-97; 140-143.

19 Per esempio: 4,48; 10,37-38; 14,11. Ma il discorso sarebbe assai più vasto, tanto che Boismard e Lamouille ne hanno fatto uno dei criteri distintivi di una fase redazionale del Vangelo: Jean II B.

20 L. MORALDI, Apocrifi del Nuovo Testamento, vol. II, pp.1012-1017.21 FILOSTRATO, Vita di Apollonio di Tiana, a cura di D. DEL CORNO, Adelphi, Milano 1978.

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Sergio PARENTI, Testimonianza e presenza reale

quaestio 2422. Possiamo rilevare come nessuno metta in dubbio i miracoli di Apollo-nio, e nemmeno la sua statura morale e filosofica (il che allora equivaleva anche a scientifica) dicendo che li compiva coll’aiuto del demonio23. Solo si fa notare che egli usava la sua scienza per ottenere ciò che sembrava prodigioso agli ignoranti. Solo Dio non dipende da un materiale per fare le sue opere. Tutte le creature, demoni compresi, possono solo trasformare qualcosa di preesistente. Su questo punto si fonda la teolo-gia sul miracolo che anche oggi la Chiesa usa nel discernimento.

Se però leggiamo i padri apostolici, notiamo come il criterio prevalente per rico-noscere il vero profeta resta quello dei frutti. In particolare i sangue dei martiri è la te-stimonianza per eccellenza. Ma pure tutte le opere buone che caratterizzano la con-dotta cristiana testimoniano di fronte al mondo pagano la verità del Vangelo.

In una omelia sull’inizio degli Atti degli Apostoli24, San Giovanni Crisostomo ricorda come le manifestazioni straordinarie dello Spirito fossero state necessarie so-prattutto all’inizio della predicazione. Dio farebbe come il contadino che, appena piantato un alberello, all’inizio lo circonda di cure straordinarie, poi, man mano che questo cresce e prende forza, lo lascia crescere senza bisogno di cure particolari.

Il Medioevo ci presenta una società cristiana. Il problema dei motivi di credibi-lità diventa decisamente secondario, in un ambiente dove nessuno mette in dubbio l’autenticità del Vangelo. Questo ci permette di capire la risposta che Tommaso D’A-quino dà al problema, nel suo Commento al Credo, risposta che ci lascerebbe assai perplessi, oggi. Dice:

Se poi tu dici, che nessuno ha visto operare miracoli: rispondo: è noto che tutto il mondo adorava gli idoli e perseguitava la fede di Cristo, come riferiscono anche le sto-rie dei Pagani; ora invece tutti sono convertiti a Cristo, e sapienti e nobili e ricchi e po-tenti e grandi per mezzo della predicazione di semplici, di poveri, e di pochi che predi-cavano Cristo. Dunque, o ciò accadde miracolosamente, o no. Se miracolosamente, hai già la risposta. Diversamente, dico che non vi poté esser maggior miracolo che il mon-do intero si sia convertito senza miracoli. Perciò, non dobbiamo cercare altro.25.

Questo motivo è lo stesso che usa Dante, quando San Pietro lo interroga sulla sua fede (Paradiso, XXIV, 106-108).

22 MIGNE, PG VI, coll. 1270-1271. Questo anonimo opuscolo dovrebbe essere del V secolo. Cf. AGOSTINO, De Trinitate, III, 8.

23 Questo l’avrebbe fatto la statua di Apollonio: cf. FILOSTRATO, Vita di Apollonio.24 GIOVANNI CRISOSTOMO, In Inscriptionem Actorum, II, PG LI, coll. 81-82.25 TOMMASO D’AQUINO, Esposizione del Simbolo degli Apostoli, cioè del “Credo in Deum” ,

Prol. n. 9; trad. A. REDIGONDA, in Sacra Doctrina, ESD, Bologna, n. 77 (1971) 112.

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Sergio PARENTI, Testimonianza e presenza reale

Le dispute sulla grazia che caratterizzarono la fine della scolastica e l’inizio del-la scolastica barocca, con la divisione tra scotisti e tomisti, portarono ad un dibattito che si protrasse fino alla prima metà del secolo XX. Per rendersene conto, basta leg-gere il trattato De Revelatione per ecclesiam catholicam proposita, del P. Reginaldo Garrigou-Lagrange26. Questa disputa in realtà era viva solo tra specialisti, e la Chiesa non ha preso posizione in merito: entrambi i modi di interpretare l’analysis fidei, cioè il ruolo che la ragione naturale ha nel riconoscere la ragionevolezza della fede 27, sono compatibili con le definizioni che il concilio Vaticano I diede in proposito nella costi-tuzione Dei Filius.

Cresceva invece il peso della filosofia moderna, che dopo Kant vedeva la reli -gione e la fede come rientranti nelle condizioni di possibilità di tutto ciò che appare all’uomo, cioè rientrante in quei limiti della ragione di cui si occupa la filosofia. Pro-prio questo influsso della filosofia moderna domina le preoccupazioni del Magistero fino al Vaticano II. Quest’ultimo concilio, cambiando la posizione della Chiesa da un atteggiamento di chi si difende dall’errore ad un atteggiamento di chi dialoga con chi la pensa diversamente, ha inaugurato il periodo attuale.

I motivi di credibilità sono diventati attuali nella modernità per via della nega-zione della possibilità di miracoli o cose analoghe, presente nella teologia protestante o cattolica legata alla filosofia post-kantiana. Ma anche per il fenomeno dell’ateismo come corrente di pensiero, largamente diffusa forse per la prima volta nella storia a noi nota.

Il crollo delle ideologie e la sfiducia nella filosofia sono il sottofondo culturale della teologia dei nostri tempi. Resta assai sentito il problema dell’autenticità di una testimonianza. Giovanni Paolo II, nella Fides et Ratio, ha ricordato l’importanza della fiducia umana (n. 33), per l’uomo e per la sua razionalità stessa. In effetti, Gesù non ha mai detto di scrivere i Vangeli o gli altri libri sacri del Nuovo Testamento, ed il ca-none stesso di questi libri, nonché la garanzia che Gesù avrebbe impedito che la sua Chiesa mutasse il Vangelo nel corso della storia, ci vengono soprattutto dalla credibi-lità umana di chi ci ha insegnato il Vangelo, piuttosto che da fatti miracolosi che dif-ficilmente abbiamo modo di constatare di persona, o da una ricerca sulla storia della Chiesa che pochi conoscono in modo adeguato. E più di una volta il rifiuto della fede da parte di persone di notevole serietà intellettuale e morale è esplicitamente motivato 26 R. GARRIGOU-LAGRANGE, De Revelatione per ecclesiam catholicam proposita, ed. Ferrari,

Roma 31931, 2 voll.27 Per gli scotisti è sufficiente una conoscenza naturale dei motivi si credibilità, per la scuola

tomista è necessario un aiuto soprannaturale, che faccia riconoscere che chi parla è Dio in quanto autore del mondo soprannaturale: una sorta di capacità di riconoscere, ma sempre per fede, che chi parla è proprio il Padre celeste.

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Sergio PARENTI, Testimonianza e presenza reale

dalla cattiva testimonianza dei cristiani che hanno incontrato. Il criterio più importan-te, attualmente, mi sembra quello per cui veniamo valutati dai frutti.

4. La credibilità umana della nostra testimonianza

La valutazione della credibilità umana si fonda sulla valutazione degli interessi di chi ci parla. Non potendo conoscere direttamente i segreti della coscienza altrui, possiamo cercar di conoscerli unicamente dall’agire volontario e consapevole dell’al-tro, in quel modo che viene usato da sempre da parte dei genitori e degli educatori per conoscere i ragazzi loro affidati.

Presupposto a questa valutazione è la consapevolezza critica del nostro esser nel vero. Di Dio si dice che non si inganna e non inganna, e questo viene dato per sconta-to, mentre il problema è sapere se il messaggio è autenticamente divino. Nella credi-bilità umana non si può dire che l’uomo non si inganna e non inganna una volta per tutte. Ma si può dirlo in questo o quel caso particolare.

Perché una persona che ci risulta sincera possa risultarci anche veritiera, non potendo spesso verificare se veramente abbia constatato quanto ci riferisce di sapere, dobbiamo fare appello alla sua consapevolezza critica. La domanda di rito è «Sei pro-prio sicuro?».

Non possiamo qui metterci a discutere le posizioni filosofiche che pretendono di sostenere l’inattendibilità di qualsiasi sicurezza del genere. Il discorso ci porterebbe inevitabilmente lontano. Accontentiamoci di riflettere sul fatto che tale dichiarazione di impossibilità di una sicurezza del genere dichiara pure l’insicurezza della dichiara-zione stessa. Accontentiamoci pure di riflettere sul fatto che, in qualsiasi tribunale, un testimone che si dichiara veramente sicuro e poi risulta aver detto il falso viene accu-sato di falsa testimonianza, il che non sarebbe giusto se l’uomo non potesse avere una sicurezza critica.

In conclusione, il problema della verifica si riduce alla verifica della sincerità, della volontà di essere veritiero. E tale verifica si fa partendo dalle azioni volontarie e consapevoli del testimone.

Poiché chi sa di mentire cerca di farsi credere, ma personalmente non crede a quello che dice, da sempre chi riceve da noi l’annuncio del Vangelo cerca di metterci alla prova per vedere se noi, per primi, crediamo veramente a ciò che insegniamo. Le azioni che mostrano la nostra fede rendono testimonianza.

Su quali verità di fede veniamo messi alla prova?

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Sergio PARENTI, Testimonianza e presenza reale

Nei paesi occidentali la libertà di religione non ci pone di fronte a persecuzioni legate ai misteri principali della fede. Si hanno piuttosto occasioni di testimonianza legate alla morale cristiana.

Questo tipo di testimonianza, legato più ai valori morali comuni ad ogni uomo che ai misteri propri della fede cristiana professati nel «Credo», è indubbiamente uno dei compiti principali del cristiano nella situazione occidentale concreta di oggi.

Tuttavia si tratta di testimonianze che possiamo dare, in genere, solo in situazio-ni particolari.

Resta invece una testimonianza di cui si parla poco, e che riguarda un mistero proprio del messaggio del Vangelo: il mistero della Chiesa come sacramento. Questa testimonianza dobbiamo darla tutti e sempre.

Su questo mistero di presenza reale siamo tutti interrogati da chi non crede. Dobbiamo darne testimonianza. Questo non è possibile se non dimostriamo con i fatti che noi per primi siamo capaci di incontrare e riconoscere il Cristo nel fratello che pure è peccatore. Le divisioni, le incapacità di dialogo tra noi cristiani rendono im-possibile questa testimonianza.

Mi sembra inutile dare esempi, perché ne abbiamo tanti tutti i giorni. Le nostre divisioni, le nostre lotte, sono il migliore argomento per chi sostiene che neppure noi crediamo a quello che la Chiesa insegna.

Gesù disse: «Da questo tutti saranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). Noi dobbiamo dimostrare con i fatti che crediamo che il Signore continui ad incontrarci attraverso il fratello, quando è in Grazia di Dio (e questo non lo sappiamo mai con certezza), nonostante lo stesso fratello si comporti sovente non da fratello nei nostri confronti.

Qui indubbiamente si gioca una parte molto importante per la nostra testimo-nianza nel mondo attuale.

fra Sergio Parenti O.P.

[email protected]

Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna

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Paolo BOSCHINI, La chiesa tra autorità e libertà. Una lettura antropologica, ermeneutica e sociologica di: Lutero, «I concili e la chiesa», Memorie Teologiche 1 (2008) 32-39

Paolo BOSCHINI

La chiesa tra autorità e libertà.

Una lettura antropologica, ermeneutica e sociologica di:

Lutero, I concili e la chiesa

Quest’opera di Lutero, composta negli ultimissimi anni della sua vita, contiene il tentativo di superare la contrapposizione tipica dell’ecclesiologia occidentale tardo-medievale tra primato papale e conciliarismo.1 Lutero ripercorre la storia dei concili cristiani per dimostrare che l’autenticità della chiesa non dipende dalla forma della sua organizzazione, ma dal principio da cui essa trae origine. All’inizio della Rifor-ma, nelle Novantacinque Tesi (1517) Lutero si era pronunciato a favore di una rifor-ma della chiesa da attuarsi attraverso una prassi di tipo conciliare. Allora egli non aveva dubbi: il modello evangelico di chiesa è di tipo assembleare. Ora invece l’ac-cento cade sull’essenza spirituale della chiesa, che esiste solo là dove la grazia ha su -scitato la fede in Cristo e non invece dove c’è un’istituzione – fosse anche fraterna e democratica – che porta questo nome. Cambia così la sua idea di chiesa. Nei primi anni della Riforma, Lutero aveva sostenuto che la chiesa esiste virtualmente in Cristo e rappresentativamente nel concilio: ciò significa che la dimensione visibile e istitu-zionale della chiesa è manifestazione della presenza salvifica di Cristo nel mondo. Da vecchio, Lutero cambia la logica dei propri pensieri e considera la chiesa come una realtà paradossale, che esiste dove non c’è altro che attesa e speranza. Come a dire: la

1 M. LUTERO, I concili e la chiesa, a cura di G. FERRARI, Claudiana, Torino 2002.

Memorie Teologiche http://www.memorieteologiche.it

Rivista on-line a cura del Dipartimento di Storia della Teologia

Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna (FTER, www.fter.it) – Bologna – Italy.

Memorie Teologiche 1 (2008) 33

Paolo BOSCHINI, La chiesa tra autorità e libertà

chiesa c’è solo là dove la giustizia di Dio non c’è ancora. Il mistero della chiesa di-venta tutt’uno con il mistero del Dio crocifisso: la chiesa esiste sub contraria specie. Con un gioco di parole si potrebbe dire: c’è dove non c’è (ancora).

1. Quale chiesa per quale Vangelo?

Ne I concili e la chiesa, Lutero ha in mente una chiesa consapevole della pro-pria fragilità, che nella fede si sente sostenuta solamente dal miracolo della grazia. Questo è il senso della definizione di chiesa che si incontra in questo testo: «una co-munione dei santi, vale a dire un’assemblea o una riunione di persone che sono cri -stiane e sante».2 L’elemento sociologico – «adunanza di popolo» (ecclesia: At 19,32) – non è sufficiente a caratterizzare la chiesa. Quando si è detto che essa è una comu-nità ben organizzata o che è animata da spirito religioso, non si ancora detto nulla del-la sua vera identità. Per essere la chiesa di Cristo, essa deve essere «sancta, catholica, christiana».3 La chiesa si definisce a partire dall’alto, dalla grazia gratuita e trascen-dente, che giustifica i peccatori davanti a Dio. Ciò evidenzia un elemento teologico decisivo: la fede è la sovradeterminazione dell’umano, perché vi aggiunge un signifi-cato che è ad esso naturalmente estraneo.4 A differenza di quanto sostiene Ferrari,5

questa ecclesiologia non nasce solo dalla disillusione procurata dai continui rinvii dell’annunciato concilio sulla riforma della chiesa. Io attribuisco questa ecclesiologia spirituale e trascendente soprattutto alle conseguenze della grande sconfitta personale di Lutero durante la Riforma: mi riferisco ai conflitti – politicamente vinti, ma spiri-tualmente e teologicamente persi – contro Muntzer e Karlstadt, in cui la chiesa rifor-mata ha perduto la propria libertà (perché ha avuto bisogno del braccio armato dei principi tedeschi) e la propria passione per la pluralità (perché ha cercato di imbriglia-re dentro a una gabbia dogmatica i moti rivoluzionari contro i soprusi del potere poli-tico e contro le ingiustizie sociali del tempo). La perenne fragilità delle chiese cristia-ne, anche di quella nata dalla teologia luterana della giustificazione per fede, consiste nel perseguitare i suoi profeti.

Tutte le chiese pretendono di essere autenticamente cristiane; alcune di esse avanzano addirittura la pretesa di essere l’unica chiesa di Cristo. Per Lutero, solo un criterio teologico può distinguere quale chiesa è autenticamente cristiana e quale non lo è: questo è il criterio dell’autenticità spirituale, da cui si ricava la verità sull’essere

2 LUTERO, I concili e la chiesa, 303.3 LUTERO, I concili e la chiesa, 304.4 LUTERO, I concili e la chiesa, 308, dove a partire da At 15,9 si dice che la fede in Cristo

«rinnova cuore, anima, corpo, opere e l’intero essere, scrivendo i comandamenti di Dio non su tavole di pietra, ma in cuori di carne».

5 Cf. G. FERRARI, «Introduzione», in LUTERO, I concili e la chiesa, 23-26.

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Paolo BOSCHINI, La chiesa tra autorità e libertà

della chiesa.6. Con un metodo tipicamente medievale, Lutero cita a favore della pro-pria tesi due Auctoritates, allora indiscusse: Agostino7 e Nicola di Lyra8 (il maggior esegeta biblico del basso medioevo). Da qui fa discendere una conclusione, a cui at-tribuisce il valore di evidenza empirica indiscutibile: il papa, la gerarchia, il clero del-la chiesa romana non sono il «popolo santo cristiano», perché «non credono in Cristo».9 La controprova che la chiesa romana è ecclesia diaboli, sta nel fatto che essa si autoproclama chiesa, invece di ricevere questo titolo dalla Parola di Dio accol-ta e vissuta nella fede. La temporalità della chiesa è l’ulteriore e inequivocabile segno della sua origine falsa e diabolica.10 In questo, il papa ha ereditato l’antica tradizione pagana latina, che pensava Roma come superiore a ogni altra nazione della terra. Se il papa credesse veramente nella Parola rivelata, saprebbe che la cattolicità è credere in Cristo che ha abbattuto ogni differenza tra i popoli e ha esteso la santità a tutti. 11 Vi-ceversa, la chiesa romana vive in una situazione di paganesimo pre-cristiano; è idola-tra e narcisista: adora se stessa invece di Dio. Per questo, essa è un mondo rovesciato, che mette le apparenze al posto della verità. La chiesa del papa sussiste sul presuppo-sto della sistematica mistificazione della verità.12 È una macchinazione diabolica, che usurpa la centralità di Cristo.13 A Roma la Parola viene predicata contro la Parola.14

«Il papa è (si ritiene) molto più dotto di Dio stesso».15 È un impostore, che ruba il po-sto alla grazia divina e pretende di sostituirla decidendo egli stesso chi si salva e chi si danna. Come ogni usurpatore, esercita il potere in modo dispotico: è potenza senza sapienza.

2. La lettera e lo Spirito

Il carattere paradossale dell’ecclesiologia dell’ultimo Lutero emerge chiaramen-te anche in riferimento al problema del rapporto con la tradizione. Da una parte infatti

6 Cf. LUTERO, I concili e la chiesa, 304.7 Cf. LUTERO, I concili e la chiesa, 320: «La chiesa è generata, alimentata, nutrita, fortificata

dalla Parola di Dio».8 Cf. LUTERO, I concili e la chiesa, 355-356. Cf. Ibidem, 348-349: «Non si deve valutare la

chiesa sulla base degli alti gradi ecclesiastici, ma sulla base della gente che crede in modo retto».

9 Cf. LUTERO, I concili e la chiesa, 304-305.10 Cf. LUTERO, I concili e la chiesa, 357: «il diavolo non compie altro che opere temporali».

Cf. Ibidem, 303.11 Cf. LUTERO, I concili e la chiesa, 308.12 Cf. LUTERO, I concili e la chiesa, 312-313.13 Cf. LUTERO, I concili e la chiesa, 349-355.14 Cf. LUTERO, I concili e la chiesa, 328-329.15 Cf. LUTERO, I concili e la chiesa, 332.

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Paolo BOSCHINI, La chiesa tra autorità e libertà

Lutero rivendica il primato del presente sul passato: con un aforisma dei nostri giorni il suo pensiero potrebbe essere sintetizzato nel ‘la chiesa siamo noi’. In polemica con i circoli cattolico-riformatori erasmiani, che invocavano un ritorno della chiesa all’e-poca patristico-conciliare, Lutero afferma con forza il ruolo insostituibile della Scrit -tura, attraverso cui oggi Dio parla alla chiesa e la fonda nella fede. La Bibbia è l’oggi della chiesa, è la «reliquia» (sacramentum), il segno esterno e «pubblico» della Parola interiore di Dio, il santo crisma che è lo Spirito con cui Dio unge interiormente e con-sacra a sé i cristiani.16 Attraverso la Scrittura, lo Spirito santo si manifesta come il vero e l’unico riformatore della chiesa. Questa sacramentalità della Scrittura esalta l’esperienza concreta dei cristiani: nel vedere e nel sentire che la Parola è predicata, hanno il segno tangibile che essa è accolta, creduta e vissuta e che così essa continua a vivificare la chiesa e il mondo.17 La fede si rende visibile nella predicazione. D’altra parte, la Bibbia ha una storia, è appunto una «reliquia» e ci è pervenuta attraverso una storia, quella della fede vissuta e comunicata generazione dopo generazione. La chie-sa dipende dalla storia della predicazione e della riflessione teologica, e non solo dal -l’atto presente del comunicare la fede.

Lutero ha un bel da dire – in polemica con ciò che avevano predicato Muntzer e Karlstadt – che lo Spirito non può essere separato dalla lettera e che l’elemento stori-co-materiale non va disgiunto da quello eterno-divino.18 Ma questo dualismo rischia di spezzare in due la chiesa (chiesa della tradizione e chiesa del presente) e di divide-re il credente tra la fedeltà alla buccia (l’esteriorità oggettiva della Scrittura) e al noc-ciolo (l’interiorità soggettiva della fede nella Parola di Dio). Abbiamo qui il germe di una scissione che negli ultimi due secoli sta tormentando la teologia evangelica (e di riflesso quella cattolica): quella tra il Gesù della storia e il Cristo della fede biblica. 19

16 Cf. LUTERO, I concili e la chiesa, 320.17 Cf. LUTERO, I concili e la chiesa, 316.18 LUTERO, I concili e la chiesa, 355-356: Dio «stesso (e non un angelo) vuole agire per loro

tramite con lo Spirito Santo. (…) Egli vuole compiere quest’opera, a consolazione e beneficio di noi uomini poveri, deboli, timorosi, non direttamente, con lo sfolgorante splendore della sua Maestà disvelata». Cf. Ibidem, 359: «In questi segni, come sentiamo e sappiamo, Dio stesso vuole agire, ed è per mezzo della sua acqua, della sua Parola, della sua mano, del suo pane e del suo vino, che vuole santificarti e salvarti in Cristo, che ha acquistato per noi questi doni e ci ha dato lo Spirito Santo del Padre per compiere quest’opera».

19 M. KAEHLER, Il cosiddetto Gesù storico e l’autentico Cristo biblico, a cura di S. SORRENTINO, D’Auria, Napoli 1992. A. VON HARNACK, L’essenza del Cristianesimo, a cura di G. BONOLA, Queriniana, Brescia, 1980. Cf. R. CIAPPA, «Gesù storico e biblico», Protestantesimo 48(1993) 195-202. P. BOSCHINI, «Volontà, scienza storica, fede. Il dibattito sul Gesù storico all’inizio del ‘900», in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 4(2000) 47-71.

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Paolo BOSCHINI, La chiesa tra autorità e libertà

Per cercare di sanare questa scissione, che si allargherà non solo alla religiosità ma anche alla cultura del mondo occidentale moderno, Lutero impiega con acutezza uno strumento antico e che grazie a lui entra a pieno titolo nel modo moderno di intendere la fede e più in generale tutte le esperienze umane: il circolo ermeneutico. La distanza tra la Scrittura, che viene dal passato, e il popolo di Dio, che vive nel presente, viene superata nel momento in cui entrambe sono ricondotte alla loro origine: esse sono di Dio e da lui provengono.20 Questa coappartenenza teologica fonda la circolarità tra il senso (la Parola) e il significato (la chiesa).21 Per cui, ciò che è massimamente ogget-tivo – la conformità alla S. Scrittura22 – diventa l’elemento massimamente soggettivo, nel momento in cui la fede viene presupposta come ricezione, acquisizione, interio-rizzazione della norma scritturale. Questa fusione di oggettivo e soggettivo, di Parola e fede, non nasce da un’idea teologica, né da un dogma, né da un’organizzazione: viene invece dalla santità della vita (prodotta dalla fede nella grazia divina), quale ri-splende attraverso gli atteggiamenti e le opere dei cristiani.23 Ancora una volta, Lutero affida all’esperienza concreta della fede il compito di rendere presente nella storia la Parola eterna di Dio. È degno di nota che R. Bultmann, a metà del XX sec., costruisca il proprio programma di demitizzazione-interpretazione esistenziale del vangelo a partire da questo modo luterano di intendere la circolarità ermeneutica, che comincia e finisce dall’esistenza credente.24

20 LUTERO, I concili e la chiesa, 317: «La Parola di Dio non può restare senza popolo di Dio e inversamente il popolo di Dio non può restare senza la Parola di Dio». Lo stesso dicasi per gli altri sacramenti: cf. la remissione dei peccati, o potere delle chiavi (cf. Ibidem, 324). La Parola predicata, come tutti gli altri sacramenti (ad es., il battesimo) non appartengono a colui che li amministra, se non in quanto egli stesso attraverso di essi si fa discepolo di Cristo (cf. Ibidem, 321-323).

21 Nel XX sec. questo tema è stato ripensato in chiave fenomenologica da. RICOEUR P., «Prefazione a Bultmann», in P. RICOEUR, Il conflitto delle interpretazioni, a cura di A. RIGOBELLO, Jaka Book, Milano 1977, 406-410.

22 LUTERO, I concili e la chiesa, 315, «La Parola di Dio è santa e santifica tutto ciò con cui viene a contatto, anzi è la santità stessa di Dio».

23 Cf. LUTERO, I concili e la chiesa, 310: è il tema – frequente anche nella pubblicistica cattolica odierna – della santità dei giorni feriali. Ma Lutero la intende come espressione della radicalità evangelica, tant’è che la considera assolutamente identica alla santità della persecuzione e del martirio (cf. Ibidem, 346).

24 R. Cf. BULTMANN, «Il problema dell’ermeneutica», in R. BULTMANN, Credere e comprendere, a cura di A. RIZZI, Queriniana, Brescia 1977, 583. Per una comprensione approfondita di questo elemento portante dell’ermeneutica bultmanniana e per le discussioni che essa ha suscitato nella teologia evangelica del XX sec., rimando a P. BOSCHINI, Escatologia senza storia. Storicismo e antistoricismo nel pensiero di R. Bultmann, Clueb, Bologna 1988, 49-93.

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3. Un’antropologia religiosa

Ne I concili e la chiesa, incontriamo la stessa sottolineatura della dimensione oggettiva dell’esperienza credente anche per quanto riguarda l’antropologia. Come sappiamo, il giovane Lutero – per intenderci quello che nel 1515 a Wittenberg si era cimentato con il commento all’Epistola ai Romani – aveva più volte sottolineato il primato della libertà personale del credente rispetto a qualsiasi autorità collettiva isti -tuzionalizzata (concilio, università, gerarchia ecclesiastica), tanto che G.W.F. Hegel aveva eletto il giovane monaco agostiniano come fondatore e araldo della modernità. Nelle opere della tarda maturità, assistiamo a una significativa correzione di rotta: il credente non è un superuomo, capace di svincolarsi da ogni autorità; ma è più sempli-cemente una creatura restituita alla sua somiglianza originaria con il Creatore. Secon-do Lutero è diabolico pensare che la religione possa dare alla creatura «nuova forza e potenza»:25 la santificazione non è trasformazione dello status ontologico dell’uomo nel senso di un Übermensch, ma è restaurazione, nel senso di un pieno ripristino della condizione ontologica corrotta dal peccato. La grazia non cambia l’uomo potenzian-dolo; ma lo fa ridiventare se stesso. Aveva colto bene questo aspetto del luteranesimo maturo W. Goethe, con la sua tesi secondo cui l’uomo era, è e sarà sempre lo stesso. Anche A. von Harnack, uno dei principali interpreti del luteranesimo moderno, ab-braccia questa idea dell’uomo che «rimane sempre uguale a se stesso».26

Possiamo leggere dietro a questa antropologia fissista la preoccupazione di Lu-tero per il mantenimento e il consolidamento dell’ordine sociale: ciò è confermato dalla sua affermazione circa l’importanza decisiva dell’educazione, che è seconda solo alla predicazione della parola evangelica. La scuola deve formare i futuri uomini di chiesa, deve «fornire alla chiesa una ricca e ampia provvista di persone di cui ser-virsi». L’educazione innesca così un processo circolare di socializzazione: chiesa-scuola-società-stato-chiesa. Questo processo è voluto da Dio, per dare stabilità alle istituzioni umane, impedendo la loro corruzione. Il teocentrismo della società luterana serve a impedire che l’uomo rigenerato dalla grazia precipiti di nuovo nel disordine del peccato e nell’anarchia sociale. Per questo la società dev’essere organizzata se-condo «tre gerarchie stabilite da Dio», che Lutero chiama le «tre forme del diritto di -vino, naturale, mondano»: la casa, la città, il governo.27 Esse rispondono alla volontà del Creatore, che non si è limitato a dare l’uomo la vita e la socievolezza, ma gli ha dato anche l’organizzazione razionale della convivenza sociale. Alla base di questa antropologia della dipendenza dell’uomo da Dio, c’è un’ontologia che definirei ge-nealogica: l’essere dell’uomo (e con esso di tutta la realtà) si definisce per Lutero a 25 Cf. LUTERO, I concili e la chiesa, 351.26 HARNACK, L’essenza del cristianesimo, 75. 27 Cf. LUTERO, I concili e la chiesa, 367-370.

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partire dalla sua condizione originaria, arcaica e non in base agli esiti escatologici del suo futuro. Il senso vero del presente è quello di essere già-da-sempre-stato: il passato non è l’estasi temporale che precede l’adesso, ma l’eternità che già da sempre precede il tempo. Prima, ovvero alla base del divenire dell’uomo e del mondo c’è l’eternità di Dio.

4. Questioni per il presente

Con questa riflessione sull’eternità e il tempo abbiamo toccato la questione de-cisiva del cristianesimo, che vive in «un mondo divenuto adulto» – per dirla con Bon-hoeffer – che ha imparato a fare a meno dell’«ipotesi di lavoro» Dio.28 Le chiese cri-stiane di oggi sono attrezzate per questa sfida? Il buon senso e il rigore scientifico in-vitano a astenersi da ogni tipo di giudizio valutativo. Non posso però tacere la mia simpatia per la tesi del sociologo austro-americano P. Berger, secondo cui il tradizio-nalismo e la chiusura al nuovo – e io aggiungo: la chiusura alle nuove forme di razio-nalità e di comunicazione – ancora dominanti in molte chiese, finiscono per farle di-ventare cittadelle assediate, veri e propri «ghetti» con il complesso d’inferiorità tipico di ogni «minoranza culturale».29 Da questo punto di vista, la denuncia di Lutero con-tro il cattivo tradizionalismo della chiesa romana e di buona parte dei cattolici sembra cogliere nel segno: quella cattolica è una tradizione che non comincia dal principio, da Gesù, ma da metà, ovvero dal dogma e dall’istituzione ecclesiastica. Non di rado, anche oggi, i cattolici – per onestà devo dire: noi cattolici italiani – brillano per la loro paura di fronte alle origini cristiane. Il Concilio Vaticano II ha inteso riportare la chiesa cattolica alla sua identità originaria e proprio per questo la sua ricezione sta in-contrando tante difficoltà: questo evento epocale nella storia del cristianesimo univer-sale (e non solo di quello cattolico) rischia di finire nella soffitta delle nostre sagre-stie, perché ha voluto modificare la chiesa esistente in nome della chiesa del Nuovo Testamento e delle prime generazioni cristiane. È lo stesso principio ermeneutico che ha ispirato la riflessione di Lutero sulla Chiesa e i Concili. Il vero tradizionalismo si esplica in questo continuo rifarsi al Nuovo Testamento come norma assoluta dell’esi-stenza cristiana e della prassi ecclesiale.

Il tradizionalismo di Lutero si esprimeva anche nel pensare la subordinazione del potere temporale al potere spirituale e quindi nel considerare l’autorità politica se-colare come parte integrante della chiesa, proprio come avvenne in occasione della convocazione e dell’organizzazione del Concilio di Nicea (325). Da questo punto di vista, E. Troeltsch ha parlato di Lutero e della sua Riforma come di un’espressione

28 Cf. D. BONHOEFFER, Resistenza e resa. Lettere e appunti dal carcere, a cura di A. GALLAS, Paoline, Cinisello B. 1988, 355-356, 398, 416, 421-423.

29 Cf. P. BERGER, Il brusio degli angeli, a cura di A. PRANDI, Il Mulino, Bologna 1970, 35-37.

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Paolo BOSCHINI, La chiesa tra autorità e libertà

della «civiltà ecclesiastica in senso medievale», perché pensa il cristianesimo a partire dal concetto di autorità e sottomette «società, istruzione e scienza, economia e diritto» a «norme soprannaturali».30 G. Ebeling ha però chiarito in modo convincente che il principio di autorità di Lutero deve essere inteso in senso esclusivamente teologico e non politico o culturale: l’uomo si comprende in modo adeguato quando si sente crea-tura di Dio. L’essere dell’uomo non è la sua indipendenza, la sua solitudine di fronte al proprio destino; l’essere dell’uomo è la sua relazione originaria con Dio; la sua li-bertà è comunicazione e comunione di vita: in una parola, l’uomo è coappartenenza. 31

«La fede non può essere altro che il coraggio dell’amore (…) sulla base di una pro-messa di amore, la quale è liberatrice».32 Per vivere in un mondo divenuto mondano questa comunione di vita con Dio; ovvero, per comunicare la fede in un mondo sem-pre più pluralista, i cristiani e le loro chiese devono praticare l’amore per le differen-ze, che si traduce in una prassi politica di riconoscimento e di fraternità: ognuno è se stesso solo nel momento in cui viene riconosciuto e accettato nella propria alterità. Questo non è solo un principio fondamentale dell’etica civile: il rispetto. Ma è anche il criterio-guida della relazione tra i discepoli di Cristo, che credendo in un Dio creati-vo riconoscono la pluralità come la loro più vera e inesauribile ricchezza.

Paolo BOSCHINI

[email protected]

Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna

30 E. TROELTSCH, Il protestantesimo nella formazione del mondo moderno, a cura di G. SANNA, La Nuova Italia, Firenze, 1974, 24.

31 G. EBELING, Lutero. Un volto nuovo, a cura di G. BEARI, Morcelliana, Brescia 1970, 240: «In quanto appartenente a Dio, partecipa della sua libertà».

32 EBELING, Lutero, 247.

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Luciano LUPPI, Madeleine Delbrêl. Testimone di fortezza spirituale, Memorie Teologiche 1 (2008) 40-66

Luciano LUPPI

Madeleine Delbrêl

Testimone di fortezza spirituale

Premessa: cenni biografici 1

Madeleine Delbrêl nasce in Francia nel 1904. La famiglia, gli amici e gli inse-gnanti dell’infanzia e della giovinezza la portarono all’agnosticismo: A quindici anni ero strettamente atea e trovavo ogni giorno il mondo più assurdo. A 17 anni il suo manifesto di vita è Dio è morto... viva la morte2.

Toccata dalla testimonianza di un gruppo di cristiani, a 20 anni Madeleine si converte

Scelsi ciò che mi sembrava il miglior modo di tradurre il mio cambiamento di prospettiva: decisi di pregare. Dopo, leggendo e riflettendo, ho trovato Dio, ma pregan-do, ho creduto che Dio mi trovasse e che è realtà vivente, e che lo si può amare come si ama una persona3.

1 Per un profilo complessivo, vedi L. LUPPI, «Madeleine Delbrêl (1904-1964), guida al discernimento come “obbedienza creativa” nei deserti contemporanei», in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 11 (2007) n. 21, 141-174.

2 «Dio è morto… viva la morte», in: Noi delle strade, Gribaudi, Torino 1988, 57-59. (D’ora in poi siglato NS).

3 «L’apostolato opera di giustizia. I. Riflessioni sulla giustizia» (08.03.1957), in: Provocazione marxista ad una vocazione per Dio. Ivry: 1933/1957, Jaca Book, Milano 1975, 171.

Memorie Teologiche http://www.memorieteologiche.it

Rivista on-line a cura del Dipartimento di Storia della Teologia

Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna (FTER, www.fter.it) – Bologna – Italy.

Memorie Teologiche 1 (2008) 41

Luciano LUPPI, Madeleine Delbrêl. Testimone di fortezza spirituale

Convertita, pensa di entrare in Carmelo, ma in seguito alla malattia del padre decide di restare vicino alla famiglia.

A 23 anni è certa di fare la volontà di Dio restando a lavorare per lui nel mondo. È dunque alla piena vita laica che ella si orienterà, grazie anche all’incontro con don Jaques Lorenzo che sarà il suo confessore per 30 anni e che la avvicina ad una nuova lettura del Vangelo per cui lei dirà:

Il Vangelo è diventato non solo il libro del «Signore Vivente» ma anche il libro del Signore da vivere4.

Attorno a lei si forma un piccolo gruppo di giovani donne, attirate dal suo stile di vita, che scelgono di vivere una vita comune evangelica, con cui aiutarsi ad essere radicalmente disponibili al Signore e alla sua carità, senza strutture o obiettivi aposto-lici speciali. L’esperienza si installerà nella periferia sud di Parigi, a Ivry-sur-Seine, che costituirà per 30 anni la sua scuola di vita e la sua terra di missione. In questo sobborgo parigino, abitato prevalentemente da operai e trasformato dagli amministra-tori comunisti nella «città-laboratorio» del comunismo francese, Madeleine viene a contatto con il problema della povertà, delle ingiustizie sociali e con la speranza di ri-scatto che l’ideologia marxista infonde nel mondo proletario.

Il «più prossimo» donatole dalla Provvidenza diventano quindi gli operai e le famiglie di Ivry, segnati dalla povertà, ma soprattutto da quella miseria che per espe-rienza sa bene essere la più grande, quella di una vita senza Dio. Per il fatto di averlo incontrato si sente in debito verso tutti.

Muore improvvisamente il 13 ottobre 1964. Attualmente, conclusa la fase dio-cesana, la causa del processo di beatificazione è stata introdotta alla Congregazione per le cause dei Santi a Roma.

Tra le molte chiavi con cui potremmo rivisitare la ricca spiritualità della Delbrêl il tema della «fortezza» sembra particolarmente fecondo. Una tale pista è indiretta-mente suggerita dall’amico Jacques Loew, da lei considerato «padre-fratello», che de-finiva Madeleine la forte speranza fatta donna. In effetti, la situazione particolare nella quale Madeleine si è trovata a vivere – il suo impegno pieno di determina-zione e costante verso i poveri della regione parigina, il suo sostegno alle giovani donne che hanno voluto seguire la sua stessa vita di vangelo, e questa vita di sem-plice vangelo vissuta nel cuore di contesti e avvenimenti fortemente segnati da spinte spesso contrastanti con ogni riferimento religioso – obbliga a sviluppare il nostro tema a partire da una sorta di inventario dei principali momenti in cui tale forza interiore si è resa manifesta e l’orizzonte teologale nel quale si è dispiegata.

4 Lettera a Monique Joubert: 11.07.1956.

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Luciano LUPPI, Madeleine Delbrêl. Testimone di fortezza spirituale

1. Fortezza «provata»

1.1. Nelle prove familiari e nelle malattie

Madeleine «était tout à la fois sensibile, vulnérable à toute souffrance, et d’une force incroyable dans les épreuves»5.

In effetti, nelle prove familiari come nelle malattie, affrontava con grande for-tezza le fatiche, non limitandosi a sopportare con pazienza, ma cercando di sostenere, incoraggiare e rallegrare quanti erano nella sofferenza, spesso fino a dimenticare se stessa.

Questa pazienza piena di abnegazione e di amorevole fortezza appare con evi-denza nei confronti di suo padre Jules, a partire dalla progressiva e inarrestabile ceci-tà, che lo aveva costretto a ritirarsi dal lavoro prima del tempo (autunno 1923 - inizio 1924). A cominciare dall’inverno 1925-26, quando, di fronte ai rischi addirittura di paralisi corsi dal padre, preferì tenere per sé la cosa, per non allarmare i genitori 6. Poi, dal 1926 in avanti, quando, anche per le conseguenze della forzata inattività e dell’as-soluta dipendenza che la malattia gli procurava, il signor Delbrêl cominciò ad assu-mere atteggiamenti eccentrici, con effetti devastanti per la piccola compagine familia-re, al punto che dopo appena pochi mesi la madre era sull’orlo dell’esaurimento ner-voso7. Madeleine faceva il possibile per aiutare entrambi i genitori, fino a trascurare la sua salute8. Tra l’altro ci fu un periodo, all’inizio del 1928, in cui, benché duramen-te provata dalla situazione familiare, arrivò a scrivere anche due lettere alla settimana all’amica Louise Salonne per sostenerla, sapendola molto ammalata e propensa alla depressione e allo scoraggiamento.

5 J. LOEW, La vie à l’écoute des grands priants, Paris 1986, 171 : «Era contemporaneamente sensibile, vulnerabile ad ogni sofferenza e di una forza incredibile nelle prove» (la traduzione è mia).

6 Cf. Lettera a L. Salonne del luglio 1926, in: M. DELBRÊL, Abbagliata da Dio. Corrispondenza 1910-1941, Gribaudi, Milano 2007, 52. «Conosco per esperienza questi periodi in cui tutto sembra coalizzarsi per falciare il coraggio. [...] Quando questi momenti neri sono in più appesantiti da un dovere di gioia da donare agli altri, divengono stranamente pesanti da portare e ci si affatica molto nell’attesa di vederne sorgere di più chiari» (Lettera a L. Salonne: 11.06.1926, in: Abbagliata da Dio, 49).

7 «Non contare troppo su di me in questo momento, perché, te lo ripeto, ho una prova pesante sulle spalle» (Lettera a L. Salonne: 08.10.1926, in: Abbagliata da Dio, 58). «Dal 1926 al 1933 vita nello stile “Grand-Guignol” [= teatrale, eccessivo, terrificante] di mio padre in quel momento» (Nota a Jean Durand: 20.01.1955 [= VI.7]).

8 Questo fino al punto da piombare nell’ottobre ’26 in un «esaurimento completo» (cf. Lettera a L. Salonne dell’autunno 1926, in: Abbagliata da Dio, 60), che la costrinse a diverse settimane di assoluto riposo.

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Luciano LUPPI, Madeleine Delbrêl. Testimone di fortezza spirituale

Mostrò poi una forza d’animo non comune e un’infinita pazienza continuando regolarmente a scrivere o a rendere visita a suo padre anche dopo la separazione tra i due genitori, dal 1935 alla morte nel 1955. Madeleine passava da lui senza mai ri-spondere alle sue continue provocazioni9, che rendevano quegli incontri, salvo qual-che eccezione, sempre quanto mai penosi10. E tutto questo anche in momenti in cui – come nel 1954-1955 – era totalmente «dilaniata» tra le urgenze familiari11, le necessi-tà apostoliche, quelle delle Equipe e le sue esigenze di riposo12, mostrando una tena-cia e una forza d’animo incredibili.

1.2. Nel cammino vocazionale e nella vita comunitaria

Madeleine ha testimoniato una grande fortezza anche dal punto di vista vocazio-nale, proprio per la sua volontà di restare sempre docile personalmente e comunitaria-mente alle luci e agli impulsi successivi dello Spirito Santo, senza mai venir meno alla propria vocazione, promuovendo la fedeltà dell’Equipe con uno stile impegnativo di corresponsabilità e di franchezza, senza autoritarismi, con una carità a tutta prova, accettando i distacchi dolorosi e le incomprensioni pungenti che il compito di respon-sabile le arrecava.

Questo si fece evidente agli inizi, tra il 1931 e il 1933, quando la sua intuizione vocazionale cominciò a profilarsi come un progetto comunitario di «una vita di Van-gelo integrale e realista» in pieno mondo. Madeleine, sostenuta certo da don Lorenzo, mostrò un grande coraggio, perché si trattava di dare vita a qualcosa di nuovo nella Chiesa, che non aveva a propria disposizione modelli collaudati a cui ispirarsi. Tale coraggio forte e resistente emerge ancora di più se si pensa che, mentre si andava chiarendo la fisionomia della comunità, in diversi membri del gruppo continuava a permanere una grande indecisione e lei stessa era rimasta «tormentata» fino all’ulti-mo dalla situazione dei suoi genitori, che sembravano in procinto di separarsi.

9 Cf. «Souvenirs de Clémentine Laforet», in: Dossier Témoignages [= VIII.A]; vedi anche Lettera al sig. Delbrêl: 17.09.1934, in: Abbagliata da Dio, 168s.

10 A gennaio del 1955, parlando col suo medico delle «vacanze» presso suo padre, Madeleine le definiva i «periodi più pesanti dell’anno [...] con “festeggiamenti” vari... ma sempre assicurati!» (Nota per il medico: 20.01.1955). E nei giorni della sua agonia aveva scritto: «Mio padre era veramente una macchina di dolori per lui e per tutti coloro che furono suoi» (Lettera ad amici: 11.09.1955).

11 «e io sono “figlia unica”!» (Lettera a p. Jean Guéguen: 03.10.1954).12 Annota Jean Durand: «Mlle Delbrêl me parle de son père; elle est écartelé entre le désir

d’aller le plus vite possible au Chaupre, la nécessité où elle a été de se reposer et les obligations qui entraîne son entreprise avec Mgr. Lallier pour la brebis égarée. [...] Pour le travail sur la question apostolique, Mgr. Lallier l’a vivement encouragée à la faire paraître sous forme de manifeste, signé M. Delbrêl (23 nov.)» (Journal Jean Durand: 03.12.1954).

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Luciano LUPPI, Madeleine Delbrêl. Testimone di fortezza spirituale

Per la fedeltà alla sua vocazione non esitò a metter in atto distacchi umanamente e apostolicamente dolorosi, prima dalla sua promettente attività letteraria e dalla sua famiglia così amata e provata, poi, nel 1945, dal lavoro al Comune di Ivry:

Tutte le volte in cui a causa della «Carità» ho lasciato delle cose che mi stavano profondamente a cuore, non ho giudicato utile dirvelo. Questa volta ritengo utile dirve-lo perché non cammino solo sul mio cuore ma su dei seri interessi utili a certe anime, utili alla «Carità», utili alla Mission de France. È solo perché davanti a Dio sono re-sponsabile di voi che lascio tutto questo. Lo faccio perché è la volontà di Dio, senza la minima attrattiva13.

Leggendo questo passo è difficile sottovalutare la durezza del distacco da quei quotidiani contatti con l’amministrazione comunale, da cui erano nati legami profon-di e occasioni uniche di evangelizzazione14.

Quando poi – intorno al 1955 – il gruppo visse quella che Madeleine chiamò «l’era della confusione», manifestò una eccezionale forza d’animo e una pazienza a tutta prova. Innanzi tutto col dichiararsi pronta anche a lasciare il suo incarico di re -sponsabile delle Equipe, se la sua salute così provata avesse dovuto costituire un osta-colo15 e poi sostenendo una dolorosa situazione di incomprensione e amara solitudine, soprattutto in occasione del ritiro a Bagneux alla fine di settembre del 1955, proprio mentre avrebbe avuto bisogno di un po’ di comprensione e di affetto ad appena pochi giorni dalla morte del padre16. 13 Réunion d’Anciennes: 29.07.1945, p. 2.14 Con questa decisione Madeleine rinunciava di fatto anche a una carriera politica che altri

vedevano sicura: «ce retrait surprend tout le monde, à commencer par le directeur général des Services sociaux à la Préfecture de la Seine qui pensait la voir entrer dans la vie publique au niveau de responsabilités politiques plus hautes. Elle en avait, selon lui, la capacité et, pensait-il, le charisme» (C. DE BOISMARMIN, Madeleine Delbrêl 1904-1964. Rues des villes chemins de Dieu, Nouvelle Cité, Montrouge 2004, 104, che rinvia alla testimonianza di Ch.J. REVERDY, «Madeleine Delbrêl»: Cahiers chrétiens de la fonction publique 1966/3, 87-107).

