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ISTITUTO TECNICO STATALE “G. PIOVENE” A cura del prof. Zanna Michele per il Dipartimento di Lettere 1918-2008: 90° ANNIVERSARIO DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE 10 suggerimenti X 5 percorsi = 50 tracce di memoria scomparsa UN PERCORSO DIDATTICO TRA ATTUALITA’ POLITICA E pagina 1 di 130

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MASSIMO SALVADORI

Istituto Tecnico Statale “G. PIOVENE”

A cura del prof. Zanna Micheleper il Dipartimento di Lettere

1918-2008: 90° ANNIVERSARIO

DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE

10 suggerimenti X 5 percorsi =

50 tracce di memoria scomparsa

UN PERCORSO DIDATTICO

TRA ATTUALITA’ POLITICA E

INSEGNAMENTO DELLA STORIA

INDICE

INTRODUZIONE

LA STORIA TRA PASSATO E PRESENTE:

INTERVENTO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA GIORGIO NAPOLITANO

MASSIMO SALVADORI: L’INUTILE MASSACRO, LA REPUBBLICA

CARLO SGORLON: CI TORMENTA IL RICORDO DEI MORTI, AVVENIRE

GIAN ENRICO RUSCONI: QUESTA LA NOSTRA VITTORIA, LA STAMPA

E. GALLI DELLA LOGGIA:NOI FIGLI DELLA GUERRA, CORRIERE DELLA SERA

ANGELO D’ORSI: NON C’E’ NIENTE DA FESTEGGIARE, LIBERAZIONE

EMILIO GENTILE: LA MACELLERIA DELLA MODERNITA’, IL SOLE 24 ORE

5 PERCORSI PER DOCUMENTARSI:

STORIA E STORIOGRAFIA

IL VOLTO DELLA GRANDE GUERRA NEL CINEMA

LA GUERRA NARRATA

IMMAGINI, SUONI E STORIE

LA GRANDE GUERRA IN INTERNET

SCHEDE DIDATTICHE:

A FERRO E FUOCO: TUTTA LA VIOLENZA DELLE ARMI

SCHEDA SINTETICA SULLA PRIMA GUERRA MONDIALE

LE GUERRE DAL 1900 AL 1945

TEMA, SAGGIO BREVE, TERZE PROVE, ESERCITAZIONI

CITAZIONE:DON LORENZO MILANI. LETTERA AI CAPPELLANI MILITARI

INTRODUZIONE

Tra i docenti più consapevoli che insegnano storia, a qualsiasi livello scolastico, è viva la preoccupazione del netto prevalere dell’ormai scandaloso uso politico della storia che sotto la maschera dei cosiddetti revisionismi o del prevalere di una interpretazione dei fatti dettata da ricostruzioni televisive spesso di scarso valore culturale, sta devastando lo stesso statuto scientifico della ricerca storica, ridotta a una sorta di arsenale mistificatorio della polemica politica e deprivata del suo ruolo di strumento indispensabile per comprendere il presente. Questo schema si è puntualmente ripetuto anche per il novantesimo anniversario della prima guerra mondiale.

Ormai è diventato un clichè fisso: prima di una data di un certo rilievo partono le polemiche degli storici o dei politici sulle pagine culturali dei maggiori quotidiani, la televisione manda in onda fiction o documentari, l’editoria specializzata manda in libreria nuovi lavori o ristampa qualche vecchia ricerca che pochissimi leggeranno. Il grosso dei cittadini semplicemente non ascolta o non comprende il vero motivo delle polemiche, ma in compenso quello che si è soliti definire il “senso comune storico” regredisce a un livello sempre più basso e non c’è insegnamento storico che possa arginare questa deriva che porta prepotentemente a generazioni prive della memoria del passato. Tutto questo proprio nel momento in cui i grandi processi di trasformazione in corso esigerebbero una vigorosa coscienza storica, civile, politica.

Le conferme non mancano nemmeno dalle indagini di taglio sociologico. In un articolo apparso sul Corriere della Sera del 4 novembre Renato Mannheimer scriveva un trafiletto interessante che vale la pena di riportare per esteso. “Oggi è il 4 novembre, una ricorrenza di rilievo nella storia del nostro Paese. Ma quanti, sanno esattamente che cosa si celebra in questa data? È probabile che tra i lettori (che, anche per il fatto di consultare un quotidiano, sono mediamente più informati del resto della popolazione) molti - ma non tutti - siano in grado di rispondere. Tra gli italiani in generale, tuttavia, la situazione è assai diversa. Solo meno di un cittadino su quattro (24 per cento) riesce infatti a precisare, almeno a grandi linee, che cosa sia accaduto il 4 novembre. Quasi uno su tre (31 per cento) risponde in modo errato e la maggioranza (45 per cento) dichiara con grande schiettezza di non avere la minima idea del motivo della ricorrenza. La percentuale di affermazioni «non lo so» è assai più elevata tra i giovani, a riprova delle carenze della formazione storica nelle scuole: nella classe di età compresa tra i 18 e i 24 anni, due persone su tre non sanno rispondere. La situazione non cambia granché in relazione al titolo di studio: il 41 per cento dei laureati italiani ignora cosa sia successo il 4 novembre, né sa a quale periodo storico si faccia riferimento. Il quadro non appare diverso nemmeno in relazione all’orientamento politico. Anzi, contrariamente a ciò che qualcuno si poteva forse aspettare, la percentuale di «conoscitori» della ricorrenza è maggiore (ma sempre fortemente minoritaria: 29 per cento) tra gli elettori del centrosinistra che tra quelli del centrodestra (22 per cento). Come si sa, è stato proposto di reintrodurre il 4 novembre come festività nelle scuole, suscitando sia adesioni sia pareri contrari. Ma, forse, prima di discuterne, sarà il caso di promuovere una campagna informativa che illustri, specie tra i più giovani, che cosa oggi si ricorda di preciso”.

L’obiettivo che si pone il lavoro che segue è proprio questo: cercare i linguaggi (oltre ai libri, il cinema, la fotografia, i siti in internet, ecc…) i percorsi, le iniziative che, se utilizzati nella scuola o nella società, sappiano mettere in campo una strategia utile per informare e formare giovani e meno giovani, in modo corretto e con strumenti aggiornati. Certo a proteggere almeno in parte la serietà della ricerca storica vi è la nicchia degli studiosi accademici: il presente lavoro nella sua parte centrale ad essa si affida pur nella molteplicità delle posizioni culturali e delle interpretazioni storiografiche; ma senza rinunciare ad utilizzare altri strumenti più vicini alle abitudini e alla sensibilità di strati di popolazione ormai sempre meno abituati alla lettura di libri, soprattutto della saggistica più impegnativa, e sempre più predisposti a rispondere a stimoli molto diversi.

Le pagine che seguono si dividono in sostanza in tre parti, con l’aggiunta di una significativa appendice. Nella prima, “La storia tra passato e presente”, sono raccolti diversi interventi, prevalentemente di storici, apparsi sui maggiori quotidiani italiani, preceduti però dal testo letto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il giorno della commemorazione ufficiale. L’intervento del capo della Stato si rivela ad una attenta lettura molto equilibrato, sgombera il campo da ogni polemica politica pretestuosa, evita accuratamente toni trionfalistici, cita sapientemente uno studioso di vaglia da pochi giorni scomparso come Giuliano Procacci; il tutto pur nei limiti di un discorso che deve avere l’enfasi di una commemorazione e come tale si presta ad essere letto ad alta voce.

A seguire la polemica tra gli storici pur con differenze, anche notevoli, nello stile di una scrittura a metà strada fra il saggio breve e il linguaggio giornalistico: quasi di taglio didattico il testo di Massimo Salvadori apparso sulla “Repubblica”, carico di ricordi personali quello di Carlo Sgorlon (“Avvenire”), come sempre molto problematico e ragionato l’intervento di Gian Enrico Rusconi sul quotidiano “La Stampa”. Di taglio decisamente più polemico i testi di Ernesto Galli della Loggia (“Corriere della Sera”) e Angelo D’Orsi (“Liberazione”). Al termine di questa prima sezione è riportata una pagina del recentissimo e interessante libro di Emilio Gentile, “L’apocalisse della modernità. La grande guerra per l’uomo nuovo”, anticipata anch’essa dal quotidiano “Il Sole 24 ore”.

Nella seconda parte, “5 percorsi per documentarsi”, il tentativo è quello di ricostruire le fonti attraverso le quali pervenire ad un aggiornamento culturale sul tema specifico della Grande Guerra. Naturalmente al primo posto la storiografia più aggiornata nella sezione intitolata appunto “Storia e storiografia”. Sono selezionati una quindicina di libri, fra i migliori, prodotti tutti da storici particolarmente competenti italiani e stranieri: Traverso, Isnenghi, Rochat, Ceschin, Gibelli, Keegan, Ferguson, Rusconi, Canfora, Gentile, MacMillan, Fussell, ecc…Per ogni libro si è ricercata una recensione apparsa sulle pagine culturali dei quotidiani nell’anno in cui il testo è stato pubblicato: i nomi dei recensori e il giorno della pubblicazione sono citati al termine di ogni articolo. Anche in questo caso ne viene fuori un collage interessante tra brevi saggi e articoli giornalistici scritti con la penna, talvolta benevola talaltra acuminata, di storici che recensiscono altri storici.

La sezione “Il volto della grande guerra nel cinema”, riporta una serie di segnalazioni (tutte desunte dal dizionario dei film “ilMorandini” della Zanichelli) dei film più importanti sulla prima guerra mondiale: i primi sono rispettivamente del 1916 (“Maciste Alpino”) e del 1918 (“Charlot soldato”) e l’ultimo del 2005 (“Joveux Noel: una verità dimenticata dalla storia”), passando per i grandi capolavori di Renoir, Kubrick, Monicelli, Rosi, Weir, Tavernier. Non manca una segnalazione di una videocassetta e di un dvd per rappresentare la variante, di valore diseguale, del linguaggio documentaristico.

Sono una quindicina i romanzi individuati e recensiti nella sezione: “La guerra narrata”. Si tratta di una produzione molto diversificata: dai grandi capolavori (Lussu, Remarque, Hemingway, Cèlin, Rigoni Stern, ecc…) fino agli esiti talvolta molto incerti degli autori contemporanei. Resta il dato che il linguaggio della letteratura e quello del cinema possono rivelarsi decisivi per un primo approccio alle tematiche storiche.

Anche la fotografia e la musica attirano molto, come è ovvio, l’attenzione degli studenti anche di quelli più refrattari allo studio della storia. Nella sezione “Immagini, suoni e storie” si è cercato di ricostruire una bibliografia imperniata sulle fonti più diverse: libri di fotografie, Cd musicali, poesie, storie di singoli luoghi o personaggi, ecc…Emerge una scacchiera sulla quale ogni docente può giocarsi con più facilità la carta di una più robusta motivazione allo studio di questo argomento: insieme naturalmente ai vari siti nel web che sono segnalati nella sezione “La Grande Guerra in Internet”.

