Massimo Milla e Verdi

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La «pianta uomo» - letture verdiane di Massimo Mila Carla Cuomo Comprendere il legame di Massimo Mila con la musica di Giuseppe Verdi può avere un senso nella nostra storia d’italiani. Le sue ininterrotte esplorazioni sul compositore, pur traendo spunto dal famoso decennio di Arturo Toscanini alla testa del Teatro alla Scala di Milano (1920-29) e dalla ‘Verdi Renaissance’, propagatasi dalla Germania in tutta Europa a partire dalla metà degli anni Venti, germogliarono da una radice più profonda. Una radice di natura etico-politica: è, in sintesi, la fede di Mila nella «funzione civile della cultura» 1 , la convinzione che la musica può e deve essere fattore di civiltà. Verdi che, come artista e come uomo pubblico, aveva esercitato un influsso determinante sul divenire della nostra coscienza d’italiani, simbolo egli stesso di ‘italianità’, divenne per il critico un termine di confronto imprescindibile. Ma per intendere la specificità del contributo di Mila alla critica verdiana, si rende necessaria una panoramica delle interpretazioni a lui precedenti, facendo data dall’anno della morte del compositore, il 1901. Si è ripetuto più volte che Mila affrontò Verdi nell’ambito della ‘rinascita verdiana’ verificatasi soprattutto in Italia e in Germania. Studi recenti hanno invece rilevato che in terra tedesca, se sul piano della diffusione popolare si può parlare di una ‘Verdi Renaissance’ a partire dal libro Verdi. Roman der Oper (1924) di Franz Werfel, scritto in opposizione al wagnerismo e ai movimenti d’avanguardia, di fatto i musicologi avevano cominciato a rivalutare le musiche verdiane già dal 1913 2 . Fattore scatenante di questa rinnovata attenzione fu la stampa, proprio nell’anno del centenario e in Italia, della prima raccolta epistolare – I copialettere di Giuseppe Verdi – curata da Gaetano Cesari e Alessandro Luzio, una pubblicazione di risonanza europea. In realtà, anche nel decennio precedente, nonostante una certa flessione degli allestimenti, le discussioni pro o contro Verdi non s’erano mai interrotte sia tra gli specialisti sia più in generale tra gli uomini di cultura. Negli ultimi venticinque anni dell’Ottocento Eduard Hanslick, dopo vari pareri negativi, si era espresso a favore di Verdi, soprattutto riguardo alle opere da Aida in poi 3 . Il suo contegno fu ripreso da altri critici, sia pure nell’ottica di un Verdi inteso come finalmente remissivo

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Massimo Milla e Verdi. Opera Italiana, música e política.

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La «pianta uomo» - letture verdiane di Massimo MilaCarla CuomoComprendere il legame di Massimo Mila con la musica di Giuseppe Verdi può

avere un senso nella nostra storia d’italiani. Le sue ininterrotte esplorazioni sul

compositore, pur traendo spunto dal famoso decennio di Arturo Toscanini alla

testa del Teatro alla Scala di Milano (1920-29) e dalla ‘Verdi Renaissance’,

propagatasi dalla Germania in tutta Europa a partire dalla metà degli anni

Venti, germogliarono da una radice più profonda. Una radice di natura etico-

politica: è, in sintesi, la fede di Mila nella «funzione civile della cultura»1, la

convinzione che la musica può e deve essere fattore di civiltà. Verdi che, come

artista e come uomo pubblico, aveva esercitato un influsso determinante sul

divenire della nostra coscienza d’italiani, simbolo egli stesso di ‘italianità’,

divenne per il critico un termine di confronto imprescindibile. Ma per

intendere la specificità del contributo di Mila alla critica verdiana, si rende

necessaria una panoramica delle interpretazioni a lui precedenti, facendo data

dall’anno della morte del compositore, il 1901.

Si è ripetuto più volte che Mila affrontò Verdi nell’ambito della ‘rinascita

verdiana’ verificatasi soprattutto in Italia e in Germania. Studi recenti hanno

invece rilevato che in terra tedesca, se sul piano della diffusione popolare si

può parlare di una ‘Verdi Renaissance’ a partire dal libro Verdi. Roman der

Oper (1924) di Franz Werfel, scritto in opposizione al wagnerismo e ai

movimenti d’avanguardia, di fatto i musicologi avevano cominciato a rivalutare

le musiche verdiane già dal 19132. Fattore scatenante di questa rinnovata

attenzione fu la stampa, proprio nell’anno del centenario e in Italia, della prima

raccolta epistolare – I copialettere di Giuseppe Verdi – curata da Gaetano

Cesari e Alessandro Luzio, una pubblicazione di risonanza europea.

In realtà, anche nel decennio precedente, nonostante una certa flessione degli

allestimenti, le discussioni pro o contro Verdi non s’erano mai interrotte sia tra

gli specialisti sia più in generale tra gli uomini di cultura. Negli ultimi

venticinque anni dell’Ottocento Eduard Hanslick, dopo vari pareri negativi, si

era espresso a favore di Verdi, soprattutto riguardo alle opere da Aida in poi3.

Il suo contegno fu ripreso da altri critici, sia pure nell’ottica di un Verdi inteso

come finalmente remissivo all’influenza wagneriana. Nondimeno, la ‘trilogia’

popolare, insieme a Un ballo in maschera, Aida, Otello e Falstaff, occupava un

posto fisso nei repertori dei teatri tedeschi. A partire dall’anno della morte, la

stampa cominciò ad ammettere i propri torti: Verdi non era stato solo un

imitatore di Donizetti, di Meyerbeer e di Wagner; la sua musica, già liquidata

come triviale, era stata mal compresa anche a causa di cattive esecuzioni e

pessime traduzioni. Gli intendimenti sul compositore e la diffusione delle sue

musiche non conobbero sostanziali modifiche sino al 1913, quando la messa in

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scena de La forza del destino ad Amburgo nella traduzione di Georg Göhler

destò interesse per i lavori meno conosciuti. Ne conseguì una serie di

pubblicazioni, traduzioni, monografie e approfondimenti su singole opere, le

quali si può dire avviarono – in anticipo su quanto si è sempre ritenuto – la

‘Verdi Renaissance’. Quest’espressione è attestata per la prima volta in un

articolo di Richard Specht4. Gli scritti successivi di Hermann Kretzschmar,

Adolf Weissmann – citati sovente da Mila –, Alfred Heuss, Hugo Rasch, fra gli

altri, cominciarono a leggere Verdi sulla base del suo retroterra culturale e

non più alla luce di Wagner, così che all’indole intellettualistica tedesca venne

contrapposto in senso positivo lo slancio emotivo e sentimentale dell’italiano. Il

detto «zurück zu Verdi und mit ihm wieder vor zu Wagner!», che parafrasava il

celebre motto verdiano «torniamo all’antico e sarà un progresso», divenne

l’insegna di buona parte della musicologia tedesca5. Gli studi, interrotti

durante la Grande Guerra, ripresero dagli anni Venti con il contributo della

celebre biografia romanzata di Werfel e con la sua edizione delle lettere,

tradotte da Paul Stefan (1926), opere che si collocarono su un terreno già

dissodato, dal quale germinarono altri frutti. Fra questi, la monografia di

Herbert Gerigk6, la quale esaminava ogni partitura verdiana financo

affrontando i problemi interpretativi e, coerentemente con le idee

nazionalsocialiste professate dall’autore, leggeva nel vigore della musica

verdiana l’espressione di un talento schiettamente italiano, in grado di tenere

la nostra arte lontana dai pericoli dell’impressionismo e dell’atonalità. La

Germania nazista assimilava l’idea di forza e di genio al concetto di sanità.

In Francia, ampiamente laudativi furono alla morte di Verdi gli articoli

giornalistici: egli fu paragonato a Dumas padre per l’energia vitale e la

capacità di rinnovarsi e innalzato tra i grandi della cultura insieme a Dante,

Shakespeare e Beethoven7. Vivente il compositore, Arthur Pougin gli aveva

dedicato una biografia di taglio aneddotico; qualche anno dopo la scomparsa,

Camille Bellaigue ne impostò una con velleità critiche8. La citata edizione

dell’epistolario stimolò ulteriori indagini: a ridosso degli anni Trenta, Jacques-

Gabriel Prod’homme pubblicò alcune lettere di Verdi a Camille Du Locle e a

Léon Escudier9.

In Gran Bretagna, tra fine Ottocento e primo Novecento, gli scritti su Verdi

erano per lo più di segno negativo, tacciandolo di rozzezza e populismo.

Tuttavia, proprio nell’anno della morte alcune voci cominciarono a riconoscere

la portata dell’operato verdiano e prefigurarono future prospettive critiche: tra

queste, Joseph Bennett e George Bernard Shaw riscontrarono nel compositore,

rispettivamente, capacità di esprimere passioni vere e naturali, e le

potenzialità del drammaturgo10. La traduzione parziale di un carteggio, nel

1923, contribuì ulteriormente alla conoscenza di Verdi11, offrendo spunti

preziosi a Ferruccio Bonavia, un italiano naturalizzato inglese, e a Francis

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Toye, autori all’alba degli anni Trenta di due monografie che rinnovarono la

visione del Bussetano anche a livello internazionale12.

In Italia il mito verdiano non era mai tramontato. Ad Abramo Basevi si deve un

pionieristico Studio sulle opere di G. Verdi (1859), mentre, in un articolo dai

toni apologetici, Francesco D’Arcais aveva esaltato il nesso dell’arte di Verdi

con la storia del nostro Risorgimento, radicando la grandezza del compositore

nella «missione civile» da lui compiuta13. Alla morte del ‘grande vegliardo’, il

27 gennaio 1901, le commemorazioni e i commenti furono improntati a

nazionalismo e patriottismo: Verdi era «orgoglio e vanto» della nazione,

esempio di «virtù civili», perfetta integrazione fra «genio e buonsenso»14,

l’uomo completo, la cui energica e produttiva vecchiaia veniva percepita come

qualità etica, quasi naturale conseguenza di una nativa austerità, di una

personalità operosa, di una vita proba. Se già nelle opere del primo Verdi si

era riconosciuto un incitamento allo spirito di libertà che aveva animato le

lotte italiane per l’indipendenza, a maggior ragione alla sua morte egli fu

accostato ipso facto a Giuseppe Mazzini, a Giuseppe Ferrari e a Giuseppe

Garibaldi nella «tetrarchia dei santi patriarchi del Risorgimento italiano»15.

Nella poesia petrarchesca che D’Annunzio compose per il trigesimo, il

compositore veniva collocato nel pantheon del genio italico, insieme a Dante,

Leonardo, Michelangelo, e in due soli versi – divenuti fin troppo famosi –

venivano riassunti i motivi dell’universalità della sua musica: «Diede una voce

alle speranze e ai lutti, |pianse ed amò per tutti»16.

Dal 1901 aumentarono le esecuzioni verdiane nei teatri ‘di cartello’, a

cominciare dal concerto commemorativo tenutosi il 1° febbraio alla Scala e

dal Trovatore del 9 febbraio 1902 nello stesso teatro. Sono questi gli anni che

vedono per la prima volta Toscanini a capo del teatro milanese. L’altissimo

livello qualitativo assicurato dal direttore d’orchestra promosse un più

consapevole apprezzamento delle opere verdiane anteriori al 1870: se ne

cominciò a rivendicare l’autonomo valore estetico, di là dall’efficacia teatrale e

dall’inventiva melodica, senza necessariamente misurarle al metro

dei Musikdramenwagneriani o del sinfonismo romantico.

