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35 I l dipinto è così descritto nel 1672 da G.P. Bellori, che lo vide “nel palazzo del Principe Pamphilio”: “Dipinse […] la Madonna che si riposa dalla fuga in Egitto: Evvi un’Angelo in piedi, che suona il violino, san Giuseppe sedente gli tiene avanti il libro delle note, e l’Angelo è bellissimo; poiché volgendo la testa dolcemente in profilo, và discoprendo le spalle alate, e ’l resto dell’ignudo interrotto da un pannolino. Dall’altro lato siede la Madonna, e piegando il capo, sembra dormire col bambino in seno.” Valutato come autografo già nel 1910 da Lionello Venturi (il primo e, per molto tempo, unico studioso ad avvertire la profonda religiosità del Merisi), da altri fu assegnato a Carlo Saraceni, ma a partire dalla mostra milanese del Caravaggio (1951) è stato poi unanimemente riferito al grande maestro lombardo. Stupisce il fatto che non fosse stata riconosciuta la sua mano in un tale capolavoro, ma l’opera sembrò contraddire l’immagine stereotipa di un Caravaggio sempre “tenebroso” e aspro. In realtà, il netto contrasto di luce e ombra, senza precedenti nella tradizione rinascimentale, non è un tratto di stile oscuramente connaturato da sempre alla sua maniera, bensì un costrutto simbolico (la luce come immagine della Grazia divina che riscatta l’ombra del peccato e della morte spirituale) nato con i suoi primi soggetti di matura ispirazione religiosa. Qui siamo prima della cappella Contarelli, anche se non molto lontano da essa: più, a mio parere, verso il 1597-1598 che non verso il 1595, per segnalare gli anni che sono stati proposti come datazione. Un dipinto da poco ritrovato di Giovanni Baglione raffigurante San Giuseppe e l’angelo sembra testimoniare l’immediata eco, negli ambienti romani, di questo dipinto del Caravaggio, al quale suona come di risposta. È assegnabile al 1599 e conferma per la nostra opera, a mio avviso, una data di poco precedente. Ma qui, nel dipinto del Baglione, l’angelo apparso in sogno a Giuseppe è nell’atto di suggerirgli la fuga da Erode, coerentemente al dettato delle Scritture: probabilmente il saccente rivale ebbe la velleità, patetica, di additare l’“errore” del Caravaggio, mostrando quale era il giusto momento della storia (non durante la fuga!) in cui collocare la figura dell’angelo. Ma comprese ben poco della nuova e sottile invenzione iconologica. La luce non ha ostacoli d’ombra e si propaga in tutta la scena per attenuarsi nel lontano orizzonte, di un tenero grigio richiamato e nitidamente esaltato in primo piano dallo stacco delle ali angeliche. Queste si schiudono come battenti, aprendo sulle due metà del dipinto: la prima, fiorente di una rigogliosa vegetazione perché abitata dal divino, nel tratto su cui riposano la Vergine e il Figlio; mentre la seconda, che ospita la santa ma mortale figura di Giuseppe, è contrassegnata da un suolo sassoso e dalle foglie secche di un albero. Dietro di lui si scorge la figura mite e attenta del somarello, mite e attento quali spesso appaiono, come fossero devoti, il bue e l’asino nelle Natività di Gesù. Il perno di questo mutamento, e si direbbe rotazione di scena, o rovesciamento della condizione mortale nella perennità della vita eterna, è il corpo Maurizio Calvesi RIPOSO DURANTE LA FUGA IN EGITTO “Dipinse […] la Madonna che si riposa dalla fuga in Egitto: Evvi un’Angelo in piedi, che suona il violino, san Giuseppe sedente gli tiene avanti il libro delle note, e l’Angelo è bellissimo; poiché volgendo la testa dolcemente in profilo, và discoprendo le spalle alate, e ’l resto dell’ignudo interrotto da un pannolino. Dall’altro lato siede la Madonna, e piegando il capo, sembra dormire col bambino in seno.” (G.P. Bellori) Riposo durante la fuga in Egitto, 1596-1598 Olio su tela, 135,5 166,5 cm Roma, Galleria Doria Pamphilj 34 01_Caravaggio RIV6:CAMMEO GONZAGA 1-02-2010 17:16 Pagina 34

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Il dipinto è così descritto nel 1672 da G.P. Bellori, che lo vide “nelpalazzo del Principe Pamphilio”: “Dipinse […] la Madonna che siriposa dalla fuga in Egitto: Evvi un’Angelo in piedi, che suona il

violino, san Giuseppe sedente gli tiene avanti il libro delle note, e l’Angelo èbellissimo; poiché volgendo la testa dolcemente in profilo, và discoprendo le spallealate, e ’l resto dell’ignudo interrotto da un pannolino. Dall’altro lato siede laMadonna, e piegando il capo, sembra dormire col bambino in seno.” Valutato comeautografo già nel 1910 da Lionello Venturi (il primo e, per molto tempo, unicostudioso ad avvertire la profonda religiosità del Merisi), da altri fu assegnato a CarloSaraceni, ma a partire dalla mostra milanese del Caravaggio (1951) è stato poiunanimemente riferito al grande maestro lombardo. Stupisce il fatto che non fossestata riconosciuta la sua mano in un tale capolavoro, ma l’opera sembrò contraddirel’immagine stereotipa di un Caravaggio sempre “tenebroso” e aspro. In realtà, ilnetto contrasto di luce e ombra, senza precedenti nella tradizione rinascimentale, nonè un tratto di stile oscuramente connaturato da sempre alla sua maniera, bensì uncostrutto simbolico (la luce come immagine della Grazia divina che riscatta l’ombradel peccato e della morte spirituale) nato con i suoi primi soggetti di maturaispirazione religiosa. Qui siamo prima della cappella Contarelli, anche se non moltolontano da essa: più, a mio parere, verso il 1597-1598 che non verso il 1595, persegnalare gli anni che sono stati proposti come datazione.

Un dipinto da poco ritrovato di Giovanni Baglione raffigurante SanGiuseppe e l’angelo sembra testimoniare l’immediata eco, negli ambienti romani, di

questo dipinto del Caravaggio, al quale suona come dirisposta. È assegnabile al 1599 e conferma per la nostraopera, a mio avviso, una data di poco precedente. Ma qui,nel dipinto del Baglione, l’angelo apparso in sogno aGiuseppe è nell’atto di suggerirgli la fuga da Erode,coerentemente al dettato delle Scritture: probabilmente ilsaccente rivale ebbe la velleità, patetica, di additarel’“errore” del Caravaggio, mostrando quale era il giustomomento della storia (non durante la fuga!) in cuicollocare la figura dell’angelo. Ma comprese ben poco dellanuova e sottile invenzione iconologica.

La luce non ha ostacoli d’ombra e si propaga in tutta la scena per attenuarsinel lontano orizzonte, di un tenero grigio richiamato e nitidamente esaltato in primopiano dallo stacco delle ali angeliche. Queste si schiudono come battenti, aprendosulle due metà del dipinto: la prima, fiorente di una rigogliosa vegetazione perchéabitata dal divino, nel tratto su cui riposano la Vergine e il Figlio; mentre la seconda,che ospita la santa ma mortale figura di Giuseppe, è contrassegnata da un suolosassoso e dalle foglie secche di un albero. Dietro di lui si scorge la figura mite eattenta del somarello, mite e attento quali spesso appaiono, come fossero devoti, ilbue e l’asino nelle Natività di Gesù.

Il perno di questo mutamento, e si direbbe rotazione di scena, orovesciamento della condizione mortale nella perennità della vita eterna, è il corpo

Maurizio Calvesi

RIPOSO DURANTE

LA FUGA IN EGITTO

“Dipinse […] la Madonna che si riposa dalla fuga inEgitto: Evvi un’Angelo in piedi, che suona il violino,

san Giuseppe sedente gli tiene avanti il libro dellenote, e l’Angelo è bellissimo; poiché volgendo la testa

dolcemente in profilo, và discoprendo le spalle alate, e’l resto dell’ignudo interrotto da un pannolino.

Dall’altro lato siede la Madonna, e piegando il capo,sembra dormire col bambino in seno.” (G.P. Bellori)

Riposo durante la fuga in Egitto, 1596-1598 Olio su tela, 135,5 ✕ 166,5 cmRoma, Galleria DoriaPamphilj

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dell’angelo, sospinto in avanti dalla propria leggerezza e plasmato a tutto tondo, maquasi immaterialmente, dal volgere della luce. “Canta e suona”, dice il Bellori,benché la bocca sia chiusa, ma il biografo sapeva che le figure giovanili del Merisisono quasi tutte in atto di cantare, dal Ragazzo con canestra di frutta ai due suonatoridi liuto nei Musici di New York, al Ragazzo con vaso di fiori (forse copia?) di Lugano.Canto e musica insieme, o l’uno o l’altra, canto e musica cari a san Filippo Neri,comunicano in queste opere quella “christiana laetitia” di cui si era fatta promotricel’amabile e popolare religiosità del santo, quale il Caravaggio, vicino allacongregazione dell’Oratorio, interpretava con la sua squisita gentilezza d’animo.

Gentilezza corretta dall’orgoglio e in seguito trascinata nell’ira da assediantiostilità, sorte al momento del suo strepitoso successo con i dipinti di San Luigi deiFrancesi. Siamo comunque ben lontani, qui come in ogni momento della sua vitatormentata, dai pretesi compiacimenti omosessuali (le “relazioni” del Caravaggio,peraltro, furono esclusivamente femminili), visti da alcuni tardi freudiani nei dipintiappena citati. Alla cui contenuta sensualità, rivolta all’“amore divino”, sono bencongeniali testi biblici allora molto frequentati come il Cantico dei Cantici, dove letenerezze dello Sposo venivano interpretate come amore di Gesù per la Chiesa.

Colmi, i versi del Cantico, di immagini di frutta e di fiori, credetti di poterlimettere in relazione appunto con i dipinti giovanili del Merisi; e quando fu letto einterpretato lo spartito musicale che Giuseppe sorregge, apparve un mottetto delBauldewijn, le cui parole (“Quam pulchra es et quam decora, charissima in deliciis”)sono tratte appunto dal Cantico. Nel quale, poco prima, è ripetuto: “Tota pulchra esamica mea et macula non est in te”, come leggiamo a piene lettere nella facciata dellachiesa oratoriana di Santa Maria in Vallicella.

Lo Sposo non andrà identificato con Giuseppe, giacché il “vero” Sposo delCantico è il Salvatore, è il Bambin Gesù. Al suo “Sposo” la Vergine, noto simbolo dellaChiesa, è abbracciata, sfinita anche dal grande amore per lui, e caduta nel sonno. Lodice proprio il Cantico, che basta leggere. Recita la Sposa: “Amore langueo. [come erasolito ripetere san Filippo] Laeva ejus sub capite meo et dextera illius amplexabitur me.”Io languisco d’amore, che egli ponga la sua sinistra sotto il mio capo e mi abbracci con

la destra. “Ego dormio, et cor meum vigilat”, dice ancora laSposa: io dormo, ma il mio cuore vigila. Nel languore,reclina il capo che mostra una meravigliosa e folta chiomache dà sul rosso, e anche questa è un’allusione simbolica.Nel versetto del Cantico che precede quello che apre ilmottetto, è scritto infatti, sempre all’indirizzo della Sposa:“Comae capitis tui sicut purpura regis.” Le chiome del tuocapo sono come la porpora del re. Il che fu interpretatodalla Patristica come allusione al sangue salvifico versato dalCristo, da cui la Chiesa ha tratto alimento e garanzia diredenzione. Chiome color mogano e vesti rosse ha dato allaVergine il Merisi.

Appartato, Giuseppe partecipa del divino amoredegli Sposi da altra sfera e mostra lo spartito che ne canta

Colmi, i versi del Cantico, di immagini di frutta edi fiori, credetti di poterli mettere in relazione

appunto con i dipinti giovanili del Merisi; e quandofu letto e interpretato lo spartito musicale che

Giuseppe sorregge, apparve un mottetto delBauldewijn, le cui parole (“Quam pulchra es et

quam decora, charissima in deliciis”) sono tratteappunto dal Cantico. Nel quale, poco prima, è

ripetuto: “Tota pulchra es amica mea et macula nonest in te”, come leggiamo a piene lettere nella facciatadella chiesa oratoriana di Santa Maria in Vallicella.

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le lodi. Egli rappresenta l’umanità, è l’uomo (questa creatura a mezza via tral’animale e l’angelo, come forse potrebbe voler dire la sua collocazione nel mezzo?Vita da animale, vita da uomo, vita da angelo distingueva san Filippo nei gradi dellafede). Inedita per questo soggetto è comunque la figura dell’angelo: se si trattasse diquello che, secondo i Vangeli, apparve in sogno a Giuseppe per invitarlo a fuggire daErode, sarebbero inspiegabili la musica, il contenuto del mottetto e il “riposo”.Bisogna quindi pensare a un angelo che con la sua musica conforta il santo durante ilviaggio in Egitto: tema, per l’appunto, senza precedenti né appigli nelle SacreScritture, ma motivato dal disegno allegorico. Mentre le carni della Vergine, delBambino e dell’angelo sono levigate e intatte, il volto di Giuseppe reca evidenti isegni della vecchiezza e tale contrasto tra le forme del divino e dell’umano si ripete inmolti dipinti del Merisi. All’uomo mortale e corruttibile l’angelo incorruttibilecomunica, tramite la musica, la promessa della vita eterna. Come commenta P.Askew, la musica dell’angelo non portava soltanto consolazione, ma precognizionedel futuro, cioè della prossima morte e del passaggio alla perenne beatitudine. Anchea san Nicola da Tolentino gli angeli musicanti apparvero prima della morte, e FilippoNeri nel suo trapasso udì “angelicos avidis concentus auribus”.

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Ibari, uno dei quadri più amati da Caravaggio, fin dal suo apparire sullascena artistica romana ha avuto una storia travagliata e relativamenterecente. Prima del 1987, quando il dipinto venne acquistato dal

Kimbell Art Museum di Fort Worth come originale di Caravaggio, alcuni indizifornivano un’idea dell’opera piuttosto precisa: l’accurata descrizione di Giovan PietroBellori, che vedeva il dipinto in casa di Antonio Barberini e ne segnalava l’anticaprovenienza dalla raccolta del cardinal Del Monte (Bellori 1672, ed. 1976, p. 216), edue buone immagini di fine Ottocento. La prima era stata pubblicata nel volume diLeone Vicchi relativo ai capolavori della raccolta Sciarra Colonna (Vicchi 1889, pp.43-44, tav. IX); la seconda risaliva alla ditta parigina Braun, Clément & Compagnie(neg. 43210, 35 ✕ 45,5 cm), all’epoca in cui la collezione si trovava ancora intatta aRoma, in procinto di essere venduta sul mercato antiquario francese (Mahon 1951b,pp. 229, nota 67 e 234).

Pur essendo le fotografie entrate nel circolo degli studi caravaggeschi(Venturi 1893-1895, p. 98; Kallab 1906-1907, p. 281; Longhi 1943, p. 9, fig. 7), nel1950 Lionello Venturi (Venturi 1950, pp. 41-43, figg. 67-69, tavv. XXIII-XXIV)pubblicava come originale una copia del quadro rinvenuta a New York, diversa daquella conosciuta attraverso le citate immagini. L’ipotesi venturiana fuimmediatamente criticata da Denis Mahon, che si affrettava invece a richiamarel’attenzione sulla fotografia Braun insistendo sulla certezza della fonte, testimoniata,

oltre che dalla qualità della tela, dall’indiscussa provenienzadell’opera dalla raccolta di Antonio Barberini (per viaereditaria agli Sciarra), dove l’avevano registrata le fonti piùantiche (Mahon 1951b, pp. 229, nota 67 e 234). Il dibattitointorno al quadro risultava peraltro di grande attualità,svolgendosi in contemporanea con l’apertura

dell’esposizione milanese “Caravaggio e i Caravaggeschi”, curata da Roberto Longhi.L’importanza dei Bari nel percorso di Caravaggio non era infatti sfuggita allo studioso,che, nella primavera del 1951, esponeva in mostra una delle tante copie seicenteschedella tela, con l’intento di fornire almeno un labile documento visivo (peraltro nonincluso nel catalogo della mostra) del dipinto originale.

L’alto numero di copie e derivazioni, nonché di varianti sul tema (per unelenco dettagliato della situazione fino alla metà degli anni ottanta, cfr. Cinotti 1983,p. 554), forniva un’idea della fortuna dell’invenzione caravaggesca e rendeva piùscottante il problema dell’identificazione dell’originale, di cui erano a quel punto notele precise fattezze, nonché la provenienza.