Nella terza ed ultima parte, “Schede didattiche”, si riporta materiale elaborato in questi anni in varie esperienze didattiche (i prospetti: “A ferro e fuoco: tutta la violenza delle armi”, “Scheda sintetica della prima guerra mondiale”, “Le guerre dal 1900 al 1945”), oppure esercitazioni didattiche utili per i docenti della scuola secondaria superiore che preparano le loro classi ad affrontare gli esami di Stato, nelle varie tipologie in cui gli alunni devono mettere in gioco le loro conoscenze storiche.

Al termine una lunga citazione “colta” certo non per caso: il testo integrale della lettera aperta di Don Lorenzo Milani ai cappellani militari. Un testo, del 1965, che è importante leggere e far leggere ancora oggi.

“10 suggerimenti X 5 percorsi = 50 tracce di memoria scomparsa”: questo il titolo del lavoro che altro non vuol essere se non una raccolta di materiale da offrire a docenti, bibliotecari, studenti universitari ed appassionati di storia contemporanea. Ognuno ne farà quello che riterrà più opportuno, ognuno coglierà quelle indicazioni che troverà più congeniali.

Lo scopo ultimo di questo lavoro è quello di posizionarsi a metà strada tra la documentazione di quello che la ricerca storiografica produce e la capacità di saper decifrare la polemica culturale e politica che ormai da un ventennio si registra intorno a molti nodi della storia italiana; di trovare il giusto equilibrio fra lo studio della storia e la pratica didattica; di superare le frustrazioni quotidiane dettate dalla scarsa importanza che la società italiana riserva alla memoria storica e alle condizioni in cui versa l’insegnamento di questa disciplina

in ambito educativo e formativo.

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INTERVENTO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICAGIORGIO NAPOLITANOCelebrazioni del 90° anniversario di Vittorio Veneto: 4 novembre 2008

Quest’anno la ricorrenza del 4 novembre sta suscitando un nuovo fervore di iniziative e di dibattiti. E se ne possono comprendere i motivi. Il lungo spazio storico che ci separa dalla conclusione - vittoriosa per l'Italia - della prima guerra mondiale, ci consente una visione finalmente matura di quel passaggio drammatico della nostra vita nazionale, ci induce a coglierne significati e valori che fanno ormai tutt'uno con la coscienza del cammino percorso da allora dal nostro paese, dall'Europa, dal mondo, con la coscienza delle responsabilità cui nel presente siamo chiamati a far fronte.Non è dunque formale, e meno che mai - in nessun senso - strumentale la celebrazione che promuoviamo, e che sentiamo come necessaria e giusta, del novantesimo anniversario di quella grande, luminosa giornata del 1918. E' una celebrazione che vediamo innanzitutto come occasione di rinnovato omaggio alla memoria dei seicentomila italiani che caddero, bruciati in quella spaventosa fornace bellica: verso di essi la nazione italiana ha un debito inestinguibile, che dobbiamo continuare, sempre, a onorare. Nello stesso tempo, forte è in noi il senso dell'occasione da cogliere per riflettere ancora sulla prova che diedero di sé, in condizioni così dure, il nostro paese e il nostro popolo, su come ne uscirono cambiati, su quali effetti e sviluppi positivi si sarebbe potuto contare nel futuro, al di là delle convulse vicende che seguirono e che segnarono per oltre un ventennio la società italiana.Proprio nel riaprirsi in queste settimane del dibattito pubblico sulla prima guerra mondiale e in special modo sulla sua fase conclusiva, molte voci di studiosi si sono levate per mettere in risalto l'effetto di identificazione del popolo con la nazione, di conquista del senso dell'unità nazionale, che la prima guerra mondiale, per come fu vissuta in Italia, ci ha lasciato in preziosa eredità.Ricordare e valorizzare tutto questo non ha nulla a che vedere con esaltazioni retoriche, di stampo nazionalistico e militaristico, che qualcuno sembra temere. Non è all'ordine del giorno la riproposizione anacronistica delle dispute del 1914 e '15 sull'intervento dell'Italia in guerra, sulle motivazioni e le modalità di quell'intervento, sul rovesciamento delle alleanze e sulla impreparazione militare che segnarono per il nostro paese l'inizio di quella guerra. Questi sono temi consegnati da tempo all'approfondimento degli storici: così come l'analisi del composito insieme delle ispirazioni e delle forze - politiche, culturali, morali - che sostennero l'entrata dell'Italia in guerra.Sappiamo quanto si sia parlato e scritto su una visione liberale e risorgimentale ("idealizzata" in qualche modo) di quella scelta, e su una visione nazionalistica e perfino imperiale che venne dal lato opposto. Ma da parte delle istituzioni non si vuole oggi - non si può volere - l'attribuzione del crisma dell'ufficialità a qualsivoglia interpretazione storica.Torniamo allora alla constatazione di fondo, che nessuno può onestamente denunciare come retorica e addirittura come esaltatrice e glorificatrice della guerra in quanto tale. Lo dirò con le parole di uno studioso antiretorico per eccellenza, Giuliano Procacci, autore di un esemplare profilo di storia degli italiani:Con la guerra - egli ha scritto - "vastissimi strati sociali, il cui mondo era stato sino allora circoscritto entro un orizzonte provinciale, venivano costretti per forza delle cose a prendere coscienza del loro destino comune e dell'esistenza di una collettività nazionale. L'Italia umile e provinciale, l'Italia di coloro per cui il problema primo era quello di tirare avanti e che si muovevano dal loro paese e dal loro campanile solo per andare in America, si trovò coinvolta nella guerra e i suoi figli poveri seppero di essere cittadini solo quando si trovarono vestiti da soldati e furono mandati a combattere nelle trincee. Si può dire anzi che un'opinione pubblica nazionale, nel senso più largo del termine, nacque in Italia solo con la prima guerra mondiale, la prima grande esperienza collettiva del popolo italiano."Così lo storico. E si può ben aggiungere che quella grande e durissima esperienza culminò nella reazione al disastro di Caporetto, nella resistenza sul Piave e sul Grappa, nell'offensiva di Vittorio Veneto. Nel bel convegno svoltosi giorni fa alla Camera dei Deputati per iniziativa del suo Presidente, il professor Monticone ha sottolineato come la sconfitta di Caporetto, "con l'invasione del vasto territorio friulano e veneto sino alle linee del Piave e del Grappa, segnò un radicale cambiamento nel carattere della guerra italiana". Fu messa in forse l'integrità nazionale, mentre l'obbiettivo era stato quello di completarla; si delineò "la possibile caduta nell'orbita del predominio delle Potenze centrali" contro cui si era dichiarata la guerra persino con propositi espansionistici. Si diffuse la consapevolezza "del dramma e del rischio per tutto il Paese". L'allarme fu generale, l'appello "a tendere tutte le forze a un unico fine" venne anche da grandi personalità inizialmente inclini al neutralismo: "la guerra - scrisse nel novembre 1917 Benedetto Croce - che finora solo in parte era nostra, ora si fa veramente nostra".Di qui una straordinaria risposta, fino alla vittoria che fu conseguita insieme dai soldati e dai cittadini, dalle crocerossine al fronte e da figure umili ed eroiche come le portatrici di Carnia. Una vittoria resa possibile, anche, da uno sforzo senza precedenti di mobilitazione industriale, che ebbe per protagonista una moltitudine di operai. Né si può dimenticare il prezioso sostegno che alla patria in guerra venne dalle donne rimaste a presidio delle famiglie. L'Italia uscì in questo senso dalla prova del 1917-18 cambiata moralmente, forte di un'acquisita comunanza di destino più che di uno status di grande potenza, riunita - con la liberazione di Trento e Trieste - entro i confini sognati dai patrioti del Risorgimento.Celebrare questo storico risultato non significa nemmeno per un momento dimenticare o tacere errori fatali, responsabilità politiche e militari, cui si debbono far risalire costi umani e rischi estremi imposti al paese. Celebrare la vittoria del 4 novembre ed esaltare i sacrifici e gli eroismi che la prepararono e la forgiarono, non significa nemmeno per un momento edulcorare le atrocità della guerra, le sofferenze subìte, l'immenso prezzo di vite umane pagato dal popolo italiano. Appartengo alla generazione i cui padri combatterono per anni nelle trincee della prima guerra mondiale: essi hanno trasmesso a ciascuno di noi una testimonianza incancellabile di orrore per la guerra e di volontà di resistervi, di vivere e di far vivere la patria italiana.In un breve libro scritto al ritorno dal servizio prestato al fronte come ufficiale di complemento, mio padre scrisse: "si è immensamente sofferto, ma si ritorna migliori". "Tutto soffersero coloro che fecero la guerra, tutto sacrificarono, ma i sopravviventi hanno ereditato un senso nuovo della vita".E tra i ricordi che egli consegnò a quelle pagine, permettetemi ancora di citare questo : "Non dimentico. A Buso del Termine, sull'Altipiano di Asiago, linea di partenza per Cima di Valbella, dietro quella possente corazza di rocce frammentarie, diseguali, massicce e sbilenche, così duramente e pertinacemente battuta dall'artiglieria nemica e così variamente saggiata e valicata dai pugnaci combattimenti, mi si riempiva la gola di un groppo di lacrime nel seguire i nostri umili fanti, tutti intenti a tracciare scavare comporre, nel luogo che pareva il più coperto, tombe per i resti di poveri caduti. Essi riuscivano, con quelle mani rudi, che eran passate dall'impiego della vanga e del ronciglio a quello della bomba a mano e del fucile, riuscivano a fare delle piccole opere di bellezza" ... "Bisognava seguirli, quei fanti, che non si svestivano da mesi, e vivevan la vita più aspra, e da un momento all'altro dovevano salire alla contesa linea di Monte Valbella." Si, per la mia generazione la storia della Grande Guerra è anche fatta di memorie familiari e di richiami affettivi.Fu - lo ripeto con le parole che ho già citato - la prima grande esperienza collettiva del popolo italiano: e i suoi frutti non furono annullati dalla convulsa crisi sociale e politica che vi seguì, e che vide l'Italia partecipe per vent'anni dell'era dei totalitarismi in Europa, soggetto e vittima di predicazioni belliciste e di ambizioni o illusioni imperiali.Non fu annullato il prezioso frutto di una nuova coscienza nata tra gli italiani: l'esser parte - tutti - di una collettività nazionale, il riconoscersi nel valore dell'unità nazionale. E questo è un retaggio che dobbiamo aver caro. Un retaggio identificabile con quell'amor di patria, e quel senso della dignità nazionale, che sorresse i nostri combattenti a El Alamein - l'ho appena ricordato dinanzi al sacrario dedicato a quelle migliaia di caduti -, che dopo l'8 settembre 1943 ispirò la disperata resistenza delle nostre forze a Cefalonia, che animò nell'aspra fase finale della seconda guerra mondiale il rinato esercito italiano a Mignano Monte Lungo o i militari impegnatisi accanto alle formazioni partigiane nella guerra di Liberazione.