Una volta sfrondate da tutte le scivolate nella retorica del nazionalismo,

riflessioni su Verdi adeguate al livello della sua musica s’incontrano negli

scritti di Luigi Torchi e Domenico Alaleona, due esponenti della nascente

musicologia storica. Attivi sulla «Rivista musicale italiana», promotrice di una

storiografia positivista, i due studiosi s’impegnarono nella difesa della

tradizione strumentale e vocale autoctona del Sei e Settecento, per superare il

clima asfittico e provinciale in cui si riteneva l’Italia fosse caduta a causa del

predominio operistico. Cionondimeno, essi rilevarono in Verdi, l’uno la sintesi

di cosmopolitismo e nazionalismo, l’altro la ricchezza armonica, la finezza di

scrittura e l’eccellenza di strumentazione, soprattutto nella fase finale, a

partire da Otello17. Su posizioni nazionalistiche si allineò anche Fausto

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Torrefranca che, nel rivendicare alla tradizione strumentale italiana il valore di

fonte (oltre che di valida alternativa) del sinfonismo germanico, liquidava il

genere melodrammatico. In questa chiave, egli interpretò i lavori precedenti il

1853, fino al Trovatore e alla Traviata, e dopo il 1871, daAida in poi, come due

realtà distinte, due momenti simmetricamente opposti: nel primo il

compositore si configurava ancora come un «operista», perciò un «epigono» in

quanto legato alle convenzioni schematiche del melodramma tradizionale; nel

secondo, egli diveniva «creatore originale», con l’approdo alla ‘parola scenica’,

che il critico leggeva (wagnerianamente) quale vera e intima unione di parola,

musica e dramma18. All’opposto, Giannotto Bastianelli sosteneva il valore del

melodramma tradizionale, riconoscendo l’importanza della trilogia popolare

accanto al significato artistico assoluto di Otello eFalstaff19, sposando tuttavia

la stessa prospettiva evoluzionistica seguita da Torrefranca. Tale prospettiva

coincide con quella ‘ascensionale’ proposta quasi nello stesso periodo da Gino

Roncaglia, il quale vedeva in Aida la svolta verso la grandezza delle ultime

opere20.

A riprova di quanto la nozione di ‘generazione dell’Ottanta’ sia un’etichetta di

comodo21, basterà por mente alle opinioni contrastanti che i principali

esponenti della stessa nutrirono nei confronti di Verdi: favorevolissimo

Ildebrando Pizzetti, contrari Gian Francesco Malipiero e Alfredo Casella, che

diedero vita a due accese polemiche, dapprima nel 1913 (tra Casella e

Pizzetti), poi nel 1921 (tra Malipiero e ancora Pizzetti)22. Intanto, la temperie

artistica italiana, che si apriva al nuovo, prima attraverso il decadentismo, lo

spiritualismo, il ‘ritorno all’antico’, poi con il dinamismo futurista, sembrò

prendere le distanze dal Bussetano23. Fu proprio il fascismo, com’era facile

attendersi data la propaganda nazionalista che lo contraddistinse, a rilanciare

il mito verdiano: prima ancora dell’ascesa al potere, Mussolini aveva collocato

il musicista nella rosa dei grandi italiani, insieme a Dante, Galilei, Mazzini,

Garibaldi e D’Annunzio24. Durante il regime fiorirono studi, iniziative musicali,

discografiche, editoriali, educative, che da una parte furono espressione

dell’ideologia dominante, dall’altra se ne distaccarono e proprio perciò

rivestono importanza. Eppure, nell’Italia degli anni Venti, mentre sulla musica

di Verdi fioccavano le varie attribuzioni di significati politici, Wagner

continuava a occupare il centro della scena culturale-letteraria, grazie anche

all’avvio della traduzione integrale annotata dei suoi testi teatrali, curata da

Guido Manacorda tra il 1921 e il 1936, cui si debbono anche vari saggi

sull’argomento.

Tra le prospettive autonome rispetto al regime, le quali affrontarono l’arte

verdiana prescindendo il più possibile da riferimenti politici e si soffermarono

piuttosto su questioni di poetica e drammaturgia, vanno menzionate quelle di

Andrea Della Corte, Guido Pannain, Alfredo Parente, tutti attivi sulle pagine de

«La Rassegna musicale»: proprio da costoro Mila prenderà in parte le mosse. Il

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periodico musicale, tra i più importanti dell’epoca, si pose in ‘disaccordo’ con il

fascismo per la scoperta adesione al pensiero di Benedetto Croce25. Fin dal

1902 il filosofo aveva precisato la teoria dell’intuizione-espressione

nell’Estetica, e grazie ad essa s’impose come il pensatore in grado di fornire le

linee-guida necessarie alla fondazione di un’autonoma estetica e storiografia

della musica. Le indagini degli studiosi idealisti si prefiggevano di esaminare le

opere verdiane in rapporto all’‘unità delle arti’, un principio estetico formulato

da Croce che, a parer loro, garantiva una retta valutazione del rapporto

musica-dramma, visto come un sistema organico e conchiuso. Un assunto di

questo tipo si riscontra nelle ‘guide’ divulgative prodotte, tra il 1923 e il 1925,

da Della Corte, i cui pareri differivano dai consueti per i concetti di

caratterizzazione del personaggio, introdotto a proposito di Aidapure al fine di

stigmatizzare i limiti di quest’opera, e di tipizzazione melodrammatica, grazie

al quale il compositore in Falstaff sarebbe riuscito a far scaturire il comico dal

dramma interiore del personaggio26. Pannain, nel riflettere sulla superiorità

di Rigoletto eTraviata, asseriva che in queste opere proprio l’armonia, il ritmo,

la strumentazione conferivano plasticità ed evidenza drammatica ai

personaggi, rendendoli incarnazione di sensibilità umane, sì che il dramma si

manifestava nei caratteri: «Nel singolo si rivela un mondo»27. I lavori successivi

non avrebbero raggiunto quest’altezza, nonostante la fioritura lirica di Aida e il

nuovo stile musicale delle due ultime opere, laddove Otellomancava di «un

centro drammatico preminente e travolgente», mentre in Falstaff la comicità si

dimostrava di natura cerebrale e il protagonista «una magnifica maschera, non

una persona viva»28. Nel pensiero dello studioso e compositore napoletano si

profilava una modalità d’indagine del melodramma alla luce del conflitto, più o

meno presente, fra teatro (nel senso negativo di spettacolo, esteriorità) e

dramma, nonché un’idea di opera come rapporto di azioni complementari e

contrastanti: due aspetti che Mila avrebbe ripreso e approfondito. Parente, dal

canto suo, nell’applicare l’estetica crociana al melodramma, interveniva su «La

Rassegna musicale» con un lungo articolo in cui distingueva il piano estetico

ideale, sul quale si collocava il principio crociano dell’‘unità delle arti’, dal

piano della realizzazione concreta di un’opera d’arte, che egli chiamava

«immagine» o «aspetto sensibile dell’arte e perciò delle arti»29. Lo studioso

riteneva infeconda la discussione sulla priorità o meno della musica o del

dramma, avendo intuito che l’essenza del melodramma sta nel canto: una tesi

vicina a quella propugnata da Paul Bekker, cui arrise un certo riscontro nella

musicologia italiana30. Nonostante il rigoroso crocianesimo, Parente

dimostrava verso gli aspetti propri e caratteristici dell’opera d’arte un’apertura

che Mila avrebbe di lì a poco raccolto e ampliato. Tra gli scrittori non crociani,

che dettero un notevole contributo agli studi verdiani e che Mila tenne

presente, va ricordato Bruno Barilli, la cui critica sui generis, arguta fantasiosa

abbacinante, non riconosceva in Falstaff il capolavoro di Verdi, bensì

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nel Trovatore – «il culmine più eccelso della bellezza»31 –, di conseguenza

rivalutando, con acre spirito polemico, la produzione giovanile. Vanno

menzionati anche Annibale Alberti e Carlo Gatti, autori rispettivamente di una

nuova raccolta epistolare e di un’importante monografia32.

Mila intervenne nel dibattito all’inizio degli anni Trenta con tre articoli: Il

concetto di musica drammatica, Recenti studi verdiani, L’equivoco della

rinascita verdiana33. Con i primi due articoli il giovane studioso esordiva

proprio nel nome di Verdi, su un periodico qualificato qual era, come detto,

«La Rassegna musicale»34. L’autore imposta il problema critico verdiano

appoggiandosi agli sforzi compiuti dalla musicologia crociana per attribuire al

melodramma uno statuto filosofico-estetico.

Il concetto di musica drammatica (1931), uscito nell’anno in cui Mila discusse

la tesi di laurea in Lettere all’Università di Torino (sotto la guida di Alberto

Gentili), rappresentò un contributo originale nell’ambito della ‘Verdi-

Renaissance’. Esso fu riproposto dall’autore in tutte le successive monografie

verdiane: comparve con qualche modifica, anche significativa, in Il

melodramma di Verdi (1933), pubblicato per interessamento di Benedetto

Croce – al quale il testo pervenne per mano di Leone Ginzburg –, nel Giuseppe

Verdi (1958), ampliamento del libro precedente, come introduzione a La

giovinezza di Verdi (1974), infine in L’arte di Verdi (1980)35.

Nel saggio, l’autore dichiarava d’interpretare il melodramma secondo l’estetica

di Croce, ma al contempo sosteneva che per comprendere l’arte verdiana era

necessario rivalutare sul piano «empirico»36 il concetto di ‘drammatico’, piano

che il filosofo aveva eluso a favore dell’indivisibilità spirituale delle arti. Simile

premessa rivela subito un approccio pragmatico e non ortodosso all’estetica

crociana: Mila non la sconfessa, però va oltre. Egli distingueva tra «opere

riboccanti d’una ispirazione che si frammenta in forme chiuse, arie e

concertati, ma nelle quali i personaggi non hanno continuità di vita e sono

soltanto a volta a volta un uomo ora lieto, ora addolorato, ora indignato,

disperato e via dicendo» e opere capaci invece di rappresentare «quell’uomo,

con quelle tali peculiarità psicologiche musicalmente espresse, che passa

attraverso una successione di stati d’animo concatenati, in modo da produrre

logicamente i suoi gesti, le sue parole, le sue azioni»37. Individuava così il

criterio fondamentale per leggere, interpretare e valutare la letteratura

operistica nella «funzione drammatica della musica nel teatro»: è questa a

conferire al melodramma «non la verosimiglianza, ma la verità»38. Tale criterio

gli consentiva di focalizzare meglio la distinzione fra dramma e teatro,

anticipata da Pannain: il primo «passione di personaggi liricamente vissuta dal

creatore», il secondo «ricerca obiettiva di brutali effetti scenici, imitazione e

non creazione della vita»39. Posti tali assunti, egli specificava il criterio

metodologico d’indagine: «poiché ogni opera d’arte si crea la propria forma» il

critico deve procedere nel suo esame «caso per caso»40. Quest’affermazione

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rivela la propensione a studiare il melodramma nella sua intrinsecità, di là

dall’estetica crociana. In definitiva, Mila incentrava il concetto di ‘musica

drammatica’ sulla «creazione dei caratteri logicamente definiti e

psicologicamente svolti» e sul «tipo melodrammatico»41, di cui aveva parlato

Della Corte.

In Recenti studi verdiani, l’autore giudicava gli interventi di Della Corte il più

serio tentativo d’impostazione critica sull’argomento ed esprimeva

condivisione per le letture che Barilli aveva dato del Trovatore e del Falstaff42.