Nella collezione Sciarra il dipinto era infatti pervenuto nel 1812, in seguitoalla divisione della famiglia Barberini nei due rami: Barberini e Colonna di Sciarra. Latela era rimasta nel palazzo familiare al Corso almeno fino al 1889, quando lodocumenta il già ricordato testo del Vicchi, per passare a Parigi tra il 1891 e il 1892,allorché il proprietario, principe Maffeo Barberini Colonna di Sciarra, decise divendere alcuni capolavori della raccolta di famiglia incorrendo, tra l’altro, in un casogiudiziario che fece scalpore (Fineschi 1995). La tela si trovava ancora nella capitalefrancese nel 1895, quando erano in corso trattative con la National Gallery di Londra

Maria Cristina Terzaghi

IBARI

“Il giuoco fu comprato dal cardinal Del Monte che perdilettarsi molto della pittura ridusse in buono statoMichele, e lo sollevò dandogli luogo onorato in casa

fra suoi gentiluomini.” (G.P. Bellori)

I bari, 1595-1596 Olio su tela, 91,5 ✕ 128,2 cm Fort Worth (Texas), KimbellArt Museum

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e con il duca Agénor de Gramont per alienare il dipinto(Mahon 1988, note 53 e 61).

Da questo momento si perdono le tracce dei Bari,fino alla sua ricomparsa nel 1986 a Zurigo, dove l’opera furiconosciuta da Mina Gregori (Mahon 1988, p. 12; Gregori1992, p. 96; Gregori 2007, p. 49) e, indipendentemente,dall’allora direttore del Kimbell Art Museum di FortWorth, Edmund P. Pillsbury. Esposto al MetropolitanMuseum di New York (15 settembre - 15 novembre 1987),il dipinto fu oggetto di un ampio e accurato studio di DenisMahon (1988). Il restauro permise peraltro di recuperare ilsigillo del cardinal Francesco Maria Del Monte, posto sulretro nell’angolo sinistro della tela (Christiansen 1988, p.21), fugando ogni dubbio sull’autografia del dipinto esull’identificazione con il quadro citato da Bellori.Recentemente Mina Gregori (con la quale concordanoDenis Mahon e Maurizio Marini) ha proposto di

identificare un’altra versione autografa della tela (già di proprietà Mahon e dallostudioso destinata all’Ashmolean Museum di Oxford), che costituirebbe unaredazione più antica di quella Del Monte (Gregori 2007 e Gregori 2008). L’ipotesi,seppure suggestiva poiché basata sull’idea di fondo che, come narra Mancini inrelazione al Ragazzo morso da un ramarro, Caravaggio abbia eseguito alcuni dipinti“per vendere” nei suoi faticosi esordi romani, appare a mio avviso passibile di ulterioriverifiche. Anche ammesso il caso di repliche autografe, mi pare resti da chiarire infattise l’artista abbia riproposto i soggetti in modo quasi identico, come dimostrerebbe ilcaso dei Bari Mahon, o non, piuttosto, introducendo varianti, come nel caso ormaiacclarato delle due versioni della Buona ventura.

Ma tornando al dipinto in esame, è Bellori (Bellori 1672, ed. 1976, p. 216) ainformare sulla provenienza: “Il giuoco fu comprato dal cardinal Del Monte che perdilettarsi molto della pittura ridusse in buono stato Michele, e lo sollevò dandogliluogo onorato in casa fra suoi gentiluomini.” L’inventario stilato nel 1627 alla mortedel cardinale registra infatti puntualmente “un gioco di mano del Caravaggio concornice negra di palmi cinque” (Frommel 1971, p. 31).

Alcuni documenti permettono di focalizzare ulteriormente la situazione della telanella collezione del grande protettore di Caravaggio. Tanto per cominciare, nel giàricordato inventario l’opera è registrata nel palazzo a Ripetta, nella “Galleria contigua” alla“Gallaria Nova Stretta”, nella stessa stanza dove erano collocati gli altri dipinti diCaravaggio, tra cui la “Zingara”, identificata con la Buona ventura oggi ai Musei Capitolini(lo sottolinea da ultima Gregori 2008, p. 30). I due dipinti, di analoghe dimensioni, eranoinoltre racchiusi dalla stessa cornice nera. Con la Buona ventura, dunque, i Bariintrattengono un rapporto non solo stilistico e iconologico, cui si farà cenno più avanti, mainnanzitutto storico, e, se non bastasse l’inventario cui si accennava, due importanti fontiribadiscono la questione: una lettera di Giulio Mancini al fratello Deifebo, che risale al1615, e il racconto di un testimone oculare, il cardinale Federico Borromeo.

Nel ricordo dei testimoni più diretti, dunque, i Bari

appaiono sempre strettamente legati alla Buona

ventura, in un nodo che anche la critica moderna nonha potuto fare a meno di rilevare … Le due opere non

condividono solo le dimensioni e il taglio compositivo …ma sono accomunate anche e soprattutto dalla stessa

sostanza etica e mentale. Probabilmente ispirate arappresentazioni teatrali (le zingaresche erano all’epoca

un genere letterario) in cui ricorre il tema della gioventùingenua e sprovveduta gabbata dalla malizia, i Bari e la

Buona ventura, soggetti comici per eccellenza, celanoindubbiamente un intento didascalico, restituito da

Caravaggio in chiave squisitamente pittorica…

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1988, p. 25, ma con trascrizione leggermente diversa). Se, come alcuni (Agosti 1997, p. 180, nota 13) credono (ma altri negano), il passo si riferisce a Caravaggio, non èdifficile immaginare il contesto in cui il cardinale Borromeo, che tra l’altro possedeva lacelebre Canestra, aveva incontrato il Merisi. Anche in questa citazione compaionoinfatti la “Cingara” cioè la Buona ventura, e i “Giocatori”, dunque i Bari. Stando alledate del soggiorno del Borromeo a Roma (1585-1601 con una certa continuità) eall’amicizia che legava i due potenti prelati, ben nota alla critica e peraltro testimoniatadal carteggio, non è difficile immaginare che Federico abbia avuto modo di frequentareCaravaggio in casa Del Monte, dove poté peraltro vedere i dipinti, citati entrambianche in questo caso. Scomparso il Del Monte, un pagamento dell’8 maggio 1628(Wolfe 1985, p. 452, nota 16) attesta che Antonio Barberini, fratello del papa UrbanoVIII, acquistò la tela da Alessandro Del Monte, vescovo di Gubbio, nipote ed erede delcardinale. La presenza dell’opera presso la famiglia Barberini è ampiamente attestatafino all’ottocentesca divisione del casato di cui si diceva (per un puntuale consuntivo,cfr. Cinotti 1983, p. 555; Mahon 1988, pp. 13-19; e ora Gregori 2008, p. 30).

Nel ricordo dei testimoni più diretti, dunque, i Bari appaiono semprestrettamente legati alla Buona ventura, in un nodo che anche la critica moderna non hapotuto fare a meno di rilevare (in particolare Mina Gregori ha più volte riflettuto sultema, in particolare Gregori 1992, p. 102). Le due opere non condividono solo ledimensioni e il taglio compositivo, coincidenze che hanno fatto parlare di pendants(Cinotti 1983, p. 556), ma sono accomunate anche e soprattutto dalla stessa sostanzaetica e mentale. Probabilmente ispirate a rappresentazioni teatrali (le zingarescheerano all’epoca un genere letterario) in cui ricorre il tema della gioventù ingenua esprovveduta gabbata dalla malizia, i Bari e la Buona ventura, soggetti comici pereccellenza, celano indubbiamente un intento didascalico (Gregori 1992, p. 102;Marini 2005, pp. 402-403; Langdon 2001, pp. 44-52; Terzaghi 2007, pp. 27-30),restituito da Caravaggio in chiave squisitamente pittorica: il volto nobile e pulito delragazzino, messo in risalto dal candore del colletto sul sobrio e aristocratico abitonero, che contrasta con l’abbigliamento sgargiante e variopinto degli altri duegiocatori, dal tono quasi eccessivo. Per l’opera si è pensato a una datazione alta,precedente l’incontro con il cardinal Del Monte. La ricchezza della tavolozza, lostudiato cromatismo delle vesti, il sapore caricato dell’espressione del baro inposizione frontale, una sorta di maschera tragicomica, non mi pare consentanotuttavia di abbassare la cronologia oltre il 1595-1596, lasciate alle spalle le mezzefigure dipinte presso il Cavalier d’Arpino e anche il più acerbo San Francesco in estasidi Hartford.

Il medico Giulio Mancini, collezionista, amatore d’arte e amico diCaravaggio, il 20 febbraio 1615 scriveva a Siena al fratello circa la rara opportunità diottenere una copia della “zinghara”, del “gioco” e della “musica”, i cui originali diCaravaggio erano custoditi nella collezione Del Monte. Il cardinale aveva infatticoncesso a un “principe tramontano” di far copiare i tre dipinti e, sottolineava ilmedico senese, “il copiatore me le copia a me anchora per far guadagno”. Sicché ilMancini, provveduto anche al disturbo del guardarobiere, che doveva fornire vitto ealloggio al copista e per di più tenere la bocca chiusa sulla poco trasparenteoperazione, con 16 o 17 scudi ciascuno sarebbe stato in grado di spedire i dipinti aSiena, all’attenzione di Agostino Chigi. L’affare non sembra però essere andato inporto, per lo meno a quelle condizioni, e il 10 luglio Giulio scriveva al fratello che sefosse riuscito a vendere il “gioco” (cioè la copia dei Bari di cui si diceva) per 15 scudia Siena sarebbe stato contento, suggerendo inoltre che il pittore Giovan BattistaGiustammiani, detto il Francesino, si sarebbe forse potuto occupare dell’affare(Maccherini 1997, pp. 79-80). Il carteggio, oltre a costituire ad oggi la più anticamenzione del dipinto, illumina anche sull’importanza attribuita alla collezione DelMonte dagli estimatori di Caravaggio: riuscire a mettervi piede era infattifondamentale per la conoscenza dei dipinti del Merisi. Nel 1621, il Mancini fuperaltro chiamato a giudicare dell’autografia di una copia, eseguita dal pittore

Alessandro Bazzicaluva, tratta a sua volta da una copia deiBari, custodita nella collezione Sannesio, con la scritta atergo: “del Caravaggio”. La vicenda è narrata nelle cartedel processo seguito al furto di entrambi i dipinti. Manciniaveva dichiarato che l’esemplare Sannesio non eraautografo, bensì “una copia ben copiata”, aggiungendo che“di quelle se ne erano fatte molte” (questo documento,trascritto da ultimo in Macioce 2003, pp. 286-288, è stato

più volte pubblicato e discusso. Gregori 2008, p. 26 pensa che il quadro Sannesionon fosse una copia, ma un originale). Le parole del Mancini risultanoparticolarmente utili per individuare la fortuna dell’invenzione caravaggesca,straordinariamente diffusa, già a date molto alte, come documenta anche la copia deldipinto presente nella collezione di Ottavio Costa (da ultima Terzaghi 2007, p. 305).

Ma un altro intrinseco del cardinale, seppure in tutt’altro contesto, avrebbe dilì a poco focalizzato la propria attenzione sulle opere di Caravaggio custodite nellacollezione Del Monte, e in particolare sui Bari. A esse fa infatti riferimento un passo delDe dilectu ingeniorum, un’operetta composta da Federico Borromeo alla fine delsecondo decennio del Seicento e data alle stampe nella sola versione latina nel 1623, madi cui l’arcivescovo di Milano aveva in cantiere una versione volgare. Proprio negliappunti relativi alla traduzione si può leggere: “nei miei dì conobbi in Roma undipintore […] non fece mai altro che buono fosse nella sua arte, salvo il rappresentare itavernisti, ed i giocatori, overo le cingare che guardano la mano, overo i baronci ed ifacchini, e gli sgraziati, che si dormivano la notte per le piazze; ed era il più contentouomo del mondo quando avea dipinto un’osteria e colà entro chi mangiasse e bevesse.Questo procedeva dai suoi costumi, i quali erano simiglianti ai suoi lavori” (Marghetic

… il volto nobile e pulito del ragazzino, messo inrisalto dal candore del colletto sul sobrio e

aristocratico abito nero … contrasta conl’abbigliamento sgargiante e variopinto

degli altri due giocatori, dal tono quasi eccessivo.

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Kristina Herrmann Fiore

SUONATORE DI LIUTO

Nel buio di una stanza, un colpo di luce illumina un giovanenell’attimo fuggente di una recita musicale. Mentre canta “conanima e corpo”, si accompagna con un grande liuto a sette corde

doppie. L’efebico cantore orienta lo sguardo direttamente su chi lo ascolta e lo guardada vicino. Fa da contrappunto al giovane un grande mazzo di fiori, composto da irisbianchi e scuri, una rosa, margherite, anemoni, garofani e gelsomini disposti ad arte inun vaso sferico di cristallo che riflette la luce. Riprendendo la cromia degli iris, il cantoreindossa una camicia bianca e sul suo braccio è avvolto un drappeggio bluastro scuro; ilbianco ritorna nel fiocco annodato che pende dalla capigliatura bruna (forse unaparrucca, come lascerebbe pensare la metallica messa in piega dei riccioli).

Cantando a memoria il giovane non ha bisogno di leggere le note e il testo scrittisullo spartito musicale poggiato in primo piano sul tavolo di marmo pavonazzetto e tenutoaperto sotto il peso di un violino. Incastrato sotto le corde del violino, l’archetto tende inmodo innaturale le corde di cui una già spezzata; peraltro anche il liuto evidenzia lesioni.

Il musico, nel suo “recitar cantando”, anticipa di qualche anno ciò che si svolgenel proemio della Rappresentazione di Anima e Corpo (prima opera sacra della storia dellamusica per l’anno Santo del 1600) di Emilio de’ Cavalieri, dove due “ragazzi cantori”discutono la questione su “che vi pare di questa nostra vita mortale?”. La risposta“mostra et apparenza di vanità” viene sviluppata con varie metafore, inclusa quella deifiori, nel sopra citato dramma musicale, in cui dal buio della fallace esistenza la lucedell’intelletto conduce alla salvifica percezione che “nel ciel è primavera / che ’l paradisoinfiora / e in sempiterno adora” (testo in Kirkendale 2001). Gli argomenti sviluppati nellaRappresentazione appartengono allo stesso ambito culturale in cui nacque il dipintoprimaverile del giovane Caravaggio.

I tratti androgini del giovane cantore hanno indotto Franca Trinchieri Camiz(1988, pp. 171-186) a proporre l’identificazione del modello con il famoso castrato PedroMontoya, solista della Cappella Sistina nel nono decennio del Seicento, nonché ospite nelpalazzo del cardinal Del Monte dove Emilio de’ Cavalieri gli aveva impartito sei lezioni dimusica. Altri studiosi sostengono che fosse invece il ritratto dell’amico di Caravaggio,Mario Minniti. In ogni caso è documentata l’usanza dei cantori di vestire abiti femminilinell’ambito delle performance in casa Del Monte (Macioce 2000, pp. 97-98).

Nel 1595-1596 Caravaggio si era da poco trasferito a Roma e da circa un annoera stato accolto con altri giovani e promettenti artisti (Wazbinsky 1994) nel palazzodel cardinale Francesco Maria Del Monte (protettore dell’Accademia di San Luca dal1595), quando, a circa venticinque anni, creò questo suo capolavoro. In questocontesto il pittore aveva occasione di partecipare ai riti musicali e teatrali, agliesperimenti scientifici nel campo dell’ottica e dell’alchimia, ai dibattiti sulla letteraturaantica e anche agli studi di scultura promossi dal suo mecenate nei momenti di “ozio”all’antica. Era un periodo in cui il giovane artista lombardo si era finalmente liberatodal compito di dipingere unicamente fiori e frutti, o di copiare ritratti, che avevacaratterizzato la sua attività presso lo studio del pittore Cavalier d’Arpino, suo primoreferente romano. I temi ora svolti riguardavano soprattutto la figura umana e i suoiamici e coetanei si prestavano come modelli. D’altra parte però – come riferisceVincenzo Giustiniani nella famosa lettera del 1610 – “Il Caravaggio disse, che tanta

Suonatore di liuto, 1595-1596 circa Olio su tela, 94 ✕ 119 cm San Pietroburgo, Museodell’Ermitage

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manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori, come difigure” (cfr. Bologna 1992, pp. 20 e sgg.). Come manifestaproprio il Suonatore di liuto di San Pietroburgo, l’impegnodi osservazione, la resa fedele della natura e la ricercaempirica degli effetti di luce e ombra (persino sullegoccioline di rugiada) e della prospettiva erano, per il pittorelombardo, parametri e confronti imprescindibili e applicatidunque a ogni tematica.

Caravaggio dipinge il ragazzo che offre il suo cantod’amore, includendo però nella tela anche un sottile“paragone” con il potere universale della pittura. Quest’ultimoera già stato teorizzato dal più grande dei maestri lombardi,Leonardo da Vinci, del quale le fonti riferiscono anche lapittura di un magnifico vaso di fiori bagnati dalla rugiada.

Analogo, benché “piccolo”, quadro raffigurante un vaso di fiori del giovane Caravaggio, incompetizione con gli esempi di Jan Bruegel il Vecchio (si consideri ad esempio il dipintodell’artista fiammingo della Galleria Borghese), risulta nell’inventario del cardinal DelMonte in un’opera non più rintracciata (Frommel 1971, p. 68).