15 «Per quanto mi riguarda, la questione è più semplice. Se la mia salute divenisse un ostacolo al tipo di responsabilità che devo assumere di fronte al gruppo, ciò non scaverebbe un fossato poiché vi resterei comunque... fintanto che conservasse la mia stessa vocazione, senza la quale non avrei pensato di prendere una strada sulla quale dovevo trovarvi » (Lettera alle compagne dell’Est: 12.02.1955).

16 Nonostante le vicende legate al lutto familiare e alcuni fastidiosi problemi di salute, la sua sollecitudine per la «Carità» era stata commovente, preoccupata com’era di non far cadere sul gruppo le questioni finanziarie legate alla famiglia, e di fare il possibile per preparare il ritiro. Tuttavia le sue vicende familiari e le difficoltà sul piano della salute avevano fatto mancare la sua presenza concreta e il suo servizio di attenzione e di riflessione in quanto «antenna» del gruppo ne aveva risentito. Lei stessa si rende conto che questa carenza di

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Tuttavia, in quei mesi in cui sperimentò una così grande spogliazione da tutti gli appoggi su cui normalmente poteva contare, dall’affetto della madre, alla compren-sione e stima del gruppo, alla profonda sintonia con don Lorenzo che si mostrava di-sorientato da quello che capitava nel gruppo, e mentre la sua stessa salute era dura-mente logorata, Madeleine non si chiuse amareggiata in se stessa. Al contrario, facen-do appello al coraggio e alla fortezza che vengono dalla fede17, continuò a preoccu-parsi degli altri, a cominciare da Clémentine Laforêt ed Eva Loucan18 e conservò ver-so ogni compagna un atteggiamento di grande rispetto e stima, mostrando la sua forte capacità di unire pazienza costruttiva e franchezza 19. A conferma di ciò possiamo ci-

discernimento aveva prodotto una pericolosa «anemia» dell’autentica vita di libertà e favorito un clima di «incertezza» (cf. Lettera a Mons. Veuillot: 16.09.1955). Quando però arriva a Bagneux, Madeleine prova un inatteso e penoso senso di estraneità, per l’assenza di qualsiasi manifestazione di calore e di affetto da parte delle compagne. I discorsi di sfiducia nei suoi confronti, alimentati da una del gruppo, avevano condizionato un po’ tutte, sicchè, vedendo arrivare Madeleine tutta affaticata proprio insieme a quella compagna, nessuna si muove per salutarla. Nessuna sa più cosa fare. Madeleine è arrivata in un deserto, come arrivasse in mezzo ad estranei, e porta con grande forza d’animo e senza reazioni arrabbiate o risentite quell’atmosfera imbarazzata, esitante, ambigua, proprio mentre avrebbe avuto bisogno di un po’ di comprensione e di affetto per le sue vicende familiari. Sei mesi dopo, scrivendo alla compagna che aveva diffuso quei discorsi di sfiducia, ricorderà così queste dolorose giornate di ritiro: «exemple la retraite où j’arrivais comme un chien mouillé courant au feu, que j’avais beaucoup travaillé, réfléchie, prié, où pour m’épauler, sans doute et me laisser souffler, je me suis trouvée comme un corps étranger, voyant Mr l’abbé quand la retraite a été finie, dans l’impossibilité de même ébaucher ce que j’avais à dire, et crevant de solitude et de chagrin dans ma chambre, aussi bien les jours d’ “échanges” que les jours de prière...» (Lettre á Mirette [= Hélène Manuel]: 07.04.1956). (il testo è sottolineato nell’originale).

17 «Questo mistero dell’umiliazione costituisce forse per la creatura di Dio dotata di ragione una prova più rude che il fallimento. I punti di riferimento normali vi scompaiono. È senza dubbio il solo mistero che può condurre a un’obbedienza assolutamente gratuita alla volontà di Dio e a un amore gratuito degli uomini, le cui contraddizioni fanno sì che non ci si possa più attendere nulla» («Imparate da me che sono mite e umile di cuore»: Comunità secondo il Vangelo, Gribaudi, Torino 1996, 97; sigla CV).

18 Ad esse, infatti, intende lasciare il necessario per assicurare il loro avvenire, in riconoscenza per quanto hanno fatto per i suoi genitori. Per questo motivo decide di vendere tutta l’eredità, senza tenere nulla per sé (cf. Journal Jean Durand: 08.10.1955; 17.10.1955; Lettera al sig. Fleiser: 26.09.1960).

19 Madeleine riconosce come autentica la fedeltà al dono di sé a Dio e alla propria vocazione delle sue compagne, nonostante le critiche sotterranee che permangono, e continua a interessarsi a ciascuna disinteressatamente, fedele a uno dei tratti che lei stessa delineerà come caratteristico del cristiano, «uomo insolito»: «Non è fratello solo di quelli che lo

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tare la significativa osservazione che troviamo nel Journal di Jean Durand, ingegnere in pensione, amico di Madeleine e del gruppo, col quale collaborava soprattutto sul piano tecnico-organizzativo, e che dal 1950 aveva cominciato a frequentare la casa della madre di Madeleine e rue Raspail almeno una o due volte alla settimana: «de-puis six ans, je n’ai pas entendu un seul mot désagréable pour une compagne, quoique j’aie eu beaucoup d’occasions d’arriver impromptu»20.

1.3. Nel servizio professionale durante la guerra

In un periodo eccezionale come la guerra Madeleine testimonia una fortezza che si manifesta non solo nella sua riconosciuta competenza professionale e nella sua ge-nerosità, ma in una straordinaria capacità di tenere insieme i vari aspetti e impegni della sua vita, andando fino in fondo in ciascuno di essi e affrontando con un incredi-bile coraggio le continue emergenze.

Promosse con grande intraprendenza, infatti, una collaborazione tra tutte le for-ze vive di Ivry, al di là delle appartenenze politiche ed ideologiche, aiutando a supera-re l’inevitabile diffidenza tra la delegazione prefettizia (subentrata all’indomani dello scoppio della guerra) e il personale del comune in gran parte comunista. La sua lucida e forte determinazione nella difficile e delicata azione di coordinamento nell’evacua-zione di Parigi – organizzata nell’ottobre 1939 – nel timore di un bombardamento della città, e successivamente – nel maggio 1940 – nel controesodo massiccio dall’Est e dal Nord verso la capitale, all’indomani dell’invasione tedesca, fu pubblicamente ri-conosciuta dalla Croce Rossa nazionale nel marzo 1941: «La S.S.B.M [Croix-Rouge Française] en souvenir des services rendus par Mademoiselle Delbrêl lui accorde le droit de porter sur le ruban de la Société l’insigne de Vermeil». Lo stesso Presidente del Comitato di Ivry della Croce Rossa, in una lettera di accompagnamento, si con-gratulò con Madeleine, riconoscendo «les services inappréciables que vous avez

amano, ma dei suoi nemici; non solo sopporta i colpi, ma non si allontana da chi lo colpisce. Non solo non rende male per male, ma perdona, dimentica; non solo dimentica, ma rende bene per male» (GC 135s). Testimonianza significativa di questo atteggiamento è la sua lettera scritta a Hélène M. già il 7 aprile 1956, in cui emerge la sua libertà da ogni risentimento, la sua forte capacità di unire pazienza costruttiva e franchezza. Infatti, dopo averle assicurato davanti a Dio una totale fiducia nei suoi confronti, la invita a tenere presenti alcune tendenze da correggere (Lettera a Mirette [= Hélène Manuel]: 07.04.1956). Madeleine mette qui all’opera la convinzione che gran parte degli ostacoli nella vita comune è costituita da «inceppamenti umani», i quali vanno individuati e nello stesso tempo relativizzati, evitando di lasciarsi prendere dalla propria «suscettibilità» («Mezzi difficili ma veri di unità» del 1956: CV 82-83).

20 Journal Jean Durand: 04.05.1956: «in sei anni, benchè in molte occasioni sia arrivato all’improvviso, non ho mai udito una sola parola sgradevole verso una compagna».

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rendus à nos malheureux compatriotes si éprouvées au cours des tristes événements que nous venons de vivre»21.

Pur con tutti gli impegni sopravvenuti con la guerra, Madeleine continuò a se-guire il più possibile i problemi delle varie comunità della «Carità» e delle famiglie di tutte le compagne, sollecitando atteggiamenti di fortezza e di fede di fronte ai pericoli dei continui bombardamenti e alle dure restrizioni, in quei momenti in cui la possibi-lità della morte era ogni giorno una drammatica realtà22.

Con grande coraggio decise poi di restare al suo posto ad Ivry anche quando, al-l’annuncio dello sbarco degli Alleati e all’approssimarsi del momento della Libera-zione, alto era il timore di possibili rappresaglie, mentre cresceva il senso di umana inutilità e di impotenza di fronte alla penuria di mezzi tecnici23.

Quando il 26 agosto 1944, il giorno dopo il bombardamento che aveva grave-mente colpito Ivry, si era subito messa a disposizione di Venise Gosnat, presidente del comitato locale di Liberazione e nuovo responsabile della municipalità provviso-ria, si vide riconosciuta non solo la competenza e la dedizione con cui aveva operato dall’inizio della guerra, ma indirettamente anche la rettitudine dei suoi comportamen-ti verso quanti, in particolare militanti comunisti, erano stati perseguitati dal regime di Vichy24. D’altra parte, quando, «dopo la guerra, venne il doloroso momento delle epurazioni, con coraggio e in nome della carità che è senza frontiere, non esitò ad an-dare in carcere a visitare e confortare un amministratore della vecchia delegazione prefettizia, accusato di essere collaborazionista, nonostante il rischio che questo avrebbe potuto comportare anche per lei»25.

1.4. Sul crinale lacerante della missione

Un altro terreno di esercizio della fortezza spirituale fu per Madeleine il trenten-nale confronto con i non credenti e i comunisti di Ivry. Spinta dalla carità evangelica a cercare di superare gli steccati ideologici e le chiusure sociali, in diverse occasioni

21 Lettre du Président de S.S.B.M.: 03.03.1941 [= VI. «cassettina di legno»] : «La Croce Rossa Francese conferisce alla Signorina Delbrêl, in ricordo dei servizi compiuti, il diritto di portare sul nastrino della Società l’insegna in Argento dorato» (lettera di conferimento dell’onorificenza). «[...] gli inestimabili servizi che Lei ha reso ai nostri sfortunati compatrioti così provati nel corso dei tristi avvenimenti che abbiamo appena vissuto» (dalla lettera del presidente).

22 Cf. Lettere a membri del gruppo: 27.01.1944; 06.02.1944; 30.04.1944; 22.06.1944.23 Cf. Lettera a Christine e Paulette: 19.06.1944.24 Cf. Provocazione marxista a una vocazione per Dio, Jaca Book, Milano 1975, 20. 45.25 Da un dialogo di L. Luppi con Christine de Boismarmin, compagna di Madeleine, del 3

febbraio 1989.

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offrì la sua collaborazione al Comune, soprattutto in situazioni di emergenza o quan-do era in gioco la giustizia, ma sempre nella chiarezza e senza lasciarsi annettere dal Partito comunista e dalle sue organizzazioni. Alla ricerca della massima vicinanza evangelica univa una lucida consapevolezza delle tentazioni specifiche che questa prossimità comportava e della fortezza richiesta per affrontarle:

Se un giorno verrà, vorrei tanto parlarle della questione del Marxismo. È così im-pegnativo e pericoloso essere con il Cristo in mezzo a loro. È così difficile amarli non per quello che hanno ma a causa di ciò di cui mancano, e altre volte di non sfuggirli fuggendo il male. Hanno un tale bisogno che li si ami senza amare ciò che essi amano, un tale bisogno che il Vangelo sia loro portato sia con ciò che ci rende amabili, che con ciò che ci fa odiare e con ciò che ci fa ridicolizzare. E attraverso ciascuno di loro la più piccola Epifania può andare così lontano a causa del «corpo politico» che essi costitui-scono26.

Sotto questo profilo è esemplare la fortezza di Madeleine non solo nel rapporto con i non credenti, ma anche nel suo impegno a far conoscere negli ambienti ecclesia-li le nuove terre da evangelizzare, per un’attenzione e un’azione ecclesiale rinnovate verso un mondo che stava crescendo lontano dalla Chiesa e la sottomissione a deci-sioni ecclesiali che sembravano dolorosamente ignorare questo universo in gestazio-ne, come nel caso dei preti operai.

Il cammino che Madeleine prospetta assomiglia molto a un crinale lacerante, ma è la fedeltà integrale a Cristo e al Vangelo ad esigerlo: vivere dei rapporti fraterni con i comunisti della sua città fino a parlare di una vera «amicizia» nei confronti dei «senza-Dio»; non limitarsi a «contatti troppo passivi per essere prudenti»27, collabo-rando con loro alla causa della giustizia, ma solo su obiettivi pratici «precisi», «im-mediati» e «provvisori», senza legami organici e senza «indebolire» la propria «azio-ne apostolica», e conservando quindi una prospettiva redentiva. Scriverà nel 1956:

Fra il cristianesimo e il comunismo non c’è una «strada comune» possibile, ben-ché in fondo alle due storie ci sia un solo termine certo. Fra i marxisti e noi ci sono solo dei «punti di incontro», ma questi punti di incontro esistono. Tuttavia, come tutti i pun-ti di incontro, sono a forma di croce28.

Un altro punto importante, in cui emerge la fortezza missionaria di Madeleine, è il coraggio profetico della «Verità che libera», quella sorta di «violenza di verità» che Gesù stesso ha praticato29. E su questa linea Madeleine si è mossa costantemente, mo-

26 Lettera a padre Jean Guéguen: 17 gennaio 1953.27 Provocazione marxista a una vocazione per Dio, Jaca Book, Milano 1975, 64.28 Le marxisme pose à l’Eglise une question apostolique [1956]: fasc. 18, p. 2276; vedi anche

NS 311s: 16.09.1964.29 Lettera a padre Loew: 10.07.1950.

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strando una forte ed esemplare capacità di tenere insieme la «ammirazione» per la ge-nerosità di molti non credenti con il rifiuto «di una carità che si desolidarizza dalla fede» e «di un amore che fa a meno della verità»30. In nome di questa stessa «Verità che libera» Madeleine lavorò appassionatamente per scuotere le tante coscienze ad-dormentate o prive della sufficiente lucidità di giudizio di fronte alla «violenza croni-ca» di cui soffriva il mondo operaio.

Per questo stesso motivo Madeleine era sempre più convinta che, quando era gravemente in gioco la fedeltà alla verità e alla giustizia, «non era possibile alcuna neutralità», nemmeno trincerandosi dietro la «mistica del dovere di stato». E questo atteggiamento la guida in diverse circostanze, come la coraggiosa esperienza di colla-borazione – tra il 1949 e il 1951 – al comitato per la liberazione di Miguel Grant, un comunista spagnolo condannato a dieci anni di prigione per una storia poco chiara di regolamenti di conti durante la Resistenza. Ugualmente emblematico della sua fortez-za cristiana e della sua lucidità di discernimento il suo intervento all’inizio del 1952, in seguito all’annuncio dell’arresto e del processo davanti a un tribunale militare dei responsabili degli scioperi organizzati nel marzo 1951 a Barcellona in Spagna 31, in coerenza con quanto aveva scritto pochi mesi prima a un imprenditore:

Se credo che dobbiamo dire quello che crediamo essere la verità, se credo anche che la verità sia dolorosa da scoprire, credo anche che, per quanto è possibile, si debba evitare di ferire dolorosamente i propri fratelli32.

Madeleine si mosse con coraggio anche all’interno del movimento missionario, mettendo particolarmente in luce i rischi che toccavano i missionari nella qualità evangelica della loro solidarietà. Infatti scrive:

Se, poiché amiamo i marxisti e viviamo in mezzo ad essi, assumiamo i loro me-todi, i loro movimenti, come mezzi di salvezza, sbagliamo sicuramente strada. Non dobbiamo avere una sorta di fierezza quando ci tendono la mano per lavorare alla sal-vezza temporale di cui pensano di essere gli agenti. Possiamo fare strada con loro quando certi loro atteggiamenti coincidono con gli atteggiamenti che il Cristo reclama da noi; ma rifiutandoci di avere la stessa sorgente e di andare allo stesso fine33.

Chiarezza sui «mezzi», quindi, nonché sulla «sorgente» e sul «fine» ultimo del-la propria solidarietà, perché sia realmente un’azione salvifica.

30 Cf. «La miseria dello spirito» del 1952: NS 131s.31 Témoignage chrétien all’inizio di febbraio del 1952.32 Lettera aperta a Marcel Grison di Longwy: 29.08.1951, in BB 94s.33 Cf. Lettera a padre Loew: 10.07.1950, riportata in gran parte in «Chiesa e missione» del

1951 (NS 113ss).

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Madeleine con coraggio mette in guardia molti missionari anche dalla tendenza a limitarsi alla «presenza», affermando la necessità della «cerniera della parola». Con la scelta di una vita evangelicamente distaccata dalla ricchezza e dal potere il cristia-no acquista il diritto di parola, ma occorre anche parlare, per gridare contro ogni «strangolamento» dell’uomo, anche contro lo strangolamento del suo destino ultimo e delle ragioni della sua speranza:

Le loro voci apostoliche potranno gridare al soffocamento stabilito tra gli uomini dall’ingiustizia, dalla guerra, dall’odio; ma esse dovranno gridare più forte, e forse sa-ranno sole questa volta, contro lo strangolamento del destino umano al quale approda il marxismo34. Chiamare felicità la guerra, la fame, l’oppressione equivarrebbe a tradire Cristo. Ma sarebbe un tradimento anche non pensare che la più piccola nozione di Dio è per il mondo di più che tutti gli istituti di ricerca, che tutte le biblioteche riunite. È ne -cessario che qualcuno lo dica: in un mondo in cui questa ipotesi fosse liquidata, i piatti sarebbero forse pieni, le case numerose, le biblioteche fornite... ma mancando del suo minimo vitale la ragione umana, circondata da queste ricchezze, morirebbe di fame e di disperazione. A questa disperazione della ragione noi non vogliamo lavorare35.

Queste forti affermazioni – che denunciano i limiti radicali di un umanesimo ateo, di come cioè la negazione di Dio si ritorca contro l’uomo – Madeleine le ha po-tute scrivere nel suo volume Città marxista terra di missione, perché non ne ha mai fatto mistero nemmeno a suoi amici non-credenti di Ivry, come appare con chiarezza nella lettera di Venise Gosnat a Madeleine del 18 settembre 195736. E a questa chia-rezza di discernimento Madeleine arriva molto prima che la situazione precipiti, nel 1953-1954, quando i vescovi francesi, su pressione di Roma, ordinano ai preti operai di ridurre drasticamente le ore di lavoro e di abbandonare eventuali incarichi sindaca-li.

Con la stessa lucidità e franchezza confessa anche la sua sofferenza per le «ca-lunnie» diffuse a Roma contro il movimento missionario, che presentano tanti «fatti reali ma accuratamente orchestrati», e soprattutto per il fatto che «la stigmatizzazione di cedimenti reali o possibili venga da coloro che sotto un altro aspetto hanno incon-trato un pericolo analogo “il peccato sociale del capitalismo materialista” senza esser-ne usciti maggiormente indenni».

Con la stessa coraggiosa franchezza Madeleine si rivolge ai vescovi, ai quali chiede che non si trincerino dietro atteggiamenti burocratici, ma cerchino di conosce-re a fondo le situazioni missionarie e si impegnino in prima persona con prudenza e

34 PM 93.35 PM 95.36 Cf. PM 19-20.

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coraggio, assumendosi responsabilmente i rischi delle proprie scelte e non limitandosi a «tollerare» le scelte missionarie37.

La sua fortezza si manifestò evidentemente soprattutto nella sua coraggiosa vo-lontà di testimonianza nei confronti dei non credenti. Ciò appare in maniera evidente in una lettera da lei scritta all’amico comunista Venise Gosnat il 12 marzo del 1960. Va ricordato che qualche mese prima, alla fine di agosto del 1959, invitata alla ceri-monia organizzata per ricordare a quindici anni di distanza i morti per la Liberazione, Madeleine aveva ringraziato calorosamente Venise Gosnat e soprattutto aveva esalta-to quella lotta comune condivisa liberamente da gente diversa. Questa volta invece, invitata come altre personalità di Ivry a sottoscrivere il manifesto di saluto preparato dalla municipalità per la visita in Francia di Nikita Kruscev invitato dal presidente De Gaulle, pur con la stessa amicale semplicità e rispettosa franchezza, declinò l’invito, dichiarando che non poteva firmarlo, perché non poteva accettare che nelle sue cam-pagne antireligiose Kruscev non solo facesse soffrire dei cristiani, ma facesse di Dio «un’idiozia tanto ridicola quanto dannosa»38. Il suo dialogo e la sua collaborazione con i comunisti e i non credenti erano quindi caratterizzati da questa coraggiosa fran-chezza. Ne è testimone emblematico e privilegiato lo scambio di lettere con Venise Gosnat a proposito del libro Provocazione marxista ad una vocazione per Dio39.

2. Fortezza radicata nel dinamismo della vita teologale

2.1. Non rassegnazione, ma abbandono attivo e pieno alla volontà di Dio

Madeleine testimonia la sua fortezza non limitandosi a una passività rassegnata nelle varie prove, ma affrontandole con un abbandono attivo e pieno alla volontà di Dio, in una chiara prospettiva teologale40.

Quello che tu dici della rassegnazione non è giusto quanto all’esempio. L’altissi-mo sentimento di sacrificio che tu mi confidi è un grande slancio di generosità, un’of -ferta, e la pazienza per tutta la durata di questo sacrificio accettato è il compimento di questo slancio. Tutto deve essere un dono, spontaneo o eroico, umile o clamoroso, en-tusiasta o lacerante, ma ogni sacrificio deve essere offerto non accettato; anche un sa-crificio imposto da altri deve essere voluto da noi, noi dobbiamo aderire alla prova che ci viene richiesta41.

37 Cf. Lettera a Mons. Brot: 11.12.1953; vedi anche Journal Jean Durand: 04.09.53; 19.09.1953.

38 Lettera a Venise Gosnat: 12.03.1960, riportata in PM 28.39 Dedica e Lettere riportate in PM 18-26.40 Cf. Lettera a L. Salonne: 01.04.1927, in: Abbagliata da Dio, 67.41 Lettera a L. Salonne: 08.10.1926, in: Abbagliata da Dio, 58.

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Anche in momenti in cui c’erano umanamente tutte le ragioni per lasciarsi anda-re al lamento vittimistico, alla ribellione o alla disperazione42, a un’amica apre il cuo-re così:

Materialmente parlando, la situazione che lascio è un po’ complicata, ma questo non ha grande importanza: si può essere utili dappertutto se la volontà di Dio lo vuole, ma non lo si è da nessuna parte da se stessi; e quando ci ritira da un posto come quando ci conduce altrove, bisogna proprio dirsi che l’unica cosa necessaria è fare quello che Egli vuole e che Egli si farà carico del resto. Egli ci dona così un’inestimabile libertà 43.

2.2. Nel dinamismo della fede e della speranza

Nella fede e nella speranza Madeleine trova la radice della sua fortezza, perché le permettono di riconoscere nelle prove un dono, una grazia di Dio:

Ho molto pensato a te durante questo tempo di vero ritiro di cui conserverò verso Dio una grande riconoscenza come per tutto ciò che Egli ci dona con un’instancabile generosità44.

In diverse occasioni nella sua corrispondenza sviluppa il tema della malattia con questa premessa:

Le malattie sono delle grazie così immense che vengo ad assicurarti la mia pre-ghiera perché tu ne approfitti a fondo45.

42 Da febbraio a maggio del 1928 vive un tempo di forzato ritiro. Infatti, dopo l’operazione chirurgica dell’appendicite subita a novembre del 1927, la convalescenza era stata lenta e le cure non avevano sortito effetti soddisfacenti. Il 18 febbraio 1928, dopo un nuovo consulto medico, le viene fatta una diagnosi preoccupante e le viene prescritto un lungo periodo di totale riposo in una località termale. È costretta a lasciare tutto proprio in un momento delicato e insieme fervido di iniziative, poiché da appena pochi giorni aveva ricevuto la responsabilità delle capitane scout del settore di Parigi sud e della periferia, stava partecipando attivamente a un ciclo di conferenze importanti e in casa la situazione era sempre pesante: il padre e la nonna a letto ammalati e la madre appena rientrata da un periodo di necessario riposo.

43 Lettera a L. Salonne: 18.02.1928, in: Abbagliata da Dio, 98. Anche nelle settimane successive, quando a momenti alterni il medico fa balenare la necessità di un delicato intervento chirurgico, Madeleine non viene meno alla sua linea di consegna e vi vede anzi la grazia di un maggior abbandono: «Dio si compiace di giocare così con noi per romperci al suo beneplacito e si sentono molto poco i cambiamenti se si resta nelle sue mani» (Lettera a L. Salonne: 11.04.1928, in: Abbagliata da Dio, 103).

44 Lettera a L. Salonne: 28.03.1928, in: Abbagliata da Dio, 103. Vedi anche la Lettera a Ariane Le Douaron: maggio 1931, in: Abbagliata da Dio, 120s.

45 «Non esitare mai a bussare da me quando hai una grande pena; da parte mia ne ho conosciute tante che le capisco infinitamente meglio che ciò che si ha l'abitudine di chiamare gioia. Coraggio, mia cara, [...] non si perde mai il proprio tempo quando si

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Anche nel 1953-1954, quando tra i preti operai sembra prevalere una lettura esclusivamente negativa delle misure episcopali che richiedono l’abbandono o la dra-stica riduzione delle ore di lavoro salariato – misure sentite come una sorta di ultima-tum inaccettabile – Madeleine, consapevole della gravità della situazione, avverte l’importanza di stare con fortezza accanto ai preti-operai alimentando l’attesa pazien-te e la speranza:

È certo che essi (i preti operai ndr) sono sulla croce e che, quali che siano le loro reazioni, bisogna stare di guardia accanto ad essi. Come per tutti i calvari ci saranno quelli che si addormentano, quelli che fuggono, quelli che si giocano la tunica; quelli che li amano debbono essere ostinatamente presenti per testimoniare la Speranza46.

Anche di fronte al pessimismo di quanti vedono nelle misure restrittive solo un ritorno indietro della Chiesa, Madeleine non smette di sperare:

Se delle catastrofi scatenate dagli uomini hanno potuto servire il Regno di Dio, degli ostacoli imposti dalla Chiesa non possono arrestare l’avanzata di questo Regno, se non a causa del nostro pessimismo [...]47. Io penso che il piano di Dio in questo mo-mento preveda per ciascuno di noi queste «prove» di speranza, nelle quali deve espri-mersi la nostra fedeltà48.

2.3. Nello slancio della carità

Madeleine vive la fortezza non come semplice resistenza al male, ma sullo slan-cio della carità, a cominciare dall’amore per Cristo, per cui nelle prove e sofferenze si sente partecipe della sua sofferenza, che nei secoli «rimane sovranamente attuale, at-tiva e santificante»49.

Decisivo è anche il radicamento della sua fortezza nell’amore del prossimo50, per cui Madeleine parla di «comunismo della sofferenza»51, della «grande forza di in-

soffre, e viene sempre un momento, dopo ribellioni e disperazione, in cui tutto si chiarisce con una logica implacabile. Ci si dice: bisognava che ciò avvenisse perché in me si potesse realizzare una tale forza» (Lettera a L. Salonne: luglio 1926, in: Abbagliata da Dio, 52).

46 Lettera a J.Durand: 25.01.1954.47 Lettera a p. Perrot: novembre 1953.48 Lettera a Jean Durand: 25.01.1954.49 Lettera a L. Salonne del 28.03.1928, in: Abbagliata da Dio, 103, lettera scritta durante la

settimana santa.50 «Questa carità che è anch’essa teologale, perché ci salda inseparabilmente a Lui, è l’unica

porta, l’unica soglia, l’unico ingresso all’amore di Dio. A questa porta giungono tutte le strade che sono le virtù. In fondo, tutte sono fatte soltanto per condurvici, più rapidamente, più gioiosamente, più sicuramente. Una virtù che non porti là, è una virtù diventata stolta» (GC 69).

51 «Coraggio, vecchia mia, non rassegnazione, che è una brutta virtù, ma dello slancio e un'offerta di ciò che non va perché vada meglio in seguito per noi, o adesso per gli altri. Il

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tercessione del dolore», nella prospettiva di una profonda solidarietà redentiva nella «Grande Carità del Mondo»52:

Non si incontra impunemente un’anima che soffre. Si ha nei suoi confronti un mandato assoluto da compiere, messaggio di amore e di soccorso. E questo messaggio può essere attuato solo con l’aiuto onnipotente. Tale aiuto si ottiene solo attraverso la sofferenza53.

Madeleine nel suo slancio missionario «ama ogni uomo»: non cede di fronte al-l’ingiustizia, non vi chiude gli occhi davanti, fa tutto ciò che dipende da lei di fronte al male. Quando fa il ritratto del cristiano «uomo insolito», Madeleine descrive tutto questo mirabilmente:

combatte il male non solo all’interno – in se stesso – ma fuori; lottando non solo contro il male, dovunque sia, ma contro i suoi frutti: l’infelicità, la sofferenza o la mor-te. Ma combatte per il bene e senza commettere il male, e, se si tratta della felicità di molti, non accetta di pagarla nemmeno con l’infelicità di uno solo54.

2.4. Coniugando intraprendenza e pazienza

Un tratto inconfondibile della fortezza cristiana vissuta da Madeleine è costitui-to dalla capacità di tenere insieme l’intraprendenza dell’impegno personale vissuto fino in fondo e la «pazienza» necessaria sia per conoscere la realtà che per trasfor-marla.

Nel 1957, presentando il suo libro Città marxista, terra di missione, di cui è contenta, ma che considera un libro «molto imperfetto» e in ogni caso come uno «strumento di lavoro», sempre suscettibile di quell’accrescimento che la realtà viven-te necessariamente reclama, scrive:

La mia inquietudine è che queste note, una volta stampate, rimangano vive a modo loro, adatte alla scoperta e suscettibili d’accrescimento. Domando al lettore di ac-

comunismo del dolore, è l'unica cosa che conta veramente, e senza dubbio il vecchio mondo è costruito su di esso» (Lettera a L. Salonne: settembre 1926, in: Abbagliata da Dio, 57).

52 Lettera a L. Salonne del 8 ottobre 1926, in: Abbagliata da Dio, 58.53 Lettera a L. Salonne: 01.04.1927, in: Abbagliata da Dio, 58. Alla stessa amica aveva scritto

pochi mesi prima: «Pensa, amica mia, che tu non sei Louise Salonne sola e addolorata, ma che tu sei nella grande massa degli esseri una unità solidale con gli altri, che tu sei nell'unanime armonia una vibrazione sofferente il cui accordo totale ha bisogno a quest'ora che tu ti doni a questa armonia, perché solo la tua volontà può renderla sonora, mentre il rifiuto della tua volontà priverebbe forse un altro di un soccorso... Ce ne sono tanti che attendono, e anche se tu attendi, sii felice di aiutare gli altri» (Lettera a L. Salonne: 11.01.1927, in: Abbagliata da Dio, 63).

54 «Il cristiano uomo insolito», in: La gioia di credere, Gribaudi, Torino 1988, 136 (sigla: GC)

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coglierle per ciò che sono: uno strumento di lavoro. Il loro lavoro è nella vita. Non si potrebbe separarle dalla vita senza far loro violenza. Mi auguro che servano al lettore nella pazienza. Insieme abbiamo appreso come questa sia necessaria al rispetto della verità e alla preoccupazione «di essere fedeli» a una realtà vivente. Che il lettore perdo-ni a queste note un tale carattere di plasticità, in un tempo in cui le strutture, i piani, i quadri sono divenuti, per così dire, dei brevetti. Le mie note difficilmente si lascerebbe-ro concludere finché il termine della corsa non sia stato annunciato55.

Già negli anni della guerra, quando grazie a lei Ivry era diventato una specie di laboratorio dei servizi sociali, a cui altri venivano a ispirarsi 56, la sua alta visione del servizio sociale si accompagnava alla consapevolezza della sua necessità:

Ogni società, malgrado le sue leggi, malgrado i suoi organismi, malgrado le sue funzioni, è una grande debole, continuamente insufficiente ad arginare il suo terreno d’azione: la complessa, l’immensa pasta umana57.

Concepiva quindi il servizio sociale come l’insieme degli sforzi «per compensa-re ciò che la società ha in sé di troppo rigido, di troppo statico, di troppo fisso», in modo che la società stessa possa trasformarsi continuamente, adattandosi alla «com-plessa e immensa pasta umana», come una «rivoluzione» che si deve fare «giorno per giorno». Attraverso questo duplice riadattamento delle persone alla società e della so-cietà alle persone, il servizio sociale mira a «evitare la sofferenza e far fiorire la vita»58. In lei non c’è alcuna illusione di una società ideale e perfetta, nemmeno cri -stiana, da edificare una volta per tutte, ma piuttosto la necessità di collocarsi in essa come un «fermento» per la sua costante «evoluzione»59, senza il timore di richiamare le responsabilità politiche sulle cause dei mali sociali60. Su questa esigenza di una trasformazione necessaria della società, ma da attuare con pazienza come una «rivo-55 Provocazione marxista a una vocazione per Dio, Jaca Book, Milano 1975, 39.56 Madeleine stessa aveva comunicato le sue iniziative e le sue convinzioni in due sue

pubblicazioni «La Femme et la Maison» (1941) e «Veillée d’armes aux travailleuses sociales» (1942), in: Profession assistante sociale. Écrits professionnels. Volume 1: textes publiés de son vivant, Nouvelle Cité 2007, 133-199. 213-380.

57 «Service Social» (1941), in: Le service social entre personne et société. Écrits professionnels. Volume 2: textes inédits, Nouvelle Cité 2007, 164s.

58 Vedi la definizione data da Madeleine nell’introduzione al suo «Veillée d’armes aux travailleuses sociales» (1942), in: Profession assistante sociale. Écrits professionnels. Volume 1: textes publiés de son vivant, Nouvelle Cité 2007, 214.

59 Cf. «Service Social» (1941), in: Le service social entre personne et société. Écrits professionnels. Volume 2: textes inédits, Nouvelle Cité 2007, 164.

60 Cf. per esempio «Dossier du Service Social sur la crise du logement» (1945 ?), in: Le service social entre personne et société. Écrits professionnels. Volume 2: textes inédits, Nouvelle Cité 2007, 423-428, dove denuncia gli alloggi «omicidi» di numerosi quartieri operai della regione parigina.

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luzione» da fare «giorno per giorno», Madeleine tornerà diversi anni dopo, ricono-scendovi una sensibilità tipicamente femminile ed estendendolo anche alla vita eccle-siale:

le donne hanno come inscritto in se stesse il senso della continuità e dei salti del -la vita. Esse dovrebbero portare, al cuore della Chiesa, una fedeltà che non sia immobi-lismo; dei rinnovamenti che non siano delle rotture61.

2.5. Andando fino in fondo nell’impegno come nella preghiera

Allo stesso modo Madeleine testimonia la sua fortezza cristiana coniugando l’impegno personale vissuto fino in fondo con l’affidamento più totale alla potenza di Dio. Resta così costantemente fedele al ritratto del cristiano «uomo insolito», il quale:

Non solo mette tutte le sue forze nel proprio compito, ma ignora a che serva co-desto compito; non solo ignora chi l’ha cominciato e lo continua, ma ignora l’opera di Dio nella quale esso è utilizzato. Non solo combatte ma è mite, perché ciò che Dio on-nipotente e sempre amante ha cominciato o continua, sempre Lui porta a compimento con potenza e amore. Attende da Dio con una fiducia «infrangibile» ciò per cui lavora con tutte le forze e che le sue forze non possono realizzare. A Dio domanda che sia fat-ta la sua volontà, da Dio di cui è in attesa che venga il suo regno. La preghiera è per lui l’energia dell’azione62.

Nel suo testamento spirituale riassume questo suo atteggiamento così:

Finisco, figlie mie, chiedendovi, qualunque sia la partecipazione che il Signore vi donerà alla sua sofferenza, al suo compito o alla vita quotidiana del suo Vangelo, di sforzarvi di andare sempre fino in fondo alle vostre possibilità... come se la preghiera non esistesse; ma di non intraprendere nulla senza pregare come se esistesse solo la preghiera63.

2.6. Liberata dalla preoccupazione dell’efficacia

La fortezza in questa prospettiva teologale libera l’azione e la vita del cristiano dalla preoccupazione per l’efficacia

«Che cosa le permette di non esser distrutta nel suo dinamismo, davanti a scon-fitte apparentemente definitive, dopo avere impegnato tutta se stessa, forze, salute, preghiera, e il peso della sua tenerezza e delle sue ore, di giorno e di notte?»64. 61 La Femme et l’Eglise: 08.12.1953 [= I.25].62 «Il cristiano, uomo insolito», in: GC 136-137.63 «Indicazioni nel caso che io muoia allo stato attuale dei fatti», in: Abbagliata da Dio, 37. 64 LOEW Jacques, «Madeleine Delbrêl. “La strana danza della nostra obbedienza”», in:

Preghiera e vita. Grandi modelli, Morcelliana, Brescia 1989, 137. E aggiungeva ancora: «Come ha potuto un essere così combattuto giungere a una così reale e rigorosa unità?» (p. 136).

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L’efficienza umana marcia a pieno ritmo, mentre pare che si faccia benissimo a meno di Dio e che, in ogni caso, Dio non manchi a niente e a nessuno65.

Ma il cristiano – ricorda Madeleine – ha la missione di testimoniare e innestare nel tempo l’amore eterno di Dio e lo può fare solo vivendo alla maniera di Cristo, co-niugando prossimità fraterna e preferenza per Dio:

Noi siamo «carichi» di energia senza proporzioni con le misure del mondo: la fede che solleva le montagne, la speranza che nega l’impossibile, la carità che fa ardere la terra. Ogni minuto della giornata, non importa dove esso ci voglia o per che cosa, permette a Cristo di vivere in noi in mezzo gli uomini66.

Per Madeleine la sua esistenza teologale, installata senza barriere e senza spe-cializzazioni nel cuore del mondo, è una risposta necessaria e un’esigenza ineludibile in un mondo in cui Dio sembra assente e che cambia così rapidamente. Qui troviamo realmente le linee di fondo dell’intuizione spirituale di Madeleine e della «Carità». Lei stessa lo lascia intendere in una lettera del gennaio 1961, in cui parla dei suoi «trent’anni di vita comune con il Signore»:

Ho 56 anni. Trent’anni di vita comune [= vie de ménage] con il Signore permet-tono di cominciare a conoscere un po’, non Lui certo, ma... il suo carattere! Ora, ha lo stesso per noi tutti e il meno che si possa dire – se non pensare – è che si tratta di un ca -rattere difficile!!! Direi anche che questo carattere difficile ci è generalmente insoppor-tabile... fintanto che non comprendiamo la regola del gioco. Perché in fondo ce n’è una e, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, è quasi troppo semplice! [...] Cosa vuo-le? Cosa cerca? ...essere creduto, essere sperato, essere amato per quello che Egli è... e non per quello che Egli sembra sotto un inverosimile travestimento di circostanze. Fin-tanto che non gli abbiamo detto che può continuare se questo lo diverte – ma che non attacca... che lo riconosceremmo anche travestito in «angelo delle tenebre» – Egli può diventare precisamente infernale!67

65 «Ambiente ateo, circostanza favorevole alla nostra conversione personale» (16.09.1964), in: NS 315.

66 «Lo zero e l’infinito» (1946): GC 154, testo pubblicato nel 1953 sulla rivista «Offertoire».67 Lettera a un sacerdote: gennaio 1961. Scrive a un’amica: «San Giovanni della Croce le

parlerebbe, poiché egli la vede, dell’immensa e incosciente miseria del mondo oggi. Ciò che Dio sicuramente vuole è una compassione e una speranza proporzionate a una tale miseria, una fede capace di glorificare Dio là dove vuole esserlo. In questo mondo “che cambia” così improvvisamente, così brutalmente, si direbbe che il Signore voglia che la sua redenzione passi attraverso delle vite che si lasciano cambiare a suo piacimento... sconvolgere. Sembra volere della gente che in questa sorta di avventura sa che non manca di niente ed è in pace» (Lettera a una suora eremita in Belgio: 1960). Madeleine ha maturato progressivamente questa convinzione: «L'efficacia cristiana è gloria per Dio. In ambiente ateo tutto sembra essere stato preparato perché questa efficacia sia messa in condizioni eccezionalmente e visibilmente favorevoli» («Missione o dimissione» del gennaio

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Luciano LUPPI, Madeleine Delbrêl. Testimone di fortezza spirituale

L’abbandono nella fede all’amore di Dio, quindi, questo abbandono a Dio anche nelle circostanze della vita in cui Egli sembra fare di tutto per rendersi irriconoscibile e sembra Lui stesso lasciare nell’abbandono chi lo ama, questo abbandono in Dio cre-duto, sperato e amato per se stesso al di là dei suoi doni, è per Madeleine la «regola del gioco»68. Il cristiano, vivendo semplicemente l’ora della prova nella notte certa della fede, sa così di condividere e di riscattare la miseria incosciente del mondo, e di contribuire a proclamare con la sua vita la presenza divina, a glorificarlo, partecipan-do all’opera «entusiasmante» della «rivelazione di Dio»69.

2.7. Vissuta nell’eroismo del quotidiano: la passione delle pazienze

La fortezza testimoniata da Madeleine trae proprio da questo orizzonte teologa-le una sana attitudine anti-eroica, che a suo avviso fa parte dell’originalità o come dice lei dell’«insolito» del cristiano, e che ritroviamo costantemente nel suo vissuto, anche quando in realtà ci sembra che quanto vive abbia uno spessore non comune.

L’insolito del cristiano è unicamente e semplicemente la sua somiglianza con Gesù Cristo. La somiglianza con Gesù Cristo inserita in un uomo col Battesimo e che attraversando il suo cuore gli arriva come a fior di pelle [...].

Questo «insolito» non è conferito al cristiano dall’essere un uomo notevole e no-tato. […]

Non è la realizzazione clamorosa di un uomo cristiano. É il Cristo, sempre lo stesso Cristo, che mostra il suo volto attraverso quello di un uomo. […]

Non solo accetta di non somigliare a un eroe ma di non esserlo70.

Madeleine traduce tutto ciò nel famoso componimento «La passione delle pa-zienze»:

La passione, la nostra passione, sì, noi l’attendiamo.

Noi sappiamo che deve venire, e naturalmente intendiamo viverla con una certa grandezza.[…]

La passione, noi l’attendiamo. Noi l’attendiamo, ed essa non viene.

Vengono, invece, le pazienze. Le pazienze, queste briciole di passione, che han-no lo scopo di ucciderci lentamente per la tua gloria, di ucciderci senza la nostra gloria. […] Così vengono le nostro pazienze, in ranghi serrati o in fila indiana, e dimenticano sempre di dirci che sono il martirio preparato per noi. E noi le lasciamo passare con di -sprezzo, aspettando – per dare la nostra vita – un’occasione che ne valga la pena. […]

1961: GC 194).68 Cf. Lettera a un sacerdote: gennaio 1961.69 Cf. «La Chiesa, una stessa vita in uno stesso Corpo» (1960): NS 223.70 «Il cristiano, uomo insolito»: GC 134-136.

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Luciano LUPPI, Madeleine Delbrêl. Testimone di fortezza spirituale

Ogni riscatto è un martirio, ma non ogni martirio è sanguinoso: ce ne sono di sgranati da un capo all’altro della vita. È la passione delle pazienze.71

2.8. Forte e agile come in una «danza»

La fortezza vissuta nel dinamismo teologale e testimoniata da Madeleine confe-risce al vissuto cristiano un profilo di scioltezza, di agilità, assimilabile a una sorta di «danza», che dice assenza di rigidezza, di calcolo, di riflessi militareschi come di at-teggiamenti da performance sportive. È quanto Madeleine riassume poeticamente nel «Ballo dell’obbedienza»:

[…] Se noi fossimo contenti di te, Signore,

Non potremmo resistere

A questo bisogno di danzare che irrompe nel mondo,

E indovineremmo facilmente

Quale danza ti piace farci danzare

Sposando i passi che la tua Provvidenza ha segnato.

Perché io penso che tu forse ne abbia abbastanza

Della gente che, sempre, parla di servirti

con l’aria da capitano,

Di conoscerti con aria da professore,

Di raggiungerti con regole sportive,

Di amarti come ci si ama in un matrimonio invecchiato.

Un giorno in cui avevi un po’ voglia d’altro

Hai inventato san Francesco,

E ne hai fatto il tuo giullare.

Spetta a noi ora di lasciarci inventare

Per essere gente allegra che danza la propria vita con te.

[…]

Signore, insegnaci il posto

Che tiene, nel romanzo eterno

71 «La passione delle pazienze»: GC 146-147.

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Luciano LUPPI, Madeleine Delbrêl. Testimone di fortezza spirituale

Avviato fra te e noi,

Il ballo singolare della nostra obbedienza.

Rivelaci la grande orchestra dei tuoi disegni;

In essa quel che tu permetti

Dà suoni strani

Nella serenità di quel che tu vuoi.

Insegnaci a indossare ogni giorno

la nostra condizione umana

Come un vestito da ballo che ci farà amare da te,

tutti i suoi dettagli

Come indispensabili gioielli.

Facci vivere la nostra vita,

Non come un gioco di scacchi dove tutto è calcolato,

Non come una match dove tutto è difficile,

Non come un teorema rompicapo,

Ma come una festa senza fine

in cui l’incontro con te si rinnova,

Come un ballo,

Come una danza,

Fra le braccia della tua grazia,

Nella musica universale dell’amore.

Signore, vieni a invitarci.72

72 «Il ballo dell’obbedienza»: NS 86-89. Il tema del «ballo dell’obbedienza» costituisce l’originale trasposizione delbreliana di uno dei temi più classici della spiritualità, espresso in forme diverse secondo i contesti e le sensibilità, e quindi paragonabile, per il suo valore sintetico, al ruolo che giocano l’umiltà in san Benedetto, l’acconsentimento in san Bernardo, l’acconsentimento filiale in Guglielmo di St-Thierry, il «non possedere nulla di proprio» in san Francesco d’Assisi, l’indifferenza in sant’Ignazio di Loyola, la «piccola via» in santa

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Luciano LUPPI, Madeleine Delbrêl. Testimone di fortezza spirituale

2.9. Impregnata di un umorismo pacificante

Il radicamento nel dinamismo teologale spinge spontaneamente Madeleine a co-niugare fortezza e umorismo, franchezza di posizioni e sorriso. Umorismo e sorriso traducono quello sguardo pieno di realismo penetrante che, implacabile nel cogliere i limiti e i difetti propri come altrui, spalanca il cuore agli orizzonti grandi della fede e proietta su tutto la luce di una misericordia infinita. Tale luce permette di rivisitare e riscattare ciò che inizialmente era stato «preso sul tragico», aprendo il cuore di Made-leine a quell’abbandono confidente in Dio, che permette di installarsi sempre di più «in una pace inattaccabile», «al crocevia del riso e della gioia»: il riso di fronte alla propria pochezza e la gioia dello stupore e della riconoscenza per «la misericordia» di Dio.

