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Masaniello Masaniello è uno dei personaggi più popolari della tradizione napoletana. Tommaso Aniello d'Amalfi, meglio conosciuto come Masaniello [1] (Napoli , 29 giugno 1620 Napoli , 16 luglio 1647 ), fu il principale protagonista della rivolta napoletana che vide, dal 7 al 16 luglio 1647 , la popolazione civile della città insorgere contro la pressione fiscale imposta dal governo vicereale spagnolo . Essendo un personaggio di grande rilevanza nel panorama folkloristico di Napoli, le vicende della sua vita si mescolano spesso al mito e alla tradizione popolare della città partenopea. Quella di Masaniello non fu una rivolta antispagnola e repubblicana, come avrebbe voluto la storiografia dell'Ottocento che, profondamente influenzata dai valori risorgimentali , vedeva in lui un patriota ribellatosi alla dominazione straniera. Le cause degli eventi del luglio 1647 risiedono esclusivamente nella specificità politica, economica e sociale della Napoli spagnola nella prima metà del Seicento . La rivolta fu scatenata dall'esasperazione delle classi più umili verso le gabelle imposte sugli alimenti di necessario consumo. Il grido con cui Masaniello sollevò il popolo il 7 luglio fu: «Viva il re di Spagna, mora il malgoverno», secondo la consuetudine popolare tipica dell'Ancien régime di cercare nel sovrano la difesa dalle prevaricazioni dei suoi sottoposti. Dopo dieci giorni di rivolta che costrinsero gli spagnoli ad accettare le rivendicazioni popolari, a causa di un comportamento sempre più

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Masaniello

Masaniello è uno dei personaggi più popolari della tradizione napoletana.

Tommaso Aniello d'Amalfi, meglio conosciuto come Masaniello[1] (Napoli, 29 giugno 1620 – Napoli, 16 luglio 1647), fu il principale protagonista della rivolta napoletana che vide, dal 7 al 16 luglio 1647, la popolazione civile della città insorgere contro la pressione fiscale imposta dal governo vicereale spagnolo. Essendo un personaggio di grande rilevanza nel panorama folkloristico di Napoli, le vicende della sua vita si mescolano spesso al mito e alla tradizione popolare della città partenopea.

Quella di Masaniello non fu una rivolta antispagnola e repubblicana, come avrebbe voluto la storiografia dell'Ottocento che, profondamente influenzata dai valori risorgimentali, vedeva in lui un patriota ribellatosi alla dominazione straniera. Le cause degli eventi del luglio 1647 risiedono esclusivamente nella specificità politica, economica e sociale della Napoli spagnola nella prima metà del Seicento.

La rivolta fu scatenata dall'esasperazione delle classi più umili verso le gabelle imposte sugli alimenti di necessario consumo. Il grido con cui Masaniello sollevò il popolo il 7 luglio fu: «Viva il re di Spagna, mora il malgoverno», secondo la consuetudine popolare tipica dell'Ancien régime di cercare nel sovrano la difesa dalle prevaricazioni dei suoi sottoposti. Dopo dieci giorni di rivolta che costrinsero gli spagnoli ad accettare le rivendicazioni popolari, a causa di un comportamento sempre più dispotico e stravagante Masaniello fu accusato di pazzia, tradito da una parte degli stessi rivoltosi ed assassinato all'età di ventisette anni.

Nonostante la breve durata, la ribellione da lui guidata indebolì il secolare dominio spagnolo sulla città, aprendo la strada per la proclamazione dell'effimera e filofrancese Real Repubblica Napoletana, avvenuta cinque mesi dopo la sua morte. Questi eventi, visti in un'ottica europea, riaccesero la tradizionale contesa tra Spagna e Francia per il possesso della corona di Napoli.

Nome e luogo di nascita Per molto tempo si è creduto che Masaniello fosse originario di Amalfi, mentre in realtà nacque a Vico Rotto al Mercato, uno dei tanti vicoli che circondano piazza del Mercato a Napoli. All'origine

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di questo equivoco c'è quel d'Amalfi, che è semplicemente il cognome, ma che è stato tradizionalmente interpretato come un riferimento al luogo d'origine del capopopolo. Alcune fonti[2] sostengono che Tommaso Aniello nacque ad Amalfi, dove sarebbe stato amico di un altro singolare personaggio amalfitano: l'abate Pirone, chiamato così perché usava abusivamente la tonaca per sfuggire alla giustizia, in realtà bandito che uccideva dietro compenso, e che poi sarebbe stato anche suo collaboratore nei giorni della rivolta. Nel 1896, il poeta Salvatore Di Giacomo smentì la tesi dell'origine amalfitana di Masaniello trascrivendone l'atto di battesimo reperito nella Chiesa di Santa Caterina in Foro Magno,[3] che cita:

Iscrizione presso la casa dove Masaniello nacque e visse.« A 29 giugno 1620 Thomaso Aniello figlio di Cicco d'Amalfi et Antonia Gargano è stato battezzato da me Don Giovanni Matteo Peta, et levato dal sacro fonte da Agostino Monaco et Giovanna de Lieto al Vico Rotto.[4] »

La celebrazione avvenne lo stesso giorno della nascita, nella stessa chiesa dove nel 1641 Tommaso Aniello sposò poi la sedicenne Bernardina Pisa. Lo storico Giuseppe Galasso ipotizza che l'equivoco «sia stato agevolato e incoraggiato da un consapevole atteggiamento del potere e della cultura ufficiale della Napoli spagnola. Nella fedelissima città [...] non si doveva e non si poteva ammettere la presenza di un infedele, di un ribelle come colui che aveva messo in questione il governo spagnolo a Napoli».[5] Il 7 luglio 1997, in occasione del 350º anniversario della sommossa popolare, il Comune di Napoli ha posto un'iscrizione a Vico Rotto in onore di Masaniello.

