Massimo Milla e Verdi
-
Upload
ernestojcl202 -
Category
Documents
-
view
27 -
download
0
description
Transcript of Massimo Milla e Verdi
La «pianta uomo» - letture verdiane di Massimo MilaCarla CuomoComprendere il legame di Massimo Mila con la musica di Giuseppe Verdi può
avere un senso nella nostra storia d’italiani. Le sue ininterrotte esplorazioni sul
compositore, pur traendo spunto dal famoso decennio di Arturo Toscanini alla
testa del Teatro alla Scala di Milano (1920-29) e dalla ‘Verdi Renaissance’,
propagatasi dalla Germania in tutta Europa a partire dalla metà degli anni
Venti, germogliarono da una radice più profonda. Una radice di natura etico-
politica: è, in sintesi, la fede di Mila nella «funzione civile della cultura»1, la
convinzione che la musica può e deve essere fattore di civiltà. Verdi che, come
artista e come uomo pubblico, aveva esercitato un influsso determinante sul
divenire della nostra coscienza d’italiani, simbolo egli stesso di ‘italianità’,
divenne per il critico un termine di confronto imprescindibile. Ma per
intendere la specificità del contributo di Mila alla critica verdiana, si rende
necessaria una panoramica delle interpretazioni a lui precedenti, facendo data
dall’anno della morte del compositore, il 1901.
Si è ripetuto più volte che Mila affrontò Verdi nell’ambito della ‘rinascita
verdiana’ verificatasi soprattutto in Italia e in Germania. Studi recenti hanno
invece rilevato che in terra tedesca, se sul piano della diffusione popolare si
può parlare di una ‘Verdi Renaissance’ a partire dal libro Verdi. Roman der
Oper (1924) di Franz Werfel, scritto in opposizione al wagnerismo e ai
movimenti d’avanguardia, di fatto i musicologi avevano cominciato a rivalutare
le musiche verdiane già dal 19132. Fattore scatenante di questa rinnovata
attenzione fu la stampa, proprio nell’anno del centenario e in Italia, della prima
raccolta epistolare – I copialettere di Giuseppe Verdi – curata da Gaetano
Cesari e Alessandro Luzio, una pubblicazione di risonanza europea.
In realtà, anche nel decennio precedente, nonostante una certa flessione degli
allestimenti, le discussioni pro o contro Verdi non s’erano mai interrotte sia tra
gli specialisti sia più in generale tra gli uomini di cultura. Negli ultimi
venticinque anni dell’Ottocento Eduard Hanslick, dopo vari pareri negativi, si
era espresso a favore di Verdi, soprattutto riguardo alle opere da Aida in poi3.
Il suo contegno fu ripreso da altri critici, sia pure nell’ottica di un Verdi inteso
come finalmente remissivo all’influenza wagneriana. Nondimeno, la ‘trilogia’
popolare, insieme a Un ballo in maschera, Aida, Otello e Falstaff, occupava un
posto fisso nei repertori dei teatri tedeschi. A partire dall’anno della morte, la
stampa cominciò ad ammettere i propri torti: Verdi non era stato solo un
imitatore di Donizetti, di Meyerbeer e di Wagner; la sua musica, già liquidata
come triviale, era stata mal compresa anche a causa di cattive esecuzioni e
pessime traduzioni. Gli intendimenti sul compositore e la diffusione delle sue
musiche non conobbero sostanziali modifiche sino al 1913, quando la messa in
scena de La forza del destino ad Amburgo nella traduzione di Georg Göhler
destò interesse per i lavori meno conosciuti. Ne conseguì una serie di
pubblicazioni, traduzioni, monografie e approfondimenti su singole opere, le
quali si può dire avviarono – in anticipo su quanto si è sempre ritenuto – la
‘Verdi Renaissance’. Quest’espressione è attestata per la prima volta in un
articolo di Richard Specht4. Gli scritti successivi di Hermann Kretzschmar,
Adolf Weissmann – citati sovente da Mila –, Alfred Heuss, Hugo Rasch, fra gli
altri, cominciarono a leggere Verdi sulla base del suo retroterra culturale e
non più alla luce di Wagner, così che all’indole intellettualistica tedesca venne
contrapposto in senso positivo lo slancio emotivo e sentimentale dell’italiano. Il
detto «zurück zu Verdi und mit ihm wieder vor zu Wagner!», che parafrasava il
celebre motto verdiano «torniamo all’antico e sarà un progresso», divenne
l’insegna di buona parte della musicologia tedesca5. Gli studi, interrotti
durante la Grande Guerra, ripresero dagli anni Venti con il contributo della
celebre biografia romanzata di Werfel e con la sua edizione delle lettere,
tradotte da Paul Stefan (1926), opere che si collocarono su un terreno già
dissodato, dal quale germinarono altri frutti. Fra questi, la monografia di
Herbert Gerigk6, la quale esaminava ogni partitura verdiana financo
affrontando i problemi interpretativi e, coerentemente con le idee
nazionalsocialiste professate dall’autore, leggeva nel vigore della musica
verdiana l’espressione di un talento schiettamente italiano, in grado di tenere
la nostra arte lontana dai pericoli dell’impressionismo e dell’atonalità. La
Germania nazista assimilava l’idea di forza e di genio al concetto di sanità.
In Francia, ampiamente laudativi furono alla morte di Verdi gli articoli
giornalistici: egli fu paragonato a Dumas padre per l’energia vitale e la
capacità di rinnovarsi e innalzato tra i grandi della cultura insieme a Dante,
Shakespeare e Beethoven7. Vivente il compositore, Arthur Pougin gli aveva
dedicato una biografia di taglio aneddotico; qualche anno dopo la scomparsa,
Camille Bellaigue ne impostò una con velleità critiche8. La citata edizione
dell’epistolario stimolò ulteriori indagini: a ridosso degli anni Trenta, Jacques-
Gabriel Prod’homme pubblicò alcune lettere di Verdi a Camille Du Locle e a
Léon Escudier9.
In Gran Bretagna, tra fine Ottocento e primo Novecento, gli scritti su Verdi
erano per lo più di segno negativo, tacciandolo di rozzezza e populismo.
Tuttavia, proprio nell’anno della morte alcune voci cominciarono a riconoscere
la portata dell’operato verdiano e prefigurarono future prospettive critiche: tra
queste, Joseph Bennett e George Bernard Shaw riscontrarono nel compositore,
rispettivamente, capacità di esprimere passioni vere e naturali, e le
potenzialità del drammaturgo10. La traduzione parziale di un carteggio, nel
1923, contribuì ulteriormente alla conoscenza di Verdi11, offrendo spunti
preziosi a Ferruccio Bonavia, un italiano naturalizzato inglese, e a Francis
Toye, autori all’alba degli anni Trenta di due monografie che rinnovarono la
visione del Bussetano anche a livello internazionale12.
In Italia il mito verdiano non era mai tramontato. Ad Abramo Basevi si deve un
pionieristico Studio sulle opere di G. Verdi (1859), mentre, in un articolo dai
toni apologetici, Francesco D’Arcais aveva esaltato il nesso dell’arte di Verdi
con la storia del nostro Risorgimento, radicando la grandezza del compositore
nella «missione civile» da lui compiuta13. Alla morte del ‘grande vegliardo’, il
27 gennaio 1901, le commemorazioni e i commenti furono improntati a
nazionalismo e patriottismo: Verdi era «orgoglio e vanto» della nazione,
esempio di «virtù civili», perfetta integrazione fra «genio e buonsenso»14,
l’uomo completo, la cui energica e produttiva vecchiaia veniva percepita come
qualità etica, quasi naturale conseguenza di una nativa austerità, di una
personalità operosa, di una vita proba. Se già nelle opere del primo Verdi si
era riconosciuto un incitamento allo spirito di libertà che aveva animato le
lotte italiane per l’indipendenza, a maggior ragione alla sua morte egli fu
accostato ipso facto a Giuseppe Mazzini, a Giuseppe Ferrari e a Giuseppe
Garibaldi nella «tetrarchia dei santi patriarchi del Risorgimento italiano»15.
Nella poesia petrarchesca che D’Annunzio compose per il trigesimo, il
compositore veniva collocato nel pantheon del genio italico, insieme a Dante,
Leonardo, Michelangelo, e in due soli versi – divenuti fin troppo famosi –
venivano riassunti i motivi dell’universalità della sua musica: «Diede una voce
alle speranze e ai lutti, |pianse ed amò per tutti»16.
Dal 1901 aumentarono le esecuzioni verdiane nei teatri ‘di cartello’, a
cominciare dal concerto commemorativo tenutosi il 1° febbraio alla Scala e
dal Trovatore del 9 febbraio 1902 nello stesso teatro. Sono questi gli anni che
vedono per la prima volta Toscanini a capo del teatro milanese. L’altissimo
livello qualitativo assicurato dal direttore d’orchestra promosse un più
consapevole apprezzamento delle opere verdiane anteriori al 1870: se ne
cominciò a rivendicare l’autonomo valore estetico, di là dall’efficacia teatrale e
dall’inventiva melodica, senza necessariamente misurarle al metro
dei Musikdramenwagneriani o del sinfonismo romantico.
Una volta sfrondate da tutte le scivolate nella retorica del nazionalismo,
riflessioni su Verdi adeguate al livello della sua musica s’incontrano negli
scritti di Luigi Torchi e Domenico Alaleona, due esponenti della nascente
musicologia storica. Attivi sulla «Rivista musicale italiana», promotrice di una
storiografia positivista, i due studiosi s’impegnarono nella difesa della
tradizione strumentale e vocale autoctona del Sei e Settecento, per superare il
clima asfittico e provinciale in cui si riteneva l’Italia fosse caduta a causa del
predominio operistico. Cionondimeno, essi rilevarono in Verdi, l’uno la sintesi
di cosmopolitismo e nazionalismo, l’altro la ricchezza armonica, la finezza di
scrittura e l’eccellenza di strumentazione, soprattutto nella fase finale, a
partire da Otello17. Su posizioni nazionalistiche si allineò anche Fausto
Torrefranca che, nel rivendicare alla tradizione strumentale italiana il valore di
fonte (oltre che di valida alternativa) del sinfonismo germanico, liquidava il
genere melodrammatico. In questa chiave, egli interpretò i lavori precedenti il
1853, fino al Trovatore e alla Traviata, e dopo il 1871, daAida in poi, come due
realtà distinte, due momenti simmetricamente opposti: nel primo il
compositore si configurava ancora come un «operista», perciò un «epigono» in
quanto legato alle convenzioni schematiche del melodramma tradizionale; nel
secondo, egli diveniva «creatore originale», con l’approdo alla ‘parola scenica’,
che il critico leggeva (wagnerianamente) quale vera e intima unione di parola,
musica e dramma18. All’opposto, Giannotto Bastianelli sosteneva il valore del
melodramma tradizionale, riconoscendo l’importanza della trilogia popolare
accanto al significato artistico assoluto di Otello eFalstaff19, sposando tuttavia
la stessa prospettiva evoluzionistica seguita da Torrefranca. Tale prospettiva
coincide con quella ‘ascensionale’ proposta quasi nello stesso periodo da Gino
Roncaglia, il quale vedeva in Aida la svolta verso la grandezza delle ultime
opere20.
A riprova di quanto la nozione di ‘generazione dell’Ottanta’ sia un’etichetta di
comodo21, basterà por mente alle opinioni contrastanti che i principali
esponenti della stessa nutrirono nei confronti di Verdi: favorevolissimo
Ildebrando Pizzetti, contrari Gian Francesco Malipiero e Alfredo Casella, che
diedero vita a due accese polemiche, dapprima nel 1913 (tra Casella e
Pizzetti), poi nel 1921 (tra Malipiero e ancora Pizzetti)22. Intanto, la temperie
artistica italiana, che si apriva al nuovo, prima attraverso il decadentismo, lo
spiritualismo, il ‘ritorno all’antico’, poi con il dinamismo futurista, sembrò
prendere le distanze dal Bussetano23. Fu proprio il fascismo, com’era facile
attendersi data la propaganda nazionalista che lo contraddistinse, a rilanciare
il mito verdiano: prima ancora dell’ascesa al potere, Mussolini aveva collocato
il musicista nella rosa dei grandi italiani, insieme a Dante, Galilei, Mazzini,
Garibaldi e D’Annunzio24. Durante il regime fiorirono studi, iniziative musicali,
discografiche, editoriali, educative, che da una parte furono espressione
dell’ideologia dominante, dall’altra se ne distaccarono e proprio perciò
rivestono importanza. Eppure, nell’Italia degli anni Venti, mentre sulla musica
di Verdi fioccavano le varie attribuzioni di significati politici, Wagner
continuava a occupare il centro della scena culturale-letteraria, grazie anche
all’avvio della traduzione integrale annotata dei suoi testi teatrali, curata da
Guido Manacorda tra il 1921 e il 1936, cui si debbono anche vari saggi
sull’argomento.