È quanto appare in un testo del 1946 dal titolo significativo «“Humour” nell’A-more», che ci offre una delle chiavi fondamentali per leggere Madeleine:

Quando sappiamo ciò che siamo, sarebbe veramente ridicolo non avere nel no-stro amore un po’ di umorismo [...] Saremmo tentati di pensare che ciò non ha molta importanza e che accanto ai sublimi, ai forti, ai santi, c’è posto per dei pulcinella e dei pagliacci, e che non dispiacciono a Dio. [...] Allora bisogna ricordarsi che Dio non ci ha creato per qualcosa di umano, ma per quell’amore eterno e terribile con cui Egli ama da sempre tutto ciò che crea. Allora dobbiamo accettare il suo amore non per esserne il partner splendido e magnanimo, ma il beneficiario imbecille, senza fascino, senza fon-damentale fedeltà. E in questa avventura della Misericordia ci è chiesto di donare fino all’ultimo quanto possiamo, ci è chiesto di ridere quando questo dono è fallito, sordido, impuro. Ma ci è anche chiesto di meravigliarci con lacrime di riconoscenza e di gioia davanti a questo inesauribile tesoro che dal cuore di Dio scorre verso di noi. A questo crocevia del riso e della gioia si installerà la nostra pace inattaccabile!73.

Tale sguardo impregnato di umorismo l’aiuta a non assolutizzare se stessa e i propri punti di vista, e a prendere sul serio unicamente Dio e la certezza che Egli è al -l’opera. Lo constatiamo in molti suoi componimenti poetici, in particolare negli afori-smi di Alcide, ma anche in alcuni momenti particolari della sua vita.

Madeleine era solita comporre poesie o canzoni in momenti di festa per la vita del gruppo o per aiutare a trovare la distensione del sorriso, cogliendo con fine umori-smo il lato comico degli avvenimenti. Per esempio l’inno composto nell’ambito della vicenda dei preti operai del 1953 in occasione dell’intervento del nunzio apostolico

Teresa di Gesù Bambino, l’abbandono in Charles de Foucauld (cf. B.J.S., «Guillaume de Saint-Thierry: Méditation de Signy. De la plainte accusatrice au consentement filial» : Collectanea Cisterciensia 66 (2004)153-160).

73 «“Humour” nell’Amore»: GC 71-73.

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Luciano LUPPI, Madeleine Delbrêl. Testimone di fortezza spirituale

Mons. Marella74, oppure quello scritto dopo aver ricevuto nell’ottobre 1959 la visita del padre gesuita Fessard, filosofo e teologo, che le mostra di avere ampiamente uti -lizzato il suo libro Città Marxista a conferma sperimentale delle sue tesi contro il pro-gressismo cristiano, arruolandola di fatto contro tutti all’insegna della «dialettica ignaziana»75.

Colpisce poi come il suo umorismo emerga anche in situazioni di particolare durezza, come il rovescio della medaglia del suo totale affidamento a Dio. Quando, per esempio, per portare avanti la redazione di «Città marxista», continua a rinviare un congruo tempo di riposo nonostante i vari disturbi fisici che si assommano, lei

74 I Vescovi francesi, sollecitati da Roma, decidono delle forti restrizioni per i preti operai, Madeleine, pur con l’angoscia nel cuore per la piega che stanno prendendo le cose, non perde il suo umorismo e compone alcune strofe che canterella con qualche intimo di casa. Si tratta di una sorta di Inno dell’Episcopato francese al Nunzio, Mons. Marella (cf. Christine De BOISMARMIN, Madeleine Delbrêl (1904-1964). Strade di città, sentieri di Dio, Città Nuova, Roma 1988, p. 128 [sigla: BB1]). Con questo linguaggio del sorriso Madeleine non rinuncia a manifestare con franchezza le sue riserve, ma invita tutta la comunità a quello sguardo di teologale che, riconducendo le cose alla loro vera misura, libera dalla tentazione del giudizio senza appello o dello scoraggiamento totale, che irrigidiscono le posizioni e impediscono un impegno e un dialogo fiducioso. Di fatto nelle strofe della canzone Madeleine non nega la legittimità dell’intervento del nunzio pontificio, come si trattasse in quanto tale di un'intrusione, ma critica la modalità dell'intervento, auspicando un approccio diverso al problema dei preti operai, più squisitamente ecclesiale, e cioé più rispettoso della specifica realtà francese e della responsabilità dei vescovi. Auspica cioé che i mezzi della diplomazia politica, come le misure puramente burocratiche e disciplinari, lascino il posto a uno stile di famiglia. «La Chiesa per noi è una madre – canta Madeleine – la famiglia non è una legge, è amore speranza e carità». Quindi a suo avviso occorrerebbe, rovesciando la prospettiva, che si parlasse direttamente con i preti operai e che fosse il «Padre di Famiglia» a chiamare, il che darebbe anche all’iniziativa dei tre Cardinali, che intendono incontrare direttamente il Papa, un significato più positivo. In fondo, in questa sua volontà tutta femminile di promuovere una relazionalità costruttiva e di impronta familiare, possiamo cogliere come in nuce l’idea di un approccio collegiale ai diversi livelli: i vescovi nel sentire direttamente i loro preti operai e il Papa in rapporto ai vescovi.

75 Padre Fessard, buon conoscitore del marxismo e collaboratore della rivista Etudes, le mostra il manoscritto di un suo libro, De l’actualité historique, in cui ha utilizzato abbondantemente i suoi testi come una conferma pratica delle sue critiche filosofiche e della sua diagnosi dei problemi posti dal progressismo cristiano e dall’esperienza dei preti operai. Dopo aver letto le pagine che la riguardano, nonostante debba ammettere l'assenza di deformazioni del suo pensiero e anzi la «lucidità terribile» di p. Fessard nel cogliere «le ragioni», i destinatari e il «punto centrale» del suo libro, Madeleine è «profondamente addolorata», perché in un momento di nuovo delicato per l’apostolato operaio (l’11 settembre Le Monde aveva pubblicato una notificazione del card. Pizzardo, responsabile del

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Luciano LUPPI, Madeleine Delbrêl. Testimone di fortezza spirituale

stessa definisce i ritmi di lavoro che si sta imponendo talmente pesanti che «un sinda-cato troverebbe scandalosi»76. E, qualche mese prima, quando era totalmente «dila-niata» tra le urgenze familiari, le necessità apostoliche, quelle delle Equipe e le sue esigenze di riposo, lei stessa non mancava di fare un po’ di humour sulla sua situazio-ne:

Poiché il mio stomaco ha avuto la felice idea di prendere la strada dei talloni, ho passato due mesi difficili... senza dubbio per impersonare il tipo della «donna forte» 77.

Così, per il suo intervento sul tema della pace al congresso internazionale di«Pax Christi», previsto per la fine di ottobre del 1960 a Ginevra, in cui si distingueva l’azione del «Mouvement de la Paix» di ispirazione comunista, progetta di parlarne

Sant'Ufficio, che imponeva la totale interruzione del lavoro dei sacerdoti, affermando che «il lavoro in fabbrica o in cantiere è incompatibile con la vita e gli obblighi sacerdotali») lei finiva per essere presentata come se volesse impartire lezioni agli altri missionari e si vedeva utilizzata in una maniera che la faceva apparire di parte, finendo per tradire il senso stesso del suo libro, proprio quello che temeva di più: «Di tutto questo io sono realmente profondamente addolorata. […] Questo farà dunque del male senza una contropartita di bene» (Lettera a Mons. Veuillot: 10.10.1959). Tuttavia Madeleine mostra qui il suo sguardo libero e distaccato dalla preoccupazione per la sua persona proprio cogliendo con fine umorismo il lato comico della faccenda: «Ma questa pena mi rende ancor più sensibile al lato comico dell’affare. Ho imparato [...] che facevo senza saperlo della “dialettica ignaziana”; che, cosciente o no, l’influenza di Sant’Ignazio marcava il fondo della mia “attitudine” di ciò che costituisce il fondo stesso degli Esercizi. È sicuramente Sant’Ignazio che ne è personalmente responsabile, perché è il solo gesuita col quale abbia avuto – e ciò negli ultimi anni – delle relazioni spirituali regolari... a causa della Gloria di Dio. [...] Da notare, infine, che io che non ho un gusto spontaneo per il ridicolo... sono servita. E in un modo che mi parrebbe definitivo. Non comprendo, visto che i gesuiti sono ritenuti misogeni, come un gesuita non capisca che minimizza tutto ciò che vuol dire dal momento che mi utilizza così. È vero che p. Fessard è uno specialista non solo della “dialettica ignaziana”, ma della “dialettica paolina”... ciò che è debole per confondere ciò che è forte... ecc....» (Lettera a Mons. Veuillot: 10.10.1959). «Sono uscita da questa lettura nuotando in un ridicolo allo stato puro; prostrata dalla desolazione di emergere pura e senza macchia da un’ecatombe generale in cui i preti al lavoro non sono colpiti che per fare a pezzi i responsabili dei loro slittamenti; ecatombe in cui si ammassano alla rinfusa delle minuscole personalità quali Jean Lacroix, Maritain, Chenu, Montuclard, Mounier... e te ne risparmio» (Lettera a Nuria: 19.11.1959). E tale aspetto umoristico della cosa spinge Madeleine a comporre alcune strofe di una canzone col ritornello Je ne savais rien, je suis Jésuite (BB2 225).

76 Lettera a Mons. Veuillot: 18.02.1956.77 Lettera a Mons. Veuillot: 04.04.1955.

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come di un confronto tra «due paci violente»: «la pace dei combattenti della Pace e la pace della Chiesa militante»78.

Bibliografia essenziale

L’editrice francese «Nouvelle Cité» ha iniziato la pubblicazione integrale delle Œuvres complètes de Madeleine Delbrêl, di cui sono usciti i primi sei volumi. L’edi-trice Gribaudi ha cominciato la pubblicazione dell’Opera omnia in italiano, con un primo volume: Abbagliata da Dio, Corrispondenza 1910-1941, Milano 2007 (con prefazione di Enzo BIANCHI) (sigla: Abbagliata da Dio). L’uscita del secondo volume con la Corrispondenza 1942-1952 dovrebbe avvenire nel novembre 2007.

Antologie in italiano

Provocazione marxista a una vocazione per Dio. Ivry: 1933/1957, Jaca Book, Milano 1975 (PM)

Noi delle strade, Gribaudi, Torino 1988 (sigla: NS).

La gioia di credere, Gribaudi, Torino 1988 (sigla: GC)

Comunità secondo il Vangelo, Gribaudi, Torino 19964 (sigla: CV)

Indivisibile Amore. Pensieri di una cristiana controcorrente, Piemme, Casale Mon-ferrato 1994.

Il piccolo monaco. Un taccuino spirituale, Gribaudi, Torino 1990.

È stato il mondo a farci così timidi? Uno scritto inedito, Berti, Piacenza 1999.

Missionari senza battello. Le radici della missione, Messaggero, Padova 2004.

Per una introduzione alla sua spiritualità: biografie e profili

BOISMARMIN, Christine De, Madeleine Delbrêl (1904-1964). Strade di città, sentieri di Dio, Città Nuova, Roma 1988 (sigla: BB1).

GUÉGUEN, Jean, Madeleine Delbrêl. Una mistica nel mondo, Massimo, Milano 1997.

MANN, Charles, Madeleine Delbrêl. Una vita senza frontiere, Gribaudi, Torino 2004.

78 Lettera a un’amica: 09.09.1960.

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Luciano LUPPI, Madeleine Delbrêl. Testimone di fortezza spirituale

COPPADORO, Maria Luisa, Madeleine Delbrêl. Maestra di preghiera, Ancora, Milano 19992.

LOEW, Jacques, «Madeleine Delbrêl. La strana danza della nostra obbedienza», in: Preghiera e vita. Grandi modelli, Morcelliana, Brescia 1989, 113-159 (trad. di La vie à l’écoute des grands priants).

LOEW, Jacques, Dall’ateismo alla mistica. Madeleine Delbrêl, Dehoniane, Bologna 1996.

LUPPI, Luciano, «Madeleine Delbrêl (1904-1964), guida al discernimento come “ob-bedienza creativa” nei deserti contemporanei», in Rivista di Teolo-gia dell’Evangelizzazione 11 (2007) n. 21, 141-174.

PITAUD, Bernard, Il Cristo della porta accanto. Meditiamo con Madeleine Delbrêl, Paoline, Milano 2000.

SEQUERI Pier Angelo, «Forza del Vangelo e missione in Madeleine Delbrêl a cento anni dalla nascita», in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 8 (2004) 16, p. 437-445.

ZORZI, Diego, Madeleine Delbrêl. Una “donna teologale” nella città marxista, Berti, Piacenza 1997.

«Madeleine Delbrêl et l’incroyance»: Revue d’éthique et de théologie morale. «Le Supplément», n° 198, septembre 1996, 150 p. (Colloque Institut catholique de Toulouse et Association des Amis de Madeleine Delbrêl, 27-28 octobre 1994).

FRANÇOIS Gilles, PITAUD Bernard, SPYCKET Agnès, Madeleine Delbrêl connue et inconnue, le livre du centenaire, Montrouge 2004.

FUCHS, Gotthard (Hrsg.), «... in ihren Armen das Gewicht der Welt» Mystik und Verantwortung: Madeleine Delbrêl, Knecht, Frankfurt am Main, 1995.

Da segnalare il bollettino «Les Amis de Madeleine Delbrêl» - edito anche in lin-gua italiana (per riceverlo scrivere a: 11, rue Raspail – 94200 Ivry-sur-Seine – Fran-cia) e il sito internet (http://www.madeleine-delbrel.net/ ).

Bologna, 31 luglio 2007

Luciano Luppi

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66 Memorie Teologiche 1 (2008)

Luciano LUPPI, Madeleine Delbrêl. Testimone di fortezza spirituale

[email protected]

Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna

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Massimo NARDELLO, Teologia e senso della storia. Paul Tillich e il suo contributo al pensiero teologico contemporaneo, Memorie Teologiche 1 (2008) 68-88

Massimo NARDELLO

Teologia e senso della storia.

Paul Tillich

e il suo contributo al pensiero teologico contemporaneo

Introduzione e delimitazione della ricerca

Paul Tillich1 (1886-1965) rappresenta uno dei teologi più significativi del ’900. Cresciuto nella tradizione luterana, ha sviluppato il suo pensiero soprattutto a partire dalla teologia riformata di matrice sia dialettica che liberale – pur rifiutandone diverse posizioni – ma ha saputo parimenti nutrirsi della filosofia e della tradizione teologica cristiana antica e medievale per arrivare ad elaborare un vero e proprio sistema filoso-fico – teologico del tutto originale. La creatività del suo pensiero emerge in particola-re dalla sua capacità di rielaborare in una visione di sintesi che non è mai ingenua prospettive di per sé alternative, come la metafisica medievale di matrice sostanzial-mente tomista, il principio protestante della giustificazione per la sola fede e la co-stante preoccupazione di ribadire la radicale incapacità umana di giungere alla salvez-za con le proprie forze, l’attenzione all’esistenza umana personale e sociale secondo le peculiarità del pensiero esistenzialista. Anzi, secondo la sua stessa espressione, Til-

1 Nato in Germania da un pastore luterano e da una madre vicina al pensiero calvinista, Paul Tillich studiò filosofia e teologia in diverse università tedesche arrivando nel 1912 ad iniziare sia la carriera accademica che il ministero di pastore luterano. A parte il periodo in cui fu cappellano delle truppe tedesche durante la prima guerra mondiale, insegnò sia filosofia che teologia in diverse università del suo paese. Essendosi dichiaratamente e fortemente opposto al regime nazista, nel 1933 gli fu vietato l’insegnamento nelle università tedesche. Emigrò quindi in America, invitato dall'amico Reinhold Niebuhr, e insegnò all’Union Theological Seminary di New York fino al 1954, alla Divinity School dell'Università di Harvard fino al 1962 e quindi alla Divinity School dell'Università di Chicago fino alla sua morte.

Memorie Teologiche http://www.memorieteologiche.it

Rivista on-line a cura del Dipartimento di Storia della Teologia

Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna (FTER, www.fter.it) – Bologna – Italy.

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Massimo NARDELLO, Teologia e senso della storia. Paul Tillich e il suo contributo al pensiero teologico contemporaneo

lich ha pensato ed è vissuto «sul confine» tra realtà differenti nel continuo tentativo di metterle in rapporto tra loro: si tratta soprattutto della teologia e della filosofia, ma anche della Chiesa e della società, della religione e della cultura, del luteranesimo e del socialismo, dell’idealismo e del marxismo, e così via2. Nei suoi scritti, poi, in par-ticolare in quelli di taglio più spirituale, sa farsi portavoce in modo straordinario delle istanze dell’essere umano contemporaneo, delle sue domande, delle sue paure, del suo modo caratteristico di porsi alla ricerca di Dio.

Nonostante il riconosciuto valore dei suoi scritti e pur essendo un pensatore eu-ropeo, Tillich non è noto nel nostro continente quanto altri autori a lui contemporanei, come Karl Barth o Rudolph Bultmann, probabilmente perché – a mio parere – il suo pensiero si è sviluppato nel mondo nord americano e la teologia italiana continua so-stanzialmente a sottovalutare quel contesto teologico. In ogni caso, ancora oggi il suo pensiero riscuote un notevole interesse, come dimostra l’attività della The North

American Paul Tillich Society e di altre società analoghe che raccolgono diversi stu-diosi dediti alla sua analisi.

Vista l’enorme produzione di Tillich e la complessità della sua riflessione non è possibile affrontare compiutamente in questa sede il tema della sua visione teologica della storia; per rendere possibile una sommaria presentazione del tema, quindi, do-vremo porre alcune delimitazioni alla nostra indagine. In primo luogo ci si limiterà ad esporre il pensiero dell’autore senza porlo a confronto – al di là di alcuni brevi accen-ni – con quello di altri filosofi e teologi sia della tradizione cristiana antica (come Tommaso) che del ’900: in particolare, non sarà possibile considerare i molteplici in-flussi di carattere filosofico e teologico che sono confluiti nella produzione tillichia-na. In secondo luogo, non sarà neppure possibile prendere in esame lo sviluppo del pensiero dell’autore dall’età giovanile fino agli scritti più maturi; in questo contesto ci accontenteremo di presentare la sua visione teologica della storia nelle opere della sua maturità intellettuale, in particolare nella sua Systematic Theology. A tutto questo sarà premessa una breve introduzione al suo metodo teologico, condizione fondamentale per la comprensione di qualunque suo testo.

È importante rilevare, poi, che si parlerà del senso della storia in Tillich: egli non è mai stato interessato alla storiografia in quanto tale, cioè alla ricostruzione dei fatti del passato attraverso l’interpretazione delle fonti, ma sempre e solo al significa-to esistenziale di quei fatti3. Interrogarsi sul modo tillichiano di comprendere il lavoro

2 Cf. P. TILLICH , Sulla linea di confine. Schizzo autobiografico, Queriniana, Brescia 1969.3 Cf. C. E. BRAATEN, Paul Tillich and The Classical Christian Tradition, in P. Tillich, “A

History of Christian Thought. From Its Giudaic and Hellenistic Origins to Existentialism”,

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Massimo NARDELLO, Teologia e senso della storia. Paul Tillich e il suo contributo al pensiero teologico contemporaneo

dello storico significherebbe volgere la propria attenzione ad un tema praticamente inesistente, mentre ricostruire il suo modo di interpretare i fatti storici in quanto espressioni delle dinamiche fondamentali dell’esistenza umana significa entrare nel cuore del suo metodo e del suo pensiero.

Il metodo teologico di Tillich

Tillich dedica alcune pagine molto importanti della sua Systematic Theology per chiarire il suo metodo teologico, quello della correlazione4; si tratta di un approccio che a suo parere deriva direttamente da una corretta comprensione dell’oggetto della teologia sistematica, come dimostra il fatto che questa disciplina l’ha sempre adotta-to, sebbene in modo più o meno consapevole. Questo metodo intende spiegare il con-tenuto della fede cristiana mettendo in correlazione le domande esistenziali dell’esse-re umano e le risposte teologiche derivate dalla rivelazione.

Nel linguaggio comune il termine «correlazione» può indicare tre cose diverse: la corrispondenza tra differenti serie di dati (ad esempio, quelli dei diagrammi statisti-ci), l’interdipendenza logica di concetti o l’interdipendenza reale di oggetti o di even-ti. Tutti questi significati vanno ad arricchire il concetto di correlazione utilizzato nel metodo teologico di Tillich: essa, infatti, può indicare la corrispondenza tra i simboli religiosi e la realtà divina che essi significano, tra i concetti che caratterizzano l’uma-no e quelli che caratterizzano il divino (cioè, l’analogia) e persino tra il volto di Dio percepito soggettivamente nell’esperienza religiosa umana e Dio quale egli è nella sua oggettività; l’identità divina, infatti, se sul piano immanente è perfettamente auto-noma e non muta, nel suo autorivelarsi sul piano economico è dipendente dal modo in cui l’essere umano la comprende5.

In concreto, secondo il metodo della correlazione

edited by Carl E. Braaten, Touchstone, New York 1968, pag. xvi.4 Cf. P. TILLICH, Systematic Theology. Volume I. Reason and Revelation, Being and God, The

University of Chicago Press, Chicago 1951, pag. 59-66.5 In altre parole, è l’identità economica di Dio, cioè quello che egli rivela di se stesso e che

viene compreso dall’essere umano, ad essere oggetto di un’evoluzione e non Dio in se stesso. Pur consapevole che K. Barth non accetta l’idea che Dio dipenda da qualcosa o da qualcuno, Tillich scrive: “La relazione divino – umana, e quindi sia Dio che l’uomo all’interno di questa relazione, cambia con le tappe della storia della rivelazione e con quelle di ogni sviluppo personale”: TILLICH, Systematic Theology, I, pag. 61.

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Massimo NARDELLO, Teologia e senso della storia. Paul Tillich e il suo contributo al pensiero teologico contemporaneo

la teologia formula le domande implicate nell’esistenza umana, e la teologia for-mula le risposte implicate nell’automanifestazione divina sotto la guida delle domande implicate nell’esistenza umana6.

In questo modo si giunge al punto in cui le domande e le risposte non sono più separabili7.

La motivazione che rende necessario il metodo della correlazione è che le rispo-ste implicate nell’evento della rivelazione sono percepite come significative per l’es-sere umano solo nella misura in cui rappresentano le risposte al dramma della sua esi-stenza:

solo coloro che hanno sperimentato lo shock della transitorietà, l’ansietà nella quale essi sono consapevoli della loro finitezza, la minaccia del non essere, possono ca-pire cosa significhi la nozione di Dio. Solo coloro che hanno sperimentato le tragiche ambiguità della loro esistenza storica e hanno totalmente messo in questione il signifi-cato dell’esistenza possono capire che cosa significhi il simbolo del regno di Dio 8.

Il metodo teologico della correlazione, quindi, analizza anzitutto la situazione umana esplicitando le domande esistenziali che ne derivano, e dimostra poi che i sim-boli usati nel messaggio cristiano rappresentano la risposta a tali domande. L’analisi della situazione umana è fatta in chiave esistenziale; questo approccio però non si identifica semplicemente con la filosofia esistenzialista, che pure ha un ruolo determi-nante nel metodo di Tillich, ma più in generale si nutre di tutte quelle forme espressi-ve attraverso cui gli esseri umani manifestano la loro esperienza di finitudine:

L’analisi della situazione umana impiega materiali resi disponibili dalla creativa autointerpretazione dell’uomo in tutti gli ambiti della cultura. La filosofia contribuisce, ma lo stesso fa la poesia, il dramma, il romanzo, la psicologia terapeutica e la sociolo-gia. Il teologo organizza questi materiali in relazione alla risposta data dal messaggio cristiano9.

6 TILLICH, Systematic Theology, I, pag. 61.7 La teologia coglie le domande implicate nell’esistenza umana servendosi anche della

filosofia, che per Tillich ha essenzialmente una funzione di interpretazione dell’esistenza. La correlazione inscindibile tra domande e risposte comporta quindi anche un profondo legame tra la filosofia e la teologia: la prima, pur restando una disciplina distinta che di per sé può limitarsi alla sola analisi dell’esistenza umana, non può di fatto fare a meno della seconda, e viceversa: senza la teologia, infatti, la filosofia non saprebbe dare alcuna risposta alle domande fondamentali che pone, mentre la teologia senza quell’analisi esistenziale che si nutre abbondantemente di filosofia non saprebbe a quali domande rispondere e, alla fine, non potrebbe dire nulla.

8 TILLICH, Systematic Theology, I, pag. 61-62. 9 TILLICH, Systematic Theology, I, pag. 63.

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Questo apre all’interesse della teologia tutti gli ambiti della cultura umana nei quali si interpreta e si esprime il dramma dell’esistenza, anche se il fine di questo in-teresse è quello di correlare questa espressione con le risposte date dal messaggio cri-stiano. È questa una delle ragioni che rendono la lettura di Tillich complessa e affa-scinante nello stesso tempo: egli è capace di entrare con genialità negli ambiti più di-versi della cultura umana per far emergere dal loro interno una domanda di salvezza che è orientata verso la risposta cristiana. Tuttavia, anche se in ciascuno di questi am-biti culturali si può arrivare ad analisi più profonde di quelle elaborate da molte filo-sofie, l’analisi dell’esistenza umana rimane qualcosa di intrinsecamente filosofico, anche qualora fosse svolta da un teologo o su un terreno non tradizionalmente non as-segnato alla filosofia; il suo ruolo determinante, quindi, resta garantito.

Il metodo della correlazione tutela il carattere non deducibile del contenuto del-la rivelazione cristiana: le risposte offerte dalla teologia non possono essere ricavate dalle domande, cioè dall’analisi dell’esistenza umana. Tuttavia, se sul piano del con-tenuto le risposte cristiane dipendono dalla rivelazione, sul piano della forma dipen-dono dalla struttura delle domande a cui rispondono: in questo senso, la logica della mutua relazione tra domande esistenziali e risposte teologiche viene mantenuta anche in riferimento all’influenza che le prime esercitano sulle seconde.

Il metodo qui sinteticamente illustrato rappresenta l’approccio che Tillich utiliz-za anche per parlare del senso teologico della storia: in sostanza, si analizzano le di-namiche della storia con un approccio di natura filosofica e sociologica – che però per Tillich resta esistenziale in quanto si occupa dell’esistenza umana – per dimostrare che la storia non ha il suo senso se non in rapporto al regno di Dio.

La storia e il regno di Dio

La riflessione teologica di Tillich sulla storia è collocata prevalentemente nel V capitolo della sua Systematic Theology dove essa è colta in correlazione con il tema del regno di Dio; lo schema sintetico della trattazione è il seguente:

Una discussione teologica della storia deve […] trattare della struttura dei pro-cessi storici, della logica della conoscenza storica, delle ambiguità dell’esistenza stori-ca, del significato del movimento storico. Deve anche correlare tutto questo con il sim-bolo del regno di Dio, sia nel suo senso intrastorico che in quello metastorico10.

In questo contesto ci limiteremo a prendere in considerazione una parte del V capitolo, quella in cui Tillich coglie gli aspetti di ambiguità dell’esistenza umana al-

10 Paul TILLICH, Systematic Theology. Volume III. Life and the Spirit. History and the Kingdom

of God, The University of Chicago Press, Chicago 1963, pag. 298.

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l’interno della storia per poi dare prova di come solo il simbolo del regno di Dio sia la vera risposta alla domanda relativa al senso della storia11. Per comprendere queste sue riflessioni, tuttavia, occorre premettere alcune delle considerazioni che Tillich svolge nella parte della Systematic Theology che precede immediatamente quella in esame e che è intitolata «Vita e storia»12.

In questa parte della sua opera egli parla della consapevolezza storica come di quella facoltà umana che consente di interpretare i fatti e di comprenderli come eventi storici. Tale consapevolezza si esprime all’interno di una tradizione, cioè un insieme di memorie che vengono trasmesse da una generazione all’altra e che tramandano non un insieme di fatti casuali ma di eventi significativi sia per coloro che li trasmettono che per coloro che li ricevono. Dunque gli eventi non sono separabili dell’interpreta-zione: anzi, se da un lato non c’è storia senza fatti, dall’altro la storia non sussiste neppure senza l’interpretazione di questi fatti da parte della consapevolezza storica degli esseri umani.

Proprio in quanto la storia è interpretata, è possibile rinvenire in essa la dimen-sione della novità. Poiché gli esseri umani sono liberi e vivono nella storia con obiet-tivi propri sono capaci di trascendere la loro situazione concreta per dare vita a qual-cosa di nuovo, cioè di lasciare l’attuale per il possibile. Mentre nell’ambito generale della natura l’emergere del nuovo è legato semplicemente ai fattori evolutivi, nel-l’ambito antropologico deriva dai significati e dai valori per i quali gli esseri umani decidono di introdurre cambiamenti nella loro esistenza. Per questa ragione nessuna situazione storica produce quella seguente in modo deterministico ma la transizione avviene, almeno in alcuni momenti, anche grazie alla libertà umana.

La storia umana così caratterizzata si sviluppa all’insegna della necessità e del-l’imprevedibilità, derivate rispettivamente dalla realtà esistente e dalla creatività uma-na. Anche se ciascuna di queste due dinamiche esiste solo insieme all’altra, può tutta-via essere predominante l’una o l’altra. Quando in un determinato momento storico è più forte la dimensione della necessità la situazione complessiva è definita «trend», mentre quando predomina l’imprevedibilità ciò che si determina viene chiamato «chance». Se vi sono alcune regolarità nella sequenza degli eventi ben interpretate dalla psicologia e dalla sociologia, esse tuttavia non consentono di predire gli eventi futuri in quanto ogni situazione storica contiene «trends» ma anche «chances», cioè occasioni per cambiare il potere determinante di un «trend». Insomma, non è possibi-le stabilire delle leggi che prevedano i termini dello sviluppo storico: sebbene sia ne-

11 Cf. P. TILLICH, Systematic Theology, III, pag. 339-361.12 Cf. P. TILLICH, Systematic Theology, III, pag. 297-339.

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cessario utilizzare dei modelli o delle strutture interpretative per comprendere la sto-ria (ad esempio progresso e regresso, azione e reazione, ecc.), esse tuttavia portano con sé il rischio di essere compresi come leggi universali in grado di poter prevedere l’andamento della vicenda umana. Quando questo avviene, tali strutture finiscono per distorcere i fatti anziché consentirne l’interpretazione: la creatività umana non per-mette l’esistenza di strutture universali in grado di prevedere esattamente lo sviluppo della storia.

Poste queste sintetiche considerazioni, veniamo ora ad esaminare gli aspetti di ambiguità dell’esistenza umana all’interno della storia. Secondo Tillich essa, mentre procede verso il suo fine ultimo, attua continuamente degli obiettivi limitati, e nel fare questo o si avvicina alla sua finalità ultima o si allontana da essa: ora, tutte le am-biguità dell’esistenza umana nella storia sono forme di questa ambiguità di fondo. Per descrivere queste forme di ambiguità Tillich le struttura in tre categorie corrisponden-ti ai tre processi di sviluppo della vita, di cui parla in una parte precedente della Sy-

stematic Theology: l’auto-integrazione, l’auto-creatività e l’auto-trascendenza13. Nella sintesi di R. M. Pomeroy, il processo di auto-integrazione si determina quando la per-sona si muove all’esterno verso nuove esperienze, quindi le integra totalmente all’in-terno del suo io; quello di auto-creatività quando la persona si muove verso nuove esperienze, ma poi non solo si limita ad integrarle all’interno del suo io preesistente ma consente ad esse di ridefinirlo e di arricchirlo; quella di auto-trascendenza quando la persona si muove verso Dio14.

Le ambiguità dell’auto-integrazione nella storia

Per quanto riguarda le ambiguità dell’auto-integrazione all’interno della storia 15, esse si sostanziano nelle dinamiche che tendono a produrre l’universalità e la totalità; esse sono descritte dal concetto di «impero». Il fine degli imperi – peraltro, mai rag-giunto – è quello di includere tutti gli esseri umani nella loro unità; essi non nascono semplicemente dalla logica del potere politico o economico, ma piuttosto da gruppi storicamente significativi che usano il potere per attuare l’ideale e la vocazione che ritengono di avere: più forte e più motivata è questa identità, più grande è la passione del gruppo che dà vita all’impero. Ad esempio, l’impero romano si sentiva rappresen-

13 Cf. P. TILLICH, Systematic Theology, III, pag. 30ss.14 Cf. R. M. POMEROY, Paul Tillich: a theology for the 21st century, Writer's Showcase, Lincoln

2002, pag. 40.15 Per la restante trattazione del rapporto tra storia e regno di Dio, cfr. P. TILLICH, Systematic

Theology. Volume III. Life and the Spirit. History and the Kingdom of God, The University of Chicago Press, Chicago 1963, pag. 339-361.

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tante della legge, il sacro romano impero incarnazione del corpo cristiano, quello americano del principio della libertà, e così via. Come è evidente, accanto ad una di -mensione creativa e integrativa, l’impero esercita inevitabilmente una forza unifor-mante distruttiva nei confronti della pluriformità della vita, delle strutture e dei signi-ficati dell’esistenza umana.

D’altra canto, questa logica «imperiale» di unificazione non è l’unica esistente nella storia. Non tutte le tribù e le nazioni si sono orientate verso un modello di inclu-sività assoluta, non tutte le conquiste di popolazione e di territori sono state persegui-te da un impero e talora coloro che si erano orientati nella linea di un’integrazione universale sono ritornati poi ad una concezione tribale o nazionale della loro esistenza sociale. Questo dimostra che nella storia umana vi è anche una tendenza contraria al-l’elemento universalistico. In effetti, le dinamiche di un impero producono delle rea-zioni contrarie che orientano verso l’autonomia tribale o regionale o nazionale; anzi, si potrebbe dimostrare che tutti i movimenti isolazionisti importanti hanno agito sem-plicemente in reazione ad una dinamica universalistica alla quale erano richiesti di sottomettersi. Tuttavia le dinamiche della storia sono universalistiche per loro natura, per cui ogni resistenza particolaristica è destinata ultimamente a fallire.

Accanto a questa ambiguità della storia che emerge tra totalitarismi e particola-rismi ve n’è una seconda relativa alla struttura di potere all’interno dei gruppi storica-mente significativi, senza la quale essi non potrebbero agire nell’ambito della storia. Questa struttura può essere accentuata e portare verso un controllo totalitario della vita di ogni membro del gruppo, oppure indebolita per promuovere la libertà persona-le e conseguentemente la creatività. La prima tendenza si determina se i conflitti esterni richiedono un aumento del potere centrale o se forze disintegranti all’interno del gruppo mettono a repentaglio la sua esistenza; in questi casi la necessità di un for-te potere centrale tende ad annullare gli elementi di libertà che sono la condizione di ogni forma storica di creatività. Si arriva quindi al paradosso di un gruppo che può agire nella storia in quanto ha una forte struttura centrale di potere, ma non può usare tale sua capacità in modo vantaggioso per la storia poiché ha soppresso le potenzialità creative al suo interno. Solamente il gruppo di comando (o il dittatore) è libero di agi-re, ma le sue azioni sono private di significati e di valori in quanto essi possono emer-gere solo nell’incontro di esseri umani liberi; anche se questo potere è molto forte, esso finisce per distruggere i gruppi storici di cui si serve e alla fine anche se stesso.

D’altra parte, se si vuole favorire la libertà e la creatività occorre sacrificare il centralismo del potere e creare diversi centri di controllo ciascuno dei quali esercita in modo alternato il ruolo di comando; in questi casi, però, l’efficacia storica della

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grande creatività che si libera all’interno del gruppo rimane penalizzata in quanto l’assenza di un potere centrale rende impossibile l’unità e la forza del gruppo nel-l’ambito sociale.

Tutto questo pone un interrogativo: come è possibile superare le ambiguità di un «trend» imperiale esterno e di una centralizzazione interna del potere in modo da poter liberare la creatività umana senza i limiti costitutivi di un opprimente potere centrale?

Le ambiguità dell’auto-creatività nella storia

La grandezza della storia è quella di poter far emergere il nuovo; tuttavia ogni cosa nuova che si determina porta in sé elementi della situazione vecchia dalla quale essa deriva e questo determina una condizione di ambiguità. Un esempio che chiari-sce questo carattere ambiguo della crescita storica è quello del rapporto tra le genera-zioni: non si tratta di una questione legata all’autorità, ma al rapporto tra il vecchio e il nuovo nelle dinamiche storiche. Per fare spazio alla novità le giovani generazioni devono ignorare il processo creativo dal quale il vecchio era stato generato e riprova-re i risultati finali di questo processo, magari senza essere consapevoli dei problemi implicati in questi risultati e della loro capacità di porvi rimedio. Questi attacchi sono necessariamente ingiusti, ma questa loro caratteristica è parte integrante della loro forza che li rende capaci di irrompere nella situazione presente; tutto questo produce reazioni negative da parte dei rappresentanti del vecchio, che vedono in esso l’espres-sione della fatica e della grandezza del loro passato creativo. E così in questo conflit -to chi sta dalla parte del vecchio resta amareggiato, mentre chi si muove nella linea della novità si sente frustrato.

Anche la vita politica è ampiamente strutturata dall’ambiguità della creatività storica in quanto segnata dalla lotta tra dinamiche conservatrici e progressiste. Anche in situazioni non rivoluzionarie questa conflittualità conduce alla rottura dei legami umani, alla distorsione consapevole o inconsapevole della verità dei fatti, a promesse di realizzazioni ideali che non erano mai stati ipotizzate in precedenza e alla soppres-sione delle forze creative della controparte. Alla fine, può svilupparsi una situazione rivoluzionaria dovuta allo scontro tra rivoluzione e reazione (cioè, l’antirivoluzione). Vi sono situazioni nelle quali soltanto una rivoluzione – non necessariamente violenta – può produrre l’irruzione di una nuova creazione al prezzo della distruzione del vec-chio; tuttavia tale distruzione è talvolta così radicale che una nuova creazione diventa impossibile e si determina invece una lenta riduzione del gruppo e della sua cultura ad un livello di vita decadente. A fronte di questo pericolo di cadere nel caos i poteri

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stabiliti possono trovare facilmente una giustificazione ideologica per sopprimere le forze rivoluzionarie o per cercare di prendere il sopravvento con una controrivoluzio-ne non più orientata al nuovo ma alla tutela del vecchio: in effetti, spesso una rivolu-zione va in una direzione che contraddice i suoi significati originali e annulla coloro che l’hanno generata. Laddove questa dinamica di reazione (magari camuffata da ri-voluzione) vince, la storia non ritorna alla condizione precedente la rivoluzione, ma in una situazione nuova in cui si nega la novità e che tuttavia viene lentamente erosa dalla forza della novità stessa, che non può essere resa quiescente per lungo tempo. L’immenso sacrificio personale e le dinamiche distruttive che si determinano in que-sti processi orientano alla domanda di una creatività storica lontana da queste ambi-guità.

Le ambiguità dell’auto-trascendenza nella storia

I conflitti storici tra il vecchio e il nuovo raggiungono il livello più distruttivo se ciascuna delle due parti rivendica per sé il carattere di definitività; questa pretesa prende la forma della presunzione di avere o di portare il fine ultimo verso il quale la storia è orientata, sia nei termini della sua presenza attuale che in quelli del suo com-pimento anticipato. Questa situazione si determina non solo nell’ambito politico ma soprattutto nella sfera religiosa: la tensione tra il sacro (vecchio) e il profetico (nuo-vo) è un tema centrale nella storia delle religioni, e visto che il luogo favorito del de-moniaco è proprio l’ambito sacrale questi conflitti possono raggiungere un carattere distruttivo insuperabile, come ben attestato dalle guerre religiose di ogni epoca.

Il carattere di definitività è ben interpretato dal simbolo tradizionale della «terza fase», corrispondente alla redenzione che segue la creazione e la caduta. Questo sim-bolo, che indica il periodo del compimento, sta alla base delle visioni apocalittiche (ad esempio, nell’interpretazione di Agostino esso inizia con la fondazione della Chiesa cristiana), ma è pure stato secolarizzato: ad esempio, l’illuminismo lo ha com-preso come indicativo dell’età della ragione, il marxismo della società senza classi. In ogni forma di questo simbolo – religiosa o secolare – si esprime la convinzione che la storia ha raggiunto un punto che non può essere superato e che è ormai possibile ve-dere il compimento ultimo verso il quale essa si muove. Ora, in queste convinzioni si esplicitano due inclinazioni ambigue: la prima è l’autoassolutizzazione, nella quale la presente situazione è identificata con la terza fase, e la seconda è l’utopia, nella quale la terza fase è vista come prossima o già cominciata.

L’autoassolutizzazione è ambigua in quanto da un lato essa esprime la dinamica di autotrascendenza della vita attraverso i simboli religiosi (o non esplicitamente reli-

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giosi), mentre dall’altro mortifica tale dinamica di autotrascendenza identificando questi simboli con la stessa realtà ultima. Un esempio di queste ambiguità, secondo Tillich, è la tradizionale pretesa della Chiesa cattolica di essere il compimento della profezia relativa al regno millenario di Cristo sulla terra di cui parla l’Apocalisse e la conseguente autocomprensione dai tratti sia divini che demoniaci che la identifica con il regno di Dio. I movimenti utopistici sono invece ambigui in quanto, se da un lato creano nuove realtà grazie all’entusiasmo e ai sacrifici dei loro aderenti, dall’al-tro, se e quando l’esito finale della loro azione non realizza le loro aspettative, gene-rano in loro una profonda tristezza esistenziale seguita dal cinismo e dall’indifferen-za.

Le ambiguità dell’individuo nella storia

Molte religioni e filosofie ritengono che la storia non sia il luogo nel quale l’in-dividuo può trovare la felicità. Al di là della autenticità di questa affermazione, resta vero che la storia è la condizione fisica, sociale e spirituale della vita dell’essere uma-no in quanto egli riceve la sua esistenza come persona dal gruppo storico al quale ap-partiene. Anche se la storia non è fatta solo di politica, tuttavia questa dimensione re-sta quella predominante nell’attività storica degli esseri umani: i gruppi che determi-nano il corso della storia, infatti, hanno un carattere essenzialmente politico in quanto è a questo livello che essi possono attuare la loro identità sul piano storico16. Anche gli ambiti dell’economia, della scienza, dell’arte o religioso non possono evitare il continuo riferimento al contesto politico all’interno del quale le loro attività prendono vita.

Questa predominanza della funzione politica determina un’ambiguità di fondo. Essa, infatti, tende ad assoggettare a se stessa ogni altra dimensione in cui si esprime la creatività umana: questo è particolarmente evidente nei sistemi dittatoriali, in si sottomettono tutte le forme di creatività culturale, inclusa l’etica e la religione, al po-tere politico centrale. Per questa ragione la democrazia, in quanto tutela la libertà creativa nell’ambito politico, garantisce tale creatività anche in tutti gli altri ambiti dell’esistenza; essa è dunque il sistema politico che meglio assicura a ciascun mem-bro di un gruppo la possibilità di determinare il processo storico in cui è immerso.

16 Il termine identità traduce liberamente «centeredness»; l’idea di Tillich è che le realtà che possono influire nella storia devono avere un centro, cioè devono essere qualcosa di significativo, e che l’ambito in cui esse attualizzano questa loro identità sul piano storico sia la politica. Cf. P. TILLICH, Systematic Theology. Volume III. Life and the Spirit. History and

the Kingdom of God, The University of Chicago Press, Chicago 1963, pag. 346.

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Tuttavia anche il sistema democratico non è esente da ambiguità: le metodolo-gie di rappresentanza democratica finiscono per ridurre drasticamente la partecipazio-ne dell’individuo, talora al punto da annullare tutte le persone in una società di massa governata da una onnipotente burocrazia. Inoltre una maggioranza politica può essere prodotta e mantenuta solo attraverso metodologie che privano un ampio numero di in-dividui delle loro influenza politica per un tempo indefinito; in particolare, i canali della comunicazione pubblica nelle mani dei gruppi di governo possono diventare uno strumento di conformità che uccide la creatività dei singoli in tutti gli ambiti. In-fine la democrazia può anche determinare una situazione di stallo e di ingovernabilità a causa della divisione tra i gruppi che concorrono per il potere: per esempio, un nu-mero eccessivo di partiti può determinare l’impossibilità di creare una maggioranza che possa effettivamente governare, oppure la conflittualità tra posizioni partitiche ra-dicali può portare ad una battaglia che ha il medesimo esito. In entrambi i casi la dit-tatura non è molto lontana.

Insomma, vi è un’ambiguità di fondo dell’individuo nella storia che permane in ogni sistema politico. Essa può determinare quello che può essere definito «sacrificio storico», cioè il desiderio di fuggire dalla storia per cinismo e disperazione; si guarda all’ambito storico come a quello in cui governano le forze demoniache e si fissa lo sguardo al di là di essa con rassegnazione o elevazione mistica. In tale visione il sim-bolo della speranza (sia secolare che religioso), che esprime la meta verso la quale la storia è in cammino, ha perso il suo potere di motivare le persone; gli individui si per-cepiscono come vittime di forze su cui non possono influire. Tutto questo pone la do-manda del significato della storia per l’esistenza umana.

L’interpretazione della storia e la ricerca del regno di Dio

Ogni conoscenza della storia è necessariamente un processo ermeneutico in quanto essa avviene a partire da una comprensione previa del significato della storia stessa e, più in generale, dell’esistenza umana capace di orientare la selezione e l’ana-lisi dei fatti; parimenti, tuttavia, tale interpretazione della storia e della vita è influen-zata dalla conoscenza degli stessi processi storici. La consapevolezza dell’esistenza di questo circolo ermeneutico tra senso della storia (e dell’esistenza) e comprensione de-gli eventi storici è necessaria per chi si occupa di storia a qualsiasi livello.

Questo circolo ermeneutico rende impossibile una risposta oggettiva (in senso scientifico) alla domanda sul significato degli eventi storici per l’esistenza umana. Se solo il coinvolgimento nella storia può offrire la base per una sua interpretazione, al-lora esistono tante interpretazioni della storia quanti sono i contesti storici e i gruppi

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nei quali si può essere coinvolti; ciò pone il problema di stabilire a quale contesto o gruppo occorra aderire per avere la comprensione corretta del senso della storia, cioè di capire quale di essi abbia la giusta chiave di lettura delle cose.

In realtà, all’interno di un gruppo la sua chiave di lettura della storia (che deriva dalla sua autoconsapevolezza) e il senso della storia che essa rivela sono sperimentati in modo unitario, cioè nascono e si sviluppano insieme; è naturale quindi che un gruppo «scommetta» sulla sua chiave di lettura della storia e sulle aperture che essa consente per poi confrontarsi eventualmente con altre prospettive. Anche all’interno del «circolo teologico» non si può procedere che in questo modo: nell’autocoscienza cristiana i problemi implicati nell’ambiguità dell’esistenza sono corrisposti da ciò che è indicato con il simbolo del regno di Dio; questa affermazione, che non deriva origi -nariamente da un ragionamento, deve poi essere convalidata mettendo a confronto questo simbolo con gli altri modelli principali di comprensione della storia e parimen-ti arricchendone la sua comprensione alla luce delle prospettive alternative. A riprova del fatto che la teologia si muove in questo modo, notiamo che nella domanda posta sopra, in cui ci si è proposti di cogliere il senso universale della storia, si è supposto che tale senso esista: si è cioè presupposta la possibilità di un’interpretazione della storia con una pretesa di universalità. È la dimostrazione che la teologia non può che partire dalla comprensione della realtà ricavata dalla rivelazione per poi correlarla con le domande esistenziali e con le altre chiavi di lettura.

Muovendoci sul piano teologico, quindi, la domanda sul senso della storia di-venta il tentativo di motivare la risposta offerta da sempre a questo interrogativo dal-l’autocoscienza cristiana, cioè il simbolo del regno di Dio; in altre parole, occorre chiedersi come descrivere e giustificare questo simbolo in quanto risposta alla do-manda sul senso della storia. Secondo il metodo di Tillich, questo deve avvenire po-nendo la risposta cristiana in correlazione con le ambiguità dell’esistenza umana per mostrare che essa rappresenta la risposta migliore.