All’opposto poneva le biografie di Alberti, Gatti, Toye e Bonavia, ritenute sì

utili, ma deboli sul piano critico, per il mancato chiarimento del concetto di

‘musica drammatica’. Con L’equivoco della rinascita verdianaconstatava infine

una distanza tra il permanente favore popolare per l’arte di Verdi, la rinascita

degli studi e gli indirizzi artistici contemporanei. Nel disagio spirituale

scaturito dal primo dopoguerra, la distanza consisteva nell’incapacità dell’arte

musicale contemporanea di esprimere un «mondo morale» integro e compiuto

com’era riuscito a Verdi: di qui l’‘equivoco’43. In quello iato egli vedeva il punto

di partenza per reimpostare il problema critico e da lì auspicava ripartisse una

vera rinascita intesa come «ritorno a Verdi»44, espressione con cui l’autore si

riallacciava alla critica tedesca d’inizio secolo.

L’arte di Verdi andava profilandosi per Mila quale ineludibile punto di

riferimento: dal confronto con essa emergevano alcuni temi fondamentali del

suo pensiero e i canoni del giudizio storico ed estetico. Fra i temi: l’amore e il

dolore quali «principii morali», «sostanza lirica»45 delle opere del maestro,

radice della loro artisticità, in quanto sentimenti capaci di rendere umani i

personaggi. Fra i canoni del giudizio: il gusto, inteso come progressiva

maturazione intellettuale e tecnica dell’artista46, mentre la sostanza lirica, cioè

l’arte con la ‘A’ maiuscola, trascende le evoluzioni del gusto; il quale, dunque,

precede e condiziona l’arte; inoltre, l’attenzione alla vocalità come luogo di

manifestazione dei valori espressivi di un’opera. La distinzione tra ‘arte’ e

‘gusto’, pur confermando la prospettiva evoluzionistica associata alla

produzione verdiana, differenziava la visione di Mila da quella della maggior

parte dei musicologi. Stabilendo tale differenza, egli affermava sì

l’«universalità senza tempo»47 di Verdi sul piano artistico, che coincideva con

quello spirituale, ma riconosceva anche le iniziali insufficienze della tecnica e

le progressive conquiste in tale ambito. Il quadro evoluzionistico prospettato

da Mila affondava in una humus storicistica e, attraverso la categoria del gusto

– ereditata da Lionello Venturi48 –, si apriva a quella disciplina che parecchi

anni dopo sarebbe stata classificata come Rezeptiongeschichte. È così che,

in Il melodramma di Verdi, egli vedeva nel Nabucco la più significativa opera

giovanile del compositore – opinione già avanzata da Toye –, sebbene la

ritenesse uno «statico affresco corale» e non ancora «dramma di

personaggi»49; mentre in Ernani, Macbeth e Luisa Miller ravvisava unità lirica

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ma non drammatica, e la trilogia popolare costituiva un culmine per l’«unità

morale del mondo verdiano»50. In Rigoletto il protagonista,

nel Trovatore Azucena e in Traviata Violetta, i personaggi mostravano

un’individualità così definita da condensare in se stessi tutta l’azione

dell’opera51. Mila citava altresì con rispetto Basevi, irriso da Della Corte e

Parente52, anticipando il recupero della critica ottocentesca che la musicologia

avrebbe intrapreso a partire dagli anni Settanta53.

Nelle opere successive alla trilogia, mosso dal criterio evolutivo, Mila lesse un

ampliamento del dramma nell’attenzione rivolta all’ambiente che circonda i

personaggi, cogliendo i primi esempi di questa nuova temperie in Un ballo in

maschera, La forza del destino e Don Carlos. In quest’ultima opera egli vide

l’adesione a una sorta di voluttuoso predecadentismo, a suo giudizio derivante

dalla consentaneità di Verdi al romanticismo europeo54. Aida rappresentava

l’approdo a un’umanità già shakespeariana, vale a dire «universale ed

eterna»55, e l’esotismo non vi appariva mero colore locale ma elemento

stilistico, espressione dell’approccio verdiano all’Oriente56. La definitiva

conquista di Shakespeare, dopo il tentativo sperimentale del Macbeth – chiave

di volta della produzione giovanile verdiana – avvenne con Otello e Falstaff: in

queste opere ultime, l’abolizione progressiva delle forme chiuse, il costituirsi

del declamato melodico, la scrittura orchestrale più matura, la potenza

drammatica dei personaggi, il riso – non mera comicità, bensì estensione dello

sguardo alla coesistenza di tragico e ridicolo propria della vita umana –,

sancivano per Mila la piena attuazione di quel principio poetico che Verdi

aveva in precedenza delineato: «inventare il vero»57.

Su questi assunti s’impiantò tutta la concezione verdiana di Mila. Quanto

scritto in seguito avrebbe ampliato e sviluppato una prospettiva già definita,

per comprendere meglio la quale occorre risalire alle matrici del pensiero del

critico. Il concetto di ‘funzione drammatica della musica nel teatro’ si formò

dalla precisa consapevolezza che, se il dramma è rappresentazione autentica

delle passioni, l’artisticità di un’opera dipende appunto da tale autenticità. Che

consiste nella capacità dell’opera d’arte di suscitare risonanze interiori nella

vita umana, di farci comprendere il significato della vita, secondo

l’insegnamento ricevuto da Augusto Monti58. Quando Mila afferma che il dolore

e il pianto rendono Rigoletto, Azucena, Violetta esseri umani in carne e ossa59,

adotta il criterio di valutazione applicato da Monti nell’analisi delle opere

letterarie. La differenza tra letterato e poeta – crocianamente, tra ‘poesia’ e

‘non poesia’ – era infatti stabilita attraverso il contatto diretto con gli autori,

senza la mediazione di giudizi estetici, ossia attraverso l’aderenza delle opere

alla vita: «immanenza» e «storicismo» i fondamenti del metodo critico60. Il

richiamo all’esperienza – costante in tutto Mila61 – acquistava implicazioni

estetiche poiché l’artisticità di un’opera deriverebbe dalla verifica della sua

capacità d’incidere sulla vita concreta dell’uomo, di essere sempre attuale,

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moderna, in una parola: ‘classica’. Su queste premesse poggia la nozione di

‘unità morale’, che Mila ritrovava in modo particolare nel mondo verdiano.

L’idea dei classici come maestri di vita moderna, che proveniva dal magistero

di Monti, ratificava il legame tra estetica ed etica62. Questo legame si

comprende nel contesto del ‘gobettismo culturale’, fenomeno ideologico di

matrice liberale-rivoluzionaria incentrato sulla «religione della libertà»

alfierianamente intesa da Gobetti63. Il gobettismo influenzò un’intera

generazione d’intellettuali antifascisti, soprattutto torinesi, concordi

nell’interpretare il Risorgimento quale antesignano dell’antifascimo, e si

affiancò ai tentativi gramsciani di fondare una filosofia della prassi,

propagandosi nell’editoria, nel giornalismo, nell’azione culturale, investendo

inevitabilmente la «confraternita» dazeglina, formata dagli allievi di Monti,

Mila incluso64. Per tutti costoro Croce era il modello indiscutibile di studioso

che professava la libertà di pensiero e di giudizio, ritenuta un presupposto

imprescindibile per qualsiasi uomo di scienza e di lettere. Il richiamo al filosofo

napoletano si fece ancora più insistente dopo il delitto Matteotti e il precipitare

degli eventi verso lo stato totalitario, quando Croce approdò a uno storicismo

assoluto e pose la gobettiana ‘religione della libertà’ al vertice della propria

‘filosofia della libertà’65. Il liberalismo dei montiani finì per identificarsi con

l’idealismo crociano ed ebbe il senso di una «resistenza della cultura», come

scrisse lo stesso Mila66, cioè di un’opposizione intellettuale al fascismo che

confluì in un antifascismo di tipo culturale, esistenziale ed etico, prim’ancora

che politico67. L’idealismo crociano, dunque, più che una dottrina costituì una

«via regia alla vera conoscenza»68. Nella formazione di Mila esso fu il frutto del

clima torinese, del convergere di cultura accademica e cultura militante verso

un’‘educazione alla militanza’69. Da qui gli accenti etici della sua

interpretazione verdiana, i quali contribuirono a porlo su un piano ben diverso

dalla musicologia coeva.

Il melodramma di Verdi rappresentò una svolta negli studi verdiani, come

sottolineò subito Parente70. Per il resto, negli anni Trenta-Quaranta in Italia

comparvero nuove biografie ed epistolari verdiani, tra i quali l’Autobiografia

dalle lettere (1941), a cura di Aldo Oberdorfer, e i Carteggi verdiani (1935-

1947, 4 voll.), a cura di Luzio, messi a punto dalla Reale Accademia d’Italia,

fondata da Mussolini. Il 1941 vide concentrarsi alcune pubblicazioni

significative: la miscellanea Verdi: studi e memorie, a cura del Sindacato

fascista musicisti; un primo contributo iconografico, Verdi nelle immagini (2

voll.), di Carlo Gatti; la riproduzione fotografica dell’Abbozzo del Rigoletto di

Giuseppe Verdi, che permise di gettare un primo sguardo nell’officina

verdiana. Numerose furono le iniziative promosse dal governo, culminanti, nel

biennio 1940-41, con la celebrazione del quarantesimo anniversario della

morte del compositore, voluta proprio da Mussolini71. Diffusi i tòpoi della

retorica fascista: il duce pari all’Uomo invocato a suo tempo da Verdi per

Page 10: Massimo Milla e Verdi

risollevare le sorti della nazione, secondo quanto sostenne Luzio; il Verdi

patriota e contadino descritto da Pizzetti; Verdi «emanazione della terra», nel

senso di «una forma di lavoro, un esempio e un incitamento all’obbedienza, alla

fede e al cimento», in una lettura del fascismo come «difesa dei valori dello

spirito e della terra», secondo le parole di Giazotto72. Più originale Bontempelli

che, pur legandosi al consueto binomio musica-terra con l’immagine di «Verdi

il terrestre», interpretò la produzione del compositore alla luce della categoria

del ‘barocco’, inteso come naturalismo e antimetafisica73. Sulla base di queste

sollecitazioni culturali, e dato anche il clima politico, persino chi in precedenza

aveva rigettato Verdi cambiò idea. Casella riscoprì il Verdi ‘di mezzo’,

giungendo sino a lodare Luisa Miller, benché poi la lezione verdiana che

dimostrò di avere assimilata nel proprio teatro musicale provenisse dal sempre

prediletto Falstaff, come osservò lo stesso Mila a proposito de La donna

serpente74. Interpretazioni indipendenti dalla retorica fornì invece Alberto

Savinio, tra i primi a tener conto della prassi esecutiva, al pari di Gastone

Rossi Doria, sostenitore a sua volta di un ‘rinnovamento toscaniniano’; meno

originale fu il contributo di Ronga, comunque attento a valutare i risultati della

critica75.

Le celebrazioni del 1941 ebbero risonanza anche in Germania, per via

dell’alleanza con l’Italia. Si rinforzò l’immagine della ‘sanità’ dell’arte verdiana,

se ne accentuò l’aspettovölkisch e il sentimento patriottico fu letto in chiave di

propaganda76. In Europa, l’aspetto elementare di certa musica verdiana, che in

passato era stato causa di netti rifiuti, veniva ora lodato. Si pensi

all’apprezzamento rivolto dallo Stravinskij neoclassico alla ‘semplicità’

verdiana, soprattutto della trilogia popolare77.