Il quadro di San Pietroburgo era stato commissionato dal marchese VincenzoGiustiniani, che ambiva a un dipinto analogo posseduto dal cardinal Del Monte, e oggidisperso, con il quale condivideva gli interessi culturali e la passione per la musica. Nel suotrattato Discorso sopra la musica (1628 circa) il Giustiniani indica come miglior impiego delproprio tempo libero, in contrapposizione alla diffusa usanza del gioco per vincite, gli“esercizi virtuosi” di alta cultura e in particolar modo il perfezionamento della difficile artedi suonare il liuto e del moderno canto monodico, entrambi intesi come imitazione dellamusica degli antichi (Baldriga 2001, pp. 274-277). Al richiamo dell’antico difatticorrispondono, nella tela, anche la camicia scollata del cantore a mo’ di chitonisco e ildrappeggio avvolto intorno al braccio come nel rilievo romano del Ratto di Deianira presentenel cortile di palazzo Giustiniani. Riallacciandosi alle opere di autori antichi quali il Timeo diPlatone o il De musica di Plutarco, presenti nella sua biblioteca, Vincenzo Giustinianiconcepisce l’attività musicale come veicolo di intense emozioni, di affetti e di catarsi.

Il giovane Caravaggio sfida con questo dipinto i cinque sensi della vista,olfatto, tatto, udito e gusto (Ebert-Schifferer 2009, pp. 95-99). Infatti, la maestriaillusionistica del Merisi offre alla vista gli oggetti e le figure vicine, e i frutti idealmenteal tatto e al gusto. Il violino e il corpo del liuto appaiono esaltati nel loro valore tattilefino alla distinzione dello spessore delle corde: per lo scorcio prospettico del liuto,Caravaggio assimila suggestioni dalla tarsia del Suonatore di liuto di Antonio Barili(San Quirico d’Orcia, collegiata, cfr. Calvesi 1990, p. 27) come anche da una xilografiadello stesso tema di Dürer, da cui trae lo scorcio prospettico (Schütze 2009, pp. 56,69, 246). Il violino in prospettiva obliqua brilla sulla lastra di marmo e sporge oltre iltavolo come se l’osservatore lo potesse afferrare. Il vaso sferico di cristallo, quasi unospecchio ricurvo con un bouquet di fiori profumati, evoca l’associazione con il sensodell’olfatto. Anche la melodia del canto è immaginabile, poiché il pittore la precisanello spartito musicale, rendendo con fedeltà non soltanto le note, ma anche le

Il trionfo dell’arte pittorica di Caravaggio era certo eimmediatamente percepito dai contemporanei, come

si evince anche dalla lettura del Baglione che, nel1646, descrive in casa del cardinal Del Monte “[…]

un giovane che sonava il Lauto, che vivo e vero iltutto parea, con una caraffa de fiori pieno d’acqua

che dentro il reflesso d’una finestra eccellentemente siscorgeva con altri ripercotimenti di quella camera

dentro l’acqua, e sopra quei fiori eravi una vivaruggiadra con ogni esquisita diligenza finita.

E questo (disse) fu il più bel pezzo che facesse mai”.

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xilografie delle lettere iniziali dei testi e delle note del libro a stampa. Come analizzato da Franca Trinchieri Camiz (1983, pp. 67-90), il Suonatore di

liuto di Caravaggio recita uno dei quattro madrigali a quattro voci del compositorefiammingo Jakob Archadelt (1539-1654), ma si adegua all’innovazione musicale dell’epocanell’eseguirlo soltanto a una voce, suonando le tre parti basse con lo strumento a corde.

Caravaggio sceglie il terzo dei madrigali, che recita: “Voi sapete ch’io vi amo, anziv’adoro, / Ma non sapete già che per voi moro, / Ché, se certo il sapeste, / Forse di me qualchepietate avreste. / Ma se per mia ventura / Talhor ponete cura / Qual stratio fa di me l’ardentefoco, / Consumar mi vedret’a poco a poco.” All’elemento del “fuoco” interno si accompagna

quello dell’“aria” emessa con il canto del giovane, mentrel’“acqua” brilla nel vaso e sono offerti alla vista i doni dellaterra, i frutti e i fiori.

Gli altri madrigali esordiscono rispettivamente con“Chi potrà mai dir quanta dolcezza provo”, “Se la dura durezzain la mia donna”, “Vostra fui e sarò mentre ch’io viva” ederano dunque indirizzati a una donna amata.

La scelta della composizione fiamminga rimandaall’educazione dello stesso Vincenzo Giustiniani che, nel suotrattato, ricorda come suo padre da giovane gli facessestudiare i migliori maestri di composizione, tra cui, inprimis, Archadelt e Orlando di Lasso (Baldriga 2001, pp.274-277).

Sulla carta, sotto il libro musicale, appare anche lascritta “Bassus” che, oltre alla tipologia dai tratti tondeggianti del giovane musico,quasi nelle fattezze di un salvifico giovanissimo Cristo, può rimandare alle ispirazionidesunte dal famoso sarcofago di Junius Bassus, scoperto a Roma proprio nel 1595(Calvesi 1950).

I tratti femminei del ragazzo cantore hanno indotto a interpretazioniomoerotiche non documentate nella vita del pittore (Posner 1971; Frommel 1971;Röttgen 1974), ma resta sintomatico che nell’inventario Giustiniani del 1793 (n. 250) lafigura venga descritta come “la Fornarina che suona la chitarra”; d’altra parte Calvesi(1985, pp. 264-267) ha interpretato il dipinto in casa del cardinale come un’allegoriacristologica. Lo spettro di lettura rimane dunque, come in tutti i dipinti di Caravaggio,intenzionalmente aperto.

Questione complessa è la critica delle repliche o copie di ambito caravaggesco.Ormai condivisa è la priorità del dipinto, di accertata provenienza Giustiniani, a SanPietroburgo rispetto alla simile versione di provenienza Del Monte (New York, TheMetropolitan Museum of Art). Infatti, la radiografia di quest’ultimo ha rivelato che inuna prima versione vi era prevista una natura morta di frutti derivata dal dipintodell’Ermitage, che fu però sostituita nella redazione finale da uno spinettino posto su untappeto orientale (Christiansen 1990, pp. 58-59).

Il marchese Vincenzo, peraltro, aveva riunito in una stanza di palazzoGiustiniani a Roma altri dodici dipinti di Caravaggio. Oltre al Suonatore di liuto di SanPietroburgo, nel palazzo erano conservati il Cristo all’Orto, il ritratto di Fillide e la

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Caravaggio sceglie il terzo dei madrigali, che recita:“Voi sapete ch’io vi amo, anzi v’adoro, / Ma non

sapete già che per voi moro, / Ché, se certo il sapeste, /Forse di me qualche pietate avreste. / Ma se per miaventura / Talhor ponete cura / Qual stratio fa di mel’ardente foco, / Consumar mi vedret’a poco a poco.”

All’elemento del “fuoco” interno si accompagna quellodell’“aria” emessa con il canto del giovane, mentre

l’“acqua” brilla nel vaso e sono offerti alla vista i donidella terra, i frutti e i fiori.

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prima versione del San Matteo con l’angelo (tutte opere già a Berlino), il San Girolamo(Montserrat), una Maddalena nel deserto e il ritratto di Benedetto Giustiniani (nonpervenuti), l’Incredulità di san Tommaso (Potsdam, Schloss Sanssouci), l’Amorevincitore (Berlino, Gemäldegalerie), l’Incoronazione di spine (Vienna,Kunsthistorisches Museum), San Pietro (già museo di Erfurt) e Marta e MariaMaddalena, oggi al Detroit Institute of Arts (Danesi Squarzina 2001).

Dopo il dipinto di San Pietroburgo, quindi, Caravaggio, con la probabile assistenzadi Prospero Orsi (Ebert-Schifferer 2009, pp. 95-99), forniva al cardinal Del Monte la replicadi un simile suonatore di liuto nella versione oggi conservata al Metropolitan Museum diNew York, che si andava ad aggiungere all’altro Suonatore di liuto della collezione delcardinale. È senz’altro noto che Caravaggio dipinse varie versioni delle sue opere innovativedi grande successo, come dimostrano, tra l’altro, le varie repliche del cantore al liuto con osenza assistenti (figure a colori in Schütze 2009, pp. 56, 69, 246).

Il trionfo dell’arte pittorica di Caravaggio era certo e immediatamente percepitodai contemporanei, come si evince anche dalla lettura del Baglione che, nel 1646, descrivein casa del cardinal Del Monte “[…] un giovane che sonava il Lauto, che vivo e vero iltutto parea, con una caraffa de fiori pieno d’acqua che dentro il reflesso d’una finestraeccellentemente si scorgeva con altri ripercotimenti di quella camera dentro l’acqua, esopra quei fiori eravi una viva ruggiadra con ogni esquisita diligenza finita. E questo (disse)fu il più bel pezzo che facesse mai”. Questo dipinto, nonostante diverse ipotesi, nonsembra essere stato ancora ritrovato e doveva essere un prototipo precedente al liutista diSan Pietroburgo e a quello di New York.

È probabile la tesi di Whitfield (2008) secondo cui il dipinto disperso facevaparte originariamente dello “studiolo” del cardinal Del Monte (Roma, casinoLudovisi) in un contesto celebrativo della filosofia naturale e della cosmografia. Lavolta affrescata da Caravaggio in cui Giove mette in moto l’orbe celeste era dedicataalla “musica delle sfere”, mentre sulle pareti erano disposti alcuni dipinti del Merisitra il sacro e il profano, i cui soggetti erano connessi alla teoria degli astri: ad esempio,il pastore Coridone si legava al segno zodiacale dell’ariete, mentre i cantori e liutistidivenivano più genericamente esempi della “musica umana” e della “musicastrumentale”, secondo la classificazione antica delle tre categorie di musica approntatada Boezio. Nello stesso contesto potrebbe aver avuto senso per il “paragone” alliutista, per il contrasto della condizione giovanile, anche l’insolito dipinto diCaravaggio sul soggetto del gioco delle carte, noto come I bari, in simili misure (FortWorth, Kimbell Art Museum). L’accostamento di questi dipinti in un tipico contrastobarocco anticipa la teoria sopra citata che formulerà Vincenzo Giustiniani nel suoDiscorso sopra la musica del 1628.

Il Suonatore di liuto di San Pietroburgo, per l’altissima qualità di esecuzionenon paragonabile alle altre versioni pervenuteci, costituisce l’esempio più vicino alquadro già conservato nella collezione Del Monte citato dal Baglione. Si può dunquesostenere che già nel Suonatore di liuto disperso, come nella tela Giustiniani, il giovaneCaravaggio avesse sfidato i più famosi geni della pittura, capaci di ingannare la vistadei riguardanti con illusioni ottiche, come i maestri antichi e moderni Apelle, Zeusi,Giorgione e Leonardo.

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Barbara Savina

I MUSICI

Imusici è uno dei dipinti giovanili di Caravaggio di tema musicale,eseguito su commissione del cardinale Francesco Maria Del Monte, chescoprì il talento dell’artista e fu il suo primo mecenate a Roma. La tela,

acquistata nel 1953 dal Metropolitan Museum di New York, è datata generalmente al1594-1595, durante il soggiorno e il servizio del pittore a palazzo Madama, residenzadel cardinale. Quando il conoscitore Carritt la scoprì nel 1952 in una casa dicampagna inglese, nonostante il cattivo stato di conservazione ne comprese l’altaqualità e il valore storico. Mahon (1952b, pp. 20-31), che la pubblicò dopo ilritrovamento, ne propose l’identificazione, in seguito riconosciuta dalla maggior partedegli studiosi, con la Musica di giovani ritratti al naturale, prima opera eseguita daCaravaggio per il Del Monte secondo Baglione (1642, ed. 1935, p. 136), citata ancheda Bellori (1672, ed. 1976, p. 216).

Attraverso gli inventari seicenteschi è possibile ricostruirne i vari spostamentiattraverso raccolte prestigiose (in Macioce 2003, pp. 350, 353, 356, 365). “UnConcerto di Caravaggio” è segnalato nell’inventario del 1638 del maresciallo deCréquy, che forse lo ricevette in dono dal cardinale Antonio Barberini, acquirente dialtri dipinti del maestro venduti all’asta dagli eredi Del Monte.

Nel 1643 è documentato nella collezione del cardinale Richelieu e poi, nel1675, in quella della duchessa d’Aiguillon. In seguito passò in Inghilterra attraversovarie raccolte e infine venne ritrovato presso Thwaytes, collezionista con una passionespeciale per Caravaggio.

Secondo un inventario della collezione della duchessa d’Aiguillon la tela, cheera incollata allora su un supporto ligneo, recava un’iscrizione eseguita a foglia d’oro

mentre il dipinto si trovava nella raccolta de Créquy.Ancora ben visibile prima del restauro del 1983, la scritta èin caratteri mutili “… CHELAG DA CARAVAGGIO”: lelettere mancanti dovrebbero corrispondere alledecurtazioni subite forse nel corso di una secondarintelatura ottocentesca. Le dimensioni della tela,lievemente ridotta, corrispondono a quelle documentatenell’inventario delmontiano del 1627.

Il distacco dal supporto ligneo avrebbe causatodanni alla superficie pittorica, cui si sono aggiunte

ridipinture posteriori non idonee. L’esame radiografico, eseguito nel 1981, ha rivelatoche la figura in fondo a sinistra era provvista originariamente di ali, oggi appenavisibili e documentate nelle copie antiche. I ritocchi che le avevano coperte furonoscambiati in passato dai restauratori per un “pentimento” dello stesso Caravaggio. Leali si sono rivelate utili alla lettura iconografica e insieme alle frecce qualificano lafigura come Cupido.

Caravaggio inventa una composizione moderna e originale, dedicata allamusica e all’amore. Mette in scena tre ragazzi, “ritratti al naturale” e vestiti all’antica,con panneggi bianchi e camicie succinte, impegnati nei preparativi di un concerto.Cupido rimane in disparte sulla sinistra e concentra tutta la sua attenzione suigrappoli d’uva che tiene in mano. Il ragazzo posto al centro sta accordando un liuto,

I musici, dalle espressioni languide e incantate, hannoun viso ovale, levigato, con guance gonfie e

incorniciato da morbide ciocche ondulate. Hanno unaforma caratteristica gli occhi, quasi lucidi per

l’emozione, e le mani, dalle dita lunghe e sottili. La bocca è tenuta leggermente aperta, con la lingua

tra i denti, come in un’esecuzione canora.

I musici, 1594-1595 circa Olio su tela, 92,1 ✕ 118,4 cm New York, The MetropolitanMuseum of Art

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rappresentato di scorcio e senza le corde, cancellate in passato. Il compagno a destra,posto di spalle, sta leggendo una partitura musicale. Dietro compare la testa di unterzo giovane che si sta preparando a suonare un corno, visibile solo nel marginedestro. In primo piano, direttamente davanti agli occhi dell’osservatore, sono posti unviolino con il suo archetto e un altro spartito aperto, ricostruiti nel corso dell’ultimorestauro. Purtroppo però la pagina di musica non è più leggibile in vari punti a causadelle lacune. Il contenuto doveva essere ben noto al colto e competente cardinale: sitrattava forse di madrigali amorosi, come quelli individuati negli spartiti di altri dipintidel maestro dalla Trinchieri Camiz (1991, pp. 213-226).

È evidente l’androginia dei ritratti. I musici, dalle espressioni languide eincantate, hanno un viso ovale, levigato, con guance gonfie e incorniciato da morbideciocche ondulate. Hanno una forma caratteristica gli occhi, quasi lucidi perl’emozione, e le mani, dalle dita lunghe e sottili. La bocca è tenuta leggermente aperta,con la lingua tra i denti, come in un’esecuzione canora.

Per la prima volta Caravaggio sperimenta una composizione a più figure,scalate in profondità secondo linee diagonali, e dimostra sensibilità nei confronti dellaprospettiva, al centro degli interessi di Guidubaldo, fratello del committente, che videdicò un trattato.

Le figure, dipinte a partire dal fondo fino al primo piano, sembranoschiacciate l’una sull’altra. Ai raggi X sono visibili la sovrapposizione delle variecampiture e le incisioni eseguite con uno stilo appuntito nei punti di più difficilecostruzione, come in corrispondenza delle pieghe dei panneggi e lungo il profilo deglistrumenti musicali scorciati.

È evidente la ricerca di un contatto diretto con l’osservatore. Lo sguardoparte dal lato sinistro e dallo spartito, lasciato volutamente aperto, balza agli occhipenetranti del ragazzo posto in fondo, interpretato da alcuni studiosi come unautoritratto: nei tratti fisionomici ricorda infatti il Bacchino malato. Il pittore quindiinvita l’osservatore a unirsi ai musici e a prendere parte a un concerto reale.