Le risposte negative alla questione del significato della storia.

I modelli interpretativi della storia possono essere suddivisi in due gruppi: quel-lo degli approcci storici e quello degli approcci non storici. L’approccio non storico presuppone che la storia non abbia un fine né immanente né trascendente e che essa sia semplicemente il luogo nel quale gli individui vivono la loro vita nella consapevo-lezza di non avere un orizzonte eterno. All’interno dell’interpretazione non storica della storia è possibile distinguere ulteriormente tre modelli: la prospettiva tragica, quella mistica e quella meccanicistica.

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L’interpretazione tragica, ben rappresentata nella cultura greca, ritiene che la storia non sia orientata verso un obiettivo storico o metastorico ma che si muova in modo circolare; nel suo corso si determina la genesi, il compimento e il declino di ogni essere vivente, ciascuno nei suoi limiti di tempo. In questa visione tragica si co-glie una grandezza, quella dell’identità e della creatività: si lodano la vita, la natura, le nazioni e le persone, ma non v’è reale speranza né attesa di un complimento imma-nente o trascendente della storia. In questa prospettiva nessuna delle ambiguità dell’e-sistenza umana sopra menzionate viene conquistata.

La via mistica, ampiamente sviluppata soprattutto nel mondo orientale, ritiene che l’esistenza storica non abbia significato in se stessa; ogni persona deve vivere al suo interno e agire in modo ragionevole, ma la storia non è la vera realtà né può gene-rarsi qualcosa di nuovo al suo interno. L’enfasi viene posta sull’individuo e partico-larmente sui pochi illuminati che sono consapevoli della loro condizione. Queste pro-spettive non contengono alcun impulso per trasformare la storia nella direzione del-l’umanità e della giustizia; anche in questo caso le ambiguità dell’umana esistenza non sono conquistate.

L’interpretazione meccanicistica, derivata dalle scienze moderne e dalla loro in-terpretazione della realtà, ritiene che la storia sia semplicemente una serie di eventi che avvengono nell’universo fisico che sono interessanti da studiare sul piano scienti-fico ma che non danno alcun contributo all’interpretazione dell’esistenza. Il meccani-cismo non enfatizza l’elemento tragico della storia: anzi, poiché è strettamente colle-gato al controllo sulla natura da parte della scienza e della tecnica porta dentro di sé una certa nozione di progresso limitata all’ambito materiale; nello stesso tempo, tutta-via, si muove nella linea della svalutazione cinica del senso dell’esistenza in generale e della storia in particolare. Anche in questo caso le ambiguità dell’umana esistenza non sono conquistate.

Risposte positive ma inadeguate alla domanda sul significato della storia.

Per quanto riguarda gli approcci storici, una risposta alla domanda sul significa-to della storia che porta con sé elementi positivi ma che resta comunque insoddisfa-cente è quella del progressivismo. Esso coglie correttamente l’intenzione progressiva che sottostà ad ogni azione creativa e può così pensare la storia come orientata verso un fine. In alcune fasi della storia il potere simbolico di questa interpretazione della realtà è stato forte tanto quanto i grandi simboli religiosi, come quello del regno di Dio; essa ha dato impeto all’azione storica, passione alle rivoluzioni e significato alla vita per molti che avevano perso qualunque fede. Si possono distinguere due forme di

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progressivismo: la credenza nel progresso in se stesso come un processo infinito sen-za una fine e la credenza nell’esistenza di uno stadio finale in cui il progresso avrà il suo compimento; la prima forma è il progressismo in senso proprio, la seconda è l’u-topianismo.

Il progressivismo in senso proprio (cioè la credenza nel progresso in quanto tale senza un complimento) ritiene che la realtà sia la creazione mai finita dell’attività cul-turale umana: non vi è nulla al di là di questo processo creativo. Questa visione pro-gressivista è stata smentita dall’esperienza del ‘900, in particolare da fattori quali la regressione a livelli di disumanità che sembravano essere stati superati da tempo, la manifestazione delle ambiguità del progresso negli ambiti in cui esso si realizza, la percezione dell’insensatezza di un progresso infinito e la comprensione profonda del-la libertà di ogni essere umano nel decidere per il bene o per il male.

Al contrario, l’interpretazione utopistica della storia ritiene che si arriverà ad uno stadio immanente in essa nel quale le ambiguità dell’esistenza saranno conquista-te; si tratta quindi di qualcosa che si determinerà sulla terra e che avrà come protago-nisti gli esseri umani. Il carattere problematico di questa interpretazione è stato ben colto soprattutto nell’arco del ventesimo secolo: se da un lato il potere e il valore del-l’utopia hanno portato a grandi successi in tutti quegli ambiti nei quali la legge del progresso è l’unico elemento in gioco, nello stesso tempo si è rivelata la forte ambi-guità di questa visione della realtà in quei settori nei quali la libertà umana è coinvol-ta. Proprio in questi ambiti si è attesa la realizzazione di un compimento privo di am-biguità da parte degli utopisti del Rinascimento e di tutti i loro successori nei movi-menti rivoluzionari degli ultimi tre secoli, ma queste loro aspettative sono state tradi-te; ne è seguita quella tipica disillusione fatta di cinismo e indifferenza che accompa-gna ogni fiducia assoluta riposta su qualcosa di finito e pertanto intrinsecamente ido-latrica. Anzi, l’utopianismo stesso è idolatrico in quanto ritiene realtà ultima (cioè, Dio) qualcosa che invece è preliminare, e nello stesso tempo ignora le ambiguità della vita e della storia: e questo fa dell’utopia un’interpretazione della storia inadeguata e pericolosa.

Una terza forma di interpretazione positiva ma inadeguata della storia può esse-re definita di tipo trascendentale. Essa è implicita nell’orientamento escatologico del NT e della prima Chiesa fino ad Agostino, ma è stata portata alle sue forme più radi-cali nel luteranesimo ortodosso. Secondo questa visione la storia è il luogo nel quale il Cristo è apparso per salvare gli individui all’interno della Chiesa dalla schiavitù del peccato e della colpa e per abilitarli a partecipare alla realtà celeste dopo la morte. L’azione storica, specialmente nell’ambito politico, non può essere purificata dalle

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ambiguità del potere; non v’è relazione tra la giustizia del regno di Dio e la giustizia delle strutture di potere in quanto i due mondi sono separati da un divario incolmabi-le. I tentativi rivoluzionari di cambiare un sistema politico corrotto contraddicono la volontà di Dio quale è espressa nella sua azione di salvezza. Inoltre, dopo che la sto-ria è diventata la scena di una rivelazione salvifica nulla di nuovo può essere atteso al suo interno, cioè non c’è spazio per una reale creatività intrastorica. Questa visione non offre un’adeguata interpretazione storica della storia: il suo limite più evidente è il fatto che mette in contrasto la realtà della salvezza con l’ambito della creazione e la redenzione dell’individuo con la trasformazione della società. In realtà il potere nel-l’ambito storico (politico) è in se stesso buono: poiché esso è elemento essenziale del-la struttura dell’esistenza, se esso fosse estraneo al percorso della salvezza la vita stessa ne sarebbe esclusa; è evidente il pericolo manicheo di una simile visione. So-prattutto, poi, questa prospettiva interpreta il simbolo del regno di Dio come un ordi-ne soprannaturale in cui gli individui entrano dopo la loro morte, anziché compren-derlo come un potere dinamico che si realizza nella storia e che si scontra con le forze demoniache presenti nelle chiese e negli imperi. Insomma, l’interpretazione trascen-dentale della storia è inadeguata in quanto esclude la natura e le culture dai processi salvifici: neppure in questa prospettiva le ambiguità dell’esistenza vengono conqui-state.

Il simbolo del regno di Dio e la risposta alla domanda del significato della storia.

Il simbolo del regno di Dio ha un duplice carattere, essendo intrastorico e meta-storico; in quanto intrastorico esso partecipa delle dinamiche della storia, in quanto metastorico risponde alle domande implicate nelle ambiguità delle dinamiche della storia. Nella prima forma esso si manifesta nella Presenza Spirituale (che per Tillich indica, approssimativamente, le varie chiese), mentre nella seconda si identifica con la Vita Eterna. Questa doppia dimensione del regno di Dio lo rende un simbolo del pensiero cristiano estremamente complesso da gestire.

Il carattere storico e metastorico del simbolo del regno di Dio emerge bene dalla sua connotazione politica: nell’AT esso non è tanto un ambito storico nel quale Dio regna quanto piuttosto lo stesso potere di Dio che egli eserciterà pienamente con la vittoria escatologica (metastorica) sui suoi nemici; tuttavia si parla pure degli ambiti storici nei quali esso viene attuato, come il Monte Sion, Israele, le nazioni, l’intero universo. Nel tardo giudaismo e nel NT il regno di Dio si identifica con la trasforma-zione metastorica del mondo, cioè con la nascita di un nuovo periodo nella storia; il simbolo politico di regno è trasformato in un simbolo cosmico, ma non perde la sua connotazione politica, come emerge dal mantenimento della simbologia regale che fa

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riferimento al più alto simbolo di potere di governo. Il regno di Dio ha anche una di-mensione sociale in quanto include l’idea di pace e di giustizia; esso compie così le aspettative utopistiche di un luogo storico in cui queste dinamiche possano realizzarsi perfettamente, ma parimenti le libera dai limiti dell’utopia aggiungendo il riferimento a Dio come l’autore del regno, cosa che sta a dire l’impossibilità di un compimento intrastorico di tali attese. Il terzo elemento implicato nel regno di Dio è quello perso-nalistico: in contrasto con i simboli nei quali lo scopo dell’esistenza è l’annullamento dell’individuo, il regno di Dio dà un significato eterno alla persona individuale; lo scopo verso il quale la storia è in cammino non è l’estinzione ma il compimento del-l’umanità storica in ogni suo membro. Infine, il regno di Dio è caratterizzato anche dall’universalità: esso non riguarda semplicemente gli esseri umani, ma coinvolge la vita in tutte le sue dimensioni.

Insomma, affinché il simbolo del regno possa rappresentare una risposta positi-va e adeguata alla questione del significato della storia deve essere compreso nel suo carattere immanente e trascendente allo stesso tempo; ogni interpretazione unilaterale toglie a questo simbolo il suo potere. Le prospettive utopistiche e trascendentali di matrice protestante sono espressioni di un uso improprio di questo simbolo che lo rende infruttuoso.

Anche nell’ambito biblico è possibile reperire questa duplice dimensione del simbolo del regno di Dio. Nella letteratura profetica l’enfasi è sull’ambito intrastorico e politico. Nelle profezie escatologiche Israele vedrà la vittoria di Dio contro i suoi nemici e il Monte Sion diventerà il centro religioso di tutte le nazioni; sebbene il gior-no del Signore sia prima di tutto giudizio, esso è anche compimento in senso storico e politico. Tuttavia nei testi profetici sul giudizio vi sono elementi non riconducibili so-lamente alle dinamiche storiche: è Dio che vince le battaglie contro i nemici di Israe-le, enormemente superiori per numero e per forza; è il santo monte di Dio che, sebbe-ne geograficamente irrilevante, diventerà il luogo nel quale tutte le nazioni verranno ad adorarlo; il Messia che realizzerà questa nuova situazione è un umano che ha però tratti sovrumani; la pace escatologica tra le nazioni viene espressa dall’idea di animali feroci che convivono pacificamente insieme, cosa evidentemente non possibile sul piano storico. Questi elementi trascendenti all’interno dell’interpretazione prevalente-mente immanente e politica del regno di Dio richiamano il suo doppio carattere; esso non può essere prodotto soltanto da un processo intrastorico. Nella comprensione po-litica del giudaismo durante il periodo romano questa doppia dimensione del regno fu dimenticata, cosa che comportò la distruzione di Israele come nazione.

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Fraintendimenti come questi hanno comportato un cambio nell’enfasi sulle di-mensioni del regno di Dio: dalla sottolineatura del piano immanente e politico si è passati a quella del piano trascendentale e universale. Questo è avvenuto, ad esempio, nella cosiddetta letteratura apocalittica intertestamentaria: qui la visione storica è al-largata e superata da una visione cosmica. La terra è una realtà vecchia e i poteri de-moniaci hanno preso possesso di essa; le guerre, i disagi e le catastrofi naturali di ca-rattere cosmico precederanno la rinascita di tutte le cose e il nuovo eone nel quale Dio finalmente diventerà il signore delle nazioni. Tutto questo non avverrà attraverso uno processo storico ma grazie ad un intervento divino metastorico. Il mediatore divi-no non è più un messia storico, ma il Figlio dell’uomo, un uomo celeste. Questa inter-pretazione della storia è decisiva anche per il NT, per il quale l’attuazione del regno in chiave intrastorica, cioè politica, all’interno dell’impero romano è impossibile. Così esso viene accettato nei suoi elementi positivi (Paolo), ma pure sarà distrutto da Dio a causa della sua struttura demoniaca (Apocalisse). Queste prospettive che sotto-lineano la dimensione metastorica del regno, pur essendo alternative a qualunque pro-gressismo e utopianismo intrastorico, non ignorano tuttavia la dimensione immanente e politica: il riferimento all’impero romano, visto come l’ultimo e il più grande degli imperi umani, mostra che la comprensione dei poteri demoniaci non è semplicemente immaginaria ma è collegata ai poteri storici del periodo. Del resto, ogni generazione cristiana ha potuto leggere nelle immagini apocalittiche i tratti del momento storico che stava vivendo. Soprattutto, poi, il NT testimonia l’apparizione storica di Gesù Cristo e la fondazione della Chiesa nel mezzo delle ambiguità della storia: questo mo-stra che l’enfasi sulla trascendenza del simbolo del regno di Dio non esclude affatto la sua dimensione intrastorica.

Insomma, il regno di Dio, colto correttamente nella sua duplica dimensione,

rappresenta realmente l’espressione di una salvezza che non svaluta la storia ma che

la porta ad un compimento escatologico che al suo interno non sarebbe possibile.

Il mistero di Dio come ambiguità eternamente conquistata

La trattazione di Tillich sul tema del regno di Dio continua fino alla fine della Systematic Theology analizzandone le modalità dell’inserimento nella storia e il suo compimento escatologico. Non è possibile continuare la presentazione del suo pensie-ro per ragioni di spazio, anche se servirebbe a chiarire ulteriormente il suo pensiero sul tema in esame. È comunque opportuno menzionare brevemente una tematica di grande rilievo che egli affronta principalmente in The Courage to Be e che, pur ri-guardando la dottrina su Dio, apre importanti sviluppi sul tema del senso della storia.

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La teologia è essenzialmente un processo correlativo che coglie le ambiguità presenti nell’esistenza umana e ricava dalla rivelazione cristiana delle risposte, infor-mate da quelle domande, attraverso cui il credente può conquistare queste ambiguità: non dunque eliminarle, ma vincerle. L’atteggiamento attraverso è possibile conquista-re le ambiguità della vita è definito da Tillich come «coraggio».

Senza poter entrare nello spessore esistenziale e ontologico di questo termine nel pensiero tilichiano, dobbiamo rilevare che la stessa dinamica del coraggio e della conquista delle ambiguità è rilevabile – simbolicamente parlando – in Dio stesso. Un testo particolarmente significativo di questa visione è il seguente:

Il coraggio di essere in tutte le sue forme ha in se stesso un carattere rivelatorio. Esso mostra la natura dell’essere, mostra che l’autoaffermazione dell’essere è un’affer-mazione che vince la negazione. Con un’affermazione metaforica (e ogni discorso al ri -guardo dell’essere in se stesso è o metaforica o simbolica) si potrebbe dire che l’essere include il non essere ma che il non essere non prevalga su di esso. «Includere» è una metafora spaziale che indica che l’essere abbraccia se stesso e ciò che è opposto ad esso, il non essere. Il non essere appartiene all’essere, non può essere separato da esso. Non possiamo nemmeno pensare a «l’essere» senza una doppia negazione: l’essere deve essere pensato come la negazione della negazione dell’essere. Per questa ragione descriviamo meglio l’essere con la metafora «potere di essere». Il potere è la possibilità che un essere ha di attuare se stesso contro la resistenza degli altri esseri. Se parliamo del potere dell’essere stesso indichiamo che l’essere afferma se stesso contro il non es-sere. Nella nostra discussione sul coraggio e sulla vita abbiamo parlato della compren-sione dinamica della realtà fatta dai filosofi dell’esistenza. Tale comprensione è possi-bile solo se si accetta la prospettiva secondo cui il non essere appartiene all’essere, e l’essere non può essere il fondamento della vita senza il non essere. L’autoaffermazio-ne dell’essere senza il non essere non sarebbe un’autoaffermazione ma una immobile autoidentità. [...] Il non essere (quello in Dio, che rende dinamica la sua autoafferma-zione) apre il divino autoisolamento e lo rivela come potere e amore. Il non essere fa di Dio un Dio vivente. Senza il No che egli deve vincere in se stesso e nelle sue creature, il divino Sì a se stesso sarebbe senza vita. Non ci sarebbe rivelazione del fondamento dell’essere, non ci sarebbe vita17.

Questa visione di Dio come processo che incessantemente conquista il non esse-re presente al suo interno può creare qualche difficoltà, vista la sua distanza rispetto alla prospettiva teologica classica. In realtà, dal mio punto di vista è possibile trovare una sintonia tra questa visione di Tillich e alcune prospettive di teologia trinitaria contemporanea. Per limitarci ad alcune frammentarie considerazioni, un dato costante della tradizione cristiana è quello secondo cui le processioni trinitarie sono necessarie

17 P. TILLICH, The Courage to Be, Yale University Press, New Heaven and London 2000, pag. 178-180. L’edizione originale è del 1952.

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all’esistenza di Dio, per cui egli «cadrebbe nel nulla» se non procedesse eternamente; ora, si può pensare che in Dio necessità e libertà coincidano 18, per cui le processioni siano necessarie e libere allo stesso tempo: in effetti, essendo queste processioni le re-ciproche donazioni delle Persone divine ed essendo l’amore espressione di libertà dif-ficilmente esse potrebbero non essere libere. Se ci si muove in questa prospettiva, si può affermare che il Dio trinitario sceglie liberamente (e necessariamente) di esistere, cioè di vincere il non essere, attraverso la reciproca donazione delle Persone; questa libera e necessaria decisione con cui Dio vive la sua autodonazione immanente man-tenendosi nell’essere non è molto lontana dall’idea tillichiana del coraggio con cui Dio conquista eternamente il nulla che porta dentro di sé.

È evidente che queste osservazioni aprono una lunga serie di complesse questio-ni che in questa sede non è possibile sviluppare più ampiamente. In ogni caso, è chia-ro che per Tillich le ambiguità dell’esistenza umana non verranno mai eliminate ma arriveranno ad essere conquistate: la storia umana è incamminata verso una condizio-ne in cui ogni essere vivente potrà partecipare pienamente della capacità di Dio di af-fermare perfettamente se stesso contro l’ambiguità del non essere.

Conclusioni

Prima di proporre una sintetica considerazione conclusiva, vorrei menzionare solo una delle molte osservazioni critiche che sono state fatte nei confronti del pen-siero di Tillich in quanto particolarmente importante per la comprensione della tratta-zione fin qui svolta: si tratta della critica al modo in cui egli passa dall’ambito del fi -nito e delle sue ambiguità a quello dell’eterno; secondo questa osservazione egli non sembra sviluppare sufficientemente un’ontologia del finito tale da consentirgli di in-terpretarlo come rimando all’infinito19. In realtà, l’impronta dialettica della teologia di Tillich non ritiene affatto possibile questo rimando: se si comprende bene il metodo della correlazione e si ricorda che le risposte non possono essere dedotte dalle do-mande esistenziali, si capisce bene come l’analisi del finito possa solo generare inter-rogativi e far emergere delle ambiguità che restano tuttavia senza soluzione; è neces-saria la rivelazione, donata dall’alto e non deducibile dall’esistenza e dalle sue dina-

18 Si tratta dell’approccio di J. Moltmann, che ha però il limite di non cogliere adeguatamente la differenza tra la Trinità economica e quella immanente: cfr. J. MOLTMANN, Trinità e regno

di Dio. La dottrina su Dio, Queriniana, Brescia 1983, pag. 166.19 Si tratta di una delle critiche rivolte a Tillich da E. Scabini, secondo la quale egli afferma in

modo troppo facile che le contraddizioni del finito suppongono l’eterno, ma non fa un'analisi del finito che giustifichi questo passaggio. cfr. E. SCABINI, Il pensiero di Paul

Tillich, Vita e Pensiero, Milano 1967, pag. 212.

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Massimo NARDELLO, Teologia e senso della storia. Paul Tillich e il suo contributo al pensiero teologico contemporaneo

miche, perché le domande che derivano dall’analisi esistenziale possano trovare ri-sposte. La teologia non trova le risposte alle domande antropologiche sviluppando un percorso ascendente rispetto al finito ma mettendo in correlazione quelle domande con il contenuto di una rivelazione che è donata.

In conclusione, qual è il contributo di Tillich alla riflessione odierna sul senso teologico della storia? L’apporto più significativo mi sembra essere la sua capacità – fondata sul suo metodo teologico – di interpretare la storia non solo come oggetto dell’azione salvifica di Dio, ma anche come ciò che dà forma, attraverso le domande esistenziali, alla comprensione umana dell’autorivelazione di Dio, pur rispettando il carattere indeducibile di quest’ultima. Questo consente di evitare sia il soprannatura-lismo di matrice dialettica che svaluta la storia, sia lo storicismo che riduce sul piano immanente dei processi storici l’autodonazione del Dio infinitamente trascendente.

Massimo [email protected]à Teologica dell’Emilia-Romagna

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Fabrizio MANDREOLI, «Un tempo per l’incontro». Note storico-teologiche su Andrea di san Vittore e i commentatori ebrei della bibbia del XII secolo, Memorie Teologiche 1 (2008) 89-107

«Un tempo per l’incontro».

Note storico-teologiche su Andrea di San Vittore

e i commentatori ebrei della bibbia del XII secolo

Il testo è la base della relazione tenuta per la sessione di studio in occasione del-la Giornata per il dialogo ebraico-cristiano del 16 Gennaio 2008.

1. Introduzione

La posizione originale di Andrea di San Vittore è stata evidenziata in prima bat-tuta dagli studi – tra loro discordanti, almeno in parte – di Beril Smalley1 ed Henri De Lubac e più recentemente dal teologo tedesco Rainer Berndt. In questa sede, interes-sata alla ricerca di tracce storiche del dialogo ebraico-cristiano, è utile mostrare come tale originalità possa interrogare la nostra riflessione. È noto come molti autori me-dievali mettono al centro della loro riflessione i testi dell’Antico Testamento, per mo-tivi teologici, spirituali, mistici e politici. Per lo stesso Ugo, maestro di Andrea e fon-datore intellettuale della scuola di San Vittore, l’Antico Testamento è collocato in una posizione centrale nei suoi trattati d’introduzione allo studio biblico e alla «teologia».

In tale quadro, che vede una forte attenzione all’Antico Testamento e, tra il XI e il XII secolo, un rinnovamento complessivo dell’esegesi cristiana2, indaghiamo l’ope-

1 Cf. B. SMALLEY, The Study of the Bible in the Middle Ages, Oxford, 1952, 19833, pp. 112-195.2 G. DAHAN, L’exégèse chrtienne de la Bible en Occident médiéval, Paris 1999, p. 373: «Les

grandes transformations dans l’exégèse occidentale s’accomplissent aux XIe et XIIe siècle».

Memorie Teologiche http://www.memorieteologiche.it

Rivista on-line a cura del Dipartimento di Storia della Teologia

Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna (FTER, www.fter.it) – Bologna – Italy.

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Fabrizio MANDREOLI, «Un tempo per l’incontro». Note storico-teologiche su Andrea di San Vittore e i commentatori ebrei della bibbia del XII secolo

ra di Andrea di San Vittore, che si caratterizza per una duplice originalità che lo ricol-lega, in termini espliciti, a Girolamo3. Considerando, ad esempio, il commento al pro-feta Ezechiele di Andrea – Expositio in Ezechielem – è facile accorgersi che si è da-vanti al primo commento sul testo profetico, versetto per versetto, esclusivamente let-terale dai tempi del commento di Girolamo. Dal V al XII secolo, per cioè più di 700 anni, questo libro è stato oggetto di commenti interessati soprattutto ai suoi sensi mi-stici e allegorici4. Con Andrea sembra riemergere con forza un interesse, certo, mai sopito nella coscienza dei commentatori, ma presente solo in maniera carsica e perife-rica per la historica lectio. Un secondo elemento di contatto con l’opera di Girolamo si trova nell’abbondante presenza di fonti ebraiche. Non solo, ma ad una attenta os-servazione gli studi mostrano che nel testo di Andrea si hanno, rispetto a quello di Gi-rolamo, riferimenti maggiormente abbondanti a tali fonti5. Con l’esegeta di San Vitto-re si assiste ad un rinnovato interesse per il testo, la littera e la hystoria biblica, e per l’utilizzo abbondante di fonti di matrice ebraica. Certo, tale attenzione non può essere sovradimensionata, consci che una certa valorizzazione dell’idea – sostituzionista – del popolo testimone comportava anche il suo ruolo di bibliotecario e custode della legge. Basti pensare che nei suoi testi, spesso fortemente antigiudaici, Pier Damiani nel XI secolo raccomanda la consultazione degli ebrei per la loro conoscenza letterale delle scritture: «il divino redentore fa in modo che, per conservare la […] legge, ven-gano serbati dei resti dei Giudei, i quali siano in qualche modo i nostri archivisti – scriniarii –, e portino in tutta la terra, nella stessa lingua in cui furono scritti, i libri della Parola divina. Cosicché essi, che pure ci sono nemici – qui nobis inimici sunt –, se capita che sorga qualche incertezza di interpretazione, ci tolgano ogni dubbio6».

Tuttavia ci pare che le expositiones di Andrea sull’Antico Testamento presenti-no rispetto a molti commentari medievali una relazione privilegiata del commento con la dimensione historica della Bibbia e una frequentazione affatto originale del mondo ebraico antico e contemporaneo che suggeriscono un ricorso a tale mondo teo-logicamente significativo e non solo strumentale.3 Andreae de Sancto Victore Opera VI. Expositionem in Ezechielem, CCCM LIIIe, p. 1:

«Hystoricam egregii doctoris Ieronimi expositionem nostre qualicumque sicut in ceteris operibus nostris premittentes quod dominus inspirare voluerit nostreque labor industrie vel a se vel aliunde mutuari potuerit, ad communem legentium utilitatem in unum, deo iuuante, conferemus».

4 Cf. W. NEUSS, Das Buch Ezechiel in Theologie und Kunst bis zum Ende des XIII. Jahrhunderts, Munster 1912.

5 Cf. M. A. SIGNER, Preface, in Andreae de Sancto Victore Opera VI. Expositionem in Ezechielem, CCCM LIIIe, p. VII.

6 PIER DAMIANI, Lettera 90, in Id., Lettere (68-90), Petri Damiani Opera I/IV Roma 2005, pp. 454-455.

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Fabrizio MANDREOLI, «Un tempo per l’incontro». Note storico-teologiche su Andrea di San Vittore e i commentatori ebrei della bibbia del XII secolo

Per il presente studio è, così, rilevante determinare il tipo di contatto stabilito con l’esegesi giudaica del tempo (§5) e rinvenire alcuni elementi del senso teologico dell’utilizzo, da parte di Andrea di San Vittore, della tradizione interpretativa ebraica per i commenti letterali alla scrittura (§6). Per compiere una tale valutazione sono ne-cessarie, in sede storico-teologica, una serie di informazioni e riflessioni previe ri-guardanti: il contesto vitale della riflessione di Andrea (§2), le attenzioni prioritarie della sua produzione esegetica (§3) e la specificità del suo approccio letterale alla Bibbia (§4).

2. Il contesto della produzione esegetica di Andrea

In primo luogo è utile una premessa sulla corrente teologica a cui Andrea appar-tenne. Andrea fa parte a pieno titolo, con Ugo e Riccardo, dei maestri più influenti della scuola di San Vittore che – fondata a Parigi nel 1113 – ha il periodo di massima fecondità e irraggiamento tra il 11257 e il 1246 con la morte di Tommaso Gallo.

Andrea entrando a San Vittore vi si distingue per una cospicua ed originale pro-duzione biblica. Le prime informazioni storiche affidabili risalgono alla sua elezione ad abate di una abbazia vittorina nel Galles, a Wigmore, nel 1147/1148, dove egli morirà, dopo diversi spostamenti e rientri a Parigi, nel 1175.

L’opera di Andrea decisamente concentrata sulla lettura dell’Antico Testamen-to, eredita tale attenzione direttamente dall’impostazione della scuola di San Vittore, in particolare del suo indiscusso magister Ugo. Ugo di San Vittore, infatti, commenta numerosi libri dell’Antico Testamento e anche nel comporre la propria opera di natu-ra sistematica, che è stata descritta come uno dei primi esempi di summa medievale, utilizza l’Antico Testamento come punto di partenza della sua costruzione teologica. A differenza di diversi autori del XII secolo Ugo non sceglie come punto di partenza della propria trattazione sistematica la dottrina della Trinità o l’insegnamento sui sa-cramenti, ma incomincia con la trattazione della relazione tra l’esegesi dell’Antico Testamento e l’intera teologia. In particolare, introduce all’inizio della sua Summa i concetti di opus conditionis – opera della creazione – e opus restaurationis – opera della redenzione – che sono, nel contempo, strumenti per la comprensione esegetica dei testi e linee guida della disposizione di tutta la sua teologia. Egli rielaborando la classica teoria del triplice – o quadruplice – senso della Scrittura pone una particolare insistenza sulla dimensione letterale-storica, su cui costruisce una riflessione sui mi-steri fondamentali della fede cristiana disposta lungo l’asse della storia della salvezza narrata dalla Sacra Scrittura. Per Ugo l’esegesi letterale e storica è, dunque, funda-mentum della lettura della Scrittura nei suoi ulteriori sensi e in quanto tale si trova ad

7 Data di composizione del Didascalicon da parte di Ugo di San Vittore.

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Fabrizio MANDREOLI, «Un tempo per l’incontro». Note storico-teologiche su Andrea di San Vittore e i commentatori ebrei della bibbia del XII secolo

essere fundamentum ineliminabile della lettura sistematica e organica dei sacramenti della fede cristiana.

La collocazione di Andrea all’interno della Scuola di San Vittore non va, però, pensata come una tranquilla e incontrastata condivisione di metodi e prospettive, pri-va di una propria specifica originalità. Egli dell’analisi di Ugo prende, infatti, solo al -cune attenzioni e spesso rivede le interpretazioni proposte dal suo maestro. In un’im-portante opera, il De Emmanuele8, di Riccardo di San Vittore, un altro membro auto-revole della Scuola, si trova una dura contestazione dell’impostazione complessiva di Andrea. Secondo Riccardo, Andrea sarebbe troppo influenzato dalla riflessione ebrai-ca. Essa sarebbe non solo cieca, ma perfida e colpevole9, esageratamente concentrata sul senso letterale e storico e dimentica della mystica intelligentia che, andando ben al di là del semplice senso letterale, cerca la contemplazione di Dio nello specchio della divina Scrittura10. Riccardo accusa Andrea di tendere la mano agli ebrei e di giudaiz-zare, esasperando unilateralmente l’attenzione proposta da Ugo alla littera e alla hi-storia, senza tra l’altro risolvere veramente i problemi esegetici11.

8 RICHARDUS DE SANCTO VICTORE, De Emmanuele, in P.L. 196, 601-665.9 RICHARDUS DE SANCTO VICTORE, De Emmanuele, in P.L. 196, 606: «Ecce in eisdem ipsis verbis

prophetae unde Christianus illuminatur, inde Judaeus excaecatur, diabolus infatuatur. Ecce ubi agnus ambulat, elephas natat, sed non enatat. Ecce ubi Christiana simplicitas planam viam invenit, currit, nec offendit, Judaica perfidia submergitur, diabolus suffocatur. In tantum autem illuminatur Christianus, ut malit mori quam veritatem diffiteri, in tantum excaecatur Judaeus ut paratior sit mori quam veritatem fateri, in tantum infatuatur diabolus, ut praesumat posse fieri peccatorem quem constat esse omnium Redemptorem. Haec omnia, inquit, tibi dabo si, procidens, adoraveris me. Illum provocat ad se adorandum cui flectitur omne genu coelestium, terrestrium et infernorum. Ecce quomodo stulti facti sunt principes Taneos. Et quidem necesse erat ut redemptionis nostrae sacramenta verborum ambiguitate obnubilarentur, ne a malignis spiritibus vel hominibus intelligerentur, et impedirentur. Si enim cognovissent, nunquam Dominum gloriae crucifixissent».

10 L’esposizione letterale serve per fortificare la riflessione e la fede, ma queste due realtà si fondano e trovano consistenza in un orizzonte più profondo rispetto a quello dell’esegesi letterale. Il sensus litteralis deve, per esssere colto nel suo vero senso, condurre sempre alla mystica intelligentia.

11 RICHARDUS DE SANCTO VICTORE, De Emmanuele, in P.L. 196, 601: «In quemdam magistri Andreae tractatum, quem in Isaiae explanationem scripserat, simul et ediderat, incidi, in quo nonnulla minus caute posita, minus catholice disputata inveni. In multis namque scripturae illius locis ponitur Judaeorum sententia quasi sit non tam Judaeorum quam propria, et velut vera. Super illum autem locum: Ecce virgo concipiet, et pariet filium, Judaeorum objectiones vel quaestiones ponit, nec solvit, et videtur velut eis palmam dedisse, dum eas veluti insolubiles relinquit».

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Malgrado alcune tensioni l’opera di Andrea venne comunque accolta positiva-mente nell’ambito della scuola di San Vittore, in cui probabilmente le sue opere di-vennero testi di studio fondamentale12, e negli ambienti intellettuali del XII e XIII se-colo che mostrarono di apprezzare l’acribia della sua conoscenza biblica.

3. le attenzioni principali della produzione esegetica di Andrea

La produzione di Andrea consta di commentari su quasi tutti i libri dell’Antico Testamento. Nel primo periodo della sua produzione, prima del 1147, egli commenta l’ottateuco e i libri dei re, mentre durante il periodo di ritono a Parigi, dal 1153 al 1162, egli scrive le expositiones su Isaia, Geremia, Ezechiele e i profeti minori. In un terzo periodo, tra il 1162 e la morte, egli commenta il libro dei proverbi, l’ecclesiaste e il libro di Daniele. I suoi commenti sono tutti compiuti sui manoscritti della Bibbia di San Vittore, che costituisce un momento importante della tradizione medievale del-la Vulgata di Gerolamo.

Ricordiamo che la duplice prospettiva del testo di Girolamo, l’accesso all’he-braica veritas e il reperimento di un testo «criticamente» affidabile, viene ripresa pro-prio nel XII e XIII secolo in relazione a due problemi la cui pertinenza si mostrava sotto nuove forme: in primo luogo gli esegeti delle scuole del XII secolo e delle uni-versità del XIII secolo cercano di emendare il testo della Vulgata dai suoi molti errori confrontandoli criticamente con le loro fonti e manoscritti: si tratta di quella sensibili-tà che darà vita all’edizione parigina della Bibbia e ai correlativi correctoria delle scuole francescane e domenicane13; in secondo luogo i contatti rinforzati con il mon-do ebraico producono una rinnovata consapevolezza che la Vulgata è una traduzione molto autorevole, ma, appunto, è solo una traduzione. Con i suoi commentari Andrea intende fornire un contributo specifico per entrambi questi problemi: il testo critico della Bibbia e la littera ebraica dell’Antico Testamento14.

3.1. La critica testuale

Il suo lavoro di critica testuale si compone di due passaggi principali: in primo luogo egli discute e valuta il valore delle differenti varianti e poi propone un emenda-mento in base alle scelte compiute; in secondo luogo egli rimaneggia il testo biblico – la versione della Vulgata – che lui poteva avere a disposizione. Per compiere entram-

12 Cf. F. A. VAN LIERE, Andrew of St. Victor (d. 1175): Scholar between Cloister and School, in J. W. DRIJVERS - A. A. MAC DONALD (ed.), Centres of Learning, Leiden 1995, pp. 187-195.

13 Cf. G. DAHAN, La connaissance de l’hebreu dans les correctoires de la Bible du XIIIe siècle, in Revue théologique de Louvain 23 (1992), pp. 187-188.

14 Cf. R. BERNDT, The School of St. Victor in Paris, in C. BREKELMANS – M. HARAN, Hebrew Bible/Old Testament – The History of its interpretations, Göttingen 1998, p. 480.

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be le operazioni egli ricorre anche alla tradizione e alle fonti rabbiniche, ricercando l’hebraica veritas, ossia una maggiore fedeltà al testo ebraico della Bibbia. Andrea ri-sulta, infatti, convinto che una siffatta attenzione filologica sia necessaria per una più attenta e fedele interpretazione biblica. Il problema sollevato dai critici di Andrea consiste proprio nella supposta ricezione da parte di Andrea di un testo con varianti provenienti da ambiente non cristiano. Comunque è assodato dagli studi che con An-drea di San Vittore e alcuni altri autori la riflessione ebraica antica e contemporanea al XII secolo ha giocato un ruolo non marginale nell’emendazione del testo della Vul-gata. Si può, come esempio, ricordare il prologo – monitum – della versione della Bibbia di Stefano Harding in cui lui accenna a sessioni di studiosi per la verifica del testo biblico, sessioni a cui risultano costantemente invitati maestri ebrei con la loro scrittura, la cui opinione aveva un carattere dirimente15.

3.2. La littera dell’antico testamento

Il secondo aspetto dell’attenzione di Andrea al testo biblico riguarda appunto la relazione tra l’originale e la sua traduzione, tra il testo ebraico e la versione latina di Girolamo. Per Andrea la ricerca di una traduzione corretta diventa anche un campo privilegiato di interpretazione. Il nostro autore quando cambia i termini latini delle sue traduzioni lo fa per rendere meglio l’originale e per fare questo si mostra partico-larmente attento ai commentari rabbinici, tra le locuzioni più presenti nei commenti di Andrea si trovano le espressioni: in Hebreo habetur, Hebrei dicunt, in Hebreo pla-nius, Hebraicum verbum dicit, ex Hebreo. Degna di nota è la pratica – tipica anche della scuola di Rashi16 – di utilizzare, per risolvere problemi di traduzioni, parole del-l’antico vernacolo francese come sostituto del latino, con l’obiettivo di rendere, con la maggiore precisione possibile, il termine originale comprensibile al lettore. In tale quadro è facile intuire come nelle opere di Andrea il confine tra lo sforzo di traduzio-ne e quello dell’interpretazione si confonde facilmente e tende, a volte, a scomparire: Andrea, nell’atto stesso di tradurre, interpreta e spiega17. Nel metodo del Vittorino – che sviluppa così una sensibilità tipica di tutta la scuola di San Vittore – la fissazione di un supporto testuale più affidabile e la sua successiva traduzione rivestono, dun-

15 Cf. Il «monitum» della ‘Bibbia di Santo Stefano’, in C. STERCAL, Stefano Harding. Elementi biografici e testi, Milano 2001, pp. 46-49; cf. anche G. DAHAN, La connaissance de l’hebreu dans les correctoires de la Bible du XIIIe siècle, in Revue théologique de Louvain 23 (1992), p. 188.

16 Sono i cosidetti la’azim utilizzati da Rashi, cf. S. SCHWARZFUCHS, Rashi. Il maestro del Talmud, Milano 2005, pp. 61-62 e 103-111.

17 R. BERNDT, The School of St. Victor in Paris, in C. BREKELMANS – M. HARAN, Hebrew Bible/Old Testament – The History of its interpretations, Göttingen 1998, p. 481.

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que, un significato primario – non solo preliminare e propedeutico – per la spiegazio-ne esegetica dello stesso testo18.

4. La specificità dell’esegesi di Andrea

Per comprendere la speficità della proposta esegetica e, quindi, teologica di An-drea conviene, ricordando le osservazioni fatte da Riccardo nel De Emmanuele, chie-dersi per quale ragione l’interpretazione di Andrea parve inaccettabile e soprattutto quale specificità presentava il suo modo di fare esegesi letterale?

Nel dodicesimo secolo i gradini della riflessione esegetica erano composti da due macro-insiemi inerenti il significato letterale-storico e il senso allegorico in senso lato, comprendente il significato allegorico, quello tropologico e, a volte, quello ana-gogico.

Ugo di San Vittore nell’importante trattato pedagogico ed esegetico del Dida-scalicon mostra il rapporto tra i vari sensi della scrittura dove il primo, quello lettera-le e storico, diviene la base per qualsiasi altra riflessione. Per Ugo l’esegesi letterale e storica è una tappa preliminare ed essenziale – la prima eruditio – per fondare la se-conda dimensione dell’esegesi – la seconda eruditio –. Sono note le vivaci critiche di Ugo a coloro che non tenendo adeguatamente conto della densità della storia voglio-no subito filosofare: statim philosophare. Egli paragona coloro che traggono affretta-tamente e fantasiosamente allegorie dalla Scrittura a quanti vogliono estrarre latte da mammelle ormai rinsecchite, facendone sgorgare non latte, ma sangue. Per Ugo di San Vittore la spiegazione del testo avviene concretamente in tre passaggi: la littera, il sensus e la sententia, dove la littera indica la costruzione grammaticale delle paro-le: littera est congrua ordinatio dictionum, quam etiam constructionem vocamus; il sensus indica il significato piano ed immediato dei termini: sensus est facilis quae-dam et aperta significatio, quam littera prima fronte praefert; la sententia il significa-to più profondo che richiede uno sforzo interpretativo: sententia est profundior intel-ligentia, quae nisi expositione vel interpretatione non invenitur.

Attraverso un breve confronto si comprende bene la ragione per cui Andrea de-sidera soffermarsi, quasi esclusivamente, sull’insieme dei significati letterali: egli trae alcune conseguenze radicali dall’ermeneutica biblica di Ugo. L’originalità di Andrea si trova, infatti, nella serietà con cui recepisce l’invito di Ugo a non obliterare la hi-storia; attitudine che si traduce in una attenzione rigorosa ed esclusiva al senso della

18 R. BERNDT, André de Saint-Victor (†1175). Exégète et théologien, Turnhout 1991, p. 263: «Interpréter en traduisant: ce principe s’enracine dans la tradition victorine en assumant la tradition narrative juive. Car gloser un texte, c’est le raconter, en expliquant les mots obscurs et en proposant d’autres pour le rendre intelligible et en faire apparaître le sens».

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lettera19. Nel prologo metodologico al Libros Salomonis, Andrea si prefigge di spie-gare il testo del libro dei Proverbi iuxta litterae superficiem. Egli, pertanto, identifica il suo compito nella spiegazione della superficies litterae, dove anche la determina-zione della sententia – con una parziale differenza rispetto all’impostazione di Ugo – viene inclusa all’interno del processo di individuazione del senso letterale e storico: si può affermare che solo raramente Andrea di san Vittore propone nelle sue esposizioni bibliche una sententia di natura allegorica o spirituale, questo avviene solo dove, se-condo la teoria classica20, non è possibile interpretare il testo della Scrittura se non simbolicamente21. Il compito del commentatore secondo Andrea consta nel cogliere, per sempre maggiori approssimazioni, il significato e il senso delle parole nel testo della Scrittura22.

Per riprendere la domanda dell’inizio potremmo dire che ai critici di Andrea parve sopravvalutata la lettera e sottovalutato il mondo dei significati allegorici con il rischio di mutilare la comprensione corretta della Bibbia e di menomare l’intera com-prensione della vita cristiana; non è un caso che Bartolomeo d’Exeter denuncia – se-condo un topos cristiano classico – l’accecamento ebraico, che consisterebbe precisa-mente nella concentrazione sul significato letterale e nel rifiuto della dimensione alle-gorica dell’esegesi cristiana23.

19 Cf. R. BERNDT, The School of St. Victor in Paris, in C. BREKELMANS – M. HARAN, Hebrew Bible/Old Testament – The History of its interpretations, Göttingen 1998, pp. 482-483.

20 Secondo tale teoria non è sempre possibile applicare lo schema del triplice senso della scrittura a tutti i testi, cf. HUGO DE SANCTO VICTORE, De scripturis et scriptoribus sacris, IV, in P.L. 175, 12: «Sane non omnia, quae in divino reperiuntur eloquio, ad hanc triplicem torquenda sunt interpretationem, ut singula historiam, allegoriam et tropologiam simul continere credantur. Quod et si in multis congrue assignari possit; ubique tamen observare, aut difficile est, aut impossibile».

21 Cf. F. A. VAN LIERE, Introduction, in Andreae de Sancto Victore Opera. II Expositio Hystorica in Librum Regum, CCCM LIIIa, p. LIII.

22 Tale operazione concretamente avviene attraverso quattro passaggi: il primo, di cui già si è trattato, consta in un’attenzione alla critica testuale, alla suddivisione e alla punteggiatura del testo; il secondo inerisce il linguaggio e la grammatica, la morfologia, la sintassi, i significati delle parole, le etimologie; il terzo si interessa dell’analisi letteraria e, secondo il linguaggio medievale, della retorica; il quarto indaga i fatti narrati dalla Bibbia, la storia, la cronologia, la geografia e viene indagato anche con le scienze del quadrivio.

23 BARTOLOMEO D’EXETER, Disputatio contra Iudeos I, ms. Oxford, Bodl. Libr., Bodl 482, citato in G. DAHAN, L’exégèse chrtienne de la Bible en Occident médiéval, Paris 1999, pp. 360-361: «Hec michi prima videtur quod illi omnem veteris instrumenti scripturam, in qua litteralem sensum possunt invenire, ad litteram semper accipiunt […]. Nos vero non solum scripturas sacras sed res factas et facta ipsa mistice interpretamur».

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Con l’esegeta di San Vittore l’attenzione all’Antico Testamento subì, dunque, un approfondimento originale nell’attenzione alla consistenza della littera. Secondo questa prospettiva Andrea risulta in sintonia con le scuole rabbiniche del nord della Francia, tutte influenzate fortemente dalla riflessione e dalla pratica interpretativa di Rashi24. In tali scuole il maestro è colui che introduce l’allievo negli universi testuali della Torah e del Talmud, che invita ad utilizzare la grammatica, la storia e, soprattut-to, insegna a privilegiare, spesso in chiave apologetica contro l’intepretazione allego-rica cristiana25, il significato letterale del testo – peshat/pšat – rispetto alle ulteriori condiderazioni possibili – derash/draš –26. Ricordiamo, come esempio, un noto pas-saggio del commento di Rashi a Genesi 3, 8: «Vi sono, a questo proposito, molti Mi-drashim aggadici, che i nostri rabbini hanno già raccolto nel Bereshith Rabbah e in altre raccolte midrashiche. Io, tuttavia, mi occupo solo del senso letterale della Scrit -tura e di quella Aggadah che definisce il senso delle parole della Scrittura, così che ogni parola sia spiegata nel suo modo corretto27».

Prima di evidenziare il significato teologico dell’impostazione esegetica di An-drea conviene, dunque, analizzare in modo più specifico il tipo di contatto effettiva-mente esistente tra il mondo vittorino di Andrea e gli ambienti ebraici del tempo.