Dalla nascita al 1647

La casa di Masaniello a Vico Rotto al Mercato come si presenta oggi.

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La famiglia di Masaniello era umile ma non poverissima. Il padre, Francesco (Cicco) d'Amalfi, era un pescatore e venditore al minuto. La madre, Antonia Gargano, incinta di Masaniello prima del matrimonio, era una massaia. Aveva due fratelli minori ed una sorella: Giovanni, che fu un altro capo della ribellione; Francesco, che morì durante l'infanzia; e Grazia. La casa dove visse si trovava tra la pietra del pesce, nel quartiere Pendino, dove avveniva la riscossione della gabella sui prodotti ittici, e Porta Nolana, dove invece avveniva quella del dazio sulla farina.[6]

Napoli era all'epoca, con circa 250.000 abitanti,[7] una delle metropoli più popolose d'Europa; e piazza del Mercato, nei cui dintorni Masaniello trascorse tutta la sua vita, ne era il centro nevralgico. Ospitava bancarelle che vendevano ogni sorta di merce, palchi da cui i saltimbanchi si esibivano per i popolani, ed era come ai tempi di Corradino di Svevia il luogo preposto alle esecuzioni capitali. Essendo il principale centro di commercio della città, in piazza aveva luogo la riscossione delle imposte da parte degli arrendatori[8] al servizio del governo spagnolo.

Nel corso degli anni quaranta del Seicento, la Spagna asburgica si trovava a dover affrontare una lunga serie di conflitti rovinosi: la rivolta dei Paesi Bassi (1568-1648), la guerra dei trent'anni (1618-1648), la sollevazione della Catalogna (1640-1659), e la secessione del Portogallo (1640-1668). Per sostenere lo sforzo bellico, il regno iberico impose una forte pressione fiscale al Vicereame di Napoli allo scopo di risanare le casse del suo enorme impero, il cui Siglo de Oro stava fatalmente volgendo al termine.

Masaniello, pescatore e pescivendolo come il padre, era descritto così dai suoi contemporanei:

Punizione dei ladri al tempo di Masaniello, Micco Spadaro, 1647 ca.[9]

« Era un giovine di ventisette anni, d'aspetto bello e grazioso, il viso l'aveva bruno ed alquanto arso dal sole: l'occhio nero, i capelli biondi, i quali disposti in vago zazzerino gli scendevano giù per lo collo. Vestiva alla marinaresca; ma d'una foggia sua propria, la quale, [...] alla mezzana ma svelta sua persona molto di gaio e di pellegrino aggiungeva.[10] »

Spesso, per evadere la gabella, portava il pesce direttamente nelle case dei notabili, ma veniva quasi sempre ripagato male o colto sul fatto dai gabellieri ed imprigionato. La sua principale attività era però il contrabbando, tanto che nel 1646 la sua fama di abile contrabbandiere era già ampiamente consolidata nell'ambiente del Mercato. Lavorava principalmente per la nobiltà feudale, tra cui la marchesa di Brienza e don Diomede Carafa, duca di Maddaloni, dal quale era trattato come uno schiavo.[6] Anche la moglie Bernardina, arrestata per aver introdotto in città una calza piena di farina evadendo il dazio, fu imprigionata per otto giorni. Per ottenerne il rilascio, Masaniello fu costretto a

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pagare un riscatto di cento scudi, che racimolò indebitandosi. Secondo la tradizione, fu proprio questo episodio a scatenare in lui il desiderio di vendicare la popolazione dagli oppressori.

Giulio Genoino e Masaniello in un'illustrazione del Settecento.

Durante uno dei soggiorni in prigione incontrò, nel carcere del Grande Ammiraglio, il giovane cavese e dottore in legge Marco Vitale, figlio illegittimo di un noto avvocato, che lo mise in contatto con alcuni esponenti del ceto medio stanchi dei continui soprusi dei gabellieri e dei privilegi della nobiltà. Masaniello divenne allievo del letterato don Giulio Genoino, prete ultraottantenne con un passato da difensore del popolo.

Nel 1619, durante il mandato del viceré don Pedro Téllez-Girón, duca di Osuna, Genoino era stato chiamato due volte a rappresentare gli interessi del popolo contro la nobiltà, svolgendo in sostanza la funzione di un antico tribuno della plebe. Nel 1620 fu però fatto destituire dal Consiglio Collaterale ed incarcerato lontano da Napoli.

Rientrato in città nel 1639, tornò subito a combattere per i diritti del popolo e formò intorno a se un nutrito gruppo di agitatori, composto da: Francesco Antonio Arpaja, suo vecchio e fidato collaboratore; il frate carmelitano Savino Boccardo; il già citato Marco Vitale; i vari capitani delle ottine[11] della città; ed una numerosa schiera di lazzari. Il vecchio ecclesiastico, logorato nel fisico ma non negli intenti rivoluzionari, trovò nel giovane ma ignorante Masaniello il suo braccio armato.

La rivolta Il peso delle tasse diminuì lievemente sotto il viceré Juan Alfonso Enríquez de Cabrera che revocò alcune imposte, e che sollecitato da Madrid a reperire un milione di ducati per finanziare la guerra contro la Francia, chiese a re Filippo IV di essere sostituito.[12] La situazione si aggravò quando il suo successore, Rodrigo Ponce de León, duca d'Arcos, descritto dai contemporanei come un uomo dedito alla vita mondana, frivolo e senza esperienza di governo, reintrodusse nel 1646 una gravosa gabella sulla frutta, all'epoca l'alimento più consumato dai ceti umili. Lo stesso provvedimento nel 1620, ai tempi di Genoino, aveva già scatenato gravi tumulti in città. La vigilia di Natale, uscendo dalla Basilica del Carmine, il duca d'Arcos fu circondato da un gruppo di lazzari che gli estorse la promessa di abolire le tasse sugli alimenti di necessario consumo. Tornato a Palazzo Reale, il viceré fu però convinto dai nobili, ai quali era stata affidata la riscossione delle tasse, a non abolire la gabella sulla frutta.[13] Il popolo, sempre più provato dalla prepotenza dei gabellieri, attese invano per sei mesi l'abolizione dell'imposta.

