Mario Benedetti, Fondi di caffè

19

description

Estratto dell'edizione italiana di Fondi di caffè. Traduzione di Elisa Tramonti

Transcript of Mario Benedetti, Fondi di caffè

© FUNDACIóN MArIo BeNeDettIc/o Guillermo Schavelzon & Asoc., Agencia Literariawww.schavelzon.comtitolo originale: La borra del café

© 2013 laNuovafrontieravia Pietro Giannone, 1000195 roma

Isbn 978-88-8373-240-9

Grafica di copertina Flavio Dionisi

www.lanuovafrontiera.it

Mario Benedetti

Fondi di caffètraduzione dallo spagnolo (Uruguay)

elisa tramontin

laNuovafrontiera

Ai miei traduttori, che hanno avuto la pazienza e l’arte

di ricostruire la parlata e i silenzi dei miei montevideani in più di venti lingue.

Dove finiscono le nebbie, i fondi di caffè,gli almanacchi di un altro tempo?

Julio Cortázar

Nulla è menzogna.Basta un po’ di fede ed è tutto reale.

Louis Jouvet(in Ragazze folli)

siamo assolti come bambini imminenti per ciò che è duraturo

Milton Schinca

9

I traslochi

La mia famiglia traslocava di continuo. Perlomeno da quan-do ne ho memoria. Voglio specificare però che traslocavamo non perché ci sfrattassero o non pagassimo la pigione, bensì per altri motivi, magari più assurdi, ma meno imbarazzanti. Confesso che per me quel perenne aprire e chiudere cassetti, bauli, scatoloni, valigie, era un vero divertimento. Bisognava risistemare tutto quanto nelle credenze, sulle mensole, ne-gli armadi, dentro ai cassetti, ma gran parte delle cose (non sempre le stesse) rimanevano nelle cassapanche e nei bauli. La nuova casa (non ne eravamo mai proprietari ma inquilini) assumeva in pochi giorni l’aspetto di una dimora quasi defini-tiva, perlomeno di un alloggio stabile, e penso che i miei ge-nitori ne fossero sinceramente convinti. tuttavia non passava neanche un anno che mia madre e/o mio padre, mai tutti e due insieme, cominciavano a disseminare commenti (all’ini-zio velati, ma poi sempre più espliciti) che in fondo in fondo erano proposte di un nuovo cambiamento. In generale, le ra-gioni a cui si appellava mio padre erano la mancanza di luce, la muffa sulle pareti, i corridoi angusti, il chiasso all’esterno, i vicini impiccioni, eccetera. Quelle addotte da mia madre era-no più numerose, ma normalmente nell’elenco comparivano l’eccessiva luce, il calore delle stanze, gli spazi interni troppo ampi, nessun rapporto con i vicini, le strade poco trafficate, eccetera. D’altro canto, mio padre preferiva la tranquillità dei

Mario Benedetti

10

quartieri periferici, mentre mia madre prediligeva il trambu-sto del centro.

Non temete. Non vi racconterò la storia di tutte le mie case, ma solo di quelle in cui mi sono successe cose importanti (o, come disse il poeta, in un impeto di geniale sdolcinatezza, “cose piccole per il mondo / ma grandi per me”). Nacqui in una casa (a un piano alto) tra Justicia e Nueva Palmira, nel-la quale, in via del tutto eccezionale, abitammo per tre anni. Ho pochi ricordi, a parte una finestrella che faceva un gran rumore quando veniva aperta o chiusa, cosa che peraltro non accadeva tanto spesso dato che la maniglia, situata sulla pa-rete esterna del cortile, era durissima e si abbassava soltanto grazie allo sforzo congiunto di due persone abbastanza robu-ste. Inoltre, se si toccava quella maledetta maniglia nei giorni di pioggia, si prendevano delle scosse tremende, e pertanto la finestrella si poteva aprire o chiudere soltanto nella bella stagione.

Poi, senza lasciare il quartiere, ci trasferimmo tra Inca e Lima. In quella casa memorabile era il gabinetto, poiché quan-do qualcuno tirava lo sciacquone, l’acqua, invece di compie-re la sua funzione igienizzante, usciva torrenzialmente dalla vetusta cisterna infradiciando non soltanto il malcapitato ma anche l’intero pavimento di piastrelle verdi. Poi andammo in una casa tra Joaquín requena e Miguelete, molto più rumo-rosa, ma lì il gabinetto funzionava bene e non era necessario fare i proprio bisogni indossando cappello e impermeabile. Di quella casa, molto più modesta delle precedenti, vale la pena ricordare soltanto un fonografo, su cui mia madre, quando mio padre non c’era, metteva un disco di lezioni di ginnastica che partiva sempre con una voce molto limpida: “Attenzio-ne! Prrrronti! Si cominciaaaaaa!”. e mia madre, obbediente, cominciava. Io, che avevo su per giù cinque anni e mezzo, la guardavo con ammirazione quando si sdraiava sul pavimento