5. I contatti di Andrea con il mondo ebraico

La frequentazione da parte di commentatori cristiani di opere provenienti dal mondo ebraico, sia in senso positivo che in senso polemico, non è per nulla rara nel medioevo. Sappiamo, anzi, che uno dei terreni privilegiati di dialogo e di incontro nell’occidente medievale sia stato proprio intorno alla Bibbia. Generalizzando si può asserire che lo studio riguardante la Bibbia – non tanto, cioè, il confronto polemico delle divergenti interpretazioni ma lo scambio, in sedute comuni, di conoscenze ri-guardo al testo sacro – sembra essere stato, in termini relativi, un settore più affranca-to rispetto alla koinè dell’antigiudaismo medievale. Contatti tanto più significativi se si pensa all’oggettivo peggioramento dello statuto degli ebrei avvenuto tra il XII ed il XIII secolo; peggioramento rilevabile in modo esemplare nelle risoluzioni del IV

24 Cf. R. BERNDT, L’influence de Rashi sur l’exégèse d’André de Saint Victor, in Z. A. STEINFELD (ed.), Rashi Studies, Ramat Gan 1993, pp. 7-14; cf. anche R. BERNDT, La pratique exégétique d’André de Saint-Victor. Tradition vistorine et influence rabbinique, in J. LONGERE (ed.), L’abbaye parisienne de Saint-Victor au moyen Age, Paris-Turnhout 1991, pp. 271-290.

25 Cf. F. A. VAN LIERE, Introduction, in Andreae de Sancto Victore Opera. II Expositio Hystorica in Librum Regum, CCCM LIIIa, p. XXXI.

26 G. DAHAN, L’exégèse chrétienne de la Bible en Occident médiéval, Paris 1999, pp. 374-375.27 Citato in D. LIFSCHITZ, L’inizio della storia, Roma 1993, p. 84.

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Concilio Lateranense del 121528 e nella condanna e rogo parigino del Talmud avve-nuta tra il 1239 e il 124829.

Oltre alla ripresa continua dei commenti cristiani antichi, diversi autori dal pe-riodo carolingio sino al XIV secolo fanno, infatti, riferimento alla tradizione giudaica. Non solo alla tradizione giudaica riportata da Girolamo, dallo pseudo-Girolamo e, una volta composta, dalla Glossa ordinaria, ma alla tradizione del Talmud, dei mi-drashim e dei commentatori ebrei del tempo30. Già Rabano Mauro e Angelomo di Luxeuil si riferiscono, nel VIII e nel IX secolo, ad «un autore ebreo» loro contempo-raneo. Nicola di Lyra vissuto tra il 1270 e il 1349 cita nelle sue Postille tutti i com-menti di Rashi e mostra di conoscere i targumim, il Talmud, Moshe ha-Darshan e Maimonide31. Andrea di San Vittore nei suoi commenti cita spesso un hebreus meus come fonte diretta per la conoscenza della tradizione giudaica e i cistercensi, contem-poranei di Andrea, Stefano Harding e Nicola Maniacoria si mostrano in dialogo con l’interpretazione ebraica e consci dei problemi che la traduzione latina della Vulgata presenta32.

Nell’occuparci, più da vicino, dei contatti di Andrea con il mondo ebraico pro-poniamo tre brevi riflessioni inerenti la conoscenza della lingua ebraica, il tipo di in-segnamento ebraico ricevuto e il contesto di tale ricezione, infine il significato esege-tico del modo con cui Andrea utilizza i testi ebraici.

Un primo elemento di rilievo riguarda, dunque, la conoscenza dell’ebraico da parte di Andrea sulla quale gli elementi della critica storica non sembrano ancora suf-ficenti per una ricostruzione esatta. Si tratta di una conoscenza sicuramente non per-fetta che lo abilitò, comunque, a maneggiare il testo ebraico della Bibbia 33. Per quan-28 Cf. G. DAHAN, Juifs et Chrétiens en Occident médieval. La rencontre autour de la Bible

(XIIe – XIVe siècles), in Revue de Synthese IV, 1 (1989), pp. 3-4.29 Cf. G. DAHAN, L’Église et les Juifs au Moyen Âge, in Ebrei e cristiani nell’italia medievale e

moderna: conversioni, scambi, contrasti. Atti del VI Congresso internazionale dell’AISG, 4-6 Novermbre 1986, Roma 1988, pp. 39-41.

30 Una delle maggiori difficoltà degli studi si trova nella mancanza di edizioni critiche con adeguati apparati delle fonti. Una volta approntati sarà possibile una migliore ricostruzione dell’utilizzo di Girolamo e delle fonti giudaiche contemporanee, cf. B. M. OLSEN, Les éditions des textes antiques au moyen âge, in M. BORCH – A. HAARDER – J. MC GREW (ed.), The Medieval Text – Editors and Critics. A Symposium, Odense 1990, pp. 83-100.

31 Cf. M. ZONTA, Gli influssi dei commentatori ebrei sugli esegeti cristiani, in S. J. SIERRA, La lettura ebraica delle Scritture, Bologna 1995, pp. 299-316.

32 Cf. H. DENIFLE, Die Handschriften der Bibel-Correctoren des 13. Jahrhunderts, in Archiv für Literatur und Kirchengeschichte des Mittelalters IV, pp. 266-268.

33 Cf. R. BERNDT, André de Saint-Victor (†1175). Exégète et théologien, Turnhout 1991, pp. 201-213 e M. A. SIGNER, Preface, in Andreae de Sancto Victore Opera VI. Expositionem in

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to riguarda le interpretazioni ebraiche tardo antiche o medievali, scritte, quindi, in un ebraico post-biblico si suppone una conoscenza solo parziale, derivata soprattutto da dialoghi e incontri personali.

Per quanto concerne il tipo di insegnamento ricevuto dal mondo rabbinico rima-ne, però, difficile ottenere un quadro completo per la difficile ricostruzione del tipo di insegnamento orale, per le difficoltà della tradizione manoscritta ebraica e per la complessa ricostruzione del contesto vitale nel quale Ugo e Andrea hanno ricevuto l’insegnamento sull’esegesi ebraica. Vi sono, certo, indizi che fanno pensare ad un contatto con Rabbi Samuel ben Meir – Rashbam – e all’esistenza di un centro intelle-tuale ebraico a Parigi che, insediato prima nella Cité poi sulla riva sinistra della Senna – ossia dalla stessa parte dell’abbazia di San Vittore –, avrebbe influito sugli esegeti e sugli studenti parigini34, ma sono solo indizi.

Comunque sia di queste difficoltà e ipotesi, due dati sono sufficentemente asso-dati: in primo luogo il monastero di San Vittore è stato un centro primario di scambio tra le scuole rabbiniche e quelle cristiane in una Parigi in fortissimo sviluppo e in grande fermento culturale tra l’XI ed il XII secolo35, quando cioè non era ancora atti-vo il forte tentativo – più presente nel XIII e XIV secolo – di limitare ogni contatto e influsso del mondo ebraico sul mondo cristiano36; in secondo luogo la lettura delle opere di Andrea mostra chiaramente l’ampia influenza esercitata su di lui della scuola esegetica del nord della Francia37 e la conoscenza delle opere di Rashi, di Rashbam – nipote di Rashi –, di Giuseppe Kara – allievo di Rashi –, di Abraham ibn Ezra, del Talmud babilonese e di quello gerosolimitano, del Midrash Rabbah, del Megillat Ye-rahme’el e del Seder ‘Olam. La vivacità di questa conoscenza delle fonti ebraiche e dell’interscambio con il mondo ebraico contemporaneo può essere ulteriormente ri-marcata se si considera che, secondo alcuni studi, il 72% delle interpretazioni di ori -gine ebraica che Andrea ha utilizzato nel suo studio sull’ettateuco sono state introdot-te per la prima volta all’interno dell’esegesi cristiana nei suoi commentari e, alcune, nei commentari di Ugo38. Esse sono, quindi, frutto del vasto lavoro di appropriazione personale da parte di Andrea nell’ambito della riflessione della scuola di San Vittore

Ezechielem, CCCM LIIIe, pp. XXII-XXVII.34 A. GRABOÏS, Un centre intellectuel juif à Paris sur la Rive Gauche aux XIIe-XIII siècles? , in

Revue des études juives 131 (1972), pp. 223-224.35 Cf. R. H. BAUTIER, Paris au temps d’Abélard, in J. JOLIVET (ed.), Abélard en son temps, Paris

1981, pp. 21-77.36 Cf. G. DAHAN, L’Église et les Juifs au Moyen Âge, in Ebrei e cristiani nell’italia medievale e

moderna: conversioni, scambi, contrasti. Atti del VI Congresso internazionale dell’AISG, 4-6 Novermbre 1986, Roma 1988, pp. 31-39.

37 Cf. M. AWERBUCH, Christlich-jüdische Begegnung im Zeitalter der Frühscholastik, Munich 1980.

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e spiegano il ruolo di catalizzatore svolto da Andrea nell’ambito dello scambio tra l’esegesi cristiana e quella giudaica nella Parigi della seconda metà del XII secolo39.

Un ultimo elemento degno di nota è il tipo di utilizzo di queste fonti. Problema-tica sulla quale si possono fornire solo alcune linee generali, vista la complessità sto-rica della ricostruzione della provenienza esatta delle singole fonti e la complessità interpretativa del loro utilizzo40.

Andrea, approfondendo la prospettiva inaugurata da Ugo di San Vittore, usa spesso nei suoi commentari le fonti ebraiche come argomenti ex autoritate. Nelle questioni di ordine filologico Andrea preferisce chiaramente le spiegazioni derivate dall’ebraico e non dal latino. Ricordiamo, come esempio, il commento a Gn 7, 13: «In quello stesso giorno entrò nell’arca Noè con i figli», laddove la Vulgata rende il testo ebraico con l’espressione in articulo diei illius ingressus est, Andrea vede che il termine ebraico, il quale significa «precisamente» «esattamente», viene travisato dal deceptus translator. Pertanto, Andrea afferma che il testo in habreo planum est.

Anche quando si tratta di spiegare all’interno dei testi le abitudini di vita dei personaggi biblici egli preferisce far riferimento alle consuetudini ebraiche; egli ricor-da spesso la formula: consuetudo est Iudeis […]. Ricordiamo, come esempio, l’invito che, nel libro dell’Esodo, fa Dio a Mosè davanti al roveto ardente: Calciamentum, iu-bet remouere. Quia locus, in quo stat, sanctus est. Non est consuetudo Iudaeis, ut sancta loca calciati ingrediantur41.

L’uso autorevole degli scritti ebraici è da rimarcare soprattutto quando Andrea sceglie interpretazioni in qualche modo in «tensione» con la tradizione cristiana clas-sica come avviene quando Andrea spiega alcuni passaggi di Isaia42. Su questo torne-remo in sede conclusiva, ma ricordiamo il commento a Is 51, 5: prope est iustus meus egressus est salvator meus. Andrea si premura di cercare il senso delle parole secon-do la series narrationis. Egli enumera, così, tre opinioni sull’interpretazione dell’i-

38 Cf. R. BERNDT, Les interprétations juives dans le Commentaire de l’Heptateuque d’André de Saint-Victor, in Recherches Augustiniennes 24 (1989), p. 202.

39 Cf. G. DAHAN, Exégèse et polémique dans les Commentaires de la Genese d’Étienne Langton, in Les Juifs au regard de l’historie. Mélanges en l’honneur de Bernhard Blumenkranz, Paris 1985, p. 140.

40 Cf. R. BERNDT, Les interprétations juives dans le Commentaire de l’Heptateuque d’André de Saint-Victor, in Recherches Augustiniennes 24 (1989), pp. 199-240.

41 In Exodum, in Andreae de Sancto Victore Opera I. Expositionem super Heptateuchum, Turnhoult 1986, CCCM LIII, p. 98

42 Cf. M. A. SIGNER, Preface, in Andreae de Sancto Victore Opera VI. Expositionem in Ezechielem, CCCM LIIIe, p. XXXI e G. D. COHEN (ed.), Jewish Medieval and Renaissance Studies, Cambridge MA 1967, pp. 19-48.

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dentità del giusto e del salvatore. Egli può essere Ciro, oppure per i cristiani Gesù Cristo, oppure per gli Ebrei il Messia a venire. Andrea dopo tale triplice spiegazione non si pronuncia affatto sul valore di queste intepretazioni, a lui basta riconoscere il senso messianico letterale e generale di questo testo e connetterlo con la storia del po-polo ebraico43.

Ma l’uso ex auctoritate delle fonti ebraiche non è assoluto e privo di sfumature critiche. Anche in Andrea è, infatti, presente una polemica antigiudaica, che, però, pare concentrata più sul tipo di interpretazione biblica che sull’ideologia classica anti-giudaica del popolo accecato e testimone della propria autoemarginazione dalla sal-vezza. Andrea di San Vittore propone due tipi principali di critica agli interpreti ebrei, anche se questo non avviene spesso nei suoi commentari.

In primo luogo si tratta di una critica – abbastanza classica da parte cristiana – inerente la spiegazione di certi passaggi della Bibbia, che nell’interpretazione ebraica diviene fabulosa e fantasiosa. Ad esempio nel commento a Ez 28, 10 Andrea afferma: Solent Hebrei inter ceteras fabulas suas et genealogias atque interminabiles questio-nes […] intelligere44, oppure quando criticando l’opinione giudaica che collocava la nascita della radix Iesse nel momento dell’incendio del Tempio, asserisce: Fabulan-tur Hebrei illum eo ipse die quo templum succendum est et destructum, natum fuis-se45. È interessante notare che tale critica ad alcune fabulae ebraiche è interna anche allo stesso mondo ebraico, e può essere ricondotta alla scuola di Rashi46.

In secondo luogo si tratta della critica alla errata comprensione ebraica del tipo di nesso esistente tra la storia e la Bibbia, tra le promesse bibliche ed il loro adempi-mento storico. Il rifiuto del senso cristologico da parte ebraica falsa tutta la loro intel -ligenza della storia biblica e del suo senso come avviene nel commento a Ez 17, 22: Et sumam ego de medulla cedri sublimis. Hanc apertam de Christo prophetiam im-pietas Iudaica, quia neminem post Sedechiam venisse videt cui convenienter adaptari possit, solita ad suum quem adhuc expectat messiam impudentia retorquit […]47. Un segnale molto chiaro di questo errore di prospettiva tocca significativamente il pro-blema della «terra». Gli ebrei sperano ancora, in base alle promesse profetiche e mes-sianiche, nel ritorno storico alla terra di Israele, nella restaurazione, cioè, di una terra santa appartenente esclusivamente al loro popolo e nel rinnovamento del culto sacrifi-

43 Cf. R. BERNDT, André de Saint-Victor (†1175). Exégète et théologien, Turnhout 1991, p. 239.44 Andreae de Sancto Victore Opera VI. Expositionem in Ezechielem, CCCM LIIIe, p. 113.45 Citato in R. BERNDT, André de Saint-Victor (†1175). Exégète et théologien, Turnhout 1991,

p. 266.46 M. A. SIGNER, Preface, in Andreae de Sancto Victore Opera VI. Expositionem in Ezechielem,

CCCM LIIIe, p. XXXII.47 Andreae de Sancto Victore Opera VI. Expositionem in Ezechielem, CCCM LIIIe, p. 82.

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cale del tempio di Gerusalemme. Attese che Andrea di San Vittore reputa illusorie e deludenti: Hoc sibi spe vana delusi promittunt Iudei quod postquam per elimenum suum terram illam semel recuperaverint, nunquam ulterius sint eam amissuri, sed ipsi et posteri sui absque ullo temporis termino sint eam inhabituri48. Questa speran-za vana, è basata, ad avviso di Andrea, su esegesi non corrette del testo biblico e su un’errata comprensione storico-salvifica che non coglie le promesse profetiche e mes-sianiche come già adempiute in Gesù Cristo49. Nel commento ad Ez 37, 11 Andrea ri-porta l’interpretazione di un autore ebraico che legge il testo della ristorazione delle ossa aride nel senso di un ritorno di Israele nella sua terra, Andrea chiude la citazione con l’eloquente † e critico – commento: incredibile quodammodo putatur50. L’ele-mento critico di tale tipo di lettura risulta, dunque, il senso escatologico e cristologico dei testi dell’Antico Testamento. Andrea è consapevole che l’interpretazione ebraica solleva il problema del «quando» e «come» le promesse profetiche si adempiono: Et hec et cetera que usque ad finem huius capituli sequuntur, quia necdum impleta vi -dent in diebus sui messie promittunt sibi Iudei. Nos autem hec vel spiritualiter esse intelligenda dicimus, vel ad litteram quando omnis Israel salvus erit et gentium pleni-tudo intraverit implenda51.

Andrea mostra, così, che la Bibbia ebraica con le correlativa interpretazione è accolta dai cristiani divenendo per questi l’Antico Testamento, la cui lettura cristiana implica, però, una determinata concezione della storia che obbedisce ad una fonda-mentale interpretazione cristologica e a una certa comprensione della questione esca-tologica52. Queste ultime notazioni critiche aiutano ulteriormente a interrogarsi sul senso che Andrea attribuisce all’esegesi ebraica e approfondiscono la domanda sul si-gnificato dell’affermazione – spesso ribadita nella prassi interpretativa di Andrea –

48 Andreae de Sancto Victore Opera VI. Expositionem in Ezechielem, CCCM LIIIe, pp. 151-152.

49 Per la – classica – concezione storico salvifica di Andrea e della scuola di San Vittore che legittima l’esegesi spirituale cristiana, cf. HUGO DE SANCTO VICTORE, De Sacramentis christianae fidei, II, XVII, VI, in P.L. 176, 598: «Per hunc Eliam magnum mirabilemque prophetam et posita sibi lege novissimo tempore ante judicium Judaeos in Christum verum, id est in Christum nostrum esse credituros celeberrimum est, in sermonibus cordibusque fidelium. […] Cum venerit ergo exponendo legem spiritualiter quam nunc Judaei carnaliter sapiunt, convertet cor patris ad filium, id est corda patrum ad filios».

50 Andreae de Sancto Victore Opera VI. Expositionem in Ezechielem, CCCM LIIIe, p. 150.51 Andreae de Sancto Victore Opera VI. Expositionem in Ezechielem, CCCM LIIIe, p. 145.52 Sul tema decisamente interessante della tensione tra escatologia messianica ebraica e

escatologia cristologica cristiana, con il correlativo problema del senso attuale delle scritture, della storia e della comunità credente, cf. G. DAHAN, L’exégèse chrtienne de la Bible en Occident médiéval, Paris 1999, pp. 366-368.

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della legittimità dell’interpretazione ebraica della Bibbia. La scelta dei testi prove-nienti da tale mondo, utilizzati come auctoritates nei suoi commentari, suggerisce una significativa comprensione teologica dell’esegesi letterale su cui proponiamo al-cune note di riflessione53.

6. Alcune note sul significato teologico del dialogo esegetico con l’ebrai-smo

La domanda che guida l’ultimo passaggio della nostra esposizione potrebbe es-sere così formulata: cosa può significare teologicamente l’esegesi letterale praticata da Andrea e, in particolare, la sua attenzione all’esegesi ebraica nelle sue espressioni antiche e contemporanee. Articoliamo un abbozzo di risposta in due passaggi princi-pali.

Per comprendere la specificità teologica del dialogo con il mondo ebraico pos-siamo riportare come esempio significativo l’interpretazione data al testo di Isaia 7, 14-1554. Interpretazione in cui Andrea mostra di non volere cadere né in un letterali-smo astratto, né in uno spiritualismo irrispettoso del testo biblico, mostrando così la specificità teologica del proprio approccio, che comunque rimane un approccio inter-pretativo cristiano non senza polemica con il mondo interpretativo ebraico55.

Il passaggio riguarda il noto annuncio ad Achaz del segno della ragazza che concepirà un figlio. L’analisi di Andrea è suddivisa in quattro passaggi principali: l’interpretazione cristiana, le obiezioni ebraiche all’intepretazione cristiana, la presa di posizione di Andrea e la sua esposizione letterale. Andrea riporta alcune obiezioni e discussioni inerenti in primo luogo l’assenza in ebraico di betûlah, cioè vergine, ma la presenza del termine ‘almâh, ragazza. In secondo luogo la qualità del segno divino promesso nell’annuncio, in quale senso cioè il concepimento normale di una ragazza sarebbe stato un segno? In terzo luogo l’adempimento, nella narrazione biblica, del segno immediatamente dopo l’annuncio, in che modo, dunque, se il liberatore è già nato si può applicare il testo ad un futuro messia? La critica ebraica, riportata da An-

53 Cf. R. BERNDT, The School of St. Victor in Paris, in C. BREKELMANS – M. HARAN, Hebrew Bible/Old Testament – The History of its interpretations, Göttingen 1998, p. 489.

54 Per questa parte si segue R. BERNDT, André de Saint-Victor (†1175). Exégète et théologien, Turnhout 1991, pp. 294-308.

55 Il commento a Is 7, 14-15 incomincia con una professione di fede nel senso cristologico del passaggio isaiano e con parole dure nei confronti dei cavilli dei commentatori ebrei: “Hanc de conceptione et nativitate Salvatoris nostri et integritate et virginitate matris eius semper virginis apertissimam prophetiam prou iustum est cum ipsis exponimus. Insurgentes in nos Iudei, veritatis inimici, cavillationis ariete firmissimum fidei nostre murum labefactare conantur”, citato in R. BERNDT, André de Saint-Victor (†1175). Exégète et théologien, Turnhout 1991, p. 308, n. 134.

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drea, è dunque serrata: i cristiani non terrebbero abbastanza in conto le circumstantie littere e invece di spiegare il contesto si attaccherebbero pretestuosamente ad un solo versetto – uni versiculo adheretis –.

Andrea di seguito fornisce la spiegazione letterale del testo in cui però non so-vraccarica i singoli problemi filologici e nemmeno pare rispondere direttamente alle obiezioni ebraiche a riguardo della profezia come già cronologicamente adempiuta al tempo del profeta Isaia. Egli desidera affrontare una lotta difficile – anceps certamen – su di un duplice fronte interpretativo contrapponendosi, per certi versi, sia all’ese-gesi ebraica sia all’esegesi cristiana tradizionale. Egli non segue completamente il let-teralismo ebraico che chiuderebbe ad ogni ulteriorità interpretativa e, quindi, ad una ulteriorità cristologica, ma non segue nemmeno l’esegesi cristiana classica che trova il senso cristologico immediatamente nella lettera della scrittura. Egli propone, inve-ce, un commento parola per parola56 in cui segue gli ebrei nel non sovraccaricare la filologia di un significato dirimente e nell’ammettere che la profezia si adempie per la liberazione d’Israele al tempo del profeta; è profezia, discostandosi in questo dall’ese-gesi ebraica, che rimane però aperta ad un ulteriore compimento, quello cristologico. Per capire tale posizione dobbiamo ricordarci che per Andrea la divina scrittura è di natura sacramentale, dove cioè la res indicata dai verba o dalla vox può significare a sua volta un’altra res. Questo permetterebbe di cogliere il senso cristologico, come seconda res della scrittura, rispettando in pieno la prima res e la vox57.

Con parole nostre potremmo dire che l’interpretazione cristiana non falsifica l’intepretazione ebraica, anzi le due interpretazioni sono entrambe legittime. Come nel caso di Is 51-53 vi può essere, almeno in alcuni casi, un senso messianico del te-sto letto dagli ebrei che può convivere accanto al senso messianico cristiano. Andrea di San Vittore ritiene certo, come ogni esegeta medievale, che la revelatio Dei abbia subito uno sviluppo tra l’Antico e il Nuovo Testamento58, ma nella sua opera vi sono segnali evidenti che un’interpretazione cristiana dell’Antico Testamento non ha un bi-sogno intrinseco di disprezzare la logica della lettera della Scrittura nei suoi significa-ti letterali e storici e non ha nemmeno bisogno di descrivere l’esegesi ebraica come accecata e incapace di leggere la Bibbia. Ci ricordiamo in proposito l’obiezione signi-ficativa di Riccardo: «In molti luoghi delle sue scritture egli inserisce l’insegnamento

56 In Isaiam III, VII, 14: “Nos itaque nostris viribus emensis fortiora fortioribus relinquentes ceptam litteralis vel sensus explanationem exequamur”, citato in . R. BERNDT, André de Saint-Victor (†1175). Exégète et théologien, Turnhout 1991, p. 298, n. 106.

57 Sulla teoria della significazione di Andrea e Ugo di San Vittore, cf. R. BERNDT, André de Saint-Victor (†1175). Exégète et théologien, Turnhout 1991, pp. 184-185.

58 Cf. Introitus in libro Salomonis, in Andreae de Sancto Victore Opera III. Expositiones historicas in libros Salomonis, Turnhout 1991, pp. 3-5.

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degli ebrei non come specificatamente giudeo, ma come se fosse appropriato e vero59». Il problema che Andrea si pone non è, quindi, quello del superamento dell’e-segesi ebraica divenuta obsoleta perché chiusa nella sua letteralità, ci pare che egli si chieda, piuttosto, come la Chiesa possa fare un’esegesi rispettosa, pertinente e cre-dente delle antiche scritture provenienti, in modo indiscutibile, dal popolo ebraico.

Tale domanda si radica nel forte senso della dimensione testuale della Bibbia. Per Andrea il testo della sacra Scrittura è, infatti, il primo luogo teologico: si tratta della parola di Dio espressa in parole umane. La Bibbia è uno strumento dell’alleanza tra Dio e l’uomo, dove nella parola umana del profeta va riconosciuto il parlare divi -no in quanto la sacra scrittura parla di Dio in maniera umana: humano, nostro more de Deo loquitur60. I testi in cui Andrea enuncia questo principio fondamentale sono innumerevoli61 e testimoniano la sua convinzione che la divina Scrittura, per potere esprimere la manifestatio Dei, non ha altre parole, luoghi, geografie, e storie che quelle umane. La parola di Dio obbedisce ai condizionamenti spazio temporali per potere essere udibile e intelligibile dall’uomo62, in maniera significativa, nel com-mento a Ezechiele 1, 4, afferma: humano more sicut hominibus loquens de domino sermo propheticus63. Tale comprensione del modo umano fondamentale della mani-festazione di Dio produce in Andrea un’esegesi che si svolge nella massima prossimi-tà e aderenza possibile alla littera e alla historia della scrittura, nei loro minimi parti-colari.

Per l’esegeta di San Vittore il testo biblico uti iacet fa, così, parte dei modi con-creti con cui Dio rivolge la sua parola all’uomo, esso non può essere utilizzato come una forma di fonte o miniera di informazioni: esso narra una storia che non è una semplice occasione o scenario per la rivelazione di Dio. Si può ricordare, come esem-pio, la differenza tra l’impostazione di Pietro Comestore e Andrea. Pietro, utilizzando il genere letterario dell’historia, presenta nella Historia scholastica la storia biblica dal paradiso terrestre fino all’ascensione e commenta indirettamente i libri dell’Esa-teuco, dei Giudici, di Rut, di Samuele e dei Re, di Tobia, Ezechiele, Daniele, Giudit -

59 RICHARDUS DE SANCTO VICTORE, De Emmanuele, in P.L. 196, 601: “In multis namque scripturae illius locis ponitur Judaeorum sententia quasi sit non tam Judaeorum quam propria, et velut vera”.

60 In Isaiam 52, 5: “Nostris ut sepe dictum est, de Deo loquens scriptura sermonibus utitur”, citato in R. BERNDT, André de Saint-Victor (†1175). Exégète et théologien, Turnhout 1991, p. 243.

61 Cf. R. BERNDT, André de Saint-Victor (†1175). Exégète et théologien, Turnhout 1991, p. 244, n. 73-76.

62 Cf. R. BERNDT, André de Saint-Victor (†1175). Exégète et théologien, Turnhout 1991, p. 292.63 Andreae de Sancto Victore Opera VI. Expositionem in Ezechielem, CCCM LIIIe, p. 9.

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ta, Ester, dei Maccabei, e i Vangeli64. Nel suo utilizzo del materiale biblico Pietro si mostra particolarmente attento ai dati presentati a livello della lettera e della storia e per fare questo utilizza con abbondanza commenti di origine ebraica65. Da queste bre-vi notazioni risultano immediatamente gli elementi dell’opera e della sensibilità di Andrea che hanno, in qualche maniera, influenzato alcune impostazioni di Pietro66 e in particolare si può notare come entrambi siano stati influenzati dalla riflessione di Ugo di San Vittore.

Proprio tale influenza comune ugoniana permette di rilevare la distanza princi-pale tra le due opere in questione: Andrea mantiene il genere dell’expositio biblica67, che consiste nella spiegazione diretta del testo della Scrittura nella sua scansione e strutturazione effettiva. Pietro preferisce un altro modello e compone un’opera storio-grafica di natura scolastica, in cui il materiale biblico è organizzato dentro un quadro «altro» rispetto alla Bibbia. La Scrittura offre, così, la materia da inserire in un mo-dello che obbedisce alle sue proprie regole, profondamente differenti da quelle del racconto biblico68. In lui la historia, la veritas historiae inquadrata sistematicamente, prevale sulla littera69.

Per Andrea il testo biblico è, invece, un luogo teologico primario che non può mai essere dato per già noto: il suo forte «senso» del testo lo porta a praticare una let-tura cristologica e allegorica connotata da un grande rispetto per l’effettiva testualità biblica.

In conclusione possiamo affermare che l’accoglienza della riflessione giudaica da parte della Bibbia non vuole dire che per Andrea gli ebrei non siano più accecati in relazione all’intepretazione ultima delle Scritture, ma risulta significativo che per lui l’esegesi ebraica sia, almeno in alcuni casi, più rispettosa del testo rispetto a quella cristiana. Per Andrea il mondo ebraico è una sorta di connessione vivente – a living link70 – alla Bibbia, alla sua lettera, alla sua storia e alla sua testualità, questa è la ra -gione per cui lo ascolta così attentamente. Nella prassi di Andrea il popolo ebraico

64 Cf. J. LONGERE, Pierre le Mangeur, in Dictionnaire de Spiritualité, vol. 12, Paris 1985, c. 1615-1616.

65 Cf. S. R. KARP, Peter Comestor’s Historia Scholastica: a Study in the Development of literal scriptural Exegesis, Tulane University 1978.

66 Cf. R. BERNDT, André de Saint-Victor (†1175). Exégète et théologien, Turnhout 1991, p. 10267 Cf. R. BERNDT, Pierre le Mangeur et André de Saint-Victor contribution à l’étude de leurs

sources, in Recherches de Théologie ancienne et médiévale 61 (1994), pp. 88-114. 68 Cf. R. BERNDT, André de Saint-Victor (†1175). Exégète et théologien, Turnhout 1991, pp.

281-283.69 Cf. R. BERNDT, André de Saint-Victor (†1175). Exégète et théologien, Turnhout 1991, pp.

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porta una verità interpretativa attuale, che non pare possa essere legata unicamente al «rigetto» come loro specifica testimonianza71. La prassi dell’esegeta vittorino, in ascolto non solo dell’interpretazione ebraica classica, ma anche delle loro comunità viventi e interpretanti, propone, surrettiziamente, una domanda rinnovata, all’interno della teologia cristiana medievale, sul valore della lettura ebraica attuale della scrittu-ra e, quindi, sullo statuto del popolo di Israele nella sua relazione strutturale alla Chiesa72; domanda che la scuola di San Vittore – soprattutto con Ugo – si è, in qual-che modo, posta e che, forse, andrebbe ulteriormente investigata.

Fabrizio Mandreoli

Fter

70 M. A. SIGNER, Preface, in Andreae de Sancto Victore Opera VI. Expositionem in Ezechielem, CCCM LIIIe, pp. XXXVI-XXXVII.

71 Cf. G. DAHAN, Juifs et chrétiens en Occident médiéval. La rencontre autour de la Bible (XIIe – XIVe siècle), in Revue de Synthèse 1 (1989), pp. 5-6.

72 Cf. R. MOORE, Jews and Christians in the Life and Thought of Hugh of St. Victor, University of South Florida 1998, pp. 134-137.

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Massimo NARDELLO, L’unità frutto della carità. Istanze ecumeniche negli scritti di Angelo Roncalli, Memorie Teologiche 1 (2008) 108-128

Massimo NARDELLO

L’unità frutto della carità.

Istanze ecumeniche negli scritti di Angelo Roncalli

Introduzione e problemi di metodo

L’intento di questa relazione è quello di offrire un quadro sintetico delle pro-spettive ecumeniche che emergono dagli scritti personali e ufficiali di Angelo Ron-calli redatti dal periodo della sua formazione in seminario fino al termine del suo pon-tificato. Anche se non mi sarà possibile documentare e motivare adeguatamente la mia interpretazione della visione roncalliana sul tema ecumenico, tenterò comunque di offrire alcuni riscontri soprattutto testuali a conforto di quanto andrò sostenendo.

Prima di entrare nella materia in oggetto occorre affrontare due questioni di ca-rattere metodologico. La prima di esse prende le mosse da una sorta di disillusione con cui non di rado ancora oggi ci si accosta ai testi di Roncalli: partendo dal presup-posto di una sua tendenziale ingenuità e superficialità di vedute, tale approccio non è disposto a leggere nei testi roncalliani di sicura paternità alcun elemento di novità ri -spetto alla visione tradizionale del cattolicesimo dello stesso periodo e ritiene invece che laddove ci siano affermazioni degne di nota, queste dovrebbero essere interpreta-te come frutto del lavoro dei collaboratori di primo piano di cui Roncalli, soprattutto durante il suo pontificato, ha potuto beneficiare. Peraltro, tale obiezione sembra tro-vare conferma nello stile caratteristico dei testi roncalliani. G. Ruggieri, al riguardo, scrive che riflettere sul tema della teologia di Roncalli significa correre il rischio di parlare di una cosa inesistente1. In effetti, leggendo i suoi scritti si ha l’impressione di non essere davanti ad una riflessione sistematica, organica, e neppure – almeno appa-rentemente – innovativa; piuttosto ci si trova di fronte ad un discorrere fatto di con-cetti molto semplici, e anche se qua e là il discorso assume toni di novità che emergo-no quasi in modo inaspettato, tutto rientra rapidamente nel livello consueto. Per que-sta ragione i testi di Roncalli si collocano su un piano ben diverso rispetto a quelli del

1 G. RUGGIERI, Appunti per una teologia in papa Giovanni, in “Papa Giovanni”, a cura di G. Alberigo, Bari 1987, pag. 245.

Memorie Teologiche http://www.memorieteologiche.it

Rivista on-line a cura del Dipartimento di Storia della Teologia

Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna (FTER, www.fter.it) – Bologna – Italy.

Memorie Teologiche 1 (2008) 109

Massimo NARDELLO, L’unità frutto della carità. Istanze ecumeniche negli scritti di Angelo Roncalli

suo successore, Paolo VI, che pur non avendo le caratteristiche della riflessione teolo-gica scientifica, sono molto più densi e più ricchi dal punto di vista concettuale. La prima questione metodologica, dunque, è quella dell’interpretazione di quella sempli-cità dei testi roncalliani che è rilevabile sia sul piano del linguaggio che su quello del contenuto.

Una prima ipotesi ci fa spiegare lo stile del nostro autore come espressione di una scarsa profondità di pensiero e di una superficialità di fondo che lo ha portato a semplificare i problemi e a non affrontarli con intelligenza. Questa interpretazione non è così rara se è stata presa in considerazione da G. Lercaro in rapporto al proble-ma specifico della convocazione del Concilio da parte di Giovanni XXIII2. Tuttavia, come osserva lo stesso Lercaro, se questa lettura fosse corretta sarebbe la stessa santi-tà di Roncalli ad essere toccata, perché essa potrebbe difficilmente esistere in una per-sona che convoca un concilio ecumenico con superficialità e con temerarietà.

Una seconda lettura – che è quella per cui sembra propendere Lercaro e che mi sembra la più corretta – è che realmente Roncalli sia stato un uomo di grande statura spirituale e culturale, caratterizzato da un pensiero ricco e fecondo maturato lungo una vita dedicata alla sistematica frequentazione delle fonti 3. In questa prospettiva, la semplicità roncalliana non dovrebbe essere intesa come superficialità; piuttosto, il suo modo di esprimersi sarebbe stato differente da quello caratteristico della teologia, per-ché il suo riflettere sul mistero di Dio e dell’essere umano sarebbe avvenuto in vista di finalità pastorali4, ben diverse da quelle della ricerca teologica, cioè l’approfondi-mento e la chiarificazione sistematica del contenuto della fede. Questa esigenza di pa-storalità e non una sorta di ingenuità avrebbe quindi determinato lo stile semplice dei testi roncalliani, non finalizzati alla speculazione teologica ma alla «semplice» forma-zione alla vita cristiana delle comunità ecclesiali. In questo senso, penso, Ruggieri non esita a paragonare Roncalli ai grandi vescovi dell’antichità5, lontani dallo stile della nostra teologia ma non per questo meno profondi nel loro pensiero: anzi, capaci di porre sotto giudizio la nostra razionalità teologica, che talvolta rischia di dimenti-care la ragione del suo esistere. In questo mio intervento procederò postulando la cor-

2 G. LERCARO, Linee per una ricerca su Giovanni XXIII, in G. Lercaro, “Per la forza dello Spirito”, Bologna 1984, pag. 304-305.

3 Cf. al riguardo A. MELLONI, Formazione e sviluppo nella cultura di Roncalli, in “Papa Giovanni”, a cura di G. Alberigo, Roma-Bari 1987, pag. 19.

4 Cf. G. ALBERIGO, Dalla laguna al Tevere. Angelo Giuseppe Roncalli da San Marco a San Pietro, Bologna 2000, pag. 68.

5 G. RUGGIERI, Appunti per una teologia in papa Giovanni, in “Papa Giovanni”, a cura di G. Alberigo, Bari 1987, pag. 246. H. Küng, del resto, ritiene che Giovanni XXIII, in quanto ha gestito la sua autorità come servizio, faccia da riscontro a Gregorio Magno: H. KÜNG, La Chiesa, Brescia 1969, pag. 545.

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rettezza di questa visione della statura spirituale e teologica di Roncalli e ricercando quindi nei suoi testi – al di là della loro apparente banalità – dei contenuti profondi ed eventualmente innovativi.

Il secondo problema metodologico riguarda l’effettiva paternità roncalliana dei testi scritti durante il periodo del pontificato. Dal punto di vista storico è noto che i documenti del magistero pontificio sono non di rado preparati da specialisti, per cui – anche se il testo finale è approvato dal pontefice ed è espressione del suo magistero –, non è necessariamente frutto di una sua elaborazione personale. Chi è convinto che Roncalli non abbia avuto una reale profondità di pensiero potrebbe facilmente ritene-re che i documenti scritti durante il suo pontificato siano stati preparati da alcuni suoi collaboratori e che egli si sia limitato ad accettarli mosso da fiducia nei loro confron-ti. A riguardo dello specifico problema ecumenico, tuttavia, si deve rilevare che è di-mostrata la paternità roncalliana di uno dei documenti più significativi del suo ponti-ficato, la Gaudet Mater ecclesia; è pure facilmente dimostrabile che l’insegnamento di questo documento si pone in continuità con quel percorso di maturazione teologica e pastorale che è ben rilevabile negli scritti roncalliani precedenti il pontificato. Per queste ragioni si può ragionevolmente pensare che i testi del periodo del pontificato di rilevanza ecumenica, pur risentendo del contributo anche determinante di altri au-tori, siano comunque espressione fedele del pensiero di Giovanni XXIII e dunque materiale fruibile per la nostra indagine.

Per ragioni di chiarezza espositiva, dividerò la presentazione del pensiero ron-calliano in due parti, corrispondenti al periodo precedente e a quello seguente all’ele-zione a pontefice.

Dalla formazione seminaristica al pontificato

La formazione culturale di Roncalli avviene all’interno di un seminario di fine ’8006; sebbene essa si debba collocare nel periodo precedente agli interventi restrittivi di Pio X nei seminari7 dovuti alla lotta contro il modernismo e dunque ancora nel quadro dell’«apertura» voluta da Leone XIII nei confronti della società e della cultu-ra8, tuttavia tale formazione non presenta la benché minima propensione alla questio-ne ecumenica. Il protestantesimo, nelle sue varie forme, è definito come «falsa reli-

6 Le linee fondamentali sono quelle tridentine, cioè la pietà, lo studio e la disciplina, il tutto coniugato con un deciso distacco nei confronti del mondo: cfr. M. GUASCO, Seminari e clero parrocchiale, in “Storia della Chiesa. Vol. XXIII. I cattolici nel mondo contemporaneo (1922-1958)”, a cura di M. Guasco, E. Guerriero, F. Traniello, Paoline, Alba 1992, pag. 330.

7 Cf. M. GUASCO¸ Seminari e clero nel ‘900, Cinisello Balsamo 1990, pag. 44-49.8 Cf. ibidem, pag. 14-16.

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gione» e ciò che viene auspicato per i suoi membri è soltanto la conversione al catto-licesimo9. Lo stile nel quale Roncalli è stato educato emerge bene in questo testo che egli scrive nel Diario dell’anima nell’agosto del 1904:

«L’ottimo padre direttore mi ha pregato che, durante le ore del passeggio, tenga compagnia ad un giovane protestante che fu accolto per prepararlo all’abiura. Povero giovane, quanto mi fa pena! Egli è buono, ma nei nove anni migliori della sua vita – oggi ne conta diciotto – fu completamente imbevuto dell’istruzione che i protestanti sanno così bene impartire a modo loro. Non c’è pregiudizio contro la Chiesa cattolica che egli non conosca, non c’è articolo del corpo dottrinale eretico che egli ignori. Per me la sua compagnia, se mi arreca qualche distrazione, mi fa anche del bene, mentre tocco con mano un altro grave pericolo che patisce la nostra fede in Italia, così insidiata dalle sette. Ohimè, ohimè, i figli delle tenebre sono più prudenti dei figli della luce. In -tanto quello che io volevo conchiudere, è l’obbligo gravissimo che io ho di ringraziare Iddio del gran dono della fede: basta frequentare per poche ore un protestante per inten-derne tutta l’importanza. Sempre adunque, «laus eius in ore meo», anche per questo e massimamente per questo. E quanto ai poveri disgraziati che si trovano fuori della Chiesa? Oh, compatirli, poveri figli, pregare assai per loro, e adoperarsi a tutto potere e con gran cuore per la loro conversione!»10

Il linguaggio utilizzato è indicativo: la frequentazione del giovane protestante fa apprezzare a Roncalli, per contrasto, il dono della fede, il che significa indirettamente che quella del giovane – e dunque quella della riforma – non è veramente un’espe-rienza cristiana. Parimenti, le obiezioni del giovane al cattolicesimo sono comprese pregiudizialmente come errate, suggerendo quindi l’idea che qualunque critica della riforma al cristianesimo romano debba essere per principio considerata scorretta. La stessa visione delle cose permane dopo l’ordinazione presbiterale: divenuto presiden-te italiano del Consiglio centrale della Pontificia Opera della Propagazione della Fede, Roncalli così scrive nel 1921 sull’origine della Riforma:

«La pretesa riforma protestante avvolgeva di ombre fatali vari popoli che dalla Chiesa avevano sempre attesa e accolta la parola di verità e di vita: molte nazioni, allet-tate dalla voce di falsi profeti e dalla visione di orizzonti religiosi lusinghieri per le pas-sioni umane, abbandonavano l’ovile sicuro di Pietro. Nella casa del Divino Maestro en-trava lo squallore dell’eresia. Era necessario reagire. La Chiesa Romana conservava nel proprio seno tutta la forza necessaria per opporre, alla bugiarda riforma, un alito pos-sente di vera rigenerazione: e i Pontefici si posero all’opera ardimentosi. Tra le varie

9 Cf. al riguardo A. MELLONI, Il cammino di A.G. Roncalli nella ricerca dell'unità, in “Fe i teologia en la història : estudis en honor del prof. dr. Evangelista Vilanova”, a cura di J. Busquets - M. Martinell, Barcellona 1997, pag. 546-547.

10 GIOVANNI XXIII, Il giornale dell'anima e altri scritti di pietà, Cinisello Balsamo 1989, pag. 261-262.

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iniziative sorte, in quell’ora trepida, per arginare sì travolgente marea, è da ricordarsi appunto la Sacra Congregazione De Propaganda Fide»11.

Insomma, sul fronte delle tematiche ecumeniche il pensiero del giovane Roncal-li si dimostra assolutamente in linea con la dottrina ufficiale della Chiesa cattolica del suo tempo. Questa fedeltà, tuttavia, deve essere compresa nel quadro di una persona-lità per nulla «appiattita» in una fedeltà acritica alla mentalità comune. Il nostro auto-re, infatti, attribuisce una grande importanza alla riflessione critica per la difesa e la crescita della fede, pur nell’ambito della dottrina della Chiesa12, come egli stesso scri-ve nel 1907:

«Da certe povere anime illuse, trovo giusto chiamarle così, si è giudicato della Chiesa e del Cristianesimo alla stregua di criteri troppo umani. Cosicché quando le ap-plicazioni illogiche ed ingiuste che il razionalismo teologico tedesco fece dei risultati della sua critica all’insegnamento tradizionale della Chiesa parvero abbattere la peren-ne consistenza di questa, colle buone intenzioni forse di salvarla, per effetto di quel non so che, che io chiamo paura, si è ricorso ad altri sistemi, i quali per una strana ironia delle cose rappresentano la distruzione di ogni vero procedimento scientifico e il re-gresso spaventoso verso un soggettivismo della peggior specie. Guai a quel giorno in cui queste dottrine dovessero prevalere»13.

La reazione al razionalismo ha comportato una sorta di paura nell’uso della ra-gione e del metodo scientifico applicati alle tematiche della fede, cosa che Roncalli rifiuta con decisione: anzi, come storico ritiene che la miglior difesa della Chiesa sia

11 A. RONCALLI, Lux, in A. Roncalli, “La propagazione della fede nel mondo”, a cura della Direzione nazionale delle PP.OO.MM., Prato 1959, pag. 18.

12 Cf. al riguardo GIOVANNI XXIII, Il giornale dell'anima e altri scritti di pietà, Cinisello Balsamo 1989, pag. 245. La scoperta del valore dello studio teologico avviene per Roncalli nel contesto della sua permanenza presso il Seminario Romano, così come quello della critica storica avviene durante il suo servizio come segretario del vescovo di Bergamo, Radini Tedeschi; grazie a quest’ultimo, pure figura di spicco del cattolicesimo italiano, Roncalli avrà la possibilità di incontrare altri personaggi di grande prestigio e apertura, come il Card. Ferrari e il Card. Mercier. Quest’ultimo, in particolare, rappresenta un personaggio chiave del panorama ecumenico cattolico del ‘900: fondatore dell’Istituto dei monaci dell’unione (Chevetogne) per la promozione della riconciliazione tra cattolicesimo ed ortodossia, è pure presidente dal 1921 al 1925 delle conversazioni di Malines – con l’approvazione della santa Sede –, miranti al ristabilimento della comunione tra la Chiesa cattolica e quella anglicana. Cf. G. ALBERIGO, Papa Giovanni (1881 – 1963), Bologna 2000, pag. 39; A.J. VAN DER BENT, Mercier, Désiré, in “Dizionario del movimento ecumenico”, Bologna 1994, pag. 723.

13 A. RONCALLI, Il Cardinale Cesare Baronio. Conferenza tenuta il 4 dicembre 1907 nel Seminario di Bergamo ricorrendo il terzo centenario della morte, Roma 1961, pag. 44.

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la narrazione della sua storia effettiva14, senza sottacere le sue negligenze. Occorre tuttavia tenere presente che questa profonda fiducia nella razionalità, pur nell’ambito della fede tradizionale, non diviene mai un «sistema», una compagine ben strutturata di principi e norme15; manca cioè in Roncalli una cultura del progetto: egli rifugge dall’inquadrare la realtà dentro ad un insieme di regole e preferisce invece muoversi in una prospettiva più dinamica e creativa16.