Alla situazione già esplosiva si aggiunse l'esempio della Sicilia, dove nel biennio 1646-1647 il malcontento popolare verso la forte tassazione provocò una serie di gravi tumulti cittadini. Il 24

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agosto 1646, Messina fu la prima città siciliana sotto il dominio spagnolo ad insorgere contro le gabelle. Nel maggio dell'anno successivo scoppiarono poi i moti di Catania e Palermo, i cui buoni risultati contribuirono a spingere i popolani napoletani alla rivolta.[14]

Masaniello ritratto da Aniello Falcone, 1647.

Il 6 giugno 1647, alcuni popolani guidati da Masaniello e dal fratello Giovanni bruciarono i banchi del dazio a piazza del Mercato. Domenica 30 giugno, durante le prime celebrazioni per la festa della Madonna del Carmine, il giovane pescatore radunò un gruppo di lazzari vestiti da arabi ed armati di canne come lance, i cosiddetti alarbi, che durante la sfilata davanti al Palazzo Reale rivolsero ogni genere di imprecazione ai notabili spagnoli affacciati al balcone.

La domenica seguente, il 7 luglio, dopo essere stati incoraggiati da Genoino, un gruppo di lazzari si riunì nei pressi di Sant'Eligio allo scopo di sostenere il cognato di Masaniello, il puteolano Maso Carrese, che capeggiava un gruppo di fruttivendoli decisi a non pagare la gabella sulla frutta. Per calmare gli animi fu chiamato l'eletto del popolo Andrea Naclerio che, nonostante il suo ruolo, si schierò dalla parte dei gabellieri. La zuffa che si scatenò tra Carrese e Naclerio fu la scintilla che scatenò la ribellione, Masaniello ed i suoi alarbi sollevarono la popolazione, ed al grido di: «Viva il re di Spagna, mora il malgoverno» la guidarono fino alla reggia dove, sbaragliati i soldati spagnoli ed i mercenari tedeschi di guardia, giunsero fino alle stanze della viceregina.[15]

Il duca d'Arcos, riuscito miracolosamente a salvarsi dall'aggressione di un popolano,[16] si rifugiò nel Convento di San Luigi[17] e da qui fece recapitare all'arcivescovo di Napoli, il cardinale Ascanio Filomarino, un messaggio in cui prometteva l'abolizione di tutte le imposte più gravose. Temendo ancora per la sua sorte, il viceré si spostò prima a Castel Sant'Elmo ed in fine a Castel Nuovo.

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Il cardinale Filomarino ritratto in un affresco di Giovan Battista Calandra, 1642, Chiesa dei Santi Apostoli, Napoli.

Ottenuta l'abolizione di tutte le gabelle come voleva Masaniello, Genoino, che perseguiva un progetto rivoluzionario più ambizioso, chiese il riconoscimento di un vecchio privilegio concesso nel 1517 da Carlo V (popolarmente chiamato Colaquinto) al popolo napoletano. Il privilegio avrebbe dovuto sancire per il popolo una rappresentanza uguale a quella dei nobili, oltre alla riduzione ed equa ripartizione delle tasse tra le classi sociali. Il cardinale Filomarino, da sempre amico della plebe ed inviso alla nobiltà, si propose come mediatore per il riconoscimento del documento appoggiando apertamente le rivendicazioni dei rivoltosi.[18]

Nella notte tra il 7 e l'8 luglio furono puniti tutti coloro che erano ritenuti responsabili delle gabelle, primo fra tutti Girolamo Letizia, il colpevole dell'arresto della moglie di Masaniello, a cui fu bruciata la casa nei pressi di Portanova. Seguirono la stessa sorte diversi palazzi nobiliari, le case di ricchi mercanti e quelle di altri oppressori, tra cui quella di Andrea Naclerio. Furono poi dati alle fiamme tutti i registri delle imposte e liberati dalle prigioni tutti coloro che erano stati incarcerati per evasione o contrabbando.

Ottenere i documenti chiesti da Genoino fu molto difficile: diverse volte il viceré ed i nobili sottoposero all'esame del vecchio prelato dei documenti falsi o inutili. Un tentativo fu fatto anche dal duca di Maddaloni Diomede Carafa che, una volta smascherato, fu costretto a scappare per salvarsi dalla furia dei popolani. La stessa sorte toccò a Gregorio Carafa, priore della Roccella.[19] Il 9 luglio, mentre si aspettava la consegna del documento autentico, il giovane pescivendolo organizzò con successo la presa della Basilica di San Lorenzo e si impossessò di alcuni cannoni che erano custoditi nel chiostro. Finalmente una copia del privilegio autentico fu consegnata dagli spagnoli al cardinale Filomarino, che la consegnò a Masaniello, e quindi a Genoino. Il privilegio era in realtà stato concesso alla fedelissima città da Ferdinando il Cattolico, e poi confermato da suo nipote Carlo V nel 1517, al momento della sua investitura a Napoli da parte di papa Clemente VII.