Le tendenze sin qui delineate esprimono una ricchezza di prospettive, che

tuttavia in Italia mai misero in discussione la lezione di Mila. Anzi, i crociani

Ronga, Della Corte, Pannain e Parente, l’avallarono e la rinforzarono. A costoro

si oppose, col piglio polemico e lo straordinario acume che gli erano propri,

Fedele d’Amico. Nel saggio Limiti della critica verdiana (1941)78, l’autore

constatava negli studi dei crociani, Mila compreso, la presenza di aporie

metodologiche che finivano con l’inficiare i risultati delle indagini. Egli

criticava la concezione evoluzionistica applicata alla produzione verdiana,

poiché la riteneva frutto della forzata ricerca di corrispondenza delle opere alla

categoria concettuale della ‘coscienza drammatica’. D’Amico propendeva

invece per uno studio linguistico delle opere, finalizzato a individuarne la

forma specifica. Il critico romano recuperava le prospettive più indipendenti

dal crocianesimo, fra le quali quelle di Basevi, Barilli, Bontempelli, Gavazzeni;

da Dante Alderighi riprendeva la convinzione dell’impossibilità di distinguere i

lavori in migliori o peggiori e la necessità di studiarli uno per uno, onde

comprendere le diverse ‘stagioni’ vissute dal compositore79. Riconosceva

Page 11: Massimo Milla e Verdi

tuttavia a Mila il merito d’aver cominciato a esaminare le opere verdiane nella

loro intrinsecità.

L’obiezione di d’Amico era fondata: ciò che spingeva Mila a leggere la storia

della musica in senso evolutivo, di progressiva esplicitazione del dramma,

rispondeva al suo bisogno d’individuare punti di riferimento morali di portata

sovranazionale, europea, quale antidoto al nazionalismo fascista. Verdi, ma

anche Rossini, divenivano il simbolo di questa identità italiana da contrapporre

al romanticismo nordico, che Mila in quegli anni, sulla scorta di Croce,

considerava pieno di «oscurità», «ambagi», «crisi spirituali»80. Di qui la sua

incomprensione (poi rettificata) per Brahms e Wagner o per l’impressionismo,

ritenuti manifestazioni di decadenza morale, e il continuo richiamo a

presupposti di solidità e costruttività come valori positivi: ecco i toni di

simpatia per la Neue Sachlichkeithindemithiana; per la ‘sanità’ della musica

popolare, massime se riletta da Bartók o Kodály; l’apprezzamento per la

linearità melodica realizzata da Satie; l’amore per Stravinskij; l’elevazione di

Verdi a principale oggetto della ricerca di continuità tra Otto e Novecento e la

conseguente rivendicazione della semplicità ravvisabile nella produzione

giovanile quale «indizio di aristocratica raffinatezza»81. Un ideale di continuità

dichiarato sin nel titolo della silloge saggistica pubblicata in piena

guerra, Cent’anni di musica moderna (1944), che esprimeva l’adesione a un

classicismo inteso come scoperta delle radici ‘positive’ della propria civiltà,

dell’Ottocento tout court, non solo italiano. Appropriarsi di quelle radici

significava opporsi a qualsiasi degenerazione morale: quella di Mila negli anni

Trenta-Quaranta era una musicologia resistenziale che stabiliva il presupposto

della consistenza come valore etico.

A metà degli anni Quaranta Mila conquistò altri approdi intellettuali, anche per

via di due fondamentali esperienze: il carcere e la partecipazione alla

Resistenza82. In carcere, Mila approfondì la storia d’Italia, specie dal

Rinascimento al Risorgimento, e nell’orgoglio dell’antifascismo militante –

quasi un atteggiamento elitario, il sentimento di un valore per differenza, che

nondimeno celava il timore di perdere il senso dei propri sacrifici e rinunce,

come scrisse Vittorio Foa83 – rinforzò l’idea del Risorgimento come antecedente

dell’antifascismo. Pervenne a un pensiero più razionalistico e pragmatico, che

lo condusse a ‘dubbi illuministici’ nei riguardi di Croce84, e si aprì ad assunti

gramsciani, quale ad esempio la nozione di storia come socialità che, pur

comune anche a Gobetti, Gramsci aveva fatto propria sul terreno della filosofia

della prassi. Mila, dunque, fece sua la taccia di conservatorismo che già il

politico e pensatore sardo aveva mosso al liberalismo di Croce e approdò a una

visione dialettica della libertà: la crociana ‘religione della libertà’, che con

Gramsci diveniva razionalismo immanentistico e perciò storicismo e laicismo,

si concretò in un atto critico sempre più indirizzato a storicizzare il pensiero

musicale, perciò a leggere autori e opere dal punto di vista della

Page 12: Massimo Milla e Verdi

contemporaneità e come fattori di progresso85. La fede nella funzione civile

della cultura86 si espresse nella sua più nota operazione divulgativa: la Breve

storia della musica (1946)87. Essa mostra una compatta visione storica che

pone Verdi al vertice d’una linea evolutiva, poiché il compositore aveva saputo

dar voce agli ideali dei tempi nuovi, reinserendo la nostra musica nella

circolazione del pensiero europeo. Se Verdi era per Mila l’incarnazione degli

ideali di libertà in virtù dei valori risorgimentali che la sua arte aveva espresso,

tale giudizio, tuttavia, non corrispondeva a una semplice ripresa di un’idea

diffusa sin dai tempi del musicista, ma nasceva da ragioni profonde: l’autore

allargava l’orizzonte alla storia italiana. Nel secondo dopoguerra, alla luce

anche della propria esperienza personale, la ‘religiosità del Risorgimento’

costituiva per Mila la più alta espressione italiana degli ideali europei di

libertà, democrazia e giustizia sociale, cioè di civiltà – termine e concetto a lui

cari –, per i quali si era da poco combattuto.

Il nesso tra storia della musica e storia nazionale fu sancito con vibrante

intensità in Verdi come il padre (1951). Scritto in occasione dei cinquant’anni

della morte del compositore e ripubblicato nella monografia del 1958, dedicata

ad Augusto Monti, il saggio costituisce ancor oggi il culmine della riflessione

verdiana di Mila, sintesi e conferma della sua indagine precedente. Esso

s’incentra sull’idea del Risorgimento come epoca fondante della nostra storia

nazionale. Mila, con la sua straordinaria capacità di sintetizzare la storia della

cultura, esaltava i motivi per i quali la drammaturgia musicale verdiana aveva

inciso sulla formazione della coscienza italiana nazionale: Verdi era la ‘pianta

uomo’, equilibrio di passione e temperanza. La sua drammaturgia,

conquistando progressivamente la capacità d’inscrivere i personaggi in un

contesto sociale, nella concretezza della vita pubblica, nelle relazioni della

convivenza umana, aveva mostrato agli italiani il modo di superare il «cinismo

machiavellico» del Settecento e poi di Rossini, e di pervenire a un nuovo ordine

morale, di esprimere generosità, condivisione nella sofferenza, amore,

assunzione di responsabilità nei confronti di se stessi e della propria storia88.

Per questa ragione Mila parlava di efficacia formativa del melodramma

ottocentesco sulla coscienza nazionale e stabiliva una filiazione che andava

«dall’artista alla nazione»89, e non il contrario. Il critico poneva Verdi accanto

ai grandi della letteratura e ai massimi esponenti dell’arte – Alfieri, Foscolo,

Leopardi, Manzoni, Giotto, Donatello, Michelangelo, fra gli altri – e insieme e

sopra a Rossini, Bellini e Donizetti, tra coloro che avevano contribuito a

plasmare il carattere italiano. Anche da un punto di vista biografico, il

compositore costituiva il modello di un uomo che non si era rinchiuso nell’arte,

ma si era dimostrato partecipe di ogni aspetto della vita. Verdi era per Mila,

desanctisianamente, l’ideale calato nel reale. Non a caso, nel saggio citato, il

critico riprendeva da Francesco De Sanctis il passo in cui questi coglieva la

nascita del melodramma «nella costituzione psicologica e storica dell’uomo

Page 13: Massimo Milla e Verdi

italiano»90. Anche il concetto di ‘pianta uomo’ proveniva dalla lettura

desanctisiana di Alfieri:

È l’uomo nuovo che si pone in atto di sfida in mezzo a’ contemporanei. [...] E

quantunque l’Italia a quei dí fosse tanto degenere, avea fermissima fede in una

Italia futura, che vagheggiava nel pensiero simile all’antica. Di questa nuova

Italia fondamento era il rifarvi la pianta uomo91.

Il riferimento a De Sanctis evocava gli anni di apprendistato con Monti, i cui

insegnamenti si basavano sull’estetica ricavata dagli studi del critico

letterario92. Quel riferimento serviva inoltre a ribadire l’impegno degli

intellettuali, cioè la loro responsabilità, nel processo di ricostruzione morale

del Paese, nel contesto d’una più vasta opera di rinnovamento sociale e politico

seguita agli eventi bellici. Al principio dei cosiddetti ‘anni della politica

culturale’ (1951-56), la lettura di Verdi come padre della nazione, essenza

dell’italianità, verteva sul dimostrare la dimensione italo-europea, cioè

sovranazionale, della sua musica, e di conseguenza di tutta la nostra cultura.

Questa visione portò a un approfondimento della dimensione politica del

compositore, alla quale aveva prestato attenzione anche Pizzetti, e a rivedere il

rapporto fra ‘dramma’ e ‘teatro’. Sia Mila sia il compositore parmense

individuarono la grandezza del primo Verdi – in particolare di Nabucco, I

Lombardi ed Ernani – nella natura politica della sua ispirazione artistica, intesa

– come scrisse Mila – quale «sostrato emotivo e clima storico»93, quello

risorgimentale. Pizzetti aveva parlato esplicitamente di «collaborazione del

pubblico»94 all’ispirazione sentimentale ed artistica del compositore, con ciò

anticipando motivi che avrebbero trovato piena sistemazione teorica nelle

ricerche sulla drammaturgia verdiana a partire dagli anni Settanta,

specialmente negli scritti di F. d’Amico. L’attenzione al dato sociale permise a

Pizzetti, che riconosceva in Verdi un ‘maestro di teatro’, d’individuare la

‘musica drammatica’ non nelle parti liriche, bensì «in quella musica posta fra

un’aria e un’altra», nei recitativi e ariosi dotati di potenza rappresentativa ed

emotiva95. Mila, a sua volta, esaminando il «Miserere» del Trovatore,

individuava ora la ‘musica drammatica’ nelle «“circostanze” sceniche e

psicologiche – in una parola teatrali – atte a dare un risalto e un’efficacia

insospettata»96 anche al più semplice dei motivi. Nel riprendere da Berlioz il

concetto di «violenta azione dei suoni musicali combinati nel modo più

ordinario sui temperamenti [...] in determinate circostanze»97, ovvero

considerando le ‘circostanze’ quali situazioni drammatiche concepite in

funzione dell’accoglienza degli spettatori, faceva coincidere teatro e dramma,

che nel 1933 erano contrapposti a tutto vantaggio di quest’ultimo, sul terreno

della recezione del pubblico.

La prospettiva politica si confermò nei primi anni Sessanta. Se già in Verdi

come il padreMila aveva citato la Filosofia della musica (1836) di Giuseppe

Mazzini, ravvisando nel Bussetano l’ignoto numini invocato dal politico e

Page 14: Massimo Milla e Verdi

filosofo genovese, nella riedizione dellaBreve storia della musica (1963) ampliò

il quadro, aggiungendo cenni su Goffredo Mameli e sul «risveglio politico

dell’Italia a ideali di libertà»98 negli anni 1830-40, che non figuravano

nell’edizione del 1946. L’identificazione di Verdi con il nume mazziniano servì

adesso a distinguere il ‘melodramma romantico’ di Bellini e Donizetti dal

‘melodramma nazionale’ di Verdi: l’arte verdiana aveva saputo placare l’ansia

individualistica del romanticismo, «immergendosi in quell’entità collettiva che

è il popolo. La musica italiana, aulica e aristocratica per lunga tradizione, sta

per scoprire il popolo»99. L’attualità del melodramma verdiano, emersa nel

libro del 1933, veniva rilanciata mediante l’adozione della categoria

gramsciana del nazional-popolare100, interpretata in senso positivo quale

apertura dell’opera di Verdi alla socialità. Accezione, questa, che esprimeva

una fede laica e antimistica, la quale aveva orientato Mila verso quel ‘ritorno a

De Sanctis’ in atto da diverso tempo nella cultura italiana più progressista101.