Il 3 marzo 1925 Roncalli viene nominato visitatore apostolico in Bulgaria per un periodo che si concluderà nel 1934. Al di là delle ragioni che determinano la no-mina di Roncalli, resta il fatto che tale periodo segna per il nostro autore una tappa fondamentale nello sviluppo della sua mentalità ecumenica per il fatto stesso della sua permanenza nel complesso mondo orientale17.

Vi sono alcuni episodi nella vicenda roncalliana di questo periodo nei quali si vede da un lato la sua difficoltà nel gestire la sua presenza in territorio ortodosso come rappresentante della Santa Sede, dall’altro l’emergere di uno stile connotato da tratti singolari rispetto alla posizione ufficiale del cattolicesimo del tempo. Ad esem-pio, nel 192618 Roncalli partecipa ad un incontro di prelati ortodossi con alcuni vesco-vi cattolici; il fatto, ovviamente del tutto straordinario, ha un esito positivo grazie alla

14 Cf. ibidem, pag. 41.15 Cf. al riguardo A. MELLONI, Formazione e sviluppo della cultura di Roncalli, in “Papa

Giovanni”, a cura di G. Alberigo, pag. 19. A. Riccardi, riflettendo sulla differenza tra il discorso di apertura del Concilio di Giovanni XXIII, Gaudet Mater Ecclesia, e una lettera di pochi giorni dopo scritta dal Card. Montini al Card. Cicognani, in cui egli si lamenta della mancanza di un progetto organico per il Concilio, nota: «È indubbio però che dai due documenti emergano due mentalità differenti: nel papa [Giovanni XXIII] una mentalità spirituale, che dà tanto valore all’esortazione, alla parola ed ai gesti, nel Cardinale di Milano, oltre all’esperienza della Curia Romana che lo rende naturalmente accorto, si sente la cultura del progetto»: A. RICCARDI, Recensione a “Fede tradizione e profezia”, in “Cristianesimo nella storia” 6/2 (1985), pag. 430.

16 Secondo A. Melloni l’ambito nel quale la cultura del progetto si blocca è probabilmente la spiritualità: A. MELLONI, Formazione e sviluppo della cultura di Roncalli, in “Papa Giovanni”, a cura di G. Alberigo, pag. 19. In effetti un precoce rifiuto di un sistema di regole eccessivamente stringente lo ritroviamo nel suo cammino spirituale di seminarista, nel 1903, quando comprende che l’imitazione delle virtù dei santi non consiste nel riprodurre esattamente le modalità del loro comportamento virtuoso (che egli chiama “gli accidenti”) ma nel vivere la loro santità (che egli definisce “sostanza”) secondo le proprie caratteristiche e peculiarità: cfr. GIOVANNI XXIII, Il giornale dell'anima e altri scritti di pietà, Cinisello Balsamo 1989, pag. 197.

17 A. MELLONI, Il cammino di A.G. Roncalli nella ricerca dell'unità, in “Fe i teologia en la història : estudis en honor del prof. dr. Evangelista Vilanova”, a cura di J. Busquets - M. Martinell, Barcellona 1997, pag. 548.

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sua capacità di creare un clima amichevole tra i partecipanti all’evento. Dopo questo incontro Roncalli riesce ad ottenere la partecipazione della gerarchia ortodossa ad una conferenza cattolica sul problema dell’unità della Chiesa. È pure da ricordare il mes-saggio di augurio e di saluto che Roncalli invia al Concilio plenario dei vescovi orto-dossi bulgari alla fine del 192719. Ciò che colpisce in questo testo è la dichiarazione secondo cui i lavori dell’assemblea possono essere utili per l’affermazione del regno di Gesù Cristo attraverso la grazia dello Spirito. Si comprende facilmente perché que-sto messaggio lasci stupiti e perplessi gli stessi vescovi ortodossi: mentre la linea uffi-ciale del cattolicesimo di questo periodo tende a ridurre al minimo il valore ecclesiale e salvifico delle Chiese non cattoliche, in questo contesto Roncalli sembra ampliarlo considerevolmente. Risulta molto significativa anche la visita che Roncalli compie nel 1928 al Fanar, la residenza del patriarca a Costantinopoli, un fatto decisamente in-solito; in questo contesto egli incontra Basilio III, patriarca ecumenico, il quale gli fa addirittura la proposta di suggerire al pontefice un Concilio ecumenico che ripristini l’unione fra Oriente e Occidente20. Anche se questa idea non trova alcuno sbocco, la scelta di Roncalli di incontrare il Patriarca nella sua sede ci fa comprendere come egli sia più attento allo svolgimento del suo ministero episcopale e alla ricerca dell’unità attraverso l’incontro e il dialogo che alle esigenze della diplomazia, che forse avrebbe richiesto un atteggiamento più prudente. In effetti, da alcuni testi del periodo sembra di capire che Roncalli abbia avuto qualche rimprovero dalla Santa Sede per questo in-contro o comunque temesse di riceverne; se le cose stessero veramente in questo modo, dovremmo vedere in questa scelta roncalliana l’espressione di una certa sua li -bertà personale nei confronti della Santa Sede che lo spinge a perseguire la via della unione attraverso il suo metodo, quello del dialogo e dell’amore, piuttosto che attra-verso la sola via dell’affermazione distaccata della propria superiorità confessionale.

Questa breve carrellata di alcuni episodi significativi della permanenza di Ron-calli in Bulgaria descrive il nostro personaggio come un obbediente delegato della Santa Sede che, tuttavia, lasciandosi interpellare dalle esigenze pastorali e più in ge-nerale dalla realtà bulgara compie alcuni gesti di apertura ecumenica abbastanza si-gnificativi. Questa sorta di ambivalenza la si ritrova anche nei testi:

«La pur presente originalità dell’atteggiamento di Roncalli verso il problema del-l’unità delle chiese risente della sproporzione quantitativa fra i testi in cui si riscontra

18 Cf. F. DELLA SALDA, Obbedienza e pace. Il Vescovo A. G. Roncalli tra Sofia e Roma (1925-1934), Genova 1989, pag. 65-68.

19 Cf. ibidem, pag. 72-73.20 Cf. A. MELLONI, Il cammino di A.G. Roncalli nella ricerca dell'unità, in “Fe i teologia en

la història : estudis en honor del prof. dr. Evangelista Vilanova”, a cura di J. Busquets - M. Martinell, Barcellona 1997, pag. 549.

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un appiattimento sulle linee ufficiali della Santa Sede e i testi in cui è riscontrabile un superamento delle stesse. Tale scarto, con ogni probabilità, non si sarebbe svelato al-l’occhio dello storico se egli non fosse stato eletto pontefice e non si conoscessero gli esiti sorprendenti del pontificato»21.

Il suo approccio tradizionale al problema ecumenico, che rispecchia quell’unio-nismo che è la dottrina ufficiale della Chiesa del suo tempo22, non gli impedisce di muoversi in alcuni passaggi in una prospettiva nuova, pur senza troppe fondazioni teologiche. La via che il nostro autore ritiene determinante per ricostruire l’unione è quella dell’amore, come egli stesso scrive nel 1927:

«È domandato alla carità dei cattolici far affrettare l’ora del ritorno dei fratelli al-l’unità dell’ovile [...]. Alla carità assai più che alle discussioni scientifiche. Alla carità esattamente secondo l’elogio di S. Paolo (1Cor 13, 4).»23.

In tal senso nel 1934 Roncalli afferma di aver deliberatamente messo da parte la sua scienza teologica, acquisita nei lunghi anni di studio, per farsi conoscere come di-spensatore dei tesori della carità del Signore24; in un altro testo afferma che le discus-sioni filosofiche, religiose e politiche creano solo divisioni e guerre, mentre le opere di beneficenza creano unità, pace e progresso per tutti25. I passaggi che riprendono questo tema sono numerosi.

Questa rilevanza riconosciuta alla carità delinea in qualche modo una via ecu-menica alternativa a quella del confronto scientifico. Certamente dal punto di vista culturale Roncalli avrebbe potuto affrontare il dibattito ecumenico con gli ortodossi: i lunghi anni di studio e di insegnamento non solo di storia ma pure di apologetica lo avevano reso capace di portare avanti questo approccio e di utilizzare gli strumenti che la teologia del suo tempo metteva a disposizione. Eppure egli non porta avanti un ecumenismo «teologico», dogmaticamente fondato e capace di convincere gli «avver-sari» del valore della dottrina cattolica, bensì un ecumenismo «pratico», operativo e

21 F. DELLA SALDA, Obbedienza e pace. Il Vescovo A. G. Roncalli tra Sofia e Roma (1925-1934), Genova 1989, pag. 142.

22 Cf. G. ALBERIGO, Papa Giovanni (1881-1963), Bologna 2000, pag. 79.23 A. RONCALLI, Lettera del 5 maggio 1927 ad A. Coari, in F. Della Salda, “Obbedienza e pace.

Il Vescovo A. G. Roncalli tra Sofia e Roma (1925-1934)”, Genova 1989, pag. 69.24 A. RONCALLI, Discorso di S. Silvestro, in F. Della Salda, “Obbedienza e pace. Il Vescovo A.

G. Roncalli tra Sofia e Roma (1925-1934)”, Genova 1989, pag. 265. Roncalli vivrà una grande carità e bontà verso il popolo Bulgaro al punto da essere chiamato “Diado”, cioè “buon padre”: cfr. P. HEBBLETHWAITE, Giovanni XXIII. Il Papa del Concilio, Milano 1989, pag. 172.

25 Cf. A. RONCALLI, Discorso per la posa della prima pietra del Collegio Principessa Nadejda , in F. Della Salda, “Obbedienza e pace. Il Vescovo A. G. Roncalli tra Sofia e Roma (1925-1934)”, Genova 1989, pag. 212. Il testo è del 1929.

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vissuto; in modo teologicamente più corretto, potremmo dire che il nostro autore spo-sta il problema ecumenico dal piano dottrinale, nel quale si interagisce con il ragiona-re teologico, a quello misterico, nel quale è la santità dell’amore a far progredire le cose.

Nonostante l’evidente spessore spirituale delle affermazioni roncalliane, il fatto di trasferire il problema ecumenico sul piano misterico può lasciare un po’ insoddi-sfatta l’odierna razionalità teologica; questa, in fondo, non trova facilmente nel prin-cipio della carità – almeno così come è espresso nel linguaggio roncalliano – un ele-mento in grado di rappresentare il fondamento di un’ecclesiologia e quindi di un cam-mino ecumenico26, e ribadisce la necessità di un effettivo confronto dottrinale. Sta di fatto che per Roncalli questo metodo non porta a nulla, al contrario della carità: perquesto egli si muove più sul terreno dell’amore che su quello della verità – pur senza metterne in discussione il valore normativo –, ritenendo che in questo modo si può ar-rivare, con il tempo, a persuadere i separati a ritornare nella Chiesa cattolica 27. Nel suo discorso di addio a Sofia, al termine del suo mandato, egli afferma:

«Se sapessi che non sarà mal compresa vorrei dire una parola anche per tutti i no-stri fratelli ortodossi. La diversità delle nostre disposizioni in faccia ad uno dei punti fondamentali del cristianesimo quale si apprende dal vangelo, cioè l’unione di tutti i fi-gli della chiesa di Cristo al successore del principe degli apostoli, ha imposto alcune ri-serve ai miei contatti ed alle mie manifestazioni personali nei rapporti con loro. Ciò era ben naturale. Ma io spero di essere ben riuscito a farmi comprendere anche da loro. Il rispetto che ho sempre tenuto a professare in pubblico ed in privato per ciascuno e per tutti, il mio silenzio imperturbabile e senza fiele, il non essermi mai chinato a racco-gliere qualche sasso gettato da qualcuno sul mio cammino hanno dovuto dire a tutti la sincerità del mio cuore anche per loro, che sento di amare nel Signore con la stessa cri -stiana e fraterna carità che il vangelo ci insegna. Pensiamo tutti seriamente a salvare l’anima nostra. Il giorno in cui unico sarà nella chiesa santa l’ovile ed il pastore, dovrà ben arrivare sulla terra perché Gesù lo ha detto (cf. Gv 10,16). Affrettiamo con le no-

26 Cf. al riguardo S. DIANICH, “De caritate ecclesia”. Introduzione ad un tema inconsueto, in Associazione Teologica Italiana, “De Caritate ecclesia. Il principio ‘amore’ e la Chiesa”, Padova 1987, pag. 31.

27 Cf. A. RONCALLI, Omelia nella domenica della Ss. Trinità - 27 maggio 1934, in F. Della Salda, “Obbedienza e pace. Il Vescovo A. G. Roncalli tra Sofia e Roma (1925-1934)”, Marietti, Genova 1989, pag. 255-256. Qui il nostro autore afferma che “forti della loro intima persuasione i cattolici annunziano la loro dottrina, ma con semplicità con grande riverenza ai diritti della coscienza altrui” e richiama in seguito al principio e al criterio della carità del Signore. Cf. anche G. ALBERIGO, Papa Giovanni (1881-1963), Bologna 2000, pag. 80.

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stre preghiere e con la nostra carità quel giorno benedetto. Via pacis, via charitatis, via veritatis.»28.

Non si può sapere, da un punto di vista storico, se il suo atteggiamento di carità abbia comportato un effettivo avvicinamento degli ortodossi al mondo cattolico. Cer-tamente Roncalli, pur perseguendo con convinzione la via dell’unionismo, arriva a vederne pure i limiti, quali la sterilità dei toni polemici e della contrapposizione dot-trinale, proprio a partire dalla prospettiva della carità.

Il 24 novembre 1934 Roncalli viene trasferito alla delegazione apostolica di Turchia e Grecia e nominato amministratore apostolico per i latini di Costantinopoli, incarico che si concluderà nel dicembre 194429. La permanenza di Roncalli a Sofia rappresenta una sfida ulteriore rispetto a quella precedente: il mondo ortodosso legato al patriarcato ecumenico è ben più forte rispetto a quello bulgaro, e a questo problema si aggiunge la presenza del patriarcato armeno, di un rappresentante personale dell’ar-civescovo anglicano di Canterbury presso il patriarcato – che rappresenta il primo contatto di Roncalli con l’anglicanesimo –, del rabbinato più rilevante del Mediterra-neo, della presenza dell’Islam e infine di un contesto cattolico estremamente compo-sito30. Dal punto di vista ecumenico Roncalli ricalca il modello precedente: si colloca nella linea tradizionale31 ma insiste ancora sul valore della carità:

«Oh! Chiesa santa nostra: essa può levare la sua fronte: il mondo: tutto il mondo moderno le appartiene. I suoi araldi sono sparsi dappertutto. Talora pare che debbano rallentare il loro cammino. Talora si piegano sotto la tempesta. Ma poi torna il sereno. La Chiesa non chiede che libertà e questa basta alle sue pacifiche vittorie. Gli è che lo Spirito Santo perennemente si diffonde sulle anime. Non sempre appariscono di fuori le lingue di fuoco; ma dentro secondo la bella espressione di S. Gregorio Magno dentro fiammeggiano i cuori, corda flammantia per la carità di Cristo che li divora»32.

28 A. RONCALLI, Discorso di Natale - 25 dicembre 1934, in F. Della Salda, “Obbedienza e pace. Il Vescovo A. G. Roncalli tra Sofia e Roma (1925-1934)”, Genova 1989, pag. 261.

29 È opportuno notare che Roncalli svolgerà questo compito con buone capacità diplomatiche, anche se coniugate con il suo caratteristico senso pastorale che lo rende un diplomatico un po’ fuori dagli schemi: cfr. R. MOROZZO DELLA ROCCA, Roncalli diplomatico in Turchia e Grecia (1935 – 1944), in “Cristianesimo nella storia” 8/2 (1987), pag. 39.

30 Cf. A. MELLONI, Il cammino di A.G. Roncalli nella ricerca dell'unità, in “Fe i teologia en la història : estudis en honor del prof. dr. Evangelista Vilanova”, a cura di J. Busquets - M. Martinell, Barcellona 1997, pag. 549; R. MOROZZO DELLA ROCCA, Roncalli diplomatico in Turchia e Grecia (1935 – 1944), in “Cristianesimo nella storia” 8/2 (1987), pag. 34.

31 Basti citare i commenti deplorevoli sui monaci del monte Athos per il fatto di non essere cattolici: cfr. ibidem, pag. 61.

32 A. RONCALLI, Omelia per Pentecoste, in A. Roncalli, “La predicazione a Istambul. Omelie, discorsi e note pastorali (1935-1944)”, a cura A. Melloni, Firenze 1993, pag. 71.

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Davanti alle continue difficoltà che ostacolano l’evangelizzazione, la Chiesa cattolica riesce a vincere le sue battaglie grazie allo Spirito Santo perennemente diffu-so nel cuore dei credenti e capace di infiammarla della carità del Cristo. Questa carità è la via per affrontare qualunque ostacolo all’annuncio del vangelo, quindi – come detto sopra – anche lo scandalo derivante dalla divisione delle chiese.

Alla fine del 1944 Roncalli, a 63 anni e con un passato diplomatico abbastanza modesto, viene nominato nunzio in Francia33. Si tratta per il nostro autore di un gros-so cambiamento, non solo per la maggiore importanza di questa sede rispetto alle pre-cedenti, ma soprattutto per la responsabilità che gli viene affidata: al di là delle ragio-ni storiche che stanno alla base di questa nomina, di fatto Roncalli si trova a vivere e a rappresentare la Santa Sede in un luogo di grande importanza per la politica vatica-na. In questi anni incontra diverse persone, tra cui J. Maritain; anche se le fonti dispo-nibili di questo periodo sono molto limitate, esse tuttavia testimoniano un Roncalli in-serito nei nodi problematici della società e della politica Francia che non di rado toc-cano direttamente anche il suo operato di nunzio. Pur inserito in questo clima così sti -molante, dal punto di vista ecumenico Roncalli non sembra sbilanciarsi più che in passato. Non si deve pensare, tuttavia, ad una sorta di regressione rispetto alla posi-zioni precedenti: non si deve dimenticare che a Parigi si trova in una realtà molto più complessa e importante rispetto a quelle antecedenti, con un dovere di rappresentanza molto più marcato34; in questo contesto Roncalli non si può permettere espressioni o gesti che suggeriscano l’idea di una sua presa di distanza dalla linea ufficiale vatica-na35. Per questo sia nella predicazione che nella prassi ecumenica ritroviamo una figura sostanzialmente fedele alla linea tradizionale. Vi è però un passaggio particolarmente importante, pronunciato nel 1950 ad Algeri, che sembra aprire prospettive nuove:

«In questo gesto di benedizione, il mio pensiero e il mio cuore si volgono non soltanto verso i nostri fratelli cattolici, ma pure verso tutti i cristiani delle diverse con-fessioni che partecipano più o meno al testamento del Signore»36.

33 Cf. G. ALBERIGO, Papa Giovanni (1881-1963), Bologna 2000, pag. 101 ss.34 Cf. A. MELLONI, Il cammino di A.G. Roncalli nella ricerca dell'unità, in “Fe i teologia en

la història : estudis en honor del prof. dr. Evangelista Vilanova”, a cura di J. Busquets - M. Martinell, Barcellona 1997, pag. 551.

35 Fatta eccezione per un viaggio fatto in Algeria nel 1950, di cui si parlerà in seguito, forse per il minor peso diplomatico delle sue parole in quel contesto.

36 «En ce geste de bénédiction, ma pensée et mon cœur se tournent non seulement vers nos frères catholiques, mais aussi vers tous les chrétiens des diverses confessions qui participent plus ou moins au testament du Seigneur»: A. RONCALLI, Salut aux fidèles réunis en l’Église de Sainte Elisabeth, à son arrivée à Alger, in A. RONCALLI, “Souvenir d’un nonce. Cahiers de France (1944-1953)”, Roma 1963, pag. 94.

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Massimo NARDELLO, L’unità frutto della carità. Istanze ecumeniche negli scritti di Angelo Roncalli

Roncalli, affermando che i cristiani appartenenti alle diverse confessioni non cattoliche partecipano in misura diversa del testamento di Gesù, cioè dell’unità che il Signore stesso ha chiesto al Padre nell’ultima cena, sembra sostenere implicitamente l’idea che sia possibile una gradualità di appartenenza all’unità della Chiesa di Cristo. Se così fosse, non saremmo molto distanti dalla visione sostenuta nella Lumen Gen-tium sul rapporto tra la Chiesa cattolica e le altre Chiese. Ovviamente siamo nell’am-bito delle interpretazioni, non certamente sicure o chiaramente indotte dal testo; anco-ra una volta Roncalli ci presenta alcuni interessanti e innovativi spunti di riflessione, senza tuttavia svilupparli o darci prova che dietro di essi vi sia una riflessione com-pleta e organica.

Nel 1953 Roncalli inizia il suo ministero episcopale a Venezia, che durerà fino alla sua elezione al pontificato nel 1958; si tratta di un breve periodo per un governo episcopale, nel quale tuttavia il nostro autore, già anziano, si trova a dover operare in un ambiente completamente nuovo, dopo essere stato assente trent’anni dall’Italia e senza un’effettiva esperienza pastorale nel territorio italiano.

L’analisi dei testi sul tema ecumenico ci conferma la continuità con la sua pro-spettiva precedente, cioè la difesa della linea tradizionale unita però ad affermazioni innovative. La fermezza sui principi della fede cattolica viene espressa molto chiara-mente nella visione ancora sprezzante delle origini della riforma, come emerge da questo testo del 1956:

«Per i Protestanti la Chiesa di Cristo è fondata sulle Scritture, e non si regge che su quelle, abbandonate alla libera interpretazione di ciascuno: individualismo che spie-ga il dissolvimento della eredità di Cristo in compattezza di dottrina, di spirito e di struttura. La Chiesa cattolica riconosce invece Gesù Figlio di Dio come suo unico fon-datore e testimonianze di questa fondazione sono la Tradizione apostolica e la sacra Scrittura. La Tradizione prima; la Scrittura poi: e la Scrittura sulla Tradizione» 37. Il pro-testantesimo viene identificato alla luce del concetto del libero esame della Scrittura, cosa che determina individualismo e dissolvimento dell’eredità di Cristo. Si fa fatica a non leggere in queste parole una sorta di rifiuto del carattere ecclesiale delle comunità provenienti dalla riforma. Pochi mesi dopo Roncalli definisce le confessioni non catto-liche «frantumi sparsi e divelti dell’antica costruzione», «gruppi notevoli di pecorelle, erranti senza pastore, o abbandonate a se stesse, mal raggiustate fra di loro, in variazio-ne di nomi di colori»38. Parimenti nel settembre del 1958, al congresso eucaristico di Padova, Roncalli parla del protestantesimo come di una «bufera» scatenata da alcuni «innovatori [che] tentarono di spegnere con mano audace e sacrilega la lampada del

37 A. RONCALLI, La Sacra Scrittura e S. Lorenzo Giustiniani, in A. RONCALLI, Scritti e discorsi, Vol II (1955-1956) (d’ora in poi siglato SD con indicato in numero romano il volume), Edizioni Paoline, Roma 1959, pag. 339.

38 A. RONCALLI, Ottava di preghiere per l’unità della Chiesa, in SD III, pag. 26.

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santuario, riducendo l’Eucaristia ad un simbolo vuoto del corpo di Cristo» e ringrazia «Iddio benedetto che ha risparmiato il nostro Paese da tanta sciagura»39.

Questa fedeltà di Roncalli alla dottrina ecclesiastica del suo tempo non gli im-pedisce di dare un grande valore alla settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, non frequentemente valorizzata in altre diocesi40, e di cogliere un forte desiderio di unità tra i cristiani, sebbene sia ritenuto «solido» solamente quello esistente nel mon-do cattolico e «incerto» quello degli altri discepoli di Cristo41. La prospettiva ecume-nica rimane sostanzialmente quella unionista42, ma permane pure il tema dell’amore come via attraverso la quale si può ricostruire l’unità ecclesiale infranta. Roncalli ar-riva ad affermare una sia pur generica responsabilità del mondo cattolico nell’attuale situazione di divisione, ovviamente non sul piano dogmatico ma su quello della cari-tà43. Ancora un volta, egli intende l’amore come il nucleo del vangelo, la base della civiltà, “il substrato di ciò che Cristo ha annunziato al mondo”44, ed è dunque naturale che la via della restaurazione dell’unità ecclesiale debba passare per questa strada maestra. Come in precedenza, tuttavia, questo cammino incentrato sulla carità resta comunque limitato al piano spirituale, cioè non diventa riflessione sistematica e teolo-gicamente fondata in grado di contrapporsi esplicitamente alla tradizionale linea unio-nista.

In conclusione, il periodo veneziano non evidenzia affatto nuovi elementi nella sensibilità ecumenica del nostro autore; semplicemente continua ad essere presente,

39 A. RONCALLI, Congresso eucaristico di Padova. Omelia nella Messa pontificale, in SD III, pag. 686-687.

40 Cf. S. SCATENA, L'episcopato di Angelo Giuseppe Roncalli a Venezia (1953-1958), tesi di laurea in Storia contemporanea, Pisa 1994, pag. 118-119.

41 Cf. A. RONCALLI, Ottava di preghiere per l’unità della Chiesa, in SD III, pag. 26.42 Cf. A. RONCALLI, Per la festa dell’Assunta. Messaggio ai Veneziani, in SD III, pag. 608-611.

Cf. S. SCATENA, L'episcopato di Angelo Giuseppe Roncalli a Venezia (1953-1958), tesi di laurea in Storia contemporanea, Pisa 1994, pag. 60-61.

43 Cf. A. RONCALLI, Alla VII settimana di studi per l’oriente cristiano, in SD III, pag. 240.44 A. RONCALLI, Consacrazione del vescovo ausiliare, in SD I, pag. 93.

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forse con diversa intensità45, quella visione delle cose che il nostro autore aveva ma-turato nel periodo bulgaro.

Il periodo del pontificato

Non possiamo entrare, per ragioni di spazio, nell’analisi degli atti di carattere ecumenico che Giovanni XXIII ha posto durante il suo pontificato, come la costitu-zione del Segretariato per l’unità dei cristiani e la tutela della sua attività durante il di -battito conciliare, o come i suoi numerosi incontri con esponenti di Chiese e comunità ecclesiali non cattoliche. Ci limiteremo quindi ad offrire una sintesi delle principali intuizioni ecumeniche che compaiono nei suoi testi magisteriali.

La centralità dell’amore

Emerge ancora una volta la centralità dell’amore; se la riunificazione dell’uma-nità in Cristo rappresenta lo scopo della sua azione salvifica e se parimenti la ragion d’essere della Chiesa è il rendere possibile tale riunificazione, allora la carità è la so-stanza e il cuore del cristianesimo e della Chiesa stessa:

«Proseguì nelle sue amabili confidenze il nostro Signore coi suoi: Questo è il mio precetto: che voi vi vogliate bene fra di voi a vicenda come io vi ho voluto bene. E l’a-more fra voi deve essere tale da disporvi a dare anche la vita per i vostri amici. Vera-mente grande insegnamento questo della carità. In esso, nella sua pratica applicazione si riassume la sostanza viva di tutto il Cristianesimo, di tutta la Chiesa» 46.

Il problema ecumenico si colloca per Roncalli all’interno di questo cammino di tutta l’umanità verso l’unità della Chiesa cattolica; il tema del ritorno dei fratelli e delle sorelle separati è accostato a quello del sacrificio di Gesù, fondamento dell’uni-tà della Chiesa:

«La sorgente di tale perfetta ed infrangibile unità è il Salvatore Gesù, luce del mondo. Con il sacrificio supremo Egli ci ha redenti, ci ha riconciliati con il Padre, ci ha elevati a fratelli, tutti, in Lui e per Lui. A Roma si avverte in modo singolarissimo tale unione di anime, di cuori, di volontà. Qui sono tante testimonianze, mirabili splendori

45 Per S. Scatena nel periodo veneziano si può rilevare una sorta di “moderazione” delle prospettive ecumeniche di Roncalli maturate nel periodo bulgaro; per S. Tramontin, al contrario, in questo periodo tali prospettive trovano un ampliamento di orizzonte: cfr. S. SCATENA, L'episcopato di Angelo Giuseppe Roncalli a Venezia (1953-1958), tesi di laurea in Storia contemporanea, Pisa 1994, pag. 118-119; S. TRAMONTIN, Venezianità del Card. Roncalli, in “Cultura e spiritualità in Bergamo nel tempo di Papa Giovanni XXIII” Bergamo 1983, pag. 366-367. In ogni caso le linee guida del suo pensiero sembrano essere fondamentalmente le stesse.

46 IOANNES XXIII, Italicus pontificiae allocutionis textus ad romanam terminandam Synodum (30 gennaio 1960), in AAS 52 (1960), pag. 302.

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della costante fedeltà della Chiesa al suo Divin Fondatore: dalle Catacombe ai fastigi delle Basiliche maggiori. È questa una benedizione così grande da essere naturalmente animati non da pensieri ostili verso coloro che, lungo i secoli, si sono separati o allonta-nati, ma da speciale carità, i cui frutti concorrano ad affrettare il giorno auspicato del -l'unum ovile e dell'unus pastor»47.

L’amore e la stima48 per i cristiani non cattolici non nasce dunque da una visio-ne irenica delle cose né semplicemente da uno stile bonario; essi sono piuttosto il frutto di un’ecclesiologia ben precisa – sebbene implicita – nella quale tutta l’umanità deve convergere nella Chiesa cattolica, liberata dal suo egoismo e dal peccato 49, e in cui i fratelli e le sorelle separati sono i lontani più prossimi a questo ritorno.

L’ecclesialità delle chiese e delle comunità ecclesiali non cattoliche

Sul problema del valore ecclesiale delle Chiese non cattoliche, nei testi di Gio-vanni XXIII si nota una sorta di ambiguità. Così egli scrive nel 1960:

«[...] Preghiera [del Papa] che sarà più fervida per tutti i figli particolarmente No-stri; ma preghiera che Ci è quotidiana e ardente anche per gli altri innumerevoli che, appartenenti a Cristo di cui conservano Nome e Vangelo, vivono però variamente e in gruppi religiosi separati da quella Chiesa che fu per sedici secoli la Chiesa dei loro pa-dri, e che Gesù affermò esplicitamente la sua Chiesa nell’atto di dichiararne Pietro il fondamento e di affidarne a lui il governo»50.

Insomma i non cattolici appartengono a Cristo, ma le loro Chiese – dette «grup-pi religiosi separati» – sembrano non avere, in queste parole, alcun valore ecclesiale. In realtà la prospettiva roncalliana sembra essere oggetto di un’evoluzione, o quanto meno di un’esplicitazione: nel 1962 Giovanni XXIII scrive:

«Sul vasto e complicato e ancora turbatissimo orizzonte della creazione, la cui immagine è nelle prime righe della Genesi, lo Spiritus Dei ferebatur supra aquas. Al di là di precisazioni e applicazioni più minute gli è certo che nei riferimenti a quanto so-

47 GIOVANNI XXIII, Discorso Nella Chiesa: unione di intelletti e volontà (25 ottobre 1961), in Giovanni XXIII, Discorsi, Messaggi, Colloqui del Santo Padre Giovanni XXIII. Vol. 3, Editrice Vaticana, Roma 1962, pag. 680.

48 Cf. IOANNES XXIII, Allocutio ad Eminentissimos Patres Cardinales, Excellentissimos Praesules ceteraque Membra Commissionis Centralis Concilio Oecumenico Vaticano altero parando, quae coetibus interfuerunt, quibus eodem Commissio suorum initium sumpsit laborum (20 giugno 1961), in AAS 53 (1961), pag. 502.

49 Cf. IOANNES XXIII, Homilia habita in Basilica Petriana, in festo Pentecostes, ad E.mos Patres Cardinales, Sacros Praesules ceterumque Clerum et christifideles adstantes, dum sacro pontificali ritu perageretur (10 giugno 1962), in AAS 54 (1962), pag. 443.

50 GIOVANNI XXIII, Discorso Voti al Cardinale Legato e alla Missione Pontificia in partenza per Monaco (30 luglio 1960), in DMC 2, pag. 449.

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pravvive del patrimonio spirituale della Santa Chiesa, anche là dove esso non è nella sua pienezza, poche volte nella successione dell’era cristiana – venti secoli trascorsi – si è avvertita una inclinazione così struggente nei cuori verso l’unità voluta dal Signore. La sensibilità che si potè constatare in questo primo affacciarsi, attraverso il Concilio Ecumenico, all’attenzione dei nostri contemporanei del problema religioso, questa sen-sibilità tutti raccoglie preferibilmente intorno alla figurazione dell’unum ovile e unus Pastor. È un raccogliersi talora timido, tal altra non senza qualche apprensione di pre-giudizio, che noi sappiamo immaginare e vogliamo anche comprendere, perché con la grazia divina lo si possa superare»51.

Nelle Chiese non cattoliche il patrimonio spirituale della santa Chiesa esiste realmente, sebbene in modo non pieno; esse dunque non devono essere ritenute realtà insignificanti per la salvezza ma piuttosto vere comunità cristiane che consentono un’esperienza spirituale autenticamente evangelica, sebbene esse non siano dotate di tutti gli elementi della Chiesa di Cristo, presenti solo nella Chiesa cattolica. Il grande interesse che esse hanno manifestato per il Concilio viene letto da Roncalli – con un’interpretazione non certo cogente sul piano storico – come segnale del loro impli-cito orientamento verso l’unità voluta dal Signore, cioè nella Chiesa cattolica.

Il fatto che sia possibile un’esperienza di fede autenticamente cristiana anche nelle Chiese non cattoliche e che tale esperienza avvenga grazie ad esse, emerge con chiarezza nella beatificazione di Elisabetta Anna Bayley Seton52, una donna che ha vissuto gran parte della sua vita nella confessione episcopaliana, dove ha maturato un’esperienza di fede e di carità decisamente straordinaria, e che poi si è convertita al cattolicesimo:

«Quale meravigliosa opera, voluta e condotta dal Signore nell’anima di Elisabetta Anna Bayley Seton! In ogni momento della sua vita, la Beata cercò Iddio, volle trovarlo ad ogni costo. Ne aveva nozione già durante la sua appartenenza alla comunità epi-scopaliana; attinse il completo fulgore quando poté contemplare, in pienezza, le verità della fede cattolica e ricevere i carismi della grazia»53.

Nella confessione episcopaliana Elisabetta ha maturato la nozione di Dio, men-tre ne ha conosciuto pienamente il volto nella conversione al cattolicesimo e nell’ade-sione a tutte le verità della fede. Anche se in questo testo il valore del cammino di fede svolto da Elisabetta nella confessione riformata è piuttosto ridimensionato, vi

51 GIOVANNI XXIII, Radiomessaggio La pace nella unità e nell'amore dei figli di Dio (22 dicembre 1962), in DMC 5, pag. 47.

52 Cf. IOANNES XXIII, Littera Apostolica Eliquabatur veritas (17 marzo 1963), in AAS 55 (1963), pag. 306-308.

53 GIOVANNI XXIII, Discorso Assiduo ricorso al Patrono della Chiesa Universale (20 marzo 1963), in DMC 5, pag. 426.

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sono altri testi nei quali esso è abbondantemente amplificato; così Roncalli scrive nel 1963:

«La novella beata, come può dirsi di altri insigni personaggi del secolo decimono-no, giunse al cattolicesimo non attraverso la rinnegazione del passato, ma piuttosto come a meta provvidenziale di studio, di preghiera, di esercizio di carità, a cui la preparava tut-to l’orientamento della sua vita precedente. Un passo dopo l’altro, essa si trovò in seno alla Chiesa cattolica: fu per lei un arricchire il patrimonio, che già possedeva, un aprire lo scrigno chiuso, che stava nelle sue mani, un penetrare nella conoscenza della verità pie-na, presso la cui dimora essa s’era sempre trovata dai giovani anni. Le vie del Signore sono infinite: prope es tu, Domine: et omnes viae tuae veritatis (Ps. 118, 151)»54.

Insomma, Roncalli ritiene che le Chiese non cattoliche offrano ai loro fedeli un autentico patrimonio di fede che tuttavia è incompleto e quindi chiamato a perfezio-narsi nell’adesione alla verità piena, cioè a quella insegnata dalla Chiesa cattolica 55. Esse dunque sono, in linea di principio, anticamera e preparazione all’ingresso nel cattolicesimo: nella misura in cui portano dentro di sé verità incomplete, esse tendono di natura loro al compimento.

Le vie della riunificazione

Per quanto concerne le vie che Giovanni XXIII ritiene percorribili per ricostrui-re l’unità ecclesiale, se ne possono identificare sostanzialmente due: l’aggiornamento ecclesiale e lo stile di amore e di carità.

Per quanto riguarda la prima, occorre premettere che, anche se Roncalli tende ad identificare la Chiesa con il regno di Dio – rapporto che è tuttavia abbastanza com-plesso nei suoi scritti56 –, non ritiene affatto che la prima sia un’istituzione metastori-ca, ma al contrario una realtà incarnata nella storia; per questa ragione, anche se la Chiesa non può conoscere alcun mutamento nell’ambito dottrinale, deve tuttavia ag-

54 IOANNES XXIII, Allocutio in Basilica Vaticana habita, christifidelibus qui Romam peregrinati sunt, ut sollemni beatificationis venerabilis Servae Dei Elisabeth Annae Bayley, viduae Seton, interessent (17 marzo 1963), in AAS 55 (1963), pag. 330.

55 Roncalli definisce l’orientale non cattolico come non «pienamente raggiunto dalla grazia sacramentale e da quella dovizia di carismi che accompagna chi zela la gloria di Dio fra popoli di ogni stirpe»: cfr. GIOVANNI XXIII, Incontro con le rappresentanze delle Chiese di Oriente (18 gennaio 1963), in DMC 5, pag. 360-361.

56 Vi è una chiara evoluzione sul tema in Roncalli che raggiunge una sua maturità già nel discorso dell’11 ottobre 1962, Gaudet Mater Ecclesia, in cui compone una residua identificazione tra Chiesa e regno con la necessità da parte della riforma della prima; cfr. al riguardo G. RUGGIERI, Appunti per una teologia in papa Giovanni, in “Papa Giovanni”, a cura di G. Alberigo, Roma – Bari 1987, pag. 254. Si noti però che in tutto questo Roncalli non è certamente indietro rispetto ai tempi.

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giornarsi, cioè imparare a trasmettere la sua dottrina di sempre con modalità e lin-guaggi più comprensibili alla cultura contemporanea. Proprio questo tema dell’ag-giornamento è di grande rilevanza per la questione ecumenica, e Giovanni XXIII lo descrive con queste parole:

«Dalla rinnovata, serena e tranquilla adesione a tutto l’insegnamento della Chiesa nella sua interezza e precisione, quale ancora splende negli atti Conciliari da Trento al Vaticano I, lo spirito cristiano, cattolico ed apostolico del mondo intero, attende un bal-zo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze; è neces-sario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo. Altra cosa è infatti il deposito stesso della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata. Bisognerà attribuire molta importanza a que-sta forma e, se sarà necessario, bisognerà insistere con pazienza nella sua elaborazione: e si dovrà ricorrere ad un modo di presentare le cose, che più corrisponda al magistero, il cui carattere è preminentemente pastorale»57.

Come si vede, la stabilità della dottrina della Chiesa cattolica non pregiudica un suo cammino di crescita e di conversione, sebbene limitatamente alla forma nella quale le tematiche dottrinali vengono espresse. È in questa prospettiva che si deve cogliere il ruolo della Chiesa cattolica nel percorso ecumenico: poiché Roncalli si muove in una logica unionista, nella quale le altre Chiese devono far ritorno alla Chiesa cattolica la quale nei suoi dogmi e nelle sue istituzioni fondamentali incarna già perfettamente la Chiesa di Cristo, il ruolo di quest’ultima non può essere giocato nel confronto ecumeni-co, bensì nel migliorare se stessa. Così Roncalli scrive nel 1959:

«Scopo primo ed immediato del Concilio è di ripresentare al mondo la Chiesa di Dio nel suo perenne vigore di vita e di verità, e con la sua legislazione aggiornata alle presenti circostanze, sì da essere sempre più rispondente alla sua divina missione e prepa-rata per le necessità di oggi e di domani. Dopo, se i fratelli che si sono separati, e che sono anche divisi tra loro, vorranno concretare il loro desiderio di unità, potremo dire loro con vivo affetto: questa è la vostra casa; questa è la casa di quanti recano il segno di Cristo. Se invece, come alcuni ancora affermano si volesse iniziare con discussioni e di-battiti, non si concluderebbe nulla»58.

È molto significativa la convinzione roncalliana secondo cui il dibattito ecume-nico orientato direttamente a risolvere le divergenze dottrinali tra le Chiese è assolu-tamente inutile. Nella sua prospettiva, poiché la Chiesa cattolica è il luogo nel quale tutte le altre Chiese devono ritornare, ciò che essa può fare per favorire questo ritorno

57 JOANNIS XXIII, Allocutio Gaudet Mater Ecclesia (11 ottobre 1962), in AAS 54 (1962), pag. 791-792.

58 GIOVANNI XXIII, Discorso Sollecitudini per l'Azione Cattolica Italiana (14 febbraio 1959), in DMC 2, pag. 571.

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è il vivere in modo più pieno la sua vocazione all’amore e all’unità. Da questo cam-mino di riscoperta della sua identità, al quale il Concilio è finalizzato59, la Chiesa cat-tolica saprà mostrare il suo vero volto alle Chiese e al mondo e attirarle a sé.

Il tema dell’aggiornamento, dunque, è strettamente legato a quello della carità. Se per Roncalli la Chiesa cattolica è essenzialmente il luogo dell’amore e dell’unità di tutti gli esseri umani, e se il suo rinnovamento non può che consistere in un cam-mino di riscoperta di questa sua identità e nel reperimento di un linguaggio in grado di manifestarla al mondo, allora si può concludere che una prassi ricca di amore non è che l’espressione di questa identità profonda della Chiesa capace di favorire il ritorno dei non cattolici:

«Parecchi di coloro, i quali, pur essendo cristiani, sono tuttora lontani dalla Chie-sa, immaginavano che, tra noi, si sarebbe discusso con lo scopo di presentare poi le conclusioni in modo tanto aspro che assai difficile ne sarebbe stato l'accoglimento. Non è così. C'è la veritas Domini, ed essa manet in aeternum: ma la verità è sempre accom-pagnata dalla pace, dalla dolcezza, dalla carità.»60.

Se la carità è l’essenza della Chiesa, la dolcezza è l’espressione e l’attuazione di questa sua identità profonda, dunque la sua forza, analoga a quella di Gesù:

«Gesù infatti non è venuto sulla terra, come i condottieri del mondo, per inse-gnarci a svolgere battaglie o raggiungere conquiste materiali; bensì a farci considerare gli uomini quali fratelli, a trattarli con mansuetudine e soavità. In ciò è la sintesi della sua legge: l’arma più preziosa per guarire; e per compiere l’unità nella Chiesa e nel mondo intero.»61

59 Cf. GIOVANNI XXIII, Discorso Duplice incontro con i Parroci dell'arcidiocesi di Bologna (18 febbraio 1960), in DMC 2, pag. 576. GIOVANNI XXIII, Discorso La prima adunanza della Commissione Antepreparatoria per il Concilio Ecumenico (30 giugno 1959), in DMC 1, pag. 690. IOANNES XXIII, Allocutio habita in Petriana Basilica, die dominica Pentecostes post sollemnes Vesperas, adstantibus Em.is Patribus Cardinalibus, Romanae Curiae Praelatis permultisque christifidelibus: de Oecumenico celebrando Concilio (5 giugno 1960), in AAS 52 (1960), pag. 526.

60 GIOVANNI XXIII, Discorso Il Vangelo fonte di armonia, prosperità e pace (6 febbraio 1963), in DMC 5, pag. 463. Cf. IOANNES XXIII, Allocutio ad virorum coetum, qui operam dabit ut clarissimo Servo Dei Nicolao Stenone, Episcopo, honores tribuantur, in AAS 51 (1959), pag. 820. GIOVANNI XXIII, Discorso Le Pontificie Opere Missionarie (7 maggio 1960), in DMC 2, pag. 655. GIOVANNI XXIII, Discorso L'Ordine Basiliano di S. Giosafat (26 febbraio 1963), in DMC 5, pag. 473.

61 GIOVANNI XXIII, Discorso Affabile sollecitudine e tenerezza per un Pellegrinaggio di ciechi (6 aprile 1959), in DMC 1, pag. 645. Cf. IOANNES XXIII, Nuntius omnibus christifidelibus ac gentibus, ob Nativitatis Domini Nostri Iesu Christi mox celebranda sollemnia (22 dicembre 1962), AAS 55 (1963), pag. 17.

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La carità, «forza misteriosa che prepara diem Domini, il giorno del Signore»62, è la via attraverso la quale la Chiesa manifesta e attua la sua identità più profonda di luogo dell’unità e richiama a sé tutti gli uomini e le donne, in modo particolare i cri-stiani appartenenti ad altre Chiese.

Davvero dietro all’invito apparentemente ovvio all’amore si nasconde un pen-siero che, pur non essendo sistematico, è di grande profondità. Se fosse lecito inter-pretare il pensiero roncalliano attraverso le categorie teologiche odierne, si potrebbe forse dire che la dolcezza e il rispetto sono una sorta di sacramento della Chiesa, cioè segni e strumenti della sua identità profonda di luogo dell’unità e della carità: ovvia-mente però questa concezione non è presente negli scritti del nostro autore ed è del tutto estranea alle sue categorie culturali e teologiche.

Conclusioni

Volendo suggerire alcune conclusioni sul tema ecumenico nel pensiero roncal-liano possiamo fare due osservazioni.

In primo luogo, anche se la nostra breve indagine non ha potuto dimostrarlo adeguatamente, lo studio dei testi roncalliani – soprattutto del periodo del pontificato – mostra che essi presuppongono idee e prospettive di grande spessore teologico, an-che se non sviluppate secondo il metodo scientifico ma espresse attraverso uno stile pastorale, che ha come obiettivo non l’indagine speculativa della fede ma la guida del popolo di Dio. La grandezza di Roncalli, però, sta proprio in questo: egli ha saputo esprimere un magistero semplice e nello stesso tempo nascostamente illuminato da una profonda riflessione teologica, senza entrare direttamente nei dibattiti degli spe-cialisti ma pure sapendosi servire sapientemente del loro lavoro.

Una seconda osservazione è relativa al contenuto della riflessione roncalliana sul tema ecumenico. Se la sua prospettiva è ancora quella unionista, linea decisamen-te superata dall’ecumenismo contemporaneo, occorre tuttavia rilevare che, pur in que-sto quadro non ottimale, Roncalli ha saputo insegnare alla Chiesa alcune linee fonda-mentali per il cammino della riunificazione delle Chiese. In particolare, l’unità della Chiesa non può essere fondata solamente sul fronte dottrinale, cioè su quello della ortodossia, ma deve essere costruita anche su quello della carità, cioè sulla prassi di amore, perché la Chiesa nasce da ambedue le realtà. La carità, intesa nella sua di-mensione operativa ed esistenziale, rappresenta, per così dire, una dimensione com-plementare a quella della fede, ugualmente posta a fondamento della Chiesa. Tutto

62 IOANNES XXIII, Allocutio ad sacrorum alumnos e variis Seminariis et ad tirones quorundam Religiosorum Ordinum ac Congregationum, ad Arcem Gandulfi habita, Eucharistico peracto sacrificio, cum Beatissimus Pater, LVIII ab initio sacerdotio diem anniversarium celebraret (10 agosto 1962), in AAS 54 (1962), pag. 586.