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L'uccisione di Don Giuseppe Carafa, Micco Spadaro, 1647 ca.[9]

Il 10 luglio, la quarta giornata di rivolta, Masaniello si era procurato già molti nemici. Il duca di Maddaloni allo scopo di attentare alla sua vita fece introdurre trecento banditi nella Basilica del Carmine, ritrovo dei rivoltosi. I banditi in realtà, servendo la nobiltà ai danni dei più umili, erano molto più simili ai bravi manzoniani che a dei semplici fuorilegge. Dopo la lettura in pubblico dei capitoli del privilegio, i sicari si avventarono contro il capopopolo ma l'attentato fallì. La folla inferocita catturò ed uccise il noto bandito Domenico Perrone, ed anche altri furono rincorsi e linciati, tra cui un certo Antimo Grasso che prima di morire confessò di essere al soldo del duca di Maddaloni. La plebe allora si vendicò sul fratello del duca, don Giuseppe Carafa, che dopo essere stato ucciso fu decapitato affinché si potesse portare la sua testa in trionfo da Masaniello.

Lo stesso giorno si addentrarono nel golfo di Napoli le galee spagnole di stanza a Genova agli ordini dell'ammiraglio Giannettino Doria. Temendo uno sbarco, Masaniello ordinò che la flotta stesse lontana almeno un miglio dalla terra ferma, costringendo l'ammiraglio Doria ad inviargli un messaggero per ottenere almeno la possibilità di fare scorta di viveri per gli equipaggi. Il messaggero supplicò il pescatore di Vico Rotto, a cui si rivolse chiamandolo «Sua Signoria illustrissima», di concedere vettovaglie alla flotta, e Masaniello accettò ordinando di provvedere alla richiesta con quattrocento palate (pezzi) di pane.[20]

Il brevissimo "regno" di Masaniello Giovedì 11 luglio, dopo la ratifica dei capitoli del privilegio nella Basilica del Carmine da parte di un'assemblea popolare, Masaniello cavalcò tra le acclamazioni ed i festeggiamenti dei popolani, insieme al cardinale Filomarino ed al nuovo eletto del popolo Francesco Antonio Arpaja, fino a Palazzo Reale per incontrare il viceré. Alla presenza del duca d'Arcos, a causa di un improvviso malore, perse i sensi e svenne iniziando a manifestare i primi sintomi di quell'instabilità mentale che gli avrebbe poi procurato l'accusa di pazzia. Durante l'incontro, dopo un infruttuoso tentativo di corruzione, il pescatore fu nominato Capitano generale del fedelissimo popolo napoletano. Filomarino, scrivendo a papa Innocenzo X, lo descrisse così:

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Presunto ritratto di Masaniello nelle vesti di capitano generale. Dipinto di Micco Spadaro. Collezione privata.

« Questo Masaniello è pervenuto a segno tale di autorità, di comando, di rispetto e di ubbidienza, in questi pochi giorni, che ha fatto tremare tutta la città con li suoi ordini, li quali sono stati eseguiti da' suoi seguaci con ogni puntualità e rigore: ha dimostrato prudenza, giudizio e moderazione; insomma era divenuto un re in questa città, e il più glorioso e trionfante che abbia avuto il mondo. Chi non l'ha veduto, non può figurarselo nell'idea; e chi l'ha veduto non può essere sufficiente a rappresentarlo perfettamente ad altri. Non vestiva altro abito che una camicia e calzoni di tela bianca ad uso di pescatore, scalzo e senza alcuna cosa in testa; né ha voluto mutar vestito, se non nella gita dal Viceré.[21] »

Iniziò da questo momento a frequentare la corte spagnola e fu coperto di onori dai nobili e dallo stesso duca d'Arcos. I suoi abiti non erano più quelli di un pescivendolo ma quelli di un nobiluomo, e sotto la sua casa a Vico Rotto venne eretto un palco dal quale poteva legiferare a suo piacimento in nome del re di Spagna. Fu più volte ricevuto a Palazzo Reale con la moglie Bernardina, che si presentò come "viceregina delle popolane" alla duchessa d'Arcos,[22] e la sorella Grazia.

La tradizione vuole che la presunta pazzia di Masaniello fu causata dalla roserpina, un potente allucinogeno somministratogli durante un banchetto nella reggia. Probabilmente il comportamento di Masaniello era improvvisamente mutato a causa dell'improvvisa ascesa al potere, e gli "atti di follia" che commise erano in realtà causati dall'incapacità di gestire grandi responsabilità di comando. Al culmine del potere i segni di squilibrio che manifestò furono numerosi: il lancio del coltello tra la folla; le interminabili galoppate; i tuffi notturni nel mare; e l'insistere nel progetto strampalato di trasformare piazza del Mercato in un porto, e di costruirvi un ponte per collegare Napoli alla Spagna.[23]

Il 12 luglio iniziò inoltre ad ordinare diverse esecuzioni sommarie dei suoi oppositori, compresa quella di un bandito verso il quale Genoino gli chiese di essere clemente.[24] Ormai il vecchio prete era consapevole di aver perso ogni influenza sul capopopolo e sulla rivoluzione. La popolazione cominciò a non vedere di buon occhio il fatto che un popolano pretendesse simile obbedienza e rispetto, ed iniziò a credere alle voci sulla pazzia del suo protettore. Cominciò anche a diffondersi la voce che Masaniello fosse un pederasta, e che intrattenesse una relazione omosessuale con il sedicenne Marco Vitale, suo amico e segretario.[25]

Il 13 luglio il viceré giurò solennemente sui capitoli del privilegio nel Duomo di Napoli: il popolo era alla fine riuscito ad imporre le proprie rivendicazioni al governo spagnolo. Questo successo, a

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cui Masaniello aveva contribuito più di tutti, non lo risparmiò dall'ostilità di alcuni suoi ex-compagni di lotta, tra cui Genoino che di nascosto tramava la sua eliminazione.