Ci muoviamo oggi in un paese e in un mondo radicalmente cambiati. Non c'è più lo spettro della guerra sul territorio europeo. Si è spento il focolaio della prima e della seconda guerra mondiale, entrambe esplose e sanguinosamente combattute nel cuore dell'Europa. C'è stata riconciliazione nella pace e nella democrazia, via via rimuovendosi l'ipoteca e la minaccia rappresentate dal persistere di vecchie ideologie di irriducibile contrapposizione. Che cosa sia diventata l'Europa ce lo hanno detto in questi decenni alcune immagini-simbolo: il rappresentante illuminato della resistenza al nazismo e della nuova coscienza nazionale della Germania democratica che cade in ginocchio dinanzi al monumento ai caduti del ghetto di Varsavia, il presidente francese e il cancelliere tedesco che si tengono per mano onorando insieme la memoria degli eroi e delle vittime del massacro sul campo di battaglia di Verdun.

Questo è diventata l'Europa, e con essa l'Italia. Repubblica democratica fondata sul lavoro. Non si evochino, oggi, nel nostro paese, per amor di polemica politica o vetero-ideologica, spettri che nessuno vuole più resuscitare. E' legge per tutti la Costituzione repubblicana: "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali" - "La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino" - "L'ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica" - "L'Italia consente ... alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni e ... favorisce le organizzazioni rivolte a tale scopo".

Sono queste le tavole del nostro impegno comune. Non c'è più spazio né per il militarismo né per l'antimilitarismo. E' sancita una cultura della pace, di cui è parte l'attaccamento alla Patria e il dovere di difenderla, e di cui è parte anche il nostro sostegno alle organizzazioni internazionali deputate a garantire pace e giustizia nel mondo e alle decisioni che esse possono assumere a questo fine. E si è tracciata così la nuova visione e funzione delle nostre Forze Armate, che in nome della Costituzione oggi festeggiamo e a cui rendiamo omaggio per l'impegno che pongono, con spirito di sacrificio e intelligenza, fuori dal suolo italiano, al servizio di missioni per la pace e la sicurezza internazionale.

Come ha ben detto il Presidente Fini nel recente Convegno già da me richiamato, "è impossibile oggi pensare la patria senza la libertà e i diritti del cittadino", "la nazione va ancorata alla democrazia, e questa va legata, a sua volta, al valore della nazione". E' così che dobbiamo calarci più che mai nella prospettiva dell'Europa unita ; abbiamo bisogno del massimo di coesione nel riconoscerci in un patrimonio comune di storia e di valori e nell'operare unendo le nostre forze, per poter dare un valido contributo alla costruzione europea e far valere il nostro ruolo. Non c'è avvenire per il nostro paese senza tener ferma e far vivere l'unità nazionale, in seno alla nuova Europa di cui siamo parte integrante.

E' qualcosa che sentiamo in modo particolare nel momento difficile che l'Italia, l'Europa e il mondo stanno affrontando. La libera competizione sociale e politica democratica, il libero confronto ideale e culturale, il libero esercizio dei diritti individuali e collettivi, compreso il diritto al dissenso e all'opposizione, sono pienamente compatibili con il senso di appartenenza alla comunità nazionale che anche attraverso il drammatico cimento della prima guerra mondiale abbiamo sempre di più riconosciuto e vissuto come fondamento del nostro essere cittadini italiani. Un senso di appartenenza che implica consapevolezza della complessità delle sfide che stanno oggi dinanzi all'Italia e dunque della necessità di non sfuggire al dovere dell'impegno comune e solidale, al di là di ogni legittima e fisiologica dialettica di posizioni, per salvaguardare il tessuto unitario del paese e garantirgli un futuro migliore.

A questi pensieri, solo apparentemente così lontani dalla lezione di quegli avvenimenti, ci induce la celebrazione del 90° anniversario della conclusione vittoriosa della prima guerra mondiale. Pensieri di pace, di amor di patria, di responsabilità e unità nazionale.

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MASSIMO SALVADORI: L’INUTILE MASSACRO

LA REPUBBLICA 4 NOVEMBRE 2008

A esprimere ciò che ha rappresentato la prima guerra mondiale, la quale ha insanguinato l´Europa come mai avvenuto in precedenza, sono stati anzitutto quanti l’hanno vissuta: militari, politici, intellettuali, uomini e donne di ogni ceto. Divisi tra loro nella valutazione del suo significato e nelle posizioni assunte a favore o contro gli obiettivi dei rispettivi paesi, li ha però accomunati un unico responso: che essa determinò il crollo di un mondo. Lo percepì fin dal 1915, con un senso di orrore e spavento, Sigmund Freud, il quale scriveva: «Ci pare che mai un evento storico abbia distrutto in tal misura il così prezioso patrimonio comune dell’umanità, (...) inabissato così profondamente tutto quanto vi è di elevato». Ma di chi la responsabilità?La pubblicistica politica e la storiografia hanno alimentato in proposito un dibattito infinito. Merita in particolare di essere ricordato, per la statura degli studiosi, lo scontro avvenuto negli anni ‘60 tra Fritz Fischer, sostenitore del ruolo primario avuto dalla Germania nello scatenamento e nel proseguimento della guerra, e Gerhard Ritter, il quale tale tesi ha vigorosamente contestato. Su questa questione, pare a chi scrive che parole quanto mai persuasive abbia scritto il grande storico russo Evegheni V. Tarle, pochi anni dopo la conclusione del conflitto, quando osservò che «entrambi gli schieramenti delle potenze ostili avevano piani di conquista, entrambi erano capaci di far divampare l’incendio al momento che fosse parso loro vantaggioso, aggrappandosi al pretesto che apparisse il più idoneo», ma che nell’estate del 1914 la decisione fu presa da Germania e Austria le quali si erano convinte che fosse allora venuta l’occasione per esse più favorevole.La «grande guerra», iniziata tra le fanfare e tripudi di folle osannanti nell’illusione di un conflitto di pochi mesi e durata invece dall’agosto 1914 al novembre 1918, fu così detta perché mai nel passato ve ne era stata una eguale. Fu una guerra mondiale perché, scatenata allorché il vecchio continente credeva di poter addirittura accrescere la propria posizione di «centralità», ebbe come oggetto quale blocco di potenze europee dovesse tenere il maggior dominio nel globo; e perché le sue conseguenze coinvolsero l’intera carta geopolitica del mondo. Fu al tempo stesso una guerra europea, in quanto tutto venne giocato nei campi di battaglia europei, anche dopo l’intervento americano nell’aprile del 1917, e quasi tutte le immani devastazioni materiali e la grandissima maggioranza dei morti e feriti riguardarono l’Europa.Fu una guerra che mobilitò come mai prima sotto il controllo crescente dello Stato le risorse economiche - e anzitutto quelle industriali - preposte a fornire, in quantità gigantesche, agli eserciti di terra fucili, mitragliatrici, artiglierie, mezzi di trasporto a motore, alle flotte navi moderne e sottomarini, armi nuove come gli aerei e i carri armati, equipaggiamenti di ogni genere; e le risorse umane tese allo spasimo, segnando l’ingresso nella produzione di fabbrica su una scala senza precedenti della mano d’opera femminile. E la vittoria andò al campo in grado di fornire tali risorse nel maggior grado.Fu una guerra che provocò un immenso massacro. Le cifre dei caduti furono di 1.800.000 tedeschi, tra i 1.700.000 e i 2.500.000 sudditi dell’impero zarista, 1.350.000 francesi, 1.300.000 appartenenti all’impero austro-ungarico, 750.000 britannici e 190.000 appartenenti ai dominions, 600.000 italiani, 300-350.000 romeni, 300-350.000 turchi, 300-350.000 serbi, 100.000 bulgari, 100.000 americani, 50.000 belgi.Fu una guerra che maciullò i corpi e avvelenò gli spiriti degli europei. I corpi dei soldati furono martoriati nelle grandi battaglie e negli scontri crudeli tra le opposte trincee e intossicati dai gas usati per la prima volta, come fu narrato in maniera indimenticabile da scrittori come Eric Maria Remarque in All´Ovest niente di nuovo e da Emilio Lussu in Un anno sull´altipiano e in chiave cinematografica da registi come Lewis Milestone nel film tratto dal libro di Remarque e da Stanley Kubrick in Orizzonti di gloria, e documentato dalle cineprese dei corrispondenti di guerra. Gli spiriti vennero avvelenati sia da schiere di propagandisti e giornalisti al servizio dei governi e degli Stati Maggiori sia da intellettuali anche grandissimi i quali, con poche eccezioni tra cui Romain Rolland che ne denunciò l’asservimento al potere e l’accecamento, esaltarono chi la Kultur dei popoli germanici e chi la Civilisation dei popoli liberali occidentali. Vi furono poi i più aspri conflitti tra i militaristi-imperialisti e i pacifisti di impronta umanistica e religiosa, tra i socialisti rivoluzionari intesi a sovvertire l’intero ordine costituito e i loro vari oppositori e nemici. Vi furono le chiese benedicenti gli eserciti, prima e dopo che Benedetto XV parlasse nel 1917 dell’«inutile strage», e contadini, operai e soldati di tutti i fronti maledicenti. I tribunali militari lavorarono a pieno ritmo; soldati ribelli o troppo stanchi vennero decimati, fucilati, imprigionati, mentre i futuristi italiani parlavano di «estetica della guerra» e si compiacevano della «bella guerra virile e tecnologica». Le classi dirigenti operarono per «nazionalizzare le masse», per porle al totale servizio di una guerra in cui «la morte di massa» - ha scritto Mosse - «fu innalzata nel regno del sacro».Fu una guerra civile ideologica tra le potenze occidentali che - poco curanti di essere alleate con l’impero russo autocratico e carcere di popoli - sventolavano la bandiera della democrazia e delle libere nazionalità e gli imperi centrali, alleati della Turchia, che alzavano quella di un vero ordine fondato su gerarchie solidali e affidato alla guida di monarchi, alti burocrati e militari.Fu una guerra che lasciò un’eredità spaventosa. Il valore della vita umana risultò annullato, si diffusero uno spirito di violenza e una disponibilità a ricorrere ad essa che avrebbero fatto sentire i loro effetti virulenti in futuro e che toccarono i punti estremi nelle pratiche del bolscevismo, dei fascismi e del militarismo nipponico.Fu una guerra che tradì la promessa tanto agitata di essere l’ultima, quella che avrebbe assicurato pace, democrazia, benessere. Provocò il crollo dell’impero germanico, dell’impero asburgico e dell’impero zarista; creò le condizioni per la conquista del potere da parte dei bolscevichi in Russia e lo scatenamento di un’ondata di convulsioni politiche e sociali destinate a durare un’intera epoca storica e a sconvolgere la società europea; fece nascere molti nuovi fragili Stati; portò all’emergere della potenza di un’America che presto voltò le spalle alla «pazza» Europa e si richiuse nell’isolazionismo. Per l’Italia la guerra fu la «quarta guerra di indipendenza», ma essa mise in ginocchio il paese e vi attivò conflitti distruttivi.Come vide fin dal 1919 John Maynard Keynes, celebre autore de Le conseguenze economiche della pace, le potenze vincitrici dettarono ai vinti una pace cartaginese «senza nobiltà, senza moralità, senza intelletto», la quale seminò nuovo disordine, nuovi conflitti e nuove guerre. In riferimento all’animo con cui agirono in particolare i governanti francesi e inglesi, che si imposero su un Wilson forte nella retorica ma debole in concreto, Keynes osservava: «La vita futura dell’Europa non li riguardava», la loro mente era tutta rivolta alle frontiere, agli equilibri di forza, agli ingrandimenti imperialistici, «al futuro indebolimento di un nemico forte e pericoloso, alla vendetta e a riversare dalle spalle dei vincitori su quelle dei vinti gli insostenibili pesi finanziari». Così avvenne che si coltivassero i germi patogeni di un secondo e ancora più catastrofico 1914: il 1939.

