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Massimiliano Perrella UNO ‘SPOSTATO’ SU DUE RUOTE Diario di viaggio dall’Italia all’Australia

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Massimiliano Perrella

UNO ‘SPOSTATO’ SU DUE RUOTE

Diario di viaggio dall’Italia all’Australia

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Copyright – 2015 Massimiliano Perrella

Tutti i diritti riservati

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Ai miei genitori.

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«Partire è la più bella e coraggiosa

di tutte le azioni.

Una gioia egoistica forse, ma una gioia,

per colui che sa dare valore alla libertà.

Essere soli, senza bisogni, sconosciuti,

stranieri e tuttavia sentirsi a casa ovunque,

e partire alla conquista del mondo.»

Isabelle Eberhardt

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Sommario

Prefazione

Nota dell'autore, attore, attuatore, ideatore, traduttore e viaggiatore.

CAPITOLO 1

Fuorilegge

CAPITOLO 2

8536 km prima

Ora conto solo io

Coccinella

CAPITOLO 3

Una vita fa

CAPITOLO 4

Simbiosi

Bambino

CAPITOLO 5

Non basta

CAPITOLO 6

Azzurro

Affamoto

CAPITOLO 7

Tarlo

CAPITOLO 8

Gigante

Vernice

Sole

Aria frizzante

CAPITOLO 9

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Big Bang

CAPITOLO 10

Paradiso

Luce propria

Prospettiva

CAPITOLO 11

Spostato

CAPITOLO 12

Che fatica!

Qualcosa sta cambiando

Mamma li turchi!

CAPITOLO 13

Sorella e mamma

CAPITOLO 14

Fate addormentate

Sorriso riservato

Prezioso documento

Ci rivedremo

Scommessa

CAPITOLO 15

Pensieri di libertà

CAPITOLO 16

Tartaruga

Piccolo sfogo personale

CAPITOLO 17

Gemelli

CAPITOLO 18

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Farsi da parte

CAPITOLO 19

Solo una convinzione

CAPITOLO 20

Un altro pianeta

Andatura

Routine

CAPITOLO 21

Australia Twin

CAPITOLO 22

Non capisco

Una vita migliore

Astratto

CAPITOLO 23

Sotto il vestito

CAPITOLO 24

Casualmente

CAPITOLO 25

La famiglia è la famiglia

CAPITOLO 26

Bello esser re

Volare

CAPITOLO 27

Dubbi

CAPITOLO 28

Equilibrio

Noce

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Biglietto da visita

CAPITOLO 29

Sempre più Australia, un po' meno 'Twin'

CAPITOLO 30

Non familiarizzare

Tornare a casa?

CAPITOLO 31

Punto di non ritorno

CAPITOLO 32

Celebrità

Profumo

CAPITOLO 33

Grattacapi

CAPITOLO 34

Zio

Solo

Sono una spia!

Tricolore messo male

CAPITOLO 35

Quasi più nulla

CAPITOLO 36

Camerata

Scaduto

Inchiostro blu

Sovversivo

CAPITOLO 37

Grigio

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Un pezzo di carta

Abisso

Divise

Anticamera

CAPITOLO 38

Anestetizzato

Via la corazza

Inversamente proporzionale

Ispirazione

Una valigia

5 dicembre: meno nove giorni alla scadenza del visto.

CAPITOLO 39

6 dicembre: meno otto giorni alla scadenza del visto.

7 dicembre: meno sette giorni alla scadenza del visto.

8 dicembre: meno sei giorni alla scadenza del visto.

9 dicembre: meno cinque giorni alla scadenza del visto.

CAPITOLO 40

10 dicembre: meno cinque giorni alla scadenza del visto.

11 dicembre: meno quattro giorni alla scadenza del visto.

12 dicembre: meno tre giorni alla scadenza del visto.

CAPITOLO 41

Intermezzo (poco piacevole)

13 dicembre: penultimo giorno di validità del visto.

CAPITOLO 42

A piedi

Apnea

14 dicembre: ultimo giorno di validità del visto.

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CAPITOLO 43

Ore 8:15

Ore 12:00

Ore 15:00

Ore 17:05

CAPITOLO 44

Nuova dimensione

Leggerezza

Mare

CAPITOLO 45

Cinque minuti fa

Unione perfetta

Luminose ragioni

Domande importanti

CAPITOLO 46

Gli angeli esistono

Sorellina minore

Bambino

Albero

Qualcosa di magico

CAPITOLO 47

Guscio

Fragole

Guerriero

Raggiante

Nuvola

CAPITOLO 48

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Frustata

Più 'più'

Comandamento

Sinusoide

CAPITOLO 49

Sfumature di rosso

Ideale

Come un bambino

Duello

Di nuovo a destra

Fuori posto

CAPITOLO 50

Bolla di sapone

Spettinato e sorridente

La retta via

Bambolina

Profumo di serenità

CAPITOLO 51

Rapito

A mollo

Tenebre

Marziano

CAPITOLO 52

Ciecamente

Tempo?

Estremi

CAPITOLO 53

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Coerente

Lettere del 13 luglio

Anni luce

Sauna

CAPITOLO 54

(Dis)soluzione

Una mela a testa

Scorci genuini

Leggero

CAPITOLO 55

Magia

Intralcio

Grazie!

Riverenza

CAPITOLO 56

Folle?

Romantico viaggiatore

Lettera a me stesso

Dipendenza

CAPITOLO 57

La mia nazione

Va benissimo così

Raziocinio

Rito di passaggio

Lezione

Stabilito

Fiume di emozioni

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A mezz'aria

CAPITOLO 58

D7 236

Dall'altra parte del mondo

Torpore emozionale

Sala d'aspetto

Clandestini

Buona strada!

CAPITOLO 59

Sempre vicino a me

Buona stella

Highway to Hell

54

Sorgenti

CAPITOLO 60

Speranza

Ogni singolo istante

Ricomincio da qui...

Ringraziamenti

Postfazione

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Prefazione

Massimiliano ci aiuta a ri-scoprire l’essenza del viaggio.

Al giorno d’oggi, andare da A a B è diventato molto –forse troppo– facile, consentendo un

po’ a tutti noi di auto-proclamarci 'viaggiatori'. Tuttavia, per questo stesso motivo, andare da

A a B è ormai una questione puramente logistica, un mero spostamento. Forse non siamo così

temerari come crediamo, anche se prendere un aereo è diventata quasi una consuetudine nelle

nostre vite. O forse proprio per quello.

Ci vuole ben altro coraggio, introspezione ed abilità per andare non solo da A a B, ma da A a

Z –via terra– riscoprendo antiche rotte di trasporto intercontinentali come ha fatto

Massimiliano e come questo libro documenta in modo soggettivo ed evocativo. Lasciandosi

tutto dietro le spalle, abbandonando quelle strutture mentali e materiali di cui ci armiamo per

affrontare la vita di tutti i giorni; e partendo per un lungo, lunghissimo viaggio, la cui meta in

fondo è più interiore che fisica.

È nella meticolosa documentazione di questo processo che io trovo l’avventura di

Massimiliano assolutamente avvincente, perché risonante con i pensieri di tanti altri, con

fantasie a volte anche da me coltivate in segreto, ma senza mai un seguito.

In quest’epoca moderna senza eroi, questo libro racconta la storia di un ragazzo di provincia,

in un’epopea che ha già coinvolto e trascinato decine di migliaia di persone a lui prima

sconosciute. Oggi diventato un esempio in grado di ispirare e di far sognare, superando le

proprie stesse aspettative; e, di fatto, realizzando un’ambizione di cui lui stesso forse non era

consapevole, prima della partenza.

Nei suoi due anni di avventura globale lo abbiamo seguito in molti, come tanti fedeli

ammiratori: tramite il suo diario online, le foto del blog sempre diverse, la tecnologia del

GPS sulla sua moto a noi visibile come una cartina con questo pallino blu perennemente in

moto, verso luoghi sempre nuovi e remoti. E mano a mano che la sequenza di Paesi ed

avventure si avvicendavano, la comunità di lettori si è sviluppata, fino a diventare un vero e

proprio movimento mediatico.

Per me, nello specifico, Massimiliano è sempre stato come un fratello. Figlio unico di una

madre con quattro sorelle, mi sono ritrovato ad avere tanti cugini con cui crescere, piuttosto

che fratelli o sorelle in casa. Ma essendo mia madre l’ultima della sua generazione, i tanti

figli delle sue sorelle erano tutti più grandi di me, e quindi cugini 'maggiori', di molti anni.

Massimiliano è il 'minore', il più piccolo e anche l’unico nato dopo di me nella nostra schiera

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di cugini. Essendo quasi coetanei, i due più giovani all’interno di un grande gruppo di cugini

più maturi, abbiamo quindi da sempre avuto un rapporto speciale.

Quando mi ha confidato in gran segreto questa matta idea per la prima volta, io l’ho subito

appoggiato. Anzi, abbiamo immediatamente fantasticato assieme che, se mai avesse

completato la sua avventura, e l’avesse documentata in un libro, io avrei contribuito con una

introduzione. Negli ultimi tre anni non ho mai avuto dubbi che mi sarei trovato ad onorare

questa promessa: ho sempre saputo che Massimiliano avrebbe pienamente raggiunto entrambi

gli obiettivi.

Oggi questo cugino 'minore' è diventato la persona pubblica della famiglia, ammirato da tutti,

un novello pellegrino di una generazione di giovani lavoratori cresciuti in un contesto di

rapido cambiamento. Facendo qualcosa di quasi normale, in tante altre parti del mondo,

Massimiliano ha esposto il nostro vizio di lamentarci sempre di tutto senza fare nulla al

riguardo; lui ha invece rivolto le sue energie a un obiettivo produttivo: cogliere le tante

meravigliose occasioni che il mondo sa offrirci.

Questo non vuol dire abbandonare l’Italia o necessariamente muoversi in senso fisico come

ha fatto lui. Sono convinto che l’essenza della sua storia sia nella capacità di cambiare la

propria prospettiva del mondo, cercare un punto di vista nuovo e creare delle condizioni in

grado di nutrire e far crescere questa diversa, unica, propria prospettiva.

Nel puntare all’Australia, Massimiliano ha soprattutto scardinato il suo mostro interiore di

vivere sicuro ma poco soddisfatto, di lamentarsi di quanto ci circonda senza fare niente per

cambiare, di accettare di vivere la vita che qualcun altro ha disegnato invece di prendere le

proprie decisioni per sé. Vivendo questo travaglio interiore assieme a lui possiamo imparare

tanto, anche solo leggendo, comodamente seduti sul divano di casa.

Oltre che godere delle mille e una avventura narrate nel libro, oltre a scoprire i luoghi del

viaggio e, oltre a rivivere i fatti straordinari e a volte incredibili che sono capitati a

Massimiliano, mi auguro che la lettura di queste pagine possa ispirare tanti altri a ri-scoprire

l’essenza del viaggio, mentale e materiale. Così come è successo a me leggendo le sue

pagine.

Un po’ come l’eco che moltiplica la propria voce, Massimiliano con queste pagine consegna a

noi un’eredità e una testimonianza di grande forza narrativa. E, se sapremo leggere le sue

parole trascendendo dal loro significato letterale, allora il suo viaggio avrà avuto un senso, e

ne sarà valsa veramente la pena.

Fabrizio Fantini

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Nota dell'autore, attore, attuatore, ideatore, traduttore e viaggiatore.

Questo non è solo un libro, ma un vero ed autentico diario di viaggio. È la raccolta di pensieri

e scoperte che, giorno dopo giorno, pagina dopo pagina e chilometro dopo chilometro hanno

costellato l'esperienza più sensazionale che io abbia mai potuto desiderare di vivere in tutta la

mia vita.

Ma non è un mero viaggio nello spazio: in esso mi sono perso e ritrovato, scandagliando il

profondo della mia anima, accompagnato da vecchi desideri e convinzioni nuove, alla

scoperta di cosa anima questo pazzo e meraviglioso mondo che ci ospita.

Tutti gli episodi, gli incontri e le emozioni narrate in queste pagine sono autentici; per rispetto

della privacy ho cambiato solo i nomi delle fantastiche persone che ho avuto il privilegio di

incontrare nel corso del mio cammino.

Allacciati il casco e buona lettura.

Miano

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CAPITOLO 1

Fuorilegge

Ci sono riusciti, mi hanno preso. Ce ne hanno messo di tempo, ma alla fine ce l'hanno fatta.

Sono riuscito a non farmi acciuffare per ben centoquattro giorni. A nulla è valso spostarmi di

continuo, nascondermi e scappare.

Il filo del cappuccio della mia felpa viene rimosso, il laccio della mia collanina tagliato.

Una fredda manetta viene fissata al mio polso destro e vengo tirato come un animale da

cortile. Si aprono le porte automatiche dell'aeroporto: fuori è nuvoloso e fa freddo, poche

persone discutono con parole di una lingua che non comprendo. Infilo il cappuccio per

coprirmi la testa dal vento, non per nascondere la mia fisionomia. Cammino con lo sguardo

nel vuoto e dinanzi a me ho solo un ometto armato di pistola e distintivo che mi indica la via.

Ogni tre passi si volta a guardarmi per controllare che io non stia progettando di scappare.