Il tradimento e la morte Il 16 luglio, ricorrenza della Madonna del Carmine, affacciato da una finestra di casa sua, cercò inutilmente di difendersi dalle accuse di pazzia e tradimento che provenivano dalla strada. Il capopopolo, il cui fisico era ormai debilitato dalla malattia, accusò i suoi detrattori di ingratitudine e ricordandogli le condizioni in cui versavano prima della rivolta, pronunciò la frase rimasta proverbiale:«tu ti ricordi, popolo mio, come eri ridotto?».[26][27] Sentendosi braccato cercò rifugio nella Basilica del Carmine, e qui, interrompendo la celebrazione della messa, pregò l'arcivescovo Filomarino di poter partecipare prima di morire, insieme a lui, al viceré ed alle altre autorità della città, alla tradizionale cavalcata in onore della Vergine.[28] Poi salì sul pulpito per tenere il suo ultimo discorso:

(NAP)

« Amice miei, popolo mio, gente: vuie ve credite ca io sò pazzo e forze avite raggione vuie: io sò pazze overamente. Ma nunn'è colpa da mia, so state lloro che m'hanno fatto'ascì afforza n'fantasia! Io ve vulevo sulamente bbene e forze sarrà chesta 'a pazzaria ca tengo 'ncapa. Vuie primme eravate munnezza e mò site libbere. Io v'aggio fatto libbere. Ma quanto pò durà sta libbertà? Nu juorno?! Duie juorne?! E già pecché po' ve vene 'o suonno e ve jate tutte quante 'a cuccà. E facite bbuone: nun se pò campà tutta a vita cu na scuppetta 'mmano. Facite comm'a Masaniello: ascite pazze, redite e vuttateve 'nterra, ca site pat' 'e figlie. Ma si ve vulite tenere 'a libbertà, nun v'addurmite! Nun pusate ll'arme! 'O vedite? A me m'hanno avvelenate e mò me vonno pure accidere. E ci 'hanno raggione lloro quanno diceno ca nu pisciavinnolo nun pò addeventà generalissimo d'a pupulazione a nu mumento a n'ato. Ma io nun vulevo fa niente 'e male e manco niente voglio. Chi me vo' bbene overamente dicesse sulo na preghiera pe me: nu requia-materna e basta pé quanno moro. P' 'o rriesto v' 'o torno a dì: nun voglio niente. Annudo so' nato e annudo voglio murì. Guardate!![29] »

(IT)

« Amici miei, popolo mio, gente: voi credete che io sia pazzo e forse avete ragione voi: io sono pazzo veramente. Ma non è colpa mia, sono stati loro che per forza mi hanno fatto impazzire! Io vi volevo solo bene e forse sarà questa la pazzia che ho nella testa. Voi prima eravate immondizia ed adesso siete liberi. Io vi ho resi liberi. Ma quanto può durare questa vostra libertà? Un giorno?! Due giorni?! Eh già, perché poi vi viene il sonno e vi andate tutti a coricare. E fate bene: non si può vivere tutta la vita con un fucile in mano. Fate come Masaniello: impazzite, ridete e buttatevi a terra, perché siete padri di figli. Ma se invece volete conservare la libertà, non vi addormentate! Non posate le armi! Lo vedete? A me hanno dato il veleno e adesso mi vogliono anche uccidere. Ed hanno ragione loro quando dicono che un pescivendolo non può diventare generalissimo del popolo da un momento all'altro. Ma io non volevo far niente di male e nemmeno niente voglio. Chi mi vuol bene veramente dica per me solo una preghiera: un requiem soltanto quando sarò morto. Per il resto ve lo ripeto: non voglio niente. Nudo sono nato e nudo voglio morire. Guardate!! »

Dopo essersi spogliato ed essere stato deriso dai presenti fu invitato a calmarsi dall'arcivescovo e fatto accompagnare in una delle celle del convento. Qui venne raggiunto da alcuni capitani delle ottine corrotti dagli spagnoli: Carlo e Salvatore Catania, Andrea Rama, Andrea Cocozza e Michelangelo Ardizzone. Sentita la voce amica di quest'ultimo, Masaniello aprì la porta della cella e fu freddato con una serie di archibugiate. Il corpo fu decapitato, trascinato per le strade del Lavinaio, e gettato in un fosso tra Porta del Carmine e Porta Nolana vicino ai rifiuti, mentre la testa fu portata al viceré come prova della sua morte.

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I capitani delle ottine coinvolti nella congiura, come rivelano alcuni documenti conservati nell'Archivo General a Simancas, furono ampiamente ricompensati dalla Corona di Spagna. Carlo Catania chiese la capitania a guerra della città di Napoli e cinquecento scudi; Salvatore Catania, la carica di Percettore di Terra di Lavoro; Andrea Cocozza, la capitania a guerra di Nicastro ed una pensione di trecento scudi per il figlio. Le loro aspirazioni furono coronate il 17 giugno 1648, quando ricevettero tutti il privilegio di nobiltà ed il compito di governare per sei anni, rispettivamente, i territori di Modugno, Cava e Catanzaro, con venticinque scudi mensili di pensione ad incarico compiuto.[30]

Giulio Genoino fu invece premiato con le nomine, conferitegli il giorno dopo la fucilazione di Masaniello, a Presidente Decano della Sommaria ed a Presidente del Collegio dei Dottori, trovandosi così al vertice dell'ordinamento forense del regno.[31] Il servigio reso alla monarchia iberica non risparmiò l'anziano prete quando, procuratosi di nuovo l'ostilità degli spagnoli, fu arrestato per l'ultima volta. Genoino morì a Mahón sull'isola di Minorca, durante il viaggio verso la prigione di Malaga.