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CARLO SGORLON

CI TORMENTA IL RICORDO DEI MORTI. LA GUERRA RIPUDIATA.   AVVENIRE 4 NOVEMBRE 2008

Quando ero bambino, e poi adolescente, il IV Novembre era una giornata di duplice festa. Era il mio onomastico e il giorno in cui si celebrava la vittoria dell’Italia e dei suoi alleati sopra gli Imperi centrali. La mia giovanissima età e il clima politico creato dal Ventennio faceva sì che sentissi la doppia festa con una particolare intensità. Le mie capacità di giudizio non mi permettevano di riflettere in modi maturi su ciò che v’era dietro l’armistizio di villa Giusti, e il testo di Armando Diaz, ossia il bollettino della vittoria. Quel testo era riprodotto in targhe di bronzo sotto le logge di tutti i municipi, accanto alla lastra di marmo che ricordava invece le «inique sanzioni» della Società delle Nazioni, perché l’Italia aveva attaccato e conquistato l’antico impero di Etiopia.Certo neppure oggi, dopo aver visto da vicino la seconda guerra mondiale, e dopo aver letto tanti libri e assistito a tanti film sulle grandi guerre, e su cento altre, potrei dimenticare ciò che significò per l’Italia il IV Novembre. Il nostro Paese aveva raggiunto finalmente i suoi confini naturali, che già Dante aveva indicato più di sei secoli prima che la nostra patria unificata fosse una realtà. Aveva conquistato Trento, Gorizia e Trieste. Il trattato di Saint Germain ci avrebbe assegnato anche la Dalmazia e l’Istria, dove si parlava, almeno lungo le coste, veneziano. Fu una decisione quasi giusta perché appartenute alla Serenissima in secoli lontani. Invece ingiustamente ci fu assegnato anche l’Alto Adige, di lingua tedesca.La guerra dunque veniva considerata il quarto conflitto del nostro Risorgimento. Aveva sviluppato l’effetto di creare uno spirito nazionale, almeno in superficie. Aveva contribuito a far nascere un sentimento di fratellanza tra le classi popolari, che avevano supportato più delle altre i tremendi sacrifici della guerra. Ciò soprattutto tra i soldati, i giovani delle campagne e dei quartieri popolari delle città, che erano stati profondamente accomunati dalle esperienze crudeli e sanguinose delle trincee e degli assalti.Queste cose dicono gli storici, e certo non si possono negare. Questo ripetono, più o meno, anche gli uomini delle istituzioni, della politica e dell’esercito, accanto ai monumenti e alle lapidi che ricordano i caduti. Non è possibile criticarli. Ma da allora, dopo tanti decenni, per me e per molti il IV Novembre significa anche parecchie altre cose. Dopo due sanguinosissimi conflitti mondiali, noi europei abbiamo cambiato radicalmente opinioni e sentimenti su quelle guerre, e sulla guerra in generale. Nessuno, almeno nell’Europa occidentale, ritiene più che la politica, quando non riesce a raggiungere i suoi scopi, debba ricorrere alla violenza per conseguirli. L’opinione di Von Clausewitz è ormai qualcosa di arcaico. A nessuno passa più per la mente che si debbano derubare altri popoli dei loro territori, come riteneva l’imperialismo nazista e fascista, per aggiungere una palata di gloria sporca alla propria storia.Per me e per la stragrande maggioranza degli europei la guerra ormai è soltanto un cumulo di orrori; significa sangue, morte, distruzione, fame, persecuzione, paura, miseria. Tutti sappiamo cosa accadde dopo la fine della prima guerra mondiale, per averlo letto nei libri e visto in film e documentari. La gioia e la celebraizone del trionfo militare furono soffocate quasi del tutto da avvenimenti tragici e imprevisti.Dunque noi cittadini, che non abbiamo obblighi di natura rappresentativa e istituzionale, dobbiamo ricordare o celebrare ancora, dopo vent’anni, il IV Novembre? Non significa rievocare una sterminata tragedia, e rinverdire insofferenze e urti tra le nazioni allora nemiche? Questo pericolo ormai è ridotto pressoché a nulla. Ma il IV Novembre deve significare soprattutto il ricordo dei morti. Nella notissima scalinata di Redipuglia riposano le salme di centomila soldati; a Oslavia, presso Gorizia, ve ne sono sessantamila. A Udine, nel piazzale XXVI Luglio, v’è un tempio-ossario che raccoglie i resti di altri trentamila caduti. Dobbiamo ricordare questi giovani sfortunati, cui la guerra impedì di vivere normalmente, le cui vite furono troncate violentemente nell’età migliore e più ricca di speranza. E il IV Novembre è anche il giorno delle Forze Armate, cui oggi tutti si sentono legati, compresi tantissimi pacifisti. Esse infatti sono un’istituzione che garantisce ordine, pace, difesa, a noi e persino ad altri popoli, anche lontani, purtroppo tuttora invischiati in tragici conflitti con i propri vicini, o divisi all’interno da guerre civili o tribali.

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GIAN ENRICO RUSCONI: QUESTA LA NOSTRA VITTORIA

LA STAMPA 4 NOVEMBRE 2008

Dietro la motivazione ideale irredentista i primi semi cattivi del nazional-imperialismo

festeggiamo senz’altro il 4 novembre 1918 che ricorda la vittoria dell’Italia contro l’Austria-Ungheria e la Germania. Questa festa ci appartiene. È parte della memoria profonda del Paese che, nonostante la miseria della sua cultura storica, ha interiorizzato il ricordo dell’infinita schiera di giovani soldati morti, feriti e combattenti nella più grande prova militare mai affrontata dall’Italia. L’ha interiorizzata come un evento traumatico eppure grandioso con uno straordinario effetto di identificazione. E’ stata davvero «la nostra guerra» - ma non nel senso retorico ed enfatico dei politici nazionalisti. In qualche caso addirittura contro di loro. Questo è l’affascinante enigma della Grande Guerra. Di fronte a esso qualunque tentativo delle parti politiche di adottarla come propria maglietta identitaria è semplicemente miserabile.Parliamo tranquillamente di «vittoria», senza dare a questa parola il significato sprezzante o rivendicativo contro «il nemico storico». Non c’è bisogno di aggiungere che noi non vogliamo più nemici né vittorie di questo tipo. Sono sicuro che saranno d’accordo anche i nostri ex nemici di allora - austriaci, tedeschi, slovacchi, croati, sloveni ecc.Detto questo, il 4 novembre non deve essere una commemorazione a-storica. O peggio un patetico fervorino neo-nazionalista che confonde tutto e pretende di essere ecumenico. No. Dobbiamo chiederci con maturo senso storico non solo se quella vittoria meritava lo spaventoso sacrificio che ha richiesto. Non solo se è stata una pagina gloriosa della nostra condotta militare, o se invece la vittoria è stata raggiunta grazie alla dedizione dei soldati di ogni grado più che alle qualità e alla competenza degli alti comandi militari. Ma soprattutto dobbiamo chiederci se era quella «la vittoria» per cui si erano mossi i fanti del 24 maggio 1915.La guerra segna il crinale di due epoche. Prima c’è l’Italia presa in un tumultuoso processo economico e sociale di modernizzazione, guidata da un ceto politico nazional-liberale che, incalzato da un emergente movimento socialista radicale, tenta di risolvere i problemi nazionali entrando nel grande gioco mortale delle potenze europee, a fronte di una popolazione in gran parte ancora rurale e provinciale priva di sicuro orientamento. Ma dopo il novembre 1918 c’è un’altra Italia, fuori controllo proprio in forza delle straordinarie energie economiche, sociali, morali, culturali, politiche scatenate per superare la prova le cui dimensioni e conseguenze erano impreviste. Da qui la crisi del sistema parlamentare, l’esplosione incontrollabile dei conflitti sociali, la radicalizzazione politica, la reazione violenta di strada e di piazza, lo squadrismo, il mussolinismo, il fascismo - in nome della «vittoria», «mutilata» non soltanto dal comportamento verso l’Italia delle potenze vincitrici, ma anche dalla reazione di rigetto di larghi strati di popolazione e dei partiti di sinistra.Qual è il nesso tra questi eventi e il 4 novembre? Si può festeggiare oggi questa data senza farsi la domanda? Senza interrogarsi sul modo in cui la «vittoria» è stata politicamente usata? Ma anche senza interrogarsi sull’imperdonabile errore delle sinistre di allora di farsi scippare dalla destra ultranazionalista e fascista l’ambivalente eppur profonda identificazione popolare con la guerra?Ma qui vorrei affrontare l’altra faccia della questione: il nesso tra il 4 novembre 1918 e il 24 maggio 1915. La qualità della vittoria risponde alle ragioni dell’intervento in guerra? Risponde alle motivazioni e alle attese dei combattenti? Non dimentichiamo che l’Italia prende l’iniziativa di dichiarare guerra nel maggio 1915, entrando nel conflitto europeo dieci mesi dopo il suo scatenamento, quando sono diventate evidenti anche le nuove caratteristiche materiali, tecnologiche e umane del conflitto.Perché il governo italiano abbandona la neutralità, dichiarata nell’agosto 1914, respinge tutte le proposte di negoziazione e di compromesso offertegli per rimanere fuori dalla guerra (l’offerta del Trentino)? Perché intimidisce le opposizioni interne pur di fare la guerra?La risposta che ancora orienta le nostre narrazioni ufficiali e i libri di scuola dice che lo scopo è la «liberazione» (la «redenzione») delle regioni italiane sotto il dominio straniero (simbolicamente Trento e Trieste). È una risposta sacrosantamente vera per le migliaia di soldati mobilitati e pronti a morire per il compimento del Risorgimento nazionale. Ma l’obiettivo che si pone il ceto politico dirigente (e la monarchia) - ora in modo esplicito ora in modo mimetizzato in uno spregiudicato gioco politico e mediatico (sia pure limitato alla sola stampa e pubblicistica), con una mobilitazione e pressione extraparlamentare ai limiti della legalità, tesa a convincere e a intimidire una maggioranza parlamentare riluttante e dubbiosa - è assai più ambizioso e avventuroso. L’Italia deve diventare «una grande potenza» nell’area adriatico-danubiana a spese della monarchia asburgica, anche a costo di entrare in frizione con gli stessi popoli che vi abitano. L’«irredentismo» è soltanto la motivazione ideale.Siano dunque davanti a un obiettivo nazional-imperialistico, sia pure a raggio regionale (e coloniale), che va ben oltre l’aspirazione a «liberare» gli italiani del Trentino e dell’area triestino-istriana. Ma non dobbiamo né scandalizzarci né avere paura delle parole. La logica di potenza guida tutte le nazioni del tempo. E sarebbe antistorico aspettarci un comportamento diverso dalla classe politica italiana. Certo: i liberali moderati di Giolitti, il movimento socialista, i cattolici tentano di opporsi. Ma al di là dei loro errori tattici e strategici, la loro impotenza politica è impressionante. Lo slogan socialista «né aderire né sabotare» esprime più di ogni altra considerazione l’impotenza di ogni alternativa politica all’intervento. Nei mesi cruciali della primavera del 1915 la stragrande maggioranza del popolo italiano segue con docilità la sua classe politica che la porta in guerra. Soltanto in seguito, negli anni successivi, ci saranno le proteste, le ribellioni, le diserzioni (ma non in numero superiore alle altre nazioni belligeranti). Poi arriverà Caporetto, il Piave, il Grappa e finalmente Vittorio Veneto.Ma chi ha passato «il Piave che mormorava» nel maggio 1915 - se è sopravvissuto - non è più lo stesso di prima. L’esperienza della ferocia in trincea, il lutto profondo per i compagni perduti, l’ebbrezza nazionalista hanno attenuato se non cancellato i tratti di liberalità e di idealismo che caratterizzavano l’inizio. Altrimenti non si spiegherebbero le politiche di nazionalizzazione, italianizzazione forzata e poi di fascistizzazione dei territori etnicamente non omologhi - dall’Alto Adige alla Dalmazia - annessi al regno. Sono così gettati i semi cattivi che avrebbero germogliato - in modo diverso nelle diverse regioni - nel secondo conflitto mondiale. Non so se tutto questo fosse già presente o latente in quel lontano novembre 1918. Ma certamente noi vogliamo festeggiarlo e ricordarlo con piena maturità critica. Questa è la nostra vittoria.