Questo ‘ritorno’ in Mila si declinava come umanesimo storicista e si

congiungeva con l’adesione al realismo propagatosi nella cultura italiana a

partire dagli anni Cinquanta102. Il realismo, il quale implicava lo sguardo alla

realtà contemporanea attraverso una visione obiettiva del rapporto tra evento

artistico e contesto storico, incise sui metodi della critica.

Al corrente della produzione musicologica in lingua francese, inglese e

tedesca, negli ultimi trent’anni di lavoro Mila fece ricorso agli apporti

metodologici e ai risultati pratici raggiunti all’estero dalla disciplina e sviluppò

osservazioni più approfondite su forma, linguaggio e stile delle opere.

Nacquero così i testi su Alzira, Luisa Miller e Corsaro 103, ripresi e rielaborati

in La giovinezza di Verdi (1974), libro per il quale stese capitoli dedicati a tutti

gli spartiti da Oberto alla Traviata, la guida ai Vespri siciliani, la voceVerdi per

due enciclopedie, infine una lettura di Attila104. A parte i compendi

enciclopedici e gli articoli d’occasione, tali testi avevano in genere carattere di

‘lettura’, termine col quale il critico designava un’esegesi dell’opera scena per

scena (libretto e musica), integrata con riferimenti storici e biografici.

Quest’impostazione rifletteva per certi versi anche l’orientamento della

musicologia verso il rigore filologico, sul quale Mila si era espresso quando

aveva sostenuto l’opportunità di approntare edizioni critiche delle partiture

verdiane (e non solo)105. In campo biografico, erano intanto comparsi due studi

monumentali: Giuseppe Verdi (1959, 4 voll.) di Franco Abbiati, ricco di

documenti inediti, e L’uomo Verdi (1962) di Frank Walker, basato su una

stringente verifica delle fonti. Nel processo di approfondimento storico e

documentaristico della figura e dell’opera di Verdi, un ruolo guida assunse

l’Istituto di studi verdiani, fondato nel 1959, il quale dette nuovo impulso alle

ricerche. Fra tante importanti pubblicazioni, si segnalano l’edizione

sistematica dei carteggi (tuttora in corso) e i congressi internazionali, con

relativi atti (sono stati pubblicati integralmente i primi tre, rispettivamente del

Page 15: Massimo Milla e Verdi

1966, 1969 – centrato sul Don Carlos/Don Carlo –, 1972)106. In un panorama

musicologico sempre più internazionale, studiosi delle più diverse provenienze

cominciarono a volgere la loro attenzione ai contesti di produzione, di

esecuzione (problemi interpretativi, musicali e scenici) e di recezione delle

opere di Verdi. In generale, la critica tendeva a contrapporre due Verdi: l’uno,

culminante nel ‘primitivismo’ del Trovatore, quasi una reviviscenza barilliana;

l’altro, più problematico ‘moderno’ europeo, che partendo dal Simon

Boccanegra giunge sino a Otello e a Falstaff. Mila non prese partito per l’una o

l’altra fazione; piuttosto, ribadì l’esistenza in Verdi di una pluralità stilistica

coerente con il mutare del gusto del pubblico e perciò espressione della

capacità dell’artista di stare al passo coi tempi107. Riallacciandosi alle ricerche

di Luigi Dallapiccola108, si sforzò inoltre d’individuare uno schema formale, e al

contempo drammatico, operante nel giovane Verdi fino a Rigoletto: parlando di

dialogizzazione dell’aria doppia (le due parti della quale oggi, sulla scia delle

definizioni rintracciabili in Basevi, Carlo Ritorni e altri, e delle indagini

illuminanti di Harold Powers, siamo soliti definire Cantabile o Adagio e

Cabaletta), credette d’identificare una vocazione al ‘realismo drammatico’ nel

punto di raccordo tra l’una e l’altra sezione statica del numero chiuso, ossia

nel cosiddetto Tempo di mezzo, sede di repentini contrasti espressivi109.

Questi interventi rivelavano una volontà di rottura degli schemi interpretativi,

che in Italia contraddistinse pure gli studi di Gabriele Baldini e di Fedele

d’Amico. Le loro riflessioni posero al centro del dibattito la dimensione

dell’ascolto: il primo, sulla base di un’analisi prevalentemente uditiva, intese la

drammaturgia verdiana come «dialettica di piani musicali»110, ovvero rapporto

tra registri vocali che determinano l’azione musicale; il secondo, richiamandosi

alla teoria di Bekker, spostò il fulcro della critica del melodramma sul concetto

di ‘fungibilità’ di un’opera e riscontrò l’essenza del teatro verdiano nella

«dialettica dell’ascolto»111. Prendendo le distanze dalla prima monografia di

Mila, dove il rapporto fra ‘dramma’ e ‘teatro’ era risolto a sfavore di

quest’ultimo, d’Amico ribaltò tale tesi: la produzione verdiana è squisitamente

‘teatrale’. Il critico romano, tuttavia, non tenne conto della coincidenza tra

‘dramma’ e ‘teatro’ che il collega aveva avvalorato commentando il «Miserere»

nella riedizione del 1958. Del resto, pure Mila si era mostrato attento ai

fenomeni dell’ascolto – benché dal punto di vista del compositore, non da

quello dello spettatore – come risulta dalle osservazioni sugli effetti comici e

sul trattamento del declamato in Falstaff. Nonostante le differenze, i due

studiosi finivano per convergere sull’idea di un Verdi ‘popolare’: Mila, per il

carattere ‘nazionale’ della sua arte, d’Amico perché ne intravvedeva la ‘radice

quarto stato’.

Dagli anni Settanta la musicologia internazionale si è sempre più orientata

sull’analisi degli aspetti tonali e morfologici nel melodramma e sul processo

creativo (appunti, abbozzi parziali e continuativi, redazioni primitive

Page 16: Massimo Milla e Verdi

incomplete e complete, revisioni, edizioni successive alla prima). Philip Gossett

riconobbe nella struttura dei duetti in Aidala persistenza del modello

quadripartito rossiniano; Frits Noske si accostò all’opera con gli strumenti

della semiotica; Wolfgang Osthoff indagò le stesure originarie del Simon

Boccanegra e del Macbeth; Friedrich Lippmann studiò i rapporti tra verso,

metro e melodia; Pierluigi Petrobelli pose l’accento sulle reciproche interazioni

tra ‘sistemi’ (azione drammatica, struttura verbale, musica); Siegmund

Levarie, Elliott Antokoletz, William Drabkin sollevarono grandi discussioni con

i saggi sull’organizzazione tonale e le relazioni armoniche (a loro giudizio

frutto di una pianificazione rigorosa) in, rispettivamente, Un ballo in

maschera, Macbeth, Il trovatore. Le ricerche di Andrew Porter, Ursula Günther

e David Rosen negli archivi dell’Opéra parigino portarono alla scoperta di

brani inediti delDon Carlos, scartati dall’autore fin dalle ultime prove. Un

convegno su Macbeth (1977), i cui atti furono raccolti in volume a cura di

Porter e Rosen, tirò le fila di un rinnovato interesse critico intorno all’opera

shakespeariana, messo in moto dalle ricerche di Daniela Goldin Folena e

Francesco Degrada. Altro titolo oggetto d’indagini accurate fu (sulla scia del

successo arriso al celebre allestimento Abbado-Strehler al Teatro alla Scala di

Milano, nel dicembre 1971) Simon Boccanegra: si ricordano i contributi della

Goldin sul libretto, di Julian Budden, Edward T. Cone, Joseph Kerman, tra gli

altri, sulla musica. Proprio Budden pubblicò la più capillare monografia mai

concepita sul teatro di Verdi (1973-1981), nella quale a proposito di Macbeth, I

Vespri siciliani e Aida richiamò certe conclusioni di Mila. Il quale, a sua volta,

fece propri i risultati conseguiti nelle loro ricerche da molti di questi studiosi,

citandone le principali pubblicazioni nel suo ultimo libro, L’arte di Verdi(1980).

Sulla loro scia modificò e arricchì alcuni profili di opere già trattate nel volume

del 1958, fra i quali I Vespri siciliani e, appunto, Simon Boccanegra,

aggiungendo ex novo i saggi su La forza del destino, Otello, la musica sacra di

Verdi, nonché un capitolo dedicato alle versioni e varianti del Don Carlo. Per il

resto, nel libro confluirono le precedenti monografie, tolti i profili delle opere

giovanili di Verdi presenti nel volume del 1974, a testimonianza di un

ininterrotto, e proprio per ciò mai definitivo, «colloquio con il compositore»

che «come con gli altri grandi dell’arte musicale, è una specie di work in

progress che non sarà mai concluso, finché le sue opere parlino al nostro

spirito e alimentino la nostra cultura»112. Anche in questo caso Mila sottolineò

l’attualità di Verdi con uno sguardo da postero: nell’impiego spregiudicato

della materia sonora in Otelloravvisò una nuova vocalità, contraddistinta da

una declamazione a suo giudizio assai vicina allo Sprechgesang di Arnold

Schönberg. Nacque così la tesi di un Verdi espressionista e dell’Otello non più

«drammone della gelosia», ma espressione di una «crisi di identità», «un

capolavoro dell’arte moderna» in anticipo anche su Wozzeck eLulu di Alban

Berg113.

Page 17: Massimo Milla e Verdi

C’è chi ha visto in quest’approdo di Mila all’ultimo Verdi quale precursore del

Novecento una «frattura» tra due modi diversi d’intenderne l’arte114. Al

contrario: le pagine su Otellodel 1980 confermano come in seno alla pluralità

stilistica della produzione verdiana vivesse lo stesso compositore, il quale,

varcata la soglia dei settant’anni, invece di ripiegarsi in se stesso, si mostrava

ancora vivacemente partecipe delle inquietudini della propria epoca, ‘attuale’.

Gli studi verdiani successivi alla morte di Mila (1988) hanno proseguito sui

percorsi tracciati nei decenni immediatamente precedenti: la ricerca

documentaria (molto utili le ricerche di Marcello Conati sugli archivi della

Fenice), che ha trovato una sistemazione nella ponderosa biografia scritta da

Mary Jane Phillis Matz; le riflessioni sulla drammaturgia, che hanno ricevuto

un impulso decisivo dalle sistemazioni teoriche di Carl Dahlhaus, Lorenzo

Bianconi, Piero Weiss, e quelle sugli aspetti formali, avviate da Joseph Kerman

e Harold Powers, hanno trovato esiti importanti nelle pubblicazioni, fra molti

altri, di Giorgio Pestelli, Gilles de Van, James A. Hepokoski, Fabrizio Della

Seta, Paolo Gallarati, Luca Zoppelli, Alessandro Roccatagliati, Emilio Sala,

Giorgio Pagannone; gli scavi analitici, di cui abbiamo esempi significativi in

Rosen e Roger Parker; il processo creativo nei suoi vari stadi, sceverato da

Gossett, Della Seta, et alii; il sistema produttivo (con i testi fondativi di John

Rosselli) e la prassi esecutiva (il gruppo di lavoro sulle orchestre italiane

dell’Ottocento coordinato da Franco Piperno e la collana sulle disposizioni

sceniche a cura di Francesco Degrada per Ricordi, preceduta dalle

pionieristiche indagini di Luciano Alberti su Aida) dell’opera italiana; la

recezione critica (fra gli altri: Conati, Roccatagliati, Della Seta, Emanuele

Senici, l’«edizione critica» del libro di Basevi a cura di Ugo Piovano, 2001) e

l’acceso dibattito sulla dimensione politica, risorgimentale del teatro verdiano,

negata da Parker e da Birgit Pauls, rilanciata dalla monografia di Pierre Milza,

dalla tavola rotonda Verdi nella storia d’Italia tenutasi nell’ambito del

convegno voluto dall’Istituto di studi verdiani nel 2001 (Giuliano Procacci,

Bianconi, Castelvecchi, Rosselli), dal saggio di Gossett sugli effetti della

censura delle opere verdiane in epoca risorgimentale e sui cori patriottici, e

dal saggio di Anselm Gerhard sul peso e il significato delle relazioni

intrattenute dal giovane Verdi con l’aristocrazia; infine, le letture in

chiave gender di Ralph Locke, di Mary Ann Smart, di Senici, e in genere della

musicologia angloamericana a cominciare dal giro di secolo. Una sintesi di

questi filoni è dato rintracciare nelle imprese collettive in lingua inglese e

tedesca, e in italiano nel manuale di Raffaele Mellace115.

