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1 IL NUOVO CONCORDATO PREVENTIVO di Mauro Vitiello Sommario I. La natura dell'istituto del concordato a seguito della riforma e dell’intervento correttivo - II. Le condizioni di ammissibilità - III. I poteri del tribunale nella fase dell’apertura della procedura e la relazione del professionista prevista dall’art. 161, 3° co. l.f. La divisione dei creditori in classi – IV. Il nuovo ruolo del giudice delegato e del commissario giudiziale – V. L’adunanza dei creditori e l'approvazione del concordato - VI. Il problema del trattamento dei creditori privilegiati –VII. I limiti del potere di controllo giurisdizionale sulla fattibilità del piano concordatario - VIII. Il giudizio di omologazione – IX. L’esecuzione del concordato: annullamento e risoluzione – X. Le conseguenze dell’arresto della procedura – XI I limiti temporali di applicazione della disciplina scaturita dal decreto legislativo n. 169/07. I. La natura dell’istituto del concordato a seguito della riforma e dell’intervento correttivo. Non v’è dubbio che la riforma del concordato preventivo, realizzata “a singhiozzo” dal legislatore con il decreto legge n. 35/05 ed il decreto legislativo n. 169/07, integri una delle parti più rilevanti ed interessanti della complessiva rivisitazione del sistema normativo delle procedure concorsuali. L’istituto è stato cambiato nei suoi aspetti più essenziali. Nel vigore della passata disciplina, il concordato preventivo era una procedura concorsuale che consentiva di evitare il fallimento all’imprenditore insolvente, che avesse determinati requisiti etici, mediante una proposta di soddisfacimento di una percentuale, non inferiore al quaranta per cento, dell’ammontare dei debiti verso il ceto creditorio chirografario e nel rispetto del principio della par condicio creditorum. Oggi l’istituto ha una più ampia funzione, che è quella di consentire all’imprenditore insolvente, ed anche a quello che sia semplicemente in difficoltà finanziaria, di proporre ai creditori una sistemazione della posizione debitoria tale da favorire la conservazione dell’attività d’impresa previo il salvataggio dell’azienda. Tale obiettivo è realizzabile non soltanto attraverso il mutamento del soggetto preposto alla gestione dell’azienda, sulla base dell’assunto che un capitale investito che non è stato remunerato a condizioni di mercato, cambiando gestore può riprendere attitudine alla remuneratività, ma altresì attraverso la ricerca ed il raggiungimento, da parte dello stesso soggetto in crisi, di un nuovo equilibrio economico-finanziario dell’impresa. Lo stesso principio della par condicio creditorum, se non completamente espunto, subisce senz’altro una decisa attenuazione, per effetto dell’introduzione dell’istituto delle classi dei creditori e dalla estensione della possibilità di dividere i creditori in gruppi omogenei ai creditori privilegiati. Resta inalterata la necessaria pregiudizialità del concordato, rispetto al fallimento, dal che deriva che il termine ultimo e preclusivo per il deposito del ricorso diretto ad ottenere l’apertura della procedura è il deposito della sentenza prevista dall’art. 16 l. fall. e che i ricorsi di fallimento presentati nel corso del concordato preventivo sono improcedibili; che inoltre la contestuale pendenza di istanze di fallimento e della domanda di concordato impone al tribunale di esaminare prima la proposta di concordato.

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IL NUOVO CONCORDATO PREVENTIVO di Mauro Vitiello

Sommario

I. La natura dell'istituto del concordato a seguito della riforma e dell’intervento correttivo - II. Le condizioni di ammissibilità - III. I poteri del tribunale nella fase dell’apertura della procedura e la relazione del professionista prevista dall’art. 161, 3° co. l.f. La divisione dei creditori in classi – IV. Il nuovo ruolo del giudice delegato e del commissario giudiziale – V. L’adunanza dei creditori e l'approvazione del concordato - VI. Il problema del trattamento dei creditori privilegiati –VII. I limiti del potere di controllo giurisdizionale sulla fattibilità del piano concordatario - VIII. Il giudizio di omologazione – IX. L’esecuzione del concordato: annullamento e risoluzione – X. Le conseguenze dell’arresto della procedura – XI I limiti temporali di applicazione della disciplina scaturita dal decreto legislativo n. 169/07.

I. La natura dell’istituto del concordato a seguito della riforma e dell’intervento correttivo. Non v’è dubbio che la riforma del concordato preventivo, realizzata “a singhiozzo” dal legislatore con il decreto legge n. 35/05 ed il decreto legislativo n. 169/07, integri una delle parti più rilevanti ed interessanti della complessiva rivisitazione del sistema normativo delle procedure concorsuali. L’istituto è stato cambiato nei suoi aspetti più essenziali. Nel vigore della passata disciplina, il concordato preventivo era una procedura concorsuale che consentiva di evitare il fallimento all’imprenditore insolvente, che avesse determinati requisiti etici, mediante una proposta di soddisfacimento di una percentuale, non inferiore al quaranta per cento, dell’ammontare dei debiti verso il ceto creditorio chirografario e nel rispetto del principio della par condicio creditorum. Oggi l’istituto ha una più ampia funzione, che è quella di consentire all’imprenditore insolvente, ed anche a quello che sia semplicemente in difficoltà finanziaria, di proporre ai creditori una sistemazione della posizione debitoria tale da favorire la conservazione dell’attività d’impresa previo il salvataggio dell’azienda. Tale obiettivo è realizzabile non soltanto attraverso il mutamento del soggetto preposto alla gestione dell’azienda, sulla base dell’assunto che un capitale investito che non è stato remunerato a condizioni di mercato, cambiando gestore può riprendere attitudine alla remuneratività, ma altresì attraverso la ricerca ed il raggiungimento, da parte dello stesso soggetto in crisi, di un nuovo equilibrio economico-finanziario dell’impresa. Lo stesso principio della par condicio creditorum, se non completamente espunto, subisce senz’altro una decisa attenuazione, per effetto dell’introduzione dell’istituto delle classi dei creditori e dalla estensione della possibilità di dividere i creditori in gruppi omogenei ai creditori privilegiati. Resta inalterata la necessaria pregiudizialità del concordato, rispetto al fallimento, dal che deriva che il termine ultimo e preclusivo per il deposito del ricorso diretto ad ottenere l’apertura della procedura è il deposito della sentenza prevista dall’art. 16 l. fall. e che i ricorsi di fallimento presentati nel corso del concordato preventivo sono improcedibili; che inoltre la contestuale pendenza di istanze di fallimento e della domanda di concordato impone al tribunale di esaminare prima la proposta di concordato.

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Da sempre l’istituto viene definito “beneficio”, per gli effetti favorevoli assicurati all’imprenditore-debitore che abbia i requisiti, quello soggettivo e quello oggettivo, di ammissibilità al concordato. I cardini su cui poggia tale regime di favore sono l’effetto protettivo e quello esdebitativo, accompagnati dal mantenimento, da parte del debitore, della disponibilità del patrimonio e dell’amministrazione dell’impresa. L’effetto protettivo si realizza con la previsione secondo cui dal momento del deposito del ricorso diretto ad ottenere l’ammissione al concordato non sono più proponibili, da parte dei creditori, ricorsi diretti ad ottenere misure cautelari sul patrimonio del debitore, nè azioni esecutive individuali nei confronti di quest'ultimo. L’effetto esdebitativo comporta che il buon esito della procedura, cioè l’omologazione giudiziale del concordato, esclude la possibilità, per i creditori con titolo anteriore all’apertura della procedura, di agire per il recupero della quota del loro credito rimasta non soddisfatta in base al proposta concordataria omologata, salvo il caso in cui il concordato venga risolto od annullato. La disponibilità del patrimonio e l’amministrazione dell’impresa sono condizionate al potere di controllo del commissario giudiziale, mentre è venuto meno, a seguito della riforma di tutto il sistema delle procedure concorsuali, il potere direttivo del giudice delegato anche se, in contraddizione con la riduzione dell’area dell’intervento giurisdizionale, è stata mantenuta la necessità, per l’imprenditore in concordato, di porre in essere gli atti di straordinaria amministrazione opponibili alla massa dei creditori concorsuali soltanto previa autorizzazione del giudice delegato (art. 167, 2° co. l. fall.). Le conseguenze complessive delle modifiche scaturite dalla nuova disciplina si riverberano decisamente sulla intrinseca natura giuridica dell’istituto. Da sempre si discute se il concordato sia un contratto tra il debitore e massa dei creditori (teoria contrattualistica, o privatistica) o un procedimento diretto a consentire la sistemazione dell’esposizione debitoria mediante il controllo esercitato dall’autorità giurisdizionale (teoria processualistica, o pubblicistica). Oggi è senz’altro possibile aderire alla tesi che considera il concordato preventivo un contratto tra debitore e creditori, e ciò a causa della significativa riduzione dei poteri di intervento del tribunale, e quindi dell’aspetto pubblicistico, e dell'espresso richiamo che la normativa opera ai principi civilistici dettati nella materia delle obbligazioni da contratto (art. 186 l. fall., come riformulato dal decreto legislativo n. 169/07). Nell’esame complessivo della novella, peraltro, è necessario compiere uno sforzo interpretativo aggravato da una tecnica legislativa che, nel primo intervento, si è limitata a riformare sei articoli della legge fallimentare (il 160, 161, 163, 177, 180 e 181), non coordinando la radicale riformulazione dei detti sei articoli di legge con tutte le altre norme, rimaste intonse, e in quanto tali ancorate alla natura ed alla funzione dell’istituto dipendenti dalla previgente disciplina. L’intervento correttivo del 2007 ha parzialmente risolto i problemi originati dalle imprecisioni del legislatore del 2005, recependo nella sostanza le soluzioni cui buona parte della giurisprudenza era già pervenuta, nel risolvere le questioni interpretative più spinose. Come si vedrà, la disciplina che scaturisce dal decreto legislativo n. 169 del 12 settembre 2007, integra un deciso passo in avanti verso un sistema maggiormente coerente e logico, in linea con il principio di privatizzazione che ha ispirato la complessiva riforma delle procedure concorsuali, ma che non esclude un controllo giurisdizionale significativo da parte del tribunale.