Secondo Frommel (1996, pp. 18-21) come modello per le due figure centraliposò il sedicenne Minniti, suo coinquilino e collaboratore nei primi anni romani. PerChristiansen (1986, pp. 422-424) ricorse a uno stesso modello, proveniente forse dallasua cerchia di amici, in una varietà di pose, inserendo un personaggio dopo l’altronella costruzione. Un ruolo centrale in questa viene svolto dalla luce, che si alterna alleombre in una sapiente regia.

Domina il rosso del manto del superbo suonatore di liuto in primo piano,non distante dal protagonista della tela dell’Ermitage. Le pieghe dei panneggi, a trattirigide, il profilo del braccio in primo piano, il taglio degli occhi e i tratti fisionomici,simili a quelli dello stesso artista, rimandano alle tele giovanili.

La composizione s’ispira agli interessi musicali del committente. I concertierano iconografie diffuse nella cultura rinascimentale, soprattutto in quella veneziana,cara al pittore, e alla maniera giorgionesca rimanda anche la vivacità coloristica.

Caravaggio sperimenta una soluzione originale rispetto alla tradizione,ritraendo efebi impegnati in una performance musicale nel camerino delmontiano.

L’androginia dei giovani musici, con una fisionomia molto vicina alle figure

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delle sue prime tele, trova una spiegazione in unaraffigurazione realistica piuttosto che nella propensionedell’artista verso tematiche omosessuali.

Il cardinale Del Monte, esperto d’arte, amava lamusica: in qualità di patrono del coro della cappella Sistinaproteggeva musici e cantori e organizzava concerti nel suopalazzo. In queste esecuzioni erano preferiti i castrati per laloro voce sensuale, flessibile, con un registro più estesonegli acuti. Gli artisti suonavano gli strumenti presenti nellacollezione del cardinale, raffigurati nelle tele musicali diCaravaggio, ed erano abbigliati secondo la moda classica: inun’incisione di Cornelis Cort (1533-1578), raffiguranteun’Allegoria della musica, compaiono infatti abiti simili a

quelli dei Musici caravaggeschi. Secondo l’inventario delmontiano del 1627, I musici erano esposti “nella prima

stanza dell’appartamento nuovo del cardinale”, a poca distanza dal Suonatore di liuto, edisgiunti dalla scene di genere dei Bari e della Buona ventura (Gregori 1985d, pp. 228-235). Allietavano la vista e lo spirito del cardinale e degli ospiti selezionati invitati ai suoiconcerti, che si svolgevano in un’atmosfera intima all’interno di un camerino.

L’opera, di cui le fonti sottolineano il naturalismo, fu presentata nelle asteottocentesche con il titolo Amore e Armonia o Concerto bacchico in una pluralità dichiavi di lettura.

La presenza di Cupido porta infatti la composizione su un altro livello disignificato (Schütze 2009, p. 246, con bibliografia precedente): oltre che una scena diconcerto, è un’allegoria che celebra l’armonia amorosa, generata dalla musica che esprimele passioni. I grappoli d’uva alludono al potere stimolante e consolatorio del vino, che puòalleviare lo spirito e dà un aiuto alla melodia della voce, come spiega l’Iconologia di CesareRipa (1593). Rimandano inoltre al “furor dionisiaco”, opposto alla razionalità e all’ordineapollineo, cui alludono gli spartiti musicali in primo piano. Il liutista, che sta accordando ilsuo strumento, rappresenterebbe la conciliazione tra i due aspetti.

Il fascino dei Musici deriva dalla fusione della bellezza dei due sessi. Ildipinto, nato in un raffinato clima culturale, è un omaggio al committente e la suaarmonia seduce i sensi in un inno all’amore e alla musica.

La presenza di copie antiche documenta il successo riscosso presso icontemporanei da questa sofisticata inventio, in cui Caravaggio sfida le convenzioni esperimenta nuove soluzioni prospettiche, in una sintesi originale di natura e tradizione.

Caravaggio inventa una composizione moderna eoriginale, dedicata alla musica e all’amore. Mette in

scena tre ragazzi, “ritratti al naturale” e vestitiall’antica, con panneggi bianchi e camicie succinte,

impegnati nei preparativi di un concerto. Cupidorimane in disparte sulla sinistra e concentra tutta lasua attenzione sui grappoli d’uva che tiene in mano.… Il dipinto, nato in un raffinato clima culturale, èun omaggio al committente e la sua armonia seduce

i sensi in un inno all’amore e alla musica.

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Caravaggio, assieme a Gian Lorenzo Bernini, è l’artista più legatoalla figura di collezionista di Scipione Borghese; e, come lui, ne èstato in qualche modo determinato. Tutto il suo percorso, dagli

esordi alla morte, è intrecciato alla vicenda del cardinale creatore della straordinariacollezione Borghese. Ma, a sua volta, contribuisce a crearne la fisionomia di modernocollezionista, capace di evolvere assieme agli sviluppi dell’arte a lui contemporanearinnovando e trasformando la propria cultura e mutando così per sempre la tipologiadel raccoglitore d’arte legato all’esclusivo mito dell’antichità.

Scipione Borghese è il prototipo del collezionista moderno, capace di“individuare per tempo le novità dell’arte e i loro interpreti più validi” (Calvesi 1994,p. 273). Ciò non toglie che, per raggiungere i suoi intenti collezionistici, egli sia statosommamente spietato ricorrendo a soprusi deplorevoli. L’acquisizione di questodipinto alla sua collezione ne è una delle prove più celebri ed eclatanti. Nel momentoin cui mise gli occhi sul Ragazzo con canestra di frutta e sul Bacchino malato, i duesplendidi dipinti giovanili di Caravaggio, il cardinal Borghese possedeva già almenoun’opera, La Madonna della serpe (e forse anche il San Gerolamo), del pittore che era inquel momento di maggior grido a Roma e il più ambito dai collezionisti.

Le due opere però appartenevano al Cavalier d’Arpino, celebrato pittorenella Roma di Clemente VIII e subito coinvolto dal nuovo papa nelle monumentaliimprese pubbliche borghesiane con un ruolo di particolare rilievo. Ciò non impedì alcardinale di infliggergli l’estremo abuso della prigione, della condanna e del sequestrodei beni, motivandoli con l’abile pretesto del possesso non autorizzato di una raccoltadi archibugi. Per ottenere la grazia il Cesari dovette donare i suoi quadri alla Cameraapostolica (atto del 4 maggio 1607), cosicché Scipione poté entrare in possesso,attraverso un chirografo papale del 30 luglio, delle agognate tele di Caravaggio.

Il Ragazzo con canestra di frutta, generalmente considerata la prima operaconosciuta di Caravaggio assieme al Bacchino malato, era entrato nella raccolta delCavalier d’Arpino molto probabilmente a seguito della breve attività del giovaneMerisi in quella bottega intorno al 1593 (ma Posner ipotizza che il Cavalier d’Arpinoavesse comprato entrambi i quadri successivamente e con intento speculativo,quando il Caravaggio era già famoso e la sua opera molto ricercata).

Dunque, a seguito della cessione da parte dello zio, il papa Paolo V, nel 1607il cardinale Scipione entrò in possesso del Ragazzo con canestra di frutta e delBacchino malato. Nella lista del Fiscale di Paolo V l’opera porta il numero 56. Vi siscorge ancora il numero 475 sotto il quale il quadro era registrato assieme alBacchino, da dove invece è scomparso, e che potrebbe riferirsi alla numerazionedell’eventuale elenco per il fidecommisso del 1633.

I vari inventari della collezione testimoniano che la nozione della paternitàcaravaggesca permane nel corso del tempo in casa Borghese, finché non viene messain dubbio nel 1888 dal direttore della Galleria, il pittore Giovanni Piancastelli, chedegrada l’opera a copia, probabilmente indotto in dubbio dall’eccezionale stato diconservazione e dalla meravigliosa finitezza dei dettagli nella natura morta,diversamente dal resto della composizione. Già nel 1893 tuttavia Adolfo Venturi, nelprimo catalogo della Galleria, recupera l’opera al Caravaggio consentendo alla

Anna Coliva

ragazzo

con canestra

di frutta

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storiografia successiva di considerarla costantemente uno dei riferimentifondamentali della sua produzione giovanile.

Gli esami svolti sul dipinto in occasione di una recente pulitura che harimosso le moderne vernici ingiallite (2000) hanno portato all’individuazione dinumerosi piccoli grumi calcarei di sabbia fine sull’intera superficie e hanno anchepermesso di eliminare qualunque dubbio sull’autenticità dell’opera, che era statanuovamente messa in discussione da Arslan (1951), e di riconoscere che l’eccezionaleprecisione esecutiva della natura morta nel cesto è intenzionalmente ricercatadall’artista in contrasto con l’esecuzione più morbida della figura e del suo incarnato.Anche l’opinione di Friedländer (1955, p. 145) secondo cui la figura sarebbe opera diun compagno entro la bottega del Cavalier d’Arpino si deve evidentemente allamancata comprensione di questo intenzionale contrasto.

Unanimemente riconosciuta come opera giovanile, la datazione ipotizzatadalla critica varia tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, a secondadelle diverse ricostruzioni del primo periodo del Caravaggio, per cui si oscilla dal1589-1590 di Longhi (1951 e 1952) al 1592-1594 di Mahon (1951 e 1952). In basealle importanti precisazioni sulla biografia del pittore dovute alla Cinotti, il suoarrivo a Roma può essere stabilito al 1592 e l’esecuzione dell’opera alla fine del 1593o inizi del 1594, subito dopo l’Autoritratto come Bacco e come immediatosuperamento della secchezza esecutiva di quest’ultimo (Cinotti 1971; Calvesi 1971;Frommel 1971b; Marini 1974; Moir 1982).

Come per l’Autoritratto come Bacco, l’individuazione da parte di RobertoLonghi di una discendenza stilistica dalla cultura figurativa lombarda per questogenere di dipinti giovanili raccoglie una generale concordanza ed è stataulteriormente precisata da Mina Gregori (1973 e 1985b), che ha indicato ilsuperamento del realismo lombardo-emiliano di origine fiamminga in una fusione disignificati pittorici e qualità poetiche che richiamano la cultura veneto-giorgionesca.Confermano e approfondiscono i percorsi di questa tradizione gli studi di Calvesi(1954) sull’apprendistato presso Peterzano, di Wind (1975), che indaga le affinitàcon la pittura veneto-emiliana e la relazione tipologica e poetica con Dosso Dossi, diHibbard (1983), che ribadisce le generali fonti stilistiche leonardesche fino ai precisiprecedenti in Vincenzo Campi.

L’ulteriore conferma di tali affinità può venire dal più preciso antecedenteiconografico del dipinto presente nella stessa collezione Borghese, il Cantoreappassionato un tempo attribuito a Giorgione. Sebbene tale attribuzione non sia piùsostenibile (Coliva 1994, pp. 56-58), esso testimonia tuttavia di una tradizioneiconografica esistente nel Veneto e nel Lombardo-Veneto e dell’attenzione formaleche il Caravaggio vi dedicava nel replicare il poetismo della testa, spinta all’indietrosul collo allungato dall’empito sentimentale. Non riterrei affatto che l’effetto vadaimputato a una distorsione dovuta alla proiezione del modello sulla tela, come è statodi recente proposto (Lapucci 2009, p. 61) applicando con eccessivo automatismoun’ipotetica procedura tecnica a risultati formali. Tale riferimento rafforzerebbeinoltre l’inclinazione del pittore verso contesti elegiaci di tradizione giorgionescadell’arte come poesia, piuttosto che allegorici o di classicismo erudito.

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Ragazzo con canestra di frutta,1593-1594 Olio su tela, 70 ✕ 67 cm Roma, Galleria Borghese

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Le divergenze insorgono nell’interpretazione tra chi, al seguito di Longhi,considera il tema come un’imitazione del reale, intenzionalmente privod’implicazioni simboliche (Gregori 1985b), e chi indaga invece la presenza dicontenuti traslati. Trascurando una vecchia ipotesi, in seguito decaduta, per cui ilgiovane raffigurerebbe un autoritratto (Czobor 1955; Wagner 1958), Bauch nel 1956ipotizzava che oltre a rappresentare l’Autunno, assieme ad altre tele dello stessoperiodo il dipinto appartenesse a un ciclo allegorico dei cinque sensi dipendente dalmodello iconografico di Frans Floris nella serie incisa da Cornelis Cort. L’ipotesi diraffigurazione del Gusto, sia proveniente da un disperso ciclo dei cinque sensi, siarappresentato isolatamente, è stata in seguito riaffermata da Costello (1981) eHeimbürger (1990), la quale vi cumula anche l’allegorizzazione dell’Autunno e dellaTerra. Jullian (1961) evocava un generico collegamento con la tematica della Vanitas,condiviso recentemente da Cottino (in La natura morta... 1995, pp. 104-105) eprecedentemente da Wind (1975), che interpretava la composizione

contemporaneamente come Autunno e Vanitas. Nel 1971,anno delle interpretazioni omoerotiche dell’opera giovaniledel Caravaggio, Posner riteneva che questo giovanerappresentasse con evidenza l’offerta di sé stesso e che ilcesto di frutta fosse metafora di ghiottoneria erotica. Manello stesso anno Maurizio Calvesi, basandosi suprecedenti iconografici e su fonti biblico-religiose,affermava la pregnanza semantica dei dipinti giovanili del

Caravaggio quali opere che, tra il sacro e il profano, indagano sulla tematicadell’Amore. In particolare, interpretava il Ragazzo con canestra di frutta comeun’allegoria dell’Amore di Cristo che redime e dà vita eterna. Questo ben si collegaalla temperie poetica evocata da Argan (1962) per le opere giovanili, dove anche iragazzi con frutta sarebbero natura morta in quanto presagio di morte. Anche perMarini (1987) il tema è un’allegoria d’amore, ma piuttosto in un’accezione profana econ l’intenzione di esprimerne la contraddittorietà psicologica, sotto la guida di poetierotici latini quali Ovidio o Properzio.

In effetti la profonda malinconia dello sguardo del ragazzo, che lo lega allosguardo analogo, ma potentemente rafforzato, del giovane Davide che guarda ilcolpevole Golia, mi sembra che renda insoddisfacente, per quest’opera, una letturain chiave allegorica sia nella direzione della rappresentazione dei cinque sensi che diquella delle stagioni. Sarebbe invece perfettamente coerente con l’interpretazione diCalvesi di Cristo come Amore nell’estremo gesto della donazione di sé, che nellastruggente compassione dello sguardo rivela la consapevolezza dell’inutilità del donoa un’umanità non redimibile e senza possibilità di salvezza, come Davide ribadiscenella dolorosa opera estrema, che trascende e banalizza il dato autobiografico. NelRagazzo con canestra il gesto appassionato e perfettamente naturalistico delgiorgionesco Cantore appassionato, con l’analogo arretrare del capo nell’afflato liricoche spira dalla bocca aperta, è sostituito dal gesto dell’offerta della canestra comedono di sé sotto forma di frutta, secondo una tradizione cinquecentesca riscontrabileanche all’interno della stessa collezione Borghese. Infatti, oltre che nella Sacra

… Maurizio Calvesi, basandosi su precedentiiconografici e su fonti biblico-religiose, affermava la

pregnanza semantica dei dipinti giovanili delCaravaggio quali opere che, tra il sacro e il profano,

indagano sulla tematica dell’Amore.

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Famiglia di Battista Dossi, si ritrova nella Madonna col Bambino di Lamberto Sustris(inv. 412, Coliva 2008), in cui il canestro è offerto da san Giovannino.

All’influenza letteraria dell’antichità latina si erano riferiti, nel corso deltempo, già Del Bravo (1974), che vi scorgeva la fascinazione della poetica di Orazioall’origine della semplicità e della frugalità della rappresentazione, e Hibbard, ilquale, riferendosi all’archetipo, narrato da Plinio il Vecchio, del dipinto di Zeusiraffigurante un giovane che porta grappoli così realistici da ingannare gli uccelli chetentano di beccarli, poneva in evidenza il concetto della qualità illusiva dell’artenell’imitare la realtà naturale. La perfezione mimetica e il nitore esecutivo della

canestra di frutta vanno effettivamente interpretati nelsenso del racconto pliniano di Zeusi e la diversità di stesuraesecutiva della figura, più sfumata e imprecisa nelladefinizione, ha forse la sua fonte mitografica e tematica neldisappunto di Zeusi per non essere riuscito a esserealtrettanto simile al vero nella raffigurazione dell’umano,visto che il volatile non si era spaventato per la suapresenza. Il contrasto tra la figura e il cesto della frutta, chetante difficoltà ha posto alla critica, causando le varieipotesi di non autenticità o di doppia esecuzione, si deveall’intenzionale sfida a rappresentare con diversa capacitàmimetica la contrastante natura della realtà viva, dotata dianima, e quella morta, degli oggetti inanimati.