Nella sua tasca le chiavi della mia libertà ed il mio passaporto. Sebbene sia più basso di me,

in questo preciso momento ha il controllo della mia intera esistenza; potrei provare a

liberarmi con la forza, ma sarebbe troppo rischioso. In più c'è un altro problema: la forza mi

viene a mancare. Stanno vincendo loro.

Vengo incatenato alla maniglia della portiera, ma con la gentilezza di una stretta non

troppo incomoda. Il polso ne beneficia, la mente no: mi stanno riportando in città. Ora

capisco: i lacci della felpa e della collanina avrebbero potuto aiutarmi nello strangolare il

conducente durante la mia deportazione. Io che non ho fatto del male a nessuno, sono però

colpevole del reato più grande: non accettare il sistema. Quello stesso sistema che mi ha

inseguito e braccato per più di tre mesi, reclamando vendetta. Missione compiuta: il fuggitivo

è stato catturato, il suo folle progetto smascherato.

Cosa mi attende adesso non lo so. La prigione? La tortura? Rivedrò mai la mia bella? Ma

pensare ora non serve. Mi attendono sessanta chilometri di autostrada buia, verso le

profondità oscure di una città bagnata da pioggia acida. In questo abitacolo che odora di

stantio e di prigionia, gli occhi si chiudono dinanzi all'inevitabile destino.

Sto diventando duro come la pietra, insensibile come piace a loro. Vogliono piegarmi,

vincermi, spezzarmi. Sono ad un passo dal riuscirci.

Ma non immaginano quanto io sia determinato a farli cadere.

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CAPITOLO 2

8536 km prima

Termoli, Italia.

Ore 7:54.

Mi sveglio dopo tre o forse quattro ore di sonno completamente rintronato. Mi sembra la

solita mattina sonnolenta d'estate, in cui non ho la minima voglia di sollevare la faccia dal

cuscino. Invece devo finire di sistemare i bagagli e partire per la mia impresa. Sono sicuro

che non stia ancora sognando?

Svogliatamente tiro fuori la moto dal garage e la parcheggio sotto casa. Faccio avanti e

indietro con le ultime borse e posiziono gli pneumatici nuovi sopra il bauletto. Ne viene fuori

un'aberrazione motociclistica: la mia moto sembra un carro da buoi! Carico acqua come se

dovessi addentrarmi nel deserto in poche ore, sebbene la mia prima tappa sia a poche

centinaia di chilometri. Indosso pantaloni e stivali (decisamente troppo caldi vista la

temperatura odierna) quasi inconsciamente e mi ritrovo stordito ad abbracciare i miei parenti

prima del grande passo.

Stringo a me tutti con indosso una maglietta che per me rappresenta tanto, riportante la

dicitura: «I am spostato». Nessuno dei visi presenti ha un'espressione triste e questo mi

rincuora. Non sto partendo per la guerra: sono diretto verso una vita nuova e vorrei che le

persone intorno a me gioissero di questa mia rinascita. Difficile descrivere le sensazioni che

provo: sembra abbia caricato i bagagli per un fine settimana fuori porta e non mi rendo

assolutamente conto che riabbraccerò queste persone, la mia famiglia e i miei affetti fra

chissà quanto tempo. Guardo i miei nipotini e penso a quanto saranno cresciuti quando li

rivedrò. Non voglio dire che sono in uno stato di trance, ma quasi.

Metto il casco, ultimi abbracci ed inserisco la prima accompagnato da un applauso

d'incoraggiamento. La moto è veramente pesante, ma devo apparire disinvolto: che figura

farei a muovermi goffo ed impacciato, appena sotto casa? Freccia a sinistra, entro in corsia e

mi volto a salutare tutti. Ancora. L'ultimo sguardo che rivolgo loro è dallo specchietto

sinistro, mentre li vedo rimpicciolirsi. Mi sforzerò di ricordarli così: mai lontani, ma

semplicemente piccoli, in tal modo sarà più facile portarli con me. Ma ecco che accade ciò

che non mi sarei mai aspettato. Non ho fatto nemmeno cento metri che una ruga grande

quanto la mia faccia mi investe, deformandomi il viso. Inizio a singhiozzare. Ho tenuto duro

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per più di un anno di preparativi, tribolazioni, preoccupazioni, scelte difficili, infiniti pensieri

e mi sono dimostrato fermo, convinto e determinato. Non ho mai mostrato segni di cedimento

o di insicurezza, non potevo permettermelo. Adesso che sono in marcia, finalmente la mia

maschera cade a terra, fragorosamente. Mi sforzo di trattenermi, ma il mio corpo ora

rivendica la sua valvola di sfogo. Tutto il mio volto è contratto e devo rallentare perché non

vedo quasi più la strada.

È questo il momento in cui mi rendo conto di ciò che realmente sto facendo. Sono partito

già tante volte nel corso della mia vita, ma ogni volta sapevo di avere un posto verso cui fare

ritorno alla fine del mio viaggio. Ora sto procedendo verso un luogo che non conosco. Penso

ancora alla mia famiglia: senza di loro nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile. Sono appena

partito e già mi mancano, ma ho un'unica certezza: non ci sarà momento in cui non li porterò

con me. Sono praticamente dinanzi casa e già vengo investito da tutti questi pensieri, come

devo interpretare questo inizio? Sono così scosso che supero i confini della città ancora

incredulo e stralunato. Ho un turbine di pensieri in testa e non so se sia un buon segno, ma

ora non è tempo di ragionare, devo solo impegnarmi a governare il pachiderma che ho sotto il

sedere e condurci verso la prima tappa del nostro viaggio. Non ho neanche lontanamente idea

di dove sia l'Australia. Adesso l'asfalto scorre veloce sotto le ruote e questo mi deve bastare.

Messaggio del 9 agosto

«Ho letto del tuo viaggio online e sono rimasto stupito, considera che ho

una gran passione per le moto. È emozionante sapere che esistono ancora

persone in grado di affrontare viaggi come il tuo, un grosso “In bocca al

lupo!” Pochi capiscono certe avventure, davvero, se non ti da fastidio ti

terrò compagnia durante il tuo incredibile viaggio. Mi farebbe piacere darti

un piccolo supporto anche se via internet. Poi il viaggio in sé è un qualcosa

di inimmaginabile, non ti conosco ma ho una gran stima di te quindi: vai

avanti, tieni duro, prudenza sempre, sei l'orgoglio degli italiani.

Francesco.»

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Ora conto solo io

Prima tappa obbligata del mio cammino è Perugia: unico inquilino dell’abitazione del mio

amico d'università, Alberto, che è a casa a godersi le vacanze. Entro in una struttura vuota e

silenziosa, assaporandone la solitudine. Libero la moto dai suoi bagagli e li stendo tutti sul

pavimento, prima di ripartire dovrò sistemarli al meglio: durante il tragitto il bilanciamento

non era ottimale. Inoltre gli pneumatici nuovi, posizionati su bauletto e borsa da sella, ad ogni

frenata finivano con l'appoggiarsi alla mia schiena; l’idea era di montarli e portarmi dietro i

vecchi come riserva, ma la scarto categoricamente: monterò le coperture nuove e tanti saluti.

Me la vedrò domani con la disposizione dei bagagli, ora non ne ho voglia.

Mi concedo una doccia ristoratrice dopo la calura odierna ed i trecentocinquanta

chilometri appena percorsi. Mi abbandono al getto d’acqua con un peso sulla testa che non so

spiegare: è andato tutto bene, ho completato la mia prima tappa, ho schivato un temporale

senza prendere una goccia di pioggia, mi sento bene e finalmente sono in viaggio! Dovrei

esser raggiante, eppure...

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L'acqua calda accarezza la mia pelle e scorre lungo il mio corpo, ma io inizio a tremare.

Alzo la temperatura, ma non serve: sembra che il mio trepidare sia di ben altra natura. È

come se stessi lavando via tutti pensieri, le ansie, le paure e lo stress che ho vissuto sino a

questo momento. Ma non è cosa facile. Giugno 2010 - agosto 2011: più di quattordici mesi di

gestazione del progetto mi hanno visto protagonista di battaglie di ogni tipo, anche interiori.

Non ho mai avuto ripensamenti su quel che stavo facendo, ma non significa che non abbia

dovuto lottare anche con me stesso per superare le difficoltà che via via si manifestavano.

Incognite e paure mi hanno fatto costantemente compagnia, durante ogni singolo giorno sino

a ieri. E forse anche oggi. Una lunghissima esperienza di sopportazione a dir poco sfibrante.

Inoltre: trattandosi del mio primo viaggio di tale entità, mi sento ancora attanagliato da dubbi

ed insicurezze. Non sarei qui se non avessi avuto fiducia nella mia determinazione, unita alla

consapevolezza di aver lavorato bene ed esser preparato ad affrontare anche gli imprevisti.

Meno male che i miei genitori mi hanno dato la testa dura che porto sulle spalle. Ma ora?

Cosa sta accadendo in questo spazio angusto, umido ed incolore comunemente chiamato box

doccia?

Tremo. E non accenno a smettere. Tutte le paure e le ansie che mi hanno bersagliato nel

corso di questi mesi non mi hanno mai sopraffatto, ma ora si stanno nutrendo di questo mio

momento di debolezza e stanno prevalendo. Vogliono la loro rivincita. Tremo. Sempre di più.

Butto la testa sotto il getto d'acqua e chiudo gli occhi, respirando lentamente e profondamente

con il naso. Cerco di coprire suoni e pensieri con l'acqua purificatrice e ristoratrice, ma non

funziona. Sono in balia dei miei nervi e dei miei pensieri più reconditi. Un'esperienza poco

piacevole. Per la prima volta ho paura. Una paura fottuta di fallire, di farmi male, di andare

incontro all'ignoto e di aver fatto una cazzata enorme. Andare in Australia? Ma se non riesco

neppure a realizzare quanto sia lontana! Mi attendono strade, frontiere, valichi, genti e,

soprattutto, l'ignoto. Tutto questo non contava sino ad una manciata di minuti fa, ma ora mi

sta franando addosso. Mille pensieri mi attraversano come onde elettromagnetiche e in

quest'orgia di angoscia, ansia ed inquietudine mi si paventa l'idea di mollare tutto e tornare a

casa. Con la coda fra le gambe. Ho fatto appena trecentocinquanta chilometri, ne volevo fare

ventimila! Sono forse pazzo? Che sia veramente 'spostato'?

L'acqua scorre lenta lungo tutto il mio corpo, nel disperato tentativo di lavarmi dallo

sporco delle mie paure. Lotto per restare in piedi: non posso e non voglio mollare proprio

adesso. Non contemplo l'idea del fallimento: ho sempre portato a termine ogni mio proposito,

figuriamoci se getto la spugna proprio ora! Almeno questo è quel che dice la mia parte

conscia. Il mio subconscio, invece, si fa letteralmente beffe di me. È tempo di lottare. Ancora.

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Come in un incontro di boxe immaginario, fronteggio un avversario che si dimostra ben

più poderoso di me: il suo impeto è tale che subisco, vacillo e rischio più volte il knok-out.

Tengo duro, ma non è facile per niente. Incasso colpi sempre più diretti e sempre più precisi,

così capisco che la mia unica possibilità è di lasciar sfogare il mio rivale nel suo affannato

tentativo di prendere il sopravvento. Il mio amore per la famiglia, il mio senso di

responsabilità, i miei sogni ed i miei ideali si stanno rivoltando contro di me. Il mio

avversario è un nemico celato nella mia mente. Non ha volto né odore, ma la sua presenza

l'avverto benissimo. Ad occhi chiusi cerco nel fondo della mia anima: avvolto nell’oscurità,

eccolo là il mio antagonista. È un vortice di pensieri e paure, un turbine che emana ansia e

disperazione. Non ci siamo mai visti faccia a faccia prima d'ora, il vigliacco ha sempre

nascosto la sua vera natura, limitandosi a velate manifestazioni della sua presenza. Eppure, so

chi è: la mia nemesi, la parte più nera di me. Subisco i suoi attacchi, ancora ed ancora. Sono

percosse terribili che mi scuotono nel profondo, a cui resisto con vistose oscillazioni. Ma

colpo dopo colpo sento che la sua foga inizia a decrescere. La forza dei suoi diretti

diminuisce, i ganci diventano lenti ed imprecisi, lo sento respirare affannosamente. Come un

cataclisma, ha sfruttato la sua furia dirompente in una manciata di minuti, giocandosi il tutto

per tutto. E rischiando di vincere, peraltro.

Dal canto mio ho tenuto duro come ho potuto e sono stato ad un soffio dall'andare a

tappeto, aggrappato con tutte le mie forze ai ricordi, ai pensieri e alle motivazioni che mi

hanno aiutato nei momenti duri sin qui vissuti. Finalmente stiamo avendo la meglio. Il

nemico rallenta, scalpita, lancia un ultimo attacco, ma in lui aumentano stanchezza e

sconforto. Riacquisto finalmente le mie forze: ora tocca a me contrattaccare! Ecco che gli

occhi neri del mio avversario cambiano espressione e si intravede un filo di insicurezza, che

si tramuta in sconcerto, infine in smarrimento. È ormai esausto e scoraggiato. Questa

manifestazione tetra si è ingigantita a dismisura e, come una supernova, ora sta collassando

su sé stessa. Il gigante diventa sempre più piccolo, il buio che ha creato dentro di me sta

franando su di lui, riducendo la sua massa ad un puntino nero. Lo vedo sparire, precipitare su

di sé, mentre mi lancia un'ultima occhiata disperata.