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II. Le condizioni di ammissibilità. L’accentuazione della natura negoziale del concordato è evidente già nella prima delle tre fasi in cui è possibile suddividere la procedura concorsuale, quella dell’ammissione o, come sembra più corretto dire, dell’apertura. Per consentire un aumento ponderoso del novero dei soggetti ammessi a fruire del beneficio del concordato, la riforma elimina tutte le condizioni di ammissibilità che sotto il vigore della precedente legge attenevano a qualità soggettive del debitore, cioè l’iscrizione al registro delle imprese da almeno un biennio, l’assenza di procedure concorsuali collegate all’insolvenza nei cinque anni antecedenti, la mancanza di condanne per reati fallimentari o contro il patrimonio, la fede pubblica, l’economia pubblica, l’industria e il commercio. Le novità introdotte con riguardo all’elemento soggettivo legittimano alla presentazione della domanda di concordato qualunque imprenditore che non sia sottratto alle procedure concorsuali, perché privo dei requisiti dimensionali risultanti dal testo di cui all’art. 1 l. fall., indipendentemente dalla sua condotta anteatta e da qualsivoglia aspetto, formale e sostanziale, attinente alla sua moralità. Il nuovo testo dell’art. 180 l. fall., inoltre, non contempla il requisito della “meritevolezza”, della cui sussistenza il tribunale si preoccupava, in via di prassi, già nella fase dell’ammissione al concordato e non soltanto all’esito del giudizio di omologazione. Da ciò va desunto, non soltanto che oggi il concordato non è più quello che una volta veniva definito: la procedura dell’imprenditore “onesto ma sfortunato”, ma altresì che non ha più ragion d’essere il parere del pubblico ministero, cui ora la domanda va semplicemente comunicata, secondo quanto previsto dal quinto comma dell’art. 161 l. fall. La previsione dell'obbligo della mera comunicazione della domanda al p.m. integra una scelta intermedia, da parte del legislatore del correttivo, tra la tesi che sosteneva la sopravvivenza dell'obbligo di acquisire il parere del p.m., stante che l'art. 162 l. fall. era rimasto inalterato dopo il d.l. n. 35/05, e quella opposta che muoveva dall'abrogazione implicita della norma di cui al'art. 162, abrogazione riconducibile alla scomparsa di tutte le condizioni di ammissibilità inerenti a requisti di natura etica del debitore. Vien ora da chiedersi quale sia la ratio del previsto obbligo di comunicazione al p.m. della domanda di concordato. La risposta immediata è che il legislatore vuole garantire la possibilità che il p.m. intervenga nella fase dell'apertura del concordato, per consentirgli l'interlocuzione in merito alla sussistenza dei presupposti di ammissibilità della procedura. In tale ottica, deve ritenersi ammissibile che l'organo inquirente svolga sue indagini, le cui risultanze potranno ben essere palesate al tribunale per invocare l'eventuale decreto di inammissibilità della domanda. Viene altresì eliminata la condizione di ammissibilità integrata dall’impegno, da un lato a pagare integralmente i creditori assistiti da una causa di prelazione, dall’altro a garantire il soddisfacimento del ceto creditorio chirografario nella percentuale minima del 40%, per cui oggi il contenuto del cd. piano concordatario è svincolato da tali requisiti minimi di soddisfacimento. Non solo, il contenuto del piano concordatario, che prima poteva assumere le caratteristiche di due sole tipologie: la cessione dei beni e la garanzia, diviene atipico, dal momento che viene previsto che il piano possa prevedere: “la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo, o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l’attribuzione ai

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creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote, ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni o altri strumenti finanziari o titoli di debito”. Sotto questo profilo va considerato estremamente significativo che la norma non si riferisca al pagamento dei debiti, ma alla ristrutturazione dei debiti stessi ed al soddisfacimento dei creditori sotto qualsiasi forma. Rispetto a questo rilievo, va tuttavia riscontrato come l’esperienza di questi primi anni di applicazione del nuovo istituto abbia disatteso le potenzialità insite nella novella, posto che la stragrande maggioranza delle proposte concordatarie ricalcano il modello “classico” della cessio bonorum, quando addirittura non integrano altro che una proposta di prosecuzione della liquidazione già in corso, accompagnata dai benefici offerti dall’istituto concordatario. La novella introduce espressamente la figura dell’assuntore del concordato (art. 160, comma 1, lett. b) l. fall.), cioè di colui che si impegna al soddisfacimento del ceto creditorio a fronte dell’acquisizione dell’attivo del debitore, così recependo una soluzione di frequente adozione, specie nel concordato fallimentare, nel vigore della precedente disciplina, che tuttavia non la prevedeva espressamente. Il legislatore precisa che “possono costituirsi come assuntori anche i creditori o società da questi partecipate o da costituire nel corso della procedura, le azioni delle quali siano destinate ad essere attribuite ai creditori per effetto del concordato”. Ma il favor del legislatore per la soluzione concordataria va ravvisato soprattutto nel mutamento del presupposto oggettivo del concordato, che non è più lo stato di insolvenza, ma lo stato di crisi, laddove per crisi deve intendersi non soltanto l’incapacità di adempiere alle proprie obbligazioni (lo stato di insolvenza, appunto) ma anche una situazione di difficoltà o di tensione finanziaria, meno grave della decozione, o ancora una condizione di insolvenza che possa essere non definitiva e reversibile. In un ottica di favor per l’applicazione del nuovo istituto, e di salvaguardia dei valori aziendali e dell’attività di impresa, il legislatore garantisce quindi i benefici dell’effetto protettivo e dell’esdebitazione anche a colui che non sia ancora insolvente, ma semplicemente rischi di divenirlo. Nello stato di crisi rientrano quindi diverse situazioni, che si estendono dall'insolvenza vera e propria sino all'insolvenza reversibile ed alla semplice tensione finanziaria, cioè a quella difficoltà nell'adempimento dei propri debiti che preluda, o rischi di preludere, al dissesto. Prima dell’intervento risolutivo del legislatore, settori minoritari della dottrina ed alcune pronunce (tribunale di Treviso, decreto 22 luglio 05; tribunale di Alessandria, decreto 9 giugno 05) dissentivano sul fatto che la crisi potesse ricomprendere l’insolvenza, identificandola esclusivamente in una condizione meno grave del dissesto; conseguentemente riservavano la possibilità di accedere al concordato ai soli imprenditori che si trovassero in uno stato di difficoltà finanziaria temporanea e reversibile. La tesi finiva per prospettare una diversità netta dei presupposti oggettivi di concordato e fallimento, con conseguente assoluta alternatività delle due procedure, potendo forse trarre sostegno argomentativo dall’abrogazione dell’amministrazione controllata; di qui la possibile individuazione di una nuova fisionomia del presupposto del concordato, del tutto distinta dalla vecchia nozione dell’insolvenza. Tuttavia tale opinione non pareva compatibile con la ratio ispiratrice della riforma del concordato preventivo, che è quella di consentirne l’accesso ad un più ampio novero di soggetti, in un ottica di salvaguardia dei valori aziendali e dell’attività di impresa, garantendo i benefici dell’effetto protettivo e dell’esdebitazione, oltre che

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all’imprenditore che non sia ancora insolvente, anche a colui che sia in stato di dissesto conclamato. A chiarire ogni possibile incertezza è intervenuto l’art. 36 del decreto legge 22.12.06 (cd. decreto milleproroghe), secondo cui al testo vigente dell’art. 160 l.f. va aggiunto: “Ai fini di cui al primo comma per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”. Tenuto conto di ciò, è palese che il problema della definizione concettuale dello stato di crisi è oggi soltanto quello derivante dalla mancata definizione, da parte della normativa, della soglia di ingresso nella crisi, non essendo dettato alcun criterio che consenta di stabilire quando l'imprenditore possa essere legittimato a chiedere l'ammissione al beneficio del concordato. Tirando le fila del discorso, va evidenziato pertanto che i presupposti sostanziali per l’ammissione alla procedura sono oggi soltanto tre: lo stato di crisi, così come definito dall’ultimo comma dell’art. 160 l. fall.; la qualifica soggettiva di imprenditore commerciale (e quindi non agricolo) assoggettabile a fallimento, così come desumibile dal nuovo testo dell’art. 1 l. fall.; infine la presentazione di un piano concordatario, connotato dalla sua concreta fattibilità. La tesi secondo cui il terzo requisito sarebbe integrato dalla mera presentazione di un piano concordatario, non connotato intrinsecamente dalla fattibilità, ma la cui fattibilità sia semplicemente attestata, deve considerarsi ormai superata, tanto più, come vedremo, a seguito della disciplina scaturita dal decreto cd. correttivo. Il presupposto soggettivo è evidentemente condizionato dai nuovi requisiti dimensionali desumibili dall’art. 1 l. fall., così come radicalmente modificato dal decreto n. 169/07. L'art. 1 scaturito dal decreto correttivo continua ad escludere dall’assoggettabilità alle procedure concorsuali, oltre agli enti pubblici, l’imprenditore agricolo, con una scelta di politica legislativa che da più parti viene considerata espressione di una concezione non rispondente alla realtà economico-finanziaria di molte imprese agricole. Il testo così recita: “Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti: a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trececentomila; b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data del deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila; c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila”.

La prima novità è la voluta eliminazione di ogni riferimento al piccolo imprenditore: la norma si riferisce alla nozione di imprenditore non assoggettabile al fallimento e al concordato preventivo, proprio per escludere ogni possibilità che la nozione di imprenditore non assoggettabile alle procedure concorsuali sia contaminata da riferimenti alla nozione civilistica, derivante dall'art. 2083 c.c., di piccolo imprenditore.

Inoltre condiziona la non assoggettabilità a fallimento e a concordato preventivo alla compresenza di tre requisiti. Il primo è che l'attivo patrimoniale del bilancio degli ultimi tre esercizi non sia mai stato superiore alla soglia dei trecentomila euro. Il secondo è che i ricavi lordi degli ultimi tre esercizi non siano mai stati superiori ai duecentomila euro.

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Il terzo è che l'esposizione debitoria complessiva, comprensiva dei debiti non scaduti, non sia superiore ai cinquecentomila euro. Così facendo i legislatore contemporaneamente chiarisce: -che gli investimenti in azienda, per usare la nozione di cui all’art. 1 nel testo antecedente, sono desumibili dall'attivo dello stato patrimoniale del bilancio d'esercizio: dovrà quindi tenersi conto anche delle voci dell'attivo che prima non venivano considerate, quali i ratei e risconti, e di quelle su cui c'era controversia, cioè quelle che compongono l’attivo circolante; -che l'orizzonte temporale utile per la valutazione dell'attivo è quello desumibile dagli ultimi tre esercizi, così come previsto a proposito dei ricavi lordi; -che va fatto riferimento agli ultimi tre esercizi e non agli ultimi tre anni di vita della società. Rispetto alla precedente disciplina integrano profili innovativi la previsione che i ricavi non debbano mai aver superato il limite dei duecentomila euro (sparisce cioè il riferimento alla media ponderata degli ultimi tre anni), e l'introduzione di un terzo criterio, quello dell'esposizione debitoria complessiva. Quanto al terzo requisito di ammissibilità, va detto che l’adesione alla tesi secondo cui esso consisterebbe nella fattibilità del piano, e non a quella secondo cui detto presupposto sarebbe integrato dalla mera attestazione di fattibilità, condiziona le soluzioni offerte da dottrina e giurisprudenza quanto ad una serie di questioni inerenti alle successive fasi del procedimento e, in particolare, quanto all’estensione dei poteri da riconoscere al tribunale fallimentare nelle varie fasi della procedura. A favore della prima delle due tesi va considerato il tenore letterale del nuovo art. 161 l. fall. che, pur espropriando all’autorità giurisdizionale ogni possibile valutazione sul merito della proposta e devolvendo tale valutazione al professionista nominato dall’imprenditore ricorrente stesso, conferma che l’ammissibilità della domanda sia condizionata anche all’attuabilità della proposta concordataria nei termini in cui essa viene prospettata. Del resto, ove si ritenesse sufficiente, ai fini dell’ammissibilità della domanda concordataria, la presentazione di un qualsiasi piano, anche non connotato dal requisito della sua concreta attuabilità, si perverrebbe ad una abrogazione di fatto dell’art. 173, comma 2 l. fall., che come noto prescrive l’obbligo di dichiarare il fallimento “…se in qualunque momento risulta che mancano le condizioni prescritte per l’ammissibilità del concordato”. In realtà, già prima dell’intervento chiarificatore del “correttivo”, era prevalente la tesi secondo cui fosse doveroso ritenere che tra le condizioni prescritte per l’ammissibilità del concordato rientrasse anche l’attuabilità del piano nei termini esatti in cui è stato proposto, e ciò per non privare, nelle fasi successive all’apertura della procedura, di funzione alcuna il commissario giudiziale e, in via mediata, il tribunale; di qui la conclusione che nel momento in cui il commissario giudiziale avesse avuto certezza dell’impossibilità di soddisfare i creditori alle condizioni di cui al piano concordatario, avrebbe dovuto riferirne al tribunale per i provvedimenti conseguenti. Che poi tra i provvedimenti conseguenti non vi sia necessariamente la dichiarazione di fallimento è novità (di non poco conto) derivante dal visto mutamento del presupposto oggettivo, oggi integrato dallo stato di crisi, come detto non necessariamente coincidente con lo stato di insolvenza. La scelta del legislatore di estendere l’area dei soggetti legittimati a presentare ricorso per l’ammissione al beneficio del concordato preventivo, comprendendovi anche chi non sia insolvente, ma soltanto in difficoltà finanziaria, comporta quindi che nell’ipotesi in cui dovessero realizzarsi le premesse per l’arresto della procedura, secondo quanto