L'arcivescovo Filomarino, il cui sostegno verso il capopopolo era venuto a mancare a causa della «temerità, furore e tirannide» dimostrata dopo il 13 luglio, si recò con il duca d'Arcos a rendere grazie «a Dio Benedetto, alla Beatissima Vergine, ed al glorioso S. Gennaro» per avere «estinto il perturbatore, e restituita la perduta quiete» alla città di Napoli.[32]

Dannazione e riabilitazione Il giorno dopo il popolo si accorse che con la morte del pescatore i tanto sofferti miglioramenti ottenuti durante la rivolta erano svaniti. La mattina, le donne del Mercato che si recarono a comprare la palata di pane, trovarono che essendo stata reintrodotta la gabella sulla farina, la palata, il cui peso era stato fissato da Masaniello a trentadue once, era tornata a pesare trenta once. Ben presto si incominciò a sentire la mancanza di colui che era riuscito, anche se per pochissimo tempo, a migliorare le condizioni di vita della popolazione, finché un gruppo di persone ne recuperò pietosamente il corpo e la testa, che dopo essere stati lavati con l'acqua del Sebeto furono ricuciti insieme.[33]

Le autorità spagnole, temendo l'infuriare di una nuova sommossa, ordinarono di assecondare tutte le manifestazioni di devozione verso il capopopolo assassinato. Il cardinale Filomarino, supplicato di celebrare i funerali, scrisse al papa:

« Da questo incidente del pane n'è risultato, che dove la morte del Masaniello non era stata sentita più che tanto, né avea fatta grande impressione negli animi de' suoi seguaci (perché con la sua pazzia s'era reso a tutti esoso); il mercoledì l'incominciarono a piangere, a sospirare, esaltare e preconizzare; e desiderando la sua sepoltura, di cui prima non si curavano, vennero a chiedermela in grazia, timorosi che per gli uffici fatti io non fossi per concedercela; ma gliela concedei di buona voglia, e prontamente.[34] »

Dopo aver accettato, Filomarino ordinò che tutti i preti sotto la sua giurisdizione partecipassero il 18 luglio alla celebrazione. Il corteo funebre, uscito dalla Basilica del Carmine due ore prima del tramonto, era seguito da decine di migliaia di persone,[35] mentre da tutte le finestre venivano esposte coperte e lumi come tributo d'onore. Il feretro, avvolto in un lenzuolo di seta bianco ed in una coltre di velluto nero, con alla destra una spada ed alla sinistra il bastone di capitano generale, fu portato in processione per tutta la città quasi si trattasse delle spoglie di un santo. Attraversò tutti

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i sei seggi di giustizia della città, seguendo l'itinerario della rituale cavalcata che i viceré tenevano al momento dell'insediamento.[36] Dopo aver attraversato via Toledo, passando di fronte al Palazzo Reale, il duca d'Arcos ordinò di abbassare le bandiere spagnole in segno di lutto.[37]

Lapide commemorativa nella Basilica del Carmine.

Un anonimo poeta compose:

« È muorto chi lu Nobile ha smaccato,È muorto chi ha cresciuto li panelle,È muorto chi ha strette li Gabelle,È muorto chi nu Regno ha sorzellato.Napole scuso tene e derropatoChi l'ha fatto saglì 'ncopp' a li stelle;L'accise co na mano de rebbelleNu panettiere[38] suggeco frustrato.Che sbarione! S'amma stammatina,Sta sera s'odia e se le fa gran guerra.Mprimma s'onora, appriesso s'assassina.Hoje se vede senza capa 'nterra,Pe tutta la cetate se trascina;Craje da Generalissimo s'attera.[39] »

Il corpo del capopopolo fu oggetto di una forma di venerazione religiosa: la litania che la folla recitò comprendeva anche un «Sancte Mas'anelle, ora pro nobis»[40]; ed alcune donne, invocandolo come un redentore, cercarono di toccarne il corpo e di staccarne i capelli per conservarli come reliquie.[36] Alle tre del mattino, finita la processione, fu data sepoltura al feretro nella Basilica del Carmine, dove i resti di Masaniello rimasero fino al 1799. In quell'anno, dopo aver represso violentemente la rivoluzione napoletana, Ferdinando IV di Borbone ne ordinò la rimozione e la dispersione allo scopo di cancellare il ricordo di ogni opposizione al potere regio. Sul luogo c'è oggi una lapide commemorativa fatta apporre dai Frati carmelitani nel 1961, in occasione del centenario dell'Unità d'Italia.

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Resa di Napoli a Don Giovanni d'Austria nel 1648, Carlo Coppola, 1648.[9]

La moglie Bernardina, la sorella Grazia e la madre Antonia fuggirono a Gaeta, dove le ultime due furono uccise. Bernardina, risparmiata perché incinta, tornò a Napoli dove, ridotta alla più assoluta povertà, fu costretta a prostituirsi in un vicolo del Borgo Sant'Antonio Abate. Qui venne più volte picchiata e derubata per sfregio dai soldati spagnoli suoi clienti.[41] Morì di peste durante l'epidemia del 1656.

Con la fine di Masaniello la rivolta tuttavia non si spense ed anzi assunse, sotto la guida del nuovo capopopolo Gennaro Annese, un marcato carattere antispagnolo. Gli scontri contro la nobiltà ed i soldati si susseguirono violentissimi nei mesi successivi, fino alla cacciata degli spagnoli dalla città. Il 17 dicembre fu infine proclamata la Real Repubblica Napoletana sotto la guida del duca francese Enrico II di Guisa, che in qualità di discendente di Renato d'Angiò rivendicava diritti dinastici sul trono di Napoli. L'esempio di Masaniello fu poi seguito anche da popolani di altre città: da Giuseppe d'Alesi a Palermo, e da Ippolito di Pastina a Salerno. La parentesi rivoluzionaria si concluse solo il 6 aprile 1648, quando don Giovanni d'Austria, figlio naturale di Filippo IV, alla guida di una flotta proveniente dalla Spagna riprese il controllo della città.