Ho vinto la mia sfida, sono sopravvissuto a questo scontro interiore, assolutamente non

preventivato, il cui esito poteva esser catastrofico. Lentamente riesco a bilanciare le residue

emozioni negative con pensieri cristallini. Non tremo più, ma lo shock è stato forte. Profonde

espirazioni mi aiutano a fare un po' di vuoto in me, tranquillizzandomi. Piano, lentamente, il

battito si fa più regolare e le membra smettono di vacillare. Mi sento di nuovo limpido e

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fermo, aumenta la consapevolezza di dove sono e, finalmente, riacquisto padronanza della

mia mente, dopo che è stata strizzata e rigirata come un calzino.

Quattordici mesi di emozioni, tutte in una doccia. Sento l'entusiasmo riaffacciarsi e

crescere, la fiamma della passione brilla luminosa ogni secondo di più: è come avere un

incendio in me. Acqua fuori, fuoco dentro: la dicotomia per eccellenza. Purificato, sono

finalmente pronto a brillare di luce e dar sfogo alle mie passioni e alla mia voglia di vivere.

Ho svuotato la mia anima, rischiato di perderla e di perdermi, ma ora la sto ravvivando con

questo ardore, libero ed inarrestabile. Il mio corpo non ha più freddo, la mia mente non ha più

paura. Ho fatto i conti con il lato più oscuro del mio subconscio e ho avuto la meglio. Non fa

nulla se la mia rotta ed il mio proposito sono folli o sconclusionati. Non m'importa più niente

del mondo materiale che mi circonda. Ora è una questione personale fra me e me. Non

contano più neppure il tempo, lo spazio e le mille varianti che li circondano. Ora conto solo

io.

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Coccinella

È un sole nuovo quello che accarezza il mio volto. Conduco la mia Africa Twin in officina

per gli ultimi lavori e le ultime modifiche: filtri nuovi ed olio fresco, coperture incerate,

lampadine più potenti e faretto supplementare. I meccanici conoscono già la mia compagna e

mi danno qualche suggerimento per il viaggio: mi mostrano come sostituire le camere d'aria

ed aggirare la pompa della benzina per far affluire il carburante dal serbatoio direttamente nei

carburatori in caso di guasto. Proprio la pompa della benzina ed il regolatore di tensione sono

i talloni d'Achille di questa moto; così decido di sostituire la prima con una nuova ed un

regolatore di scorta entra a far parte del mio bagaglio. Con quel che costano sarei potuto

andare in villeggiatura per una settimana, ma per dormire sonni tranquilli ed avere la moto al

massimo dell'affidabilità non posso fare altrimenti. Farne a meno significherebbe accettare il

rischio di restare a piedi chissà dove; ora invece siamo entrambi pronti, al massimo delle

nostre possibilità.

Finita la giornata dedicata alla manutenzione della mia bella, l'indomani è dedicato al

Carnet de Passages: si tratta di un documento (una sorta di passaporto per i mezzi) che

consente l’importazione temporanea dei veicoli. Avendone uno, posso far entrare ed uscire il

mio mezzo dal Paese che ho raggiunto senza dover sostenere costi doganali. Ciò si rende

addirittura necessario per l'attraversamento di alcune nazioni al di fuori dall'Unione Europea.

La premessa di base di tale documento è che: il veicolo entrato nel Paese lo fa in via

prettamente temporanea ed una fideiussione copre il valore del mezzo stesso nel qual caso

non esca più dai confini nazionali. Dopo settimane di tribolazioni per ottenerne uno,

concentrato sui lavori alla moto quasi mi sto dimenticando di andarlo a ritirare presso gli

uffici competenti. Tocca poi alla sistemazione dei bagagli e finalmente finisco la mia giornata

abbandonandomi ad un sonno profondo. È quel che mi ci vuole: tutto quanto fatto in questi

due giorni completa finalmente i programmi che porto avanti da mesi ed esser finalmente

pronto a dispiegare le ali mi dà un bel senso di liberazione.

Una coccinella portafortuna è il regalo del buon Alberto: la lego al geolocalizzatore

satellitare che mi porto dietro, sperando funzioni. Domani mi attendono un po' di chilometri

in cui dovrò stare molto attento: ancora non mi sento completamente padrone della moto e

tutti i bagagli che mi porto dietro mi rendono ancora meno sciolto alla guida. Ma ne ho di

strada per fare pratica.

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CAPITOLO 3

Una vita fa

La mia vita prima di concepire questo viaggio era ben diversa. Dopo cinque anni di università

a Perugia (dove mi trovo ora) ed aver ottenuto l'agognata laurea, mi ero ritrovato a fare solo

lavoretti occasionali e nulla di attinente il mio percorso di studi. Era nata così la decisione di

proseguire la specializzazione con un corso post lauream culminato in tre mesi di stage a

Pescara. Settore? Per puro caso quello della gestione dei centri commerciali.

Nella città abruzzese avevo imparato i fondamentali di questo complesso lavoro e dopo i

primi tre mesi di stage ne trascorsi altrettanti ad Ascoli Piceno. Qui, dopo aver guadagnato un

buon bagaglio di esperienza, avevo cominciato a sperare in un'assunzione che fortunatamente

si concretizzò! Prossima tappa: Livorno, contratto a tempo determinato come assistente. Era

l'inizio di una nuova esperienza ed io mi sentivo bello carico e con tanta voglia di fare. Avevo

imparato tanto anche qui e gli otto mesi erano trascorsi con il duro lavoro, ma con tante

soddisfazioni soprattutto personali, con grandi amici e con una persona eccezionale, la mia

compagna Livia. Finalmente potevo togliermi qualche sfizio rimandato durante i lunghi anni

dell'università, fare esperienze nuove e condividere momenti speciali assieme ad una ragazza

dolcissima ed affettuosa. Ma per restare in azienda avrei dovuto accettare un nuovo incarico

che mi avrebbe portato lontano dai miei nuovi amici e dalla mia compagna: destinazione

Colleferro, in provincia di Roma.

Impossibile rifiutare un contratto a tempo indeterminato e la promozione a direttore. Ero

felicissimo: avevo ventisei anni, ero finalmente indipendente economicamente ed il nuovo

incarico mi galvanizzava tantissimo! Per tutto questo ero stato disposto a sopportare il nodo

alla cravatta e il dover vivere in un posto poco esaltante. Come se non bastasse avevo dovuto

troncare la mia relazione con la dolce Livia: nonostante i suoi tentativi di farmi cambiare

idea, la mia precedente esperienza di storia a distanza (sfibrante ed estenuante) mi aveva fatto

capire che non sarei stato in grado di poterne sopportare un'altra. E così la mia vita lavorativa

andava a condizionare pesantemente la mia sfera personale.

Sin dai primi giorni nella nuova destinazione mi ero trovato bene con le persone del posto,

ma i dintorni, ahimè, offrivano veramente poco. Erano passati mesi di duro lavoro prima

dell'offerta di tornare ad Ascoli per una sostituzione di maternità: il direttore di rete aveva

scelto me quale sostituto temporaneo. Via, di nuovo verso un altro trasferimento, cambiando

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nuovamente casa, salutando le persone che stavo iniziando a conoscere e con cui stavo

entrando in confidenza. Ad Ascoli avevo trascorso quattro esaltanti mesi prima di fare

nuovamente tappa a Pescara per un ulteriore mese.

Col passare delle settimane e delle sedi dovevo constatare che la mia vita stava iniziando a

prendere una piega strana. Va bene il lavoro, va bene l'esser considerato una persona

affidabile, va bene anche l'esser trasferito continuamente, ma la mia sfera personale ne stava

risentendo inequivocabilmente. Avevo ventotto anni e gli ultimi due li avevo trascorsi

interamente a lavorare, spesso tornando a dormire in camere d'albergo vuote e stantie,

mangiando da solo in ristoranti dove il mio unico compagno era un telefono cellulare. Dopo

continui trasferimenti la mia vita sociale rasentava lo zero e non potevo solo vivere in

funzione del fine settimana in cui potevo tornare a casa dei miei genitori a Termoli e rivedere

i miei amici. Necessitavo ben altro. Avevo bisogno di persone da incontrare la sera di ritorno

dal lavoro, con cui confidarmi, magari di una ragazza che mi cucinasse anche un pasto

disgustoso, ma pieno di sentimento. Sentivo il vuoto intorno a me ed anche dentro di me.

Svegliarmi la mattina senza dare senso alle mie azioni era una fonte di frustrazione

insopportabile. Ma al mio direttore di rete tutto ciò non poteva interessare e dopo Pescara mi

aveva rimandato nuovamente a Colleferro. Altri sei lunghi mesi, poi una nuova chiamata e

conseguente cambio di destinazione: Asti. Ligio al mio dovere, ero già disposto ad accettare

l'incarico prima ancora di ricevere una promessa d’aumento. Pronto, di nuovo con le valigie

in mano.

Era novembre quando ero sbarcato in questa città del Nord, incravattato e con un sorriso

sforzato per mostrare sicurezza e serietà. Ma la mia integrità iniziava a vacillare. Nel

frattempo avevo compiuto ventinove anni e guardandomi intorno vedevo sempre la stessa

immagine: lo schermo di un computer, un pezzo di pizza da mangiare vicino alla tastiera

durante le ore di straordinario non pagato e le maniche di una camicia che stava diventando

troppo stretta. Il lavoro era veramente stressante e non mi lasciava tregua: un centro

commerciale è come una piccola città a sé stante ed il direttore il suo sindaco. Ogni problema,

ogni evenienza fa capo a lui ed io, non avendo mai avuto assistenti (come la maggior parte

dei miei colleghi), me l'ero sempre dovuta sbrigare da solo. Mi alzavo la mattina presto, mi

vestivo, colazione fugace e via verso il mio ufficio. Controllavo la posta, rispondevo al

telefono, parlavo con qualche negoziante preoccupato per la sua attività e gli afflussi al

centro, mangiavo qualcosa («Qualcosa» è il termine giusto) e dopo dieci ore di lavoro ero

libero di tornare in albergo. Nel mentre il sole era sparito, in terra c'era solo neve, ma la

costante di esser solo non variava. Non potevo neppure frequentare gli altri lavoratori del

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centro commerciale: il direttore deve rappresentare una figura super partes e non può

mostrarsi troppo amichevole; c'è il rischio che qualcuno se ne approfitti o cerchi di sminuire

la sua figura. Sempre con una maschera indosso durante le ore lavorative, all'uscita

dall'ufficio mi aspettava una cena al ristorante e via a dormire nella medesima solitaria

camera d'albergo. Ancora ed ancora. Con gli orari che facevo non riuscivo a svolgere una

qualsiasi attività, sportiva o non, che mi consentisse di avere degli amici. Era molto peggio

che averlo sposato, quel dannato centro commerciale! Tutto questo stress si stava

accumulando in me sino all'inverosimile e quando finalmente realizzai che il promesso

aumento di stipendio era una mera presa in giro per farmi accettare un incarico che, in

azienda, nessuno avrebbe voluto ricoprire, scoppiai.

Mi ero sentito tradito e preso in giro. Per anni mi ero trasferito senza fare obiezioni: avevo

accettato questa dinamica separandomi ciclicamente da luoghi, amici, abitudini e relazioni

proprio nel momento in cui questi elementi iniziavano a prendere piede nella mia vita. Avevo

tenuto duro per senso del dovere, per rispetto dei negozianti che riponevano in me la loro

fiducia, per i miei superiori e per i miei genitori che mi avevano messo in condizione di

raggiungere tale posizione lavorativa. Oltre alla consapevolezza di avere un contratto solido,

che garantiva sicurezza e tranquillità rare nel mercato del lavoro italiano. Ma dovevo anche

considerare che ritrovarmi con la testa infilata sotto una doccia per quaranta minuti, alle due

di notte, nel tentativo di non farla scoppiare, non era esattamente quel che mi aspettavo

quando avevo accettato l'incarico che mi era stato proposto. Sentivo che stavo rischiando

veramente di andare fuori di testa durante l'ennesima notte insonne. Va bene che il lavoro è di

per sé un generatore di stress, ma rimetterci la salute mentale mi sembrava un po' troppo. Lo

psicanalista non era presente nella lista dei benefit aziendali e soprattutto non avevo nessuna

voglia di conoscerne uno. Troppo stress, nessuna valvola di sfogo e la fervida sensazione di

esser stato trattato come una marionetta erano davvero troppo.

Così avevo capito di averne avuto abbastanza e di non poter continuare a farmi del male.

Mi ero appigliato alla consapevolezza che non esisteva solo questo di lavoro e mi ero fatto

forza: al diavolo tutti i centri commerciali di questo mondo!