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ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA: NOI, FIGLI DELLA GRANDE GUERRA – CORRIERE DELLA SERA 29 OTTOBRE 2008

La rottura del rapporto storico con lo Stato unitario, in conseguenza della sconfitta del ' 40-' 45, insieme all' avvento della democrazia e alla diffusa modernizzazione, hanno reso l' identità italiana odierna qualcosa di difficilmente comparabile con quella di 90 anni fa. Ma, se si guarda meglio, se si considera con più attenzione lo sviluppo delle cose, allora la prospettiva muta. Allora cominciano a emergere i nessi tra oggi e quel tempo, apparentemente lontano certo, ma che fu anche il tempo in cui cominciammo a diventare ciò che siamo.

Avviene così che quegli anni intorno alla Grande Guerra ci si presentino non solo e non tanto come un puro punto di partenza ma come qualcosa di assai più significativo. Essi ci appaiono come una sorta di crogiuolo nel quale non è difficile rintracciare i prodromi dei tratti salienti della odierna identità nostra che ho detto - la rottura dell' antico rapporto con lo Stato, le avvisaglie della democrazia e della modernizzazione. E insieme, però, gli anni e gli eventi stretti intorno al nodo della Prima guerra mondiale ci appaiono anche il palcoscenico sul quale andò in scena la prima rappresentazione delle contraddizioni che quei tratti della nuova identità italiana si portavano appresso, che tutt’oggi si portano appresso. Insomma, ogni volta che all' ordine del giorno della società italiana si pone qualche questione riguardante il senso dello Stato, o l' ethos e i meccanismi della democrazia, o il senso e gli effetti della modernità, ogni volta i problemi, i conflitti, le inadeguatezze che avvertiamo al riguardo, rimandano in qualche modo a quel passato. È come se la guerra del ' 15-18 e il vorticoso succedersi di eventi che da essa prese le mosse costituiscano una sorta di Dna del nostro presente. Il paradosso di questo sovrapporsi di lontananza e di presenza, di passato e di attualità, rispecchia bene la natura ambigua di quella guerra, che fu insieme l' ultima guerra per l' unità nazionale, ma anche il primo episodio di un aspro scontro interno al Paese: scontro che in modi e forme diverse era destinato a caratterizzare gran parte del Novecento italiano, assumendo spesso toni e contenuti di una guerra civile. Se è vero che il primo conflitto mondiale segnò la fine del regime notabilare postrisorgimentale e quindi l' iniziale ingresso delle masse sulla scena nazionale, cioè il principio di una moderna vita politica, ebbene, allora è impossibile non osservare come, proprio a partire da quel punto, nel nostro Paese tale moderna vita politica abbia subito una vera e propria rottura. All' Italia, infatti, non riuscì il passaggio cruciale tra liberalismo e democrazia che il conflitto mondiale aveva messo dappertutto all' ordine del giorno. Nella tormentata contingenza della guerra e del dopoguerra l' Italia scoprì da un lato quanto fragile fosse l' involucro liberale dei suoi ordinamenti e di tanta parte delle sue tradizionali classi dirigenti, e dall' altro, insieme, quale concezione primitiva della democrazia avessero tanti che premevano per nuovi equilibri politici e sociali. Il 1919-22 fu una sorta di ultimo atto di quanto era iniziato nell' inverno-primavera del 1915. Comparvero allora in tutto il loro rilievo quelli che nel cinquantennio successivo, e forse oltre, sarebbero stati alcuni tra i fattori determinanti della scena italiana: una cultura e una pratica di governo dominate dall' indecisione, il radicalismo intellettuale di parte significativa del ceto dei colti, la variegata vocazione attivistica di gruppi consistenti di piccola e media borghesia specie giovanile, il massimalismo largamente diffuso nei pensieri e nell' azione degli strati popolari. A cominciare dalle «radiose giornate», dal «biennio rosso» e poi dalla «marcia su Roma», a cominciare da questi tre atti di un unico dramma, in quante altre occasioni della nostra storia sarebbe capitato agli osservatori più acuti di notare il peso condizionante dei fattori che ho appena ricordati, presi da soli o mischiati tra loro in varia misura! Proprio intorno alla Grande Guerra, insomma, si precisò definitivamente e si approfondì quella propensione alla divisività che ha caratterizzato in modo patologico, e per certi aspetti ancora caratterizza, la storia del nostro Paese. Una divisività che, lo sappiamo bene, oltre che riferirsi a una dimensione propriamente ideologico-politica, anzi quasi prima di essa, tende a presentarsi addirittura in una dimensione antropologico-culturale e perfino morale. Come uno spartiacque tra due nazioni, tra due Italie, una buona e degna, l' altra cattiva e indegna, destinate perciò a farsi in eterno la guerra. La nostra identità novecentesca, ci piaccia o no, sembra fatta anche di questa incomponibile volontà contrappositiva, sempre pronta ad alimentare reciproche, eterne, scomuniche. Ma proprio dal primo conflitto mondiale data anche l' inizio di un fenomeno destinato in certo senso a fungere da paradossale contrappeso rispetto alla divisività di cui ora ho detto, e destinato anch' esso a rappresentare un filo rosso della moderna vicenda italiana. Mi riferisco alla frequente migrazione di personalità e di idee da un' Italia all' altra, da uno schieramento politico-culturale all' altro, per essere più chiaro dalla destra alla sinistra e viceversa. È qualcosa di sostanzialmente diverso dal vecchio trasformismo ottocentesco in qualche modo rimesso a nuovo da Giolitti. Il carattere variegato del fronte interventista nel ' 15 va visto piuttosto come il preannuncio della «grande contaminazione di forze, di ideali, di gruppi» che la guerra produsse già al suo inizio, e poi subito dopo, e che in seguito si sarebbe molte altre volte verificato nell' Italia novecentesca in occasione di ogni grande sommovimento: per esempio nel 1943, e poi nel 1948, e ancora nel ' 68, e da ultimo nel ' 93-94. Un segno, tra i molti altri, di un che di profondamente instabile, incerto e quindi potenzialmente e imprevedibilmente fusionale, che caratterizza la moderna scena pubblica italiana, le sue culture e i suoi gruppi dirigenti, costretti dalla storia a muoversi senza avere il punto di riferimento di alcuna stabile, consolidata, tradizione nazionale. Non è certo un caso se ben due volte, in occasione dei due conflitti mondiali, il nostro Paese abbia visto ogni volta mutare radicalmente il proprio regime politico: e dunque ogni volta si sia posto puntualmente il dilemma di quanta parte della vecchia classe dirigente ammettere nel nuovo ordine, o respingere.

Il testo qui pubblicato è una sintesi dell' intervento che Ernesto Galli della Loggia tiene oggi alla tavola rotonda «L' identità nazionale italiana a novant’anni dal 4 novembre», che conclude il convegno «La Grande Guerra nella memoria italiana», organizzato a Roma dalla Camera dei deputati presso la Sala della Lupa di Montecitorio, a partire dalle ore 10. Alla tavola rotonda, moderata da Arrigo Levi, partecipano anche Edmondo Berselli, Piero Melograni, Lorenzo Ornaghi, Francesco Perfetti. Il convegno prevede relazioni di Alberto Monticone, Carlo Jean, Valerio Castronovo, Manuela Di Centa

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ANGELO D’ORSI: CANEA NAZIONALISTA, NON C’E’ NIENTE DA FESTEGGIARE

LIBERAZIONE 21 OTTOBRE 2008

Il novantesimo anniversario della fine della Prima Guerra mondiale è stato poco ricordato in Italia; assai di più, altrove. Per esempio in Francia. Ma come? Non certo con parate e cerimonie, o con conferenze di generali; o concerti tricolorati. L’anniversario è stato l’occasione per convegni, pubblicazioni scientifiche, seminari; si è, insomma, colto il pretesto della data, per avviare ricerche innovative, per fornire nuove riflessioni, dare ulteriori approfondimenti rispetto al lavoro, sempre in progress, della storiografia. Che, sul conflitto 1914-’18, ha prodotto finora una enorme quantità di studi, ma, come sempre, davanti ai tornanti decisivi della storia, non cessa di produrne. Anzi, su quella guerra che gli stessi contemporanei definirono “grande”, gli stessi oggetti e i parametri della ricerca sono andati radicalmente cambiando a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo, quando, in sostanza, si celebrava il cinquantennio. Si cominciarono a scoprire le decimazioni, i processi sommari, la vera e propria guerra nella guerra che le gerarchie, a cominciare da quell’inetto pericoloso che fu Luigi Cadorna (comandante in capo fino all’autunno ’17, ossia alla rotta disastrosa di Caporetto), condussero contro la truppa: che, come è noto, era formata essenzialmente di contadini analfabeti, i quali sugli altipiani delle Tre Venezie si facevano ammazzare senza

nemmeno sapere perché. Si studiò poi la vita (se vita la si può chiamare) di trincea: fango, pidocchi, fame, infezioni, epidemie, dissenteria... E la morte che si affacciava repentina, benché sempre attesa e temuta, portando via ogni giorno, ogni notte – con un colpo d’obice che cadeva all’improvviso sulle teste di quegli uomini che conducevano un’esistenza da topi – il suo bottino di sangue. L’atrocità immane, le carneficine, la pulsione distruggitrice che si scatenò sul Vecchio Continente, travolse non solo i corpi, ma le menti dei soldati, e spesso anche dei civili, che con quella guerra cominciarono a essere pesantemente coinvolti dalle operazioni militari.