fondI dI caffè

11

e sollevava le gambe o si accovacciava e allungava le braccia, e poi finiva su un fianco, e io credevo che anche quello fosse un ordine impartito dallo spagnolo del disco. (Devo confessa-re che ho riconosciuto l’accento di quell’istruttore solo molti anni dopo, precisamente un pomeriggio in cui ritrovai in un baule quella reliquia di 78 giri e lo riascoltai con un giradi-schi). A ogni modo, io l’applaudivo entusiasta, e lei, quando terminava la lezione, riconoscente per la mia comprensione e i miei incoraggiamenti, mi prendeva in braccio e mi dava un bacio, più schioccante ma meno piacevole di altri osculi materni, considerato che, com’era prevedibile dopo tanta cal-listenia, era tremendamente sudata.

La successiva abitazione (ancora più modesta) si trovava tra Hocquart e Juan Paullier. era a soli quattro isolati dalla precedente, perciò non fu facile trovare un camion disposto a sobbarcarsi un trasloco per un tragitto così breve, il che a mio padre, legittimamente, sembrava un’assurdità, giacché la fati-ca di caricare e scaricare era la medesima anche se la distanza fosse stata di quindici chilometri. Finalmente trovarono un camionista che, grazie a una bella mancia, accettò di fare uno spostamento così poco ortodosso, ma il malumore suo e dei suoi due collaboratori fu così palese che nessuno si sorprese del fatto che un armadio avesse perso tutti i piedi tranne uno, e uno specchio si fosse scisso in due lune: una calante e l’altra crescente. Nel nuovo domicilio stavamo un po’ stretti e man-giavamo quasi sempre in cucina. La cosa migliore della casa era la terrazza, adiacente a quella del vicino, su cui c’era un cane enorme che mi sembrava feroce e che diventò il mio pri-mo nemico. Come se non bastasse, le poche volte che salivo in terrazza, il povero animale mi ringhiava, quasi per dovere, ma non appena notai che era legato a una catena, anch’io, nel primo moto di vigliaccheria del quale ho memoria, decisi di ringhiargli, e nonostante il mio slancio risultasse a malapena

Mario Benedetti

12

una caricatura, devo ammettere che non contribuì a migliora-re i nostri già deteriorati rapporti.

Ci furono altre case in quel periodo. Sempre negli stessi quartieri: tra Nicaragua e Cufré, Constitución e Goes, Poron-gos e Pedernal. Arrivati a quel punto, i cambi di domicilio obbedivano ormai a un’ossessione familiare. I traslochi era-no passati dalla categoria di incubo a quella di aspettativa. ogni volta che una nuova abitazione appariva all’orizzonte diventava, con le sue luci e le sue ombre, un’utopia, e quan-do finalmente ne varcavamo la soglia, era come entrare nei Campi elisi. ovviamente, la fase celestiale si esauriva molto presto, verbigrazia quando un pezzo di soffitto cadeva nei no-stri cappelletti alla caruso* o una disciplinata avanguardia di scarafaggi invadeva la cucina marciando tra le urla isteriche di mia madre. tuttavia, il fatto che un mito svanisse nella nebbia delle nostre frustrazioni, non impediva che ci rimettessimo a lavorare a un nuovo progetto di utopia.

* In italiano nel testo. [N.d.t.]

13

Primi aiuti

Sicuramente la prima casa degna di nota fu, almeno per me e non sempre per ragioni valide, quella di calle Capurro. In primo luogo, lì nacque mia sorella; in secondo luogo, mio pa-dre cambiò lavoro e ciò comportò un considerevole aumento delle sue entrate; in terzo e ultimo luogo, mi ammalai seria-mente e il medico mi vietò di andare a scuola. La convalescen-za fu interminabile, ma dopo i primi mesi mio padre assunse una professoressa privata che, tre volte a settimana, dedicava quattro ore al giorno alla mia (deformata) formazione.