Tra le prospettive autonome rispetto al regime, le quali affrontarono l’arte
verdiana prescindendo il più possibile da riferimenti politici e si soffermarono
piuttosto su questioni di poetica e drammaturgia, vanno menzionate quelle di
Andrea Della Corte, Guido Pannain, Alfredo Parente, tutti attivi sulle pagine de
«La Rassegna musicale»: proprio da costoro Mila prenderà in parte le mosse. Il
periodico musicale, tra i più importanti dell’epoca, si pose in ‘disaccordo’ con il
fascismo per la scoperta adesione al pensiero di Benedetto Croce25. Fin dal
1902 il filosofo aveva precisato la teoria dell’intuizione-espressione
nell’Estetica, e grazie ad essa s’impose come il pensatore in grado di fornire le
linee-guida necessarie alla fondazione di un’autonoma estetica e storiografia
della musica. Le indagini degli studiosi idealisti si prefiggevano di esaminare le
opere verdiane in rapporto all’‘unità delle arti’, un principio estetico formulato
da Croce che, a parer loro, garantiva una retta valutazione del rapporto
musica-dramma, visto come un sistema organico e conchiuso. Un assunto di
questo tipo si riscontra nelle ‘guide’ divulgative prodotte, tra il 1923 e il 1925,
da Della Corte, i cui pareri differivano dai consueti per i concetti di
caratterizzazione del personaggio, introdotto a proposito di Aidapure al fine di
stigmatizzare i limiti di quest’opera, e di tipizzazione melodrammatica, grazie
al quale il compositore in Falstaff sarebbe riuscito a far scaturire il comico dal
dramma interiore del personaggio26. Pannain, nel riflettere sulla superiorità
di Rigoletto eTraviata, asseriva che in queste opere proprio l’armonia, il ritmo,
la strumentazione conferivano plasticità ed evidenza drammatica ai
personaggi, rendendoli incarnazione di sensibilità umane, sì che il dramma si
manifestava nei caratteri: «Nel singolo si rivela un mondo»27. I lavori successivi
non avrebbero raggiunto quest’altezza, nonostante la fioritura lirica di Aida e il
nuovo stile musicale delle due ultime opere, laddove Otellomancava di «un
centro drammatico preminente e travolgente», mentre in Falstaff la comicità si
dimostrava di natura cerebrale e il protagonista «una magnifica maschera, non
una persona viva»28. Nel pensiero dello studioso e compositore napoletano si
profilava una modalità d’indagine del melodramma alla luce del conflitto, più o
meno presente, fra teatro (nel senso negativo di spettacolo, esteriorità) e
dramma, nonché un’idea di opera come rapporto di azioni complementari e
contrastanti: due aspetti che Mila avrebbe ripreso e approfondito. Parente, dal
canto suo, nell’applicare l’estetica crociana al melodramma, interveniva su «La
Rassegna musicale» con un lungo articolo in cui distingueva il piano estetico
ideale, sul quale si collocava il principio crociano dell’‘unità delle arti’, dal
piano della realizzazione concreta di un’opera d’arte, che egli chiamava
«immagine» o «aspetto sensibile dell’arte e perciò delle arti»29. Lo studioso
riteneva infeconda la discussione sulla priorità o meno della musica o del
dramma, avendo intuito che l’essenza del melodramma sta nel canto: una tesi
vicina a quella propugnata da Paul Bekker, cui arrise un certo riscontro nella
musicologia italiana30. Nonostante il rigoroso crocianesimo, Parente
dimostrava verso gli aspetti propri e caratteristici dell’opera d’arte un’apertura
che Mila avrebbe di lì a poco raccolto e ampliato. Tra gli scrittori non crociani,
che dettero un notevole contributo agli studi verdiani e che Mila tenne
presente, va ricordato Bruno Barilli, la cui critica sui generis, arguta fantasiosa
abbacinante, non riconosceva in Falstaff il capolavoro di Verdi, bensì
nel Trovatore – «il culmine più eccelso della bellezza»31 –, di conseguenza
rivalutando, con acre spirito polemico, la produzione giovanile. Vanno
menzionati anche Annibale Alberti e Carlo Gatti, autori rispettivamente di una
nuova raccolta epistolare e di un’importante monografia32.
Mila intervenne nel dibattito all’inizio degli anni Trenta con tre articoli: Il
concetto di musica drammatica, Recenti studi verdiani, L’equivoco della
rinascita verdiana33. Con i primi due articoli il giovane studioso esordiva
proprio nel nome di Verdi, su un periodico qualificato qual era, come detto,
«La Rassegna musicale»34. L’autore imposta il problema critico verdiano
appoggiandosi agli sforzi compiuti dalla musicologia crociana per attribuire al
melodramma uno statuto filosofico-estetico.
Il concetto di musica drammatica (1931), uscito nell’anno in cui Mila discusse
la tesi di laurea in Lettere all’Università di Torino (sotto la guida di Alberto
Gentili), rappresentò un contributo originale nell’ambito della ‘Verdi-
Renaissance’. Esso fu riproposto dall’autore in tutte le successive monografie
verdiane: comparve con qualche modifica, anche significativa, in Il
melodramma di Verdi (1933), pubblicato per interessamento di Benedetto
Croce – al quale il testo pervenne per mano di Leone Ginzburg –, nel Giuseppe
Verdi (1958), ampliamento del libro precedente, come introduzione a La
giovinezza di Verdi (1974), infine in L’arte di Verdi (1980)35.
Nel saggio, l’autore dichiarava d’interpretare il melodramma secondo l’estetica
di Croce, ma al contempo sosteneva che per comprendere l’arte verdiana era
necessario rivalutare sul piano «empirico»36 il concetto di ‘drammatico’, piano
che il filosofo aveva eluso a favore dell’indivisibilità spirituale delle arti. Simile
premessa rivela subito un approccio pragmatico e non ortodosso all’estetica
crociana: Mila non la sconfessa, però va oltre. Egli distingueva tra «opere
riboccanti d’una ispirazione che si frammenta in forme chiuse, arie e
concertati, ma nelle quali i personaggi non hanno continuità di vita e sono
soltanto a volta a volta un uomo ora lieto, ora addolorato, ora indignato,
disperato e via dicendo» e opere capaci invece di rappresentare «quell’uomo,
con quelle tali peculiarità psicologiche musicalmente espresse, che passa
attraverso una successione di stati d’animo concatenati, in modo da produrre
logicamente i suoi gesti, le sue parole, le sue azioni»37. Individuava così il
criterio fondamentale per leggere, interpretare e valutare la letteratura
operistica nella «funzione drammatica della musica nel teatro»: è questa a
conferire al melodramma «non la verosimiglianza, ma la verità»38. Tale criterio
gli consentiva di focalizzare meglio la distinzione fra dramma e teatro,
anticipata da Pannain: il primo «passione di personaggi liricamente vissuta dal
creatore», il secondo «ricerca obiettiva di brutali effetti scenici, imitazione e
non creazione della vita»39. Posti tali assunti, egli specificava il criterio
metodologico d’indagine: «poiché ogni opera d’arte si crea la propria forma» il
critico deve procedere nel suo esame «caso per caso»40. Quest’affermazione
rivela la propensione a studiare il melodramma nella sua intrinsecità, di là
dall’estetica crociana. In definitiva, Mila incentrava il concetto di ‘musica
drammatica’ sulla «creazione dei caratteri logicamente definiti e
psicologicamente svolti» e sul «tipo melodrammatico»41, di cui aveva parlato
Della Corte.
In Recenti studi verdiani, l’autore giudicava gli interventi di Della Corte il più
serio tentativo d’impostazione critica sull’argomento ed esprimeva
condivisione per le letture che Barilli aveva dato del Trovatore e del Falstaff42.
All’opposto poneva le biografie di Alberti, Gatti, Toye e Bonavia, ritenute sì
utili, ma deboli sul piano critico, per il mancato chiarimento del concetto di
‘musica drammatica’. Con L’equivoco della rinascita verdianaconstatava infine
una distanza tra il permanente favore popolare per l’arte di Verdi, la rinascita
degli studi e gli indirizzi artistici contemporanei. Nel disagio spirituale
scaturito dal primo dopoguerra, la distanza consisteva nell’incapacità dell’arte
musicale contemporanea di esprimere un «mondo morale» integro e compiuto
com’era riuscito a Verdi: di qui l’‘equivoco’43. In quello iato egli vedeva il punto
di partenza per reimpostare il problema critico e da lì auspicava ripartisse una
vera rinascita intesa come «ritorno a Verdi»44, espressione con cui l’autore si
riallacciava alla critica tedesca d’inizio secolo.
L’arte di Verdi andava profilandosi per Mila quale ineludibile punto di
riferimento: dal confronto con essa emergevano alcuni temi fondamentali del
suo pensiero e i canoni del giudizio storico ed estetico. Fra i temi: l’amore e il
dolore quali «principii morali», «sostanza lirica»45 delle opere del maestro,
radice della loro artisticità, in quanto sentimenti capaci di rendere umani i
personaggi. Fra i canoni del giudizio: il gusto, inteso come progressiva
maturazione intellettuale e tecnica dell’artista46, mentre la sostanza lirica, cioè
l’arte con la ‘A’ maiuscola, trascende le evoluzioni del gusto; il quale, dunque,
precede e condiziona l’arte; inoltre, l’attenzione alla vocalità come luogo di
manifestazione dei valori espressivi di un’opera. La distinzione tra ‘arte’ e
‘gusto’, pur confermando la prospettiva evoluzionistica associata alla
produzione verdiana, differenziava la visione di Mila da quella della maggior
parte dei musicologi. Stabilendo tale differenza, egli affermava sì
l’«universalità senza tempo»47 di Verdi sul piano artistico, che coincideva con
quello spirituale, ma riconosceva anche le iniziali insufficienze della tecnica e
le progressive conquiste in tale ambito. Il quadro evoluzionistico prospettato
da Mila affondava in una humus storicistica e, attraverso la categoria del gusto
– ereditata da Lionello Venturi48 –, si apriva a quella disciplina che parecchi
anni dopo sarebbe stata classificata come Rezeptiongeschichte. È così che,
in Il melodramma di Verdi, egli vedeva nel Nabucco la più significativa opera
giovanile del compositore – opinione già avanzata da Toye –, sebbene la
ritenesse uno «statico affresco corale» e non ancora «dramma di
personaggi»49; mentre in Ernani, Macbeth e Luisa Miller ravvisava unità lirica
ma non drammatica, e la trilogia popolare costituiva un culmine per l’«unità
morale del mondo verdiano»50. In Rigoletto il protagonista,
nel Trovatore Azucena e in Traviata Violetta, i personaggi mostravano
un’individualità così definita da condensare in se stessi tutta l’azione
dell’opera51. Mila citava altresì con rispetto Basevi, irriso da Della Corte e
Parente52, anticipando il recupero della critica ottocentesca che la musicologia
avrebbe intrapreso a partire dagli anni Settanta53.
Nelle opere successive alla trilogia, mosso dal criterio evolutivo, Mila lesse un
ampliamento del dramma nell’attenzione rivolta all’ambiente che circonda i
personaggi, cogliendo i primi esempi di questa nuova temperie in Un ballo in
maschera, La forza del destino e Don Carlos. In quest’ultima opera egli vide
l’adesione a una sorta di voluttuoso predecadentismo, a suo giudizio derivante
dalla consentaneità di Verdi al romanticismo europeo54. Aida rappresentava
l’approdo a un’umanità già shakespeariana, vale a dire «universale ed
eterna»55, e l’esotismo non vi appariva mero colore locale ma elemento
stilistico, espressione dell’approccio verdiano all’Oriente56. La definitiva
conquista di Shakespeare, dopo il tentativo sperimentale del Macbeth – chiave
di volta della produzione giovanile verdiana – avvenne con Otello e Falstaff: in
queste opere ultime, l’abolizione progressiva delle forme chiuse, il costituirsi
del declamato melodico, la scrittura orchestrale più matura, la potenza
drammatica dei personaggi, il riso – non mera comicità, bensì estensione dello
sguardo alla coesistenza di tragico e ridicolo propria della vita umana –,
sancivano per Mila la piena attuazione di quel principio poetico che Verdi
aveva in precedenza delineato: «inventare il vero»57.