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CAPITOLO 4

Simbiosi

Alla mattina ci metto quasi un'ora a ricaricare la moto e la vestizione, col caldo di agosto, è

davvero poco piacevole. Ma in sella, finalmente, mi dimentico anche della calura e mi

concentro sulla guida: la moto pesa veramente tanto e tutto il carico extra m'impone di

preventivare con molto anticipo come e cosa fare nei cambi di direzione. Tutte le reazioni

chimiche dell'universo sono alla ricerca dell'equilibrio ed io sto facendo altrettanto.

La definizione canonica di motocicletta è: «Motoveicolo a due ruote fornito di motore a

scoppio», ma a me sembra banalmente riduttiva. Sin da bambino sono stato sempre

affascinato da questi prodigi d’ingegneria, inetti a restare in equilibrio da soli, ma capaci di

mutare posa nel tragitto più tortuoso, dove una macchina risultava tremendamente composta

e noiosa. Comunemente risulta quantomeno insensato il tragittare a velocità più o meno

elevate senza barriere protettive, eppure non riuscivo a spiegare questa mia fascinazione per

un mezzo che ti obbliga a mettere un piede a terra ad ogni fermata. Ad ogni occasione in cui

indugiavo sulle sinuose linee di una due ruote restavo a bocca aperta dinanzi alle forme del

telaio, le alette che abbellivano i cilindri o il fondo scala del tachimetro. Questa fiammella di

passione non si sarebbe mai chetata fino all’età adolescenziale, per poi scoppiare libera

durante gli anni dell’università. Ma era una passione che dovevo tener sedata: il solo

pronunciare la parola «Motocicletta» rendeva irrequieti gli animi dei miei genitori, spaventati

dai pericoli cui ci si espone una volta in sella. Così, non essendo in grado di permettermene

una e vivere con le mie finanze, non potevo fare altro che rimandare.

Dopo anni interi a leggere specifiche tecniche, studiare approfonditamente meccanica e

dinamica nonché deliziare il nervo ottico ad ogni visione di due ruote in movimento,

finalmente avevo l’occasione buona per coronare il mio sogno. Da allora, non ho capito più

nulla. Dopo il brivido iniziale del primo contatto, un senso di libertà mi ha invaso il corpo e

ho sentito immediatamente di dipendere da questa droga irrefrenabile. Potevo finalmente

vedere l’orizzonte piegarsi al mio comando, lottare contro l’aria che mi fronteggiava ed

emozionarmi ad ogni oscillazione della lancetta del contagiri. Libero di raggiungere ogni

meta, il mio limite diventava solamente l’immaginazione. Questa creatura rappresentava una

sorgente infinita di libertà, un mezzo per scoprire e vivere appieno dell’universo circostante,

fondendosi con gli elementi e con il cuore pulsante di ogni organismo vivente. Ecco la mia

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definizione di moto! Non si spiegherebbe, altrimenti, come mai una persona matura e sana di

mente decida di mettersi in sella ad un proiettile in grado di arrivare a 100 km/h in tre

secondi, lottando contro la forza di gravità e schivando auto, muretti, marciapiedi, alberi,

pozzanghere e animali. Forse per dare un senso ad una vita monotona? Non tutti i motociclisti

avranno vite incolori. Forse per drogarsi di adrenalina? Non tutti i motociclisti guidano

perennemente a gas spalancato. Semplicemente la moto lascia completa libertà d’espressione:

se è vero che l'arte è scaturita da genio e follia, io non so se tutti i motociclisti siano geni, ma

folli (almeno un minimo) devono esserlo per forza. La simbiosi moto-pilota è infinitamente

superiore alle singole parti ed implica una fiducia totale, quasi materna, dell’uno verso l’altra.

Ecco perché una macchina parcheggiata è stabile e composta, mentre una moto coricata sul

cavalletto appare triste e piangente, in attesa del suo amato cavaliere che la conduca verso

orizzonti inesplorati. E c'è ancora gente che si chiede come mai amiamo tanto le nostre moto?

Giusto il tempo di perdermi il sacco a pelo in superstrada (e rincorrerlo a piedi in mezzo

alla corsia), aumentare la mia esperienza di guida a pieno carico su divertenti strade collinari

ed è l'ora di arrivare nel paesino di Castrocaro Terme. Qui mi sono dato appuntamento con

Rodolfo, per gli amici Rodd. Appassionato di moto, grandissimo viaggiatore nonché cuoco

provetto, ha visto il sito internet in cui parlo del mio viaggio (www.australiatwin.it) e mi ha

contattato: sono seguite lunghe conversazioni, ma sono bastate poche parole per entrare

subito in sintonia e scoprire di pensarla esattamente allo stesso modo relativamente alla vita

ed alla realtà che ci circonda. La passione per i viaggi, la voglia di scoprire, l’amore per le

moto e le scatole piene di questa società che offre stereotipi da imitare e spinge verso vite

omologate. Entrambi non abbiamo la minima intenzione di vivere secondo canoni imposti,

circondandoci di beni inutili e costosi, sacrificando la nostra libertà in funzione di uno status

sociale che non ci interessa. Ci sediamo per una birra e dopo cinque minuti abbiamo lo stesso

pensiero: «Sembra che ci conosciamo da sempre!» Il bello è che, durante i nostri discorsi,

Rodd si prodiga di farmi assaporare un po’ di Romagna: prima culinariamente (si può dire

«Culinariamente»? Credo di no, però rende l'idea!), poi presentandomi i suoi amici e

catapultandomi in una serata decisamente alcolica! Rodd si rivela un amico sincero e

genuino, incredibile come mi senta a mio agio con questa persona conosciuta appena da

poche ore. La nostra intesa è totale e sembra proprio che il nostro incontro non sia stato

casuale. Discorsi impegnati, un bicchierino, partita a biliardino e tante risate: questa sera è

così divertente e spensierata che mi sembra quasi di festeggiare nuovamente la partenza.

È così che l’indomani il mio proposito di rimettermi in marcia di buon ora viene vanificato

dal mal di testa martellante che mi accompagna sin dal suono della sveglia, mentre la stanza

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non ne vuole sapere di smetterla di roteare. Soltanto dopo l'ora di pranzo sono in grado di

rimettermi in un equilibrio meno precario e ricaricare le borse sulla moto. Abbracci

emozionati e la promessa di mantenerci in contatto. Saluto Rodd a malincuore, devo

ammetterlo, e faccio rotta su Bologna. Ho così l'opportunità di passare sotto la finestra della

camera dove abitavo otto mesi prima: è qui che ha preso vita l'idea della rivoluzione che mi

vede adesso su una moto stracarica di bagagli ed il cuore pieno di sogni.

Abbracci e tante raccomandazioni anche con mio cugino Fabrizio: dopo l'aiuto ed il

supporto che mi ha manifestato nel corso degli ultimi mesi, non avrei potuto partire senza

salutarlo degnamente. Esser qui mi dà anche modo di andare a trovare alcuni amici che hanno

condiviso i momenti più belli vissuti in questa città: con Flora e Romeo ho un rapporto di

amicizia assoluta. Tifosi sfegatati della Ferrari, mi ospitano per la notte e riparto solo quando

strappo loro una promessa: luna di miele in Australia, il biglietto del Gran Premio di

Melbourne il mio regalo di nozze!

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Bambino

L’autostrada è una vera noia da percorrere in moto. Di solito cerco di evitarla: meglio ore di

stradine e curve piuttosto che venti minuti piatti ed incolori. Guidare la moto su un rettilineo

assolato è rilassante, ma è nei giorni di pioggia, sulle strade rovinare, piene di curve e buche

che mi galvanizzo! Un po’ come i guerrieri che bramano la battaglia, non la noia. E andare in

autostrada è noia pura. Ma ho un appuntamento a Maribor e sono in ritardo.

Marija è un membro del locale comitato AEGEE e, come tutti gli appartenenti a questo

gruppo, è un emblema di disponibilità ed amicizia. Quest'associazione studentesca accomuna

ragazzi e ragazze di tutta Europa, promuovendo la cooperazione, la comunicazione e

l’integrazione nell’ambiente accademico europeo, ma non solo. Tanti eventi fanno sì che

giovani di ogni Paese possano incontrarsi durante scambi culturali ed incontri formativi,

contribuendo ad ampliare il proprio bagaglio culturale, conoscere lingue, usi e costumi

diversi ad un passo da casa propria. Nelle varie esperienze a cui ho partecipato ho conosciuto

persone eccezionali e vissuto giorni assolutamente da incorniciare. Praticamente è come

avere degli amici in ogni città europea, così prima di partire ho contattato il gruppo di

Maribor e Marija si è dimostrata disponibile ad ospitarmi. Non ci siamo mai né visti né sentiti

prima, sebbene stia viaggiando verso casa sua per la mia prima tappa fuori dall'Italia.

Fantastico! Ma il tempo passa in fretta e i chilometri che mi aspettano sono davvero tanti.

Ore di autostrada e noia, ma con la testa decisamente sgombra. Mi sento ancora

abbastanza anestetizzato e credo di non realizzare al 100% cosa sto per fare. Ancora sono sul

suolo nazionale e mai prima d’ora ho condotto la moto oltre i suoi confini. Cosa che avviene

esattamente alle 16:41 del 14 agosto: accosto in corsia d'emergenza e, sebbene io sia in piena

autostrada, mi concedo una bella foto dinanzi al cartello a sfondo blu, la scritta Slovenia in

bella vista, contornata da dodici stelline dorate. La sua visione mi fa battere il cuore: è fatta,

sono fuori dall'Italia! Primo traguardo raggiunto, con la sensazione di esser veramente in

Viaggio con la «V» maiuscola. Sinora l'asfalto tricolore non mi aveva impressionato più di

tanto, ora quello sloveno sembra abbia un sapore diverso. Da oggi in poi il mio indirizzo sarà

la targa della mia moto e la mia famiglia sarà sempre più lontana, così un pizzico di

malinconia mi raggiunge. È difficile esprimere l'amore che provo per loro. Nonostante questa

mia decisione ci stia separando, mi hanno lasciato libero di inseguire i miei sogni e di lottare

per realizzarli. Non potrò mai ringraziarli abbastanza per questo.

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Macino altri duecento chilometri, salgo di quota e la temperatura cala bruscamente. Tutto è

verde intorno a me: maestosi alberi ricoprono totalmente il paesaggio intorno, mentre la

strada supera dislivelli e si tuffa in tiepide gallerie. Il sole sta per calare e rischio, proprio nel

mio primo tratto extra nazionale, di infrangere il primo comandamento dei viaggi in

motocicletta: mai viaggiare di notte. I colori mutano, l’asfalto riflette le luci delle auto ed io

procedo con il contachilometri che indica velocità a tre cifre. In queste ultime ore di guida

avverto anche un po' di stanchezza, tuttavia questa noiosa strada mi consente di raggiungere

agevolmente la mia destinazione. È quasi ferragosto e le vie cittadine sono semi deserte.

Attraverso il ponte sul fiume Drava e rifletto su quale meraviglioso regalo sia un cavalcavia:

le migliaia di persone che lo useranno dovrebbero lasciare un simbolico «Grazie» ad ideatori

e costruttori, artefici di un'opera che consente ai popoli lontani di sentirsi un po’ più vicini.

Questo viaggio mi rende felice come un bambino con un nuovo giocattolo fra le mani.

Cos’ho appena detto? «Bambino»? Mi piace questa idea! Un pargoletto alla scoperta del

mondo, con gli occhi limpidi e la mente sgombra da pregiudizi e preconcetti, ecco come

vorrei affrontare questa esperienza. Da oggi non mi firmerò più Massimiliano, bensì Miano:

il nomignolo con cui mia sorella mi chiama dai giorni in cui non ero in grado di pronunciare

il mio nome.

Grazie al navigatore arrivo in un lampo alla mia destinazione, dove mi apre la porta una

biondina con due occhioni azzurri. Ricapitolando: sono partito oggi da Bologna ho fatto

seicentoquindici chilometri sulla mia moto, ho appena salutato l’Italia e sono a casa di questa

bella ragazza con cui mi accingo a trascorrere i prossimi due giorni. Direi che non posso

lamentarmi! Marija si dimostra da subito simpatica e molto gentile, fa dei muffin

semplicemente spettacolari e vive con il piccolo (si fa per dire) Alfie, un micione tutto pelo e

pigrizia. Devo esser onesto: quando mi sono svegliato, questa mattina alle 5:00, non potevo

immaginare un epilogo del genere. Sono appena uscito dal mio Paese natio, tanto mi attende

e molto ancora ho da imparare, ma quanto visto sinora (e chi mi sta facendo compagnia ora)

mi fa davvero ben sperare!

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CAPITOLO 5

Non basta

Dopo tre anni trascorsi in giro per i centri commerciali di mezza Italia avevo deciso di

passare dal lato del committente a quello del fornitore, scrivendo testi in un'agenzia

pubblicitaria specializzata in tale settore. Era il mio appiglio verso il ritorno ad una vita

normale.