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prescritto dall’art. 173, comma 2 l. fall., la dichiarazione di fallimento interverrà soltanto nel caso di accertata insolvenza dell’imprenditore in concordato. Il mutamento del presupposto oggettivo del concordato ha infatti messo in crisi l’automatismo: arresto della procedura – dichiarazione di fallimento, automatismo che sotto il vigore della disciplina previgente era uno dei cardini sui quali si fondava la cd. consecuzione delle procedure. L’art. 161 l. fall. prevede invece le condizioni di ammissibilità formali, cioè che la domanda vada formulata con ricorso sottoscritto dal debitore al tribunale territorialmente competente e che ad essa siano allegati una serie di documenti la cui presenza è prescritta a pena di inammissibilità, secondo il chiaro testo di cui all’art. 162, comma 2 l. fall. Tali documenti sono una aggiornata situazione economico-patrimoniale-finanziaria, lo stato analitico ed estimativo delle attività, l’elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione, l’elenco di titolari di diritti reali o personali sui beni di proprietà o in possesso del debitore, il valore dei beni e i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente responsabili. Non v’è dubbio, peraltro, che il requisito formale più rilevante sia rappresentato dalla relazione prevista dall’art. 161, 3° co. l. fall., la cui presenza integra un necessario presupposto di regolarità della domanda. III. I poteri del tribunale nella fase dell’apertura della procedura e la relazione del professionista prevista dall’art. 161 3° co. l. fall. La divisione dei creditori in classi. Strettamente funzionale all’esame dei poteri riservati al tribunale nella fase dell’apertura del concordato è l’evidenziazione dell’altra grande novità introdotta dalla novella: la possibilità di costruire la domanda di concordato con la suddivisione dei creditori in classi (art. 160, 1° co. lett. c). Riprendendo un istituto di derivazione nordamericana, recepito di recente dalla variante “Parmalat” della procedura dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, il legislatore ammette che il debitore possa dividere i creditori in diversi gruppi, denominati “classi”, rispettando un criterio di omogeneità di posizione giuridica e di interessi economici degli appartenenti a ciascuna delle classi. La funzione delle classi è quella di consentire al debitore di prevedere trattamenti differenziati tra i creditori appartenenti a classi diverse, con il solo limite di garantire una parità di trattamento ai creditori appartenenti alla stessa classe. Già lo schema del d.d.l. di riforma delle procedure concorsuali elaborato dalla Commissione istituita con d.m. 27.2.04 dal Ministro della Giustizia di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, nel disciplinare la procedura della “composizione concordata della crisi” precisava che nella formazione delle classi si sarebbe potuto tener conto “…dell’oggetto delle obbligazioni assunte dal debitore; dell’entità del credito; dell’estraneità o partecipazione del creditore al rischio oggettivamente connesso alle attività d’impresa; infine del carattere privilegiato o chirografario del credito…” Recependo questo nuovo istituto, il legislatore della riforma introduce un’attenuazione del tradizionale e fondamentale principio della par condicio creditorum, sempre nell’ottica di favorire il più possibile una definizione della crisi dell’impresa fondata su un accordo tra debitore e suoi creditori. E’ soltanto nell’ipotesi in cui il debitore presenti una domanda di concordato con una suddivisione in più classi è prevista, nella fase dell’apertura della procedura, una valutazione del tribunale che vada al di là della verifica dell'esistenza dei presupposti del concordato, nonchè della regolarità e completezza della documentazione, essendo

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prescritto che l’organo giurisdizionale collegiale debba valutare la correttezza dei criteri di formazione delle diverse classi. Tale controllo ha la precipua funzione di garantire il rispetto, da parte dell’imprenditore in crisi, del principio che subordina l’inserimento in una stessa classe all’esistenza dell’omogeneità della posizione giuridica e/o degli interessi economici dei creditori, così evitando il pericolo che la composizione delle classi sia funzionale esclusivamente a facilitare il raggiungimento della soglia di maggioranza richiesta per l’approvazione della proposta concordataria da parte dei creditori ammessi al voto. Nell'esercizio del potere di controllo sulla correttezza dei criteri in ossequio ai quali il debitore ha costruito la proposta concordataria in classi, il tribunale deve seguire criteri di valutazione che necessariamente saranno ancorati alle peculiarità della fattispecie, il che esclude che nella materia in questione sia possibile l'enucleazione di principi generali. Se, per esempio, il criterio generale secondo cui la classe deve essere composta da almeno due creditori sembra corretto, per la necessità che l'omogeneità degli interessi economici e della posizione giuridica sia riferita a più di un creditore, tale criterio viene messo in crisi nell'ipotesi in cui il debitore offra il soddisfacimento in percentuale all’unico privilegiato ipotecario per l'incapienza del bene gravato dall'ipoteca. Altro problema che la prassi di questi primi anni di applicazione della nuova normativa ha fatto emergere è l’ammissibilità della formazione di una classe comprensiva dei creditori cd. strategici, opposta a quella dei creditori non strategici. Anche in tali casi la legittimità della costruzione e della composizione delle classi non potrà che essere verificata, di volta in volta, se non con riguardo alle caratteristiche del caso concreto. Come detto, resta fermo che al tribunale compete il controllo in merito alla sussistenza dei presupposti sostanziali della qualifica di imprenditore assoggettabile alle procedure concorsuali, dello stato di crisi e della fattibilità del piano concordatario. Il legislatore vuole tuttavia che le valutazioni attinenti all’attendibilità della contabilità (“veridicità dei dati aziendali”) e all’attuabilità concreta del piano nei termini esatti in cui è stato proposto (“fattibilità del piano”) siano devolute ad un professionista avente i requisiti formali previsti dall’art. 67, terzo comma, lettera d) l. fall., in possesso quindi, oltre che dei requisiti di cui all’art. 28 lett. a) e b) l. fall. (iscrizione agli albi degli avvocati, dei dottori e dei ragionieri commercialisti; studi professionali associati o società di professionisti) dell’iscrizione nel registro dei revisori contabili. I commentatori concordano sul fatto che a tale figura non possa riconoscersi qualifica di pubblico ufficiale. Come tale relazione debba essere redatta e quali effetti debbano derivare dall’accertata inidoneità della relazione sono problemi aperti, aggravati dalla laconicità delle previsione legislativa e dalla mancata costruzione di un apparato sanzionatorio per il caso di acclarata non veridicità della relazione stessa. Non v’è dubbio, peraltro, che il professionista incaricato di redigere la relazione debba avere una posizione di autonomia ed indipendenza rispetto all’imprenditore che presenta il piano concordatario e quindi non possa essere il medesimo professionista che assiste l'imprenditore nella procedura. In attesa che venga introdotta l'indispensabile ed auspicata fattispecie di reato delle false attestazioni da parte dei professionisti previsti dall'art. 161, terzo comma e 160, secondo comma, l. fall., quindi, tale figura deve ritenersi ancorata, nello svolgimento delle sue delicate funzioni, alle regole della responsabilità contrattuale, nei confronti dell’imprenditore che lo abbia incaricato e che risulti danneggiato dall'inadempimento o

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cattivo adempimento dell'incarico, e a quelle della responsabilità extracontrattuale nei confronti della massa dei creditori. I creditori per titolo anteriore alla presentazione della domanda potranno lamentare, ad esempio, la determinazione o concausazione da parte del professionista di una ritardata dichiarazione di fallimento, con eventuale conseguente perdita della possibilità di esperire azioni revocatorie. I creditori con titolo successivo alla apertura della procedura di concordato, diversamente, potranno imputare al professionista di aver leso la loro libertà contrattuale, per averli indotti a dare fiducia all'imprenditore in crisi, con lui contraendo obbligazioni che, in mancanza della relazione attestatrice, e della conseguente apertura del concordato, non sarebbero state contratte. Pertanto, il ricorso per l’ammissione al beneficio del concordato dovrà essere dichiarato inammissibile, oltre che nell’ipotesi di incompletezza della documentazione che deve accompagnare il ricorso (situazione economico-patrimoniale e finanziaria aggiornata; elenco dei creditori e delle cause di prelazione; elenco dei beni integranti il patrimonio dell’impresa) e di deposito di una relazione accompagnatoria negativa quanto alla veridicità dei dati aziendali ed alla fattibilità del piano, nei casi in cui dovesse essere ravvisata la mancanza del presupposto soggettivo o oggettivo e una non corretta formazione delle diverse classi dei creditori. Più difficile è stabilire quali possano essere le conseguenze giuridiche di una valutazione negativa, da parte del tribunale, quanto all’idoneità della relazione del professionista prevista dall’art. 161 comma terzo l. fall. (perché incoerente, illogica, immotivata). La soluzione che pare preferibile rispetto a quella, più radicale, che prospetta la possibilità, per il tribunale, di dichiarare inammissibile il ricorso de plano, è quella di riservare l’esame della domanda di concordato all’avvenuta integrazione, o sostituzione, della relazione, in modo da garantire che il documento abbia quei requisiti minimi di completezza, coerenza ed attendibilità che deve ritenersi siano insiti nella funzione attestatrice conferitagli dal legislatore. Sembra quindi più equilibrata la soluzione di riservare al tribunale, nella fase iniziale del concordato, un potere-dovere di indirizzare il ricorrente verso una domanda correttamente formulata, completa degli allegati richiesti dalla normativa, e verso una proposta attuabile, attivando i classici poteri consultivi e di guida che l’organo giurisdizionale si riconosce nell’istruttoria della domanda di concordato. Allo stesso modo deve ritenersi ammissibile che il tribunale non si accontenti di una relazione attestativa inidonea, e possa chiedere che essa si sviluppi diversamente, per esempio con l’analitica indicazione del tipo di controlli effettuati sulla contabilità e delle verifiche fatte per attestare la fattibilità del piano. A seguito dell’infruttuosa attivazione del visto potere di indirizzo, potrà essere disposto l’arresto della procedura, per la carenza del requisito di ammissibilità integrato dalla fattibilità del piano concordatario o per la mancanza di uno dei presupposti formali. Del resto, in tal senso depone la norma secondo cui “Il tribunale può concedere al debitore un termine non superiore a quindici giorni per apportare integrazioni al piano e produrre nuovi documenti” (art. 162, comma primo l. fall.) Naturalmente la prospettiva si ribalta ove si acceda alla diversa tesi che rifiuta di riconoscere al tribunale il potere di dichiarare la non ammissibilità del ricorso di concordato sulla base di un’autonoma possibilità di contestare la fattibilità del piano, a prescindere dal contenuto della relazione attestatrice. Come detto, tale tesi deve considerarsi superata a seguito dell'intervento legislativo correttivo, che ha finito per recepire le decisioni dei tribunali che asserivano il principio