Su questi assunti s’impiantò tutta la concezione verdiana di Mila. Quanto
scritto in seguito avrebbe ampliato e sviluppato una prospettiva già definita,
per comprendere meglio la quale occorre risalire alle matrici del pensiero del
critico. Il concetto di ‘funzione drammatica della musica nel teatro’ si formò
dalla precisa consapevolezza che, se il dramma è rappresentazione autentica
delle passioni, l’artisticità di un’opera dipende appunto da tale autenticità. Che
consiste nella capacità dell’opera d’arte di suscitare risonanze interiori nella
vita umana, di farci comprendere il significato della vita, secondo
l’insegnamento ricevuto da Augusto Monti58. Quando Mila afferma che il dolore
e il pianto rendono Rigoletto, Azucena, Violetta esseri umani in carne e ossa59,
adotta il criterio di valutazione applicato da Monti nell’analisi delle opere
letterarie. La differenza tra letterato e poeta – crocianamente, tra ‘poesia’ e
‘non poesia’ – era infatti stabilita attraverso il contatto diretto con gli autori,
senza la mediazione di giudizi estetici, ossia attraverso l’aderenza delle opere
alla vita: «immanenza» e «storicismo» i fondamenti del metodo critico60. Il
richiamo all’esperienza – costante in tutto Mila61 – acquistava implicazioni
estetiche poiché l’artisticità di un’opera deriverebbe dalla verifica della sua
capacità d’incidere sulla vita concreta dell’uomo, di essere sempre attuale,
moderna, in una parola: ‘classica’. Su queste premesse poggia la nozione di
‘unità morale’, che Mila ritrovava in modo particolare nel mondo verdiano.
L’idea dei classici come maestri di vita moderna, che proveniva dal magistero
di Monti, ratificava il legame tra estetica ed etica62. Questo legame si
comprende nel contesto del ‘gobettismo culturale’, fenomeno ideologico di
matrice liberale-rivoluzionaria incentrato sulla «religione della libertà»
alfierianamente intesa da Gobetti63. Il gobettismo influenzò un’intera
generazione d’intellettuali antifascisti, soprattutto torinesi, concordi
nell’interpretare il Risorgimento quale antesignano dell’antifascimo, e si
affiancò ai tentativi gramsciani di fondare una filosofia della prassi,
propagandosi nell’editoria, nel giornalismo, nell’azione culturale, investendo
inevitabilmente la «confraternita» dazeglina, formata dagli allievi di Monti,
Mila incluso64. Per tutti costoro Croce era il modello indiscutibile di studioso
che professava la libertà di pensiero e di giudizio, ritenuta un presupposto
imprescindibile per qualsiasi uomo di scienza e di lettere. Il richiamo al filosofo
napoletano si fece ancora più insistente dopo il delitto Matteotti e il precipitare
degli eventi verso lo stato totalitario, quando Croce approdò a uno storicismo
assoluto e pose la gobettiana ‘religione della libertà’ al vertice della propria
‘filosofia della libertà’65. Il liberalismo dei montiani finì per identificarsi con
l’idealismo crociano ed ebbe il senso di una «resistenza della cultura», come
scrisse lo stesso Mila66, cioè di un’opposizione intellettuale al fascismo che
confluì in un antifascismo di tipo culturale, esistenziale ed etico, prim’ancora
che politico67. L’idealismo crociano, dunque, più che una dottrina costituì una
«via regia alla vera conoscenza»68. Nella formazione di Mila esso fu il frutto del
clima torinese, del convergere di cultura accademica e cultura militante verso
un’‘educazione alla militanza’69. Da qui gli accenti etici della sua
interpretazione verdiana, i quali contribuirono a porlo su un piano ben diverso
dalla musicologia coeva.
Il melodramma di Verdi rappresentò una svolta negli studi verdiani, come
sottolineò subito Parente70. Per il resto, negli anni Trenta-Quaranta in Italia
comparvero nuove biografie ed epistolari verdiani, tra i quali l’Autobiografia
dalle lettere (1941), a cura di Aldo Oberdorfer, e i Carteggi verdiani (1935-
1947, 4 voll.), a cura di Luzio, messi a punto dalla Reale Accademia d’Italia,
fondata da Mussolini. Il 1941 vide concentrarsi alcune pubblicazioni
significative: la miscellanea Verdi: studi e memorie, a cura del Sindacato
fascista musicisti; un primo contributo iconografico, Verdi nelle immagini (2
voll.), di Carlo Gatti; la riproduzione fotografica dell’Abbozzo del Rigoletto di
Giuseppe Verdi, che permise di gettare un primo sguardo nell’officina
verdiana. Numerose furono le iniziative promosse dal governo, culminanti, nel
biennio 1940-41, con la celebrazione del quarantesimo anniversario della
morte del compositore, voluta proprio da Mussolini71. Diffusi i tòpoi della
retorica fascista: il duce pari all’Uomo invocato a suo tempo da Verdi per
risollevare le sorti della nazione, secondo quanto sostenne Luzio; il Verdi
patriota e contadino descritto da Pizzetti; Verdi «emanazione della terra», nel
senso di «una forma di lavoro, un esempio e un incitamento all’obbedienza, alla
fede e al cimento», in una lettura del fascismo come «difesa dei valori dello
spirito e della terra», secondo le parole di Giazotto72. Più originale Bontempelli
che, pur legandosi al consueto binomio musica-terra con l’immagine di «Verdi
il terrestre», interpretò la produzione del compositore alla luce della categoria
del ‘barocco’, inteso come naturalismo e antimetafisica73. Sulla base di queste
sollecitazioni culturali, e dato anche il clima politico, persino chi in precedenza
aveva rigettato Verdi cambiò idea. Casella riscoprì il Verdi ‘di mezzo’,
giungendo sino a lodare Luisa Miller, benché poi la lezione verdiana che
dimostrò di avere assimilata nel proprio teatro musicale provenisse dal sempre
prediletto Falstaff, come osservò lo stesso Mila a proposito de La donna
serpente74. Interpretazioni indipendenti dalla retorica fornì invece Alberto
Savinio, tra i primi a tener conto della prassi esecutiva, al pari di Gastone
Rossi Doria, sostenitore a sua volta di un ‘rinnovamento toscaniniano’; meno
originale fu il contributo di Ronga, comunque attento a valutare i risultati della
critica75.
Le celebrazioni del 1941 ebbero risonanza anche in Germania, per via
dell’alleanza con l’Italia. Si rinforzò l’immagine della ‘sanità’ dell’arte verdiana,
se ne accentuò l’aspettovölkisch e il sentimento patriottico fu letto in chiave di
propaganda76. In Europa, l’aspetto elementare di certa musica verdiana, che in
passato era stato causa di netti rifiuti, veniva ora lodato. Si pensi
all’apprezzamento rivolto dallo Stravinskij neoclassico alla ‘semplicità’
verdiana, soprattutto della trilogia popolare77.
Le tendenze sin qui delineate esprimono una ricchezza di prospettive, che
tuttavia in Italia mai misero in discussione la lezione di Mila. Anzi, i crociani
Ronga, Della Corte, Pannain e Parente, l’avallarono e la rinforzarono. A costoro
si oppose, col piglio polemico e lo straordinario acume che gli erano propri,
Fedele d’Amico. Nel saggio Limiti della critica verdiana (1941)78, l’autore
constatava negli studi dei crociani, Mila compreso, la presenza di aporie
metodologiche che finivano con l’inficiare i risultati delle indagini. Egli
criticava la concezione evoluzionistica applicata alla produzione verdiana,
poiché la riteneva frutto della forzata ricerca di corrispondenza delle opere alla
categoria concettuale della ‘coscienza drammatica’. D’Amico propendeva
invece per uno studio linguistico delle opere, finalizzato a individuarne la
forma specifica. Il critico romano recuperava le prospettive più indipendenti
dal crocianesimo, fra le quali quelle di Basevi, Barilli, Bontempelli, Gavazzeni;
da Dante Alderighi riprendeva la convinzione dell’impossibilità di distinguere i
lavori in migliori o peggiori e la necessità di studiarli uno per uno, onde
comprendere le diverse ‘stagioni’ vissute dal compositore79. Riconosceva
tuttavia a Mila il merito d’aver cominciato a esaminare le opere verdiane nella
loro intrinsecità.
L’obiezione di d’Amico era fondata: ciò che spingeva Mila a leggere la storia
della musica in senso evolutivo, di progressiva esplicitazione del dramma,
rispondeva al suo bisogno d’individuare punti di riferimento morali di portata
sovranazionale, europea, quale antidoto al nazionalismo fascista. Verdi, ma
anche Rossini, divenivano il simbolo di questa identità italiana da contrapporre
al romanticismo nordico, che Mila in quegli anni, sulla scorta di Croce,
considerava pieno di «oscurità», «ambagi», «crisi spirituali»80. Di qui la sua
incomprensione (poi rettificata) per Brahms e Wagner o per l’impressionismo,
ritenuti manifestazioni di decadenza morale, e il continuo richiamo a
presupposti di solidità e costruttività come valori positivi: ecco i toni di
simpatia per la Neue Sachlichkeithindemithiana; per la ‘sanità’ della musica
popolare, massime se riletta da Bartók o Kodály; l’apprezzamento per la
linearità melodica realizzata da Satie; l’amore per Stravinskij; l’elevazione di
Verdi a principale oggetto della ricerca di continuità tra Otto e Novecento e la
conseguente rivendicazione della semplicità ravvisabile nella produzione
giovanile quale «indizio di aristocratica raffinatezza»81. Un ideale di continuità
dichiarato sin nel titolo della silloge saggistica pubblicata in piena
guerra, Cent’anni di musica moderna (1944), che esprimeva l’adesione a un
classicismo inteso come scoperta delle radici ‘positive’ della propria civiltà,
dell’Ottocento tout court, non solo italiano. Appropriarsi di quelle radici
significava opporsi a qualsiasi degenerazione morale: quella di Mila negli anni
Trenta-Quaranta era una musicologia resistenziale che stabiliva il presupposto
della consistenza come valore etico.
A metà degli anni Quaranta Mila conquistò altri approdi intellettuali, anche per
via di due fondamentali esperienze: il carcere e la partecipazione alla
Resistenza82. In carcere, Mila approfondì la storia d’Italia, specie dal
Rinascimento al Risorgimento, e nell’orgoglio dell’antifascismo militante –
quasi un atteggiamento elitario, il sentimento di un valore per differenza, che
nondimeno celava il timore di perdere il senso dei propri sacrifici e rinunce,
come scrisse Vittorio Foa83 – rinforzò l’idea del Risorgimento come antecedente
dell’antifascismo. Pervenne a un pensiero più razionalistico e pragmatico, che
lo condusse a ‘dubbi illuministici’ nei riguardi di Croce84, e si aprì ad assunti
gramsciani, quale ad esempio la nozione di storia come socialità che, pur
comune anche a Gobetti, Gramsci aveva fatto propria sul terreno della filosofia
della prassi. Mila, dunque, fece sua la taccia di conservatorismo che già il
politico e pensatore sardo aveva mosso al liberalismo di Croce e approdò a una
visione dialettica della libertà: la crociana ‘religione della libertà’, che con
Gramsci diveniva razionalismo immanentistico e perciò storicismo e laicismo,
si concretò in un atto critico sempre più indirizzato a storicizzare il pensiero
musicale, perciò a leggere autori e opere dal punto di vista della
contemporaneità e come fattori di progresso85. La fede nella funzione civile
della cultura86 si espresse nella sua più nota operazione divulgativa: la Breve
storia della musica (1946)87. Essa mostra una compatta visione storica che
pone Verdi al vertice d’una linea evolutiva, poiché il compositore aveva saputo
dar voce agli ideali dei tempi nuovi, reinserendo la nostra musica nella
circolazione del pensiero europeo. Se Verdi era per Mila l’incarnazione degli
ideali di libertà in virtù dei valori risorgimentali che la sua arte aveva espresso,
tale giudizio, tuttavia, non corrispondeva a una semplice ripresa di un’idea
diffusa sin dai tempi del musicista, ma nasceva da ragioni profonde: l’autore
allargava l’orizzonte alla storia italiana. Nel secondo dopoguerra, alla luce
anche della propria esperienza personale, la ‘religiosità del Risorgimento’
costituiva per Mila la più alta espressione italiana degli ideali europei di
libertà, democrazia e giustizia sociale, cioè di civiltà – termine e concetto a lui
cari –, per i quali si era da poco combattuto.