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questo non significa affatto una sorta di ridimensionamento del valore dell’ortodos-sia: da questo punto di vista Roncalli è estremamente attento a tutelare il carattere fondativo dell’elemento dogmatico. Semplicemente l’ecumenismo non è solo que-stione di cosa la Chiesa dice, cioè di fedeltà al dato dottrinale, ma dipende pure da co-me la Chiesa vive, cioè dallo stile di amore che essa esprime al suo interno e nei con-fronti di chi non rientra nelle sue mura. La carità e la dottrina, insomma, non sono realtà antagoniste, ma polarità dinamiche che stanno alla base della crescita della Chiesa: si approfondisce la dottrina per ragioni di carità e si vive la carità mossi dal -l’esigenza della verità della fede. Roncalli ha dimostrato di saper far sintesi tra queste due realtà, una sintesi ovviamente perfettibile ma comunque significativa; anzi, tutta la sua vita, forse, può essere letta come un continuo tentativo di mettere insieme que-ste due realtà e, da pastore, di edificare la Chiesa a partire da ambedue.

Se l’ecumenismo si gioca nella continua conversione delle Chiese al vangelo e dunque nell’approfondimento dottrinale – salvo restando la sussistenza della Chiesa di Cristo in quella cattolica –, Roncalli sembra dirci che tale cammino potrà avvenire solo se sostanziato di carità; in caso contrario si resterebbe prigionieri di ragionamenti umani, forse logicamente irreprensibili ma distanti da quella pienezza della verità cri-stiana che on può fare a meno dell’amore. Se è solo nella carità di Cristo che il vange-lo può essere capito e approfondito, l’ecumenismo deve porsi come intellectus quae-rens fidem in caritate. La ragione teologica senza l’amore non costruisce l’unità: que-sto è forse il messaggio più significativo di Roncalli, valido ancor oggi per il cammi-no ecumenico delle Chiese.

Massimo Nardello

[email protected]

Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna

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Paolo BOSCHINI, Il cerchio aperto della verità. Brevi considerazioni su don Milani a quarant’anni dalla sua morte, Memorie Teologiche 1 (2008) 129-138

Paolo BOSCHINI

Il cerchio aperto della verità.

Brevi considerazioni su don Milani

a quarant’anni dalla sua morte

Don Lorenzo Milani è un uomo di fronte al quale non è possibile restare indiffe-renti: bisogna schierarsi pro o contro. Parlarne in modo scientifico, libero da giudizi di valore, risulta molto difficile. Anch’io mi trovo qui in una situazione insolita, per-ché devo parlare con un certo distacco oggettivo di uno dei miei grandi amori giova-nili, che non ha mai smesso di influenzare i miei pensieri e le mie scelte pratiche. 1 In occasione del quarantesimo anniversario della sua morte ho riaperto gli scritti di don Milani – non mi vergogno a dirlo – dopo oltre dieci anni di polvere e di oblio. E ho colto la sua riflessione e la sua opera come una provocazione su quattro fronti fonda-mentali del pensiero e dell’agire: sapere, politica, religione, educazione.

1 Furono proprio due scritti epistolari, Lettera a una professoressa di Lorenzo Milani e Lettere dal carcere di Antonio Gramsci a segnare profondamente la mia formazione giovanile, particolarmente in quella fase della giovinezza che è anche quella di molti di voi, in cui s’incominciano a avere le responsabilità e i carichi di lavoro (e quindi le frustrazioni) degli adulti: a me, che alla fine degli anni ’70 reagivo alla debacle post-sessantottina con un deciso ritorno a un idealismo fortemente connotato in senso metafisico, l’I Care di Milani e l’intellettuale organico di Gramsci hanno insegnato la via di una cultura concreta, che sta sempre dalla parte della gente, specie dei più deboli, che si caratterizza per la capacità di mettere in presa diretta pensiero e realtà; che evita il pericolo mortale dell’ideologia e del dogmatismo usando abbondantemente la razionalità critica e il senso della storicità delle cose umane.

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Rivista on-line a cura del Dipartimento di Storia della Teologia

Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna (FTER, www.fter.it) – Bologna – Italy.

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Paolo BOSCHINI, Il cerchio aperto della verità. Brevi considerazioni su don Milani a quarant’anni dalla sua morte

1. L’elaborazione e la comunicazione del sapere con metodo dialogico

La grande novità di Milani nel panorama pedagogico italiano del secondo dopo-guerra è il suo metodo: il maestro e l’allievo non stanno di fronte, in una relazione asimmetrica dominatore-dominato, ma in un cerchio aperto. Non per nulla, la metafo-ra di questa relazione non è il Sacro Cuore, ma Socrate. Scrive a proposito dei suoi ragazzi:

«Ho saputo toccare il tasto che ha fatto scattare i loro più intimi doni. Io ricchez-ze non ne avevo. Erano loro che ne traboccavano e nessuno lo sapeva. Ho toccato il loro amor proprio, la loro naturale generosità, l’ansia sociale che è nell’aria del nostro secolo e quindi nel fondo del loro cuore, l’istinto di ribellione all’uomo, di affermazio-ne della sua dignità di servo di Dio e di nessun altro».2

È più che una metafora: a Barbiana, il dialogo socratico è il modello che diventa quotidianamente realtà. Don Milani ha saputo interpretare il bisogno profondo di so-cialità e di relazioni autentiche degli adolescenti di allora. Attraverso la cultura dell’I

Care e la pedagogia dell’«aderenza» alla realtà ha creato con quei giovani una strada per trasformare il desiderio inconsapevole in etica e il bisogno represso in progetto. Qui sta la grande forza del metodo milaniano. Il suo non è pensiero descrittivo, ma creativo che nasce da una fede utopica nell’uomo concreto che gli sta vicino. Ecco come parla dei giovani della scuola popolare di San Donato:

«Io li stimavo sopra ogni cosa e vedevo splendere su di loro e sulla loro classe una vocazione storica di classe guida, che proviene direttamente da Dio e a Dio li ri -condurrà. (…) Li ho armati dell’arma della parola e del pensiero. Li avviati incontro ai cosiddetti ‘pericoli’ dell’officina più capaci di tutti, più preparati di tutti secondi a nes-suno per parola, per coerenza, per ardire sindacale sociale e politico, per combattività. (…) Io ho supposto a priori che i giovani sono generosi e si fanno ammazzare più vo-lentieri per il debole che per il forte, per il soccombente che per il trionfatore». 3

In lui non c’è distinzione tra agire e sapere, tra etica e verità. La stessa forza messa per costruire la strada verso Barbiana, o l’acquedotto, o la casa della donna di Prato, viene impiegata per costruire il sapere attraverso la ricerca in comune. Don Lo-renzo chiamava questo atteggiamento complessivo dello spirito «metodo dell’aderen-za»: aderenza alla realtà, compresa e vissuta a trecentosessanta gradi, nella sua con-cretezza umana. Eccone una formulazione sintetica:

«Bisogna parlare di uomini in carne e ossa, con un nome e un cognome. Gente che si è vista in viso, di cui si sa come è composta la famiglia».4

2 MILANI L., Esperienze pastorali, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1990, 242.3 MILANI, Esperienze pastorali, 243-244.4 MILANI, Esperienze pastorali, 455.

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Non si può mai essere «indipendenti», «oggettivi», «al di sopra delle parti», per-ché chi conosce da vicino il povero sa che «tra il forte e il debole le parti non sono eguali e non si può distribuire i torti con salomonica indifferenza».5

La verità non si insegna, si fa: don Milani è un uomo profondamente radicato nella tradizione biblica. La verità è figlia della volontà: don Milani è un uomo com-piutamente moderno. Tra le montagne del Mugello s’incontra una limpida espressio-ne della cultura europea del ‘900, ma anche uno scomodissimo discepolo di Gesù. Per Lorenzo Milani la verità non sta solo nei libri: prima che essere un deposito, è un in-contro, una relazione, che è custodita nel cuore delle persone e nella storia spesso tra-gica della loro vita. Di tutti gli uomini, ma ancora una volta dobbiamo dire: special-mente di quelli socialmente più svantaggiati e culturalmente più rozzi. Essi sono isuoi maestri.

«Devo tutto quello che so ai giovani operai e ai contadini cui ho fatto scuola. Quello che loro credevano di stare imparando da me, son io che l’ho imparato da loro. Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere. Son loro che mi hanno avviato a pensare le cose scritte in questo libro. Sui libri delle scuole non le avevo mai trovate».6

Questa attenzione preferenziale per i poveri fa parte integrante del metodo dia-logico milaniano. Certo, dipende in ultima istanza dalla sua adesione al vangelo: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me» (Mt 25,40). Si incontrano spesso riferimenti evangelici nei suoi scritti. Però sono convinto che il suo metodo abbia anche una matrice illuminista e che si rifaccia all’idea di Rousseau nell’Emilio, secondo cui i rifiutati dalla società sono anche gli esclusi dalle sue convenzioni: sono gli uomini più vicini alla natura, alla terra e perciò quelli che si sono conservati più autentici. Questo è il senso della decisa preferenza di don Milani per la cultura contadina e operaia: lui che proveniva da una famiglia cittadina di cultura borghese. Gli uomini meno civilizzati non cono-scono la scissione moderna fra soggetto e oggetto, fra scienza dell’uomo e scienze della natura. Essi hanno istintivamente la percezione che la realtà è sempre una sola: la nostra, quella in cui stiamo vivendo tutti insieme.

Prima di essere critico, il pensiero di don Milani è autocritico. Egli rimprovera a se stesso la cultura troppo mediata e rarefatta della borghesia media italiana e opta de-cisamente per quel sapere che nasce dalle occasioni della vita e lì ritrova il suo origi-nario carattere di scoperta, di sorpresa. I giovani di San Donato e i ragazzi di Barbia-na vivevano ogni giorno e in modo del tutto spontaneo quello che Platone e Aristotele

5 Cf. MILANI, Esperienze pastorali, 455.6 MILANI, Esperienze pastorali, 235.

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avevano scritto nei loro testi filosofici: conoscere è provare meraviglia. Il sapere che andavano elaborando nella loro scuola popolare abbandonava ogni elemento di morta ripetizione, tipico invece del nozionismo. La conoscenza è inter-azione, così che si può restare se stessi (giovani, contadini, operai, uomini, donne), acquisendo però ele-menti decisivi per la comprensione della realtà. In questo senso, si può dire che per Milani il metodo alla fine è più importante del contenuto, perché i risultati possono variare, mentre le domande restano sempre le stesse.

A Barbiana si anticipano le tesi del cooperative learning: il sapere è una produ-zione collettiva, dove però ci sono funzioni diverse. Ciascuno deve fare la sua parte. Il docente non ha l’esclusiva dell’elaborazione e della trasmissione, ma è piuttosto il regista del sapere. Egli non deve solo conoscere il contenuto della materia, ma soprat-tutto il contenuto delle persone: i loro interessi, le loro capacità, le loro domande esi-stenziali. Così egli sa aiutare ciascuno a interagire con gli altri, dando il meglio di se stesso. Io lo chiamo: metodo della valorizzazione dell’altro. Anche la sua applicazio-ne efficace è opera di conoscenza: bisogna conoscere le persone, cioè bisogna starci in mezzo e vivere insieme molte ore della giornata, con uno sguardo che sa leggere dentro la vita di ognuno come se fosse un libro sacro in cui è depositata e rivelata la verità.

Don Milani educava al pensiero critico, ma forse egli non fu sufficientemente critico nel riconoscere che il suo metodo in quanto tale era legato a doppio filo alle condizioni culturali e sociali di quella fettina d’Italia che furono Barbiana e i sobbor-ghi operai di Firenze, nonché al genio intuitivo del suo ideatore: non poté essere esportato e di fatto quella esperienza si esaurì nel 1967 con la morte di don Lorenzo. Non ha però esaurito la sua forza di principio ideale.7 Penso in particolare a un modo di fare scuola basato su continue interazioni tra docenti e studenti, superando il rigido frontalismo delle lezioni e coinvolgendo gli studenti a rielaborare il sapere preceden-temente acquisito in un ottica interdisciplinare. In questo modo, l’interdisciplinarietà non è il risultato della collaborazione tra due o più docenti che discutono tra loro in modo super-specialistico su argomenti contigui delle rispettive materie. L’interdisci-plinarietà è opera degli studenti stessi, che coordinato dal o dai docenti studiano e dialogano, mettendo il sapere che ognuno ha già acquisito a disposizione di tutti: il sapere viene elaborato con grande attenzione al suo intrinseco carattere pratico e si superano le strettoia del rigido specialismo.

7 Sono convinto che dal metodo milaniano possa trarre ispirazione persino la didattica universitaria, facendo inevitabili adeguamenti dettati dalla realtà dell’organizzazione e dalla tradizione culturale dell’istruzione superiore italiana. La nostra università non è e forse non sarà mai una comunità.

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2. Il radicamento politico del sapere

Il sapere per Milani ha due radici, che devono necessariamente essere sempre compresenti. La prima radice è la relazione interpersonale: le cose si sanno, o meglio si imparano quando si comunicano. Solo in quel momento il sapere assume le tinte accese e pluraliste dell’esistenza dei soggetti in gioco. La scrittura collettiva è il verti-ce di questa prassi di apprendimento che connette insieme elementi di origine greca (il linguaggio come opera d’arte) e elementi decisamente biblici (la comunicazione è amore per l’altro). Non importa scrivere molto, perché si rischia di cadere nel l’erudi-zione, nel sapere fine a se stesso che – come ebbe a dire Nietzsche nella Seconda

Considerazione Inattuale – è dannoso per la vita. Importa invece scrivere insieme e in modo che tutti capiscano. È il trionfo della qualità sulla quantità.

La seconda radice del sapere è ancora una relazione, ma questa volta di caratte-re politico: la scuola è sempre situata entro un certo territorio e un territorio non ha una propria identità, ovvero non esiste, se non legato a doppio filo con la propria scuola. Il territorio è l’orizzonte concreto entro cui organizzare e ampliare il sapere: la cultura contadina insegna che la forza del sapere non è nella quantità e neppure nella fruibilità delle conoscenze, ma nel radicamento vitale alla terra. Milani non si è ac-contentato di una generica enunciazione di principi su cui tutti potevano essere d’ac-cordo senza troppa fatica. Ha voluto una scuola che produca direttamente opere di utilità pubblica, che apparentemente non hanno nulla a che vedere con l’apprendi-mento, ma che sono in realtà la verifica pratica di quanto imparato. Sono esercitazioni a cui è affidata la sintesi finale del percorso formativo: nel linguaggio di oggi si di-rebbe che queste specie di stages tengono il posto degli esami. Esse non devono attri-buire graduatorie di merito: l’unico criterio di valutazione è quello di dare il massimo di sé agli altri durante tutto il processo formativo. Hanno invece la funzione di dare a tutto il sapere un’indelebile impronta politica. La scuola insegna la responsabilità ver-so la propria terra e la gente che vi abita, vi lavora, vi soffre. Siamo sempre nella via maestra dell’I Care.

3. Illuminismo cristiano: un prete testimone di laicità

Don Lorenzo è stato un profeta? Comprensibilmente, molti dei suoi discepoli pensano di sì.8 Non so se si possa chiamare profezia la sua convinzione quasi fanatica del primato della coscienza e la sua ricerca appassionata della verità a qualunque co-sto. Se i profeti hanno questi requisiti, allora in lui c’è la forza del profeta, perché la coerenza della vita viene prima della, pur importante, chiarezza della parola. 8 Confesso che ho sempre parecchi timori nell’attribuire a qualcuno il ruolo di profeta, perché

sacralizzare una persona, svisarla fino a trasformarla in un santino di bontà e devozione, è questione di un attimo.

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«Nessuno si fida più di nulla che non sia vissuto prima che detto. Ed è giusto. E Gesù stesso ha molto più vissuto che parlato. E molto più insegnato col nascere in una stalla e col morire sulla croce che col parlare di povertà e di sacrificio».9

Tuttavia, don Milani fu sempre molto restio a vestire pubblicamente i panni del profeta, proprio perché rifiutava l’aura di sacralità che spesso accompagna i profeti. Ecco che cosa scriveva di sé, già prima di diventare famoso come priore di Barbiana:

«Io non splendo di santità. E neanche sono un prete simpatico. Ho anzi tutto quello che occorre per allontanare la gente. Anche nel fare scuola sono pignolo, intolle-rante, spietato. Non ho retto i giovani con doni speciali di attrazione».10

Le sue Esperienze pastorali ci raccontano che sin dai tempi in cui era viceparro-co a San Donato non gli interessava altro che la «povera gente». Nella Lettera a don

Piero non parla di sé come profeta di cose sacre, ma come testimone e difensore della dignità di ciò che è umano e profano: la vita, la famiglia, gli affetti, il lavoro, la scuo -la, la politica. In questo senso, don Milani fu profeta della laicità. Come un profeta bi-blico, egli fu un deciso fautore della de-ideologizzazione della fede cristiana e per la de-sacralizzazione di ogni altra ideologia: di quella marxista, come di quella capitali-sta.11 Erano i tempi in cui i cattolici con la tessera del Partito Comunista non potevano ricevere l’assoluzione, né fare la comunione. De-ideologizzare significa mettere le persone al primo posto; poi vengono i principi. Il criterio della gradualità vale molto di più di quello della totalità.

«Nell’anima le cose maturano talvolta impercettibilmente, come il grano nel campo di quell’uomo che dormiva. (…) Il cuore di un uomo è qualcosa che i libri non sanno leggere né catalogare. Un’anima non si muta con una parola. Per toccare qualco-sa di profondo spesso non occorrono anni, ma generazioni».12

Nello stesso tempo don Milani si batté contro gli stessi cattolici, che allora si chiamavano democristiani, per la laicità dello stato e delle sue istituzioni educative. Per lui, le distinzioni maritainiane tra piano naturale e piano soprannaturale erano inutili bizantinismi: se libertà e liberazione sono i principi-cardine del vangelo, ciò vale in modo assoluto sia per lo stato che per la Chiesa cattolica. Se il rigore logico è il principio generatore dell’illuminismo, da cui discende la nostra epoca, il diritto di

9 MILANI, Esperienze pastorali, 339-340.10 MILANI, Esperienze pastorali, 242.11 Pur essendo stato spesso accusato di nutrire simpatie verso il comunismo, don Milani tenne

sempre un atteggiamento molto critico. Cf. MILANI, Esperienze pastorali, 458: «La dottrina del comunismo non val nulla. Una dottrina senza amore. Una dottrina che non degna del cuore di un giovane. Avesse almeno realizzazioni avvincenti. Ma nulla. Uomini insignificanti, un giornale infelice, una Russia che a difenderla ci vuol coraggio».

12 MILANI, Esperienze pastorali, 272 e 274.

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critica e la libertà di organizzarsi in modo da far valere le proprie idee valgono tra i cristiani così come nella società civile.

Don Lorenzo sapeva bene che queste sue idee non erano solo sue: apparteneva-no alla «povera gente» a cui si era votato e – da povero a povero – erano quelle dei poveri del vangelo e di Gesù, che a loro si era votato. Non erano quelle della gerar-chia cattolica, che continuava a seminare divieti e a agitare polemiche contro il comu-nismo e gli anticlericali. La sua prima preoccupazione non era l’obbedienza ai supe-riori, ma la fedeltà alla gente: non voleva che nessuno dei suoi si sentisse buttato fuori dalla Chiesa; non voleva che nessun giovane, nessun operaio sentisse predicare una Chiesa diversa da quella di «Cristo falegname».13 Egli difese sempre con coraggio, ma anche con molto rispetto l’ecclesialità pastorale e l’ortodossia dottrinale della suaimpostazione illuminista e profetica al tempo stesso.

Illuminismo della ragione e utopismo della giustizia sono per don Milani due facce inseparabili della stessa medaglia. I suoi critici hanno spesso notato proprio in questo punto la contraddittorietà paradossale del suo pensiero: illuminista e cristiano; utopista e realista; sognatore e pragmatico; educatore e politico. I nostri schemi con-cettuali tardo-moderni scoppiano di fronte alla forza e all’originalità del suo pensiero. È questo l’elemento eversivo e incontenibile, che gli deriva dalle sue radici ebraiche: la storia della povera gente contiene sempre di più di quello che l’occhio umano rie-sce a cogliere; essa custodisce dentro di sé l’anelito alla giustizia assoluta, la proiezio-ne verso quell’età messianica che gli uomini non possono costruire compiutamente, ma che possono solo cominciare a realizzare attraverso un coinvolgimento politico in prima persona. Quando si prende coscienza dell’esistenza degli altri e si risponde a ciò con l’assunzione di responsabilità (I Care), si realizzano le parole della di Gesù, il profeta politico ebreo per eccellenza: «Alzatevi e levate il capo, perché la vostra libe-razione è vicina» (Lc 21,28).

«Non bisogna essere interclassisti, ma schierati. Bisogna ardere dall’ansia di ele-vare il povero a un livello superiore. Non dico a un livello pari a quello dell’attuale classe dirigente. Ma superiore: più da uomo, più spirituale, più cristiano, più tutto». 14

13 Cf. MILANI, Esperienze pastorali, 273. Pensando a Giordano, un giovane operaio comunista di San Donato, annota con amarezza dopo l’ennesima predica anticomunista, rivolgendosi all’ignoto predicatore: «Lei dal pulpito continuava a buttarmelo fuori di Chiesa a pedate. Mi sentii vicino a lui fino in fondo e straneo a lei. Mi pareva di essere buttato fuori dalla Chiesa anch’io e ci soffrivo perché avevo la certezza che di due fosse più giusto che ci stesse lui, che lei e me, nella Chiesa di Cristo falegname. (…) Giordano passò un anno intero temendo che la Chiesa non fosse come gli avevo detto io. (…) Gli venne il terrore che io fossi un prete onesto, isolato, messo al margine da una chiesa dura, lontana dai poveri».

14 MILANI, Esperienze pastorali, 239.

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Coscienza e utopia sono per don Milani gli elementi costitutivi della democra-zia: la democrazia non è una forma politica, ma il contenuto concreto e l’aspirazione ideale di ogni relazione sociale. Essa è al tempo stesso il valore e la regola tanto della società italiana del dopoguerra, quanto della Chiesa cattolica alla ricerca della propria identità in una cultura post-sacrale. A differenza del pensiero liberale, l’idea milania-na di democrazia non si fonda sui concetti di ordine e di contratto, ma su quelli meta-fisicamente molto più impegnativi di verità e di bene.15 La lotta contro l’ingiustizia e le discriminazioni nasce sempre dalla ricerca della verità e presuppone che la distin-zione tra bene e male sia ben evidente, se la si guarda collocandosi dalla parte degli operai e dei contadini: questo è il presupposto di ogni agire che sia democratico nella sostanza e non solo nella forma.

Dal punto di vista culturale, questo è per me l’aspetto più controverso del pen-siero di don Milani, che desacralizza la società, senza però desacralizzare la cono-scenza e l’etica. Eppure, la sua idea di pluralismo non si ferma al pluralismo delle istituzioni educative, ma va dritta al pluralismo nella società, ovvero al diritto di ognuno di essere riconosciuto e accolto nella scuola e nella società per quello che è, nel rispetto della cultura di cui è portatore. Il priore di Barbiana non poteva immagi-nare che, nel giro di quarant’anni, «pluralismo» sarebbe diventata una parola che sta a indicare la grande sfida del presente: sapremo dare risposte pluraliste e perciò non dogmatiche né intransigenti alla frammentazione culturale della società italiana e alla perdita di legittimità delle sue istituzioni politiche e educative?

4. Dal «per» al «con»: il metodo educativo

L’ultimo aspetto del «metodo dell’aderenza» di don Milani su cui voglio soffer-marmi, è la trasformazione radicale che egli ha operato nella prassi pedagogica: l’agi-re-per si cambia nello stare-con. La scuola e l’educazione è un problema di «essere» e non di «fare».16 Il suo essere guida spirituale come parroco, amministratore di cose sacre come sacerdote cattolico, educatore di giovani come maestro si sintetizza e si fonde in un unico essere-con: contadino con i contadini e operaio con gli operai, fra-tello dei ragazzi della sua scuola, compagno di viaggio di tutti coloro che si salgono a Barbiana per trovare nuovi impulsi etici e politici. Il suo metodo non va tanto per ilsottile; ammette una possibilità soltanto: il coinvolgimento totale. Per toccare il cuo-

15 Cf. MILANI, Esperienze pastorali, 469.16 Cf. MILANI, Esperienze pastorali, 239: «Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far

scuola e come faccio a averla piena. Insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per potere far scuola».

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re, si deve prima di tutto toccare la facoltà cognitiva per eccellenza, la memoria. Non ha parole tenere per gli educatori per mestiere, ma non per passione.

«Le maestre son come i preti e le puttane. Si innamorano alla svelta delle creature. Se poi le perdono non hanno tempo di piangere. Il mondo è una famiglia immensa. C’è tante altre creature da servire».17

Se un educatore perde un ragazzo, forse è perso per sempre: l’educatore non si può consolare con l’alibi di aver fatto tutto il possibile. Ha fallito lui, non il ragazzo, anche se è solo quest’ultimo che ne paga le conseguenze. Qui Milani rivela tutta la propria intransigenza: non si tratta di rigidità dogmatica, ma della convinzione reli-giosa che quello di educazione è rimasto l’unico compito sacro in questo mondo se-colarizzato e che perciò esso può essere svolto solo da persone che si consacrano to-talmente alla causa dell’educazione.

Su questo punto il priore di Barbiana aveva visto lontano. Oggi le scienze peda-gogiche teorizzano la distanza educativa come condizione necessaria nei processi del-l’apprendimento e della maturazione personale. Nella scuola, negli oratori, si propon-gono progetti educativi razionali, bene organizzati, eppure senza forza vitale, incapaci di creare percorsi nuovi, in cui l’emarginazione sia sottratta alla logica della devianza e dell’instupidimento. Per don Milani, quando lo stare-con diventa fare-assieme, co-progettare e co-struire – proprio come si faceva a Barbina – alla marginalità subentra la fiducia: in se stessi anzitutto e poi negli altri. Si crea una relazione reciproca, per cui anche l’emarginazione e la periferia rivelano il loro lato positivo.

«La scuola, qualunque scuola, eleva gli interessi. Risveglia dal fondo dell’anima quella naturale sete di sapere che è spesso seppellita negli infelici».18

Nel fare-assieme si spezza il guscio di un’adolescenza omologata, soggiogata alle mode, e si dischiude un’umanità ben più arcaica, che custodisce un residuo del-l’adolescenza dell’uomo, quando ancora l’emotività poteva esprimersi attraverso la spontaneità del sentimento e la ragione creava parole di trasparenza e non un mondo di maschere. La scuola – continua don Milani – risveglia la sete e la passione umana fondamentale e fa «vibrare noi per cose alte». Questo è «il tasto più dolente»:

«Non si può dare che quel che si ha. Ma quando si ha, il dare vien da sé, senza neanche cercarlo (…) purché ci si avvicini alla gente a un livello da uomo, cioè a dir

17 MILANI L., Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1968, 41-42.18 MILANI, Esperienze pastorali, 237.

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poco a un livello di Parola e non di gioco. (…) Non parola come riempitivo di tempo, ma Parola scuola, parola che arricchisce».19

Penso alla scuola e all’università di oggi, alla mia didattica e alla relazioni che ho quotidianamente con i miei studenti: mi chiedo se don Lorenzo Milani e i suoi ra-gazzi di Barbiana sono un reperto archeologico del passato, se o piuttosto – come l’uomo folle che grida sulla piazza del mercato l’avvento di una nuova era dell’uma-nità – sono arrivati «troppo presto, prima del tempo».20 Ci stanno davanti, non dietro. Ma perché non abbiamo a scoraggiarci, pensando alla scuola di oggi, ai giovani di oggi, alla Chiesa di oggi; insomma perché non gettiamo la spugna anzitempo pensan-do che don Milani è stato solo un sognatore, lui stesso ci viene in soccorso con un aforisma che colloco come conclusione e riassunto di questa mia rilettura:

«Nella parabola della vedova il Signore ci ha insegnato a non guardare il punto d’arrivo, ma quello di partenza».21

Paolo BOSCHINI

19 MILANI, Esperienze pastorali, 237.20 F. NIETZSCHE, La gaia scienza, Einaudi, Torino 1979, 124.21 MILANI, Esperienze pastorali, 271.

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Fabrizio MANDREOLI – Elisa DONDI, La teologia e la città. Note a partire dalla vicenda di Girolamo Savonarola, Memorie Teologiche 1 (2008) 139-162

Fabrizio MANDREOLI – Elisa DONDI

La teologia e la città.

Note a partire dalla vicenda di Girolamo Savonarola

Introduzione

Per trattare della relazione – da sempre complessa1 ─ tra la teologia e la città svolgiamo alcune considerazioni iniziando in modo remoto, a partire cioè dal caso di Girolamo Savonarola. Dire le ragioni di questa scelta può servire da utile introduzio-ne al nostro tema; ne ricordiamo almeno tre.

Il religioso domenicano si colloca nel solco riformatore che caratterizza il XIV e il XV secolo prima dello schock delle riforme protestanti2; egli si adopera, infatti, per la riforma della Chiesa e per la riforma della città nei costumi e nei modi di go -verno. La teologia e la storia ci insegnano che il rapporto tra le idee della teologia e i modi di esercizio del potere non è occasionale o secondario, ma a ben vedere ogni modalità di teologia è, direttamente o indirettamente, un discorso sul potere e le sue forme.

Abbiamo scelto la vicenda del Savonarola perché tale rapporto è esplicitamente tematizzato e osservabile in actu, dove, cioè, la riflessione non si colloca solo sul pia-no dei principi o enunciati teorici, ma su quello dei fatti e della prassi. Si può cogliere meglio quanto affermato ricordando, ad esempio, la forte capacità ispirante di tale modello savonaroliano di interazione tra teologia e gestione del potere, che ha prodot-

1 Si possono oggi ricordare le considerazioni - che aprono molteplici problemi - di G. ZAGREBELSKY, Religio civilis vs Democrazia, in «MicroMega» Ottobre 2008, pp. 73-84.

2 Cf. S. XERES, La Chiesa corpo inquieto, Milano 2004, pp. 121-144.

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Fabrizio MANDREOLI – E. DONDI, La teologia e la città. Note a partire dalla vicenda di Girolamo Savonarola

to una lunga e contraddittoria storia di interpretazioni e reinterpretazioni in ambito ec-clesiale e teologico nel XIX e nel XX secolo3.

Un secondo elemento. La figura e l’operato del Savonarola hanno un’importan-za storica e, secondo diversi studi autorevoli, paradigmatica in merito al tema della religione civica e allo sviluppo delle prassi repubblicane. Quello che, in generale, av-viene prima nei comuni italiani nel Basso Medioevo, poi nell’Italia e nella Firenze del Quattrocento4 può essere descritto come un laboratorio per ciò che avverrà in seguito, con altra scala e efficacia, negli stati nazionali europei5.

Un terzo elemento si articola secondo due prospettive. Ci pare, in primo luogo, che la vicenda storica del Savonarola possa avere una qualche importanza per com-prendere alcune transizioni che hanno luogo nella nostra contemporaneità. Questo so-prattutto in relazione a tempi che sembrano aver smarrito alcuni punti di orientamento fondamentali e in cui la custodia di una democrazia «effettiva» – e pertanto non po-pulista ─ non può più essere data per scontata6. In secondo luogo ci pare che Savona-rola proponga uno «stile» di teologia capace di ispirare, in modo mediato, una modo di riflessione – più che precisi contenuti operativi ─ adatto a fornire linee orientatrici per l’oggi e per le tematiche inerenti la sempre necessaria riforma della Chiesa.

La riflessione si svolge in due tempi: una prima parte più attenta a fornire alcu-ne linee di ricostruzione storica, una seconda parte che propone alcune note storico-teologiche7. Premettiamo alcuni elementi di ricostruzione storica perché la storia del-l’interpretazione o, spesso, della mitologizzazione dell’azione profetica del Savonaro-la invitano la teologia a una profonda e mai sufficiente attenzione storico critica.

Per quanto attiene alle considerazioni teologiche della seconda parte, alcune vertono direttamente sul Savonarola, altre utilizzano tematiche emergenti dalla sua vicenda profetica come «vettori» per la riflessione contemporanea, ma non possono essere ricavate direttamente da quella vicenda8.

3 Cf. D. MENOZZI, ‘Profeta di Cristo Re’: una lettura di Savonarola nella cultura cattolica tra

Otto e Novecento, in «Cristianesimo nella storia» 20 (1999), pp. 639-698.4 Cf. G. CHITTOLINI, Società urbana, Chiesa cittadina, e religione in Italia alla fine del

Quattrocento, in «Società e storia» 23 (2000), pp. 1-17.5 Cf. P. PRODI, Cristianesimo e modernità politica, in Cristianesimo, a cura di D. MENOZZI,

Torino 2008, pp. 41-42.6 Cf. P. PRODI, Lessico per un’Italia civile, Reggio Emilia 2008, pp. 101-103. 7 Cf. D. MENOZZI, ‘Profeta di Cristo Re’: una lettura di Savonarola nella cultura cattolica tra

Otto e Novecento, cit., pp. 676-698.8 Per il senso e l’utilizzo del termine vettore ci ispiriamo liberamente a P. HÜNERMANN, Dal

Concilio Vaticano II – La Chiesa del futuro, in «Annali di Studi Religiosi» 8 (2007), pp. 223-236.

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Entrambe i momenti si articolano a partire dallo studio di un testo dell’attività di predicazione del Savonarola: il commento al profeta Aggeo9. Tale commento della fine del 1494 è collocato all’inizio della travagliata esperienza del governo civile fio-rentino e si concentra sulle «ragioni» dell’innovazione istituzionale e del cambiamen-to della forma di governo.

1. Elementi di ricostruzione storica

Si desidera in questa parte soffermarsi e analizzare gli ultimi quattro anni di vita di Savonarola, dal 1494 al 1498, che corrispondono all’incirca al periodo del governo popolare, perché è in quel momento che si può cogliere la maggiore interazione tra Savonarola e la città di Firenze. Tale rapporto può sussistere e risultare fecondo in quanto – come si spiegherà - nella visione savonaroliana sono presenti - e profonda-mente legate - due dimensioni: quella politica e quella religiosa.

Seguendo i leitmotiv delle Prediche sopra Aggeo, si tenterà di descrivere i car-dini del pensiero del frate domenicano e verificare quale lettura fornisce delle fasi e degli eventi della vita politica fiorentina, ovvero quali sono in merito le sue proposte, le sue accuse e i suoi appelli.

1. 1. Le «Tribulazioni» e la «renovazione»

Nell’autunno 1494 la città di Firenze attraversava un momento di crisi: il re francese Carlo VIII, calato in Italia col suo potente esercito per rivendicare il Meri-dione10, si apprestava a entrare in città, dopo aver concluso con Piero de’ Medici un accordo che prevedeva la concessione di piazzeforti e di una congrua somma di dena-ro. Questo atto del de’ Medici fu interpretato dalla popolazione come una dichiarazio-ne di totale sottomissione al re francese e generò un diffuso malcontento:

«Varii variamente si doleano: e’ principali d’avere lo stato perso, e’ mediocri che sanza loro colpa e per errore d’altri la città ruinata fussi, qualunque il governo fino ad ora tenutosi riprendeva. Sparlavasi apertamente di Piero de’ Medici, capo veramente di tanto errore»11.

È in tale contesto che si inserisce a partire dal 1° novembre il ciclo della predi-cazione politico-profetica di Savonarola che annunciava - soprattutto nella fase inizia-

9 Cf. G. C. GARFAGNINI, La predicazione sopra Aggeo e i Salmi, in Savonarola e la politica, a cura di G. C. GARFAGNINI, Firenze 1997, pp. 3-25.

10 La spedizione del re francese, mettendo allo scoperto tutta la fragilità del sistema degli Stati italiani, spezzava di fatto la pace che durava da cinquant’anni fra gli stessi e inaugurava la sfida tra Francia e Spagna per l’egemonia sull’Italia.

11 P. PARENTI, Storia fiorentina, a cura di A. MATUCCI, vol. I: 1476-78 e 1492-96, Firenze 1994, p. 115.

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le - un «diluvio di tribulazioni», mandate da Dio e necessarie a «rinovare la Chiesa sua»12. Questa, difatti, secondo il frate, era divenuta incapace di percepire coi sensi spirituali:

«non ode predicazioni, non vede più o poche buone operazioni, non gusta più cose spirituali, non sente l’odore delle cose di Dio, non tocca e non sente le cose della fede, come dovrebbe, non appetisce e non desidera le cose superiori, ma solo è tutta data e immersa e appetisce le cose sensibili e terrene»13.

Di fronte all’incombente «diluvio di tribulazioni» coloro che volevano salvarsi dovevano «entrare nell’arca»14, ovvero rinnovarsi interiormente e mostrare nelle ope-re che quest’atto di purificazione aveva avuto luogo, così:

«O preti, o prelati della Chiesa di Cristo, lasciate e’ benefici, e’ quali giustamente non potete tenere, lasciate le vostre pompe, e’ vostri conviti e desinari, e’ quali fate tan-to splendidamente. Lasciate, dico, le vostre concubine e li cinedi, ché egli è tempo, dico, di far penitenzia, ché ne vengono le gran tribulazioni, per le quali Dio vuole rac-conciare la sua Chiesa; […]. O monaci, lasciate le superfluità e delle veste e delli ar-genti e di tanta grassezza delle vostre badie e beneficii […]. O monache, lasciate anco-ra voi le vostre superfluità, lasciate le vostre simonie […]. O frati miei, a voi dico: la-sciate le superfluità e vostre dipinture e vostre frasche, fate le tonache non con tanta larghezza e di panni ben grossi; con le vostre superfluità non vi accorgete che togliete le elemosine a’ poveretti?»15

Con quest’invito Savonarola pervenne a raffigurare la condizione di pochezza spirituale e di degrado morale della Chiesa in quel periodo16, condizione che l’aveva distolta dalla sua funzione di servizio, di sostegno e di esempio che doveva avere: anzi il suo cattivo esempio aveva contagiato anche l’Italia e Firenze ed era, pertanto,

12 G. SAVONAROLA, Prediche sopra Aggeo con Trattato circa il reggimento e il governo della

città di Firenze VIII, a cura di L. FIRPO, Roma 1965, p. 125 [D’ora in poi Aggeo o Trattato].13 Ibidem.14 Aggeo IV, p. 64. 15 Aggeo I, p. 19. 16 Tale rappresentazione è condivisa anche da altri suoi illustri concittadini, come Nicolò

Machiavelli e Francesco Guicciardini: «per gli esempi rei di quella corte questa provincia ha perduto ogni divozione e ogni religione; il che si tira dietro infiniti inconvenienti e infiniti disordini: perché così come dove è religione si presuppone ogni bene, così dove quella manca si presuppone il contrario. Abbiamo adunque con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obligo: di essere diventati senza religione e cattivi» (N. MACHIAVELLI, Discorsi

sopra la prima deca di Tito Livio, I, 12); «Non si può dire tanto male della corte romana che non meriti se ne dica di più, perché è un’infamia, uno esemplo di tutti e’ vitupéri e obbrobri del mondo» (F. GUICCIARDINI, Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli, XII).

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da ritenersi «la principale cagione» dei mali e dei peccati che investivano la città e la penisola17.

Una costante polemica si rivolse in modo particolare contro i cosiddetti «tiepidi», che compivano opere buone, ma ostacolavano il bene, che partecipavano alle cerimonie e seguivano i precetti, ma non avevano la carità:

«O tiepido, el tuo vaso è dipinto e par bello di fuori per la pittura, ma dentro non è così come pare di fuori […]. Tu non hai inteso bene che cosa sia la vita spirituale e però, non la sapiendo per te, non l’hai potuta insegnare ad altri. El tuo vaso è tutto per-forato, ed el tarlo della invidia e della vanagloria l’ha tutto intarlato e perforato, e l’olio del Spirito santo non v’è possuto star dentro, anzi, o tepido, tu sei uscito fuori alle ceri -monie e alle cose esteriori e hai lasciato la vera vita spirituale interiore ed el vero culto divino e vivere cristiano. […] Tu sempre parli male del prossimo e del tuo fratello san-za causa alcuna iusta»18.

La crisi cittadina, aperta con la discesa di Carlo VIII e proseguita con la fuga del de’ Medici a causa del malcontento dei fiorentini e della formazione di una forte opposizione antimedicea, era stata chiusa nel dicembre 1494 con la scelta di restaura-re la Repubblica, riformando costituzionalmente lo Stato fiorentino. Il merito di que-sti interventi risolutori della crisi era – secondo il frate ferrarese – solo di Dio, «che ha scampato la città vostra questa volta dal pericolo in che ella è stata»19.

Nella configurazione repubblicana Savonarola vedeva la possibilità del rinnova-mento tanto sollecitato e sospirato a condizione che,

«se tu vuoi esser nuova e se tu hai mutato nuovo stato, bisogna che tu muti nuovi modi e nuovo vivere, se tu vuoi durare, e se tu vuoi reggere e’ ti bisogna fare uno nuo-vo cantico e ricercarsi che tu abbi nuova forma»20.

Se davvero Firenze si fosse rinnovata, col suo esempio avrebbe contagiato an-che tutta l’Italia21: era convinto che, come l’esempio della Chiesa era la fonte dei 17 Aggeo I, p. 21: «O Italia, per la tua lussuria, per la tua avarizia, per la tua superbia, per latua

ambizione, per le tue rapine e storsioni verranno a te molte avversità, verranno a te di molti flagelli. […]. O Firenze, O Firenze, O Firenze, per li tuoi peccati, per la tua sevizia, per la tua avarizia, per la tua lussuria, per la tua ambizione verranno ancora a te di molte traverse e di molti affanni. […] o chierica, che sei la principale cagione di questi mali, per il tuo mal fare viene questa tempesta; per li tuoi peccati sono apparecchiate di molte tribulazioni».

18 Aggeo II, pp. 33-34. Cf. anche C. LEONARDI, Savonarola e la politica nelle Prediche sopra

l’Esodo e nel Trattato circa el reggimento e governo della città di Firenze , in Savonarola e

la politica, cit., p. 78; G. C. GARFAGNINI, La predicazione sopra Aggeo e i Salmi, cit., p. 16. 19 Aggeo VIII, p. 123. Riferimenti analoghi si trovano anche in Aggeo IV, p. 74 e VIII, p. 130.20 Aggeo VIII, p. 132.21 Aggeo X, p. 166: «sarai tu, Firenze, riformazione di tutta la Italia e qui comincerà la

renovazione e spanderassi di qui per tutto, perché questo è l’umbilico della Italia».

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mali della città toscana e della penisola, così quello della nuova Firenze poteva essere il fattore che li avrebbe sconfitti.

Nell’ottica savonaroliana questa necessaria renovatio era sia politica che reli-giosa,

«perché el lume naturale non è per sé sufficiente a reggere e governare el popolo cristiano, perché sanza la grazia ed el lume di Dio non saresti sanza peccato e divente-resti cieco»22.

Soltanto il «ben vivere» era la condizione e la garanzia di un governo buono, ma anche forte e potente23, per cui la svolta politica della città fiorentina doveva esse-re sostenuta anche dal ritorno «al culto divino»

«perché gli stati de’ veri cristiani si reggono con l’orazione e col ben fare, e non è vero quel che dicano e’ pazzi e cattivi, che lo Stato non si regge co’ paternostri»24.

1. 2. Il «reggimento civile» e la sua crisi

Di fronte ai cambiamenti fiorentini, la predicazione del domenicano si era fatta nei giorni caldi di inzio dicembre più attenta e preoccupata al rinnovamento civile e alla forma di governo da adottare, suggerendo e sollecitando gli interventi da effettua-re. Tre ci paiono gli elementi costitutivi del progetto politico savonaroliano in questa fase, che ricorrono costantemente nelle Prediche sopra Aggeo: «nessuno più per l’av-venire possa farsi capo»25, «ciascuno sia disposto cercare el bene commune»26, «fac-ciate questa pace universale fra’ tutti e’ cittadini»27.

22 Aggeo VIII, p. 133. Il concetto viene ripetuto anche in Aggeo XIV, p. 229.23 Aggeo XIII, p. 215: «ogni governo e ogni regno, quanto è più spirituale, tanto è più forte e

più potente, e quanto è manco spirituale, tanto è più debole e infermo».24 Aggeo VIII, p. 134. Si desidera precisare che l’esistenza di queste due dimensioni, politica e

religiosa, non significa – come sottolinea Paolo Prodi - «la commistione superficiale di questi due aspetti in quell’unica raffigurazione pasticciata che purtroppo costituisce la vulgata savonaroliana» (P. PRODI, Gli affanni della democrazia. La predicazione del

Savonarola durante l’esperienza del governo popolare, in Savonarola e la politica, cit., p. 28), che porta a connotare il progetto politico e religioso del frate ferrarese come teocratico, quando invece il suo è – rimarca lo stesso storico in un altro studio – «un cristianesimo radicale che rifiuta sia l’illusione di una società dei perfetti, la setta, sia la visione di una Chiesa e di una società clericale» (P. PRODI, Introduzione, in Girolamo Savonarola da

Ferrara all’Europa. Atti del convegno internazionale, Ferrara, 30 marzo – 3 aprile 1998, a cura di G. FRAGNITO, M. MIEGGE, Firenze 2001, p. 15).

25 Aggeo VIII, p. 132.26 Aggeo X, p. 166.27 Aggeo XVI, p. 274.

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Savonarola temeva il ritorno di un governo tirannico, che Firenze aveva avuto con i Medici, responsabili di aver lasciato di facciata la tradizione del libero comune medievale, ma di averla di fatto svuotata creando un sistema di clientele e corruzione e accentrando ogni potere deliberativo. Il tiranno è colui che cura unicamente il pro-prio personale interesse e non quello comune dei cittadini, che divide la città e non ri-cerca la pace, è la negazione della libertà e

«l’incarnazione del male, in tutte le sue manifestazioni: è proprio nel tiranno che possiamo vedere il “volto demoniaco del potere”»28.

Pertanto, affinchè nessuno potesse «per l’avenire più levare capo nella città vo-stra»29 occorreva stabilire una legislazione saldamente ancorata ai principi di libertà e di larga partecipazione al potere, dove «l’autorità di distribuire li officii e li onori sia in tutto il popolo» e dove l’unico «signore della città»30 fosse il Consiglio maggiore. Questo, istituito nel dicembre 1494, era l’organo sovrano avente funzione legislativa ed elettiva rispetto agli altri consigli e cariche dello Stato, era composto di 3600 citta -dini e, secondo il progetto di Savonarola, avrebbe dovuto riunirsi in un luogo apposi-to, il Salone dei Cinquecento, che non venne però mai edificato31.

Nella nuovo governo la città era, dunque, non di uno, ma di ognuno:

«si darà a ognuno quel che è suo e che gli si conviene; e però nessuno debbe te-mere, e tutta la città sarà d’ognuno, ed è meglio avere el tutto che la parte»32.

28 M. D’ADDIO, Il tirannicidio, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali diretta da L. FIRPO, vol. III, Umanesimo e Rinascimento, Torino 1987, p. 538. Alla figura del tiranno Savonarola dedica nel 1498 la seconda parte del Trattato circa el reggimento e governo

della città di Firenze (Trattato II, pp. 451-471). Sul tema della tirannide e sul valore politico-retorico che assume nelle prediche si veda M. TURCHETTI, Savonarola: la tirannide

secondo un profeta, in Savonarola. Democrazia Tirannide Profezia, a cura di G. C. GARFAGNINI, Firenze 1998, pp. 17-41.

29 Aggeo XII, p. 191.30 Trattato III, pp. 473-474.31 «Il progetto fallisce sì per motivi di rivalità interne ed esterne, ma soprattutto perché manca

ancora il principio della rappresentanza politica elettiva e temporanea, che sarà inventato in Inghilterra solo due secoli dopo, con la nascita dei moderni partiti poltici» (P. PRODI, Lessico

per un’Italia civile, cit., p. 27).32 Aggeo XIII, p. 227. Prima della riforma costituzionale aveva già affermato che «Nell’altro

Stato molti volevano [ministrare lo Stato], che non potevano, e molti potevano e volevano, che non dovevano, e così ancora questi non stavano in loco proprio. Ora ognuno è in uno Stato generale; chi vorrà far bene e esser buono, non li mancherà il suo luogo a lui conveniente» (Aggeo V, p. 81).