In un panorama talmente ricco e specialistico, difficile da mappare, la lezione

di Mila si dimostra sempre fertile116. Come ha scritto Pestelli, molti suoi assunti

sono diventati a tal punto luoghi comuni che non se ne riconosce più la

paternità117. Quella lezione è viva e agisce sotto traccia, non solo in ambito

specialistico, ma anche nel tessuto vivo della cultura, patrimonio assimilato da

Page 18: Massimo Milla e Verdi

chi s’interessa di opera lirica, e di Verdi in particolare; e resta ancora sovente

via d’accesso di chi vi si accosti da neofita, in virtù della qualità divulgativa

della sua scrittura118. Mila ha insomma acquisito lo status di ‘classico’, è

diventato a sua volta una ‘pianta uomo’ che produce frutti intellettuali e morali

in grado di nutrire lo spirito dell’uomo, oggi e domani.

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München 2012.1 M. MILA, L’efficacia della cultura (1945), in ID., Scritti civili, a cura di A.

Cavaglion, Torino 1995, pp. 101-105: 104.2 F. NICOLODI, Mitografia verdiana nel primo Novecento, in Verdi Reception,

ed. L. Frassà, M. Niccolai, Turnhout 2013, pp. 33-77: 37-38.3 E. HANSLICK, Verdi, in ID., Die moderne Oper. Kritiken und Studien, Berlin

1875, pp. 217-255.4 G. KREUZER, «Zurück zu Verdi». The “Verdi Renaissance” and Musical

Culture in the Weimar Republic, «Studi verdiani», 1998, 13, pp. 117-154: 127.5 La celebre frase di Verdi è in una lettera del musicista a Francesco Florimo,

del 4 gennaio 1871 (I copialettere di Giuseppe Verdi, Milano 1913; Bologna

Page 21: Massimo Milla e Verdi

1968, pp. 232-233). Per l’accostamento al detto tedesco vedi G.

KREUZER, «Zurück zu Verdi», cit., pp. 127-131.6 H. GERIGK, Giuseppe Verdi, Potsdam 1932.7 Verdi a Parigi, «Corriere della Sera», XXVI, 29-30 gennaio 1901, p. 2; La

grande commemorazione di Verdi alla Sorbona, «Corriere della Sera», XXVI, 8-

9 marzo 1901, p. 2.8 A. POUGIN, Verdi: histoire anecdotique de sa vie et de ses œuvres, Paris

1886; C. BELLAIGUE, Verdi: biographie critique illustrée de douze

reproductions hors texte, Paris 1911.9 J.-G. PROD’HOMME, Lettres inédites de Verdi à C. Du Locle 1868-1874,

«Revue musicale», X, 1929, 5, pp. 97-112; 7, pp. 25-37; ID., Intorno ad “Aida”:

alcune lettere inedite di Verdi a C. Du Locle, «Il pianoforte», III, 1921, 10, pp.

289-293; ID., Lettres inédites de G. Verdi à Léon Escudier, «Rivista musicale

italiana», XXXV, 1928, 1, pp. 1-28; 2, pp. 171-197; 4, pp. 519-552.10 S. RUTHERFORD, Remembering – and Forgetting – Verdi. Critical Reception

in England in the Early Twentieth Century, in La critica musicale in Italia nella

prima metà del Novecento, a cura di M. Capra, F. Nicolodi, Parma 2011, pp.

263-282: 267.11 J.-G. PROD’HOMME, Verdi’s Letters to Léon Escudier, trad. L.A. Sheppard,

«Music and Letters», IV, 1923, 1, pp. 62-70; 2, pp. 184-196.12 F. BONAVIA, Verdi, London 1930; F. TOYE, Giuseppe Verdi, His Life and His

Works, London 1931.13 F. D’ARCAIS, La prima e l’ultima opera di Verdi, «Nuova Antologia», XCI,

1887, 4, pp. 609-624: 610.14 La morte di Giuseppe Verdi, «Corriere della Sera», XXVI, 28-29 gennaio

1901, p. 1.15 T. FORNIONI, Quando il genio è scomparso, «Il Resto del Carlino», XVIII,

29-30 gennaio 1901, p. 1.16 G. D’ANNUNZIO, Per la morte di Giuseppe Verdi, in ID., Versi d’amore e di

gloria, Milano 1993, p. 324.17 L. TORCHI, L’opera di Giuseppe Verdi e i suoi caratteri principali, «Rivista

musicale italiana», VIII, 1901, 2, pp. 279-325; D. ALALEONA, L’armonia

modernissima. Le tonalità neutre e l’arte di stupore, «Rivista musicale

italiana», XVIII, 1911, 4, pp. 769-838: 802-813; ID., L’evoluzione della

partitura verdiana, «Nuova Antologia», CLXVII, 1913, 251, pp. 521-528.18 F. TORREFRANCA, Verdi contra Verdi, «Rassegna contemporanea», VI,

1913, 21, pp. 353-370: 354, 369, 370. Il concetto di ‘parola scenica’ è di Verdi,

che lo spiega così: «la parola che scolpisce e rende netta ed evidente la

situazione» (lettera ad Antonio Ghislanzoni, 17 agosto 1870, in I copialettere,

cit., p. 641). Vedi anche F. DELLA SETA,“Parola scenica” in Verdi e nella

critica verdiana, in Le parole della musica, I, Studi sulla lingua della

letteratura musicale in onore di Gianfranco Folena, a cura di F. Nicolodi, P.

Page 22: Massimo Milla e Verdi

Trovato, Firenze 1994, pp. 259-286, ora in ID., «... non senza pazzia».

Prospettive sul teatro musicale, Roma 2008, pp. 203-225.19 G. BASTIANELLI, Verdi vecchio o Verdi nuovo?, in ID., Musicisti d’oggi e di

ieri, Milano 1914, pp. 198-202.20 G. RONCAGLIA, Giuseppe Verdi: l’ascensione creatrice dell’arte sua, Napoli

1914, rist. aggiornata Firenze 1940 e 1951.21 Definizione coniata dallo stesso M. Mila (Breve storia della musica, Milano

1946; Torino 19775, p. 419 e ss.) per indicare un gruppo di musicisti italiani,

nati attorno al 1880, invero assai diversi tra loro per poetica e stile musicale:

Franco Alfano, Ottorino Respighi, Ildebrando Pizzetti, Gian Francesco

Malipiero, Alfredo Casella. L’espressione è stata poi utilizzata come categoria

storiografica ed estesa sino a comprendere altri compositori nati in quel

periodo.22 Delle polemiche tra Malipiero, Casella e Pizzetti si è occupata a più riprese

F. NICOLODI: Su alcune querelles dei compositori-critici del Novecento, in La

critica musicale in Italia nella prima metà del Novecento, a cura di M. Capra,

F. Nicolodi, Parma 2011, pp. 31-53: 32-33, e EAD., Mitografia verdiana nel

primo Novecento, cit., pp. 47-49.23 Salvo poi, in alcuni casi, ritrattare le proprie opinioni negli anni successivi: è

il caso di Francesco Balilla Pratella e dello stesso Casella (F.

NICOLODI, Mitografia verdiana nel primo Novecento, cit., pp. 45-50).24 Discorso del 4 aprile 1921 a Ferrara, vedi: A.M. BANTI, Sublime madre

nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Bari 2011, pp. 154,

156. Sui rapporti tra musica e fascismo: F. NICOLODI, Musica e musicisti nel

ventennio fascista, Fiesole 1984. Sulla strumentalizzazione di Verdi:

EAD., Mitografia verdiana nel primo Novecento, cit., pp. 51-52.25 Di ‘disaccordo’ parla L. PESTALOZZA (introduzione a La Rassegna musicale.

Antologia, a cura di L. Pestalozza, Milano 1966, pp. IX-CLXXXVIII: XIII),

nell’evidenziare come fosse difficile sopravvivere durante il regime senza

risentire di un certo condizionamento, sebbene il periodico avesse ripudiato

chiaramente l’ingerenza autoritaria della politica nelle cose musicali.26 A. DELLA CORTE, Le opere di Giuseppe Verdi (Aida; Otello;

Falstaff). Falstaff, Milano 1925, p. 71.27 G. PANNAIN, L’opera italiana dell’Ottocento, «Il pianoforte», VIII, 1927, 5-6,

pp. 166-174: 169.28 Ibid., pp. 171 e 172.29 A. PARENTE, Note sull’estetica musicale contemporanea in Italia, I e II, «La

Rassegna musicale», III, 1930, 4, pp. 289-310: 293-294; IV, 1931, 3, pp. 137-

151: 145.30 Seppure in forma interrogativa, A. PARENTE (Note sull’estetica musicale

contemporanea in Italia, cit., III, 1930, p. 307) scriveva: «Ma l’essenza del

melodramma non potrebbe esser trovata in quell’unità indissolubile in cui

Page 23: Massimo Milla e Verdi

sempre elemento verbale e musicale si presentano fusi nella parola, nel

discorso e, via via, in quel più concitato ed esaltato discorso che è il canto?». P.

Bekker pubblicò più tardi la sua teoria delle voci quale volano musicale della

drammaturgia verdiana: Wandlungen der Oper, Zürich-Leipzig 1934.31 B. BARILLI, Il paese del melodramma, Lanciano 1929, p. 104.32 A. ALBERTI, Verdi intimo. Carteggio di Giuseppe Verdi con il conte

Opprandino Arrivabene (1881-1886), Milano 1931; C. GATTI, Verdi, 2 voll.,

Milano 1931.33 M. MILA, Il concetto di musica drammatica, «La Rassegna musicale», IV,

1931, 2, pp. 98-106 (anche in ID., Il melodramma di Verdi, Bari 1933; rist.

Milano 1960, pp. 5-21); ID., Recenti studi verdiani, «La Rassegna musicale»,

IV, 1931, 5, pp. 272-281; ID.,L’equivoco della rinascita verdiana, «Pegaso»,

1932, 2, pp. 200-207 (poi in ID., Cent’anni di musica moderna, Milano 1944,

pp. 145-156, rist. Torino 1981, e in L’opera italiana in musica, Milano 1965, pp.