Il nesso tra storia della musica e storia nazionale fu sancito con vibrante
intensità in Verdi come il padre (1951). Scritto in occasione dei cinquant’anni
della morte del compositore e ripubblicato nella monografia del 1958, dedicata
ad Augusto Monti, il saggio costituisce ancor oggi il culmine della riflessione
verdiana di Mila, sintesi e conferma della sua indagine precedente. Esso
s’incentra sull’idea del Risorgimento come epoca fondante della nostra storia
nazionale. Mila, con la sua straordinaria capacità di sintetizzare la storia della
cultura, esaltava i motivi per i quali la drammaturgia musicale verdiana aveva
inciso sulla formazione della coscienza italiana nazionale: Verdi era la ‘pianta
uomo’, equilibrio di passione e temperanza. La sua drammaturgia,
conquistando progressivamente la capacità d’inscrivere i personaggi in un
contesto sociale, nella concretezza della vita pubblica, nelle relazioni della
convivenza umana, aveva mostrato agli italiani il modo di superare il «cinismo
machiavellico» del Settecento e poi di Rossini, e di pervenire a un nuovo ordine
morale, di esprimere generosità, condivisione nella sofferenza, amore,
assunzione di responsabilità nei confronti di se stessi e della propria storia88.
Per questa ragione Mila parlava di efficacia formativa del melodramma
ottocentesco sulla coscienza nazionale e stabiliva una filiazione che andava
«dall’artista alla nazione»89, e non il contrario. Il critico poneva Verdi accanto
ai grandi della letteratura e ai massimi esponenti dell’arte – Alfieri, Foscolo,
Leopardi, Manzoni, Giotto, Donatello, Michelangelo, fra gli altri – e insieme e
sopra a Rossini, Bellini e Donizetti, tra coloro che avevano contribuito a
plasmare il carattere italiano. Anche da un punto di vista biografico, il
compositore costituiva il modello di un uomo che non si era rinchiuso nell’arte,
ma si era dimostrato partecipe di ogni aspetto della vita. Verdi era per Mila,
desanctisianamente, l’ideale calato nel reale. Non a caso, nel saggio citato, il
critico riprendeva da Francesco De Sanctis il passo in cui questi coglieva la
nascita del melodramma «nella costituzione psicologica e storica dell’uomo
italiano»90. Anche il concetto di ‘pianta uomo’ proveniva dalla lettura
desanctisiana di Alfieri:
È l’uomo nuovo che si pone in atto di sfida in mezzo a’ contemporanei. [...] E
quantunque l’Italia a quei dí fosse tanto degenere, avea fermissima fede in una
Italia futura, che vagheggiava nel pensiero simile all’antica. Di questa nuova
Italia fondamento era il rifarvi la pianta uomo91.
Il riferimento a De Sanctis evocava gli anni di apprendistato con Monti, i cui
insegnamenti si basavano sull’estetica ricavata dagli studi del critico
letterario92. Quel riferimento serviva inoltre a ribadire l’impegno degli
intellettuali, cioè la loro responsabilità, nel processo di ricostruzione morale
del Paese, nel contesto d’una più vasta opera di rinnovamento sociale e politico
seguita agli eventi bellici. Al principio dei cosiddetti ‘anni della politica
culturale’ (1951-56), la lettura di Verdi come padre della nazione, essenza
dell’italianità, verteva sul dimostrare la dimensione italo-europea, cioè
sovranazionale, della sua musica, e di conseguenza di tutta la nostra cultura.
Questa visione portò a un approfondimento della dimensione politica del
compositore, alla quale aveva prestato attenzione anche Pizzetti, e a rivedere il
rapporto fra ‘dramma’ e ‘teatro’. Sia Mila sia il compositore parmense
individuarono la grandezza del primo Verdi – in particolare di Nabucco, I
Lombardi ed Ernani – nella natura politica della sua ispirazione artistica, intesa
– come scrisse Mila – quale «sostrato emotivo e clima storico»93, quello
risorgimentale. Pizzetti aveva parlato esplicitamente di «collaborazione del
pubblico»94 all’ispirazione sentimentale ed artistica del compositore, con ciò
anticipando motivi che avrebbero trovato piena sistemazione teorica nelle
ricerche sulla drammaturgia verdiana a partire dagli anni Settanta,
specialmente negli scritti di F. d’Amico. L’attenzione al dato sociale permise a
Pizzetti, che riconosceva in Verdi un ‘maestro di teatro’, d’individuare la
‘musica drammatica’ non nelle parti liriche, bensì «in quella musica posta fra
un’aria e un’altra», nei recitativi e ariosi dotati di potenza rappresentativa ed
emotiva95. Mila, a sua volta, esaminando il «Miserere» del Trovatore,
individuava ora la ‘musica drammatica’ nelle «“circostanze” sceniche e
psicologiche – in una parola teatrali – atte a dare un risalto e un’efficacia
insospettata»96 anche al più semplice dei motivi. Nel riprendere da Berlioz il
concetto di «violenta azione dei suoni musicali combinati nel modo più
ordinario sui temperamenti [...] in determinate circostanze»97, ovvero
considerando le ‘circostanze’ quali situazioni drammatiche concepite in
funzione dell’accoglienza degli spettatori, faceva coincidere teatro e dramma,
che nel 1933 erano contrapposti a tutto vantaggio di quest’ultimo, sul terreno
della recezione del pubblico.
La prospettiva politica si confermò nei primi anni Sessanta. Se già in Verdi
come il padreMila aveva citato la Filosofia della musica (1836) di Giuseppe
Mazzini, ravvisando nel Bussetano l’ignoto numini invocato dal politico e
filosofo genovese, nella riedizione dellaBreve storia della musica (1963) ampliò
il quadro, aggiungendo cenni su Goffredo Mameli e sul «risveglio politico
dell’Italia a ideali di libertà»98 negli anni 1830-40, che non figuravano
nell’edizione del 1946. L’identificazione di Verdi con il nume mazziniano servì
adesso a distinguere il ‘melodramma romantico’ di Bellini e Donizetti dal
‘melodramma nazionale’ di Verdi: l’arte verdiana aveva saputo placare l’ansia
individualistica del romanticismo, «immergendosi in quell’entità collettiva che
è il popolo. La musica italiana, aulica e aristocratica per lunga tradizione, sta
per scoprire il popolo»99. L’attualità del melodramma verdiano, emersa nel
libro del 1933, veniva rilanciata mediante l’adozione della categoria
gramsciana del nazional-popolare100, interpretata in senso positivo quale
apertura dell’opera di Verdi alla socialità. Accezione, questa, che esprimeva
una fede laica e antimistica, la quale aveva orientato Mila verso quel ‘ritorno a
De Sanctis’ in atto da diverso tempo nella cultura italiana più progressista101.
Questo ‘ritorno’ in Mila si declinava come umanesimo storicista e si
congiungeva con l’adesione al realismo propagatosi nella cultura italiana a
partire dagli anni Cinquanta102. Il realismo, il quale implicava lo sguardo alla
realtà contemporanea attraverso una visione obiettiva del rapporto tra evento
artistico e contesto storico, incise sui metodi della critica.
Al corrente della produzione musicologica in lingua francese, inglese e
tedesca, negli ultimi trent’anni di lavoro Mila fece ricorso agli apporti
metodologici e ai risultati pratici raggiunti all’estero dalla disciplina e sviluppò
osservazioni più approfondite su forma, linguaggio e stile delle opere.
Nacquero così i testi su Alzira, Luisa Miller e Corsaro 103, ripresi e rielaborati
in La giovinezza di Verdi (1974), libro per il quale stese capitoli dedicati a tutti
gli spartiti da Oberto alla Traviata, la guida ai Vespri siciliani, la voceVerdi per
due enciclopedie, infine una lettura di Attila104. A parte i compendi
enciclopedici e gli articoli d’occasione, tali testi avevano in genere carattere di
‘lettura’, termine col quale il critico designava un’esegesi dell’opera scena per
scena (libretto e musica), integrata con riferimenti storici e biografici.
Quest’impostazione rifletteva per certi versi anche l’orientamento della
musicologia verso il rigore filologico, sul quale Mila si era espresso quando
aveva sostenuto l’opportunità di approntare edizioni critiche delle partiture
verdiane (e non solo)105. In campo biografico, erano intanto comparsi due studi
monumentali: Giuseppe Verdi (1959, 4 voll.) di Franco Abbiati, ricco di
documenti inediti, e L’uomo Verdi (1962) di Frank Walker, basato su una
stringente verifica delle fonti. Nel processo di approfondimento storico e
documentaristico della figura e dell’opera di Verdi, un ruolo guida assunse
l’Istituto di studi verdiani, fondato nel 1959, il quale dette nuovo impulso alle
ricerche. Fra tante importanti pubblicazioni, si segnalano l’edizione
sistematica dei carteggi (tuttora in corso) e i congressi internazionali, con
relativi atti (sono stati pubblicati integralmente i primi tre, rispettivamente del
1966, 1969 – centrato sul Don Carlos/Don Carlo –, 1972)106. In un panorama
musicologico sempre più internazionale, studiosi delle più diverse provenienze
cominciarono a volgere la loro attenzione ai contesti di produzione, di
esecuzione (problemi interpretativi, musicali e scenici) e di recezione delle
opere di Verdi. In generale, la critica tendeva a contrapporre due Verdi: l’uno,
culminante nel ‘primitivismo’ del Trovatore, quasi una reviviscenza barilliana;
l’altro, più problematico ‘moderno’ europeo, che partendo dal Simon
Boccanegra giunge sino a Otello e a Falstaff. Mila non prese partito per l’una o
l’altra fazione; piuttosto, ribadì l’esistenza in Verdi di una pluralità stilistica
coerente con il mutare del gusto del pubblico e perciò espressione della
capacità dell’artista di stare al passo coi tempi107. Riallacciandosi alle ricerche
di Luigi Dallapiccola108, si sforzò inoltre d’individuare uno schema formale, e al
contempo drammatico, operante nel giovane Verdi fino a Rigoletto: parlando di
dialogizzazione dell’aria doppia (le due parti della quale oggi, sulla scia delle
definizioni rintracciabili in Basevi, Carlo Ritorni e altri, e delle indagini
illuminanti di Harold Powers, siamo soliti definire Cantabile o Adagio e
Cabaletta), credette d’identificare una vocazione al ‘realismo drammatico’ nel
punto di raccordo tra l’una e l’altra sezione statica del numero chiuso, ossia
nel cosiddetto Tempo di mezzo, sede di repentini contrasti espressivi109.
Questi interventi rivelavano una volontà di rottura degli schemi interpretativi,
che in Italia contraddistinse pure gli studi di Gabriele Baldini e di Fedele
d’Amico. Le loro riflessioni posero al centro del dibattito la dimensione
dell’ascolto: il primo, sulla base di un’analisi prevalentemente uditiva, intese la
drammaturgia verdiana come «dialettica di piani musicali»110, ovvero rapporto
tra registri vocali che determinano l’azione musicale; il secondo, richiamandosi
alla teoria di Bekker, spostò il fulcro della critica del melodramma sul concetto
di ‘fungibilità’ di un’opera e riscontrò l’essenza del teatro verdiano nella
«dialettica dell’ascolto»111. Prendendo le distanze dalla prima monografia di
Mila, dove il rapporto fra ‘dramma’ e ‘teatro’ era risolto a sfavore di
quest’ultimo, d’Amico ribaltò tale tesi: la produzione verdiana è squisitamente
‘teatrale’. Il critico romano, tuttavia, non tenne conto della coincidenza tra
‘dramma’ e ‘teatro’ che il collega aveva avvalorato commentando il «Miserere»
nella riedizione del 1958. Del resto, pure Mila si era mostrato attento ai
fenomeni dell’ascolto – benché dal punto di vista del compositore, non da
quello dello spettatore – come risulta dalle osservazioni sugli effetti comici e
sul trattamento del declamato in Falstaff. Nonostante le differenze, i due
studiosi finivano per convergere sull’idea di un Verdi ‘popolare’: Mila, per il
carattere ‘nazionale’ della sua arte, d’Amico perché ne intravvedeva la ‘radice
quarto stato’.