Nel 1701, più di cinquant'anni dopo la rivolta popolare, ci fu un altro tentativo di insurrezione contro il governo spagnolo, ma stavolta da parte della nobiltà: la congiura di Macchia. La ribellione nobiliare fallì anche a causa di una scarsa partecipazione dei ceti umili, memori dell'ostilità dei nobili durante la rivolta di Masaniello. Quando l'eletto del popolo cercò di sollevare la popolazione contro gli spagnoli arringando la folla a piazza del Mercato, un anziano popolano prese la parola e disse:

« Voi, Eletto, e voi, popolo, ascoltate. Sono molti anni che il mal governo spagnuolo fu da noi scosso, movendoci Masaniello popolano. Stettero i nobili o contra noi o in disparte, e spesso vennero ad aringare (come ora il nuovo Eletto) per ricondurci alla servitù, chiamandola quiete. Io, giovinetto, seguitai le parti del popolo; vidi le fraudi de' signori, le tradigioni del governo, le morti date a' miei parenti ed amici. Io vecchio che ora parlo, e assennato dal tempo, credo che in questa congiura di nobili debba il popolo abbandonarli, come nella congiura di Masaniello fu da nobili abbandonato. [...][42] »

Fallita anche la congiura di Macchia, il dominio spagnolo su Napoli continuò senza più opposizioni fino al 1707,[43] anno in cui la guerra di successione spagnola pose fine al viceregno iberico sostituendogli quello austriaco.

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Influenza storica e culturale

L'eco della rivolta di Masaniello in Europa

Masaniello raffigurato dall'incisore olandese Pieter de Jode, 1660 ca.

La notizia della ribellione guidata dal pescivendolo napoletano varcò i confini del regno ed attraversò rapidamente tutta l'Europa. La Francia, all'epoca saldamente guidata dal cardinale Mazzarino, sostenne la rivolta in funzione antispagnola ed appoggiò l'impresa di Enrico II di Guisa allo scopo di far rientrare il Regno di Napoli sotto l'influenza francese.

L'eco degli eventi napoletani giunse fino in Inghilterra dove Oliver Cromwell, dopo la guerra civile inglese, instaurò la repubblica nel 1649. La figura di Cromwell e quella di Masaniello venivano spesso accostate: in Olanda fu coniata una medaglia raffigurante da un lato il volto di Cromwell incoronato da due soldati, e dall'altro quello di Masaniello incoronato da due marinai. Le iscrizioni sotto i due volti recitano: OLIVAR CROMWEL PROTECTOR V. ENGEL: SCHOTL: YRLAN 1658 (Oliver Cromwell protettore d'Inghilterra, Scozia e Irlanda 1658), e MASANIELLO VISSCHER EN CONINCK V. NAPELS 1647 (Masaniello pescatore e re di Napoli 1647).[44]

Il filosofo Baruch Spinoza, come testimoniato dal suo biografo Johannes Colerus,[45] era talmente affascinato dalla figura del capopopolo napoletano da ritrarlo spesso con le proprie sembianze considerandosi il "Masaniello della metafisica".[46]

Critica storiografica

Nel Settecento, in un'Europa attraversata dai valori liberali dell'Illuminismo, diversi intellettuali esaltarono la figura del capopopolo napoletano. A Napoli, durante l'esperienza repubblicana del 1799, Masaniello fu spesso erroneamente celebrato dai rivoluzionari come il «primo Repubblicano di Napoli», e per questo motivo gli fu intitolato il quartiere Mercato con il nome di Cantone Masaniello.[47] Il presidente della Repubblica Carlo Lauberg scrisse: «La presente rivoluzione altro non è che quello stesso che volle fare, e per il tradimento della tirannia non poté eseguire, Masaniello».[48] Il giacobino Giovanni Pastore, in una lettera pubblicata sul Monitore Napoletano di Eleonora Pimentel Fonseca, lo descrisse come un combattente per i diritti dell'uomo, capace di trascinare proprio quella popolazione umile della città che invece nel 1799 mostrava ostilità verso il governo repubblicano:

« Qual biasimevole contrasto opponete ora Voi a' vostri avoli de' tempi del gran Masaniello! Senza tanto lume di dottrine e di esempj, quanti ora ne avete, diè Napoli le mosse, proseguirono i vosti

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avoli, insorsero da per tutto contra il dispotismo, gridarono la Repubblica, tentarono stabilir la democrazia, e per solo ragionevole istinto reclamarono i diritti dell'Uomo. Ora proclamano l'uguaglianza, e la democrazia i nobili, la sdegnano le popolazioni![49] »

Infine Vincenzo Cuoco, nel suo Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, ne fece un precursore della corrente rivoluzionaria settecentesca:

« Masaniello, senza i nostri lumi, ma nel tempo stesso senza i nostri vizi e gli errori nostri, suscitò in tempi meno felici una gran rivoluzione in quel regno; la spinse felicemente avanti perché la nazione lo desiderava ed ebbe tutta la nazione con lui perché egli voleva solo ciò che la nazione bramava. Con piccolissime forze, Masaniello ardì opporsi, e non invano, alla immensa vendetta della nazione spagnola; Masaniello morì, ma l'opera sua rimase.[50] »

L'attaccamento al mito dimostrato dai rivoluzionari del 1799 probabilmente provocò quella sorta di damnatio memoriae a cui Masaniello fu condannato durante la restaurazione borbonica (Ferdinando IV di Borbone ne ordinò la dispersione dei resti), e quindi la conseguente riscoperta in chiave risorgimentale. Durante il Risorgimento infatti, gli storici interpretavano gli eventi della storia italiana preunitaria alla luce del processo di unificazione in corso, caricandoli spesso di valori patriottici che in realtà non possedevano. Masaniello incarnò l'ideale indipendentista diventando un eroe che combatteva contro la dominazione straniera.