91-101).34 I primi scritti di Mila erano usciti nel 1928 (vedi qui nota 65). Ne «La

Rassegna musicale» egli successe come redattore a Luigi Ronga.35 È stato osservato che il processo di lavoro del critico si svolgeva «per

accumulo, quasi mai per sottrazione», in una sorta di «irremeabilità» del testo

scritto, propria della sua concezione poetico-critica: P. GELLI, I due Verdi di

Massimo Mila, introduzione a M. MILA, Verdi, a cura di P. Gelli, Milano 2000

(20132), pp. VII-XXII: XII. In merito all’invio della tesi a Croce, Ginzburg, che

intratteneva rapporti epistolari con il filosofo, volle procurare all’amico

musicologo «una lieta sorpresa» (lettera del 23 novembre 1932, in L.

GINZBURG, Lettere a Benedetto Croce, «Il ponte», XXIII, 1977, 10, pp. 1153-

1183: 1164-1165).36 M. MILA, Il melodramma di Verdi, cit., p. 8.37 Ibid., p. 9.38 Ibid., pp. 10-11.39 Ibid., p. 13.40 Ibid., p. 17. L’affermazione è significativa, ché anticipa la poetica critica del

‘caso per caso’, cifra di Fedele d’Amico: si veda il suo I casi della musica,

Milano 1962.41 Rispettivamente: M. MILA, Il melodramma di Verdi, cit., p. 19, e ID., Il

concetto di musica drammatica, cit., p. 105.42 B. BARILLI, Il paese del melodramma, cit.43 M. MILA, L’equivoco della rinascita verdiana, cit., 1944, p. 150.44 Ibid., p. 153.45 Ibid., pp. 151 e 154.46 Ibid., p. 154 e ss.47 Ibid., p. 156.

Page 24: Massimo Milla e Verdi

48 L. VENTURI, Il gusto dei primitivi, Bologna 1926. Mila si legò a Venturi nella

vivissima atmosfera artistica e culturale torinese, mecenate della quale fu

l’imprenditore Riccardo Gualino. Questi (oltre al Teatro di Torino e a «La

Rassegna musicale») finanziò la scuola creata da Felice Casorati, della quale

Venturi fu referente teorico, scuola da cui nacque il gruppo dei ‘Sei di Torino’.

Il volume menzionato fu il manifesto di una nuova poetica artistica, orientata

verso un primitivismo cólto e non magniloquente, opposto alla retorica

grandiosità fascista. Con questo libro, l’autore tentava di legare la costruzione

teorica di Croce con la diretta esperienza dell’arte figurativa, che al filosofo

mancava. Come Mila, e altri, tentarono di fare con la musica.49 Il melodramma di Verdi, cit., p. 32.50 Ibid., p. 59 e ss.51 Ibid., pp. 69-70.52 A. Parente (Il problema della critica verdiana, «La Rassegna musicale», VI,

luglio 1933, 4, pp. 197-218) salvava però la distinzione di Basevi della

produzione verdiana in due maniere, con la Luisa Miller quale punto di svolta

tra prima e seconda. Mila (Il melodramma di Verdi, cit., pp. 68-69) riporta le

osservazioni di Basevi a proposito di «Stride la vampa!».53 Con F. d’Amico precursore fin dagli anni Quaranta (vedi il suo Limiti della

critica verdiana, cit.). Negli anni Sessanta, Basevi è molto citato da G.

BALDINI, Abitare la battaglia. La storia di Giuseppe Verdi, Milano 1970 (il

volume uscì postumo, a cura di F. d’Amico). M. CONATI, Bibliografia verdiana.

Aspetti, Problemi, criteri per la sistemazione della letteratura verdiana, in Atti

del III Congresso internazionale di Studi verdiani, Parma 1974, pp. 546-563:

560, lo pone al centro del quadro critico ottocentesco. Più tardi, H. POWERS

(“La solita forma” and “The Uses of Conventions”, «Acta Musicologica», LIX,

1987, 1, pp. 65-90) riprende da Basevi la locuzione ‘solita forma dei duetti’ e

ne dimostra il significato di schema regolatore non solo dei duetti ma anche

delle arie e dei finali centrali, fornendo così un contributo fondamentale a una

comprensione tecnicamente e storicamente pertinente del sistema morfologico

dell’opera romantica italiana.54 Tesi poi ripresa da G. GAVAZZENI, Una fase decadentistica nella coscienza

di Verdi: il Don Carlo, in ID. La musica e il teatro, Pisa 1954, pp. 29-38.55 M. MILA, Il melodramma di Verdi, cit., p. 94.56 Ibid. Mila riprende quanto Barilli aveva affermato in Il paese del

melodramma, cit., p. 106 e ss.57 «Copiare il vero può essere una buona cosa, ma inventare il vero è meglio,

molto meglio. Pare vi sia contraddizione in queste tre parole: inventare il vero,

ma domandatelo al Papà. Può darsi che egli, il Papà, si sia trovato con qualche

Falstaff, ma difficilmente avrà trovato uno scellerato così scellerato come Jago,

e mai e poi mai degli angioli come Cordelia, Imogene, Desdemona, ecc., ecc.,

Page 25: Massimo Milla e Verdi

eppure sono tanto veri! Copiare il vero è una bella cosa, ma è fotografia, non

pittura» (lettera a Clara Maffei, 20 ottobre 1876, in I copialettere, cit., p. 624).58 Augusto Monti (1881-1966), a sua volta allievo di Arturo Graf, partecipò alle

battaglie culturali de «La Voce», de «L’Unità» di Gaetano Salvemini e fu tra i

più attivi collaboratori de «La rivoluzione liberale» di Piero Gobetti. Svolse

attività antifascista e nella Resistenza. Fu docente di Mila nel Liceo D’Azeglio

di Torino, dove insegnava Lettere italiane.59 M. MILA, Il melodramma di Verdi, cit., cap. III.60 M. MILA, Augusto Monti educatore e scrittore, «Il Ponte», V, 1949, 8-9, pp.

1136-1148; oggi in ID., Scritti civili, cit., pp. 303-321: 307.61 Che non a caso pubblicò poi una serie di propri scritti con il

titolo L’esperienza musicale e l’estetica, Milano 1950 (rist. con aggiunte 1956).62 Scuola classica e vita moderna (1920) è il libro che Monti pubblicò nelle

edizioni de «La rivoluzione liberale» di Gobetti; questi, nel recensirlo sul

periodico da lui fondato (19 ottobre 1922), definì l’autore: «maestro classico di

vita moderna» (vedi A. MONTI, I miei conti con la scuola. Cronaca scolastica

italiana del secolo XX, Torino 1965, pp. 170-171).63 Il termine ‘gobettismo’ fu coniato da Norberto Bobbio, che con esso precisò

di volersi riferire «a una certa interpretazione della storia d’Italia, in specie del

Risorgimento, a un certo modo d’interpretare il fascismo e di combatterlo, a

una certa concezione della politica, infine a una certa ideologia, quella appunto

che lo stesso Monti chiamò dei ‘liberali rivoluzionari’» (N. BOBBIO, Italia

civile. Ritratti e testimonianze, Firenze 1986, p. 147). L’espressione

‘gobettismo culturale’ è ricorrente in A. D’ORSI, La vita culturale e i gruppi

intellettuali, in Storia di Torino, VIII, Dalla Grande Guerra alla Liberazione

(1915-1945), a cura di N. Tranfaglia, Torino 1998, pp. 538-549, e ID., La

cultura a Torino tra le due guerre, Torino 2000, pp. 84-90. L’idea di ‘religione

della libertà’ è espressa per primo da Gobetti: «La religione della libertà

esclude interessi e calcoli, esige, come efficacemente scrive l’Alfieri, fanatismo

negli iniziatori, e negli iniziati entusiasmo di sincerità, in tutti quell’ardore

completo per cui non c’è soluzione di continuità tra pensiero e azione» (La

filosofia politica di V. Alfieri, in Risorgimento senza eroi, Torino 1926, pp. 157-

246; poi in ID., Scritti storici, letterari, filosofici. Opere complete di Piero

Gobetti, II, a cura di P. Spriano, Torino 1969, p. 128).64 La «confraternita», come lo stesso Mila definì il gruppo dei montiani (M.

MILA,Augusto Monti educatore e scrittore, cit., p. 303 e ss.), comprendeva fra

gli altri: Norberto Bobbio, Leone Ginzburg, Cesare Pavese, Tullio Pinelli, Mario

Sturani, Giulio Carlo Argan, Franco Antonicelli.65 Già nel 1925 Croce aveva pubblicato un Contromanifesto al Manifesto degli

intellettuali fascisti, promosso da Giovanni Gentile, nel quale contro l’attivismo

culturale fascista sosteneva la ‘specialità’ dell’uomo di cultura, cioè la libertà

di pensiero e l’autonomia degli intellettuali dalla politica. Nel porre

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l’espressione ‘religione della libertà’ ad apertura della sua Storia d’Europa nel

secolo decimonono (Bari 1932), a proposito delle lotte europee per

l’indipendenza e le libertà dopo la fine dell’avventura napoleonica, Croce

sanciva in modo definitivo il primato teoretico della storia – già affermato con

le sue numerose pubblicazioni storiche degli anni Venti – e rinforzava quello

sguardo alla cultura europea, proprio di Gobetti, che gli antifascisti

opponevano al nazionalismo fascista. Riguardo agli esordi di Mila sul «Baretti»

(1928) e i rapporti con il crocianesimo, vedi ora P. GALLARATI, Gli esordi di

Massimo Mila e il suo rapporto con la critica crociana, in La critica musicale in

Italia, cit., pp. 221-240.66 M. MILA, Attività clandestina di Giustizia e Libertà, in Trent’anni di storia

italiana (1915-1945), prefazione di F. Antonicelli, Torino 1961, p. 203.67 Di ‘antifascismo culturale’ parla O. MAZZOLENI, in Franco Antonicelli.

Cultura e politica 1925-1950, Torino 1998, p. 43. La categoria di ‘antifascismo

esistenziale’ si trova in G. DE LUNA, Donne in oggetto. L’antifascismo nella

società italiana 1922-1939, Torino 1995, pp. 53-55. L’espressione ‘antifascismo

etico’ è almeno in tre libri: O. MAZZOLENI, Franco Antonicelli, cit., p. 37; N.

BOBBIO, Italia fedele. Il mondo di Gobetti, Firenze 1986, p. 159; A. D’ORSI, La

cultura a Torino tra le due guerre, cit., p. 69. Di antifascismo nei termini di

‘non conformismo’, ‘dissenso’, ‘opposizione’, distinto dall’antifascismo politico

propriamente detto, discute B. MANTELLI, Per una definizione della categoria

di antifascismo, in Storia di Torino, VIII, cit., pp. 263-311.68 N. BOBBIO, introduzione a L. GINZBURG, Scritti, Torino 1964; 2000, p. L.69 L’espressione è in G. DE LUNA, Donne in oggetto, cit., p. 25. Sulla cultura

militante torinese, vedi G. BERGOMI, Da Graf a Gobetti. Cinquant’anni di

cultura militante a Torino (1876-1925), Torino 1980, oltre ai citati studi di A.

D’Orsi e G. De Luna. Sulla confluenza dell’educazione alla militanza come

resistenza culturale in un idealismo radicato nell’insegnamento di Monti, dette

testimonianza lo stesso M. MILA, Augusto Monti educatore e scrittore, cit.70 A. PARENTE, Il problema della critica verdiana, cit.71 Con una circolare della Direzione generale per il teatro del Ministero della

Cultura popolare, Mussolini volle che la figura e le opere di Verdi fossero

«messe maggiormente in luce nella vita musicale italiana»: vedi F.

NICOLODI, Mitografia verdiana, cit., p. 69, n. 99.72 Ibid., pp. 61-72, e S. CASTELVECCHI, Verdi per la storia d’Italia, in Verdi

2001, Atti del convegno internazionale, Firenze 2003, pp. 217-221: p. 219 e ss.