Dagli anni Settanta la musicologia internazionale si è sempre più orientata
sull’analisi degli aspetti tonali e morfologici nel melodramma e sul processo
creativo (appunti, abbozzi parziali e continuativi, redazioni primitive
incomplete e complete, revisioni, edizioni successive alla prima). Philip Gossett
riconobbe nella struttura dei duetti in Aidala persistenza del modello
quadripartito rossiniano; Frits Noske si accostò all’opera con gli strumenti
della semiotica; Wolfgang Osthoff indagò le stesure originarie del Simon
Boccanegra e del Macbeth; Friedrich Lippmann studiò i rapporti tra verso,
metro e melodia; Pierluigi Petrobelli pose l’accento sulle reciproche interazioni
tra ‘sistemi’ (azione drammatica, struttura verbale, musica); Siegmund
Levarie, Elliott Antokoletz, William Drabkin sollevarono grandi discussioni con
i saggi sull’organizzazione tonale e le relazioni armoniche (a loro giudizio
frutto di una pianificazione rigorosa) in, rispettivamente, Un ballo in
maschera, Macbeth, Il trovatore. Le ricerche di Andrew Porter, Ursula Günther
e David Rosen negli archivi dell’Opéra parigino portarono alla scoperta di
brani inediti delDon Carlos, scartati dall’autore fin dalle ultime prove. Un
convegno su Macbeth (1977), i cui atti furono raccolti in volume a cura di
Porter e Rosen, tirò le fila di un rinnovato interesse critico intorno all’opera
shakespeariana, messo in moto dalle ricerche di Daniela Goldin Folena e
Francesco Degrada. Altro titolo oggetto d’indagini accurate fu (sulla scia del
successo arriso al celebre allestimento Abbado-Strehler al Teatro alla Scala di
Milano, nel dicembre 1971) Simon Boccanegra: si ricordano i contributi della
Goldin sul libretto, di Julian Budden, Edward T. Cone, Joseph Kerman, tra gli
altri, sulla musica. Proprio Budden pubblicò la più capillare monografia mai
concepita sul teatro di Verdi (1973-1981), nella quale a proposito di Macbeth, I
Vespri siciliani e Aida richiamò certe conclusioni di Mila. Il quale, a sua volta,
fece propri i risultati conseguiti nelle loro ricerche da molti di questi studiosi,
citandone le principali pubblicazioni nel suo ultimo libro, L’arte di Verdi(1980).
Sulla loro scia modificò e arricchì alcuni profili di opere già trattate nel volume
del 1958, fra i quali I Vespri siciliani e, appunto, Simon Boccanegra,
aggiungendo ex novo i saggi su La forza del destino, Otello, la musica sacra di
Verdi, nonché un capitolo dedicato alle versioni e varianti del Don Carlo. Per il
resto, nel libro confluirono le precedenti monografie, tolti i profili delle opere
giovanili di Verdi presenti nel volume del 1974, a testimonianza di un
ininterrotto, e proprio per ciò mai definitivo, «colloquio con il compositore»
che «come con gli altri grandi dell’arte musicale, è una specie di work in
progress che non sarà mai concluso, finché le sue opere parlino al nostro
spirito e alimentino la nostra cultura»112. Anche in questo caso Mila sottolineò
l’attualità di Verdi con uno sguardo da postero: nell’impiego spregiudicato
della materia sonora in Otelloravvisò una nuova vocalità, contraddistinta da
una declamazione a suo giudizio assai vicina allo Sprechgesang di Arnold
Schönberg. Nacque così la tesi di un Verdi espressionista e dell’Otello non più
«drammone della gelosia», ma espressione di una «crisi di identità», «un
capolavoro dell’arte moderna» in anticipo anche su Wozzeck eLulu di Alban
Berg113.
C’è chi ha visto in quest’approdo di Mila all’ultimo Verdi quale precursore del
Novecento una «frattura» tra due modi diversi d’intenderne l’arte114. Al
contrario: le pagine su Otellodel 1980 confermano come in seno alla pluralità
stilistica della produzione verdiana vivesse lo stesso compositore, il quale,
varcata la soglia dei settant’anni, invece di ripiegarsi in se stesso, si mostrava
ancora vivacemente partecipe delle inquietudini della propria epoca, ‘attuale’.
Gli studi verdiani successivi alla morte di Mila (1988) hanno proseguito sui
percorsi tracciati nei decenni immediatamente precedenti: la ricerca
documentaria (molto utili le ricerche di Marcello Conati sugli archivi della
Fenice), che ha trovato una sistemazione nella ponderosa biografia scritta da
Mary Jane Phillis Matz; le riflessioni sulla drammaturgia, che hanno ricevuto
un impulso decisivo dalle sistemazioni teoriche di Carl Dahlhaus, Lorenzo
Bianconi, Piero Weiss, e quelle sugli aspetti formali, avviate da Joseph Kerman
e Harold Powers, hanno trovato esiti importanti nelle pubblicazioni, fra molti
altri, di Giorgio Pestelli, Gilles de Van, James A. Hepokoski, Fabrizio Della
Seta, Paolo Gallarati, Luca Zoppelli, Alessandro Roccatagliati, Emilio Sala,
Giorgio Pagannone; gli scavi analitici, di cui abbiamo esempi significativi in
Rosen e Roger Parker; il processo creativo nei suoi vari stadi, sceverato da
Gossett, Della Seta, et alii; il sistema produttivo (con i testi fondativi di John
Rosselli) e la prassi esecutiva (il gruppo di lavoro sulle orchestre italiane
dell’Ottocento coordinato da Franco Piperno e la collana sulle disposizioni
sceniche a cura di Francesco Degrada per Ricordi, preceduta dalle
pionieristiche indagini di Luciano Alberti su Aida) dell’opera italiana; la
recezione critica (fra gli altri: Conati, Roccatagliati, Della Seta, Emanuele
Senici, l’«edizione critica» del libro di Basevi a cura di Ugo Piovano, 2001) e
l’acceso dibattito sulla dimensione politica, risorgimentale del teatro verdiano,
negata da Parker e da Birgit Pauls, rilanciata dalla monografia di Pierre Milza,
dalla tavola rotonda Verdi nella storia d’Italia tenutasi nell’ambito del
convegno voluto dall’Istituto di studi verdiani nel 2001 (Giuliano Procacci,
Bianconi, Castelvecchi, Rosselli), dal saggio di Gossett sugli effetti della
censura delle opere verdiane in epoca risorgimentale e sui cori patriottici, e
dal saggio di Anselm Gerhard sul peso e il significato delle relazioni
intrattenute dal giovane Verdi con l’aristocrazia; infine, le letture in
chiave gender di Ralph Locke, di Mary Ann Smart, di Senici, e in genere della
musicologia angloamericana a cominciare dal giro di secolo. Una sintesi di
questi filoni è dato rintracciare nelle imprese collettive in lingua inglese e
tedesca, e in italiano nel manuale di Raffaele Mellace115.
In un panorama talmente ricco e specialistico, difficile da mappare, la lezione
di Mila si dimostra sempre fertile116. Come ha scritto Pestelli, molti suoi assunti
sono diventati a tal punto luoghi comuni che non se ne riconosce più la
paternità117. Quella lezione è viva e agisce sotto traccia, non solo in ambito
specialistico, ma anche nel tessuto vivo della cultura, patrimonio assimilato da
chi s’interessa di opera lirica, e di Verdi in particolare; e resta ancora sovente
via d’accesso di chi vi si accosti da neofita, in virtù della qualità divulgativa
della sua scrittura118. Mila ha insomma acquisito lo status di ‘classico’, è
diventato a sua volta una ‘pianta uomo’ che produce frutti intellettuali e morali
in grado di nutrire lo spirito dell’uomo, oggi e domani.
BIBLIOGRAFIA
J. KERMAN, L’opera come dramma, Torino 1990 (ed. or. Opera as Drama, New
York 1956); A. PORTER, A Sketch for “Don Carlos”, «Musical Times», CXI,
1970, 1531, pp. 882-885; D. ROSEN, Le quattro stesure del duetto Filippo-
Posa, in Atti del II congresso internazionale di studi verdiani, Parma 1971, pp.
368-388; U. GÜNTHER, La genèse de “Don Carlos”, opéra en cinq actes de
Giuseppe Verdi, représenté pour la première fois à Paris le 11 mars 1867,
«Revue de musicologie», 58, 1972, 1, pp. 16-64; 60, 1974, 1-2, pp. 87-158; W.
OSTHOFF, Die beiden Fassungen von Verdis “Macbeth”, «Archiv für
Musikwissenschaft», 29, 1972, pp. 17-44; G. PESTELLI, Le riduzioni del tardo
stile verdiano. Osservazioni su alcune varianti del “Don Carlos”, «Nuova rivista
musicale italiana», VI, 1972, 3, pp. 372-390; F. LIPPMANN, Der italienische
Vers und der musikalische Rhythmus: Zum Verhältnis von Vers und Musik in
der italienischen Oper des 19. Jahrhunderts, mit einem Rückblick auf die 2.
Hälfte des 18. Jahrhunderts, «Analecta musicologica», 12, 1973, pp. 253-369;
14, 1974, pp. 324-410; 15, 1975, pp. 298-333 (trad. it. Versificazione italiana e
ritmo musicale. I rapporti tra verso e musica nell’opera italiana dell’Ottocento,
Napoli 1986); PH. GOSSETT, Verdi, Ghislanzoni and “Aida”: the uses of
conventions, «Critical Inquiry», I, 1974, 2, pp. 291-334; L. ALBERTI, I
progressi attuali [1872] del dramma musicale. Note sulla “Disposizione scenica
per l’opera ‘Aida’ compilata e regolata secondo la messa in scena del Teatro
alla Scala da Giulio Ricordi”, in Il melodramma italiano dell’Ottocento. Studi e
ricerche per Massimo Mila, Torino 1977, pp. 125-155; F. NOSKE, The Signifier
and the Signified. Studies in the Operas of Mozart and Verdi, The Hague 1977
(rist. 1990; trad. it. 1990); E. ANTOKOLETZ, Verdi’s dramatic use of harmony
and tonality in “Macbeth”, «In Theory Only», 4, 6, 1978; S. LEVARIE, Key
relations in Verdi’s “Un ballo in maschera”, «19th Century Music», II, 1978-79,
2, pp. 143-147; F. DEGRADA, Lettura del “Macbeth”, in ID.,Il palazzo
incantato. Studi sulla tradizione del melodramma dal barocco al romanticismo,
Firenze 1979, pp. 79-137; M. CONATI, Verdi. Interviste e incontri, Milano
1980; rist. ampliata Torino 2000; E.T. CONE, On the road to “Otello”: tonality
and structure in “Simon Boccanegra”, «Studi verdiani», 1, 1982, pp. 72-98; W.
DRABKIN, Key relations and tonal structure in “Il trovatore”, «Music
Analysis», I, 1982, 2, pp. 143-153; J. KERMAN, Lyric form and flexibility in
“Simon Boccanegra”, «Studi verdiani», I, 1982, pp. 47-62; M. CONATI, La
bottega della musica: Verdi e la Fenice, Milano 1983; F. DELLA SETA, Il tempo
della festa. Su due scene della “Traviata” e su altri luoghi verdiani, «Studi
verdiani», 2, 1983, pp. 108-146; J.A. HEPOKOSKI, Giuseppe Verdi. Falstaff,
Cambridge 1983; D. ROSEN, A. PORTER, Verdi’s “Macbeth”: A sourcebook,
New York-London, 1984; J. ROSSELLI, The Opera Industry in Italy from
Cimarosa to Verdi: The Role of the Impresario, Cambridge 1984 (ed. it. Sull’ali
dorate: il mondo musicale italiano dell’Ottocento, Bologna 1992); D.
GOLDIN, La vera Fenice: librettisti e libretti tra Sette e Ottocento, Torino
1985; La drammaturgia musicale, a cura di L. Bianconi, Bologna 1986; P.
WEISS, Verdi e la fusione dei generi, Ibid., pp. 75-91; J.A.
HEPOKOSKI,Giuseppe Verdi. Otello, Cambridge 1987; H. POWERS, “La solita
forma” and “The uses of conventions”, «Acta Musicologica», LIX, 1987, 1, pp.
65-90 (trad. it: “La solita forma” e gli “usi della convenzione”, in Estetica e
drammaturgia della “Traviata”. Tre studi sul teatro d’opera di Verdi, a cura di
E. Ferrari, Milano 2001, pp. 11-66); Storia dell’opera italiana, a cura di L.
Bianconi, G. Pestelli, 3 voll., Torino 1987-88; S.L. BALTHAZAR,Ritorni’s
“Ammaestramenti” and the conventions of Rossinian melodramma, «Journal of
Musicological Research», 8, 1988, pp. 281-312; H. POWERS, “Simon
Boccanegra” I. 10-12: A generic-genetic analysis of the Council Chamber
Scene, «19th Century Music», 13, 1989, 2, pp. 101-128 (anche in Trasmissione
e recezione delle forme di cultura musicale, Atti del XVI Congresso della
società internazionale di musicologia, Bologna 1987, a cura di A. Pompilio, D.