Si chiamava Antonia Daglio. ricordo il suo cognome per-ché faceva rima con ventaglio, un gingillo che lei portava con sé in ogni stagione. Sebbene fosse sempre accaldata, mia ma-dre non le offriva mai il ventilatore, perché nella mia condizio-ne di eterno convalescente anche un’impercettibile corrente d’aria poteva provocarmi una ricaduta o, nel migliore dei casi, una serie di trentadue starnuti. Mi pare che fosse magra, con la pelle molto bianca e gli occhi scuri che mi lanciavano due tipi di sguardi: uno, dolce e comprensivo, quando i miei geni-tori erano presenti, e un altro, inquisitorio e severo, quando ci lasciavano soli. Per farla breve, non fu amore a prima vista.

In generale, quando un qualsiasi bambino ha il privilegio di avere un’insegnante privata per il suo esclusivo logorio, l’atteggiamento più logico sarebbe quello di ascoltare la lezio-ne del lunedì e poi dare una letta veloce per far bella figura

Mario Benedetti

14

quando arriva il ripasso del mercoledì. Io facevo esattamente il contrario: il lunedì studiavo la lezione che lei mi avrebbe im-partito il mercoledì, e ciò provocava nella povera ragazza una grande frustrazione, una sorta di vuoto pedagogico, e forse anche il timore che i miei genitori si accorgessero che il mio apprendimento procedeva a prescindere dal suo apporto di-dascalico e che pertanto decidessero di prescindere a loro vol-ta da quei futili servigi. tuttavia, ero perverso forse, ma non un delatore, quindi non feci mai parola con i miei genitori dei miei contorti stratagemmi da alunno. Il mio obiettivo non era che Antonia restasse senza lavoro, ma piuttosto che si rendes-se conto con chi aveva a che fare. e così andammo avanti: io ad anticipare la sua lezione, lei a imparare a portarmi rispetto. Sapendo ogni argomento a menadito, e individuando imme-diatamente qualsiasi pecca o omissione da parte sua, spesso sembrava che fossi io l’insegnante e lei quella in difficoltà.

Soltanto sei mesi dopo l’inesorabile applicazione di questa strategia, ovvero quando finalmente fui certo che il mio ono-re era salvo, decisi di far riprendere alla nostra relazione un ritmo normale e di conseguenza accettai che mi insegnasse la lezione prima di impararla da solo. È superfluo dire che me ne fu immensamente grata e da quel momento in poi comin-ciò a guardarmi con occhi dolci e comprensivi, anche quan-do i miei genitori non erano presenti. Ho l’impressione che arrivò perfino a volermi bene. e ormai non ha più senso na-sconderlo: credo di averla amata anch’io un po’, forse perché quello sguardo dolce, di cui mi ero guadagnato l’esclusiva, mi mandava in brodo di giuggiole. All’epoca avevo soltanto otto anni, ma quella che più tardi si sarebbe rivelata come la mia vocazione estetica mi portò a guardarle le gambe, che trovai bellissime, ben tornite, seducenti. Forse non era soltanto una vocazione estetica. Credo che la mia prima e precoce ester-nazione erotica si concentrò nelle occhiate clandestine che

fondI dI caffè

15

rivolsi a quelle gambe belle e perfette. Le sognai perfino, ma anche nel momento onirico non mi spingevo oltre gli sguardi di ammirazione e meraviglia. Immagini posteriori mi ricorda-no che Antonia aveva un bel seno e labbra promettenti, ma a otto anni la mia acerba estasi rimaneva ancorata alle sue gam-be e non mi permetteva di distrarmi su altre fasce di interesse.

16

Il naufragio

Fu proprio a calle Capurro che cominciai a sentirmi parte integrante di una famiglia allargata. Due cugini, più grandi di me di un paio d’anni, arrivarono da Cerro Largo per stabilirsi a Montevideo, e all’inizio vivevano con il nonno Javier, padre di mia madre. Più tardi, anche i genitori vennero nella capita-le e si stabilirono tutti a Capurro, a cinque isolati da casa no-stra. Mia cugina rosalba, che aveva tre anni più di me, viveva a calle Canelones, ma veniva spesso a trovarci con sua madre, la zia Joaquína, che fra l’altro non godeva delle simpatie di mio padre. «tua sorella non la sopporto», diceva spesso a mia madre. «È cafona, troppo cafona, e poi è scema.» Lei aggiun-geva soltanto: «Ma è mia sorella», e incredibilmente era l’uni-co commento che poteva far ammutolire mio padre. e poi il nonno Vincenzo, padre di mio padre, veniva di frequente da Buenos Aires, dove aveva un alimentari, e si fermava sempre a casa nostra. Le nonne le vedevo meno. La madre di mia ma-dre era sempre malata e pertanto non usciva mai né si poteva darle fastidio facendole visita; e la madre di mio padre viveva a Buenos Aires e quando il nonno Vincenzo veniva a Monte-video, lei si occupava del negozio a Caballito.