Questa tematica, con le sue coesistentiimplicazioni tanto teoriche quanto morali, trova molticonfronti nel gusto intellettuale diffuso a Roma nei primidecenni del secolo e, con particolare magniloquenza evarietà di applicazioni, presso la corte di Scipione Borghesedove viene trattata in infinite occasioni sia letterarie cheteatrali, che musicali, che poetiche, che pittoriche, che

scultoree. Già Calvesi (1994) rilevava l’ardente desiderio di Scipione Borghese, nelcomporre la sua Galleria e la sua villa, di circondarsi di temi bacchici, che rinviavanoa concetti d’amore, a un tempo sacro e profano.

La perfezione mimetica e il nitore esecutivo dellacanestra di frutta vanno effettivamente interpretati

nel senso del racconto pliniano di Zeusi e ladiversità di stesura esecutiva della figura, più

sfumata e imprecisa nella definizione, ha forse la sua fonte mitografica e tematica nel

disappunto di Zeusi per non essere riuscito a esserealtrettanto simile al vero nella raffigurazione

dell’umano, visto che il volatile non si eraspaventato per la sua presenza. Il contrasto tra la

figura e il cesto della frutta, che tante difficoltà haposto alla critica … si deve all’intenzionale

sfida a rappresentare con diversa capacità mimeticala contrastante natura della realtà viva, dotata di

anima, e quella morta, degli oggetti inanimati.

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Mina Gregori

BACCO

Un giovane pingue a rappresentare Bacco, incoronato di pampini egrappoli d’uva, è seduto su un triclinio ricoperto da un biancolenzuolo, sotto il quale si vede una rustica e sudicia fodera rigata.

Il dio sembra offrire al riguardante la coppa di vino che regge con la mano sinistra,ciò che ha fatto pensare che il quadro sia stato dipinto mediante specchi secondo unatecnica ricordata dal Baglione (1642, p. 136; Lapucci 2005, pp. 15-24; Massa 2009) equi suggerita anche dalle sorgenti di luce e dai diversi punti di vista (Lapucci 2009).La vibrazione della superficie del vino nella coppa e nella caraffa fa intendere che èstato appena versato. Queste notazioni vogliono dare alla rappresentazione unadinamica attimale non derivante da moti del protagonista.

Alla caraffa e alla fruttiera con frutti autunnali e grappoli d’uva è accordataun’attenzione pari alla figura. La fruttiera è la caratteristica “crespina” faentina che sitrova simile nei dipinti di Vincenzo Campi e nelle prime nature morte lombarde diFede Galizia. Il Caravaggio la ricavava da un’iconografia già diffusa nel Cinquecentonella regione e forse già da lui adottata in una sua sconosciuta attività in Lombardia.

Dopo che nel 1913 il Bacco fu ritrovato da Matteo Marangoni nei depositidegli Uffizi, dov’era classificato nell’ultima classe, la quarta, dei dipinti della Galleria,lo studioso lo riconsiderò nel 1916 e lo pubblicò l’anno seguente (1917-1918, p. 13)ritenendolo una copia del Caravaggio, ma riferendo l’opinione del Longhi che neaveva riconosciuto l’autografia. Anche Marangoni aderì a questa proposta, accoltaalla mostra del Seicento e Settecento a Palazzo Pitti a Firenze (in Mostra della pitturaitaliana... 1922, p. 20) e da Hermann Voss nel 1923 (pp. 77-78).

In seguito, il Marangoni (1922-1923, pp. 219-220) segnalò nel dipinto una testariflessa nella caraffa proponendo che fosse quella del pittore. Un’indagine recentissima,avviata, nell’ambito del progetto di ricerca del Comitato nazionale per le celebrazionidel IV centenario della morte del Caravaggio, dal gruppo fiorentino da me diretto ecoordinato da Roberta Lapucci e Anna Mazzinghi (Nuove scoperte... 2009), haconsentito, mediante la riflettografia a infrarossi multispettrale, una più chiara letturadella figura con il braccio proteso e che sembrerebbe in atto di dipingere sopra una telao una tavola in iscorcio. A occhio nudo è difficilmente distinguibile per estesi ritocchi eper una vernice applicata per coprire gli effetti del tempo e dei restauri.

Nel corso della riscoperta moderna del Caravaggio, partendo dai soggettiricordati dalle fonti si credette che quest’opera fosseidentificabile con il dipinto che secondo il Baglione (1642,p. 136) il Caravaggio eseguì subito dopo aver lasciato ilCavalier d’Arpino: “Indi provò a stare da se stesso, e fecealcuni quadretti da lui nello specchio ritratti. Et il primo fuun Bacco con alcuni grappoli d’uve diverse, con grandiligenza fatte; ma di maniera un poco secca.” Taleidentificazione ha suggerito la sua collocazione come laprima o tra le prime opere note del Caravaggio (Voss 1923,p. 78; Id. 1924, p. 437; Venturi 1951, pp. 8, 47; Longhi1952, pp. 14, 18, n. III). Spetta a Denis Mahon (1951, p.234, nota 110; Id. 1952, p. 19) la proposta, per

Accompagnandosi all’interpretazione classicistica del soggetto, le forti notazioni naturalisticherappresentano quella che è stata definita …

l’incongruenza del Caravaggio, fonte di ammirazione e di profonda opposizione.

… E non vanno trascurati i particolari della boccatumida e delle unghie sporche, non confacenti al

giovane dio, ma appropriate al garzone che il pittoreha messo in posa per ritrarlo.

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considerazioni stilistiche, di situare il Bacco posteriormente alle prime mezze figure,nel periodo in cui il pittore stava presso il cardinal Del Monte (1951: 1596-1597;1952: 1595-1596). Ancora il Mahon (1953, p. 215, note 22, 23) ha considerato lapostilla del Mancini (1617-1621, ed. 1956-1957, I, 1956, p. 226) in cui annota “unBacco bellissimo et era sbarbato (?) lo tiene Borghese” e ha ipotizzatoragionevolmente che questa citazione si riferisca al dipinto della Galleria Borgheseanche noto come il Bacchino malato.

Si deve concludere pertanto che il Bacco degli Uffizi non ha riscontro nellefonti. È probabile che l’opera sia pervenuta a Firenze subito dopo la sua esecuzione osia stata dipinta su richiesta del cardinal Del Monte per essere inviata a Ferdinandode’ Medici (Del Bravo 1974, ed. 1985, pp. 160-164). Il dipinto non è ricordato nellecollezioni medicee dallo Scannelli, che ha descritto con ampio consenso il Cavadenti(1657, p. 199), e corrisponde invece alle menzioni rese note da Elena Fumagalli(1998, p. 88, n. 33) di un Bacco nella villa medicea di Artimino (1609, 1620, 1638, inquest’ultimo documento ricordato nel primo piano della villa e descritto conparticolari che ne confermano l’identificazione). La sua ubicazione appartataconcorre a spiegare l’assenza di citazioni e il motivo per cui non se ne conosconocopie (Moir 1976, p. 85) né libere derivazioni.

La cronologia più avanzata è stata accolta unanimemente dagli studiosi; unadatazione intorno al 1597 e in prossimità del Suonatore di liuto e della Buona venturadel Louvre, in cui riappare nel giovane lo stesso modello o la stessa tipologia delBacco, sembra la più conveniente. La pienezza dei volti maschili in queste opere puòessere il risultato di una ricerca di stilizzazione. Di fatto, il tema mitologico dovettesollecitare nel lombardo l’incontro con il mondo antico e l’intento di rievocarlo consoluzioni formali e con dotte citazioni. Bacco è presentato sul triclinio e le fattezzesensuali del dio ricordano le rappresentazioni del periodo adrianeo di Antinoo e diBacco (Friedländer 1955, ed. 1969, p. 85). Dell’interesse del Caravaggio per l’anticocome si esprime nelle mezze figure giovanili, il Bacco degli Uffizi è l’episodiochiarificatore.

Accompagnandosi all’interpretazione classicistica del soggetto, le fortinotazioni naturalistiche rappresentano quella che è stata definita dal Berenson (1951)l’incongruenza del Caravaggio, fonte di ammirazione e di profonda opposizione. Sinotano le variazioni di colore dell’epidermide sul viso regolare, sulle mani arrossate,

sul petto e sul braccio muscoloso, snodato magistralmentecome in taluni esempi di Simone Peterzano e ingiustapposizione illusiva al corpo nudo. E non vannotrascurati i particolari della bocca tumida e delle unghiesporche, non confacenti al giovane dio, ma appropriate algarzone che il pittore ha messo in posa per ritrarlo. Similirisultati di approccio naturalistico si rilevano anche nellavarietà dei pampini che cingono la testa del Bacco e nellapienezza dei frutti che li approssima a quelli della Canestraambrosiana e della cesta sulla tavola della Cena in Emmausdella National Gallery di Londra. E il pittore si esibisce in

Bacco, 1597 circaOlio su tela, 95 ✕ 85 cmFirenze, Galleria degli Uffizi

Simili risultati di approccio naturalistico si rilevanoanche nella varietà dei pampini che cingono la testa

del Bacco e nella pienezza dei frutti che liapprossima a quelli della Canestra ambrosiana e

della cesta sulla tavola della Cena in Emmaus dellaNational Gallery di Londra. E il pittore si esibisce in

acutezze leonardesche derivate dall’Ultima Cena

nelle trasparenze della caraffa e della coppa col vino.

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acutezze leonardesche derivate dall’Ultima Cena nelle trasparenze della caraffa e dellacoppa col vino.

L’esecuzione si caratterizza per una varietà di modi e di sofisticate soluzionipittoriche che testimoniano la cura dedicata al dipinto (Gregori 1985b, p. 246;Lapucci 2009) e l’importanza del committente e della destinazione. Lungo alcuni

contorni si evidenzia una poco più ampia superficie enréserve all’interno della quale si poteva lavorarerapidamente. Si notano altresì sovrapposizioni, pentimentie incisioni indicate da Keith Christiansen (1986, p. 437).

Le interpretazioni iconografiche e iconologichehanno visto il Bacco in una discussa chiave erotico-omosessuale (Posner 1971, XXXIV, pp. 302-303, 308, 313)e come divinità androgina (Hibbard 1983, pp. 42-43). AMaurizio Calvesi (1971, pp. 96-97; 1985, pp. 267-270;1990, pp. 221-224) risalgono l’interpretazione del Baccocome prefigurazione o come allegoria del Cristo e

l’indicazione della simbologia cristologica dei frutti e dei tralci di vite e di motividionisiaci. Altre letture in chiave morale e oraziana si riferiscono al probabile dono eal rapporto tra il Del Monte e il granduca Ferdinando (Del Bravo 1974, ed. 1985, pp.160-164; Marini 1974, p. 357). Una proposta recente ipotizza la prima destinazionedel dipinto a Roma, a una stanza privata del cardinale, il camerino di musica (Marini2001, p. 413).

Alla caraffa e alla fruttiera con frutti autunnali egrappoli d’uva è accordata un’attenzione pari alla

figura. La fruttiera è la caratteristica “crespina”faentina che si trova simile nei dipinti di Vincenzo

Campi e nelle prime nature morte lombarde di FedeGalizia. Il Caravaggio la ricavava da un’iconografia già

diffusa nel Cinquecento nella regione e forse già da luiadottata in una sua sconosciuta attività in Lombardia.

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La Canestra di frutta (o, anche in latino, Fiscella) appartieneall’Ambrosiana di Milano, istituzione che fu fondata dal cardinaleFederico Borromeo e da lui stesso dotata nel 1607, tra gli altri dipinti, di

questo stupendo capolavoro del Caravaggio. Non si conoscono, in effetti, proprietaridell’opera anteriori al Borromeo, il quale aveva una passione per le nature morte di fiori,specie del prediletto Jan Bruegel, e fu quindi certamente il committente o comunquel’acquirente di questa fiscella.

Ma perché è così straordinariamente bella, la Canestra? Non certo perchériproduce la frutta con esattezza che potrebbe dirsi fotografica. Qui tuttavia, dal realismo,si genera una mirabile struttura formale, verificabile secondo due percorsi complementariche chi guarda può seguire. Per accertare, infatti, la fedeltà al naturale della Canestra,l’occhio dovrà inseguire i minimi particolari in un itinerario labirintico, soffermarsi sulmodo in cui sono resi i singoli frutti, le singole foglie. Ma per ben percepire la “plasticità”dell’immagine, l’occhio dovrà invece abbracciare l’insieme, osservare come l’ombraaddensata sul fianco destro del canestro faccia risaltare le sue parti in luce, traducendonela naturale rotondità in una rotondità che è quella del “volume”, della forma pura,pervasa dalla segreta vita di una luce cristallina tra cui bisbigliano lievi passaggi dichiaroscuro; come questa forma venga in avanti, imponendo la propria nitida curvaturaall’occhio che ne resta magnetizzato; e come infine a questo effetto concorral’accorgimento – non subito percepibile come tale – di far sporgere dal piano d’appoggioil cesto, creando così anche, sotto a esso, un’altra ombra che ne rinforza il risalto.

Allora si apprezzerà come un rotondo volume anche il cumulo dei frutti,ciascuno dei quali riecheggia quell’ideale sfericità a cui concorrono tutte le parti deldipinto: ma l’occhio avvertirà al contempo che, intorno a queste forme accentrate come inun unico nucleo plastico, i gambi e le foglie sporgenti, svolgendosi e capovolgendosi inritmi alterni tra ombra e luce, creano altrettante varianti, cenni di movimento, una danzadi profili frastagliati nella leggerezza dell’aria, ovvero del fondo modulato in chiaro.

Fissità – ma non immobile, grazie ai fermenti della luce – e animazionedialogano così scambiandosi a vicenda il proprio fascino d’idealità e d’esistenza. Eccoallora che anche il naturalismo, la perspicuità d’osservazione dei particolari – dove lafoglia s’insecchisce, dove la mela si mostra bacata, dove l’uva s’impolvera di quella suapatina – cessa di essere fine a sé stesso e diventa una componente essenziale dell’effettomagico della pittura, nel suo catturare, e trascendere, la vita.

Alla pienezza dell’aggetto, circolare e robusto come il “tutto tondo” del primoSan Matteo e l’angelo, s’accoppia la grazia della disposizione, la misura che contiene ilrigoglio e che ha qualcosa, ancora, della calibratura rinascimentale e del luminismoplastico di un Antonello da Messina.

Federico Borromeo commentò la Canestra nel suo Musaeum, pubblicato nel1618, scrivendone in questi termini entusiastici: “Nec abest gloria proximae huic fiscellae,ex qua flores micant. Fecit enim Michael Angelus Caravagensis Romae nactus auctoritatem,volueramque ego fiscellam huic aliam habere similem, sed cum huius pulchritudinem,incomparabilemque excellentiam assequeretur nemo, solitaria relicta est.”

Il cardinale asserisce di aver desiderato un’altra “canestra” a pendant di questa,ma, essendo morto (o lontano) il Merisi, non riuscì a trovare nessun altro (dunque

Maurizio Calvesi

CANESTRA DI FRUTTA

Canestra di frutta, fine XVI-inizio XVII secoloOlio su tela, 31 ✕ 47 cmMilano, Veneranda BibliotecaAmbrosiana, Pinacoteca, inv. 151

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neanche il Bruegel?) che potesse uguagliare la sua “bellezza e incomparabile eccellenza”. Malgrado questa dichiarazione, si è voluto credere che il Borromeo non avesse a

cuore il dipinto, essendo inverosimile che un rappresentante della Controriformaapprezzasse l’arte del Caravaggio, presunto “pittore maledetto”! Ricerche successive,perseguite soprattutto da chi scrive, hanno chiarito che la Controriforma comprendevaposizioni ideologiche anche antitetiche, specie nell’atteggiamento verso i poveri e iderelitti; e che il Merisi, improntato fin dalla nascita alla fede religiosa di san Carlo, e lungidall’essere un miscredente come un tempo si credeva, doveva aderire a questo secondomodo di sentire. Esso trovava, dopo san Carlo, i suoi oltranzistici propugnatori proprionel cugino Federico, vissuto a Roma tra il 1586 e il 1601, e nei seguaci di san Filippo Neri,o Oratoriani.

Malgrado ciò, si è continuato ad accreditare la tesi secondo cui la “fiscella” nonfu acquistata dal Borromeo, ma a lui donata dal Del Monte; tant’è vero che il cardinale,nel parlare del dipinto, aveva scritto “ex qua flores micant”, dimenticando che si trattavadi frutti. Risulta da una lettera del 29 febbraio 1596 che il cardinal Del Monte fece undono al Borromeo, scusandosi peraltro per il ritardo con cui glielo recapitava, giacchéaveva avuto a che fare “con persone che bisogna che io mi armi di pazienza”: ed ecco cheil dono viene individuato nella fiscella e la persona che faceva spazientire il Del Montenell’inaffidabile Caravaggio!