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Basilare oltre all’impedimento del ritorno del tiranno, era occuparsi del bene co-mune della città e perseguire la pace universale, resa quest’ultima ancora più impre-scindibile e improrogabile dopo la riforma del governo:

«si deponga ogni odio e rancore e facciasi pace di tutte le cose che fussino state da questa mutazione dello Stato, fatta ora indietro»33.

I moniti e gli inviti del frate domenicano furono costanti e ripetuti, consapevole che dopo l’inaugurazione del nuovo corso politico era necessario nella fase successi-va seguirne e curarne l’evoluzione e la crescita, come un bambino che

«bisogna, quando è nato, fasciarlo e stringerlo, perché non si guasti le membra. […] La fascia sono state la riforma, l’appello delle sei fave e le buone leggi, le quali se tu non le avessi fatte, non aresti assettate bene le membra al fanciullo e sarebbonsigli guaste le membra»34.

La forma di governo adottata, in sostanza, non era data una volta per tutte, ma bisognava costantemente salvaguardarla, intervenire per non farla degenerare e per migliorarla. Questi propositi – secondo Savonarola – non vennero però concretizzati e così il bambino-governo nell’arco della sua esistenza andò incontro di fatto a diverse difficoltà che riuscirono a guastargli le membra, determinandone la sua crisi35.

L’opposizione a Piero de’ Medici aveva determinato inizialmente un’unità d’a-zione che aveva temporaneamente sopito i contrasti interni, che poi emersero chiara-mente col formarsi di “intelligenze”, ovvero di fazioni, che nel corso del 1496, in se-guito anche a scelte economiche, come l’imposta fondiaria e quella progressiva sui redditi, molto discusse, si polarizzarono in due schieramenti, i partigiani del frate e i loro oppositori, i Piagnoni e gli Arrabbiati. Questa divisione in fazioni danneggiò il funzionamento del Consiglio, in cui si perseguirono interessi di parte e si presero de-cisioni in base allo schieramento di appartenenza e non in base all’effettiva valutazio-ne delle questioni. Questo fu l’elemento che minò maggiormente la vita del governo civile e da cui già nel 1494 Savonarola aveva messo in guardia:

«questo reggimento dei più bisogna pigliarlo ben regulato, altrimenti sareste sempre in dissensione e in parte, e in pochi anni si dividono e fanno setta gli uomini in-quieti, e l’una parte caccia l’altra e falla rebella dalla città»36.

33 Aggeo XV, p. 255.34 G. SAVONAROLA, Prediche sopra i Salmi I, a cura di V. ROMANO, Roma 1969, pp. 98-99

[D’ora in poi Salmi].35 Per un’analisi tematica dei mutamenti accorsi e delle ragioni che portarono alla rottura dei

meccanisni democratici instaurati si rimanda a P. PRODI, Gli affanni della democrazia, cit., pp. 27-74.

36 Aggeo XIII, p. 212.

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Tale polarizzazione determinò a lungo andare il crollo dei pilastri del sistema politico popolare: la divisione osteggiava la ricerca del bene comune e il persegui-mento di una pace che fosse universale e spingeva alla formazione di un reggimento oligarchico, il quale non essendo “civile” tendeva necessariamente alla tirannide.

1. 3. Il conflitto con il papa

Di fronte a tale evoluzione della vita politica fiorentina, si fa sempre più insi-stente nelle prediche del frate il richiamo alla conversione religiosa, consapevole che

«senza un rinnovamento della Chiesa e dell’uomo cristiano il potere non poteva essere ricondotto alla ragione del bene comune e la democrazia era impossibile»37.

Ancora lontano dal rinnovamento che auspicava era, difatti, la Chiesa e il papa Alessandro VI Borgia, a cui aveva rivolto dure critiche per il suo cattivo esempio e in quanto responsabile secondo il frate del tentativo di fusione tra il potere temporale e quello spirituale, che dovevano invece restare “due muri” distinti:

«Ma, quando Iddio verrà a misurare la Chiesa, non troverà nessuno di questi muri, perché l’uno di questi muri è caduto sopra l’altro, in modo che tutte due sono ro-vinati e tutte le pietre quadrate di questi muri si sono rotte e non sono più quadre, cioè non hanno la larghezza della carità e hanno fatto pietre tonde, convertite in bene pro-prio e raccolto in sé; e con queste pietre hanno bombardato la città, cioè con loro male esempio hanno ancora corrotto e rovinato la città e li cittadini»38.

Alessandro VI, sentendosi offeso dalla insinuazioni e dalle accuse del frate, de-cise di metterlo a tacere: dopo tre Brevi pontifici, alla fine di ottobre del 1495, Savo-narola fu dapprima costretto al silenzio del pulpito, ma non a quello della penna, fino al febbraio 1496 e successivamente scomunicato come eretico39. Dal coinvolgimento politico ormai il baricentro della predicazione savonaroliana si era spostato sul piano della riforma della Chiesa, aprendo il conflitto con il papa. Conflitto che degenerò quando il frate fece appello all’imperatore Massimiliano e ai re cristiani affinché con-vocassero un concilio per deporre Alessandro VI, segnando in tal modo la sua con-danna a morte nel maggio 1498, ormai non più sostenuto in modo univoco all’interno della città e nemmeno da Carlo VIII, morto il mese prima, e dalla Francia, che aveva

37 P. PRODI, Gli affanni della democrazia, cit., p. 74.38 Salmi I, p. 47.39 Nonostante la scomunica ancora nel marzo 1497 il frate ferrarese, come dichiara Piero di

Marco Parenti, cronista contemporaneo, «sputava nelle sue predicazioni venenosissime parole contro al Pontefice, e al tutto negava che ubidire si dovessino tali scomuniche. […] El Frate perseverava in isparlare contro al Pontefice, chiamandolo faraone e per simili altri disonesti nomi» (P. PARENTI, Storia fiorentina II, cit., pp. 146-147).

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firmato l’anno precedente una tregua con gli altri Stati italiani lasciando Firenze iso-lata.

La morte sul rogo di Savonarola sancì definitivamente la fine dell’esperimento democratico fiorentino e l’inizio dell’instaurazione di una repubblica oligarchica.

Il fallimento della proposta politica e spirituale di Savonarola ci dice in sostanza che la risposta data dal frate ferrarese alla crisi della cristianità venne rifiutata a favo-re di una scelta che andava nella direzione della costruzione dello Stato moderno e delle Chiese territoriali40.

2. Elementi storico-teologici.

2.1. Introduzione

La seconda parte della nostra riflessione desidera rinvenire alcuni elementi della teologia del Savonarola in rapporto alla politica e al suo esercizio cittadino, con un’attenzione – con le necessarie mediazioni – alla loro possibile fecondità nell’ispi-rare forme odierne di teologia capaci di entrare in relazione virtuosa con la città degli uomini.

Sono tre le domande che organizzano tale riflessione e che possono essere così espresse: in che senso la teologia del Savonarola è profetica e soprattutto in che senso si tratta di profezia di matrice biblica? Qual è uno degli aspetti specifici di tale rela-zione? Infine, una domanda più complessa41: perché la sua azione profetica può esse-re ispirante, in chiave ideale, per l’oggi teologico, ecclesiale e civile?

40 Cf. P. PRODI, Introduzione, cit., p. 8. La sconfitta del modello savonaroliano è connessa sì al contesto cittadino e all’intervento di Alessandro VI, ma in un’ottica più generale è legata al momento storico in cui si colloca, ovvero nella lunga fase di costruzione dello Stato moderno: quando si abbandona l’appello a un astratto bene comune e si ricorre più frequentemente alla nozione di utilità, per cui lo Stato realizza ciò che gli è utile; quando si abbandona l’idea di una pace universale, che si giustificava con l’appartenenza degli uomini a un’unica res publica christiana, e la si sostituisce con il concetto di sicurezza, che è garantita dallo Stato e che implica l’esautorazione politica e militare di quelle fazioni interne che minacciano o causano disordini; quando si abbandona l’idea di far partecipi molti del potere a favore della concentrazione del potere nelle mani di uno o di pochi.

41 La complessità della domanda è legata alla ricostruzione esatta della sua vicenda, alle molteplici interpretazioni date dell’azione del savonarola e, infine, alle precomprensioni dell’interprete in relazione al nesso tra l’ispirazione credente e la gestione politica, cf. le pertinenti osservazioni di D. MENOZZI, ‘Profeta di Cristo Re’: una lettura di Savonarola

nella cultura cattolica tra Otto e Novecento, cit., pp. 695-698.

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2.2. Savonarola profeta di stile biblico

In che senso, dunque, la teologia del Savonarola è profezia e soprattutto in che senso è di matrice biblica?

La connessione tra lo stile del carisma profetico42 del Savonarola e quello della profezia biblica è già stata indagata con attenzione soprattutto in relazione all’uso del-la Bibbia da parte del frate domenicano43. Noi indichiamo solamente due dati: la pro-fezia biblica come fonte di ispirazione per Savonarola e la presenza di tematiche pro-fetiche nella sua predicazione.

2.2.1. Savonarola e la profezia biblica

Una prima evidenza mostra, infatti, che la predicazione del Savonarola a Firen-ze è concentrata sul commento di testi profetici, di alcune sezioni dei Salmi, - per mo-tivi che andrebbero indagati meglio - del libro di Giobbe e, alla fine della sua vita, di un commento al libro dell’Esodo.

Rileggendo quest’ampia opera di spiegazione biblica si può seguire, lo sviluppo – nei suoi elementi di continuità e discontinuità – della riflessione che il Savonarola ha compiuto durante i quattro anni del governo civile. Il suo intervento politico e civi-le è articolato e organizzato intorno ad alcuni testi della Bibbia di matrice profetica 44. Il profeta Aggeo viene, ad esempio, assunto dal Savonarola quale proprio alter ego: come il profeta biblico si scontra con l’inerzia degli ebrei nella ricostruzione del tem-pio di Gerusalemme, così il frate domenicano deve fare i conti con la pigrizia dei ‘tie-pidi’ fiorentini nel portare avanti la riforma della città: «il nuovo tempio di cui egli reclama la costruzione è la città nuova di Firenze»45. In maniera analoga come gli ebrei in uscita dall’Egitto chiedevano prove della riuscita del loro viaggio al profeta

42 Cf. G. C. GARFAGNINI, La polemica antiastrologica del Savonarola ed i suoi precedenti

tomistici, in Filosofia, scienza e astrologia del Trecento europeo, Padova 1992, pp. 155-179.

43 Cf. V. MANNUCCI, La predica etico-politica di Girolamo Savonarola, in «Vivens Homo» 6 (1995), pp. 151-161.

44 P. PRODI, Profetismo e utopia nella genesi della democrazia occidentale, in Savonarola.

Democrazia Tirannide Profezia, cit., p. 203: «Penso vada sottolineato, più di quanto non si sia fatto sino ad ora, la scelta dei testi profetici che sono da lui esplicitamente indicati come fonte di ispirazione delle prediche».

45 Cf. G. C. GARFAGNINI, La predicazione sopra Aggeo e i Salmi, cit., p. 21.

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Mosè46, così Savonarola prospetta la sala del Consiglio come una prova che la rifor-ma della città e il disegno di Dio si stanno compiendo47.

2.2.2. Tematiche profetiche nella predicazione del Savonarola

Una seconda evidenza riguarda la presenze di tematiche e i contenuti a connota-zione profetica nelle sue opere. Ne ricordiamo alcuni tra i più significativi.

Il profeta: samaritano della città

In primo luogo il frate domenicano condivide con i profeti biblici il senso della propria vocazione. Egli ha una forte consapevolezza profetica riguardante la propria illuminazione per rendere presente in maniera energica la parola di Dio48. Savonarola sa che Dio lo ha chiamato, così come ha chiamato Abramo ad uscire dalla sua terra, prima ad abbracciare la religione, poi a divenire sacerdote, a lasciare Ferrara e infine ad annunciare il suo messaggio a Firenze49. Quando al Savonarola viene chiesto ‘da dove’ ha tale messaggio e come può comprovarne l’autenticità mostra sì alcuni segni nella storia che possono essere interpretati a suo favore, ma alla fine afferma che l’u-nica via è accogliere tale messaggio come proveniente direttamente da Dio attraverso di lui50. Egli custodisce, come una sentinella e una guardia51, un appello che provie-ne dall’alto per il presente e per il futuro dei suoi ascoltatori52. Come i profeti della Bibbia il Savonarola è conscio di essere stato ammaestrato da Dio su quello che Egli sta per fare per il suo popolo:

46 G. SAVONAROLA, Prediche sopra l’Esodo VII, a cura di P. G. RICCI, Roma 1955-1956, p. 201 [D’ora in poi Esodo].

47 Salmi I, p. 262: «Aiutate ognuno a fare la sede del Consiglio grande, perché è la salute della città vostra».

48 Aggeo I, p. 11: «Io ho tanto gridato e tanto vociferato, che io non so più che dire».49 Cf. Aggeo XIX, pp. 324-327.50 Cf. Aggeo XXII, pp. 404-405. Cf. anche G. C. GARFAGNINI, La predicazione sopra Aggeo e i

Salmi, cit., pp. 10-11: «Per parte sua, egli rivendicava alla sua opera un’altissima autorità spirituale, fondata sulla diretta ispirazione divina (“Haec dicit Dominus Deus”) che la città invece, non volle mai riconoscergli integralmente, ed è quindi improprio parlare di repubblica savonaroliana».

51 Aggeo, XXI, p. 364: «El Signore ci dice: Fili hominis, speculatorem dedi te, io t’ho fatto speculatore e guardia sopra costoro; guarda bene, fa buona guardia. Ascendi in alto, acciò che tu vegga ogni cosa e che non nasca alcuno inconveniente, perché sarebbe tua la colpa e contra l’anima tua. O custos quid de nocte?».

52 Aggeo I, p. 16: «E di più, per volontà di Dio, da me se’ stata fatta partecipe de’ secreti di Dio delle cose future».

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«Non fa Dio cosa grande nella sua Chiesa, che prima non la faccia predire per li suoi servi profeti, come dice Amos: Non faciet Deus Verbum, nisi revelaverit prius ad servos suos prophetas. Così ha fatto adesso; volendo rinnovare la Chiesa, te l’ha fatto annunziare più tempo inanzi e prenunciatoti le tribolazioni, per le quali ella si debbe rinnovare»53.

Egli porta questo messaggio di rinnovamento identificandosi con il buon sama-ritano che apporta salvezza e cura all’uomo mezzo morto54, ma proprio in questo suo essere profeta straniero egli riconosce anche il destino di contraddizione, tribolazione, lotta e infine martirio che lo attende:

«Allora io convinto dissi: Signore eccomi parato alla tua volontà; ma io vorrei sapere, s’el ti piace, che premio si conseguirà di questo nell’altra vita. Rispose el Si-gnore: Quod oculos non vidit, nec auris audivit, cioè: el premio di vita eterna è tanto grande […]. E io subgiunsi: E in questo mondo che ne seguirà? El Signore disse: Non est maior servus Domino suo; non è maggiore el servo ch’el suo Signore. Tu hai pur letto che, doppo le predicazione mie fatte al popolo giudaico, che ei mi crucifissono. Così interverrà a te e non altrimenti»55.

In questo senso possiamo aggiungere che il domenicano, come i profeti bibli-ci56, utilizza modi di espressione simbolici57 e più in generale non può sganciare il messaggio di cui è strumento dalla propria persona e dal proprio destino personale. Il messaggio ha un primo luogo di manifestazione e di verità nell’esistenza stessa del profeta che si mostra come un’esistenza votata, anima e corpo, alla propria vocazio-ne; un esistenza che risulta così svuotata di vantaggi personali e duramente contrad-detta58.

Il profeta: colui che legge i tempi

In tal senso possiamo rilevare una seconda tematica propria della predicazione profetica del nostro autore. Si tratta della relazione tra quella che potremmo chiamare dimensione teologale e dimensione storica. Il Savonarola intende infatti la propria predicazione soprattutto in chiave teologale e di natura spirituale. Egli predica la con-

53 Aggeo XIV, p. 232.54 Cf. Aggeo XIX, p. 327. 55 Aggeo, XIX, p. 329.56 Cf. P. BOVATI, Il corpo vivente. Riflessioni sulla vocazione profetica, in ID., ‘Così parla il

Signore’. Studi sul profetismo biblico, Bologna 2008, pp. 77-104.57 Aggeo, XIX, p. 328.58 Aggeo, I, p. 17: «O Firenze, non sono io ancora come tuo pastore? Nam pastor bonus ponit

animam suam pro ovibs suis: el buono pastore mette la vita e l’onore e ciò che lui ha per la salute delle pecorelle; io, per la salute tua e perché così ha voluto Dio, mi sono esposto agli obrobrii, alle derisioni, alle murmurazioni di molti per tuo amore».

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versione, il fare penitenza, l’emendare la propria condotta, la cura dei poveri, il ritor-no alla legge evangelica:

«Mi disse el Signore: El predicare, a che tu attendi, è cosa spirituale, ma bisogna ancora, attendendo principalmente allo spirito, fermare tutte quelle cose che conservino e mantenghino lo spirito e le cose con che lo spirito si governa»59.

E’ proprio tale predicazione che in questo interesse prioritario al ben vivere dei credenti viene condotta, per logica interna al messaggio cristiano dell’incarnazione, ad interessarsi alle condizioni concrete della vita cristiana nelle sue dimensioni sia personali che comunitarie. La profezia del Savonarola proprio nella sua dimensione spirituale si interessa e pone un appello al cambiamento delle strutture storiche della città e della Chiesa. Appello che egli intende come una contingenza e una supplenza legata alle concrete situazioni in cui si dà la sua missione60. Egli predica perché sa che non ogni tempo è uguale e proprio questo è il tempo della riforma 61. Non è un caso che egli rimproveri più volte i fiorentini di rispondere ai suoi appelli di cambia-mento personale ed istituzionale con: «non è tempo». In termini analoghi egli li rim-provera del loro non vedere i segni che mostrano come sia venuta la fine del quarto tempo della Chiesa – quello dei tiepidi e dei falsi fratelli - e stia iniziando il quinto, quello della «rinovazione» della Chiesa62.

Da questo punto di vista l’analogia tra la profezia biblica63 e quella del Savona-rola è del tutto rilevante: la profezia vi si qualifica non tanto e non solo per essere un richiamo etico o sapienziale, ma come capacità di ‘leggere’ l’opacità della storia, di avvedersi dei segni dei tempi, di interpretare il senso complessivo delle vicende e, in-fine, di discernere gli appelli di Dio alle scelte necessarie per i singoli e le comuni-tà64, scelte da compiersi – lo ripetiamo - in tempi precisi. In sintesi la profezia si con-figura come una lettura del senso della storia nel qui e nell’ora: essa è una modalità di discorso teologico che ha come suo specifico il discernimento.

Il profeta: colui che chiama alla pacificazione

59 Aggeo, XIX, p. 328.60 Cf. C. LEONARDI, Savonarola e la politica, cit., pp. 78-82.61 Aggeo XIV, p. 234: «Credi adunque, Firenze, ch’egli è el tempo di rinnovarsi la Chiesa e la

città tua, come io t’ho detto».62 Cf. Aggeo, XIV, pp. 234-237.63 Cf. P. BOVATI, Il profetismo come lettura del senso della storia, cit., pp. 105-123.64 P. PRODI, Profetismo e utopia nella genesi della democrazia occidentale, cit., p. 208: «falsi

profeti sono coloro che non sanno cogliere i segni dei tempi e ostacolano il rinnovamento della Chiesa».

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Un terzo elemento del rapporto suddetto può essere rinvenuto evidenziando uno dei contenuti specifici del suo appello alla conversione. Si tratta dell’appello assoluta-mente prioritario alla pace65, così prioritario che, nel 1495 asserisce – a riforma av-viata e non priva di segnali di crisi - che la riforma del governo andava preceduta dal-la pacificazione cittadina66. Savonarola come i profeti biblici ha tra i suoi temi più cari la predicazione della pace o, meglio, della via della pace.

Egli pone ripetutamente il problema della pace, della riconciliazione e della giu-stizia sociale come garanzia di futuro per il neonato governo civile67. In diverse pre-diche si raccomanda di porre in atto dei veri e propri rituali di pacificazione includen-ti la preghiera a Dio per il dono della pace, per la conversione dei cuori, per operare una rielaborazione riconciliata del passato68. Rituali che hanno un loro pendant istitu-zionale nelle procedure di giustizia che hanno come fine non tanto ‘l’annullamento’ del colpevole o delle fazioni avverse, ma la ripresa e la prosecuzione della vita insie-me69. La profezia è in vista, dunque, non tanto della pace, ma di un processo di paci -ficazione, cioè di un superamento di quell’odio che è sempre seme di futura rovina e disgregazione. Dai testi si evince come questo processo di pace sia inteso nelle sue molteplici dimensioni: interiore e pubblico, personale e comunitario, spirituale ed isti-tuzionale. L’autore sa che tale processo può essere compiuto solo se, da un lato, viene tolta l’antica ruggine del risentimento dall’animo dei cittadini70 e, dall’altro, si riesco-no a sciogliere le cariche disgregative delle fazioni e delle vendette incrociate 71. Egli è consapevole della necessità al contempo della preghiera e di un’istituzione giudi-

65 Cf. Aggeo, XVI, p. 274.66 Salmi, I, p. 32: «Io ti ho detto quattro cose, se non le farai, guai a te: prima il timore di Dio;

secundo, il bene commune; terzio, la pace universale; quarto, la reforma. Voi avete cominciato a rovescio, cioè a la reforma, che era l’ultima. Seguitate almeno a rovescio, e fate questa pace; ché, se non la fate, sarà la ruina vostra».

67 Cf. Aggeo, XIII, p. 227.68 Cf. Aggeo, XIII, p. 227.69 Aggeo XIV, p. 247: «Costoro dicano: O Padre, dove è la iustizia? Non s’ha egli a punire chi

ha fatto male? Sappi, Firenze, che questi tali non dicano così per zelo di iustizia, ma per isfogare l’odio ch’egli hanno nel concetto loro. Chi contradice alla pace, o egli è tepido, o egli è mal cristiano. Quando e’ farisei condussero a Cristo la donna deprensa in adulterio, e chiedevano iustizia e ch’ella fusse lapidata, il Salvatore scriveva in terra, quasi che volesse dire: Voi siete uomini terreni e pieni di odio e non fate questo per zelo di iustizia».

70 Aggeo XIX, p. 338: «Però vi ho sempre esortati a questa pace universale; ed el modo come la si ha a fare e quello che ella ha a contenere, altra volta io ve l’ho detto e di nuovo vel dichiaro, cioè che tutti levate via da’ cuori vostri quell’antica ruggine che s’è contratta in voi l’uno contra l’altro».

71 Aggeo XIV, pp. 244-246.

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cante capace di portare avanti tale processo e poi di custodirlo72. Un risvolto signifi-cativo – anche dal punto di vista biblico73 - di questo cammino di pace inerisce il tema della riconciliazione e del coinvolgimento della memoria storica:

«E se tu mi domandi: Ben, frate, come intendi tu questa pace? Io ti rispondo che io te l’ho detto, che la pace universale vuole essere in questo modo: che si deponga ogni odio e rancore e facciasi pace di tutte le cose che fussino state da questa mutazio-ne dello Stato, fatta ora indietro, cioè ogni cosa sia cancellata d’ogni pena e ogni delit-to, che fusse stato dalla mutazione indietro insino qui»74.

La prassi della giustizia che tiene conto del perdono è intesa come una vera e propria purificazione della memoria, dove la storia non viene obliterata o dimenticata, ma viene vagliata e ripensata attentamente. Tale ripensamento serve per poter levare via l’odio, osservando come le vie dell’odio e del risentimento non hanno portato il bene alla città, ma solo maggiore lacerazione e annebbiamento delle coscienze75:

«Così dico io a te, Firenze: Ponite corda vestra super vias vestras, idest conside-rate le vie antiche insino ad oggi e vedete se vi sono riusciti e’ vostri pensieri […] Vedi Firenze che ancora non ti riposi, perché non hai mai fatto vera pace. Tu hai ben semina-to assai sangue, ma non hai ricolto punto di pace»76.

Anche in tale predicazione che chiama, in determinati tempi della storia, al fare pace77 costruendo sulla giustizia, sulla consapevolezza delle proprie vere intenzioni78, sulla memoria purificata e sulla nuda verità il Savonarola si mostra vicino ai modi dell’autentica predicazione profetica79.

72 Aggeo, XIV, p. 248: «E per conservare meglio questa pace, sarà poi bene farne uno offizio che sia sopra la conservazione della pace e atenda a mantenerla e conservarla nella tua città».

73 Cf. P. BOVATI, Ristabilire la giustizia. Procedure, vocabolario, orientamenti, Roma 1986.74 Aggeo, XV, p. 255.75 Aggeo, XV, p. 256: «L’odio antico non ti lassa avere giudizio. […] Lieva via el rancore e

sarai illuminato. Io ti dico: se tu non perdoni, Dio non perdonerà a te. Tu di’ pure: E’ sono stati amici di quello e di quell’altro. Tu mi intendi bene quel che io dico. Se tu non lievi via l’odio e neon perdoni Dio non perdonerà te. Io non ti dico che chi ha quello d’altri o del commune non lo restituisca. Io non ti dico a cotesto modo; intendi sanamente e non storcere le parole. Io dico che, quanto alla restituzione ognuno è obbligato restituire quello che lui avesse tolto ingiustamente a’ particolari o al commune».

76 Aggeo XV, p. 260.77 Aggeo, XIX, pp. 339-340.78 Aggeo, XVI, p. 268: «Ponite corda vestra super visa vestras, come dice qui Aggeo, nostro

profeta, ponete el cuore vostro sopra le vie vostre e considerate a che fine voi andate, e vedrete che siate in errore e che quello che noi vi diciamo è la verità e la vostra salute».

79 Cf. P. BOVATI, Il profetismo come lettura del senso della storia, cit., pp. 120-121.

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2.3. La profezia del Savonarola: profezia della croce

Se quanto abbiamo appena sostenuto ha una sua validità si può affermare che in Savonarola la profezia serve principalmente per illuminare il presente. Essa non tanto informa sul futuro, ma provoca ad una decisione che traduce l’adesione - o meno - al senso della storia in cui Dio opera. Essa si distingue, così, dal modo della visione, della veggenza o della rappresentazione utopica. Si può osservare come in alcuni testi l’autore, pur consapevole della provenienza da Dio della sua profezia, parla di illu-minazioni progressive e di una comprensione profetica che si sviluppa gradualmente, non per visioni dirette, anticipatrici e complessive80. Pertanto in Savonarola si ha un esponente del cristianesimo radicale che tiene viva la presenza di una profezia che si esplica ‘nella’ storia. Si tratta di quella profezia che ha tra le sue specificità la lottaanti-idolatrica, ossia la capacità di ricordare al potere sia ecclesiastico che civile i suoi limiti, la possibilità sempre latente che il potere assuma un volto demoniaco.

La progressiva perdita - o emarginazione - della tensione profetica che ha luogo a partire dal ‘500 per diversi autori va collegata alla formazione di istituzioni che non hanno ‘bisogno’ di critica interna81. Siamo infatti nel tempo della nascita delle Chiese nazionali, di un ampio disciplinamento sociale, del rafforzamento delle autorità civili e religiose82. Questa emarginazione della profezia sembra lasciar spazio nella vita delle Chiese solo alle rivelazioni private, alle visioni e alle apparizioni, che in qualche caso sembrano supplire proprio all’assenza di profezia storica83.

Proprio in rapporto a questo aspetto della profezia che invita il potere a stare nei propri limiti si può rilevare un aspetto specifico del profetismo del Savonarola. Pren-diamo come esempio immediato un confronto sulla forte presenza della croce e del crocifisso, come segno di contraddizione e giudizio, nella predicazione del Savonaro-la e la sua - impressionante - assenza nel ciclo pittorico degli appartamenti privati di Alessandro VI84. In tale ciclo che descrive, in maniera ideologicamente programmati-ca, la storia universale e in essa il ruolo del papato non vi sono infatti raffigurazioni della croce o della passione, ma solo del Cristo risorto, dove l’affermazione propria del risorto contenuta alla fine del Vangelo di Matteo viene attribuita al papa stesso: “mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra”. Il ciclo di affreschi serve per indicare il papa come signore dell’universo sia sul piano spirituale che su quello politico85.

80 Aggeo, XVIII, p. 306.81 Cf. R. KOSELLECK, Futuro passato, Genova 1986, pp. 168-169.82 Cf. P. PRODI, Profetismo e utopia nella genesi della democrazia occidentale, cit., pp. 199-

211.83 Cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Il messaggio di Fatima, Roma 2000.84 Cf. S. POESCHEL, Das Bildprogramm des Appartamento Borgia im Vatikan, Weimar 1999.

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In tale quadro va richiamata l’accusa fatta dal Savonarola sul non-cristianesimo del papa Alessandro VI, il quale viene ritenuto responsabile non solo di immoralità e di eccessivo potere temporale ed economico, ma di sincretismo, ovvero di non tener più conto della centralità storico salvifica di Gesù Cristo crocifisso e risorto e di pro-porre una visione sostanzialmente pagana della storia, che ha diverse conseguenze si-gnificative: lo sconfinamento del potere dai suoi limiti; la perdita, quindi, della distin-zione essenziale tra la sfera del sacro e quella del politico; e infine, come la storia im-mediatamente successiva mostrerà, la perdita drammatica di autorevolezza all’interno del corpo ecclesiale86.

L’assenza della croce nella serie programmatica di immagini stride con la cen-tralità di essa nella predicazione profetica del Savonarola:

«Io non ti dissi questo da me, né di mio capo, nè ancora per spezialità d’alcuna persona, ma considerando el bene tuo ed el bene commune della tua città: la spezialità mia è solo il crocifisso»87.

Il Savonarola interpreta in modo complessivo la sua predicazione come un invi-to ad andare verso il crocifisso88 e verso la legge evangelica89 che divengono il crite-rio valutativo della vita, della riflessione teologica e filosofica90, di ogni forma di po-tere ecclesiale e civile. In questo senso è significativo osservare come per il Savona-rola la predicazione che non tratta del Vangelo e del Cristo diviene incapace di for-mare alla vita cristiana e di fatto accondiscende al potere e diventa acquiescente verso chi lo detiene91.

85 Cf. P. PRODI, Alessandro VI e la sovranità pontificia, in C. FROVA, M. G. NICO OTTAVIANI, Alessandro VI e lo stato della Chiesa, Roma 2003, pp. 313-318.

86 Cf. P. PRODI, La monarchia papale-imperiale di Alessandro, in Cesare Borgia di Francia.

Gonfaloniere di Santa Romana Chiesa 1498-1503. Conquiste effimere e progettualità

statale. Atti del Convegno di studi, Urbino 4-5-6 dicembre 2003, a cura di M. BONVINI MAZZANTI , M. MIRETTI, Urbino 2005, pp. 7-23.

87 Aggeo, XII, p. 208. 88 Cf. Aggeo II, p. 40.89 Cf. Aggeo XVII, p. 281.90 Cf. G. C. GARFAGNINI, La predicazione sopra Aggeo e i Salmi, cit., pp. 16-17.91 Aggeo XVII, p. 290: «Da questo si conducevano in te mali pastori etiam nello spirituale, e

così la città si ruina in tutto. Vengono di qui e mali predicatori e adulatori, che non vogliano dire la verità per non dispiacere a’ capi del reggimento. E su’ pergami non si predicava Cristo, ma eranvi introdotte le poesie e Dante e cose frivole: e la Scrittura sacra si restava là nella polvere: e li poeti andavano su per li pergami, e’ quali poeti già condussono la idolatria ed el paganesimo per tutto el mondo».

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Da una predicazione, invece, nutrita della Sacra scrittura e dell’amore al croci-fisso nasce l’appello inesausto alla povertà della Chiesa e dei prelati 92, a un maggiore amore per i poveri, al distacco dalla «robba»93, al ridimensionamento di tutte le este-riorità94, soprattutto di quelle liturgiche95. Egli intravede proprio nella distanza della Chiesa dalla logica del Vangelo e della croce96 la causa remota e radicale dei mali della città di Firenze e dell’Italia97.

2.4. Note conclusive

2.4.1. La profezia di Savonarola: un modello teologico?

Se quanto si è accennato in precedenza ha una sua legittimità storico-teologica cerchiamo di cogliere alcuni insegnamenti dalla vicenda del Savonarola per l’oggi teologico, ecclesiale e civile.

Savonarola si inserisce in quel filone che anche recentemente è stato chiamato come cultura profetica o cultura della riforma98. Questo tipo di stile culturale e mo-dello teologico si pone nella storia rintracciando al suo interno gli appelli di Dio, le istanze evangeliche che chiamano alla riforma dei singoli e delle istituzioni99.

92 Aggeo, XXII, p. 405: «E se pur tu volessi intendere qualche ragione assai probabile, considera un poco la Chiesa di Cristo in che stato ella oggi si truova e considera quanto sono quelli, in tutto el mondo, oggi, che faccino bene e siano nella via di Dio, e vedrai che sono molto pochi. Poi poni el Crucifisso in mezzo el mondo e considera che è venuto qua per la salute universale a farsi crocifiggere per redimere la generazione umana, e guarda quanti pochi si salverebbero stando la Chiesa sua come ella sta e peggiorando ogni giorno di più; chè se io ti dicessi el secreto, che io so, altro etiam che per via umana come sta oggi la Chiesa, tu stupiresti, ma non lo posso dire. Ma allora vedresti che la Chiesa di Cristo non fu mai nel peggiore grado in che oggi la si ritruova».

93 Cf. Aggeo, XXII, pp. 399-403.94 Cf. Aggeo, XXII, p. 403.95 Aggeo, XXIII, p. 417: «E però tu doveresti in prima provedere che nella città tua fusse santo

e buono el culto divino e levar via le superfluità e li canti figurati, che sono pieni di lascivia, e che ogni cosa fusse con semplicità e devozione, e avere santi predicatori e santi religiosi, e lasciare questi, che non sono per la via di Dio».

96 Cf. Aggeo, I, pp. 10-14.97 Aggeo, I, p. 21: «O chierica, chierica, chierica, propter te orta est haec tempestas; o

chierica, che sei la principale cagione di questi mali, per il tuo mal fare viene questa tempesta; per li tuoi peccati sono apparecchiate di molte tribolazioni”.

98 Cf. J. W. O’ MALLEY, Quattro culture dell’occidente, Milano 2007, pp. 47-82.99 Per la descrizione della profezia come modello teologico, cf. G. LAFONT, La Sagesse et la

Prophétie, Paris 1999.

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Tale cultura profetica accoglie quello che lo storico della teologia Ghislain La-font chiama il principio di imperfezione del tempo100. Si tratta, in sintesi, di una com-prensione del tempo come tempo non ancora consumato e perfetto, dove, cioè, la sto-ria non viene considerata, nei suoi significati fondamentali, come già finita101. La ve-rità pur essendosi realizzata in Gesù Cristo si manifesta solo poco a poco nella Chiesa e nel mondo102. La storia è, così, aperta e significativa per i credenti che in essa vivo-no; essa, in altri termini, può essere a ragione pensata come un luogo teologicamente rilevante103. Esprimendoci in termini quantitativi potremmo dire che tale riflessione sull’imperfezione della storia è attenta al fatto teologico che la storia dopo Cristo ha ormai raggiunto e superato la quantità di tempo della storia della salvezza prima di Cristo e questo porta con sé un’inevitabile domanda sul suo senso del disegno di Dio. Come afferma Lafont:

«Se durante tutto il tempo dell’Antico Testamento Dio ha progressivamente rive-lato al suo popolo il suo disegno di salvezza, attraverso di esso, la verità del suo volto e il destino essenziale dell’uomo, che cosa ha egli manifestato agli uomini lungo il tem-po della Chiesa e come questo ha contribuito a cambiarli? In che cosa una valutazione più positiva del tempo può determinare un nuovo corso della teologia?»104.

Alla domanda su qual è, dunque, una delle forme di teologia più adatte a tale consapevolezza di apertura e rilevanza della storia, potremmo rispondere: la teologia di stile profetico.

Profezia intesa non solo e non tanto come modalità di pre-visione del futuro, ma come capacità di leggere i tempi e il loro senso, di diagnosticare le cause del male e le speranze effettive di bene, di cogliere i passaggi epocali e gli appelli all’azione. In Sa-vonarola, come si è intravisto, si trovano tutti questi atteggiamenti: egli sa che nella storia degli uomini e nella Chiesa la perfezione non è ancora raggiunta 105, egli parla del futuro per chiamare i fiorentini alla riforma dei costumi e della forma di governo nel qui e nell’ora; egli diagnostica in modo preciso i mali e le loro cause prossime e remote, prospetta il bene e il complesso cammino per giungervi; coglie nei suoi giorni

100 Cf. D. GIANOTTI, Salvezza cristiana e forme del pensiero teologico. Una riflessione alla luce

del contributo teologico di Ghislain Lafont, in «RTE» 9 (2001), pp. 21-35.101 Cf. C. THEOBALD, La rivelazione, Bologna 2006, pp. 141-170.102 Cf. G. LAFONT, La Sagesse et la Prophétie, it., pp. 103-104.103 Cf. B. QUASH, Theology and the Drama of History, New York 2005.104 G. LAFONT, Modelli di teologia nella storia, in R. FISCHELLA, G. POZZO, G. LAFONT, La

teologia tra rivelazione e storia, Bologna 1999, p. 389.105 Cf. Aggeo XX, pp. 356-358.

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crepuscolari il passaggio epocale106 dal quarto al quinto tempo della vita della Chie-sa107.

A partire dall’esperienza Savonaroliana potremmo ricavare che lo stile108 teolo-gico di natura profetica può, quindi, essere pensato come un modo significativo di abitare oggi il mondo esercitandovi una lettura e un’interpretazione. La profezia è, in-fatti, per sua natura un appello al discernimento, in primo luogo perché essa pone sempre l’interrogativo sulla validità o meno del dettato profetico. La profezia, infatti, non solo discerne, ma è oggetto di discernimento109, essa non è garantita in modo au-tomatico dall’istituzione, ma va sempre sottoposta al vaglio per verificare la sua au-tenticità, la sua provenienza, la sua veridicità, per capire “quali parole Dio non ha det-te”110. In secondo luogo perché essa discerne nella storia concreta, che è sempre opa-ca e contraddittoria, i segni di Dio, le istanze di bene e quelle di male, riconosce, in-fatti, i segni disumani del potere senza controllo e limiti.

2.4.2. Lo stile teologico profetico: un modello per l’oggi?

In conclusione proponiamo alcune risposte a tale domanda, assommando in modo schematico riflessioni che avrebbero bisogno di ben più ampia vagliatura e pro-fondità.

- In primo luogo ci pare che lo ‘stile’ profetico, inteso come appello ad un conti-nuo discernimento sia del tutto omogeneo alla sensibilità teologica ed ecclesiale adot-tata dal Concilio Vaticano II111. Dove l’attenzione alla storia non risulta essere un at-teggiamento occasionale, ma è uno dei modi permanenti della vita ecclesiale con cui la Chiesa comunione112 desidera cogliere gli appelli per la propria riforma e rinnova-

106 Cf. Aggeo, XIV, pp. 235-236.107 Aggeo XV, p. 250: «Noi siamo nel principio del quinto stato della Chiesa, come t’ho detto

ne’ precedenti sermoni, e bisogna mutare nuovo modo di vivere, e riformarsi, e rinnovarsi la Chiesa di Cristo, e conseguentemente tu, Firenze, donde ha poi a uscire ogni bene».

108 Cf. C. THEOBALD, Le Christianisme comme style. Entrer dans une maniere d’habiter le

monde, in «Revue d’éthique et de théologie» 251 (2008), pp. 235-248.109 Cf. Aggeo, I, p. 13.110 Cf. Dt 18, 21.111 Cf. Das zweite Vatikanische Konzil und die Zeichen der Zeit heute, a cura di P. HÜNERMANN,

Freiburg im Bresgau 2006.112 G. RUGGERI, La verità crocifissa, Roma 2007, p. 42: «Il Vaticano II ha già recuperato la

dimensione comunionale e collettiva della ricerca della verità della Chiesa, dove il ruolo dell’autorità può trovare il suo giusto equilibrio, soprattutto laddove precisa come, alla crescita nella percezione della verità trasmessa nella Chiesa, concorrono sia la riflessione e lo studio dei credenti, che l’esperienza spirituale e, infine, il magistero dei vescovi (Costituzione Dei Verbum, 8)».

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mento in vista di un annuncio più trasparente del Vangelo113. Si tratta quindi di una lettura attenta dei segni dei tempi vissuta non solo a livello di singoli, ma a livello ec-clesiale114. In particolare ci pare che andrebbe valorizzata l’intuizione originaria di Giovanni XXIII sulla Chiesa madre di tutti in particolare dei poveri, dove la ‘presen-za accanto al povero’115 diviene criterio sia per la prassi che per la riflessione in ordi-ne al rapporto con il potere116.

- In questo senso ci pare molto feconda la centralità del crocifisso nella predica-zione profetica del Savonarola come criterio di discernimento e di comprensione del-la verità. Ricordiamo in proposito come una feconda corrente della riflessione teolo-gica individui nell’esistenza di Gesù di Nazareth, crocifisso e risorto, il ‘luogo’ della verità cristiana117. Tale prospettiva in cui la Chiesa viene chiamata a testimoniare nonuna verità concepita più o meno astrattamente, ma “la verità che è in Gesù” 118, sap-piamo che può avere conseguenze notevoli sul tipo di rapporto che si instaura tra la teologia e la città, soprattutto in relazione alla vigilanza sulle forme di potere quando questo assuma, palesemente o nascostamente, forme inumane e idolatriche.

- In questo senso - ma si tratta veramente solo di un accenno - si può collocare anche l’ampia attenzione, in termini quantitativi e qualitativi, che il Savonarola - in continuità con le tematiche profetiche - dà alla riforma del culto e della preghiera in ordine alla riforma della Chiesa e della città. Nella sua insistenza sull’emendazione dall’esteriorità e, quindi, sulla semplificazione della ritualità sembra di vedere un’e-semplificazione pratica della relazione tra il crocifisso, la liturgia cristiana e la vita cristiana. La semplicità della liturgia, nella suo omogeneità al Vangelo, risulta così efficace e feconda per il rinnovamento della Chiesa. Ricordiamo in proposito la ricca riflessione sulla forma eucaristica e pasquale della verità cristiana dello stesso Lafont di cui ricordiamo un passaggio significativo:

«Il memoriale della morte e della risurrezione di Gesù Cristo implica, come parte costitutiva, il memoriale di ciò che è stato compiuto nell’esistenza cristiana: il sacrifi-cio spirituale dell’uomo, cioè la sua vita nella comunione, fa parte della memoria stes-sa del sacrificio del Cristo. Insistendo su questo luogo eucaristico della verità e della conoscenza, mi sembra di riconoscere anche le esigenze di una teologia della croce. Tengo conto di tali esigenze dal momento che cerco di nominare il luogo in cui la croce è detta e presentata. La teologia della croce non è una speculazione da salotto sulla sof-

113 Cf. G. LAFONT, Immaginare la Chiesa cattolica, Cinisello Balsamo 1998.114 Cf. G. RUGGERI, La storia come luogo teologico: i segni dei tempi, in ID., La verità

crocifissa, Roma 2007, pp. 81-114.115 Cf. G. GUTIERREZ, La compagnia di Gesù col povero, in Il Regno – Attualità 2 (2007), 52-64.116 Cf. O. CLÉMENT, Il potere crocifisso, Magnano 2004.117 Cf. G. RUGGERI, La verità crocifissa, cit., pp. 25-42.118 Ef 4, 21.

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ferenza o sul negativo; essa non è neppure una pura esperienza mistica del cammino di morte vissuto da Cristo. Essa è una parola nell’elemento del racconto, con i suoi due elementi, il dire la croce e il presentarla effettivamente e, in secondo luogo, il cercare in essa un modello etico sia collettivo che personale: questo è l’eucarestia»119.

- Le implicazioni della teologia a stile profetico sono ricche anche sul piano teo-logico-spirituale. Non è un caso che Savonarola insista in diversi luoghi sull’uomo virtuoso, cioè sull’uomo capace di stare nelle contraddizioni e tensioni storiche in una maniera giusta. Si tratta di una attenzione al fatto che le motivazioni del sentire e del-l’agire di fede siano effettivamente radicate nella coscienza, in abiti virtuosi e nelle profondità «dell’uomo nascosto nel cuore»120. Come semplice esempio ricordiamo che, in uno dei suoi ultimi interventi, Giuseppe Dossetti pronunciandosi sulla crisi della presenza dei credenti nell’ambito politico esortava - in seguito ad un acuto bi-lancio storico - a una ripresa non tanto di un attivistico agire dei cristiani, quanto di una formazione lunga dell’uomo interiore e, quindi, delle coscienze in vista di una vera capacità di discernimento evangelico121.

- Ci pare infine che lo stile profetico ‘del discernimento’ potrebbe essere un aiu-to, valido e necessario, per esercitare una teologia ‘adatta’ a tempi come i nostri in cui sembra mancare una sintesi condivisa e veramente unificante i dati dell’esperienza spirituale, le molte traiettorie del vissuto, le istanze dell’insegnamento ecclesiale, i mutamenti della vita ecclesiale e civile. Questo eviterebbe di riproporre una teologia che pur custodendo un deposito veritativo rischia di non tener adeguatamente conto della dinamiche temporali e della vita nel suo ‘disordine’122.

- In proposito ricaviamo dall’insegnamento profetico del Savonarola – e di mol-te istanze della riflessione e prassi della prima modernità123 - il senso dell’urgenza della pacificazione dove traspare che il messaggio cristiano non si dà su un terreno immacolato: è spesso un ricomporre pezzi in frantumi, legami scomposti di dentro e di fuori. Alcuni autori hanno descritto in maniera acuta la nostra società, nel suo sen-tire interiore, come una società del risentimento124, dove i legami sono, per così dire, irritati e logorati da un deposito di dolore e desiderio di rivalsa. Si tratta di quella spe-cie di memoria infetta destinata ad inquinare le falde più profonde delle libertà e delle

119 Cf. G. LAFONT, Storia teologica della Chiesa, Cinisello Balsamo 1997, p. 361.120 1 Pt 3, 4.121 Cf. G. DOSSETTI, Sentinella, quanto resta della notte?, in ID., La parola e il silenzio, Bologna

1997, pp. 308-311. 122 Cf. D. GIANOTTI, Salvezza cristiana e forme del pensiero teologico, cit., pp. 34-35.123 Cf. O. NICCOLI, Perdonare. Idee, pratiche, rituali in Italia tra Cinque e Seicento, Roma

2007.124 Cf. S. TOMELLERI, La società del risentimento, Milano 2002.

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coscienze, ferite fino all’indisponibilità più netta verso qualunque coinvolgimento au-tentico e duraturo con l’altro. Quanto il risentimento sia dilagante nelle relazioni in-ternazionali come in quelle parentali e sociali credo sia sotto gli occhi di tutti 125. Mi pare che questo potrebbe essere un altro campo in cui la teologia di ‘stile profetico’, attenta cioè al senso di quello che sta avvenendo e a immettere in maniera realistica nella storia le energie di pacificazione dell’evangelo, potrebbe dare un utile contribu-to alla vita della città.

125 Cf. R. VIGNOLO, L’accompagnamento spirituale: una forma di comunione al Vangelo, in L’accompagnamento spirituale, Milano 2007, p. 38.

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