Il nonno Vincenzo era divertente come il nonno Javier, ma con un altro stile. Una volta mi raccontò come era scampato a un famoso naufragio. Gli chiesi se si era salvato perché sapeva nuotare. «Ma no, come ti viene in mente. Ho sempre avuto

fondI dI caffè

17

più affinità con gli uccelli che con i pesci. Anche se in effetti non so nemmeno volare.» La sua risata fiorentina rintoccava nel cortile come un orologio a pendolo. «e allora come ti sei salvato?» «Molto semplice: a Genova persi la nave. Arrivai al porto mezz’ora dopo la partenza, schifosamente puntua-le. Cercai di procurarmi una barca che mi portasse fino al bastimento che si vedeva ancora. Per mia fortuna non riuscii nell’impresa. Quando dieci giorni dopo venni a sapere che la nave era affondata in mezzo all’Atlantico, reagii in modo as-solutamente egoista e festeggiai con una damigiana di Chianti. So che non si fa, che avrei dovuto pensare agli altri; oggi non mi comporterei così, ma all’epoca ero molto giovane e non avevo ancora imparato a essere ipocrita.» e giù a ridere di nuovo. Io invece non ridevo. Mi resi subito conto che il non-no non aveva letto Cuore, il libro di edmondo De Amicis che era la mia Bibbia, perché, se l’avesse letto, non avrebbe avuto un atteggiamento così meschino, e se avesse deciso comunque di scolarsi la damigiana di vino, lo avrebbe fatto con tristezza e anche piangendo un po’ per chi era affogato. Invece no, al nonno restava ancora l’allegria di essere scampato alla morte quasi per miracolo, tuttavia nemmeno questo l’aveva riconci-liato con il prete della parrocchia. Per tutta la vita fu un ateo militante e si scagliò sempre contro Dio in quanto organizza-tore di deragliamenti e naufragi.

18

Un parco per noi

La casa di calle Capurro aveva un odore strano. Secondo mio padre, odorava di gelsomino; secondo mia madre, di topi. È probabile che questo conflitto abbia alterato la mia capacità olfattiva per vari lustri, durante i quali non riuscivo a distin-guere il profumo di violetta dall’odore dello zafferano, o gli effluvi della cipolla dal vapore delle inalazioni.

Legati a quella casa ho altri due ricordi fondamentali: uno, il parco Capurro, e l’altro, il campo da calcio del Club Lito, che era a tre isolati. In quell’epoca, il parco Capurro era come la scenografia di un film d’avventura, con rocce artificiali, piccole caverne, sentieri tortuosi ed erba alta, una meraviglia insomma. Da solo non avevo il permesso di andarci, ma po-tevo farlo insieme ai miei cugini o alla figlia di un vicino, che aveva la mia età. Il parco era quasi sempre deserto, e quindi diventava la nostra zona d’operazione. A volte, quando per-correvamo quei labirinti, ci imbattevamo in alcuni vagabondi ubriachi, o anche solo addormentati, che però erano inoffen-sivi e abituati alle nostre scorribande. Convivevamo in quel paesaggio quasi lunare, e la loro presenza dava un pizzico di rischio (anche se sapevamo di non rischiare niente) ai nostri giochi, che solitamente consistevano in cruenti corpo a corpo tra due squadre, anzi, bande: una composta da mio cugino Daniel e il vicino, e l’altra da me e mio cugino Fernando. A volte partecipavano altri bambini del quartiere, ma il gioco lo

fondI dI caffè

19

conducevamo comunque noi. (Non si deve dimenticare che anche se Daniel si ispirava a Conan Doyle, io, Fernando e Norberto avevamo perfezionato la nostra pirateria alla scuo-la di Sandokan.) Nella mia condizione di convalescente mi erano vietati quegli eccessi a causa dei quali sudavo troppo, pertanto prima di tornare a casa bisognava prendere alcune misure precauzionali. Prima della lotta lasciavamo le nostre camicie sulle rocce, e quando la battaglia si era conclusa, ci la-vavamo a una fontana dall’acqua sospettosamente verdogno-la, ci asciugavamo al sole, e poi ci rimettevamo le camicie, che non portavano alcuna traccia delle zuffe. Quando tornavamo a casa, ben pettinati e tutti pimpanti, mia madre mi chiedeva: «Non avrai mica corso, vero?» Per corroborare la mia nega-zione, uno dei miei cugini mi dava man forte: «No, zia, men-tre noi giocavamo, Claudio è rimasto seduto su una panchina, a godersi il sole.»