Di nuovo un trasloco, ma stavolta verso Bologna, meta che finalmente avevo scelto io. E

per la prima volta in vita mia mi ritrovavo a svegliarmi di buon umore: finalmente ricoprivo il

ruolo che avevo sempre sognato! Creatività e spontaneità erano i cardini su cui potevo

impostare il mio nuovo incarico, affiancati da una maturata esperienza lavorativa che mi

faceva sentire sicuro di me stesso. Non aveva prezzo il poter lasciar vagare la mia mente alla

ricerca di idee innovative, libero di vestire in jeans e maglietta ed indossare l'orecchino

durante le ore di lavoro. Inoltre avevo dei colleghi con cui condividere tempo ed idee e degli

amici con cui trascorrere le serate. Impagabile! Finalmente potevo abbandonarmi

all'entusiasmo di aver raggiunto quel che desideravo da tempo: un ruolo da svolgere con

spontaneità, non con l'occhio guardingo di chi deve sempre indossare una maschera. Ed il

titolo dell’impiego da me ricoperto, copywriter (redattore pubblicitario), mi faceva sorridere

di gioia: avevo desiderato di lavorare in questo settore sin dai tempi dell'università e

finalmente avevo realizzato questo mio sogno!

Ma l'entusiasmo iniziale era destinato a durare davvero poco: critiche e frecciatine ai

dipendenti erano all'ordine del giorno, così mi ero accorto che questa piccola azienda non era

il paradiso che speravo. Certo, il lavoro non è un gioco, ma un ambiente lavorativo sereno

rende il dipendente felice e più produttivo, soprattutto quando si parla di creatività. Invece,

col tempo, avevo dovuto riscontrare sempre più episodi di cattiva gestione del personale:

venivamo trattati come fannulloni ed eravamo l'unico capro espiatorio in occasione di reclami

da parte dei clienti, mentre la titolare si considerava infallibile. Questa era sempre rinchiusa

nel suo ufficio ed i suoi ordini ci arrivavano per bocca della sua segretaria, un concentrato di

antipatia e maleducazione, istruita a tenere alta la tensione fra noi tutti. Così mi ritrovavo a

fare un lavoro bellissimo, ma per una persona che considerava noi dipendenti come 'soldi in

uscita' e non come risorse. Che sia tanto difficile apprezzare i propri impiegati e non

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concentrarsi solo sul denaro? Sono accettabili continue urla per ogni minimo problema, mai

bilanciate da qualche complimento per un incarico ben svolto? Chissà come mai quest'ultimo

aspetto mi ricordava il mio precedente lavoro.

Avevo lasciato un contratto a tempo indeterminato e firmato questo contratto a progetto,

dallo stipendio nettamente inferiore, pur di scappare dalla mia precedente vita e ricoprire un

ruolo che avevo sempre sognato. Mi ero buttato con tutto me stesso in questa nuova

esperienza lavorativa, fiducioso che le cose sarebbero potute andare solo meglio. In effetti, la

vita aveva ricominciato a sorridermi dopo tanto tempo: avevo finalmente dei fantastici amici

da frequentare, un telefono che non squillava al di fuori degli orari lavorativi e avevo

ritrovato il mio 'tempo libero' (se viene definito libero è forse perché il lavoro è come una

prigione?) La mia vita privata era quasi perfetta, costellata da divertimento e spensieratezza: i

tempi delle camere d'albergo e delle notti insonni erano ormai lontani. Ma piano piano

cominciai a rendermi conto del disagio che condividevo con molti dei miei coetanei: un

contratto precario, pochi soldi in tasca a fine mese e tanti problemi sul luogo di lavoro dove

vigeva il diktat del 'prendere o lasciare'.

Sentivo più che mai di aver optato per la scelta giusta all'atto delle mie dimissioni da

direttore di centro commerciale, ma mi rendevo conto di aver eliminato solo una parte dei

problemi. Prima vivevo per lavorare e a fine mese ne giovava solo il conto in banca. Adesso

lavoravo per vivere, conducendo una vita equilibrata e ricca di soddisfazioni, ma limitata da

un conto economico perennemente sull'orlo del pareggio di bilancio. Impossibile metter da

parte i soldi che mi sarebbero costati una vacanza, dei progetti futuri o anche le rate di un

mutuo o di una macchina; figuriamoci il lusso di una moto. Ero fortunato ad averne

acquistata una negli anni precedenti altrimenti, in quel momento, non mi sarebbe stato

possibile farlo. Vivevo una vita dignitosa, sebbene senza eccessi: dovevo ben amministrare lo

stipendio per arrivare alla fine del mese, ma i tanti sforzi venivano vanificati all'arrivo della

bolletta di turno. Tanto lavoro e tante piccole rinunce per condurre una vita senza fronzoli.

Essere single mi aiutava non poco a conservare la mia indipendenza: qualora fossi mai stato

sposato o con prole, sarebbe stato davvero difficile mantenere tutti senza contrarre debiti.

Ecco che il disagio della mia generazione mi veniva servito davanti agli occhi: lavoro

precario e guadagni esigui spesso nonostante ottime qualifiche e tanta buona volontà. È

questo il mondo che volevo per me o quello che si potrebbe augurare ad un figlio? Lavorare

sodo con la mera prospettiva di sopravvivere, con costi in perenne aumento grazie a tasse su

tasse, non era esattamente quel desideravo. La mia vita da direttore mi aveva tenuto alla larga

da tutto ciò, grazie ad uno stipendio non esorbitante, ma sicuramente gratificante. Ora mi

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rendevo sempre più conto che le prospettive del mercato del lavoro italiano non erano

incoraggianti, condite da una situazione politica semplicemente ridicola. Sprechi, privilegi,

clientelismo, corruzione, collusioni con la mafia e cattiva gestione erano mostrate

giornalmente su media e siti internet, senza che i diretti responsabili venissero puniti

adeguatamente. Per contro, milioni di giovani stavano pagando le conseguenze di troppi lustri

di mala politica e fra di essi figuravo anche io. Ma non riuscivo ad accettarlo. Cosa potevo

fare nel mio piccolo? Cambiare le cose? Lottare contro il sistema? Combattere in un regime

così malato equivale ad essere un globulo bianco in un corpo che assume droga. Quel che ci

voleva era una rivoluzione, ma non mi sentivo Gandhi e neppure Pancho Villa per cui l'unico

che potevo salvare era me stesso. Ma in mente mia non vi era la minima idea su come

potermi redimere.

Almeno non ancora.

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CAPITOLO 6

Azzurro

Piano a piano inizio a rendermi conto di essere un una dimensione completamente nuova. È

una settimana che sono partito e milletrecento chilometri non sono molti, in fin dei conti.

Volendo, potrei tornare a casa anche in giornata, ma i pensieri che attraversano la mia mente

sono quanto mai lontani da questo proposito. Oggi, più che in viaggio, quasi mi sento in

vacanza e ho trovato uno spiraglio davvero piacevole per trascorrere i primi giorni fuori

dall'Italia.

Marija è proprio carina e poco alla volta aumentano gli sguardi complici fra noi. Non ci

conosciamo minimamente, abbiamo vissuto due vite completamente diverse e divise da

centinai di chilometri, eppure il mio folle progetto ci ha fatti conoscere e, dal modo in cui ci

comportiamo, sembra che non aspettassimo altro. La conoscenza di questa ragazza è un

primo assaggio di mondo, di umanità, di leggerezza nell'affrontare la vita e di gioia di

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condividere. Quando mi ha aperto le porte della sua casa, la spontaneità con cui mi ha accolto

mi ha lasciato veramente stupito. E inaspettatamente, sboccia un neonato desiderio di restare:

non puoi, cara Marija, uscire dalla doccia con i capelli bagnati e sederti affianco a me con i

tuoi occhioni azzurri! La naturalezza con cui ci sfioriamo e la passione dei nostri baci mi fa

pensare che fossimo solo in attesa di conoscerci, quasi che i nostri due corpi non aspettassero

altro da tanto. Come dei magneti, abbiamo raggiunto la distanza ideale per permetterci di

unirci, sebbene questa attrazione sembra sia sempre esistita.

Ed io, con mia grande sorpresa, dentro provo solo un sentimento di tranquillità assoluta.

Mi sento completamente appagato: sebbene abbia fatto poco più di un ventesimo del tragitto

che mi sono prefissato. Questa piccola oasi felice fatta di cittadina tranquilla, occhi azzurri e

gattone peloso mi sorprende e mi spiazza. Cosa potrei desiderare di più? Marija ha terminato

l'università e sta per dare l'esame di Stato per diventare avvocato, passione ereditata dal

padre. La mia idea di viaggiare la affascina e un po' la spiazza: in fondo sono io che vado

controcorrente, rispetto a tanti, tantissimi altri che costruiscono il proprio futuro con

prospettive ben più solide. Ma non sono mai critiche le domande che mi rivolge: denotano

ammirazione e rispetto ed io le accetto più che volentieri. Così come le sue attenzioni. È

davvero una bella ragazza, intelligente e premurosa. Fare l'amore con lei è così istintivo e

naturale che non mi sorprendo quando, a dispetto della preventivata tappa di due giorni,

vengo invitato a trattenermi un po’ di più, oltre che a trasferirmi dalla camera degli ospiti alla

sua, dotata di un letto ben più confortevole!

Maribor è un centro urbano tranquillo e molto vivibile: nonostante sia la seconda città

della Slovenia ai miei occhi sembra un paesone avvolto dal verde e assolutamente rilassante.

Ne ho la conferma quando visito la collina Piramida, da cui si può dominare l’intera cittadina

e godere di una vista d’insieme davvero gradevole. Ne approfitto anche per scrivere sul sito

internet e pubblicare le prime foto: voglio utilizzarlo come un diario di viaggio per

condividere sensazioni ed esperienze, sebbene ad oggi le mie idee siano ancora abbastanza

confuse. Sento di avere ancora molto da scoprire e la mia avventura, sinora, si sta limitando a

fare il turista per le strade di Maribor.

A tutto questo pone rimedio la strada: dopo avermi concesso il giusto riposo ed una

compagnia eccezionale, come una sirena incantatrice mi richiama a sé, imponendomi di

tornare in sella. Un po' d'amarezza s'intravede nei bei occhi azzurri di Marija, ma intelligente

com'è sa che non posso fermarmi. Le scappa la promessa di venirmi a trovare in Australia

dopo aver superato il suo esame, anche se suona un po' troppo avventata alle mie orecchie.

Sono contento di aver conosciuto questa ragazza: il mio viaggio è iniziato nel migliore dei

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modi e le persone conosciute durante i primi chilometri stanno lasciando il segno. Se avessi

voluto, avrei potuto prolungare la mia permanenza qui per tanto altro tempo. Invece non

posso: ho lasciato casa con motivazioni ben solide, le stesse che mi impongono di ripartire

oggi. Dolce Marija: grazie di aver colorato di azzurro questi bellissimi giorni.

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Affamoto

Da quando sono partito ho messo da parte le riflessioni personali e questo senso di mente

sgombra mi lascia un po' interdetto. Forse non realizzo ancora appieno di aver iniziato il mio

cammino verso una vita nuova. E forse non dovrei neppure pensarci: maggiori le aspettative,

maggiore il rischio di rimanere deluso. Così oggi, proprio per tenere fede alle vere

motivazioni di questo viaggio, scelgo di dedicarmi alle strade statali: sono in sella per

scoprire e conoscere, non per macinare chilometri e vedere lo scenario cambiare

repentinamente come al cinema. Ho percorso troppi rettilinei sino a qui e mi sono perso un

po’ di meraviglie che il paesaggio sloveno ha da offrire. Dunque mi butto a capofitto in statali

dal manto stradale imperfetto contornate da verde in ogni dove. Vorrei fermarmi dappertutto,

tuttavia mi sono ripromesso non indugiare troppo lungo gli stati europei, in previsione di

tappe più rilassate in Asia. Senza dimenticare che il mio visto pakistano scade ad ottobre e di

strada da fare ne ho ancora parecchia. Ma ora ho due giorni a disposizione per raggiungere

Belgrado e decido di gustarmi, come pietanze prelibate, le curve che le strade slovene hanno

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da offrirmi. Me le godo così tanto da non avvertire neppure il bisogno di assumere cibo: non

sono affamato, sono affamoto!

In breve raggiungo la Croazia: la barriera della dogana sembra più un casello autostradale

che una vera frontiera. Quasi tutte le auto attendono di percorrerla in senso inverso, segno che

le vacanze volgono al termine. Io invece non ho quasi nessuno dinanzi e confido in un

passaggio rapido ed indolore. In Slovenia mi fecero passare senza neppure farmi togliere il

casco, tuttavia sbaglio ingresso e mi ritrovo in quello riservato ai pullman: l’ufficiale del

gabbiotto non gradisce e mi impone di fermarmi, chiedendomi i documenti con fare

abbastanza seccato. Temo che mi chieda di aprire le borse: ne ho sette con me e non ho voglia

di dover poi rimpacchettare tutto. Invece, una volta mostratogli il mio documento si lascia

andare ad un sorriso e mi dice (in inglese): «Com’è possibile che sei Italiano e guidi la moto

sbagliata? Dovresti essere su una Stelvio o una Multistrada!» Colpito dalle sue parole

rispondo: «Costano troppo per me!». Così iniziamo a ridere tutti e due! È appassionato di

MotoGP e fan di Simoncelli; dopo pochi commenti ci stringiamo la mano e, non so com’è,

quasi sono contento di aver sbagliato ingresso.