Gli storici passarono dunque a studiare le malattie psichiatriche, i ricoveri coatti, dopo aver studiato le mutilazioni, e l’impossibile rientro nella cosiddetta “vita civile” dei milioni di smobilitati. Quella guerra fu un gigantesco trauma per l’Europa, innanzi tutto, ma non solo per l’Europa; lo fu nel suo inizio, ma lo fu anche nella sua conclusione, per gli strascichi di rancori e risentimenti, di problemi sociali ed economici, di difficoltà di reinserimento per i combattenti, per l’abitudine alla violenza che dal campo di battaglia tracimò nel campo della politica, trasformando gli avversari politici in nemici militari, in «nemici interni», contribuendo in modo decisivo a una tremenda radicalizzazione e a una fortissima ideologizzazione dell’azione politica. Ne nacque, certo, un nuovo, importante protagonismo delle masse, prima di allora, perlopiù, largamente inerti e subordinate, e che, dopo la guerra, oscillarono tra adesione ai socialismi e ai nazionalismi. Se la doppia rivoluzione russa fu il frutto “buono” di quel conflitto (a prescindere dalle sue inquietanti deviazioni”), fascismo e nazismo ne furono i frutti velenosi: gli uni e l’altra, esempi di quel grandioso fenomeno di obilitazione delle masse cui accennavo. Si aggiunga che l’Italia entrò in quella guerra con una piroetta diplomatica che ci trasformò da allora nei traditori per antonomasia (alleati all’Austria e alla Germania ci schierammo con la Francia, Gran Bretagna e Russia), ma soprattutto vi entrò contro la volontà del Parlamento, e dell’intero Paese, che non era affatto preparato: né tecnicamente, né economicamente, né sul piano dell’opinione pubblica, a gettarsi allo sbaraglio. Fu, come avrebbe notato un grande storico, Luigi Salvatorelli, un vero e proprio colpo di Stato del re Vittorio Emanuele III: la prima delle tante scelte sciagurate che condannarono la dinastia sabauda a finire nella spazzatura della Storia.

Madre di tutte le guerre moderne, quella guerra, che mostrò come si potesse realizzare tecnologicamente la morte di massa: con l’uso di gas tossici, da tutte le parti belligeranti; con battaglie di massa, condotte con armi per allora modernissime e potenti, che si risolvevano in mostruose carneficine; esempio eccelso degli effetti della “seduzione” che la guerra e la violenza resa giuridicamente lecita, o comunque tollerata, esercitano, anche nelle forme estreme: si pensi all’uso delle parti anatomiche strappate, recise, sottratte ai corpi dei nemici uccisi per farne dei simpatici gadget o souvenir da portare a casa, o intanto, da tenere su di sé, addirittura come portafortuna. E si pensi al vergognoso bellicismo di cui quasi tutti gli intellettuali dei diversi Paesi diedero prova, scrivendo pagine tremende, di cui forse avrebbero dovuto chiedere perdono; cosa che, naturalmente, non si sognarono di fare. Amiamo la guerra!, di Giovanni Papini, costituisce un esempio emblematico di quel «tradimento dei chierici » che anni dopo Julien Benda avrebbe denunciato, sulla scia di un altro grande intellettuale francese, Romain Rolland, che aveva invitato letterati e studiosi, artisti e scienziati a non cadere nella «canea nazionalista».

Fu insomma, quella «guerra interimperialistica», per usare la categoria di Lenin, anche l’avvio di una gigantesca “guerra civile europea” che sarebbe terminata nel 1945: la “seconda Guerra dei Trent’anni”, secondo molti studiosi. Come la prima, foriera di tempeste i cui effetti ancora gravano su di noi. C’è dunque da celebrare? Difficile anche solo pensarlo, alla luce appunto delle conoscenze storiche: celebrare poi una “vittoria”, significa celebrare la “sconfitta” di qualcun altro; quel qualcun altro che magari oggi è nostro partner nell’Unione Europea o con il quale abbiamo scambi commerciali e culturali importanti. Solo l’ignoranza arrogante e presuntuosa dei nuovi vertici politici delle nostre Forze Armate può spingersi a un tale traguardo: grottesco, innanzi tutto; ma altresì pericoloso.

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EMILIO GENTILE: LA MACELLERIA DELLA MODERNITÀ

IL SOLE 24 ORE 30 NOVEMBRE 2008

La Grande Guerra fu considerata dai suoi contemporanei la prima guerra moderna, combattuta con mezzi e metodi nuovi. Se la modernità si identifica con il “nuovo”, come era convinzione predominante nella cultura e nella mentalità dell’epoca, tutto nella Grande Guerra era moderno, compresa la carneficina di milioni di uomini uccisi, feriti, mutilati, impazziti. E altrettanto moderno era il sentimento di attesa del nuovo che la guerra aveva diffuso. Che cosa sarebbe stato, che cosa avrebbe dovuto essere, il “mondo nuovo”, non era chiaro a tutti; e non tutti quelli che volevano il “nuovo” volevano la stessa cosa. Il contrasto delle opinioni sul mondo nuovo e sull’uomo nuovo divenne un contrasto fra nuove, contrastanti interpretazioni della civiltà moderna, vista attraverso l’esperienza e le conseguenze della Grande Guerra. Fin dall’inizio delle ostilità, alcuni oppositori della guerra avevano previsto le conseguenze catastrofiche che essa avrebbe avuto per l’intera civiltà europea. Come Romain Rolland, all’epoca uno dei più celebri scrittori europei, insignito nel 1915 del premio Nobel per la letteratura. Francese di nascita ma cosmopolita di mente e di cultura, Rolland fu colto di sorpresa dall’inizio delle ostilità, come la massima parte dei suoi contemporanei, ma subito si rese conto, come annotava nel suo diario il 4 agosto 1914, che «questa guerra europea è, dopo secoli, la più grande catastrofe della storia, la rovina delle nostre più sante speranze nella fratellanza umana».

Quando la Grande Guerra iniziò, l’uomo europeo pensava di appartenere a una civiltà che era diventata la civiltà per antonomasia, trionfante ovunque nel mondo. Quando la Grande Guerra cessò, l’uomo europeo aveva perso l’orgoglio della propria superiorità, era angosciato dalla visione di un futuro senza speranza, dove la nozione stessa dell’uomo moderno quale elevata espressione di una superiore civiltà era stata brutalmente annientata dall’esperienza della guerra. «Eravamo dei cittadini laboriosi, siamo diventati degli assassini, dei macellai, dei ladri, degli incendiari», affermava dopo la fine della guerra lo scrittore austriaco Robert Musil, che aveva combattuto sul fronte italiano in Trentino. «La guerra, affermava nel 1936 un soldato francese, non ha fatto di noi soltanto dei cadaveri, degli impotenti, dei ciechi, ma, nel bel mezzo di stupende azioni di sacrificio e di abnegazione, ha risvegliato nel nostro animo antichi istinti di crudeltà e di barbarie, talvolta portandoli al parossismo. A me è capitato... a me che mai ho dato un pugno a qualcuno, a me che ho in orrore il disordine e la brutalità, di provare piacere nell’uccidere».

L’uomo europeo, durante la Grande Guerra, era stato artefice, protagonista e vittima degli «ultimi giorni dell’umanità», come li definì nel 1922 il caustico moralista e critico viennese Karl Kraus, rievocando in un lungo dramma teatrale gli «anni in cui personaggi da operetta recitarono la tragedia dell’umanità». Nell’epilogo del dramma, una voce dall’alto, proveniente dal pianeta Marte, annunciava la punizione inflitta al pianeta degli umani: «Perché alfin sulla vostra ancor trepida terra,/ la vittoria finale ponga fine alla guerra,/ e perché in alcun modo non sia contrastata/ con grande successo l’abbiam bombardata».

La Grande Guerra era stata una guerra europea, ma era diventata “mondiale” perché l’Europa era il centro del mondo, quando il conflitto era iniziato. Quando la guerra finì, il mondo era cambiato e non aveva più un centro. «Noi europei - ricordava nel 1923 il musicista, teologo e medico tedesco Albert Schweitzer - avevamo oltrepassato la soglia del ventesimo secolo con incrollabile fiducia in noi stessi, e quanto si scriveva allora sulla nostra civiltà non faceva che confermare l’ingenua fede nel suo alto valore. Chiunque esprimeva un dubbio veniva guardato con stupore». Ora, dopo la grande guerra, «è chiaro a tutti che la morte della civiltà è data dal tipo del nostro progresso. Ciò che rimane non è più saldo, resta in piedi perché non è stato ancora esposto alla pressione che ha fatto cadere il resto ma, costruito com’è sulla ghiaia, facilmente verrà trascinato via alla prossima frana. Quale processo ha portato nella civiltà tale affievolimento di energia?».

Non stupiscono, dopo l’esperienza della Grande Guerra, le angosce sul destino dell’uomo moderno né le considerazioni sul declino della civiltà occidentale, sulla fine del progresso, sulla crisi della ragione, sulla possibilità stessa, per l’uomo moderno, di costruire una civiltà capace di allontanare definitivamente lo spettro della barbarie dalla vita individuale e collettiva. Mai nel corso della storia umana era accaduto, ai contemporanei di qualsiasi epoca, di vivere in un periodo così breve l’esperienza catastrofica del naufragio di una civiltà che, appena un decennio prima, aveva celebrato il primato della sua universalità, dominando nel mondo con la potenza delle armi, della ricchezza, della scienza e della cultura. Quel che può invece destare stupore, è constatare che le riflessioni sulla catastrofe della civiltà europea e sul destino dell’uomo moderno non erano nuove, ma erano state già quasi tutte anticipate negli anni precedenti la Grande Guerra, nel periodo considerato l’epoca bella della modernità trionfante, quando la civiltà europea raggiunse l’apoteosi con il trionfo della modernità come civiltà universale, e con l’egemonia dell’Europa imperiale nel mondo.

Un capitano francese scrisse in una lettera: «Assistiamo alla fine di un mondo, ai soprassalti di una civiltà che si suicida. Del resto, a parte le sofferenze che questo provoca, non poteva fare di meglio». Enigmatica, meccanica, anonima, diabolica, bestiale, la Grande Guerra appariva come una mostruosa simbiosi fra modernità e barbarie, fra umanità e bestialità, e in questa simbiosi sembrava realizzare effettivamente, con una crudeltà che superava qualsiasi immaginazione, le profezie sulla catastrofe dell’uomo moderno, travolto dalle stesse creature meccaniche che egli aveva inventato per accrescere la sua potenza e il suo dominio. Anzi, la guerra stessa era una nuova apocalisse, cioè una nuova rivelazione sul destino umano, non come previsione profetica del futuro, ma descrizione della realtà del presente: la modernità, per sua essenza catastrofica, aveva compiuto la distruzione della civiltà per mezzo di potenze tecnologiche, seminatrici della morte di massa, che l’uomo moderno aveva inventato per accrescere il suo dominio sulla natura e sul mondo, diventandone alla fine schiavo e vittima.