Ma potei trovare nuovi documenti da cui risultò che il dono consisteva, in realtà,in un orologio e in un dipinto del Pulzone e che la persona della cui lentezza il Del Monte

si lamentava altri non era che... l’ orologiaio. Restava ora, sottolineato con insistenza dalla critica

ostile alla nuova visione storica del Merisi, il preteso equivocotra fiori e frutti, a testimoniare il disinteresse del cardinalFederico. Ma di nuovo l’equivoco è stato, recentemente,diradato con il ritrovamento del testo originale, in linguaitaliana, del Musaeum, in cui chiaramente si parla di frutti enon di fiori. (Dunque un errore del traduttore, benché poi, sulpiano teologico, flores e fructus possano equivalersi, nellametafora della Redenzione.)

Sul piano teologico? Sì, perché la mia ricerca si èestesa ai significati della canestra, che ho interpretato in chiavedi una simbologia cristologica: trovando molti anche se nonunanimi consensi. Si è capito, comunque, che spesso le naturemorte di fiori o di frutti, soprattutto prima che diventasseroun “genere” decorativo, si rivestivano di significati sacri,simbolici delle virtù o altre volte, come in questo caso, deifrutti della Redenzione.

Il sottinteso sacrale concorre a supportare quellatensione poetica nell’osservazione dei frutti che il dipinto delCaravaggio mirabilmente esprime, costringendoci a guardarein un silenzio davvero religioso; ed esaltando il valore dellaluce, che nella pittura del Merisi è sempre una luce di

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Ma perché è così straordinariamente bella, laCanestra? Non certo perché riproduce la frutta con

esattezza che potrebbe dirsi fotografica. Qui tuttavia,dal realismo, si genera una mirabile struttura

formale, verificabile secondo due percorsi complementari che chi guarda può seguire.

Per accertare, infatti, la fedeltà al naturale dellaCanestra, l’occhio dovrà inseguire i minimi

particolari in un itinerario labirintico, soffermarsi sulmodo in cui sono resi i singoli frutti, le singole foglie.

Ma per ben percepire la “plasticità” dell’immagine,l’occhio dovrà invece abbracciare l’insieme, osservare

come l’ombra addensata sul fianco destro del canestrofaccia risaltare le sue parti in luce, traducendone la

naturale rotondità in una rotondità che è quella del“volume”, della forma pura, pervasa dalla segreta vita

di una luce cristallina tra cui bisbigliano lievi passaggi di chiaroscuro…

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salvazione e di riscatto dalla nerezza del peccato e della morte (eterna), tra lorointimamente connessi secondo la visione cristiana. Uva nera, osservavo, come allusioneal sacrificio di Gesù, uva chiara come notorio simbolo positivo di questo stessosacrificio. Servono di confronto un gran numero di dipinti in cui la canestra di fruttacompare: nelle Madonne con il Bambino, o in opere come Gesù Bambino e sanGiovannino del Rubens nel Kunsthistorisches Museum di Vienna, dove, scrivevo, “lemele e le pere, i pampini fuori del cesto, i grappoli d’uva verde debordante e di uvascura, vale a dire le stesse cose dipinte dal Merisi, riempiono la canestra del Rubens,analoga anche nella forma sbassata. Il gesto del Cristo, che attinge dalla cesta, non lasciadubbi sulla simbologia, di ‘frutti’ di redenzione”.

Ma non è che un esempio tra i tanti. Canestre di frutta appaiono già nel celebremosaico di San Clemente a Roma, chiesa di rito ambrosiano, lodato dal Borromeo. Difrutti e fiori è colmo peraltro il Cantico dei Cantici, i cui esegeti (come ancora scrivevo)

“dai santi Ambrogio e Agostino fino ai teologi del Cinque eSeicento sono concordi nel ricondurre le immagini dei frutti asignificazioni di martirio e di salvezza”. Il Merisi ha tradottonella sua magia luminosa e plastica il senso di crescitarigogliosa e di vitale fragranza che si accompagna, nel Cantico,a queste immagini.

In un recente articolo, Dalma Frascarelli ha suggeritoun’interpretazione che ritengo calzante. Lo stesso Caravaggioha collocato in centrale evidenza, esposta all’occhiodell’osservatore per la sua pregnanza simbolica, una canestradi frutta quasi uguale nella Cena in Emmaus di Londra,dipinto che celebra l’istituzione dell’Eucarestia. L’autrice

rileva che, nei primi secoli del cristianesimo, vigeva il rito di portare all’altare, incoincidenza con la somministrazione dell’eucarestia, dei frutti simbolici, appunto, dellaredenzione come “frutto” del Cristo, offrendoli al Cristo stesso a titolo di gratitudine eaccompagnandoli con un canto. Il rito fu abbandonato nei secoli successivi, ma rimase inauge, fino ai tempi appunto del Caravaggio e del Borromeo, nel rito ambrosiano. Eccodunque un ulteriore nesso tra il rito ambrosiano, che il Borromeo impersonava, e lasimbolica canestra di frutta del Caravaggio. Il quale aveva dipinto un cesto di frutta anchenel Giovane con canestra della Galleria Borghese, in cui viene riconosciuta la figura diofferente, che sotto forma proprio di giovane che, cantando, reca un cesto di frutta si puòvedere in molte scene sacre.

E perché, possiamo allora chiederci, il Borromeo avrebbe voluto un pendantalla Canestra? Forse perché, come scrive Amedeo di Losanna, “due cestelli, uno difiori e uno di frutti, alla sinistra e alla destra di Maria Vergine, significano il Vecchio eil Nuovo Testamento”.

Naturalmente la “fiscella”, oltre ai problemi di interpretazione, presenta quelli didatazione; ma non è possibile indicare un anno preciso. La si riteneva un tempo opera trale più giovanili, poi è prevalsa la tendenza a collocarla negli ultimi anni del XVI secolo. Sipuò comunque con certezza indicare la seconda metà dell’ultimo decennio, e comunquenon oltre il 1601, ultimo anno di soggiorno a Roma del cardinal Borromeo.

Di frutti e fiori è colmo peraltro il Cantico dei Cantici,i cui esegeti (come ancora scrivevo) “dai santi Ambrogio

e Agostino fino ai teologi del Cinque e Seicento sonoconcordi nel ricondurre le immagini dei frutti a

significazioni di martirio e di salvezza”. Il Merisi hatradotto nella sua magia luminosa e plastica il senso di

crescita rigogliosa e di vitale fragranza che siaccompagna, nel Cantico, a queste immagini.

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Sybille Ebert-Schifferer

SANTA CATERINA

D’ALESSANDRIA

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Caterina, principessa che aveva dedicato la sua vita a Cristo, rifiutòdi sacrificare agli idoli di Alessandria. Il re radunò i suoi filosofiper convincerla, ma la dotta vergine li convertì tutti nel corso della

disputatio. Infuriato, il sovrano pagano la condannò infine a essere lacerata da unaruota armata di ferri dentati, ma l’intervento di un angelo distrusse lo strumento delsupplizio. Si decise perciò di ricorrere alla decapitazione della giovane donna. Sin dalDuecento, la leggenda della santa martire venne illustrata in cicli istoriati con variepisodi della sua vita, tra i quali spicca, a Roma, quello di Masolino da Panicale a SanClemente del 1428-1431 circa. Immagini della figura isolata della santa la mostravanotradizionalmente come vergine in abiti regali, con una corona in testa e conl’attributo di una ruota o di un pezzo di essa, con figurine di uno o più filosofi da leiconfutati aggiunte ai suoi piedi. È merito di A. Zuccari aver discusso a questoproposito i processi di rettificazione del Martyrologium Romanum messi in atto dallaRiforma cattolica sulla fine del Cinquecento con lo scopo di eliminare tutti glielementi non storicamente comprovabili dalle leggende che illustravano le vite deisanti sin dal Medioevo. Nel caso specifico dalla santa alessandrina, un decretoemesso nel 1593 richiedeva che la ruota si trovasse a una certa distanza della santa,non essendo stato lo strumento del suo martirio. Nell’iconografia post-tridentina, ellaviene sempre rappresentata genuflessa, sia in preghiera che per porgere la testa alboia, e la posa inginocchiata della santa caravaggesca probabilmente allude adambedue i momenti. Spostando la ruota verso la sinistra e usandola come appoggio,il Merisi ne evidenzia il ruolo minore, mentre pone davanti agli occhi la spada,conferendogli importanza con una lunghezza smisurata. L’aderenza precisa ai nuovirequisiti teologici – che tra l’altro richiedevano anche che la santa fosse una giovanebella e riccamente vestita – fa del quadro di Caravaggio un miglio nel passaggio daSanta Caterina della rota a Santa Caterina della spada in pittura.

Ma si tratta di un quadro decisivo anche per l’evoluzione stilistica delMerisi. Infatti già il Bellori ritenne che in questo quadro il pittore cominciò “adingagliardire gli oscuri”, osservazione molto acuta applicabile anche a Marta converteMaria Maddalena di Detroit e a Giuditta e Oloferne di Roma, tre opere che vengonocomunemente datate tra il 1597 e il 1599 e quindi ad anni che Caravaggio trascorsenel palazzo del cardinale Francesco Maria Del Monte. È probabile che in quelperiodo il pittore partecipò a esperimenti ottici in casa del prelato, noto per i suoi

interessi scientifici e fratello di un rinomato matematico efisico, Guidubaldo. Quest’ultimo, nel primo libro del suofondamentale Perspectivae Libri Sex, tratta dell’importanzadelle ombre in pittura e della maniera di costruirlescientificamente. Estendendo un pensiero di L.Spezzaferro, che per primo puntò su questo importantelegame di interessi, sembra ragionevole ammettere che ci fuuno scambio intellettuale non solo tra Caravaggio e ilcardinale su questioni di teologia, ma anche tra il pittore eil matematico sulla luce e le ombre. Comunque il Merisi vaoltre: assegnando, da ora in poi, un ruolo non solo

… si tratta di un quadro decisivo anche per l’evoluzione stilistica del Merisi.

Infatti già il Bellori ritenne che in questo quadro il pittore cominciò “ad ingagliardire gli oscuri” …

La novità dell’iconografia risiede anche nell’apparente naturalezza e quotidianità della

santa, che però, a guardare bene, sono di grande sofisticazione e complessità.

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decisamente strutturante, ma per di più spirituale, alla luce (giustamente definita nonnaturale dal contemporaneo Giulio Mancini) in quanto illuminazione della graziadivina, riesce a conciliare teologia e scienza, in una fusione geniale degli interessi deidue fratelli Del Monte che egli fa tutta sua. Il quadro essendo menzionato per laprima volta nell’inventario post mortem del cardinale Del Monte nel 1627 (Frommel1971), passando al cardinale Antonio Barberini nell’anno seguente, niente permettedi contestare l’asserzione secondo cui il quadro fu dipinto per Del Monte, che delresto nutriva una particolare venerazione per la santa. Un’indicazione per lacorrettezza di tale affermazione ci viene anche dalla quantità esigua di copie che nesono note: Del Monte cercava di vietare che venissero fatte copie dei suoi quadri.

La novità dell’iconografia risiede anche nell’apparente naturalezza equotidianità della santa, che però, a guardare bene, sono di grande sofisticazione ecomplessità. Rimangono come attributi di lusso reale il cuscino d’appoggio perl’inginocchiatoio della ruota e la preziosità delle stoffe e dei damaschi, tradotti in unosfarzo di colori misteriosamente sfavillanti. I tratti fisionomici, la pettinatura e ilcorsetto “moderni”, la posa in primo piano, tutta orientata verso lo spettatore, sonostati interpretati come indicatore sicuro per un Caravaggio che dipinge direttamentedal modello e che vi aggiunge – per la prima volta nell’opera sua – una sottile aureolaper chiarirne la santità. Riconoscendo affinità, se non identità, con stoffe e fisionomiein quadri come la Maddalena penitente della Galleria Doria Pamphilj e nei già citatialtri due dipinti del gruppo 1597-1599, molti studiosi ritengono che si tratti dellastessa modella, ritenendola per la maggioranza identificabile con la cortigiana FillideMelandroni. Il ritratto di quest’ultima, di mano del Merisi e distrutto a Berlino nel1945, ci presenta una matrona romana un po’ grassottella difficilmente conciliabilecon tale idea (un saggio in corso di stampa dimostra inoltre come, per ragionibiografiche delle persone coinvolte, una relazione personale diretta tra il Merisi e laMelandroni risulti assai improbabile). Inoltre, le differenze tra le varie eroinecaravaggesche invocate al proposito, unite da una somiglianza genericamentetipologica come la si incontra, da un gruppo cronologico all’altro, in tutta l’opera delMerisi, testimoniano piuttosto della sua capacità di trasformare un modello. Sembrapiù prudente pensare a un Merisi che studia modelli sotto condizioni di ricercaottico-luministica delmontiana per poi fare un uso variato in diverse occasioni delleconoscenze acquisite. La tesi della “performatività” avanzata dalla von Rosen, basatasu un gioco voluto con la riconoscibilità del modello, e quindi in questo caso dellacortigiana nella santa, sotto questo punto di vista non convince.

Diversamente che per altri quadri, nel caso della Santa Caterina una posadiretta nello studio non può però essere esclusa, anzi sembra essere evocata conproposito la situazione di atelier. Lo testimoniano, come ha sottolineato von Rosen,incongruenze già notate da autori antecedenti, come la palma del martirio secca e laspada da lato non adatta a una decapitazione, essendo arma da duello. Che i vestiti sianodi Fillide o di un’altra modella e la spada di Caravaggio oppure no (assomiglia a un’armaconfiscatagli il 28 maggio 1605) importa in fondo poco; non solo erano comuniall’epoca, ma possono essere stati proprietà di atelier, di quello del Merisi o di un collegache glieli avesse prestati. È indubbio che Caravaggio vuole farci credere di avere a che

Santa Caterina d’Alessandria,1597-1598 circaOlio su tela, 173 ✕ 133 cmMadrid, Museo Thyssen-Bornemisza

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fare con una situazione artificiosamente arrangiata in unostudio: l’osservazione, già fatta da vari studiosi, per cui ilriflesso rosso sulla spada dovrebbe essere sangue nella naturadella storia, mentre si tratta di un riflesso del cuscino dovutoai fenomeni naturali dell’ottica, colloca questo quadrosaldamente nell’arte, nella natura della pittura, che, come haastutamente riconosciuto W. Pichler, è quell’arte che riesce afar passare una cosa per un’altra. Come con una firma, ilpittore dichiara con questo trucco che si tratta di arte, non dinatura. Più che essere una sovversione ironica dell’iconadevozionale, come propone von Rosen, sembra possibilescorgervi un tentativo di creare un nuovo tipo di quadrosacro, che corrisponda all’esigenza post-tridentina, formulatadal cardinale Gabriele Paleotti, per cui “la imagine [è] […]cosa artificiale fatta per rappresentare un’altra vera” e che

come tale non può essere venerata per sé stessa in termini teologici. Per il conoscitore d’arte privato, come lo era il Del Monte, all’evocazione

meditativa sul martirio della santa Caravaggio aggiunge lo stupore per la novità el’astuzia artistica. La “visibilità” di una situazione di posa fa quindi parte dellostratagemma artistico del Merisi e non può essere automaticamente presa a prova per ilreale processo di produzione, sul quale, come già assunse N. Kroschewski,eventualmente Caravaggio cercava di diffondere idee imprecise per non essere imitato.

Rimangono come attributi di lusso reale il cuscinod’appoggio per l’inginocchiatoio della ruota e la

preziosità delle stoffe e dei damaschi, tradotti in unosfarzo di colori misteriosamente sfavillanti.

I tratti fisionomici, la pettinatura e il corsetto“moderni”, la posa in primo piano, tutta orientata

verso lo spettatore, sono stati interpretati come indicatore sicuro per un Caravaggio che

dipinge direttamente dal modello e che vi aggiunge –per la prima volta nell’opera sua – una sottile

aureola per chiarirne la santità.

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Ricordata da Giovanni Baglione come opera dipinta da Caravaggio“per li Signori Costi”, Giuditta che taglia la testa a Oloferne èunanimemente considerata uno dei massimi capolavori di

Caravaggio. La tela è citata nel 1632 nel testamento di Ottavio Costa, potentebanchiere di Albenga trapiantato a Roma almeno dal 1579, data di fondazione del suobanco insieme allo spagnolo Juan Enríquez de Herrera (Spezzaferro 1973; Terzaghi2004). Ottavio, che sembra aver avuto una vera e propria infatuazione per questoquadro, tanto da tenerlo nascosto dietro una tenda di taffettà, proibì ai suoi eredi divenderlo e, in un successivo testamento, dispose di trasferirlo nella sua città natale,Albenga, insieme a tutti i quadri più importanti della sua collezione, forse con ilsegreto intento di metterli al riparo dai rapaci collezionisti romani.

Un’ulteriore conferma che la Giuditta Barberini sia quella appartenuta albanchiere Costa è la grande scritta a caratteri capitali scuri “C.O.C” che si trova sulretro della tela originale (Vodret 1999), da interpretare come le iniziali del banchiereligure: “Comites Ottavio Costa” (Costa Restagno 2004).