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secondo cui l’organo giurisdizionale ha sempre il dovere di valutare autonomamente la fattibilità del piano, non soltanto nella fase del concordato compresa tra il decreto di ammissione e l’approvazione e, più avanti, in sede di omologazione, ma altresì, a monte, al momento dell’apertura della procedura. In passato, i tribunali hanno frequentemente ritenuto di poter bocciare i piani concordatari, con conseguentemente dichiarazione di fallimento (accertato lo stato di dissesto), all’esito di una valutazione negativa sull’attuabilità del piano, nonostante la presenza di una relazione positiva in merito al requisito della fattibilità. Il principio ispiratore di queste pronunce era che la riforma non avesse precluso una valutazione giurisdizionale sul merito della proposta, e quindi sulla fattibilità del piano concordatario, valutazione la cui doverosità discenderebbe dalla natura e molteplicità degli interessi coinvolti nella crisi dell’impresa. Il nuovo testo dell'art. 162 l. fall., nella misura in cui chiarisce che “il tribunale, se all'esito del procedimento verifica che non ricorrono i presupposti di cui agli artt. 160, commi primo e secondo e 161.... dichiara inammissibile la proposta di concordato” chiarisce definitivamente che il principio che riconosce in capo al tribunale un autonomo potere di controllo sulla fattibilità del piano deve essere affermato. Non v'è dubbio, peraltro, che in concreto la possibilità che il tribunale non ammetta il ricorrente al concordato resti limitata: -ai casi in cui l'inammissibilità per la non fattibilità del piano sia eclatante, in quanto emergente dalla sola lettura del piano, o della documentazione che ad esso, ex art. 161 l. fall., deve essere allegata; -ai casi di palese inidoneità della relazione ad integrare una seria attestazione di fattibilità. IV. Il nuovo ruolo del giudice delegato e del commissario giudiziale. La disciplina introdotta dal d.l. n. 35/05 convertito in legge dalla l. n. 80/05 depotenzia, in termini di principio, le funzioni del giudice delegato. In generale, la perdita da parte sua della “direzione della procedura”, desumibile dal nuovo testo del primo comma dell’art. 167 l.f., va considerata una conseguenza, se anche non condivisibile, comunque coerente con le sue nuove prerogative nella procedura del fallimento: il giudice delegato è infatti divenuto organo di mero controllo, per di più con un controllo che deve inerire essenzialmente alla regolarità della procedura, e non all’opportunità ed al merito della gestione della curatela, profili questi ultimi che nel nuovo sistema vengono devoluti alla competenza del comitato dei creditori. Va tuttavia detto che nel concordato preventivo l’eliminazione della funzione di dirigere l’amministrazione del patrimonio e l’esercizio dell’impresa del debitore pare una novità priva di rilievo sostanziale. E’ infatti rimasta la necessità che l’imprenditore in concordato chieda ed ottenga l’autorizzazione del giudice delegato per porre in essere gli atti di amministrazione straordinaria, a pena di inefficacia degli stessi rispetto ai creditori anteriori al concordato. Non v’è dubbio che tale potere autorizzativo integri l’essenza del potere di intervento dell’organo giurisdizionale nella procedura, cosicché la permanenza dello stesso, pur ponendosi in contraddizione logica con l’eliminazione del potere direttivo, di fatto finisce per riproporlo inalterato. Certamente il giudice delegato non è più l’organo che accerta il raggiungimento o meno della maggioranza prevista per l’approvazione della proposta concordataria, dal momento che l’accertamento sarà contestuale al provvedimento, di natura collegiale, di

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fissazione dell’udienza per l’omologazione o, per la diversa ipotesi di mancato raggiungimento della maggioranza, di arresto della procedura. Inoltre, il giudice delegato non istruisce più il giudizio finalizzato all’omologazione del concordato, in conseguenza della riforma radicale del procedimento di omologazione, che passa dal modello tipico della causa ordinaria, destinata a sfociare in una sentenza di omologazione o di rigetto della domanda di omologazione, a quello del procedimento in camera di consiglio avanti al tribunale, il cui provvedimento conclusivo è un decreto collegiale, reclamabile avanti alla corte d’appello. Trattasi tuttavia di novità che non intaccano la sostanza delle prerogative del g.d., che inoltre continua ad essere l’interlocutore dell’organo di vigilanza, cioè del commissario giudiziale, per tutte le determinazioni di quest’ultimo. Il giudice delegato governa l’adunanza dei creditori finalizzata alla raccolta dei voti e al raggiungimento della maggioranza per l’approvazione. L’adunanza costituisce la sede naturale per garantire la piena e corretta informazione ai creditori in merito ai contenuti, alla serietà ed alla fattibilità della proposta concordataria. In quanto tale, integra un momento cruciale della procedura, tanto più in considerazione della natura accentuatamente negoziale dell’istituto. Anche le funzioni del commissario giudiziale vanno riviste alla luce della normativa del decreto n. 169/07. Non v'è dubbio che la norma fondamentale, sul tema, sia l’art. 173, ultimo comma l. fall., secondo cui le disposizioni di cui al secondo comma, che prevedono l'arresto della procedura e la conseguente apertura del procedimento di cui all'art. 15, finalizzato a dichiarare il fallimento, “si applicano anche se il debitore durante la procedura di concordato compie atti non autorizzati a norma dell'articolo 167 o comunque diretti a frodare le ragioni dei creditori, o se in qualunque momento risulta che mancano le condizioni prescritte per l'ammissibilità del concordato”. Il decreto correttivo ha spazzato via definitivamente la tesi di coloro che, a proposito della norma previgente, dal contenuto analogo, parlavano di implicita abrogazione, in ossequio ad una visione privatizzata dell'istituto portata all'estremo. In realtà, se il legislatore del correttivo ha riformulato l'art. 173 mantenendone nella sostanza inalterato il contenuto, la conclusione che se ne trae è la doverosità, da parte del commissario, del controllo giurisdizionale sulla fattibilità del piano in qualunque momento della procedura, e quindi sia nella fase della approvazione, sia in quella, successiva, dell'omologazione. Con riguardo più specifico alla fase dell’approvazione, va rilevato che il potere di controllo del commissario si pone in una linea di continuità logica, oltre che temporale, con gli accertamenti che nella fase dell'apertura sono devoluti al professionista incaricato di redigere la relazione di cui all'art. 161, terzo comma l. fall., finendo per rappresentare il necessario presupposto per l'esercizio del potere di verifica sulla fattibilità del piano che continua a caratterizzare quella funzione di controllo giurisdizionale intesa ad evitare, nell’interesse del creditori, che sia loro consentito di votare su una proposta non attuabile. Sotto questo profilo, è auspicabile che eventuali elementi di criticità evidenziati dal professionista nella sua relazione attestatrice costituiscano l'ideale punto di partenza per gli accertamenti di competenza del commissario. Anche con riferimento alla fase dell'approvazione, peraltro, come per la fase iniziale dell'apertura, all'affermazione del principio che riconosce al tribunale il potere-dovere di arrestare il corso della procedura in tutte le ipotesi in cui sia mancante l'attuabilità del piano concordatario, corrisponde una limitazione in concreto delle possibilità di dare

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applicazione al principio e ciò, come si vedrà, per ragioni strettamente dipendenti dalla possibilità che il debitore riformuli la sua proposta in termini peggiorativi. Già prima del decreto correttivo era parso chiaro che l’eliminazione del necessario impegno, da parte del debitore, di soddisfare il ceto creditorio chirografario nella misura minima del 40% rendesse legittima la riformulazione del piano concordatario in senso peggiorativo rispetto alla proposta iniziale. Si riteneva che una nuova formulazione della proposta, in peius, potesse essere indotta dal tribunale nel corso dell’istruttoria della domanda, prima della pronuncia di apertura della procedura, ove venisse operata una valutazione secondo cui il piano prospettato fosse di difficile attuazione e che il requisito della fallibilità potesse sussistere con riguardo ad un piano concordatario meno favorevole per i creditori. Analogamente tale possibilità veniva riconosciuta dalla giurisprudenza e da parte dei commentatori nella fase successiva del concordato, ad apertura già intervenuta. Oggi la normativa riconosce espressamente la possibilità di mutare il piano concordatario, e ciò anche una volta intervenuto il decreto di apertura, dal momento che l’art. 175, co. 2° l. fall. scaturito dal decreto correttivo prevede che “la proposta di concordato non può più essere modificata dopo l’inizio delle operazioni di voto”. Opportunamente tale possibilità è stata esclusa per le fasi successive, per evitare iniziative del debitore potenzialmente non corrette e che finirebbero per appesantire i tempi di definizione della procedura (così la relazione illustrativa al decreto legislativo correttivo in vigore dal 1° gennaio 2008). In ogni caso, pur nel rispetto, da parte del debitore in concordato, del termine ultimo di cui all’art. 175, 2° co. l. fall., il tribunale manterrà comunque il potere-dovere di valutare se la nuova proposta sia connotata dal requisito della serietà e non risponda ad una condotta meramente dilatoria, intesa a ritardare la dichiarazione di fallimento. Nella diversa ipotesi, invero più rara, in cui la modifica della proposta comporti un miglioramento delle condizioni offerte ai creditori, è lecito il dubbio se sia operativo il limite temporale di cui all’art. 175, 2° comma l. fall. Nulla infatti sembrerebbe ostare ad un miglioramento successivo all’inizio delle operazioni di voto, se non il tenore letterale della norma, quando la proposta riceva l’approvazione dei creditori. Sembra quindi corretto riferire lo sbarramento temporale alla sola ipotesi in cui la proposta concordataria risulti non approvata dai creditori. Sotto questo profilo l’introduzione della norma in esame contribuisce a fare chiarezza, dal momento che con la riforma del 2005 è venuta meno la condizione di ammissibilità integrata dalla circostanza di non essere stati ammessi al concordato nel quinquennio precedente, condizione che impediva, appunto, la riformulazione della proposta, dopo la mancata approvazione della stessa. Tornando più specificatamente alle funzioni e prerogative del commissario giudiziale, va chiarita la portata della norma contenuta all'art. 173, primo comma l. fall. secondo cui: “Il commissario giudiziale, se accerta che il debitore ha occultato o dissimulato parte dell'attivo, dolosamente omesso di denunciare uno o più crediti, esposto passività insussistenti o commesso altri atti di frode, deve riferirne immediatamente al tribunale, il quale apre d'ufficio il procedimento per la revoca dell'ammissione al concordato, dandone comunicazione al pubblico ministero e ai creditori”. Anche in questo caso l'intervento correttivo ha contribuito ad eliminare ogni dubbio in merito alla permanenza della rilevanza di atti di fronte anteriori alla procedura, quale causa di interruzione del concordato, con ciò smentendo i sostenitori della tesi dell'abrogazione implicita conseguita alla riforma del 2005.