Brano tratto dal libro Emilio Gentile “L’apocalisse della modernità. La grande guerra per l’uomo nuovo”, Mondadori, pagg. 310, € 27,00, 2008

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STORIA E STORIOGRAFIA

E. Traverso, A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, Mulino

Sul piano storiografico il tema della «guerra civile europea» combattuta nel XX secolo è certamente affascinante; su quello politico potrebbe essere ancora inquietante. La definizione nacque in uno dei momenti più drammatici della storia d' Europa, nella Grande guerra che devastò il continente dal 1914 al 1918: come ricorda Enzo Traverso nell' opera densa e complessa che ha dedicato all' argomento (A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, Il Mulino), fu adoperata probabilmente per la prima volta dal pittore tedesco Franz Marc in una lettera scritta dal fronte. I grandi intellettuali di Francia, d' Inghilterra e di Germania, tranne, forse, Romain Rolland e pochi altri, in quegli anni non l' avrebbero accettata. Interpretavano il conflitto in corso come scontro tra civiltà e barbarie - e la civiltà era rappresentata dal proprio Paese e dai suoi alleati -, nel tentativo di dargli più nobili motivazioni. Thomas Mann, ricorda Traverso, lo considerò una lotta tra la Kultur, intesa come civiltà, e la Zivilisation, civilizzazione (nel senso che le avevano attribuito gli illuministi), vista da lui come sviluppo di una modernità senza anima. Da buon patriota attribuì la Kultur alla Germania e la Zivilisation alla Francia. Finita la guerra però, nel romanzo La montagna incantata, celebrò nel personaggio dell' illuminista Settembrini «l' intellettuale democratico, razionalista e progressivo», appartenente dunque più alla moderna Zivilisation che alla Kultur. Nel 1931 Ernst Jünger sostenne che quella guerra era stata un' Apocalisse in cui l' Europa aveva mosso guerra all' Europa: guerra civile, dunque, come conflitto interno a una stessa civiltà, tra due modi del tutto opposti d' intenderla. In questo senso, quella europea potrebbe essere paragonata anche alla guerra civile americana del 1861-65. Con l' enorme differenza che l' Europa sarebbe arrivata alla pace soltanto dopo una seconda guerra mondiale che, come rilevò ancora Jünger nel 1942, avrebbe superato, almeno sul fronte orientale, gli orrori di tutti i conflitti del passato e sarebbe stata, insieme, guerra di religione (nel senso di ideologia) e tra Stati e popoli. Jünger coglieva qui il carattere del tutto particolare della «guerra civile europea», paragonabile per questo aspetto a quella dei Trent’anni, che devastò l' Europa dal 1618 al 1648 e vide combattere i cattolici contro i protestanti, ma in una situazione resa estremamente complessa dall' esistenza anche di conflitti interstatali. Qualcosa di simile avvenne anche con la rivoluzione francese. I paragoni storici potrebbero continuare, senza peraltro rendere più chiara la definizione di «guerra civile europea», sintetica e suggestiva ma anche vaga e incerta, come nota Traverso. Può essere intesa almeno in tre modi: lotta di classe tra borghesia e proletariato; scontro tra fascismo e antifascismo; contrapposizione, come scriveva Jünger, tra due modi opposti d' intendere la civiltà europea. Questa si rifaceva a due differenti tradizioni sette-ottocentesche: l' illuministica e la romantico-nazionale. Traverso colloca l' antifascismo nella prima, ritornando più volte sui richiami degli antifascisti all' illuminismo; ricorda anche che l' intenzione di Goebbels di cancellare dall' Europa le conseguenze della Rivoluzione francese allargò e consolidò il fronte antifascista degli intellettuali. In questa prospettiva è possibile anche spiegare l' alleanza che, nel corso della guerra mondiale, si verificò tra il liberalismo e il comunismo. Erano tutti e due, rileva Traverso, figli dell' illuminismo. È un' interpretazione fondata, ma bisogna evitare di collocarla all' interno di uno schema provvidenziale, proprio sia della storiografia liberale sia di quella comunista: Traverso evita questo rischio, per esempio quando nota che «la violenza nata dal regresso della civiltà si unisce, attraverso una singolare dialettica, con la violenza moderna e tecnologica della moderna società industriale». Si può anche osservare che non sappiamo se l' alleanza tra liberalismo e comunismo, decisiva per sconfiggere il nazionalsocialismo, si sarebbe ugualmente verificata se il dittatore tedesco non avesse rotto il patto di non aggressione con l' Unione Sovietica e non l' avesse invasa (e se gli Stati Uniti non fossero intervenuti, ma anch' essi dopo essere stati attaccati dal Giappone). È un dubbio angosciante, ma del tutto legittimo. La guerra civile spagnola che, in fatto di alleanze, prefigurò gli schieramenti del secondo conflitto mondiale, semplificando, rileva Traverso, il triangolo liberalismo-comunismo-fascismo nella contrapposizione tra fascismo e antifascismo, terminò con la vittoria del primo. Traverso dà ampio spazio alle posizioni degli intellettuali, in pagine che sono tra le più interessanti dell' opera. Se però teniamo conto dello svolgimento reale della «guerra civile europea», soprattutto nella sua fase conclusiva, dal 1939 al 1945, vediamo che a deciderla non fu la superiorità di una visione del mondo su un' altra, tanto più che, nonostante si fossero momentaneamente alleati, il liberalismo e il comunismo rimasero inconciliabili e l' antifascismo non riuscì a farne una sintesi. La «guerra civile europea», allargatasi a conflitto mondiale, fu decisa dalla potenza militare e industriale degli Stati, e in primo luogo degli Usa e dell' Urss. Si può concordare con Traverso quando scrive che alcune guerre civili devono essere combattute. Credo però che la sua affermazione sia valida soprattutto per quelle combattute all' interno di una stessa civiltà, per risolvere le sue contraddizioni, e nemmeno per tutte: non per la Grande guerra (Niall Ferguson e John Keegan ci hanno spiegato che poteva essere evitata), ma soltanto per quella del 1939-45, quando l' Occidente, di cui anche il fascismo era figlio, compì scelte definitive. Che dovrebbero consentire di affidare ormai alla storia anche la «guerra civile europea», impedendo che la politica, come pure continua spesso ad avvenire, alimenti per i propri scopi pericolose memorie contrapposte.

(Aurelio Lepre, La lunga guerra, Corriere della Sera, 19/5/2007)

M. Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi: 1848-1945, Mulino

Da quelle d’indipendenza alla seconda guerra mondiale per cento anni le guerre sono state, per l’italiano comune, il punto d’incontro con la grande Storia; per cento anni ogni generazione ha avuto la sua guerra da combattere, da descrivere, da ricordare. Isnenghi propone un viaggio all’interno di questo infinito discorso sulla guerra, suddividendolo in maniera assolutamente originale, non secondo la cronologia, ma secondo il genere delle testimonianze: i comizi, i proclami, i canti (dai cori al café chantant), le immagini (la pittura, la fotografia, i manifesti), i giornali, la letteratura, le lettere dei soldati, i monumenti, i musei, i nomi delle vie. Il volume compone così un quadro multicolore dove eroici furori e propaganda, retorica e kitsch, felicità e fatica, dolore e nostalgia raccontano gli atteggiamenti degli italiani dinanzi alle loro guerre e il ruolo che queste hanno svolto nel forgiarne l’immaginario.

M. Isnenghi e Daniele Ceschin, La Grande Guerra. Uomini e luoghi del ’15-18, 2 volumi, Utet

La Grande Guerra è lo strumento più completo ed efficace per chi vuole andare oltre la nozionistica storica e spingersi verso nuove prospettive di analisi del nostro passato. Con La Grande Guerra, infatti, la storia è molto più di un insieme di date e di avvenimenti: è un percorso stimolante che ci porta alla ricerca della nostra identità.Il lettore varcherà le soglie del passato da una porta privilegiata, attraverso la quale entrerà in contatto con emozioni, stati d’animo, immaginari, percezioni di tutti coloro che, direttamente o indirettamente, hanno vissuto il conflitto e si sono sacrificati per la nostra patria.La Grande Guerra è un'opera di narrazione e di interpretazione storica che attraverso una pluralità di agili saggi analizza le forze sociali in campo della prima guerra mondiale in Italia, intesa sotto diversi aspetti, non solo militare ma anche ideologico, politico e socio-culturale.

M. Isnenghi e G. Rochat, La grande guerra. 1914-1918, Mulino

Sintesi solida e sfaccettata della Grande Guerra, di come fu voluta e non voluta, condotta e contestata, maledetta e ricordata, questo volume intreccia due filoni di studio solitamente divisi: vicende e passioni politiche e culturali e operazioni militari vengono rilette assieme alle ideologie, ai sogni e alle cifre del primo conflitto mondiale. Frutto del lavoro congiunto di due storici diversi ma affini, "La Grande Guerra" racconta il ruolo delle forze politiche e degli intellettuali, ma anche l'agire e il pensare di generali, soldati e società civile, donne, prigionieri. Un esercizio di memoria che prosegue fino ai nostri giorni perché, dicono i due autori, "la Grande Guerra - apocalissi del moderno - fu un memorabile accumulo di vissuto collettivo. Correre subito, come oggi si usa fare, a dichiararne l'assurdo e il non-senso - clamorosi, sino allo scandalo, agli occhi disillusi e stanchi dei posteri, quasi cent'anni dopo - appare inconcludente e comunque assai più facile che ristabilirne, contemporaneamente, il senso, o i significati, quali essi apparvero alle donne e agli uomini mobilitati sulle illusioni, e i valori e disvalori di allora".

A cura di A. Gibelli, La prima guerra mondiale, Einaudi

È convinzione comune di molti storici che la Prima guerra mondiale rappresenti il momento fondatore delle pratiche di genocidio del XX secolo. «Nata come una classica guerra interstatale - sostiene Enzo Traverso - nella quale si sarebbero naturalmente dovute applicare le regole del diritto internazionale, riconoscendo cioè nel nemico un justus hostis, essa si trasformò a poco a poco, per l' entità e la dinamica delle forze mobilitate, in un gigantesco massacro». I campi di battaglia, estesi per chilometri e chilometri, diventano così enormi cimiteri. La guerra cambia volto e, agli scontri diretti degli eserciti, si sostituiscono la trincea e la distruzione pianificata di villaggi e città con il conseguente enorme carico di morti e di feriti tra i civili. È in questa fase che sembrano farsi strada una nuova etica e una nuova mentalità in grado di trasformare cittadini rispettabili, padri di famiglia e diligenti lavoratori in assassini senza pietà, al fronte: metamorfosi che verrà in seguito glorificata come servizio alla nazione e missione patriottica. Il nemico si disumanizza e diventa quasi invisibile, nonostante la vicinanza (nascosto nelle trincee o nelle case); e spesso la morte è il prodotto di una «macchina» da guerra: un mostro meccanico (l' aereo bombardiere, il carro, l' artiglieria pesante) o il risultato dell' utilizzo di nuovi ritrovati bellici (gas tossici, lanciafiamme) Anche i campi per i civili, costretti ad abbandonare le loro case e, soprattutto, i campi per i militari prigionieri si moltiplicano e non solo in Europa, a causa della lunga durata del conflitto. E nei campi, la vita diventa un inferno, il prigioniero un uomo di seconda classe, la cui morte non commuove e non desta scalpore, rientrando nel «normale» corso del conflitto. Per esempio, su 600 mila prigionieri di guerra italiani catturati dalle forze nemiche, tra il 1915 e il 1918, circa centomila moriranno di fame, freddo, malattie. All' origine del primo genocidio del Novecento, quello degli armeni sotto l' impero ottomano, la Grande guerra segna «l' inizio di un imbarbarimento» del modo di concepire i conflitti, che ci appare oggi come una sorta di «laboratorio» delle future violenze dei regimi totalitari. È probabilmente nei suoi campi di battaglia, come scrive Omer Bartov che gli architetti, e gli ideatori della «soluzione finale» conoscono il loro «battesimo di fuoco». Per comprendere e studiare meglio questo snodo della storia europea, la casa editrice Einaudi ci propone una grande opera collettiva in due tomi (edizione italiana a cura di Antonio Gibelli) ideata da Stéphane Audoin-Rouzeau e da Jean-Jacques Becker, La Prima guerra mondiale (primo volume, p. 590, Euro 75; secondo volume, pp. 790, Euro 80). Nata all' interno del Centro internazionale di studi di Peronne, l' opera in edizione italiana si avvale di molti contributi nuovi che focalizzano e ampliano il ruolo dell' Italia nel conflitto; tra questi il saggio di Gian Enrico Rusconi sui dilemmi dell' intervento in guerra nel 1915; la puntuale ricostruzione di Nicola Labanca della tragedia di Caporetto; il saggio di Bruna Bianchi su psichiatria e guerra, che affronta le dimensioni di massa che aveva assunto il diffondersi di malattie mentali tra i soldati. L' opera è il frutto di un intreccio molto equilibrato tra l' impostazione tradizionale attenta più all' aspetto militare e politico della guerra, rappresentata qui da uno storico autorevole come Jean-Jacques Becker, e le tendenze impersonate da Stéphane Audoin-Rouzeau, esponente della nuova generazione di ricercatori interessati anche ai lati soggettivi ed esistenziali dell' esperienza dell' orrore e dell' insensatezza della guerra. Si ricostruisce così una «storia dell' umanità offesa, una storia delle identità traumatizzate» e insieme delle culture e delle memorie.