Ingrano la prima marcia in questa bella giornata di sole e riparto verso collinette verdi e

campagna a perdita d'occhio. Non un gran cambiamento rispetto alla Slovenia, ma sento che

piano piano mi sto addentrando sempre più in qualcosa di speciale. Alcune tesserine stanno

andando al loro posto, ma per completare il puzzle ne mancano parecchie. Mi aspetta ancora

tanto e non mi riferisco solo ai chilometri, bensì ad uno degli obiettivi che mi sono posto in

questo viaggio. In questo mondo così vasto e variopinto sono convinto sia un peccato

chiudersi nelle proprie credenze ed abitudini, sebbene io non rinneghi le mie origini. Sono

nato nel Bel Paese, mi piace il modo in cui sono stato cresciuto ed educato, ma non ho la

minima intenzione di arrogarmi il diritto di sentirmi superiore (come fanno in molti) solo

perché ho avuto (e ho) connazionali illustri e geniali. Troppe volte ho sentito frasi del tipo:

«Noi italiani abbiamo questo... Siamo noi che abbiamo fatto quest'altro...» Eppure non sono

io che ho inventato il telefono o scoperto l’America, dunque per sentirmi veramente fiero di

me stesso preferisco concentrarmi sulle mie azioni e sulla mia condotta. Ed essere nato in

Italia non significa che io non possa aprirmi o fare miei altri modi di vivere e concepire il

mondo; d'altronde, un mosaico spicca rispetto ad una parete bianca per la moltitudine delle

parti. Mi ha sempre affascinato l'idea di entrare in contatto con culture diverse per poter

ampliare le mie vedute e, perché no, magari trovarne di più consone al mio essere. Ecco

perché non porto una bandiera con me: voglio considerarmi cittadino del mondo e fondermi

con l'universo intero che mi ospita. L’essere su una moto mi obbliga ad immergermi

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completamente nella realtà che attraverso (quanto di meglio per un viaggiatore alla scoperta

del mondo), senza porte e vetri a farmi da scudo. Visto che mi piace pensare alle due ruote

come la trasposizione moderna del cavallo, considero il suo pilota un cavaliere errante dei

giorni nostri. In definitiva, quel che voglio è raggiungere una condizione interiore che mi

consenta di vivere in armonia con l'universo circostante.

Ma ad oggi, nonostante questo mio proposito sia uno dei cardini del mio viaggio,

percepisco ancora una velata ritrosia a lasciarmi del tutto andare verso il mondo che mi

circonda e sento che manca qualcosa per abbandonarmi e liberarmi completamente. Forse

colpa del modo di pensare che mi è stato inculcato da quando sono nato: «Fidarsi è bene, non

fidarsi è meglio»? In Croazia avrei mille posti da visitare e più di quattro milioni e mezzo di

persone da conoscere: sembrerebbe un ottimo posto per perseguire questo mio proposito, ma

ora, non so com'è, mi sento a mio agio standomene un po' per i fatti miei. Avverto vivida la

voglia di aprirmi sempre più e fidarmi di tutti quelli che incrocio, segno che sono davvero in

viaggio anche dentro di me, non solo sulla strada. Ma ogni cammino va fatto a piccoli passi e

preferisco non forzarmi. L’andare in moto mi ha confermato di esser in grado di raggiungere

qualsiasi meta, l'importante è non preoccuparmi troppo del quando e procedere secondo il

ritmo a me più consono, senza forzature e senza emulare piloti più bravi di me. Farò lo stesso

anche ora. Così, mentre affronto le curve con un pizzico di prudenza in più, concedo alle mie

membra di abituarsi lentamente alla nuova condizione di 'cittadino' della strada, viaggiatore

nel mondo, esploratore dell'universo interiore ed esteriore. E decido: stasera tenda!

Mentre mi gusto queste magnifiche strade, lontano dal traffico pesante e dalla frenesia

autostradale, incrocio gli sguardi di autisti stupiti al mio passaggio. I colori della mia moto

vengono riflessi dalle loro pupille e mi mostrano un ragazzo in sella ad un mezzo fantastico,

carico di sogni e di palpabile curiosità. Un giovane alla guida di un furgone, in direzione

opposta, mi saluta sorridente ed io mi godo il suo sorriso. Non ti conosco e non ti rivedrò mai

più, ma la mia mano sinistra è aperta per ricambiare il tuo cenno d'amicizia e fratellanza.

Grazie amico, buona vita anche a te! Mi sento così leggero e felice da abbandonarmi ad una

risata tanto grande da sentire le mie guance premere contro le pareti del casco. Mi è sempre

stato detto che chi ride da solo viene scambiato per matto, ma a me piace tantissimo!

Il sole inizia a calare e la strada si tinge di arancione, preludio perfetto per un assaggio di

vera libertà: fra una curva e l'altra il mio sguardo si posa su degli alberi alla mia destra e,

dopo un saliscendi, abbandono la strada asfaltata dirigendomi verso di loro. Passo alcune

casette di campagna, poche curve con brecciolino ed un piccolo ponticello di legno. Faccio

molta attenzione ad evitare di baciare il terreno visto che ancora ignoro le reazioni, lontano

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dall’asfalto, del peso extra che grava sulla mia bella. Il suono delle travi, scosse al passaggio

delle ruote, è piacevole come quello di una tastiera elettrica priva di corrente. Procedo lungo

una stradina costeggiata da alberi alti ed imponenti, sterzo a destra e mi lancio fra radici, rami

caduti ed un fitto sottobosco: finalmente anche il cavalletto può familiarizzare col suolo

croato. Su di me un universo di querce, tanto numerose da oscurare i raggi di un sole

prossimo al tramonto. Non ho mai campeggiato da solo, tanto meno in un posto di cui ignoro

il nome.

Pianto la tenda e mi concedo una cena a base di cracker e risotto precotto, così disgustosa

da far invidia ad un divorziato inglese di mezza età. Il fornelletto da campo (ricavato dal

fondo di una moca) fa il suo dovere e mi regala una pietanza calda dal sapore indefinito,

buona solo per riempire lo stomaco. Capisco subito che le altre buste saranno una scorta da

usare unicamente in caso d'emergenza, non cibo da consumare regolarmente. Solo ora mi

accorgo di essere a corto di acqua e parte dell'ultima bottiglia che ho se n'è andata per

riempire il pentolino sul fuoco. Ho sudato tanto e fa ancora caldo, mangio da schifo e ho tanta

sete: non male come primo assaggio d'avventura! Dopo la colorata (è il caso di dirlo, vista la

brodaglia verde al vago sapore d'asparago che ingurgito) cena, anche lo scenario assume una

tinta più marcata: i raggi del sole cercano di farsi strada fra rami e foglie, donando

all'ambiente sfumature di rosso ed arancione. Sembra la foresta tutta sia in fiamme e, vista la

calura, questa evenienza appare dannatamente verosimile. Entro nella tenda e realizzo di

esser davvero libero e vivo come non mai. Mi accorgo di non aver bisogno di una lavatrice,

una televisione o di un letto comodo per vivere. Sono beni superflui, non necessari. Ma allora

cos'è veramente indispensabile per vivere? Forse l'acqua e l'aria... e invece no! Queste

servono solo per sopravvivere. Ecco: per vivere servono le emozioni!

Tutt'intorno a me una pioggia costante di ghiande, inframmezzata da passi di animali più o

meno vicini. Una talpa si diverte a muoversi sotto la tenda e, nel caldo intenso all'interno

della mia alcova sintetica, scrivo due appunti al computer. Cerco di tranquillizzarmi e di

prendere sonno, ma non riesco ad addormentarmi profondamente. Sono solo in mezzo al

nulla: qualche malintenzionato (o più d'uno) potrebbe derubarmi, ferirmi o uccidermi. Oppure

delle belle ragazze in bikini potrebbero venire a trovarmi per fare festa assieme. Tutto

potrebbe accadere ora che sono solo: non è questione di possibilità bensì solo di probabilità.

Mi sento abbastanza tranquillo, ma il merito non è dei due coltelli che porto con me, eppure

più mi sforzo e più non riesco a dormire, complice il caldo ed i numerosi rumori che mi

circondano. Vengo scosso da un ramo che cade in prossimità della tenda: sembra una bomba

piovuta dal cielo, ne avverto anche le vibrazioni dal suolo! Sarebbe potuto cadere sulla mia

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adorata moto o su di me. Quale delle due opzioni sarebbe stata peggio? Basta, devo lasciarmi

andare e cercare di riposare. Mi giro sul fianco e cerco di tranquillizzarmi pensando che sono

finalmente immerso in quel mondo che ho tanto desiderato, dopo mesi di preparazione e lotte

per portare avanti il mio proposito. Chiudo gli occhi: ancora un turbine di pensieri, emozioni

e ricordi viene a farmi visita, ricordandomi chi ero e cosa mi ha spinto ad intraprendere

questo viaggio. La mia mente, anziché sopirsi, mi riporta alla memoria una vecchia serata

anonima e tranquilla, ben diversa da quella che sto vivendo ora.

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CAPITOLO 7

Tarlo

«Ma che ci stai a fare ancora qua?! Avessi io la tua età…» erano le parole di Roberto. Durante

una piacevole serata fra amici si stava parlando del futuro dei giovani in un Paese alla deriva

come l'Italia. «Che prospettive ci sono per noi? Lavorare sodo per ricavarne quasi niente alla

fine del mese...» Queste parole arrivavano all’orecchio di tutti i presenti, producendo un

velato senso di malcontento che lasciava trasparire una generalizzata mancanza di ottimismo.

Nessuno parlava, ma tutti ascoltavano, in una sorta di silenzio assenso... o assenza... o

assenzio? È così che avevo sentito nominare per la prima volta «Australia! Ho dei parenti là

che si sono trasferiti anni addietro, stanno benissimo e non ci pensano minimamente a

tornare!». Le facce di tutti (compresa la mia) assumevano l'espressione tipica di chi deve

sforzarsi considerevolmente per immaginare un mondo talmente lontano dal proprio.

In mente mia l'Australia era stata sempre 'l'altra parte del mondo': una meta per pochi

facoltosi che potevano permettersi di vivere un'estate dietro l'altra o il nome che mi faceva

svegliare nel cuore della notte per vedere le gare della Superbike a Phillip Island. Ma cos'era

veramente quest'Australia tanto decantata? In fondo sempre di pianeta Terra si trattava.

Cos'aveva di tanto speciale ed affascinante? Quella sera non rimasi particolarmente colpito

dalle parole di Roberto. Eppure, di lì a poco, mi avrebbero spinto ad effettuare qualche

sporadica ricerca circa questa nazione esotica, da cui avrei appreso nozioni ed informazioni

che parlavano di: benessere largamente diffuso, un popolo rilassato e pacifico, una economia

prospera ed una disarmante facilità a trovare un impiego. Possibile? Mi sembrava tutto

inverosimile. Abituato ai canoni della cara e vecchia Europa, non riuscivo a fare quello sforzo

mentale che mi avrebbe consentito di accettare in pieno queste nozioni. Eppure ogni nuova

testimonianza che incontravo era un piccolo stimolo a rivedere le mie convinzioni.

Un minuscolo tarlo si stava annidando nel profondo del mio cervello: tanto astuto da

restare nascosto per mesi interi e tanto caparbio da sopravvivere nell'angusto spazio in cui si

era isolato. Quasi inconsapevole della sua presenza, continuavo a condurre la vita di sempre,

immerso nei miei impegni e nella mia routine. Ma non sarebbe trascorso troppo tempo prima

che questo pensiero tornasse prepotentemente in superficie, reclamando il ruolo che gli

competeva nella mia vita. Ed il modo in cui lo fece mi avrebbe sconvolto l’esistenza.

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CAPITOLO 8

Gigante

Ci metto quasi un’ora a smontare e rimpacchettare tutto: al risveglio sono sempre stato

peggio di un Diesel, ma oggi addirittura sembra io vada a carbone. Faccio una colazione

fugace presso un minimarket poco distante: posso finalmente rifocillarmi d'acqua e lanciarmi

verso la tanta strada che mi aspetta, costellata da una miriade di piccoli paesini, simili fra di

loro. Sotto il sole cocente di mezzogiorno mi tocca attraversare uno stradone in rifacimento:

sassi grossi come noci per quattro chilometri ed il rischio costante di cadere, cercando di

farmi strada fra marciapiedi e tracce di cingoli.

La fatica mi coglie presto oggi, ma devo tenere duro per i 250 km di strade statali che

ancora mi aspettano. Me le godo come non mai (in fin dei conti, le sto percorrendo per mia

libera scelta), tuttavia la velocità è sempre bassa e sudo come stessi facendo la sauna. Per

quanto visto sinora la Croazia mi sta piacendo, nonostante non abbia fatto tappa né a

Zagabria né presso le famose località di mare che la rendono ambita meta di turisti. Ma non

posso concedermi il lusso di deviare dalla mia rotta, le mie tempistiche di viaggio ne

risulterebbero inevitabilmente compromesse. Accidenti a questo visto pakistano!

Strade sgombre e paesini composti da una via centrale, vialetti e giardini, simpatiche

casette, una chiesa, una scuola e poco più: bene o male tutti i villaggi che attraverso

rispecchiano questa configurazione e ne scelgo uno a caso per concedermi un po' di riposo e

di ristoro.