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Tuttavia non v'è dubbio che il principio debba essere letto alla luce del fatto che nella nuova disciplina scompare ogni riferimento a condizioni di ammissibilità di natura etica e del presupposto della meritevolezza, cui il legislatore del '42 condizionava l'omologazione del concordato. La necessità di armonizzare la prescrizione di cui al primo comma dell'art. 173 con il nuovo sistema induce quindi ad affermare che non tutti gli atti di frode ante procedura possano essere causa di arresto del concordato, ma soltanto quelli che, per entità e rilevanza, laddove tale unità di valutazione deve essere riferita sia al fattore dimensionale sia a quello temporale (un atto fraudolento commesso dieci anni prima non può avere la stessa rilevanza di analogo atto posto in essere sei mesi prima della presentazione della domanda di concordato), siano tali da incidere sui presupposti di ammissibilità del concordato, e quindi sulla fattibilità del piano o sullo stesso stato di crisi. Se è vero, come è vero, che la norma di cui all’art. 173, comma 1, l. fall. integra un’esplicitazione del principio di buona fede che deve connotare il comportamento del debitore nell’adempimento delle sue obbligazioni, non sarà però possibile escludere la rilevanza di quelle condotte che, “se pure antecedenti alla presentazione della domanda di concordato, risultano preordinati ad una falsa rappresentazione delle condizioni di ammissibilità della procedura, in violazione degli obblighi di trasparenza e completezza dell’informazione o a depauperare in modo significativo l’impresa, in pregiudizio della garanzia patrimoniale generica prevista, a favore dei creditori, dall’art. 2740 c.c.” (cosi tribunale di Milano, 19.7.07). Per miglior chiarezza, non potrà essere ammesso che l'imprenditore sia entrato in stato di crisi, legittimandosi quindi a chiedere il beneficio del concordato, a causa di suoi comportamenti distrattivi o più in generale fraudolenti. Ancora, non potrà negarsi rilevanza ad accertati atti fraudolenti che si riverberino direttamente sulla quantificazione del fabbisogno, e quindi sulla fattibilità del piano: si pensi a condotte poste in essere in frode al fisco, che abbiano originato accertamenti ancora non notificati al debitore. Oltre a tali casi, ogni accertamento del commissario che sia successivo all'approvazione della proposta da parte dei creditori sarà rilevante ai fini dell'interruzione del concordato se ed in quanto induca la conclusione che il consenso dei creditori stessi sia stato viziato dalla mancata conoscenza dei fatti riconducibili alle categorie di cui all'art. 173 primo comma. V. L’adunanza dei creditori e l'approvazione del concordato. La seconda fase del concordato preventivo, quella destinata a sfociare nell’approvazione, si apre con la comunicazione del commissario giudiziale ai creditori dell’avviso con la data dell’adunanza dei creditori e la proposta del debitore (art. 171 comma 2 l. fall.). Il momento successivo è il deposito in cancelleria della relazione prevista dall’art. 172 l. fall., il cui contenuto va rivisto alla luce del nuovo testo degli artt. 160, 161 e 163 l. fall. Deve ritenersi che il nuovo concordato, così come delineato dalla riforma, imponga che la relazione del commissario sia incentrata principalmente sul contenuto del piano concordatario e sulle condizioni della proposta formulata dal debitore. Peraltro non v’è dubbio che, dovendo la relazione fungere da documento fondamentale da cui attingere le informazioni rilevanti ai fini dell’esercizio del diritto di voto, essa dovrà analizzare il contenuto concreto del piano concordatario rapportandolo alle prospettive di soddisfacimento, dei crediti vantati dai titolari del diritto al voto, derivanti dalla liquidazione fallimentare.

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E ciò perché, se è vero che l’aspetto della convenienza del concordato è ormai soltanto “affare” dei creditori (salvo i casi di cram down previsti dall’art. 180 l. fall.), è innegabile che sono soltanto gli accertamenti del commissario giudiziale che possono orientare a ragion veduta la decisione di convenienza che in genere giustifica il voto favorevole dei creditori. Quanto ad altri aspetti, v’è da dubitare della necessità che la relazione debba inerire approfonditamente alle cause del dissesto. Infatti, a voler prescindere dal fatto che il presupposto oggettivo della procedura può essere integrato da una condizione diversa dal dissesto, non può negarsi che le cause della crisi dell’imprenditore devono oggi ritenersi non così determinanti, dal momento che è stata abrogata la norma secondo cui, nel presentare la domanda, il ricorrente doveva esporre le cause della sua insolvenza (testo dell’art. 161 comma 2 l. fall. previgente). Analogo discorso deve essere fatto quanto alla necessità che la relazione particolareggiata del commissario inerisca alla condotta tenuta dal debitore. Secondo la tesi maggiormente evolutiva, va infatti escluso che la condotta di quest’ultimo debba essere oggetto di analisi, se non con riferimento alla fase successiva all’apertura del concordato. La condotta tenuta dall’imprenditore prima dell’apertura della procedura di concordato, quindi, deve ritenersi indifferente in un sistema che oggi non contempla più i requisiti di ammissibilità previsti dal primo comma dell’art. 160 l. fall. previgente, ovviamente fatti salvi i casi in cui essa integri le gravi condotte previste dal primo comma dell’art. 173 l. fall. A disciplinare la fase cruciale dell’approvazione del concordato provvede l’art. 177 l. fall. La nuova normativa innova anzitutto sotto il profilo della “maggioranza per l’approvazione del concordato”. Rispetto alla disciplina precedente, viene eliminata la necessità della maggioranza dei creditori votanti all’adunanza; è inoltre ridotta la soglia di raggiungimento della maggioranza dei crediti ammessi al voto, che non deve essere più pari ai due terzi della totalità dei crediti, essendo sufficiente il superamento della maggioranza dei crediti stessi. Peraltro, l’eliminazione della maggioranza cd. “per teste” e la subordinazione dell’approvazione alla sola maggioranza dei crediti vantati dai soggetti ammessi al voto comporta l'eventualità che la proposta concordataria venga approvata anche prima dell'inizio e della celebrazione dell'adunanza dei creditori e quindi, altresì, del deposito da parte del commissario giudiziale della relazione prevista dall'art. 172 l. fall. Tale possibilità non comporta, tuttavia, che l'adunanza possa rivelarsi inutile, dal momento che, come si vedrà, il piano concordatario può venir mutato sino al momento in cui siano iniziate le operazioni di voto, possibilità ora riconosciuta dal nuovo testo dell'art. 175 l. fall., anche se è chiaro che l'esercizio di tale facoltà di modifica da parte del debitore in concordato finisce per porre il problema della sorte e validità dei voti espressi prima della presentazione della proposta peggiorativa. In proposito può sostenersi che i voti espressi vengano posti nel nulla dal successivo mutamento del piano concordatario, così come, all'opposto, che essi mantengano validità, sulla base della considerazione secondo cui il creditore che sceglie di non aspettare la relazione del commissario, e la successiva adunanza dei creditori, lo fa necessariamente a suo rischio e pericolo.

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In ogni caso la problematicità del profilo in parola induce a ritenere che la prassi finalizzata all'anticipata acquisizione delle adesioni alla proposta concordataria vada scoraggiata, pur non essendo preclusa dalla normativa. Ma a prescindere da ciò, all’adunanza va riconosciuta la funzione di consentire ai creditori che non dovessero aderire alla proposta di esprime il loro voto dissenziente, presupposto quest’ultimo che li legittima ad opporsi all’omologazione del concordato nella successiva fase. Come già visto a proposito della fase dell’ammissione, la più importante delle novità del nuovo concordato è la possibilità di prevedere una ripartizione dei creditori in classi e trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse [art. 160, comma 1, lettere c) e d) l. fall.]. La novità attiene anche alla fase dell’approvazione, dal momento che l’esercizio da parte del debitore della facoltà di suddivisione dei creditori in classi ha, quale conseguenza pratica, non soltanto la vista facoltà di prevedere trattamenti diversi rispetto a creditori appartenenti a diverse classi (è importante sottolineare che il trattamento può comprendere, oltre al pagamento per intero o in percentuale, riduzioni di crediti, dilazioni, assegnazione di beni in luogo di pagamenti, forme diverse di garanzia, attribuzione di azioni, quote o obbligazioni), ma altresì la diversità del sistema di calcolo della maggioranza necessaria perché il concordato possa dirsi approvato. L’art. 177 comma 1 l. fall. prevede che “il concordato è approvato dai creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Ove siano previste diverse classi di creditori, il concordato è approvato se tale maggioranza si verifica inoltre nel maggior numero di classi”. Nel caso in cui dovesse esservi il dissenso di una o più classi di creditori, quindi, il tribunale dovrà ugualmente approvare il concordato, una volta accertato che la maggioranza delle classi si è espressa a favore della proposta, naturalmente soltanto ove risulti raggiunta la maggioranza della generalità dei crediti ammessi al voto. Nell’ipotesi in cui il debitore avesse costruito il piano concordatario prevedendo un numero pari di classi, la maggioranza delle classi non potrà ritenersi raggiunta nel caso in cui dovesse aver aderito alla proposta concordataria soltanto la metà delle stesse. VI. Il problema del trattamento dei creditori privilegiati. Il tema del trattamento dei creditori privilegiati, che ha costituito forse quello maggiormente dibattuto dopo la riforma del marzo 2005, registra un deciso passo in avanti verso il riconoscimento della possibilità di pagare in percentuale anche il ceto creditorio privilegiato, con l'introduzione della nuova disciplina destinata ad applicarsi alle procedure aperte dopo il 1° gennaio 2008. Infatti l’art. 160 l. fall. non prevede più l’obbligo di pagamento integrale dei creditori privilegiati quale condizione di ammissibilità del concordato, né limita espressamente la possibilità di costruire il concordato in classi al ceto creditorio chirografario, ed anzi riconosce espressamente che “la proposta può prevedere che i creditori muniti di diritto di privilegio, pegno o ipoteca non vengano soddisfatti integralmente, purchè il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, terzo comma, lettera d)”. La norma di cui all’art. 177 comma 3 l. fall., prevede che “i creditori muniti di diritto di prelazione di cui la proposta di concordato prevede, ai sensi dell’art. 160, la

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soddisfazione non integrale, sono equiparati ai chirografi per la parte residua del credito. La nuova disciplina non elimina tutti i problemi interpretativi, ma consente senz'altro di consolidare le conclusioni cui la giurisprudenza era già pervenuta. Un primo punto da ritenersi definitivamente chiarito è la possibilità di falcidiare il creditore privilegiato con riguardo ai soggetti muniti di causa di prelazione speciale, nella sola ipotesi di incapienza del bene sul quale il privilegio speciale insiste ed in una percentuale di soddisfacimento del credito non inferiore a quella che verrebbe garantita dalla vendita del bene al valore di mercato. Al fine di garantire il privilegiato speciale rispetto alla sussistenza delle condizioni di legge cui viene condizionato il suo soddisfacimento parziale, viene previsto che il valore di mercato sia attestato nella relazione giurata di un professionista avente la stessa qualifica di quello previsto per la redazione della relazione attestatrice della veridicità dei dati aziendali e della fattibilità del piano. Nel dubbio in merito al fatto che il professionista possa essere lo stesso che ha attestato il piano, dubbio derivante dal fatto che anche quello previsto dall'art. 160, comma 2 l. fall. viene scelto dal debitore proponente il concordato, deve ritenersi comunque che la diversità del soggetto incaricato per le due attestazioni integri una maggiore garanzia per i creditori e per l'affidabilità del piano concordatario. Quanto al significato dell'espressione “valore di mercato”, è lecita l'incertezza in merito al fatto che debba o meno tenersi conto, nella determinazione di tale valore, dell'eventualità che alla vendita debba procedersi nell'ambito dell'esecuzione coattiva in sede fallimentare, donde il presumibile abbattimento del valore del bene, specie ove questo, per sue specifiche caratteristiche, si presti ad essere influenzato dalla natura forzata della vendita (tipico l’esempio dei beni immateriali di cui può comporsi l’azienda). Il discorso è meno lineare per quanto concerne il pagamento in percentuale del creditore assistito da una causa di prelazione generale. Optando per la teoria riduzionista, secondo cui i creditori assistiti da privilegio generale andrebbero sempre soddisfatti integralmente, si riduce drasticamente la portata della riforma e si tradisce lo scopo della stessa, che è quello di conferire all’imprenditore in crisi uno strumento il più possibile agile ed elastico per uscire dalle sue difficoltà, previo il raggiungimento di un accordo con i suoi creditori. La teoria evoluzionista, che con un’interpretazione teleologica fondata sulla ratio che caratterizza l’intervento del legislatore della riforma ammette la possibilità che la falcidia concordataria riguardi anche i creditori assistiti da una causa di prelazione non speciale, sottolinea che lo stesso art. 160 l. fall., nella parte finale del secondo comma, prevede che “Il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione”, con ciò sembrando alludere proprio ai creditori che siano assistiti da un privilegio generale mobiliare. Il medesimo art. 160, comma secondo, inoltre, riferendosi ai creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca e al ricavato in caso di liquidazione e non più di vendita, così come invece fatto nel testo di cui all’art. 124 l.f. (dettato per il concordato fallimentare) precedente all'intervento correttivo, autorizza a ritenere che in termini di principio anche il privilegiato generale possa essere soddisfatto in misura percentuale. Rispetto a questo tema, peraltro l’interprete ha una chiave di lettura importante, desumibile dall’art. 182 ter l. fall., che introduce l’istituto della la transazione fiscale, ammettendo che con la domanda di concordato l’imprenditore in crisi possa proporre anche il pagamento dei tributi amministrati dalle agenzie fiscali dilazionato o in percentuale, e ciò anche con riguardo ai tributi assistiti da causa di prelazione.