(Frediano Sessi, La matrice unica di lager e gulag, Corriere della Sera, 14/12/ 2008)

J. Keegan, La prima guerra mondiale: una storia politico-militare, Carocci

Si dice che i militari siano spesso i più decisivi avversari della guerra moderna, perché sanno quali catastrofi potrebbe provocare. Sembra che anche gli storici militari se ne siano convinti. John Keegan, uno dei maggiori esperti in questo campo, dopo avere esaminato le vicende della prima guerra mondiale in un bellissimo libro di circa cinquecento pagine, arriva alla conclusione che essa è tutta misteriosa: «Sono misteriosi sia le sue origini che il suo svolgimento». L' ammissione di Keegan di essere incapace di pervenire a una convincente spiegazione della Grande Guerra può sembrare una resa. Per uno storico la rinuncia a spiegare è dolorosa: la storiografia politico-militare nacque proprio col tentativo di Tucidide di capire perché era scoppiata la guerra del Peloponneso, «il maggiore sconvolgimento» avvenuto fino a quel momento. A distanza di ventiquattro secoli, confessare che la prima delle due terribili guerre che hanno sconvolto il XX secolo resta un mistero significa mettere in crisi le ragioni stesse della ricerca storica. Keegan espone i termini del problema fin dalla prima fase: «La prima guerra mondiale è stato un conflitto tragico ed evitabile» delineandone così, in maniera straordinariamente efficace, i due principali caratteri: la tragicità e la evitabilità. Potevano essere risparmiati dieci milioni di morti, poteva non essere avviata la drammatica concatenazione di avvenimenti che iniziò allora e si concluse, ma fino a un certo punto, con la seconda guerra mondiale. Nessuna spiegazione delle cause di quest’ultima, sostiene giustamente Keegan, può prescindere dalla prima. Ma, se è così, dobbiamo dedurne che gran parte del XX secolo resta inspiegabile. Fino a qualche decennio fa la posizione di Keegan avrebbe suscitato aspre polemiche e forse non sarebbe stata presa sul serio. Di cause se ne trovarono fin troppe: il nazionalismo, l' imperialismo, «l' assalto al potere mondiale» della Germania, gli interessi economici dei fabbricanti di cannoni. Oggi, quella che sarebbe apparsa una vera e propria provocazione, rischia di non suscitare nessuna reazione. Chi crede più alla razionalità della storia? Ho definito Keegan uno storico militare, ma si tratta di una definizione troppo limitativa. Come un altro studioso britannico della Grande Guerra, Martin Gilbert, Keegan è anche uno storico della sensibilità e della mentalità. Protagonisti della sua opera non sono soltanto i generali e i soldati, ma gli uomini, con i loro sentimenti e atteggiamenti mentali, l' odio e l' amicizia, la paura e il coraggio, le speranze e le delusioni. Keegan dedica a Ypres, il luogo che, per la durezza delle battaglie che si svolsero in quel saliente, può essere considerato il simbolo della tragicità della Grande Guerra, alcune delle sue pagine più belle. Quello di Ypres è «uno dei più tristi paesaggi dell' Europa occidentale». Durante i combattimenti, le trincee, in cui si trovava anche Adolf Hitler, si riempirono di fango, diventarono degli acquitrini pieni di cadaveri. La descrizione che ne fa Keegan ricorda «Il fuoco», il romanzo di Henry Barbusse, e «Flandern», il famoso quadro di Otto Dix. Alla fine della sua ricerca Keegan si chiede come siano riusciti milioni di «anonimi, miserabili», privati di ogni briciolo di gloria, a combattere per quattro anni, legandosi ai compagni di trincea per la vita e per la morte. «Questo è l' ultimo mistero della prima guerra mondiale», risponde. Se riuscissimo a capirlo, «saremmo più vicini alla comprensione del mistero della vita umana». Per un libro di storia politico-militare si tratta senza dubbio di una conclusione molto originale.

(Aurelio Lepre, Grande Guerra. Dieci milioni di morti assurde, Corriere della Sera, 7/2/2001)

N. Ferguson, La verità taciuta, Corbaccio

La Grande guerra a più di ottant'anni di distanza dalla sua conclusione continua ad animare dibattiti e polemiche e questo non solo per la complessità intrinseca della materia ma soprattutto – credo – per il fatto che essa ha contribuito fortemente a plasmare il mondo in cui viviamo. L'imponente lavoro di Niall Ferguson – studioso di storia economica e politica che qui ha esteso la sua area di indagine a una varietà di settori dagli studi militari alla storia culturale passando per la diplomazia – è un ottimo esempio delle passioni che la prima guerra mondiale può ancora suscitare. Come attesta una ricca bibliografia quella di Ferguson è un'opera mastodontica che affronta i problemi più disparati dalle ragioni dello scoppio del conflitto ai suoi costi finanziari sino all'uso della propaganda. Il limite di tale impostazione consiste nel fatto che Ferguson lavora contemporaneamente su troppe questioni così che il libro finisce per avere un assetto farraginoso. Se un filo rosso può essere trovato in questa enorme massa di osservazioni va individuato in un ossessivo antieuropeismo che porta l'autore a stabilire un ridicolo parallelismo tra la Weltpolitik del Kaiser e l'Unione europea. Ferguson infatti rifiuta in blocco le tesi di Fritz Fischer circa i progetti imperiali della Germania guglielmina che ritiene essere mere fantasie frutto della germanofobia di alcuni settori dell'establishment britannico (un giudizio veramente ingeneroso verso il proprio paese che nel secolo scorso si è opposto con coraggio e determinazione per ben due volte al militarismo prussiano e ai suoi epigoni). Per Ferguson il Kaiser puntava "soltanto" ad assoggettare economicamente l'Europa continentale e questo – afferma contro ogni logica – non rappresentava un pericolo per l'Inghilterra che quindi entrò in guerra inutilmente anche perché – si legge nelle ultime pagine – oggi con l'Unione europea il sogno del Kaiser si sarebbe realizzato.

(Giaime Alone)

G.E. Rusconi, Rischio 1914. Come si decide una guerra, Mulino

Che oggi, come dieci o vent'anni fa, esista un pericolo di guerra mondiale, è un' affermazione che tutti, o quasi tutti, gli osservatori politici potrebbero sottoscrivere. Che l' equilibrio del terrore, vale a dire le conseguenze spaventose di un confronto nucleare, non sia sufficiente da solo a scongiurare il pericolo, è dimostrato ampiamente dal senso di sollievo e di gioia che è seguito in tutto il mondo alla firma degli accordi sui missili tra Reagan e Gorbaciov, i leaders delle due superpotenze che si disputano il dominio del pianeta. Del resto, nulla esclude che prima o poi possa esplodere un conflitto limitato per tacito accordo alle armi convenzionali e, malgrado ciò, in grado di portare lutto e desolazione su tutta la Terra. Viviamo dunque, esattamente come nel 1914, sull' orlo di un abisso. Ce lo ricordano di continuo i movimenti pacifisti e studiosi eminenti, come di recente il Norbert Elias di Humana conditio (Il Mulino). Da questo punto di vista si comprende assai bene che uno scienziato politico come Gian Enrico Rusconi, sempre attento ai problemi storici (era sua l' analisi della Crisi di Weimar apparsa nel 1977 presso Einaudi) sia andato a scegliere la prima guerra mondiale come un caso interessante per verificare la possibilità di estrarne un modello generale da applicarsi ad altre crisi. Il libro che ne ha ricavato (Rischio 1914. Come si decide una guerra, Il Mulino, pagg. 278, lire 20.000) rivela, nei suoi tredici capitoli, il doppio registro sul quale l' autore ha lavorato. I primi otto ricostruiscono, con l' aiuto della migliore storiografia (e con una giusta rivalutazione dell' opera, spesso a torto trascurata, di Luigi Albertini) la trama politico-diplomatica che segue all' attentato di Serajevo del 28 giugno 1914, in cui morì l' erede al trono imperiale dell' Austria-Ungheria, e le modalità della decisione politico-militare che, dopo circa un mese di inutili trattative, porta allo scoppio del conflitto tra le potenze dell' Intesa (Russia, Francia, Gran Bretagna) e gli Imperi Centrali (Germania e Austria-Ungheria). A Rusconi come appare chiaramente dal racconto puntuale di quel che accade tra il 28 giugno e il 31 luglio 1914 interessa indagare in quella terra di nessuno che sta tra l' analisi dei fattori strutturali che influiscono sul corso delle cose, e i processi decisionali che, di volta in volta, spingono nell' una o nell' altra direzione. Secondo quali categorie mentali, quali previsioni, quali calcoli operano gli uomini non più di una ventina che hanno in mano, in quei giorni, l' onere della pace o della guerra? Quale delle potenze ha spinto in modo determinante verso il conflitto? E quali sono le responsabilità dei principali Stati protagonisti della trama politico-diplomatica? Rusconi rilegge con grande finezza il dibattito storiografico suscitato negli anni Sessanta dal libro di Fritz Fischer sull' Assalto al potere mondiale (Einaudi) da parte della Germania guglielmina; tiene conto delle novità maturate nell' ultimo ventennio e dialoga animatamente con la storiografia revisionista tedesca, che di recente ha tentato di rovesciare sulle potenze dell' Intesa, e in particolar modo sulla Gran Bretagna, una responsabilità pari, se non superiore, a quella di Guglielmo II e del suo cancelliere Bethmann. Le conclusioni che Rusconi trae da questa attenta rivisitazione della crisi del luglio 1914 trovano concorde chi scrive e si