Restani, L. Bianconi, F.A. Gallo, Torino 1990, 3, pp. 407-441); J.A.
HEPOKOSKI, Genre and Content in Mid-Century Verdi: «Addio del passato»
(“La traviata”, Act III), «Cambridge Opera Journal», 1, 1989, pp. 249-276; PH.
GOSSETT,Becoming a citizien: The chorus in “Risorgimento” opera,
«Cambridge Opera Journal», 2, 1990, pp. 41-64; C.
DAHLHAUS, Drammaturgia dell’opera italiana, in Storia dell’opera italiana, a
cura di L. Bianconi e G. Pestelli, VI, Teorie e tecniche, immagini e fantasmi,
Torino 1988, pp. 77-162; F. DELLA SETA, «O cieli azzurri»: Exoticism and
Dramatic Discourse in “Aida”, «Cambridge Opera Journal», 3, 1991, pp. 49-62
(trad. it. in ID.,«...non senza pazzia». Prospettive sul teatro musicale, Roma
2008, pp. 47-63); G. DE VAN, Verdi: un théâtre en musique, Paris 1992 (trad.
it. Firenze 1994); M.J. PHILLIS MATZ, Verdi. A Biography, Oxford 1993; A.
ROCCATAGLIATI, Opera, Opera-ballo e “Grand Opèra”: commistioni stilistiche
e recezione critica nell’Italia teatrale di secondo Ottocento (1860-1870),
in Opera e Libretto, II, Firenze 1993, pp. 283-349; G. PESTELLI,Massimo Mila
e la nuova maniera di “Un ballo in maschera”, in Intorno a Massimo Mila.
Studi sul teatro e il Novecento musicale, a cura di T. Pecker Berio, Firenze
1994, pp. 115-124; D. ROSEN, Verdi: Requiem, Cambridge 1995; Le orchestre
dei teatri d’opera italiani dell’Ottocento. Bilancio provvisorio di una ricerca, a
cura di F. Piperno, «Studi verdiani», 11, 1996, pp. 119-221; B.
PAULS, Giuseppe Verdi und das Risorgimento: ein politischer Mythos im
Prozess der Nationenbildung, Berlin 1996; Verdi’s Middle Period. 1849-1859,
ed. by M. Chusid, Chicago-London 1997; G. PAGANNONE, Aspetti della
melodia verdiana. Periodo e Barform a confronto, «Studi verdiani», 12, 1997,
pp. 48-66; R. PARKER, «Arpa d’or dei fatidici vati»: the Verdian Patriotic
Chorus in the 1840’s, Parma 1996; ID., Leonora’s Last Act: Essays in Verdian
Discourse, Princeton 1997; P. PETROBELLI, La musica nel teatro, Torino 1998
(1a ed. inglese 1994); E. SENICI, Virgins of the Rock: Alpine Landscape and
Female Purity in Early-Nineteenth-Century Italian Opera, Ann Arbor 1998; J.
BUDDEN, “Simon Boccanegra” (First Version) in Relation to Italian Opera of
the 1850’s, in Verdi-Studien: Pierluigi Petrobelli zum 60 Geburstag, hrsg. von
S. Döhring, W. Osthoff, München 2000, pp. 11-33; J. ROSSELLI, The Life of
Verdi, Cambridge 2000; M.A. SMART, Ulterior Motives: Verdi’s Recurring
Themes Revisited, in EAD., Siren Songs: Representations of Gender and
Sexuality in Opera, Princeton 2000, pp. 135-59; L’orchestra di teatro in Italia
nell’Ottocento, «Studi verdiani», 16, 2000-01; Giuseppe Verdi. “La traviata”.
Schizzi e abbozzi autografi, a cura di F. Della Seta, Parma 2001; E.
SENICI, Verdi’s “Falstaff” at Italy’s Fin de Siècle, «The Musical Quarterly», 85,
2001, 2, pp. 274-310; P. MILZA, Verdi et son temps, Paris 2001 (trad. it. Roma
2001); L. ZOPPELLI, Die Genese der Opern, (I): Komponist und Librettiste (II):
Kompositionsprozess und Editiongeschichte, in Verdi Handbuch, hrsg. von A.
Gerhard, U. Schweikert, Kassel-Stuttgart-Weimar 2001 (2a ed. riveduta e
ampliata 2013), pp. 125-140 e pp. 249-274; P. GALLARATI, Lettura del
“Trovatore”, Torino 2002; PH. GOSSETT, Le «edizioni distrutte» e il significato
dei cori operistici nel Risorgimento, «Il saggiatore musicale», XII, 2005, 2, pp.
339-387; R.P. LOCKE, Beyond the Exotic. How ‘Eastern’ is “Aida”, «Cambridge
Opera Journal», 17, 2005, pp. 105-139; E. SENICI,Landscape and Gender in
Italian Opera: the Alpin Virgin from Bellini to Puccini, Cambridge 2005; E.
SALA, Il valzer delle camelie: echi di Parigi nella “Traviata”, Torino 2008; A.
GERHARD, «Cortigiani, vil razza bramata!». Reti aristocratiche e fervori
risorgimentali nella biografia del giovane Verdi, «Acta musicologica», LXXXIV,
2012, 1, pp. 37-63; LXXXIV, 2012, 2, pp. 199-215; ID., Giuseppe Verdi,
München 2012.1 M. MILA, L’efficacia della cultura (1945), in ID., Scritti civili, a cura di A.
Cavaglion, Torino 1995, pp. 101-105: 104.2 F. NICOLODI, Mitografia verdiana nel primo Novecento, in Verdi Reception,
ed. L. Frassà, M. Niccolai, Turnhout 2013, pp. 33-77: 37-38.3 E. HANSLICK, Verdi, in ID., Die moderne Oper. Kritiken und Studien, Berlin
1875, pp. 217-255.4 G. KREUZER, «Zurück zu Verdi». The “Verdi Renaissance” and Musical
Culture in the Weimar Republic, «Studi verdiani», 1998, 13, pp. 117-154: 127.5 La celebre frase di Verdi è in una lettera del musicista a Francesco Florimo,
del 4 gennaio 1871 (I copialettere di Giuseppe Verdi, Milano 1913; Bologna
1968, pp. 232-233). Per l’accostamento al detto tedesco vedi G.
KREUZER, «Zurück zu Verdi», cit., pp. 127-131.6 H. GERIGK, Giuseppe Verdi, Potsdam 1932.7 Verdi a Parigi, «Corriere della Sera», XXVI, 29-30 gennaio 1901, p. 2; La
grande commemorazione di Verdi alla Sorbona, «Corriere della Sera», XXVI, 8-
9 marzo 1901, p. 2.8 A. POUGIN, Verdi: histoire anecdotique de sa vie et de ses œuvres, Paris
1886; C. BELLAIGUE, Verdi: biographie critique illustrée de douze
reproductions hors texte, Paris 1911.9 J.-G. PROD’HOMME, Lettres inédites de Verdi à C. Du Locle 1868-1874,
«Revue musicale», X, 1929, 5, pp. 97-112; 7, pp. 25-37; ID., Intorno ad “Aida”:
alcune lettere inedite di Verdi a C. Du Locle, «Il pianoforte», III, 1921, 10, pp.
289-293; ID., Lettres inédites de G. Verdi à Léon Escudier, «Rivista musicale
italiana», XXXV, 1928, 1, pp. 1-28; 2, pp. 171-197; 4, pp. 519-552.10 S. RUTHERFORD, Remembering – and Forgetting – Verdi. Critical Reception
in England in the Early Twentieth Century, in La critica musicale in Italia nella
prima metà del Novecento, a cura di M. Capra, F. Nicolodi, Parma 2011, pp.
263-282: 267.11 J.-G. PROD’HOMME, Verdi’s Letters to Léon Escudier, trad. L.A. Sheppard,
«Music and Letters», IV, 1923, 1, pp. 62-70; 2, pp. 184-196.12 F. BONAVIA, Verdi, London 1930; F. TOYE, Giuseppe Verdi, His Life and His
Works, London 1931.13 F. D’ARCAIS, La prima e l’ultima opera di Verdi, «Nuova Antologia», XCI,
1887, 4, pp. 609-624: 610.14 La morte di Giuseppe Verdi, «Corriere della Sera», XXVI, 28-29 gennaio
1901, p. 1.15 T. FORNIONI, Quando il genio è scomparso, «Il Resto del Carlino», XVIII,
29-30 gennaio 1901, p. 1.16 G. D’ANNUNZIO, Per la morte di Giuseppe Verdi, in ID., Versi d’amore e di
gloria, Milano 1993, p. 324.17 L. TORCHI, L’opera di Giuseppe Verdi e i suoi caratteri principali, «Rivista
musicale italiana», VIII, 1901, 2, pp. 279-325; D. ALALEONA, L’armonia
modernissima. Le tonalità neutre e l’arte di stupore, «Rivista musicale
italiana», XVIII, 1911, 4, pp. 769-838: 802-813; ID., L’evoluzione della
partitura verdiana, «Nuova Antologia», CLXVII, 1913, 251, pp. 521-528.18 F. TORREFRANCA, Verdi contra Verdi, «Rassegna contemporanea», VI,
1913, 21, pp. 353-370: 354, 369, 370. Il concetto di ‘parola scenica’ è di Verdi,
che lo spiega così: «la parola che scolpisce e rende netta ed evidente la
situazione» (lettera ad Antonio Ghislanzoni, 17 agosto 1870, in I copialettere,
cit., p. 641). Vedi anche F. DELLA SETA,“Parola scenica” in Verdi e nella
critica verdiana, in Le parole della musica, I, Studi sulla lingua della
letteratura musicale in onore di Gianfranco Folena, a cura di F. Nicolodi, P.
Trovato, Firenze 1994, pp. 259-286, ora in ID., «... non senza pazzia».
Prospettive sul teatro musicale, Roma 2008, pp. 203-225.19 G. BASTIANELLI, Verdi vecchio o Verdi nuovo?, in ID., Musicisti d’oggi e di
ieri, Milano 1914, pp. 198-202.20 G. RONCAGLIA, Giuseppe Verdi: l’ascensione creatrice dell’arte sua, Napoli
1914, rist. aggiornata Firenze 1940 e 1951.21 Definizione coniata dallo stesso M. Mila (Breve storia della musica, Milano
1946; Torino 19775, p. 419 e ss.) per indicare un gruppo di musicisti italiani,
nati attorno al 1880, invero assai diversi tra loro per poetica e stile musicale:
Franco Alfano, Ottorino Respighi, Ildebrando Pizzetti, Gian Francesco
Malipiero, Alfredo Casella. L’espressione è stata poi utilizzata come categoria
storiografica ed estesa sino a comprendere altri compositori nati in quel
periodo.22 Delle polemiche tra Malipiero, Casella e Pizzetti si è occupata a più riprese
F. NICOLODI: Su alcune querelles dei compositori-critici del Novecento, in La
critica musicale in Italia nella prima metà del Novecento, a cura di M. Capra,
F. Nicolodi, Parma 2011, pp. 31-53: 32-33, e EAD., Mitografia verdiana nel
primo Novecento, cit., pp. 47-49.23 Salvo poi, in alcuni casi, ritrattare le proprie opinioni negli anni successivi: è
il caso di Francesco Balilla Pratella e dello stesso Casella (F.
NICOLODI, Mitografia verdiana nel primo Novecento, cit., pp. 45-50).24 Discorso del 4 aprile 1921 a Ferrara, vedi: A.M. BANTI, Sublime madre
nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Bari 2011, pp. 154,
156. Sui rapporti tra musica e fascismo: F. NICOLODI, Musica e musicisti nel
ventennio fascista, Fiesole 1984. Sulla strumentalizzazione di Verdi:
EAD., Mitografia verdiana nel primo Novecento, cit., pp. 51-52.25 Di ‘disaccordo’ parla L. PESTALOZZA (introduzione a La Rassegna musicale.
Antologia, a cura di L. Pestalozza, Milano 1966, pp. IX-CLXXXVIII: XIII),
nell’evidenziare come fosse difficile sopravvivere durante il regime senza
risentire di un certo condizionamento, sebbene il periodico avesse ripudiato
chiaramente l’ingerenza autoritaria della politica nelle cose musicali.26 A. DELLA CORTE, Le opere di Giuseppe Verdi (Aida; Otello;
Falstaff). Falstaff, Milano 1925, p. 71.27 G. PANNAIN, L’opera italiana dell’Ottocento, «Il pianoforte», VIII, 1927, 5-6,
pp. 166-174: 169.28 Ibid., pp. 171 e 172.29 A. PARENTE, Note sull’estetica musicale contemporanea in Italia, I e II, «La
Rassegna musicale», III, 1930, 4, pp. 289-310: 293-294; IV, 1931, 3, pp. 137-
151: 145.30 Seppure in forma interrogativa, A. PARENTE (Note sull’estetica musicale
contemporanea in Italia, cit., III, 1930, p. 307) scriveva: «Ma l’essenza del
melodramma non potrebbe esser trovata in quell’unità indissolubile in cui
sempre elemento verbale e musicale si presentano fusi nella parola, nel
discorso e, via via, in quel più concitato ed esaltato discorso che è il canto?». P.