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Prevedendo che il pagamento dilazionato o in percentuale offerto al fisco non possa determinare un trattamento del credito erariale assistito da privilegio che sia deteriore rispetto ai crediti privilegiati di rango inferiore, inoltre, la norma in parola riconosce implicitamente la possibilità di dividere in classi, e pagare in percentuale, anche i creditori assistiti da una causa di prelazione generale di grado inferiore al più elevato grado di privilegio riconosciuto all’erario. Resta aperto il problema se questo significhi il riconoscimento della possibilità di pagare in percentuale anche i creditori muniti di privilegio generale antergato rispetto al privilegio di più alto rango riconosciuto all’Erario quali, ad esempio, gli enti previdenziali e i soggetti tutti previsti dall’art. 2751 bis c.c. E’ evidente che quanto esposto è indicativo del fatto che il “sistema” fosse ormai destinato ad andare, ineluttabilmente, verso il principio della falcidia estesa al privilegiato generale già prima dell'intervento correttivo del legislatore, e che ormai non possa esservi dubbio alcuno sul punto. Ne discende che anche nel caso in cui la proposta dovesse prevedere il pagamento in percentuale dei privilegiati generali, essa dovrà essere accompagnata dalla relazione attestatrice del valore di mercato dei beni mobili di proprietà del debitore, il complesso dei quali mobili garantisce il creditore assistito da causa di prelazione generale. Ciò detto, non può nascondersi che la nuova disciplina scaturita dal decreto legislativo n. 169/07, se contribuisce all'affermazione definitiva del principio generale in parola, fa nascere ulteriori problemi, il primo dei quali è la possibilità di poter applicare la falcidia al privilegio nei casi in cui la proposta concordataria si limiti a prevedere la liquidazione dei beni del debitore in favore dei creditori. In tali casi non sarà mai possibile proporre un pagamento in percentuale del privilegiato generale (che possa risolversi a vantaggio dei creditori chirografari, prevedendo che questi ultimi possano recuperare una parte del loro credito per effetto della falcidia del privilegiato), poiché è evidente che dalla liquidazione del compendio mobiliare in sede fallimentare deriverebbe un miglior trattamento dei privilegiati, dal momento che il chirografo verrebbe soddisfatto nella sola ipotesi di pagamento integrale di tutti i creditori assistiti da una causa di prelazione generale. Il discorso è diverso in tutte le ipotesi in cui la proposta concordataria preveda l'apporto di cd. nuova finanza, o per l'intervento di un assuntore, o per la previsione di erogazioni di denaro da parte di un soggetto interessato alla sistemazione dell'esposizione debitoria (tipico l'esempio della capogruppo). In tali casi è ben ipotizzabile che il pagamento in percentuale del creditore privilegiato generale possa essere migliore rispetto a quanto deriverebbe dalla liquidazione fallimentare dei beni del debitore, proprio per effetto dell'erogazione di nuova finanza. Sotto questo profilo, può ben affermarsi che la falcidia al privilegiato generale è funzionale alle procedure di natura conservativa e non liquidatoria, a quelle procedure, cioè, finalizzate al mantenimento dell'attività d'impresa e nelle quali il piano preveda l'intervento di un finanziatore o la produzione da pare dell'imprenditore proponente stesso di nuova finanza, per il tramite della prosecuzione dell'attività imprenditoriale a condizioni diverse rispetto a prima. Il secondo profilo critico discendente dalla novella è la disciplina del diritto di voto da parte del creditore privilegiato di cui si proponga la soddisfazione non integrale. La normativa, infatti, non solo non disciplina il diritto di voto del creditore privilegiato pagato in percentuale in modo corrispondente a quanto previsto per il creditore chirografario oggetto della falcidia concordataria, ma non prevede una regola certa: l’art. 177 l. fall. stabilisce che “I creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca…dei quali la proposta di concordato prevede l’integrale pagamento, non hanno diritto al

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voto se non rinunciano in tutto o in parte al diritto di prelazione”, aggiungendo che “…i creditori muniti di diritto di prelazione di cui la proposta di concordato prevede, ai sensi dell’art. 160, la soddisfazione non integrale, sono equiparati ai chirografari per la parte residua del credito”, con ciò finendo per introdurre il dubbio se l'equiparazione al chirografario sia da intendersi con riferimento al solo diritto al voto od anche al trattamento. Si potrebbe infatti sostenere che per la quota non soddisfatta, il privilegiato andrebbe equiparato al chirografo, con conseguente pagamento della percentuale offerta al chirografo sulla parte residua e non soddisfatta del credito del privilegiato, tesi che lascia perplessi, se non altro per la difficoltà di determinare in quale classe di chirografari inserire la quota non soddisfatta del credito privilegiato, nei casi in cui il concordato venga costruito con il sistema delle classi. Molto meglio, quindi, ritenere che detta equiparazione sia limitata all'esercizio del diritto di voto, con il risultato problematico, comunque, di sancire una divaricazione, non del tutto giustificata, della disciplina dell’espressione del voto del privilegiato soddisfatto in percentuale da quella dettata per il creditore chirografario, il cui voto vale per l’intero importo del credito. Ulteriore problema è se la falcidia al creditore privilegiato sia inevitabilmente connessa alla previsione di classi riguardanti il privilegio. La risposta deve essere affermativa, dal momento che la soluzione contraria metterebbe in crisi tutto il sistema che resta fondato, comunque, sul divieto di alterazione dell'ordine dei privilegi. Infine va chiarito che non si possa parlare di classi quando la proposta concordataria distingua soltanto i privilegiati dai chirografari, in tali casi dovendosi riscontrare la distinzione tra le due categorie, il cui diverso trattamento è previsto per legge e non, come invece avviene per le classi, sulla base dell'autonomia che il debitore in crisi si vede riconosciuta dal legislatore nella costruzione della proposta concordataria. VII. I limiti del controllo giurisdizionale sulla fattibilità del piano concordatario. L'analisi della normativa regolatrice del concordato nelle due fasi che precedono il giudizio di omologazione consente di affrontare in termini generali e coerenti il problema dei limiti del controllo giurisdizionale sulla fattibilità del piano concordatario. Non v'è dubbio che l'intervento “correttivo” del legislatore abbia contribuito ad illuminare il profilo problematico in esame, consentendo all'interprete di affermare senza alcun dubbio che la fattibilità del piano è un punto che in termini di principio può e deve sempre essere considerato dal tribunale, sino a giustificare che la procedura non venga aperta, o venga interrotta, per la mancanza o la sopravvenuta carenza della fattibilità. Come visto, la fattibilità del piano integra, dopo l'elemento soggettivo e quello oggettivo, il terzo requisito sostanziale del concordato. L'art. 162, al secondo comma, prevede il dovere del tribunale di dichiarare inammissibile la proposta di concordato ove verifichi che non ricorrono i presupposti di cui agli artt. 160, commi primo e secondo e 161 l. fall. Ne consegue che la carenza di fattibilità integri una causa di inammissibilità della domanda. Se ciò è vero, e lo è proprio per la portata chiarificatrice della norma scaturita dal decreto n. 169/07, è tuttavia altrettanto vero che, come già anticipato, l'affermazione del principio deve fare i conti con la previsione di altre e diverse disposizioni di legge che, di fatto, finiscono per limitare, ed attenuare, il potere di controllo sulla fattibilità del piano che va riconosciuto al tribunale.

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E ciò è vero con riguardo a tutte e tre le fasi del concordato, il che consente di ricostruire il problema del controllo giurisdizionale del tribunale sulla fattibilità in termini tutto sommato coerenti e logici. Nella fase dell'apertura la possibilità di dichiarare inammissibile la domanda di concordato per la mancanza della fattibilità del piano è attenuata dalla volontà del legislatore di devolvere tale accertamento ad un organo diverso da quello giurisdizionale, con cognizioni e capacità tecniche specifiche, di cui il giudice non può essere in possesso. Tale organo, del resto, ha la possibilità di accedere direttamente in azienda e di verificare sul campo da veridicità dei dati e l'attendibilità della contabilità. Se già visto che, quindi, il principio che riserva al tribunale la possibilità di valutare l'inesistenza della fattibilità sarà operativo nei casi di non attuabilità della proposta particolarmente eclatanti. Nella fase dell'approvazione, invece, la norma che finisce per limitare il principio in parola è quella di cui all'art. 175, secondo comma, da cui la possibilità di peggiorare in peius la proposta, sino all'inizio delle operazioni di voto. Prima di arrestare la procedura per la non fattibilità del piano, quindi, il commissario ed il tribunale dovranno considerare se vi sia la volontà del debitore di modificare la proposta in linea con le reali prospettive di sua realizzazione. Ma v'è di più, dall'ipotesi in cui il debitore ripresenti la proposta a condizioni meno favorevoli di quelle precedenti non si discosta, concettualmente, quella in cui sia il commissario, nella relazione di cui all'art. 172 l. fall., ad evidenziare che la proposta sia attuabile a condizioni meno vantaggiose per i creditori aventi diritto al voto. In tal caso l'eventuale adesione che il debitore faccia alle conclusioni del commissario non integra altro che una riformulazione in senso peggiorativo, da parte dell'imprenditore, della proposta concordataria, con le prospettive di realizzazione evidenziate dal commissario. Ne consegue l'opportunità, o forse addirittura la necessità, che il ceto creditorio abbia sempre la possibilità di pronunciarsi sulla proposta concordataria, da cui l'impossibilità di arrestare la procedura prima della votazione se non, anche in tale fase, qualora la non fattibilità sia connotata da una rilevanza tale da non rendere possibile che i creditori possano esprimersi su di essa (per esempio ove sia chiaro che al chirografo non potrebbe essere garantito il pagamento di percentuale alcuna, o nei casi in cui sia prevedibile, per l’entità dello scostamento rispetto alla proposta originaria, che i creditori non voterebbero favorevolmente). Lo stesso fenomeno va riscontrato con riguardo alla fase dell'omologazione. Anche a proposito di tale fase non v'è dubbio in merito all'applicabilità del principio di cui all'ultimo comma dell'art. 173, e quindi del controllo officioso del tribunale sul requisito della fattibilità, e ciò nonostante il nuovo testo dell'art. 180 risultante dal decreto legislativo n. 169/07 sancisca al terzo comma che “se non sono state proposte opposizioni, il tribunale, verificata la regolarità della procedura e l'esito della votazione, omologa il concordato con decreto motivato non soggetto a gravame”. Anche in tale fase, tuttavia, l'esercizio di tale potere da parte dell'organo giurisdizionale resterà condizionato, in concreto, da un lato dal fatto che il peggioramento delle prospettive di realizzazione si sia evidenziato dopo l'espressione del voto da parte dei creditori, dall'altro dalla rilevanza dello scostamento delle concrete prospettive di realizzazione rispetto a quelle su cui i creditori hanno votato, principio quest'ultimo desumibile dalla nuova disciplina della risoluzione del concordato contenuta nell'art. 186 l. fall., che attribuisce rilevanza ai soli inadempimenti di entità non scarsa.