Accosto per stendermi e bere sotto un albero, ma immediatamente vengo richiamato da un

signore basso e capelluto, che si sbraccia dall'uscio di casa. Mi avvicino e mi fa segno di bere

qualcosa insieme. Peccato non parli inglese: mi offre una cola ghiacciata, mi mostra i suoi

scooter italiani e ci tiene che beva il più possibile per dissetarmi durante questo caldo torrido.

Questo ometto al massimo mi arriverà sotto l'ascella, ma ai miei occhi è molto più grande di

quel che sembra. Mi offre da bere e mi guarda con occhi paterni: grazie a lui rifletto sul fatto

che, se tutti ci aiutassimo a vicenda e non esistesse il denaro, potemmo vivere in pace e

dedicarci a quel che ci piace di più senza limitazione alcuna; non esisterebbero guerre o

disparità sociali e la generosità disinteressata di questo minuscolo gigante buono è una prova

tangibile che al mondo esistono esseri umani disinteressati, sempre pronti ad aiutare il

prossimo. Il tempo di una foto, ringraziamenti a gesti e tanti sorrisi. Un incontro fortuito, ma

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quanto mai rivelatore: ci sono persone straordinarie in ogni dove e, sinora, questo viaggio mi

sta dando la possibilità di incontrarne in quantità.

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Vernice

Negli ultimi chilometri prima della meta percorro una superstrada che mi fa evitare aeroporto

e stradine collaterali. Già percepisco che la città è grande e trovare la casa di Biljana non sarà

semplice.

Ho conosciuto questa ragazza diversi anni fa durante un evento AEGEE ed ancora una

volta ho un punto d'appoggio grazie a questa fantastica associazione che mi ha dato modo di

ampliare i miei orizzonti culturali e conoscere persone eccezionali. Nonostante la lontananza

siamo rimasti in contatto durante tutti questi anni e la possibilità di rivederla, proprio in

occasione di questo viaggio, sembra surreale.

Poco prima di entrare in città mi fermo ad una stazione di servizio per chiedere indicazioni

e mi si affianca un extraterrestre in tuta gialla su una GS, casco con microfono e visiera scura.

Non mi pare di aver infranto alcuna norma stradale e spero questo poliziotto non voglia farmi

storie di alcun tipo. «Hello...» pronuncio timidamente «Sei italiano?» la sua risposta! Si

chiama Enrico e ha notato la targa FR della mia moto, tant'è che viene da un paesino a pochi

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chilometri da dove l'ho comprata. Se questo viaggio ha deciso di regalarmi delle sorprese, sta

realizzando ampliamene il suo proposito. Due chiacchiere di fronte ad una bella birra

ghiacciata e poi di nuovo in marcia: al centro cittadino mancano pochi chilometri e devo

fermarmi con molta frequenza per trovare la strada giusta.

Da oggi in poi non potrò più fare affidamento sulla cartografia del navigatore, così solo

dopo molto girare a vuoto riesco finalmente a raggiungere la mia amica e vengo accolto dal

sorriso smagliante di lei e di suo marito Velibor. Scarico la mia moltitudine di bagagli in casa,

invadendo il piccolo soggiorno che mi ospiterà, e parcheggio la moto in una rimessa poco

distante. Lungo il tragitto che mi ha condotto in città ho iniziato a preoccuparmi per i

cuscinetti della ruota anteriore: ho notato che il manubrio ondeggia notevolmente se lo

abbandono con entrambe le mani durante la marcia in rettilineo. Ci penserò domani, ora mi

godo il sapore e l'aria di questa nuova città.

Belgrado mi accoglie nel migliore dei modi possibili: la sera fa finalmente fresco e sul

lungofiume posso rifocillarmi fra una miriade di ristoranti galleggianti. Il palazzo dove

vivono i miei ospiti è in un quartiere costruito ai tempi del Comunismo in Novi Beograd:

ogni gruppo di condomini è dotato di aree verdi, campi da gioco e parcheggi, tuttavia adesso

è tutto in degrado a causa della mancanza di manutenzione e l'ambiente è buio visti i pochi

lampioni funzionanti. Nonostante ciò lo scenario è tutto meno che tetro e non avverto la

minima sensazione di pericolo. All'ingresso e lungo le scale vi è un fortissimo odore di

vernice fresca: ognuno deve contribuire spontaneamente alla manutenzione del palazzo,

incluso pulire il proprio pianerottolo, sostituire le luci e riverniciare. Velibor è appassionato di

storia ed architettura, colleziona monete antiche e cimeli delle guerre jugoslave (oltre ad

essere, come me, golosissimo di dolci). Mi racconta di come le cose fossero migliori al tempo

del regime: le aree appena attraversate a piedi erano in perfette condizioni e non mancavano

infrastrutture messe a disposizione della cittadinanza. Inoltre tutti avevano casa ed istruzione.

Il suo pensiero è che durante un regime imposto, come Fascismo e Comunismo, la scuola è

sempre stata di qualità e per tutti: tanto le persone ignoranti quanto quelle acculturate non si

sarebbero potute ribellare ad un sistema imposto. Invece, ora che c'è democrazia, i politici

preferiscono non investire nell’istruzione delle nuove generazioni. La caduta del regime ha

obbligato la popolazione a dover mettere una pezza al nuovo status quo: i palazzi (una volta

pubblici) sono stati venduti a privati che intascano i soldi degli affitti, ma non si fanno carico

della manutenzione dei complessi stessi. Inoltre la realtà quotidiana degli abitanti registra

stipendi bassi e carenza di richiesta di lavoro, mentre il Governo spreca milioni di euro per

costruire l'ennesimo ponte cittadino, assolutamente superfluo ed eccessivamente costoso per

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la funzione che dovrà svolgere. E a me tornano alla mente tutti gli sprechi relativi al ponte

sullo Stretto…

Il giorno successivo, prima ancora che io mi sia svegliato, Velibor passa ad una

concessionaria e si informa circa i miei cuscinetti: la sua premura è davvero notevole. Se

volessi cambiarli sarebbero da ordinare, ma ci pensano i miei amici meccanici a risolvermi il

problema: interrogati via e-mail circa lo strano comportamento della ruota, mi dicono di non

preoccuparmi e che il tutto è dovuto all'ingente carico di bagagli che grava sull’asse anteriore

della moto, creando l'effetto manifesto. Difatti, spogliata dalle borse, rifaccio la prova di

togliere le mani dallo sterzo durante la marcia e la moto fila dritta come deve. Viaggiare

sapendo di avere dei meccanici virtuali che mi accompagnano è una bella sensazione.

Dopo un bel sospiro di sollievo, a cuor più leggero posso concedermi la visita del centro

città, antico e molto gradevole. Qui si trova un po' di tutto: bellezze architettoniche ad ogni

angolo, l'immensa Beogradska tvrđava (una fortezza immersa nel bellissimo parco

Kalemegdan) e negozi degni della globalizzazione più estrema. La vista dall'alto è davvero

eccezionale: tagliata in tronconi dai fiumi Sava e Danubio, questa città ha un non so che di

affascinante. L’aria che respiro è pregna di storia e percepisco a pelle i profondi cambiamenti

degli ultimi anni. Velibor mi fa da guida raccontandomi gli aneddoti di qualche edificio e

molte storie di serbi, battaglie, turchi e scontri fra civiltà che si sono tenuti in questi luoghi.

Tuttavia la tolleranza e la generosità del popolo che mi ospita è incredibile: sono tutti super

gentili, «Grazie» e «Prego» sono parole molto più ricorrenti che da noi ed io mi godo ogni

secondo in questa meravigliosa città. Via a bere birra ed ascoltare musica rock al Beogradski

festival piva (la Festa della Birra di Belgrado), assieme a migliaia di ragazzi e ragazze di tutto

il mondo. Altro che viaggio in solitaria: da quando sono partito non sto facendo altro che

contornarmi di persone!

Questi giorni mi regalano delle sensazioni che faccio fatica a decifrare: il popolo che mi

ospita fa di tutto per farmi sentire come a casa, per non parlare del fatto di esser stato accolto

come un re in un appartamentino piccolo e modesto, ma abitato da persone ricche d'animo e

super ospitali. Ogni volta che provo ad offrire loro una birra per sdebitarmi, «Tu sei l’ospite!»

è sempre l’ultima cosa che mi sento dire prima che mi venga impedito e ciò mi lascia ancora

più stupito quando vengo a sapere che lo stipendio dei miei amici è di 400 € al mese. Più che

le pietanze, i palazzi ancora cadenti testimoni dalla guerra, i bui quartieri popolari e i tramonti

sul fiume, questa città fa breccia nel mio cuore per la bontà e la spontaneità del magnifico

popolo che la abita. Qui, per la prima volta, inizio veramente a sentire di aver intrapreso un

viaggio inteso come percorso interiore.

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Sole

È lunedì mattina ed i miei amici si devono svegliare presto per andare al lavoro; invece io ho

il privilegio di poter dimenticare che data sia e dovermi curare solo di raggiungere la

prossima pompa di benzina: un lunedì senza dover lavorare non ha prezzo. Su suggerimento

di Velibor il mio itinerario prevede una piccola deviazione: un po’ di Autostrada 1 per

allontanarmi dalla trafficata capitale, poi uscita a Svilajnac e 30 km in direzione di

Despotovac. Motivo? Visitare il monastero di Manasija. Il programma della giornata si

arricchisce, così, anche di un po’ di stradine malandate: semplicemente perfetto!

È una bellissima giornata di sole e fa davvero caldo dentro la giacca ed il pantalone. Potrei

viaggiare smanicato o con la felpa, ma preferisco sudare un po' ed avere la protezione

dell'abbigliamento tecnico, piuttosto che star fresco e rischiare di rimetterci un gomito

nell'eventualità di una rovinosa caduta (considerazione accompagnata da una grattatina

scaramantica). Tutto liscio come l’olio: oggi guido in tranquillità e rilassatezza e dopo molte

piacevolissime curve raggiungo la mia destinazione. Il monastero di Manasija risale al

quindicesimo secolo ed è cinto da alte mura in stile medioevale che comprendono enormi

torrioni. Il suggerimento di Velibor si è rivelato quanto mai azzeccato, nonostante non sia un

fan di mura e recinti: vanno bene per proteggere il corpo, ma l'anima deve essere libera di

vagare!

Parcheggio la moto all'ombra di un albero ed incontro Milenko, un simpatico muratore che

lavora al rifacimento della cinta esterna. Conosce alcune parole d’italiano ed il ritornello di O

sole mio e la nostra conversazione è povera di contenuti, ma molto espressiva e divertente.

Bevo acqua avidamente e valico il portone d'ingresso per scoprire questa chiesetta e fare un

po’ di foto, sebbene al suo interno sarebbe vietato (dico «Sarebbe» perché, nonostante

l'occhio vigile di un'antipatica suora, riesco comunque a fare un paio di scatti). Fuori fa

ancora molto caldo e mi concedo un po' di relax su di una panchina: mi guardo gli stivali

impolverati e faccio mente locale su dove sono. Nonostante i mille interrogativi che

caratterizzeranno il prosieguo del mio viaggio, ho ancora la vivida sensazione di aver

intrapreso la strada giusta.

Torno alla moto e sotto l'occhio attento di Milenko pulisco e lubrifico la catena, risistemo

la borsa da serbatoio e mi appresto a partire, ma prima chiedo a questo simpatico muratore di

fare una foto insieme e scambiarci gli indirizzi e-mail. Mentre sto per indossare il casco si

avvicinano alcuni suoi colleghi: è l'ora della pausa pranzo e tre ragazzi, molto più giovani di

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quel che appaiono, mi circondano ed il più scuro di essi inizia a parlarmi in inglese.

Nemmeno il tempo di presentarmi e già mi invitano a pranzo con loro. Mi sono ripromesso di

aprirmi quanto più possibile alle persone che incontrerò lungo il viaggio, dunque accetto

molto volentieri, sebbene non immagini neppure lontanamente cosa stia per accadermi.