Bekker pubblicò più tardi la sua teoria delle voci quale volano musicale della
drammaturgia verdiana: Wandlungen der Oper, Zürich-Leipzig 1934.31 B. BARILLI, Il paese del melodramma, Lanciano 1929, p. 104.32 A. ALBERTI, Verdi intimo. Carteggio di Giuseppe Verdi con il conte
Opprandino Arrivabene (1881-1886), Milano 1931; C. GATTI, Verdi, 2 voll.,
Milano 1931.33 M. MILA, Il concetto di musica drammatica, «La Rassegna musicale», IV,
1931, 2, pp. 98-106 (anche in ID., Il melodramma di Verdi, Bari 1933; rist.
Milano 1960, pp. 5-21); ID., Recenti studi verdiani, «La Rassegna musicale»,
IV, 1931, 5, pp. 272-281; ID.,L’equivoco della rinascita verdiana, «Pegaso»,
1932, 2, pp. 200-207 (poi in ID., Cent’anni di musica moderna, Milano 1944,
pp. 145-156, rist. Torino 1981, e in L’opera italiana in musica, Milano 1965, pp.
91-101).34 I primi scritti di Mila erano usciti nel 1928 (vedi qui nota 65). Ne «La
Rassegna musicale» egli successe come redattore a Luigi Ronga.35 È stato osservato che il processo di lavoro del critico si svolgeva «per
accumulo, quasi mai per sottrazione», in una sorta di «irremeabilità» del testo
scritto, propria della sua concezione poetico-critica: P. GELLI, I due Verdi di
Massimo Mila, introduzione a M. MILA, Verdi, a cura di P. Gelli, Milano 2000
(20132), pp. VII-XXII: XII. In merito all’invio della tesi a Croce, Ginzburg, che
intratteneva rapporti epistolari con il filosofo, volle procurare all’amico
musicologo «una lieta sorpresa» (lettera del 23 novembre 1932, in L.
GINZBURG, Lettere a Benedetto Croce, «Il ponte», XXIII, 1977, 10, pp. 1153-
1183: 1164-1165).36 M. MILA, Il melodramma di Verdi, cit., p. 8.37 Ibid., p. 9.38 Ibid., pp. 10-11.39 Ibid., p. 13.40 Ibid., p. 17. L’affermazione è significativa, ché anticipa la poetica critica del
‘caso per caso’, cifra di Fedele d’Amico: si veda il suo I casi della musica,
Milano 1962.41 Rispettivamente: M. MILA, Il melodramma di Verdi, cit., p. 19, e ID., Il
concetto di musica drammatica, cit., p. 105.42 B. BARILLI, Il paese del melodramma, cit.43 M. MILA, L’equivoco della rinascita verdiana, cit., 1944, p. 150.44 Ibid., p. 153.45 Ibid., pp. 151 e 154.46 Ibid., p. 154 e ss.47 Ibid., p. 156.
48 L. VENTURI, Il gusto dei primitivi, Bologna 1926. Mila si legò a Venturi nella
vivissima atmosfera artistica e culturale torinese, mecenate della quale fu
l’imprenditore Riccardo Gualino. Questi (oltre al Teatro di Torino e a «La
Rassegna musicale») finanziò la scuola creata da Felice Casorati, della quale
Venturi fu referente teorico, scuola da cui nacque il gruppo dei ‘Sei di Torino’.
Il volume menzionato fu il manifesto di una nuova poetica artistica, orientata
verso un primitivismo cólto e non magniloquente, opposto alla retorica
grandiosità fascista. Con questo libro, l’autore tentava di legare la costruzione
teorica di Croce con la diretta esperienza dell’arte figurativa, che al filosofo
mancava. Come Mila, e altri, tentarono di fare con la musica.49 Il melodramma di Verdi, cit., p. 32.50 Ibid., p. 59 e ss.51 Ibid., pp. 69-70.52 A. Parente (Il problema della critica verdiana, «La Rassegna musicale», VI,
luglio 1933, 4, pp. 197-218) salvava però la distinzione di Basevi della
produzione verdiana in due maniere, con la Luisa Miller quale punto di svolta
tra prima e seconda. Mila (Il melodramma di Verdi, cit., pp. 68-69) riporta le
osservazioni di Basevi a proposito di «Stride la vampa!».53 Con F. d’Amico precursore fin dagli anni Quaranta (vedi il suo Limiti della
critica verdiana, cit.). Negli anni Sessanta, Basevi è molto citato da G.
BALDINI, Abitare la battaglia. La storia di Giuseppe Verdi, Milano 1970 (il
volume uscì postumo, a cura di F. d’Amico). M. CONATI, Bibliografia verdiana.
Aspetti, Problemi, criteri per la sistemazione della letteratura verdiana, in Atti
del III Congresso internazionale di Studi verdiani, Parma 1974, pp. 546-563:
560, lo pone al centro del quadro critico ottocentesco. Più tardi, H. POWERS
(“La solita forma” and “The Uses of Conventions”, «Acta Musicologica», LIX,
1987, 1, pp. 65-90) riprende da Basevi la locuzione ‘solita forma dei duetti’ e
ne dimostra il significato di schema regolatore non solo dei duetti ma anche
delle arie e dei finali centrali, fornendo così un contributo fondamentale a una
comprensione tecnicamente e storicamente pertinente del sistema morfologico
dell’opera romantica italiana.54 Tesi poi ripresa da G. GAVAZZENI, Una fase decadentistica nella coscienza
di Verdi: il Don Carlo, in ID. La musica e il teatro, Pisa 1954, pp. 29-38.55 M. MILA, Il melodramma di Verdi, cit., p. 94.56 Ibid. Mila riprende quanto Barilli aveva affermato in Il paese del
melodramma, cit., p. 106 e ss.57 «Copiare il vero può essere una buona cosa, ma inventare il vero è meglio,
molto meglio. Pare vi sia contraddizione in queste tre parole: inventare il vero,
ma domandatelo al Papà. Può darsi che egli, il Papà, si sia trovato con qualche
Falstaff, ma difficilmente avrà trovato uno scellerato così scellerato come Jago,
e mai e poi mai degli angioli come Cordelia, Imogene, Desdemona, ecc., ecc.,
eppure sono tanto veri! Copiare il vero è una bella cosa, ma è fotografia, non
pittura» (lettera a Clara Maffei, 20 ottobre 1876, in I copialettere, cit., p. 624).58 Augusto Monti (1881-1966), a sua volta allievo di Arturo Graf, partecipò alle
battaglie culturali de «La Voce», de «L’Unità» di Gaetano Salvemini e fu tra i
più attivi collaboratori de «La rivoluzione liberale» di Piero Gobetti. Svolse
attività antifascista e nella Resistenza. Fu docente di Mila nel Liceo D’Azeglio
di Torino, dove insegnava Lettere italiane.59 M. MILA, Il melodramma di Verdi, cit., cap. III.60 M. MILA, Augusto Monti educatore e scrittore, «Il Ponte», V, 1949, 8-9, pp.
1136-1148; oggi in ID., Scritti civili, cit., pp. 303-321: 307.61 Che non a caso pubblicò poi una serie di propri scritti con il
titolo L’esperienza musicale e l’estetica, Milano 1950 (rist. con aggiunte 1956).62 Scuola classica e vita moderna (1920) è il libro che Monti pubblicò nelle
edizioni de «La rivoluzione liberale» di Gobetti; questi, nel recensirlo sul
periodico da lui fondato (19 ottobre 1922), definì l’autore: «maestro classico di
vita moderna» (vedi A. MONTI, I miei conti con la scuola. Cronaca scolastica
italiana del secolo XX, Torino 1965, pp. 170-171).63 Il termine ‘gobettismo’ fu coniato da Norberto Bobbio, che con esso precisò
di volersi riferire «a una certa interpretazione della storia d’Italia, in specie del
Risorgimento, a un certo modo d’interpretare il fascismo e di combatterlo, a
una certa concezione della politica, infine a una certa ideologia, quella appunto
che lo stesso Monti chiamò dei ‘liberali rivoluzionari’» (N. BOBBIO, Italia
civile. Ritratti e testimonianze, Firenze 1986, p. 147). L’espressione
‘gobettismo culturale’ è ricorrente in A. D’ORSI, La vita culturale e i gruppi
intellettuali, in Storia di Torino, VIII, Dalla Grande Guerra alla Liberazione
(1915-1945), a cura di N. Tranfaglia, Torino 1998, pp. 538-549, e ID., La
cultura a Torino tra le due guerre, Torino 2000, pp. 84-90. L’idea di ‘religione
della libertà’ è espressa per primo da Gobetti: «La religione della libertà
esclude interessi e calcoli, esige, come efficacemente scrive l’Alfieri, fanatismo
negli iniziatori, e negli iniziati entusiasmo di sincerità, in tutti quell’ardore
completo per cui non c’è soluzione di continuità tra pensiero e azione» (La
filosofia politica di V. Alfieri, in Risorgimento senza eroi, Torino 1926, pp. 157-
246; poi in ID., Scritti storici, letterari, filosofici. Opere complete di Piero
Gobetti, II, a cura di P. Spriano, Torino 1969, p. 128).64 La «confraternita», come lo stesso Mila definì il gruppo dei montiani (M.
MILA,Augusto Monti educatore e scrittore, cit., p. 303 e ss.), comprendeva fra
gli altri: Norberto Bobbio, Leone Ginzburg, Cesare Pavese, Tullio Pinelli, Mario
Sturani, Giulio Carlo Argan, Franco Antonicelli.65 Già nel 1925 Croce aveva pubblicato un Contromanifesto al Manifesto degli
intellettuali fascisti, promosso da Giovanni Gentile, nel quale contro l’attivismo
culturale fascista sosteneva la ‘specialità’ dell’uomo di cultura, cioè la libertà
di pensiero e l’autonomia degli intellettuali dalla politica. Nel porre
l’espressione ‘religione della libertà’ ad apertura della sua Storia d’Europa nel
secolo decimonono (Bari 1932), a proposito delle lotte europee per
l’indipendenza e le libertà dopo la fine dell’avventura napoleonica, Croce
sanciva in modo definitivo il primato teoretico della storia – già affermato con
le sue numerose pubblicazioni storiche degli anni Venti – e rinforzava quello
sguardo alla cultura europea, proprio di Gobetti, che gli antifascisti
opponevano al nazionalismo fascista. Riguardo agli esordi di Mila sul «Baretti»
(1928) e i rapporti con il crocianesimo, vedi ora P. GALLARATI, Gli esordi di
Massimo Mila e il suo rapporto con la critica crociana, in La critica musicale in
Italia, cit., pp. 221-240.66 M. MILA, Attività clandestina di Giustizia e Libertà, in Trent’anni di storia
italiana (1915-1945), prefazione di F. Antonicelli, Torino 1961, p. 203.67 Di ‘antifascismo culturale’ parla O. MAZZOLENI, in Franco Antonicelli.
Cultura e politica 1925-1950, Torino 1998, p. 43. La categoria di ‘antifascismo
esistenziale’ si trova in G. DE LUNA, Donne in oggetto. L’antifascismo nella
società italiana 1922-1939, Torino 1995, pp. 53-55. L’espressione ‘antifascismo
etico’ è almeno in tre libri: O. MAZZOLENI, Franco Antonicelli, cit., p. 37; N.
BOBBIO, Italia fedele. Il mondo di Gobetti, Firenze 1986, p. 159; A. D’ORSI, La
cultura a Torino tra le due guerre, cit., p. 69. Di antifascismo nei termini di
‘non conformismo’, ‘dissenso’, ‘opposizione’, distinto dall’antifascismo politico
propriamente detto, discute B. MANTELLI, Per una definizione della categoria
di antifascismo, in Storia di Torino, VIII, cit., pp. 263-311.68 N. BOBBIO, introduzione a L. GINZBURG, Scritti, Torino 1964; 2000, p. L.69 L’espressione è in G. DE LUNA, Donne in oggetto, cit., p. 25. Sulla cultura
militante torinese, vedi G. BERGOMI, Da Graf a Gobetti. Cinquant’anni di
cultura militante a Torino (1876-1925), Torino 1980, oltre ai citati studi di A.