Ottavio fu tra i più precoci ammiratori di Caravaggio. Già ben prima del1600 – data del suo trionfo pubblico – gli aveva infatti commissionato il San Francescoin estasi oggi al Wadsworth Atheneum di Hartford (1595 circa), al quale seguironoGiuditta (1599-1600 circa) e il San Giovannino di Kansas City (1602). La strada cheavvicinò Costa a Caravaggio è facilmente ricostruibile attraverso l’attività del bancoHerrera e Costa; i nomi dei maggiori committenti romani del Merisi compaiono infattitutti in bell’ordine fra le ricevute del banco: Mattei, Vittrice e, soprattutto, Colonna,che furono i veri protettori di Caravaggio nel corso dell’intera sua vita.

Dopo il 1639 le tracce della tela scompaiono per più di tre secoli, perriemergere improvvisamente a Roma nel 1951, quando l’allora proprietario, VincenzoCoppi, la fece restaurare da Pico Cellini. Riconosciuto il capolavoro del grande pittorelombardo, Cellini lo segnalò immediatamente a Roberto Longhi, impegnato allora adallestire la storica mostra su Caravaggio e i caravaggeschi nel palazzo Reale di Milano(1951). Non c’era più tempo per includere il capolavoro ritrovato nel catalogo dellamostra, ma Longhi lo volle inserire ugualmente nel percorso espositivo, come unmeraviglioso cammeo.

Le vicende del dipinto tra il 1639 e il 1951, a lungo rimaste oscure, sonostate recentemente chiarite grazie alle ricerche di Costa Restagno (2004) e Terzaghi(2007), dalle quali è emerso che il dipinto, nonostante le disposizioni di Ottavio,rimase sempre a Roma, saldamente in possesso della famiglia Costa, fino al 1846,quando la congregazione degli Operai della Divina Pietà, ultima erede delpatrimonio, lo vendette all’asta. Il grande quadro, perla della raccolta Costa, fuacquistato da Antonio del Cinque Quintili, il cui discendente, Vincenzo Coppi, nel1971 lo cedette allo Stato.

Affascinante e seducente è la storia di Giuditta, tratta dal libro dell’AnticoTestamento che porta il nome dell’eroina. Il libro di Giuditta è accettato come librosacro dagli ortodossi e dai cattolici, ma non dagli ebrei e dai protestanti; questi ultimilo inseriscono tra i testi apocrifi, motivo in più, questo, per pensare che la scelta delsoggetto abbia anche un potente significato antiluterano.

Rossella Vodret

GIUDITTA CHE TAGLIA

LA TESTA A OLOFERNE

Giuditta che taglia la testa aOloferne, 1599-1600 circaOlio su tela, 145 ✕ 195 cmRoma, Galleria Nazionaled’Arte Antica di PalazzoBarberini

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Oloferne, generale del re Nabucodonosor, da tempo assediava la città diBetulia, dove viveva Giuditta, ricca e bellissima vedova. Per salvare il suo popoloormai stremato da fame e sete, l’eroina smette gli umili panni da vedova, indossa ivestiti della festa e i gioielli e con il suo fascino riesce a sedurre il generale nemico e adecapitarlo, mentre completamente ubriaco, dopo un banchetto in sua compagnia, erastramazzato sul letto. Di straordinaria efficacia è il testo biblico che raccontal’episodio: “Giuditta […] avvicinatasi alla colonna del letto che era dalla parte delcapo di Oloferne, ne staccò la scimitarra di lui; poi, accostatasi al letto, afferrò la testadi lui per la chioma e disse: ‘Dammi forza, Signore Dio d’Israele, in questo momento’.E con tutta la forza di cui era capace lo colpì due volte al collo e gli staccò la testa.Indi ne fece rotolare il corpo giù dal giaciglio e strappò via le cortine dai sostegni.

Poco dopo uscì e consegnò la testa di Oloferne alla suaancella”, che la mise nella bisaccia dei viveri. Le due donnesi allontanarono poi indisturbate dall’accampamento.

È indubbio che Caravaggio si è concesso alcunelicenze creative: la presenza dell’ancella, che secondo iltesto biblico aspettava fuori della tenda, ne è l’esempio piùeclatante, ma il dato interessante è la perfetta aderenza delresto della scena al racconto dell’Antico Testamento,soprattutto a quello descritto nella Bibbia clementinapubblicata a Venezia nel 1592 (Gdt, 12-13), cioè solo pochianni prima dell’esecuzione del quadro. Le corrispondenzepiù importanti sono state già individuate da Calvesi:Giuditta che afferra Oloferne per i capelli (“afferrò la testadi lui per la chioma”), la tipologia orientale della scimitarra,l’importanza data nel quadro ai tendaggi che saranno poi

divelti da Giuditta (“strappò via le cortine dai sostegni”), la strana posizione bocconidi Oloferne (“traboccante di vino era caduto in avanti sul letto”) ecc.

A ulteriore conferma dell’approfondita conoscenza che Caravaggio aveva deltesto biblico vorrei aggiungere altri particolari, come ad esempio l’acconciatura deicapelli di Giuditta, spartiti da una riga centrale, molto evidente, che corrispondesenz’altro alla frase “spartì i capelli del capo”, e gli orecchini, espressamente citati nellibro di Giuditta tra i gioielli con cui l’eroina si adorna per recarsi al campo diOloferne. Suggestiva a tale proposito è l’ipotesi della Terzaghi, che proponel’identificazione dei magnifici orecchini, ornati da una preziosissima perla a goccia,con uno dei gioielli della famiglia di Ottavio Costa, committente del quadro, indossatinel 1614 dalla figlia Luisa il giorno del suo matrimonio con Pietro Enríquez deHerrera e descritti nella dettagliata cronaca dell’evento redatta dal pittore romanoGiovanni Briccio.

Un’altra considerazione si può fare sulla particolare espressione della boccadi Giuditta, con le labbra prominenti che accentuano la sua espressione corrucciata:in realtà le labbra, oltre a essere sporgenti, sono chiaramente dischiuse, come separlasse. La spiegazione di tale atteggiamento è proprio nel testo della Bibbiaclementina, dove è chiaramente indicato il fatto che Giuditta pregava Dio, “con il

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Il volto e gli occhi spiritati della vecchia serva, chenella bisaccia che tiene in mano accoglierà il capo

reciso, esprimono tutto l’orrore per quanto stasuccedendo, ma l’algida bellezza di Giuditta non siscompone: solo la fronte aggrottata tradisce qualche

turbamento, ma non la fatica. Rigide le eburneebraccia, con i muscoli appena contratti, da cui

sprigiona una forza immensa guidata da Dio, che conla loro fermezza dominano la violenta reazione del

generale, tenendo il più possibile lontano da sé il corpo agonizzante di Oloferne.

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movimento delle labbra in silenzio” (“labiorum motu insilentio”), di darle la forza per compiere il suo gesto(“Confirma me, Domine Deus Israel, in hac hora”); le labbraprotese e socchiuse testimoniano quindi la sua mutapreghiera, proprio come indicato nella Bibbia del 1592.

Un altro dettaglio importante riguarda il fatto cheOloferne fu colpito due volte prima che la testa fosserescissa dal corpo. In effetti qui Giuditta sembra avere giàinferto il primo colpo, ma la testa non si è ancora staccatadel tutto e sarà necessario quindi un secondo fendente perportare a termine l’impresa. Potrebbe essere legato a questaimpressionante successione di colpi, citata nella Bibbia,l’importante pentimento visibile in radiografia relativo aldistanziamento tra i margini della ferita sul collo diOloferne, che ha determinato il cambiamento di posizionedi tutta la testa. In un primo momento i due margini eranopiù vicini e, di conseguenza, la testa era più aderente alcorpo. L’allargamento del solco prodotto dalla daga, oltread accentuare la drammaticità dell’evento, rende con

maggior efficacia i terribili movimenti di Giuditta che non solo tiene ferma la testa diOloferne, ma sembra tirarla verso di sé afferrandola saldamente per i capelli eaccentuando, in questo modo, la fase del distacco. Con la correzione della posizionedella testa di Oloferne Caravaggio ha quindi scelto di rappresentare non una, ma dueazioni di Giuditta assolutamente contemporanee: il momento tra il primo e il secondofendente e il movimento repentino di staccare la testa dal collo. Da suo pariCaravaggio sceglie di rappresentare, come sempre, l’acme dell’azione: il momento piùterribile e tragico della decapitazione di Oloferne, qui sospeso tra la vita e la morte.

La ferocia della scena, che contrasta con l’elegante e distante bellezza diGiuditta, appena corrucciata, è condensata nell’urlo disumano e nello spasimo delcorpo di Oloferne con cui Caravaggio è riuscito a rendere con eccezionale efficacial’attimo più temuto e rimosso della vita di un uomo: il momento del trapasso tra lavita e la morte. Il gigantesco Oloferne, infatti, non è più vivo, come indicano gli occhirovesciati all’indietro, ma non è ancora morto, dal momento che la sua bocca urla, ilcorpo si contrae e le mani si attanagliano al letto. Il tema della raffigurazionedell’attimo della morte, come suggerisce la Gregori, era già stato affrontato dal pittorenella Medusa degli Uffizi. Non è fuori luogo in questo contesto ricordare leraccomandazioni di Leonardo, riportate dal lombardo Giovan Paolo Lomazzo nel suotrattato del 1584, uno dei testi più seguiti dagli artisti del tardo Cinquecento e delSeicento, di “andare a vedere i gesti dei condannati a morte quando erano condotti alsupplicio, per notar quegl’inarcamenti delle ciglia e que’ moti di occhi”. Del resto, larealistica precisione descrittiva dei terribili dettagli della decapitazione, e inparticolare la violenza degli schizzi di sangue che sgorgano dalla ferita, assolutamentecorretti dal punto di vista anatomico e della dinamica dell’evento, ha indotto alcunistudiosi ad accostare la Giuditta alle impressioni suscitate dalle clamorose

Caravaggio sceglie di rappresentare, come sempre, l’acme dell’azione: il momento più terribile e tragico

della decapitazione di Oloferne, qui sospeso tra la vita e la morte.

La ferocia della scena, che contrasta con l’elegante edistante bellezza di Giuditta, appena corrucciata, è

condensata nell’urlo disumano e nello spasimo delcorpo di Oloferne con cui Caravaggio è riuscito a

rendere con eccezionale efficacia l’attimo più temuto erimosso della vita di un uomo: il momento del trapasso

tra la vita e la morte. Il gigantesco Oloferne, infatti,non è più vivo, come indicano gli occhi rovesciati

all’indietro, ma non è ancora morto, dal momento che la sua bocca urla, il corpo si contrae

e le mani si attanagliano al letto.

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dubbio strano che Caravaggio abbia ritratto il nemico in modo tanto prestante e,oserei dire, quasi affascinante: non è da escludere che lui stesso, come spesso amavafare, si sia ritratto nelle vesti del carnefice/vittima.

Nella composizione ha volutamente lasciato vuoto il centro della scena,occupato soltanto dal polso della mano destra che sferra i terribili fendenti e dallamano sinistra di Giuditta pronta a staccare la testa decapitata: gli strumenti fisici dellavolontà divina.

Il volto e gli occhi spiritati della vecchia serva, che nella bisaccia che tiene inmano accoglierà il capo reciso, esprimono tutto l’orrore per quanto sta succedendo,ma l’algida bellezza di Giuditta non si scompone: solo la fronte aggrottata tradiscequalche turbamento, ma non la fatica. Rigide le eburnee braccia, con i muscoli appenacontratti, da cui sprigiona una forza immensa guidata da Dio, che con la loro fermezzadominano la violenta reazione del generale, tenendo il più possibile lontano da sé ilcorpo agonizzante di Oloferne.

È senza dubbio nella drammatica rappresentazione di questo scontroapparentemente impari che Caravaggio è riuscito a rendere perfettamente non solo ilracconto veterotestamentario ma anche, e forse soprattutto, l’ideologiacontroriformista che dominava ai suoi tempi: la potenza divina che attraverso una suacreatura, in questo caso Giuditta, vince contro il Male, sia esso Oloferne, il demonio ol’eresia luterana.

Dalla violenza di questo contrasto emana, a mio avviso, il fascinostraordinario che incantò Ottavio Costa e, ancora oggi, seduce tutti coloro che siaccostano a questo capolavoro assoluto.

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decapitazioni di Petronia e Beatrice Cenci avvenute a Roma l’11 settembre 1599, cuipresenziò una grandissima folla.

È stato proposto in passato che la bellissima modella che ha prestato le suefattezze a Giuditta fosse in realtà proprio un ritratto di Beatrice Cenci, ma sembra orapiù probabile che la giovane, ritratta anche nella Santa Caterina Thyssen e nellaMaddalena del quadro di Detroit, possa essere identificata con la prostituta FillideMelandroni, una delle amanti di Caravaggio, le cui fattezze sono note attraverso unritratto che lui stesso le fece, ora perduto, ma conosciuto attraverso riproduzionifotografiche. La Gregori (1985a) individua un’altra fonte letteraria nel Figino, trattatodel Comanini edito nel 1591, che raccomandava l’accostamento dei contrapposti, dacui potrebbe provenire l’idea di accostare la giovane e bella Giuditta alla rugosa evecchia serva.

La Giuditta che taglia la testa a Oloferne è la prima tela in cui Caravaggiodipinge un soggetto altamente drammatico e, per la prima volta, sintetizza il nuovomodo di dipingere dal naturale con la pittura di storia (Gregori, in MichelangeloMerisi da Caravaggio... 1991). Ma nel dipinto è possibile individuare anche altricontenuti che lo inseriscono nel contesto storico-culturale dell’epoca. Calvesi vi haindividuato un significato allegorico-morale della Virtù che vince il Male, cioè laliberazione da parte di Dio (la luce) del genere umano (l’ancella) attraverso la Virtù(Giuditta), ma che può essere letto anche in chiave antiriformistica: la vittoria dellaChiesa cattolica romana (Giuditta), ispirata dalla luce divina (la grazia di Dio), chesconfigge l’eresia luterana (Oloferne).

La Giuditta, comunemente datata al 1599, è un’opera cruciale anche nell’iterstilistico e compositivo caravaggesco. Il dipinto, infatti, non solo esemplificaperfettamente il momento di passaggio tra la chiara pittura giovanile e la nuovavisione naturalistica, già compiutamente definita nelle tele della cappella Contarelli(1600), ma rappresenta anche un momento chiave per l’evoluzione della tecnica diCaravaggio (Cardinali, De Ruggeri, Falcucci 2005). È nella Giuditta che le incisioni, dicui Caravaggio si serve per fissare sulla tela i tratti essenziali della composizione,diventano fondamentali nel procedimento di definizione degli assetti compositivi perla riproduzione di modelli dal vivo. Prima di questa tela le incisioni, raramentepresenti, sono generalmente da ritenersi accessorie rispetto all’elaborazione e messa apunto della composizione.

Impressionante in questo dipinto è l’uso della luce, protagonista assoluta dellacomposizione, che con abili e sapienti chiaroscuri illumina una scena del tutto surreale.

Da un lato, in piena luce la protagonista assoluta: una bellissima, giovane eapparentemente fragile donna dai lineamenti purissimi, l’ovale perfetto, abilmentepettinata, ornata da preziosissimi orecchini, vestita a festa con un abito elegante eseducente con provocanti trasparenze sul seno, che ha la forza di decapitare con unapesante scimitarra un generale assiro, un combattente avvezzo alle armi e ad affrontarei peggiori nemici. Dall’altro, abilmente la luce sottolinea nella penombra l’orrendaferita da cui escono gli impressionanti getti di sangue e la potenza fisica di Oloferne:un uomo aitante e atletico, con muscoli poderosi e lo sguardo disperato, pieno diterrore, che cerca in tutti i modi di divincolarsi e sfuggire al suo destino. È senza

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Francesco Buranelli

CONVERSIONE

DI SAULO

L’anno giubilare del 1600, iniziato con la sentenza di morte e il tragicorogo di Giordano Bruno in Campo de’ Fiori, vide giungere a Roma –che allora contava poco più di 100.000 abitanti – oltre tre milioni di

pellegrini. Mentre la città si preparava ad accogliere la moltitudine di fedeli che sarebberogiunti a Roma per uno dei più importanti giubilei della cristianità – poiché avrebbe sancitoil superamento della profonda crisi che aveva portato allo scisma con i protestanti – papaClemente VIII (Ippolito Aldobrandini, 1592-1605) promulgava le disposizioni volte acalmierare i prezzi, a reprimere il brigantaggio e a costruire una casa per ospitare i vescovie i sacerdoti poveri. Da poco era stata completata la cupola della basilica di San Pietro e lasala Clementina del palazzo Apostolico era stata affrescata dai fratelli Alberti; a Frascatigià sorgeva la fastosa villa Aldobrandini, costruita da Giacomo della Porta e completata daCarlo Maderno, come esclusiva residenza estiva del pontefice.