Entriamo nuovamente nelle mura e ci dirigiamo verso una malandata casupola di mattoni

con all'esterno un piccolo portico e tavolini di legno grezzo. Vengo fatto accomodare a tavola

e, senza lasciarmi la possibilità di aiutarli ad apparecchiare, questi muratori mi mettono

innanzi il pane, il pollo con le patate, i pomodori e i fagioli che i familiari hanno preparato

per loro. Ed io che pensavo ci stessimo dirigendo verso una tavola calda per ordinare del

cibo! Che ingenuo. Insistono affinché io mangi in quantità mentre parliamo del più e del

meno: famiglia, lavoro, ragazze, sport, il mio viaggio, da dove vengo e perché. In pochi

minuti vengo conquistato da queste persone fantastiche, in particolar modo il ragazzo che mi

parla in inglese, un diciannovenne che sembra già un uomo vissuto. Sole è il suo soprannome,

mutuato del padre: entrambi grandi e forti, splendenti, proprio come il Sole. Una massa

impressionante di muscoli per lavorare, andare in palestra, combattere e ammaliare le ragazze

in qualche club. Per lui ed i suoi amici la forma fisica conta più di ogni altra cosa e mi fanno

mangiare in quantità perché, per i loro standard, io sono decisamente gracile! In effetti

sembro un mingherlino al loro confronto, nonostante il mio metro e ottantadue. Mentre

chiacchieriamo, Sole traduce le mie parole a suo fratello e agli altri muratori: ci facciamo un

mare di risate e mi godo la compagnia di questi fantastici commensali, restando letteralmente

sbigottito dinanzi alla familiarità, amicizia e cordialità con la quale mi fanno sentire uno di

loro, nonostante ci siamo conosciuti da pochi minuti. Sole mi chiama «Amico mio», mentre i

suoi colleghi hanno l’appellativo di «Fratelli»; anche i muratori più anziani, da dentro una

stanzetta polverosa e malandata, chiedono come stia, se mi piaccia il pasto e se voglia anche

alcune delle loro porzioni. La fetta di pane più grande è per me e, per mangiare lo yogurt, uso

l'unico cucchiaio disponibile mentre gli altri si accontentano della forchetta. Vengo trattato

letteralmente da re, ma questo quasi mi mette a disagio: faccio fatica ad esprimere le mie

parole di ringraziamento, mentre loro continuano ad offrirmi del cibo che a me sembra

buonissimo, sebbene sia merito più delle emozioni che del gusto. Ringrazio un milione di

volte, ma la risposta che ricevo è sempre «Non serve ringraziare, amico mio!»

Alla fine del pranzo ho la pancia stracolma e sono ancora incredulo del trattamento che ho

ricevuto. È così che appena torniamo verso la moto decido di trattenermi e trascorrere altro

tempo con queste persone magnifiche. In men che non si dica sono su un rimorchio trainato

da un trattore, assieme a Sole e a suo fratello Bogdan. Un muratore anziano ci traghetta,

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poche decine di metri lungo la strada che costeggia la cinta, a far carico di pietre da adoperare

per il rifacimento delle mura della fortezza. Guanti, sole (quello comunemente noto) cocente

e via a caricare massi. Condivido con questi muratori sudore, fatica, polvere, ma anche

sorrisi, energia buona e goliardia. Sole mi ferma ogni volta io mi appresti a metter le mani sui

massi più grandi: con la scusa che non ho la cintura per i reni, si diverte a tramutarli in palle

mediche per allenare i muscoli delle braccia e delle spalle. È davvero incredibile la forza

(fisica) e l'energia (allo stato puro) sprigionata da questo ragazzo. Trascorro con lui ed i suoi

colleghi due ore di sudore che non dimenticherò mai. Certo, per me è quasi un gioco e,

nonostante non mi sia risparmiato, non posso considerarlo un lavoro: fra poco sarò lontano da

qui mentre per loro, domani, ci saranno ancora pietre da raccogliere. E faticare con questo

caldo non è certo come farlo in una palestra climatizzata. Eppure a queste persone il lavoro

piace e non si lamentano: quella a cui assisto è una vera e propria lezione di vita, in assoluto

l’esperienza più intensa da quando sono partito.

Devo ammetterlo: durante queste ore densissime ed emozionanti mi sono sentito povero.

Anzi: poverissimo. Queste persone fantastiche lavorano duramente per pochi soldi al mese,

eppure sono pronte a condividere tutto quel che hanno con un perfetto sconosciuto, un

marziano arrivato chissà da dove con una tuta spaziale ed una navicella stracarica di cose che,

ora che le guardo, mi sembrano solo inutili e pesanti. Grazie a loro capisco che si è generosi

quando si condivide qualcosa che si ha in carenza, non in abbondanza. Farò tesoro per

sempre di questa esperienza. Sole, dall’alto dei suoi diciannove anni e del suo metro e

novanta mi ha mostrato cosa significhi essere ricchi: avere un cuore grande, un animo

impavido, entusiasmo per la vita, disponibilità a condividere il pane con chiunque sappia

apprezzarlo. Ci scambiamo i contatti, abbraccio tutti, metto il casco e riparto, sebbene a

malincuore. Questa volta il muro delle mie credenze e delle mie convinzioni ha ricevuto una

forte scossa e sta iniziando a vacillare vistosamente. Non potrò mai esprimere concretamente

a queste persone la gratitudine che meritano per avermi insegnato così tanto.

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Aria frizzante

Gli ultimi cento chilometri che mi separano da Niš scorrono veloci e piacevoli: avverto il

sorriso che si cela dentro al sottocasco e sento che l'aria che respiro ha un profumo diverso.

Al mio arrivo incontro Dušanka: anche lei è membro di AEGEE e, mentre ci ristoriamo dalla

calura in un bar in piena fortezza Tvrdjava, mi suggerisce un ostello poco distante, mi spiega

un po’ di cose della città e mi dà un paio di dritte per la cena. Appena usciti dall'ingresso

principale per caso incontriamo un suo amico, membro di Couchsurfing: questa è una

comunità di volontari i cui iscritti offrono la propria disponibilità ai viaggiatori, al fine di

offrire loro consigli, informazioni o aiuto, incontrandoli per una semplice chiacchierata

oppure ospitandoli in casa propria. Ognuno ha un profilo personale sul sito internet della

comunità e si possono ricercare i membri presenti in ogni località, quindi contattarli. Io sono

praticamente un novizio: ho creato il mio profilo poco prima di partire, ma sinora non l'ho

ancora utilizzato. Invece Neven ha all'attivo quasi duecento persone ospitate in casa sua,

praticamente ha conosciuto gente di tutto il mondo ed in virtù di ciò la sua vita si può

considerare tutto fuorché monotona. Ci scambiamo i numeri e ci diamo appuntamento per il

dopocena, mentre io mi avvio alla ricerca del ristorante indicatomi da Dušanka.

In pieno centro, chiedo indicazioni ad un ragazzo: nemmeno ci presentiamo e decide di

indicarmi la via accompagnandomi. Mentre camminiamo rispondo alle sue domande e gli

spiego cosa mi abbia portato lì e quale sia il progetto del mio viaggio. Questi si chiama Stevo

e strabuzza gli occhi: ciò che suscitano le mie parole è un invito a cena e la voglia di saperne

di più sul mio conto. Cavolo, ma si comportano tutti così in Serbia? Ci fermiamo in un

ristorante all’aperto popolato da un numero impressionante di belle ragazze e parliamo del

più e del meno, raccontandoci le rispettive esperienze di viaggi e lavoro. Quando ci alziamo

faccio di tutto per pagare il conto, ma non c’è storia: questa cena è il suo augurio di

benvenuto nella città, augurandomi un buon proseguimento di viaggio. Oltre all'immancabile

promessa di tenerci in contatto.

Dopo l'esperienza del pranzo, ho ancora meno parole per descrivere l’incredibile ospitalità

del popolo serbo, confermata ulteriormente (qualora ce ne fosse stato bisogno) quando

incontro Neven ed i suoi amici che decidono di offrirmi anche una birra! Trascorro con loro

la serata, a chiacchierare e bere dinanzi al fiume Nišava, ridotto ad un semplice rigagnolo

dalla torrida temperatura di questa estate. Mi godo il luppolo fresco sulla lingua e l'aria

frizzante nelle narici. Quest'oggi non avrei potuto desiderare di meglio: decisamente la

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giornata più intensa e sorprendente da quando sono partito. In virtù di tutte queste emozioni

assolutamente inaspettate, non può non tornarmi alla mente quella notte buia e tumultuosa di

ben quattordici mesi fa: è l'episodio da cui tutto ha avuto inizio. Quella notte agitata e confusa

che sento ancora vivida a fior di pelle, ma che non smetterò mai di ringraziare di aver vissuto.

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CAPITOLO 9

Big Bang

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Buio. Fuori e dentro.

Aprivo gli occhi ed un fioco barlume si faceva strada nelle mie pupille, mostrandomi

pigramente uno scenario che conoscevo bene. Con le mani afferravo il lenzuolo, arrotolato

all'altezza della mia vita. Tiravo un lungo sospiro e sbuffavo, preparandomi ad un movimento

lungo e complesso: dapprima le mani si sarebbero spostate a sinistra, seguite dalle braccia,

rotazione delle spalle e della testa, torsione del bacino ed accavallamento delle gambe. Mi

stavo semplicemente girando verso l'altro lato del letto, per l'ennesima volta.

Di notti insonni me ne erano capitate tante, ma quella era diversa. Sentivo che quella volta

non me la sarei cavata con una lunga doccia e profondi respiri: quella notte la mia testa aveva

sete di risposte concrete, mentre milioni di frammenti di pensiero la attraversavano

all'impazzata.

Era giugno, faceva caldo ed era quasi mezzanotte. Avevo capito che per prendere sonno

avrei dovuto assecondare le mie meningi e dar loro un minimo di soddisfazione; come con un

bambino capriccioso, ero costretto ad ascoltarle e sentire cosa volessero prima di rimetterle a

riposo. Ma non erano semplici frivolezze: si trattava di riflettere su chi io fossi, su cosa mi

avesse portato a trasferirmi ancora e perché mi sentissi ancorato ad una vita che non

percepivo mia. Avevo messo in discussione tutto il mio universo per tentare di far funzionare

le cose, per cercare un nuovo equilibrio, ma il risultato era stato negativo: ero ben lontano da

quanto sperato e, sebbene volessi illudermi del contrario, il mio subconscio aveva scelto

questa notte per farmene rendere conto.

Buio. Fuori e dentro.

Immobile, avvertivo il materasso muoversi come ci fosse un piccolo terremoto, invece si

trattava dei profondi battiti del mio cuore. Qualora avessi voluto trovare la chiave di volta dei

pensieri che lo animavano, avrei dovuto scavare nelle profondità del mio animo. Avevo già

cambiato vita una volta, ma non era stato sufficiente: non avevo raggiunto l’equilibrio che

desideravo. Come una mosca chiusa in una stanza: di spazio ne avevo a sufficienza, ma pur

sempre di prigionia si trattava. Avevo ancora sete di cambiamento, ma stavolta lo stacco

doveva essere radicale. C'era un'idea che mi ronzava nella testa da qualche mese e,

incoscientemente, avevo fatto di tutto per tenerla rinchiusa. Più che un'idea, una speranza. Più

che una speranza, un mondo nuovo: Australia. Ecco cosa volevo.

Una possibilità di vita diversa, migliore se possibile, confidando nella lontananza da tutto

il mio mondo conosciuto. Una terra nuova, prospettive diverse. Volevo andare in Australia!

Ecco la soluzione dell'enigma.

Ma era ancora buio. Fuori e dentro.

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Era passato un nanosecondo da quando avevo scovato la mia ancora di salvezza, ma avevo

già capito che mancava qualcosa d'importantissimo alla mia redenzione. E la moto? Sì,

proprio la moto! Avevo lavorato sodo per comprarne una e l'avevo desiderata per così tanto

tempo che non avrei potuto accettare l'idea di separarmene. Cosa avrei potuto fare? Le

prospettive non erano molte: venderla e comprarne un'altra una volta a destinazione?

Neppure lontanamente! Lasciarla parcheggiata per anni a prender polvere: che eresia! Altra

pausa di un nanosecondo per concedere ai miei neuroni di compiacersi di quanto appena

partorito: vorrà dire che in Australia ci andremo insieme! In un attimo ero sobbalzato dal letto

e mi ero messo seduto, scattato in piedi e protratto verso l'interruttore.

Luce fuori, buio dentro.

Non avevo una cartina, tanto meno un mappamondo, ma nel cassetto c'era un GPS e

dentro di esso una mappa mondiale. Molto sommariamente mi rivelava un tragitto tra paesi

esotici e sconosciuti, sentiti nominare solo durante le lezioni di geografia e nei film.

Spannometricamente mi ero messo a calcolare persino i chilometri e la rotta ideale. Era

andata, avevo deciso: la mia nuova vita sarebbe cominciata così. In tutta la mia esistenza non

avevo mai fatto nulla del genere e non avevo mai preso una decisione tanto importante così

rapidamente!

Quasi come il tempo avesse rallentato, la mia mente stava elaborando decine di pensieri al

secondo ed uno specifico meritava una attenzione particolare: partire da solo o in compagnia?

I chilometri sarebbero stati tanti, le incognite ancora di più: nonostante la mia temeraria

decisione, quel poco di buon senso che mi era rimasto mi stava suggerendo di contemplare

l’eventualità di avere compagno di viaggio. Preso il telefono avevo chiamato il mio amico

Filippo: il suo telefono squillava in piazza IV Novembre a Perugia e, appena sentita la sua

voce, in una manciata di secondi gli avevo spiegato cosa volevo fare e come. «Vieni anche

tu?» Alla (tremante) risposta affermativa avevo salutato e chiuso la conversazione con: «Ne

riparliamo domani.»

Erano passati pochi minuti, ma mi sentivo letteralmente stremato. La mia testa si era

finalmente svuotata e le mie meningi erano appagate; ero libero di crollare su me stesso e

verso il meritato riposo.

Luce. Fuori e dentro.

Ma stavolta di vera luce si trattava. Una speranza, un sogno, una vita. Buonanotte mondo,

da quel momento avremmo fatto i conti faccia a faccia!