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Non può inoltre negarsi che il richiamo espresso operato dalla nuova disciplina della risoluzione alla normativa dettata dal codice civile in tema di risoluzione contrattuale per inadempimento, e l'introduzione della legittimazione attiva a proporre la risoluzione in capo al singolo creditore, sia significativo della volontà del legislatore di favorire l'omologazione, nel caso in cui manchino opposizioni di altri soggetti, lasciando ai creditori di decidere se la non fattibilità sia causa o meno di risoluzione. VIII. Il giudizio di omologazione La riforma degli artt. 180 e 181 l. fall. segna il passaggio del giudizio di omologazione dal modello della causa ordinaria a quello del procedimento in camera di consiglio, caratterizzato dalla previsione in capo al tribunale del potere di acquisizione d’ufficio delle informazioni e prove necessarie per la pronuncia. Il mutamento del rito, ispirato all’esigenza di maggior celerità, comporta che la pronuncia finale non assuma più la forma della sentenza, bensì quella, più agile, del decreto motivato. Il principio di speditezza ha pure ispirato l’introduzione, all’art. 181 comma 2, della norma secondo cui “l’omologazione deve intervenire nel termine di sei mesi dalla presentazione del ricorso ai sensi dell’art. 161; il termine può essere prorogato per una sola volta da tribunale di sessanta giorni.” La natura del termine complessivo di otto mesi, con decorrenza dal deposito del ricorso introduttivo, costituisce oggetto di diverse pronunce dei tribunali, che ondeggiano dalla tesi della perentorietà a quella della ordinatorietà del termine stesso. A conforto della tesi, senza dubbio preferibile, della natura non perentoria va evidenziata la mancanza di previsione di sanzione alcuna, per l’ipotesi di mancato rispetto del termine. Ne discende che l’unica effettiva ratio riconducibile alla previsione di questo termine è quella di sancire l’applicazione al concordato preventivo dei principi di speditezza e accelerazione. Considerata la scomparsa dei presupposti di ammissibilità previsti dal vecchio testo dell’art. 160, nonché del requisito della meritevolezza, deve ritenersi che nel giudizio di omologazione non sia più necessario l’intervento del pubblico ministero, intervento che per la verità nemmeno il vecchio testo dell’art. 180 l. fall. prevedeva, ma che di fatto si imponeva in ossequio alle prassi ed alla giurisprudenza dei tribunali. Con il poco felice testo degli artt. 180 e 181, il legislatore non ha chiarito quali siano i limiti del giudizio del tribunale. Va evidenziato che è pacifico che il giudizio di convenienza del concordato rispetto all’ipotesi del fallimento esca dalla sfera valutativa dell’organo giurisdizionale, salvo il caso in cui il concordato sia costruito con la suddivisione in classi, ed uno o più classi, non costituenti la maggioranza, siano dissenzienti. In tali casi, e soltanto ove uno dei creditori inseriti in una delle classi non consenzienti contesti la convenienza della proposta, il tribunale deve valutare la convenienza del piano concordatario rispetto alle altre ipotesi concretamente praticabili (cd. cram down), tenendo conto dell’interesse specifico del predetto creditore e, naturalmente, degli altri componenti della classe dissenziente cui appartiene il creditore stesso. La tesi di chi sostiene che tra le altre ipotesi concretamente praticabili non ci sia il solo fallimento, ma anche un’eventuale diverso piano concordatario, non tiene conto del fatto che sarà sempre ipotizzabile, in astratto, una proposta concordataria con percentuali più favorevoli per la classe o le classi dissenzienti, previa riduzione delle percentuali o delle condizioni di soddisfacimento previste per le altre classi; di qui la

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conclusione dell’inevitabilità di interpretare la norma riferendola alla sola ipotesi alternativa del fallimento. Ciò premesso, va stabilito se il tribunale debba limitarsi a verificare la regolarità formale della procedura ed il raggiungimento delle maggioranze o debba estendere, d’ufficio, la sia valutazione anche alla fattibilità del piano. La tesi più restrittiva muove dalla potenziata natura negoziale e privatistica della procedura, che non ammetterebbe la sovrapposizione del giudizio del tribunale all’intervenuta approvazione del concordato da parte dei creditori, se non in presenza di opposizioni dei creditori dissenzienti o di altri interessati che ineriscano, appunto, al profilo della fattibilità del piano. Il dato letterale dell’art. 180, comma terzo l. fall. integra una conferma di tale tesi, prevedendo che “se non sono proposte opposizioni il tribunale, verificata la regolarità della procedura e l’esito della votazione, omologa il concordato con decreto motivato non soggetto a gravame”, sembrando quindi far dipendere l’omologazione del concordato da una mera ricognizione, da parte dell’organo giurisdizionale, della regolarità procedurale e dell’avvenuto raggiungimento della maggioranza dei crediti ammessi al voto. La tesi opposta afferma che l’organo giurisdizionale ha il potere-dovere di verificare l’effettiva fattibilità del piano, così tutelando l’interesse di tutti i creditori, sia di quelli dissenzienti, sia di quelli che risultano aver aderito alla proposta, dovendosi ritenere privo di validità un accordo che in concreto si palesi inattuabile. Rileva inoltre che, ove si ritenesse escluso il vaglio giurisdizionale sulla fattibilità del piano, il giudizio di omologazione verrebbe ridotto, nella sostanza, ad una mera duplicazione della valutazione cui il tribunale è chiamato, in sede di approvazione, all’esito dell’adunanza dei creditori, nel caso di superamento della soglia della maggioranza dei crediti ammessi al voto. Ancora, muove dalla premessa secondo cui, da un punto di vista generale, l’omologazione giudiziaria altro non è che la verifica della conformità alla legge e dell’aderenza agli interessi pubblici di un’attività privata (nel caso in esame avente natura prettamente negoziale): se così è, non pare possibile privare l’organo giurisdizionale del potere-dovere di verificare, oltre alla regolarità formale della procedura, anche l’ulteriore profilo della rispondenza agli interessi generali dell’accordo concordatario; e tale rispondenza andrà riscontrata soltanto nel caso in cui, verificato il raggiungimento della maggioranza prescritta, si possa ritenere che la proposta di concordato sia effettivamente attuabile nei termini in cui è stata formulata. Infine evidenzia che, se si ritiene la fattibilità del piano una delle tre condizioni di ammissibilità del concordato preventivo, insieme al requisito soggettivo ed al quello oggettivo, l’accertamento in ordine alla sua sussistenza, al momento dell’omologazione, può essere considerato ricompresso nel controllo di legittimità, pacificamente spettante al tribunale, e non necessariamente, quindi, nel controllo di merito. A diversa soluzione si perviene, invece, nel caso in cui si ritenga che la terza condizione di ammissibilità sia la presentazione di un piano attestato, essendo evidente che dall’adesione a tale diversa impostazione deriverebbe una conclusione in linea con l’impostazione più squisitamente privatistica. Ne conseguirebbe la negazione del potere del tribunale di valutare la fattibilità, non soltanto nella fase dell’apertura, in cui tale potere, come visto, è conferito ad un professionista scelto dall’imprenditore in crisi, ma altresì nella fase intermedia dell’approvazione, con lo svuotamento dell’art. 173 e dei poteri di controllo del c.g., ed infine nel giudizio di omologazione.

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Secondo una terza tesi, da considerarsi intermedia, il potere del tribunale di valutare la mancanza di fattibilità del piano sorgerebbe, in mancanza di opposizioni sul punto, nella sola ipotesi in cui il peggioramento delle prospettive di realizzazione della proposta concordataria si fosse verificato nel lasso temporale che decorre dall’approvazione della proposta all’udienza fissata per l’omologazione: in tali casi, infatti, si imporrebbe l’esigenza di tutelare l’interesse dei creditori, che hanno aderito alla proposta sulla base di propettive di realizzo dei rispettivi crediti inferiori rispetto a quanto accertato successivamente alla votazione. Viceversa, nella diversa ipotesi in cui il peggioramento delle prospettive di realizzo si fosse realizzata prima dell’adunanza, in tempi idonei, quindi, a consentire al commissario giudiziale di rilevare l’evoluzione negativa delle prospettive nella sua relazione ex art. 172 l. fall., resterebbe vincolante, per il tribunale, il voto favorevole espresso in adunanza, essendosi comunque realizzato il necessario requisito del consenso informato. Anche tale tesi intermedia, tuttavia, sembra discutibile alla luce della disciplina della risoluzione del concordato per inadempimento, laddove sono previste la legittimazione attiva del singolo creditore e l’inidoneità a risolvere dell’inadempimento di scarsa importanza (art. 186, commi primo e secondo l. fall.). La lettera della norma richiama infatti la disciplina generale dettata in tema di inadempimento contrattuale (artt. 1453 e segg. c.c.), subordinando all’iniziativa del singolo creditore la risoluzione del concordato non attuabile nei termini proposti, il che pare dover escludere definitivamente ed in ogni caso l’esistenza di un potere officioso del tribunale quanto al profilo della fattibilità del piano concordatario. Venendo al sistema delle impugnazioni va evidenziato che, in coerenza con la nuova natura cameral-sommaria del procedimento di omologazione, che non si conclude più con sentenza, ma con decreto, contro quest’ultimo è prevista la possibilità di proporre reclamo alla corte di appello, la quale provvede in camera di consiglio (art. 183 l. fall.). Pur in mancanza di una previsione specifica, il decreto della corte d’appello va ritenuto ricorribile avanti alla corte di cassazione, e ciò in applicazione analogica sia delle norme dettate dagli artt. 737 e segg. c.p.c. per i procedimenti in camera di consiglio, sia della disciplina prevista, in tema di concordato fallimentare, dall’art. 131 l.f.. IX. L’esecuzione del concordato: annullamento e risoluzione. La regolamentazione delle modalità esecutive del concordato che sia stato omologato è senza dubbio lasciata all’autonomia del debitore, che ha l’onere di prevederle nel piano senza che l’autorità giurisdizionale possa interferire. Ne consegue la legittimità della soluzione, frequente, che prevede l’esecuzione del piano da parte del imprenditore-debitore o degli organi della società-debitrice. Nel caso in cui il piano sia carente sul punto, e in ogni altra ipotesi in cui debba ravvisarsene l’opportunità, deve ritenersi che il tribunale possa affidare l’esecuzione ad un liquidatore (nel caso vi sia dell’attivo da liquidare) o ad un organo di nomina giudiziale, accollando le spese al debitore. L’art. 186 l. fall. disciplina l’ipotesi di inadempimento del concordato, richiamando le disposizioni previste dagli artt. 137 e 138 l. fall. in tema di concordato fallimentare, “…in quanto compatibili ed intendendosi sostituito al curatore il commissario giudiziale” (v. CONCORDATO FALLIMENTARE), ma soprattutto introducendo la risoluzione per inadempimento su iniziativa del singolo creditore, con ciò rafforzando definitivamente la natura contrattuale dell’istituto e, come detto, finendo per confortare la tesi che esclude che il tribunale possa indagare sulla fattibilità del piano concordatario nelle ipotesi in cui non vengano presentate opposizioni.