Alla vita artistica e culturale della corte pontificia partecipavano grandipersonaggi della chiesa come san Filippo Neri e cardinali di indiscussa influenza qualiRoberto Bellarmino e Cesare Baronio, nonché il maggiore letterato dell’epoca,Torquato Tasso, che morì a Roma nel 1595, poco prima di ricevere la laurea poeticapromessagli da Ippolito Aldobrandini.

In questa temperie storico-culturale, il ricco e potente monsignore Tiberio Cerasi,tesoriere generale della Camera apostolica, acquistò l’8 luglio 1600, dai padri Agostiniani diSanta Maria del Popolo, la cappella Foscari posta a sinistra dell’altare maggiore.

I lavori di ristrutturazione per adibirla a cappella funeraria iniziaronoimmediatamente sotto la direzione dall’architetto CarloMaderno, al quale venne affidata anche l’esecuzione delraffinato gioco di stucchi; i dipinti vennero commissionati aidue più prestigiosi pittori presenti a Roma in quegli anni:Annibale Carracci e Michelangelo Merisi. Il primo, dopo larealizzazione della celeberrima galleria di palazzo Farnese,era oramai divenuto uno dei più famosi pittori operanti aRoma; il secondo, invece, aveva da poco iniziato a dipingerele tele della “rivoluzionaria” cappella Contarelli a San Luigidei Francesi ed era considerato l’artista più innovatore delmomento, l’“egregius in Urbe pictor”.

Così, proprio la cappella Cerasi divenne, per lacontemporanea presenza delle tele di Annibale Carracci edel Caravaggio, il luogo più significativo a Roma percogliere il senso di quella duplice esperienza artistica chepermise all’arte romana di superare il manierismo. IlCarracci, nella pala dell’Assunzione della Vergine postasull’altare, si rivolse al mondo naturale per poiintellettualizzare il “vero” in forme di perfezione ideali; ilCaravaggio, nei due dipinti per le pareti laterali, laConversione di Saulo e la Crocifissione di san Pietro, ricercòil dramma attraverso una naturalistica e crudarappresentazione del reale.

Saulo è a terra, la luce abbacinante gli ha ferito gliocchi, dal dolore prorompe un grido o forse già

pronuncia nel terrore la domanda “Chi sei, Signore?”. Il soldato più giovane, sullo sfondo, si volge indietro e si

china su sé stesso, proteggendo dal forte rumore leorecchie con le mani; lo sguardo è rivolto a terra,

sembra non vedere nessuno (“gli uomini che facevano ilviaggio con lui rimase<ro> stupiti, perché udiva<no> lavoce, ma non vedeva<no> nessuno”); il secondo soldato

più anziano, invece, vede la luce, ma non ode nulla(“<un altro> che era con me vide sì la luce, ma non

intese la voce di colui che mi parlava”) e si poneistintivamente in posizione di difesa con lo scudo,

puntando la lancia verso qualcosa che non distingue. Ilcavallo bianco, imbizzarrito per lo spavento, si torce

con la zampa posteriore sinistra recalcitrante e il musorivolto all’indietro, la bava gli gronda dalla bocca come

reazione istintiva allo spavento.

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Il 24 settembre 1600 Caravaggio si accordò con monsignor Cerasi perrealizzare i due dipinti su tavola di cipresso per la cappella di Santa Maria del Popolo,da consegnare entro otto mesi dalla firma del contratto per un compenso pattuito di400 scudi. I due quadri sono perciò perfettamente datati su base documentaria tra lafine del 1600 e i primi mesi del 1601.

In quasi simultanea coincidenza con la data di consegna dei dipinti, edesattamente nella notte tra il 2 e il 3 maggio 1601, moriva monsignor Cerasi, il qualelasciò suoi eredi universali i confratelli dell’ospedale della Consolazione. Un codicilloaggiunto al testamento proprio in punto di morte impose loro di completare lacappella rispettando il progetto del Maderno; tuttavia, l’improvvisa morte delcommittente e la conseguente apertura della successione ereditaria fecero slittare al 10novembre 1601 il saldo per il pagamento dei dipinti. I quadri però rimaseroinspiegabilmente per quasi quattro anni nello studio romano del Caravaggio, finquando nel maggio 1605 un falegname, di nome mastro Bartolomeo, venne pagato percollocare i due quadri nella nuova cappella.

Il lungo tempo intercorso tra il pagamento dei dipinti (novembre 1601) e laloro collocazione in cappella (maggio 1605) consentì l’esecuzione, da parte delCaravaggio, di una nuova coppia di dipinti con lo stesso soggetto, questa voltarealizzati su un supporto di tela, che vennero collocati nell’oramai completata cappellaCerasi a Santa Maria del Popolo.

Non è dato di sapere con certezza cosa accadde in quel frangente; il Baglione,in una tarda e forse maligna testimonianza del 1642, affermò che “questi quadri primafurono lavorati da lui in un’altra maniera, ma perché non piacquero al padrone, se liprese il cardinale Sannesio; e lo stesso Caravaggio vi fece questi che hora si vedono”.

Si è molto discusso sul motivo del rifiuto, o meglio, della sostituzione delleprime due tavole da parte del maestro e sulla necessità di dipingerne altre due con lostesso soggetto. Non sembra reggere l’ipotesi di un’iconografia controversa, poichéanche se gli Atti degli Apostoli parlano di una luce accecante e non dell’apparizione diCristo a Saulo, il Cristo era già stato raffigurato in molte ed eccellenti opereprecedenti, come in uno degli arazzi di Raffaello del 1514-1517 per la cappella Sistina,negli affreschi michelangioleschi della cappella Paolina nel palazzo Apostolico,realizzati tra il 1542 e il 1550, oppure nella più tarda versione di Taddeo Zuccari a SanMarcello al Corso, del 1563.

Nulla di controverso o sacrilego o inusuale, dunque; anzi la riproposizione diun’iconografia ampiamente accettata, tanto che nel De Pictura sacra del 1624, ilcardinale Federico Borromeo (1564-1631), arcivescovo di Milano e fondatore dellaBiblioteca Ambrosiana, testualmente scrisse che “è credibile e comunemente ammessoche San Paolo abbia veduto la figura del Salvatore allorquando fu da luirimproverato”. Dunque il maestro lombardo, tutt’altro che ignorante o provocatorio,con la sua prima versione del dipinto divenne fonte di meditazionedell’interpretazione che un altro illustre milanese, il cardinale Borromeo, scrisse sulpasso degli Atti degli Apostoli.

La storiografia moderna ha attribuito il rifiuto anche all’eccessiva vicinanzafisica tra il divino e l’umano, in quanto riteneva che Caravaggio aderisse a teorie poco

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Conversione di Saulo, 1600-1601Olio su tavola di cipresso, 237 ✕ 189 cmRoma, collezione privata

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ortodosse a proposito del contatto tra Cristo e l’Uomo, ma anche questa ipotesi vienecontraddetta dal forte parallelismo con l’affresco michelangiolesco universalmenteaccettato e conservato inalterato nella cappella papale del palazzo Apostolico.Risulterebbe seducente, a questo punto, la teoria di Bert Treffers che attribuisce il rifiutodella prima versione delle due tavole al desiderio di monsignor Cerasi di una citazionequasi “autobiografica”, volta a enfatizzare l’humilitas dell’apostolo che si abbandona allagrazia pervenendo così alla fede, come riferimento alla sua tardiva vocazione dopo unagiovinezza mondana. È questo, infatti, il pathos che si respira nella seconda versione deldipinto caravaggesco, del quale lo stesso Bellori commentò che aveva perso l’“attione”:scompaiono tutti i personaggi, la scena si placa, il cavallo si ammansisce per diventarequasi una quinta “monumentale” a Saulo, caduto in terra, abbandonato alla luce e giàredento. Tanto è vero che il gesto di spalancare le braccia va inteso come segnodell’avvenuta conversione e di accettazione della chiamata di Dio.

Più plausibile mi sembra, invece, seguendo l’ipotesi di altri studiosi, tra cuiMaurizio Calvesi, la possibilità che alla morte del committente – che pur si eracautelato all’atto della commessa con un minuzioso contratto che prevedeva, tral’altro, l’uso di tavole di cipresso di precisa misura e la possibilità di visionare ibozzetti – i confratelli dell’ospedale della Consolazione, eredi di Tiberio Cerasi,abbiano ceduto le due tavole dietro le insistenze dell’influente cardinale GiacomoSannesio, avvalorando, in parte, la testimonianza del Baglione.

Rossella Vodret, spostando giustamente di qualche anno in avanti ladatazione delle tele, suggerisce una non meno interessante possibilità. La sostituzionedei dipinti sarebbe stata voluta dalla stesso Caravaggio, il quale – una volta completatala struttura architettonica della cappella da parte del Maderno – avrebbe preferitosostituire le precedenti composizioni, ancora manieriste e affollate di personaggi, condue scene più adatte a una vista ravvicinata, quale era quella della cappella alla finedei lavori, e soprattutto con opere più coerenti alla nuova sensibilità pittorica che egliaveva maturato.

Fatto sta che dall’inizio del Seicento le due versioni dei dipinti realizzati dalCaravaggio per la cappella Cerasi ebbero due storie ben distinte.

Le due tele della seconda versione furono collocate, come abbiamo visto,nella cappella di Santa Maria del Popolo nel 1605, mentre i due dipinti su tavola dicipresso, acquistati dal potente segretario della Consulta, protonotario apostolico epoi cardinale Giacomo Sannesio, intrapresero il tipico peregrinare dei dipinti dicollezione privata. Rimasero nel possesso della nobile famiglia Sannesio fino al 1646,quando passarono nelle mani di Juan Alfonso Enríquez de Cabrera, nono Almirantedi Castiglia, viceré di Sicilia e di Napoli, che l’anno successivo li portò a Madrid. Allamorte dell’Almirante la collezione venne divisa tra gli eredi e in parte venduta perpagare le tasse di successione. Fu probabilmente in questo momento che le due tavolefurono separate e presero strade differenti.

La Crocifissione di san Pietro è ricordata nella collezione del decimoAlmirante di Castiglia fino al 1691; dopo quella data si perdono le tracce del dipintoe, mentre alcuni sostengono che sia andata distrutta, altri, invece, ne ipotizzanol’esistenza in un monastero della Spagna.

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La Conversione di Saulo, invece, venne acquistata dal ricco nobile genoveseAgostino Airolo, per poi passare al cognato Francesco Maria Balbi e confluire nellacollezione della famiglia Balbi, dove restò fino alla metà del XX secolo, quando, inseguito a un matrimonio, è entrata nel possesso della famiglia Odescalchi-Balbi diPiovera, fino a giungere oggi alla principessa Nicoletta Odescalchi.

La Conversione di Saulo, opera di incomparabile bellezza, è ancora pertinentealla prima maniera di Caravaggio, tutta permeata dalla cultura manierista, pervasa dauna luce dorata che sottolinea una tavolozza calda e ricca di colore. Tuttavia alcuniprofondi toni scuri accennano alla “rivoluzione” che il pittore apporterà, di lì a poco,nella pittura. Proprio dal confronto tra le due versioni della Conversione di Saulo emeglio di ogni parola, risulta evidente ed esplicito il profondo cambiamento in attonella pittura caravaggesca di quegli anni.

Quella ricerca espressiva, generata dal contrasto tra luce e ombra, aveva giàdimostrato le proprie inaspettate potenzialità nella coeva Vocazione di san Matteo dellacappella Contarelli, anche in quel caso una conversione, tutta giocata sul pathospsicologico generato dalla chiamata della luce-Cristo che investe l’avido pubblicano.

Nella tavola Odescalchi, in primo piano, Saulo caduto da cavallo occupatutta la parte inferiore del dipinto. Accecato dalla luce improvvisa, un grido esce dallabocca semiaperta mentre tenta di sollevarsi. L’elmo piumato è a terra. Ha forsepotuto, per un attimo, intravedere Cristo sorretto dall’angelo che dal cielo “precipita”su di lui.

Dietro a lui due soldati e un cavallo reagiscono in maniera convulsa edisorganica a un fatto che non riescono a percepire e a contrastare.

Fonte ispiratrice primaria del dipinto furono gli Atti degli Apostoli, in cui sanLuca, compagno di viaggio e testimone di parte della vicenda paolina, narrò per bentre volte, con tre diverse sfumature, l’episodio della conversione di Saulo (primopasso: At 9, 1-22; secondo passo: At 22, 6-8; terzo passo: At 26, 13-15). Al di là delleimplicazioni dottrinarie che pure l’artista doveva conoscere, è proprio dalla riletturacomparata dei tre brani che traiamo una vera e propria “descrizione” di quantorappresentato nel dipinto Odescalchi. Le discrepanze, più volte notate nei tre passi,trovano la loro “composizione” nell’immagine, dove ogni particolare richiama leparole di Luca. Il convincente artificio di Mauro Di Vito (in Caravaggio a Milano...2008, pp. 103-115) di proporre il collage dei versetti delle diverse versioni del passobiblico, abilmente giustapposti e assemblati tra loro, fornisce la prova indiretta dellaperfetta padronanza e conoscenza delle fonti da parte del Merisi e del suo tentativo diproporne una versione unificata.

… (I) e durante il viaggio, mentre si avvicinava a Damasco, avvenne che,d’improvviso, sfolgorò intorno a lui una luce dal cielo e, caduto in terra, udì una voce chegli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” Egli domandò: “Chi sei, Signore?” E ilSignore (III) rispose: “Io sono Gesù, che tu perseguiti. Ma alzati, e sta’ in piedi perchéper questo ti sono apparso: per farti ministro e testimone delle cose che hai viste, e diquelle per le quali ti apparirò ancora, liberandoti da questo popolo e dalle nazioni, allequali io ti mando per aprire loro gli occhi, affinché si convertano dalle tenebre alla luce e

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dal potere di Satana a Dio, e ricevano, per la fede in me, il perdono dei peccati e la loroparte di eredità tra i santificati” (I) <uno de>gli uomini che facevano il viaggio con luirimase stupito, perché udiva la voce, ma non vedeva nessuno. (II) <un altro> che era conme vide sì la luce, ma non intese la voce di colui che mi parlava…

Saulo è a terra, la luce abbacinante gli ha ferito gli occhi, dal dolore prorompe ungrido o forse già pronuncia nel terrore la domanda “Chi sei, Signore?”.

Il soldato più giovane, sullo sfondo, si volge indietro e si china su sé stesso,proteggendo dal forte rumore le orecchie con le mani; losguardo è rivolto a terra, sembra non vedere nessuno (“gliuomini che facevano il viaggio con lui rimase<ro> stupiti,perché udiva<no> la voce, ma non vedeva<no> nessuno”);il secondo soldato più anziano, invece, vede la luce, ma nonode nulla (“<un altro> che era con me vide sì la luce, manon intese la voce di colui che mi parlava”) e si poneistintivamente in posizione di difesa con lo scudo, puntandola lancia verso qualcosa che non distingue. Il cavallo bianco,imbizzarrito per lo spavento, si torce con la zampaposteriore sinistra recalcitrante e il muso rivolto all’indietro,la bava gli gronda dalla bocca come reazione istintiva allospavento.

Tutta la scena ha un ritmo e una concitazione dimovimenti tali da trasmettere il coinvolgimento emotivo dei

partecipanti alla conversione, i quali non capiscono cosa stia accadendo, sonospaventati e sbigottiti dal lampo e dal boato, avvertono che qualcosa più grande diloro sta accadendo, senza sapere cosa, ne percepiscono solo la potenza e l’entità.

Il Cristo, non meno fisicamente presente di tutti gli altri personaggi, non haancora chiesto conto a Saulo della sua persecuzione (“Saulo, Saulo, perché miperseguiti?”), ma già con il gesto, quasi sollecito, lo invita a rialzarsi (“... Ma alzati, esta’ in piedi perché per questo ti sono apparso...”).

La Conversione Odescalchi rifulge di una luce propria, è realizzata con unapittura fluida e raffinatissima capace di rispondere pienamente alla componentenarrativa del soggetto che – come è stato più volte sottolineato – si ispirò, comeomaggio dell’artista, alla più celebre Conversione di Saulo affrescata da MichelangeloBuonarroti nella cappella Paolina in Vaticano. Il tumulto dei personaggi, il cavalloimbizzarrito, il Cristo che si getta dal cielo e – non da ultimo – il sorprendenteparallelismo, richiamato da Cristina Acidini Luchinat, nella gestualità del gruppo diangeli nell’angolo superiore destro dell’affresco michelangiolesco con l’angelo cheregge il Cristo della Conversione di Saulo del Caravaggio ne sono la prova evidente.

… opera di incomparabile bellezza, è ancorapertinente alla prima maniera di Caravaggio, tuttapermeata dalla cultura manierista, pervasa da una

luce dorata che sottolinea una tavolozza calda ericca di colore. Tuttavia alcuni profondi toni scuri

accennano alla “rivoluzione” che il pittore apporterà,di lì a poco, nella pittura. Proprio dal confronto trale due versioni della Conversione di Saulo e meglio

di ogni parola, risulta evidente ed esplicito ilprofondo cambiamento in atto nella pittura

caravaggesca di quegli anni.

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