D’Orsi e G. De Luna. Sulla confluenza dell’educazione alla militanza come
resistenza culturale in un idealismo radicato nell’insegnamento di Monti, dette
testimonianza lo stesso M. MILA, Augusto Monti educatore e scrittore, cit.70 A. PARENTE, Il problema della critica verdiana, cit.71 Con una circolare della Direzione generale per il teatro del Ministero della
Cultura popolare, Mussolini volle che la figura e le opere di Verdi fossero
«messe maggiormente in luce nella vita musicale italiana»: vedi F.
NICOLODI, Mitografia verdiana, cit., p. 69, n. 99.72 Ibid., pp. 61-72, e S. CASTELVECCHI, Verdi per la storia d’Italia, in Verdi
2001, Atti del convegno internazionale, Firenze 2003, pp. 217-221: p. 219 e ss.
La citazione di Pizzetti è da ID., Giuseppe Verdi, «Musica d’oggi», XXIII, 1941,
2, pp. 35-38; sul rapporto di Pizzetti con il fascismo vedi F. NICOLODI, Musica
e musicisti, cit., pp. 185-199, ed EAD.,Mitografia verdiana, cit., pp. 56-60. R.
GIAZOTTO, Popolo e valutazione artistica. L’arte di Verdi in clima fascista,
«Musica d’oggi», XXII, 1940, 8-9, pp. 233-235: 234.
73 M. BONTEMPELLI, Verdi il terrestre, «Nuova Antologia», LXXVI, 1941,
1655, pp. 3-11 (poi in ID., Passione incompiuta: scritti sulla musica, 1910-1950,
Milano-Verona 1958, pp. 275-289).74 M. MILA, “La donna serpente” di Casella, Milano 1942, e anche Falstaff, in
ID., L’arte di Verdi, cit., pp. 236-255: 255. L’opera di Casella risale agli anni
1928-31.75 A. SAVINIO, Il trovatore (1940), in ID., Scatola sonora (Milano 1955), Torino
1977, pp. 140-142; G. ROSSI DORIA, Avviamenti della coltura verdiana in
Italia, «Rivista italiana del dramma», V, 1941, 4, pp. 24-51; L. RONGA, Unità
della musica verdiana, «Le Arti», III, 1941, 4, pp. 263-271, e Difficoltà della
critica verdiana, in Verdi: studi e memorie, cit., pp. 281-287, entrambi raccolti
in ID., Arte e gusto nella musica. Dall’Ars Nova a Debussy, Milano-Napoli
1956, pp. 258-272 e 273-284.76 G. KREUZER, «Erzieher und bannerträger an der Spitze des Volkes».
Aspects of Verdi Reception in the Third Reich, in Verdi 2001, cit., pp. 295-306.77 I. STRAVINSKIJ, Poétique musicale, Cambridge (Mass.) 1942; trad. it.
Pordenone 1984, p. 45. La recezione di Verdi in Stravinskij è studiata da M.
LOCANTO, Obiter dicta: l’immagine di Verdi negli scritti di Stravinskij,
in Verdi reception, cit., pp. 195-216.78 In Musica, I, Firenze 1942, pp. 188-197.79 D. ALDERIGHI, Falstaff, in Verdi: studi e memorie, cit., pp. 73-79.80 M. MILA, Rossini tutta musica (1933), in ID., Cent’anni di musica moderna,
cit., p. 21. L’interpretazione negativa del Romanticismo è ripresa dalla Storia
d’Europa (III cap.) di Croce e si ritrova anche in Romanticismo musicale (1932)
e in Poesia di Wagner (1933), entrambi in M. MILA, Cent’anni di musica
moderna, cit., pp. 69-80 (quest’ultimo, oggi in ID., Brahms e Wagner, a cura di
A. Batisti, Torino 1994, pp. 154-165).81 M. MILA, L’equivoco della rinascita verdiana, cit., p. 149.82 Fu arrestato nel 1935 con l’accusa di cospirazione, per l’adesione a Giustizia
e Libertà – movimento antifascista di orientamento intellettuale – e scarcerato
nel 1940. Dall’8 settembre 1943 fu tra gli organizzatori della Resistenza in
Piemonte, aderendo al Partito d’Azione. Vedi M. MILA, Argomenti
strettamente famigliari. Lettere dal carcere 1935-1940, a cura di P. Soddu,
Torino 1999.83 V. FOA, Il cavallo e la torre. Riflessioni su una vita, Torino 1991, pp. 77-78.84 C. PAVONE, introduzione a M. MILA, Argomenti strettamente famigliari, cit.,
p. XXXVII e ss.85 Nel 1945, la critica di Mila a Croce sul concetto di libertà divenne corrosiva:
«La libertà poltrisce e si guasta alle tepide aurette metastasiane di Salerno»
(M. MILA, Il gusto della libertà, «Giustizia e Libertà», 2 dicembre 1945, oggi in
ID., Scritti civili, cit., pp. 235-238). Sul concetto di libertà, Gramsci precisò:
«“Religione della libertà” significa semplicemente fede nella civiltà moderna,
che non ha bisogno di trascendenze e rivelazioni, ma contiene in se stessa la
propria razionalità e la propria origine. È quindi una formula antimistica e [...]
antireligiosa» (A. GRAMSCI, Lettere dal carcere, Torino 1950, p. 192).86 Oltre che in L’efficacia della cultura, cit., Mila ribadì questo concetto anche
in Valore della cultura (1945), «Minerva», LVII, 1947, 1, pp. 1-3.87 M. MILA, Breve storia della musica, Milano 1946; ed. riv. e ampl. Torino
1963 e 1977 (quest’ultima, con aggiunte sulla musica contemporanea). Le
citazioni sono tratte dall’ed. 1977.88 M. MILA, Verdi come il padre, in ID., Giuseppe Verdi, Bari 1958, pp. 297-
323: 321.89 Ibid., p. 302.90 Ibid., p. 306. In realtà l’interpretazione di De Sanctis sulla nascita del
melodramma era negativa perché questa novità avrebbe posto in secondo
piano la letteratura.91 F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, Milano 1964, pp. 810 e 812.92 M. MILA, Augusto Monti, cit., p. 310.93 M. MILA, Verdi politico, in ID., Giuseppe Verdi, cit., pp. 324-339: 333 (il
saggio era uscito col titolo Verdi als Politiker su «Melos» del marzo 1952).94 I. PIZZETTI, Il Verdi del ’43 e la collaborazione del pubblico, in Giuseppe
Verdi nel primo cinquantenario della morte, a cura della Regione Emilia
Romagna, Bologna 1950, I, pp. 9-12; anche in Giuseppe Verdi maestro di
teatro, «Verdi. Bollettino quadrimestrale dell’Istituto di studi verdiani», I,
1960, 2, pp. 751-766: 760-761.95 I. PIZZETTI, Giuseppe Verdi maestro di teatro, cit., pp. 760-761. Ciò che
l’autore intende per ‘musica drammatica’ è in Musica e dramma, Roma 1945.96 M. MILA, Giuseppe Verdi, cit., p. 199.97 H. BERLIOZ, Musique, in ID., A travers chants, Paris 1971, p. 24.98 M. MILA, Breve storia della musica, cit., p. 269.99 Ibid., p. 270.100 A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, II, a cura di V. Gerratana, Torino 1975,
p. 1136 e ss. Vedi pure M. PIERI, L’Opera come genere nazional-popolare,
in Storia dell’opera italiana, a cura di L. Bianconi, G. Pestelli, Torino 1987-88,
pp. 243-251.101 L’espressione «Torniamo a De Sanctis» fu in realtà coniata da Giovanni
Gentile («Quadrivio», I, 1933, 1, p. 3). Da lui la riprese Gramsci, nella sua
critica a Croce, dandole il significato di assunzione di responsabilità verso la
cultura da parte degli intellettuali, e intendendo la cultura quale ‘concezione
della vita e dell’uomo’, generatrice di un’etica e implicante un nuovo
atteggiamento verso le classi popolari (A. GRAMSCI, Letteratura e vita
nazionale, a cura di V. Gerratana, Torino 20003, pp. 3-4). Come ha messo in
evidenza Rocco Musolino (Gramsci e il metodo della critica letteraria, in
ID. Marxismo ed estetica in Italia, Roma 1963, pp. 27-48), quel ‘ritorno’ non fu
un fatto occasionale o accademico, ma fu dettato da un’esigenza profonda
testimoniata dai Quaderni. Per quanto riguarda l’influenza di queste idee su
Mila, vanno ricordati tre fatti: si parlò di ‘ritorno’, rispetto al predominio del
pensiero crociano; questo ‘ritorno’ si verificò in sede di critica letteraria già
dalla metà degli anni Trenta e attecchì tra gli ‘einaudiani’, tra i quali Mila;
dopo la fine della guerra, proprio Einaudi cominciò a pubblicare le opere di
Gramsci.102 Il dibattito sul realismo si accese in Italia dopo la pubblicazione da Einaudi,
tra il 1950 e il 1953, delle opere di György Lukács: Saggi sul realismo e Il
marxismo e la critica letteraria.103 M. MILA, Verdi minore. Lettura dell’“Alzira”, «Rivista italiana di
musicologia», I, 1966, 2, pp. 246-267; ID., Luisa Miller, vigilia di capolavori,
in XXIX Maggio musicale fiorentino, Firenze 1966, pp. 5-9; ID., Lettura del
“Corsaro” di Verdi, «Nuova rivista musicale italiana», V, 1971, 1, pp. 40-73.104 M. MILA, Les Vêpres siciliennes, Torino 1973; ID., Verdi, in Enciclopedia
dello Spettacolo, IX, Roma 1974, e in Enciclopedia della Musica Rizzoli-Ricordi,
VI, Milano 1975; ID., Lettura dell’“Attila” di Verdi, «Nuova rivista musicale
italiana», XVII, 1983, 2, pp. 247-276.105 Vedi M. MILA, Invito alla filologia musicale (1958), in ID., Cronache
musicali 1955-1959, Torino 1959, pp. 125-129.106 Fra i più recenti, si menziona quello per il centenario della nascita, Verdi
2001, cit.107 M. MILA, L’unità stilistica nell’opera di Verdi, «Nuova rivista musicale
italiana», II, 1968, 1, pp. 62-75.108 L. DALLAPICCOLA, Parole e musica nel melodramma (1961-1969), in
ID., Parole e musica, a cura di F. Nicolodi, Milano 1980, pp. 66-93.109 M. MILA, La dialogizzazione dell’aria nelle opere giovanili di Verdi, Atti del I
Congresso internazionale di studi verdiani, Parma 1966, pp. 222-231; ora
in L’arte di Verdi, cit.110 G. BALDINI, Abitare la battaglia, cit., p. 79. Sulla monografia si veda adesso
F. DELLA SETA, Una teoria dell’opera (2001), in ID., «... non senza pazzia»,
cit., pp. 227-238.111 Ibid.; F. D’AMICO, Note sulla drammaturgia verdiana (1972), in ID., Un
ragazzino all’Augusteo, Torino 1991, pp. 41-58, dove il concetto di ‘dialettica
dell’ascolto’ è desunto da G. Lukács.112 M. MILA, Prefazione a ID., L’arte di Verdi, cit., p. XIII.113 Ibid., pp. 234-235.114 P. GELLI, I due Verdi di Massimo Mila, cit., p. XIII.115 The Cambridge Companion to Verdi, ed. S.L. Balthazar, Cambridge
2004; Giuseppe Verdi und seine Zeit, hrsg. von M. Engelhardt, Laaber
2001; Verdi Handbuch, hrsg. von A. Gerhard, U. Schweikert, Kassel-Stuttgart-
Weimar 2001 (2a ed. riveduta e ampliata 2013);The Cambridge Verdi
Encyclopedia, ed. R. Montemorra Marvin, Cambridge 2013 (in corso di
stampa); R. MELLACE, Con moltissima passione. Ritratto di Giuseppe Verdi,
Roma 2013.116 Tra le pubblicazioni recenti, lo cita con rispetto, ad esempio, F. DELLA
SETA, «... non senza pazzia», cit.117 G. PESTELLI, Il Verdi di Mila, in ID., Di tanti palpiti. Cronache musicali
1972-1986, Pordenone 1986, pp. 63-66.118 Tant’è vero che la raccolta dei suoi scritti sul compositore è stata ristampata
da Rizzoli in occasione del bicentenário.