Al termine della stagione risorgimentale il mito del capopopolo decadde progressivamente fino alla provincializzazione del personaggio. Michelangelo Schipa e Benedetto Croce contribuirono enormemente al ridimensionamento dei moti del 1647, ed alla banalizzazione della figura del pescatore-rivoluzionario. Schipa descrisse Masaniello come «strumento d'altri» che «divenne presto d'impaccio», mettendo invece in risalto il ruolo del giurista Giulio Genoino, che secondo lo storico pugliese fu la «vera mente» dei moti.[51] Croce definì la rivolta come «uno dei tanti moti plebei senza bussola e senza freno, senza capo né coda, senza presente e senza avvenire», attribuendone il grande successo storiografico «al naturale effetto della poesia pronta a prorompere dai petti umani a ogni favilla o parvenza di libertà».[52]

Il giudizio dei due grandi storici intaccò pesantemente la figura di Masaniello, tanto che finì per personificare tutti quegli stereotipi e pregiudizi che volevano il popolano napoletano rozzo, incolto, furbo, prepotente con i deboli, e servile con i potenti, finendo per essere accostato alla figura di Pulcinella. È da questa visione del personaggio che deriva il modo di dire essere un Masaniello o fare il Masaniello, rivolto a coloro che incitano le folle con argomenti ritenuti di facile demagogia e populismo. Gli storici del Novecento, tra cui il meridionalista Giuseppe Galasso, che ha definito il giudizio crociano «deludente» e dettato da un «tono sprezzante»,[53] hanno rilanciato la ricerca storica sugli eventi del 1647.

Arte, letteratura, spettacolo ed altro

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Masaniello precocemente invecchiato. Dipinto di Onofrio Palumbo, 1647 ca.[9]

I pittori napoletani Aniello Falcone, Salvator Rosa, Micco Spadaro e Andrea di Leone, appartenenti alla cosiddetta "Compagnia della Morte",[54] rappresentarono Masaniello e le vicende della rivolta nei propri dipinti. Alcune delle opere sopravvissute sono conservate nel Museo di San Martino a Napoli.

Lo scultore Alessandro Puttinati ha realizzato una statua in marmo raffigurante il capopopolo nel 1846. L'opera è esposta nella Galleria d'arte moderna di Milano.

La rivolta di Masaniello nel corso dei secoli è stata rappresentata in numerose opere teatrali europee, tra cui:

1669 . Op- en ondergang van Mas Anjello of Napelse beroerte, di Thomas Asselijn. 1682 . Trauer-Spiel von dem Neapolitanischen Haupt-Rebellen Masaniello, di Christian

Weise. 1706 . Die Neapolitanische Fischer-Empörung oder Masagniello furioso, di Reinhard

Keiser. 1828 . La muette de Portici (La muta di Portici), di Daniel Auber su libretto di Eugène

Scribe. Il successo di quest'opera ebbe una considerevole influenza sulla Rivoluzione belga del 1828.

1963 . Tommaso d'Amalfi, di Eduardo De Filippo, il cui interprete è stato Domenico Modugno. L'opera è presente nella raccolta chiamata Cantata dei giorni dispari.

1974 . Masaniello, di Elvio Porta ed Armando Pugliese, con le musiche di Roberto De Simone e interpretato da Mariano Rigillo, Angela Pagano e Lina Sastri.

1996 . Masaniello-il musical, di Tato Russo, in cui il protagonista è stato prima interpretato da Gigi Finizio, poi da Gianni Fiorellino e quindi da Antonio Murro.[55]

Una versione assai romanzata del personaggio è presente inoltre nell'opera Il Corricolo (1853) di Alexandre Dumas padre.

Masaniello è presente in Miserere coi fichi di Vittorio Giovanni Rossi, dove la rivolta viene descritta in modo ironico, secondo lo stile dello scrittore, dal protagonista-narratore, un venditore milanese in viaggio di lavoro a Napoli.

Il ribelle napoletano è protagonista della canzone 'O cunto 'e Masaniello della Nuova Compagnia di Canto Popolare, tratta dall'album Li Sarracini Adorano lu Sole (1974). Viene inoltre citato in Canto allo Scugnizzo dei Musicanova (da Musicanova, 1978) e quindi nella cover Scugnizzi dei 24 Grana

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(da Loop live, 1998), in Je so' pazzo di Pino Daniele (da Je so' pazzo/Putesse essere allero, 1979), ed in Quel Giorno a Primavera dei Modena City Ramblers (da Dopo il lungo inverno, 2006).

Una particolare varietà di Nymphaea (ninfea) porta il nome di Nymphaea Masaniello.[56]

Strade, piazze e monumenti A Masaniello sono state intitolate centinaia di strade e piazze in diverse città italiane e, proprio a Napoli, nessuna fino agli anni settanta. Per questa mancanza protestò anche il famoso scrittore Luciano De Crescenzo nel romanzo Così parlò Bellavista del 1977.[57] Gli fu dedicata allora una piccola piazzetta nei pressi di piazza del Mercato e piazza del Carmine che, nascosta dall'imponente Palazzo Ottieri, è oggi abbandonata in uno stato di degrado. Nel 2007 sono stati investiti 500.000 euro per la riqualificazione dell'area.[58]

Nella Basilica del Carmine, oltre all'iscrizione sull'antico luogo di sepoltura, è presente una statua del capopopolo nel chiostro.

La fontana di piazza del Mercato, dalla quale si dice Masaniello arringasse la folla, fu acquistata nel 1812 dal Comune di Cerreto Sannita ed è oggi sita nella piazza centrale del paese.[59]