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E’ infatti chiaro che l’eventuale non attuabilità della proposta concordataria diventi causa di risoluzione e che l’evento risoluzione sia fatto dipendere dall’iniziativa dei creditori, previo richiamo alla disciplina generale della risoluzione dei contratti, richiamo particolarmente esplicito laddove si prevede che “Il concordato non si può risolvere se l’inadempimento ha scarsa importanza” (art. 186 co. 2° l. fall.). Resta fermo, v’è ragione di ritenere, che l’inadempimento vada riferito ad ogni singolo aspetto della proposta concordataria. In ossequio ad esigenze di certezza, il termine ultimo per poter chiedere la risoluzione viene indicato nel compimento dell’anno dall’ultimo adempimento previsto dal concordato. Quanto infine all’istituto dell’annullamento del concordato, in virtù del richiamo all’art. 138 l. fall. operato dall’art. 186 l. fall., esso continua a essere condizionato ai presupposti della dolosa esagerazione del passivo, della sottrazione o dissimulazione di una parte rilevante dell’attivo. X. Le conseguenze dell’arresto della procedura. La divergenza concettuale esistente tra i presupposti oggettivi di concordato preventivo e fallimento, ma soprattutto la nuova disciplina introdotta dagli artt. 6 e 7 della legge fallimentare, che preclude al tribunale di dichiarare il fallimento d'ufficio, introducendo un presupposto processuale del fallimento, l’iniziativa di parte, hanno posto il problema delle conseguenze del cd. arresto della procedura. La disciplina del concordato prevede una serie di ipotesi in cui la procedura di concordato non possa proseguire: l’inammissibilità della domanda; l’omesso versamento da parte del debitore delle spese della procedura (nella percentuale determinata dal tribunale), nel termine di cui al decreto di apertura; il venir meno di una delle cause di ammissibilità successivamente all'apertura del concordato; il mancato raggiungimento della maggioranza richiesta per l'approvazione della proposta; il rigetto del ricorso diretto ad ottenere l’omologazione; la risoluzione e l’annullamento. Prima dell'intervento chiarificatore del decreto correttivo in vigore dal 1° gennaio 2008, il problema delle conseguenze procedurali dell’arresto della procedura era stato risolto in modo non uniforme. Una prima tesi, più conservativa, continuava a riconoscere il potere del tribunale di dichiarare il fallimento d'ufficio al verificarsi dell'arresto della procedura di concordato, in considerazione della natura speciale della disciplina di cui agli artt. 160 e segg. l. fall. rispetto a quella regolatrice del fallimento, da cui derivava la possibilità di derogare al nuovo principio dettato dall'art. 6 l.fall. I sostenitori di questa tesi evidenziavano inoltre come in tali casi si fosse comunque in presenza di un ricorso del debitore, quello diretto ad ottenere l'ammissione al concordato, che integrava una confessione dello stato di crisi. Ne deducevano la possibilità della dichiarazione di fallimento d'ufficio con il solo obbligo, da parte del tribunale, di accertare che la crisi nel caso di specie si identificasse con l'insolvenza vera e propria. La tesi era stata recepita da un numero significativo di pronunce (per tutte, Corte d’appello di Milano, 29.6.07) e aveva il pregio di evitare che tra l'arresto del concordato ed il fallimento vi fosse uno iato, con conseguenti possibili problemi di varia natura. In effetti l'adozione della tesi evolutiva e maggiormente in linea con il principio dell'iniziativa di parte, che pure aveva trovato seguito in giurisprudenza, comportando la necessità che, per dichiarare il fallimento, si dovesse attendere la presentazione di un ricorso di uno o più creditori, o la trasmissione della richiesta del pubblico ministero, faceva sorgere il problema della sorte e delle prerogative del commissario giudiziale nel

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lasso di tempo che intercorreva tra l’arresto del concordato ed il fallimento, oltre che il problema derivante dalla possibilità che il debitore, provvisoriamente tornato in bonis, potesse porre in essere atti dispositivi ai danni della massa dei creditori. Analogamente ci si chiedeva quale potesse essere la sorte della società in concordato per l'ipotesi in cui né i creditori né il p.m. non avessero presentato i ricorsi e la richiesta, o avessero semplicemente tardato a farlo. Un’ulteriore profilo critico nasceva dalla difficoltà di ravvisare la cd. consecuzione delle procedure, necessaria per il riconoscimento della prededuzione ai crediti sorti funzionalmente alle esigenze del concordato poi sfociato in fallimento, nonché per far decorrere il periodo sospetto, utile per l'esperimento delle revocatorie, dal decreto di ammissione al concordato, e non dalla sentenza di fallimento. Per risolvere queste indubbie difficoltà determinate dall'eliminazione del potere del tribunale di dichiarare il fallimento d'ufficio, i commentatori favorevoli all'applicazione anche al concordato del principio di cui all'art. 6 l. fall. avevano introdotto il concetto di consecuzione logica e sostanziale tra le due procedure, avevano ravvisato una permanenza delle funzioni del commissario giudiziale anche dopo il provvedimento di “interruzione” del concordato, quantomeno in pendenza dei termini per il reclamo dello stesso alla corte d'appello. Rispetto a queste incertezze, la disciplina dettata dal decreto in vigore dal 1° gennaio 2008 ha il merito di fare chiarezza, e di pervenire ad una soluzione che riesce a contemperare il principio che vuole esclusa la possibilità di dichiarare il fallimento d'ufficio, con la necessità di garantire la consecuzione delle procedure e di verificare se nel caso di specie sussista lo stato di insolvenza, requisito che in termini di stretto principio non deve più essere accertato dal tribunale per ammettere il debitore al concordato, posto che la crisi può essere integrata dalla semplice difficoltà ad adempiere. Infatti, ogni qual volta dovesse verificarsi l’interruzione del concordato il tribunale, in mancanza di ricorsi presentati dai creditori, avrà il dovere di trasmettere gli atti all’organo della pubblica accusa, perché quest’ultimo valuti se chiedere il fallimento. Sulla richiesta di fallimento del pubblico ministero, o sul ricorso di uno o più creditori, si instaurerà il contraddittorio, secondo quanto previsto dall’art. 15 l. fall., per la verifica relativa alla sussistenza dello stato di insolvenza. Il decreto di arresto della procedura, qualunque sia la sua causa (inammissibilità della domanda di concordato, venir meno di una condizione di inammissibilità, accertamento della mancata approvazione, rigetto della domanda di omologazione) non può precedere la sentenza di fallimento, ma deve essere emesso contestualmente alla sentenza all’esito del procedimento disciplinato dall’art. 15 l. fall. Il descritto iter si desume dalla coerente disciplina, di cui agli artt. 163 u. co., 173, u. co., 180, u. co., 137 e 138 l. fall. così come richiamati dall’art. 186 l. fall. La necessaria contestualità di decreto di arresto della procedura concordataria e sentenza dichiarativa del fallimento comporta quindi che, una volta intervenuta la causa di arresto della procedura minore, il tribunale dovrà emettere un provvedimento di accertamento della stessa e contestualmente disporre la trasmissione degli atti al p.m. perchè questi presenti la richiesta di fallimento, la quale richiesta introdurrà il procedimento disciplinato dall'art. 15 l.fall. per l'accertamento dei presupposti del fallimento. Fino alla pronuncia della sentenza di fallimento, che nella teoria resta un'eventualità, la procedura di concordato resta aperta, con le logiche conseguenze quanto alla permanenza dei poteri del commissario giudiziale e alla possibilità, per l'imprenditore,

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di disporre del patrimonio e amministrare l'impresa con i limiti derivanti dalla disciplina dell'art. 167 l.fall. Per ragioni di speditezza, deve considerarsi opportuno che l'udienza per l'apertura dell'istruttoria prefallimentare venga fissata nel decreto stesso che accerta il verificarsi di una causa di arresto della procedura di concordato, pur nella consapevolezza che ciò rappresenta un'anticipazione rispetto alla presentazione della richiesta del p.m., o di eventuali ricorsi di creditori, presentazione che in linea puramente teorica potrebbe anche non verificarsi. E' tuttavia proprio questa possibilità teorica che preoccupa, dal momento che un'eventuale inerzia dei creditori e del p.m. finirebbe per creare una situazione di stasi difficilmente rimediabile. Né, del resto, sembra sostenibile che l'organo della pubblica accusa sia tenuto alla presentazione della richiesta di fallimento, nelle ipotesi in discorso, dovendosi escludere la possibilità di privare l'organo cui spetta l'iniziativa del necessario potere discrezionale. XI. I limiti temporali di applicazione della disciplina scaturita dal decreto legislativo n. 169/07. Come noto, la disciplina transitoria del decreto legislativo correttivo prevede l’applicazione delle nuove norme alle sole procedure di concordato preventivo che siano aperte successivamente alla sua entrata in vigore, cioè al 1° gennaio 2008 (così l’art. 22, comma 2 d. lgs. n. 169/07). Ne consegue che le procedure pendenti a tale data, laddove per procedure pendenti deve intendersi procedure il cui decreto di apertura sia stato emesso in epoca antecedente al 1° gennaio 2008, devono essere regolate dalla normativa del d.l. 35/05, convertito in legge dalla legge n. 80/05. E’ tuttavia innegabile che la maggior parte delle disposizioni contenute dalla cd. correzione della riforma si prestino ad un’applicazione anticipata, stante la loro prevalente natura recettizia di indirizzi giurisprudenziali che, nei due anni di applicazione della normativa intermedia, avevano cercato di chiarire i problemi interpretativi ingenerati da quest’ultima. Ne discende che le ultime prescrizioni normative debbano fungere, oltre che da correzione della riforma applicabile alle sole procedure aperte successivamente al 1° gennaio 2008, altresì da linee guida nella soluzione dei temi maggiormente controversi, limitatamente alle procedure cui va applicata la disciplina intermedia, cioè quella scaturita dal decreto legge n. 35/05. Quelle che seguono sono soltanto alcune delle questioni inerenti alle fasi dell’apertura e dell’approvazione del concordato preventivo che ben possono essere risolte utilizzando il contenuto del decreto correttivo in chiave interpretativa anche nei casi in cui esse si pongano nell’ambito di procedure non interessate direttamente dalla normativa in vigore dal 1° gennaio 2008. Si allude al problema rappresentato dalla necessità o meno, per il tribunale, di richiedere il parere del p.m. sulla domanda di ammissione al concordato, che verosimilmente dovrà essere risolto previa mera comunicazione della domanda di concordato all’organo della pubblica accusa. Si allude, ancora, alla questione della sopravvivenza o meno, in capo al tribunale, di un potere di controllo sulla fattibilità del piano concordatario, questione che andrà risolta alla luce del nuovo testo degli artt. 160 e 161 l. fall. e della riaffermata vigenza delle disposizioni di cui all’art. 173 l. fall.

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Si allude, infine, all’esistenza della possibilità, per il debitore in concordato, di mutare il contenuto della sua proposta, tema che non potrà non risentire della nuova norma introdotta al comma 2 dell’art. 175 l. fall.