La citazione di Pizzetti è da ID., Giuseppe Verdi, «Musica d’oggi», XXIII, 1941,

2, pp. 35-38; sul rapporto di Pizzetti con il fascismo vedi F. NICOLODI, Musica

e musicisti, cit., pp. 185-199, ed EAD.,Mitografia verdiana, cit., pp. 56-60. R.

GIAZOTTO, Popolo e valutazione artistica. L’arte di Verdi in clima fascista,

«Musica d’oggi», XXII, 1940, 8-9, pp. 233-235: 234.

Page 27: Massimo Milla e Verdi

73 M. BONTEMPELLI, Verdi il terrestre, «Nuova Antologia», LXXVI, 1941,

1655, pp. 3-11 (poi in ID., Passione incompiuta: scritti sulla musica, 1910-1950,

Milano-Verona 1958, pp. 275-289).74 M. MILA, “La donna serpente” di Casella, Milano 1942, e anche Falstaff, in

ID., L’arte di Verdi, cit., pp. 236-255: 255. L’opera di Casella risale agli anni

1928-31.75 A. SAVINIO, Il trovatore (1940), in ID., Scatola sonora (Milano 1955), Torino

1977, pp. 140-142; G. ROSSI DORIA, Avviamenti della coltura verdiana in

Italia, «Rivista italiana del dramma», V, 1941, 4, pp. 24-51; L. RONGA, Unità

della musica verdiana, «Le Arti», III, 1941, 4, pp. 263-271, e Difficoltà della

critica verdiana, in Verdi: studi e memorie, cit., pp. 281-287, entrambi raccolti

in ID., Arte e gusto nella musica. Dall’Ars Nova a Debussy, Milano-Napoli

1956, pp. 258-272 e 273-284.76 G. KREUZER, «Erzieher und bannerträger an der Spitze des Volkes».

Aspects of Verdi Reception in the Third Reich, in Verdi 2001, cit., pp. 295-306.77 I. STRAVINSKIJ, Poétique musicale, Cambridge (Mass.) 1942; trad. it.

Pordenone 1984, p. 45. La recezione di Verdi in Stravinskij è studiata da M.

LOCANTO, Obiter dicta: l’immagine di Verdi negli scritti di Stravinskij,

in Verdi reception, cit., pp. 195-216.78 In Musica, I, Firenze 1942, pp. 188-197.79 D. ALDERIGHI, Falstaff, in Verdi: studi e memorie, cit., pp. 73-79.80 M. MILA, Rossini tutta musica (1933), in ID., Cent’anni di musica moderna,

cit., p. 21. L’interpretazione negativa del Romanticismo è ripresa dalla Storia

d’Europa (III cap.) di Croce e si ritrova anche in Romanticismo musicale (1932)

e in Poesia di Wagner (1933), entrambi in M. MILA, Cent’anni di musica

moderna, cit., pp. 69-80 (quest’ultimo, oggi in ID., Brahms e Wagner, a cura di

A. Batisti, Torino 1994, pp. 154-165).81 M. MILA, L’equivoco della rinascita verdiana, cit., p. 149.82 Fu arrestato nel 1935 con l’accusa di cospirazione, per l’adesione a Giustizia

e Libertà – movimento antifascista di orientamento intellettuale – e scarcerato

nel 1940. Dall’8 settembre 1943 fu tra gli organizzatori della Resistenza in

Piemonte, aderendo al Partito d’Azione. Vedi M. MILA, Argomenti

strettamente famigliari. Lettere dal carcere 1935-1940, a cura di P. Soddu,

Torino 1999.83 V. FOA, Il cavallo e la torre. Riflessioni su una vita, Torino 1991, pp. 77-78.84 C. PAVONE, introduzione a M. MILA, Argomenti strettamente famigliari, cit.,

p. XXXVII e ss.85 Nel 1945, la critica di Mila a Croce sul concetto di libertà divenne corrosiva:

«La libertà poltrisce e si guasta alle tepide aurette metastasiane di Salerno»

(M. MILA, Il gusto della libertà, «Giustizia e Libertà», 2 dicembre 1945, oggi in

ID., Scritti civili, cit., pp. 235-238). Sul concetto di libertà, Gramsci precisò:

«“Religione della libertà” significa semplicemente fede nella civiltà moderna,

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che non ha bisogno di trascendenze e rivelazioni, ma contiene in se stessa la

propria razionalità e la propria origine. È quindi una formula antimistica e [...]

antireligiosa» (A. GRAMSCI, Lettere dal carcere, Torino 1950, p. 192).86 Oltre che in L’efficacia della cultura, cit., Mila ribadì questo concetto anche

in Valore della cultura (1945), «Minerva», LVII, 1947, 1, pp. 1-3.87 M. MILA, Breve storia della musica, Milano 1946; ed. riv. e ampl. Torino

1963 e 1977 (quest’ultima, con aggiunte sulla musica contemporanea). Le

citazioni sono tratte dall’ed. 1977.88 M. MILA, Verdi come il padre, in ID., Giuseppe Verdi, Bari 1958, pp. 297-

323: 321.89 Ibid., p. 302.90 Ibid., p. 306. In realtà l’interpretazione di De Sanctis sulla nascita del

melodramma era negativa perché questa novità avrebbe posto in secondo

piano la letteratura.91 F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, Milano 1964, pp. 810 e 812.92 M. MILA, Augusto Monti, cit., p. 310.93 M. MILA, Verdi politico, in ID., Giuseppe Verdi, cit., pp. 324-339: 333 (il

saggio era uscito col titolo Verdi als Politiker su «Melos» del marzo 1952).94 I. PIZZETTI, Il Verdi del ’43 e la collaborazione del pubblico, in Giuseppe

Verdi nel primo cinquantenario della morte, a cura della Regione Emilia

Romagna, Bologna 1950, I, pp. 9-12; anche in Giuseppe Verdi maestro di

teatro, «Verdi. Bollettino quadrimestrale dell’Istituto di studi verdiani», I,

1960, 2, pp. 751-766: 760-761.95 I. PIZZETTI, Giuseppe Verdi maestro di teatro, cit., pp. 760-761. Ciò che

l’autore intende per ‘musica drammatica’ è in Musica e dramma, Roma 1945.96 M. MILA, Giuseppe Verdi, cit., p. 199.97 H. BERLIOZ, Musique, in ID., A travers chants, Paris 1971, p. 24.98 M. MILA, Breve storia della musica, cit., p. 269.99 Ibid., p. 270.100 A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, II, a cura di V. Gerratana, Torino 1975,

p. 1136 e ss. Vedi pure M. PIERI, L’Opera come genere nazional-popolare,

in Storia dell’opera italiana, a cura di L. Bianconi, G. Pestelli, Torino 1987-88,

pp. 243-251.101 L’espressione «Torniamo a De Sanctis» fu in realtà coniata da Giovanni

Gentile («Quadrivio», I, 1933, 1, p. 3). Da lui la riprese Gramsci, nella sua

critica a Croce, dandole il significato di assunzione di responsabilità verso la

cultura da parte degli intellettuali, e intendendo la cultura quale ‘concezione

della vita e dell’uomo’, generatrice di un’etica e implicante un nuovo

atteggiamento verso le classi popolari (A. GRAMSCI, Letteratura e vita

nazionale, a cura di V. Gerratana, Torino 20003, pp. 3-4). Come ha messo in

evidenza Rocco Musolino (Gramsci e il metodo della critica letteraria, in

ID. Marxismo ed estetica in Italia, Roma 1963, pp. 27-48), quel ‘ritorno’ non fu

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un fatto occasionale o accademico, ma fu dettato da un’esigenza profonda

testimoniata dai Quaderni. Per quanto riguarda l’influenza di queste idee su

Mila, vanno ricordati tre fatti: si parlò di ‘ritorno’, rispetto al predominio del

pensiero crociano; questo ‘ritorno’ si verificò in sede di critica letteraria già

dalla metà degli anni Trenta e attecchì tra gli ‘einaudiani’, tra i quali Mila;

dopo la fine della guerra, proprio Einaudi cominciò a pubblicare le opere di

Gramsci.102 Il dibattito sul realismo si accese in Italia dopo la pubblicazione da Einaudi,

tra il 1950 e il 1953, delle opere di György Lukács: Saggi sul realismo e Il

marxismo e la critica letteraria.103 M. MILA, Verdi minore. Lettura dell’“Alzira”, «Rivista italiana di

musicologia», I, 1966, 2, pp. 246-267; ID., Luisa Miller, vigilia di capolavori,

in XXIX Maggio musicale fiorentino, Firenze 1966, pp. 5-9; ID., Lettura del

“Corsaro” di Verdi, «Nuova rivista musicale italiana», V, 1971, 1, pp. 40-73.104 M. MILA, Les Vêpres siciliennes, Torino 1973; ID., Verdi, in Enciclopedia

dello Spettacolo, IX, Roma 1974, e in Enciclopedia della Musica Rizzoli-Ricordi,

VI, Milano 1975; ID., Lettura dell’“Attila” di Verdi, «Nuova rivista musicale

italiana», XVII, 1983, 2, pp. 247-276.105 Vedi M. MILA, Invito alla filologia musicale (1958), in ID., Cronache

musicali 1955-1959, Torino 1959, pp. 125-129.106 Fra i più recenti, si menziona quello per il centenario della nascita, Verdi

2001, cit.107 M. MILA, L’unità stilistica nell’opera di Verdi, «Nuova rivista musicale

italiana», II, 1968, 1, pp. 62-75.108 L. DALLAPICCOLA, Parole e musica nel melodramma (1961-1969), in

ID., Parole e musica, a cura di F. Nicolodi, Milano 1980, pp. 66-93.109 M. MILA, La dialogizzazione dell’aria nelle opere giovanili di Verdi, Atti del I

Congresso internazionale di studi verdiani, Parma 1966, pp. 222-231; ora

in L’arte di Verdi, cit.110 G. BALDINI, Abitare la battaglia, cit., p. 79. Sulla monografia si veda adesso

F. DELLA SETA, Una teoria dell’opera (2001), in ID., «... non senza pazzia»,

cit., pp. 227-238.111 Ibid.; F. D’AMICO, Note sulla drammaturgia verdiana (1972), in ID., Un

ragazzino all’Augusteo, Torino 1991, pp. 41-58, dove il concetto di ‘dialettica

dell’ascolto’ è desunto da G. Lukács.112 M. MILA, Prefazione a ID., L’arte di Verdi, cit., p. XIII.113 Ibid., pp. 234-235.114 P. GELLI, I due Verdi di Massimo Mila, cit., p. XIII.115 The Cambridge Companion to Verdi, ed. S.L. Balthazar, Cambridge

2004; Giuseppe Verdi und seine Zeit, hrsg. von M. Engelhardt, Laaber

2001; Verdi Handbuch, hrsg. von A. Gerhard, U. Schweikert, Kassel-Stuttgart-

Weimar 2001 (2a ed. riveduta e ampliata 2013);The Cambridge Verdi

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Encyclopedia, ed. R. Montemorra Marvin, Cambridge 2013 (in corso di

stampa); R. MELLACE, Con moltissima passione. Ritratto di Giuseppe Verdi,

Roma 2013.116 Tra le pubblicazioni recenti, lo cita con rispetto, ad esempio, F. DELLA

SETA, «... non senza pazzia», cit.117 G. PESTELLI, Il Verdi di Mila, in ID., Di tanti palpiti. Cronache musicali

1972-1986, Pordenone 1986, pp. 63-66.118 Tant’è vero che la raccolta dei suoi scritti sul compositore è stata ristampata

da Rizzoli in occasione del bicentenário.