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Maria Antonietta Brugnoli è nata a Borgo Val di Taro.Ha pubblicato:Piccole storie intorno al Borgo, alla Valle, al Taro 2000Di qua e di là dal Taro 2003L'Assistenza Pubblica Borgotaro - Albareto nel suo 30° compleanno 2011

Foto in copertina: Angelo Franchi

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Maria Antonietta Brugnoli

Mi chiamano maestraParole a chi non ha parole

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Ai miei tanti maestri, consapevoli o inconsapevoli

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Esperienze di contatto

Abbiamo deciso di pubblicare lo scritto di Maria Brugnoli poiché pensiamo sia fondamentale la conoscenza e la diffusione delle esperienze positive che i cittadini di Borgotaro hanno avuto con i richiedenti asilo e rifugiati ospiti del progetto di accoglienza Sprar, che come Consorzio Fantasia realizziamo assieme al Comune di Borgotaro e all'Unione dei Comuni.

La presenza dei volontari, di cittadini comuni, che con il loro cuore e la loro competenza donano un po' del loro tempo per rendere migliore la propria comunità, è un valore importantissimo che vorremmo gridare ai quattro venti.

L'incontro fatto di sensazioni e umanità è un filo conduttore che, con l'eccesso di comunicazione che c'è oggi, tendiamo a dimenticare. La comunicazione fatta di sguardi e di empatia è quello che oggi si sta perdendo, con i nostri volti nascosti nello schermo del telefono... lontano dal contatto vero con l'altro.

Maria scrive usando il linguaggio della sensibilità, quella che, solo ascoltando, possono comprendere tutti. Quella che in tempo di polemiche non si sente mai. Quello che cancellerebbe tutti i dubbi e le paure. Quello che porta al successo di una Nazione intera, alla realizzazione dei progetti e alla vicinanza tra le persone. Quello che manca a noi operatori sociali quando non ci impegniamo a fondo, perché la sensibilità ci spaventa: mettere in gioco noi stessi non è facile, noi che siamo toccati nel profondo perché la sensibilità trasforma il lavoro in qualcosa che definisce il nostro “Io” e noi stessi. A noi, a cui hanno insegnato il distacco, per poter affrontare tutti i giorni, il lavoro quotidiano.

Scrivo dunque da operatrice del progetto Sprar (Servizio di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati) seguendo le regole delle procedure di accoglienza: abbiamo lasciato delle lettere puntate al posto dei nomi poiché i beneficiari dei nostri progetti scappano da situazioni che sono spesso insostenibili e inimmaginabili. Conosciamo le loro storie e, per poter tutelare la loro privacy, abbiamo deciso di non mostrarvi i nomi, nella speranza che la conoscenza delle loro vite possa partire da voi stessi, voi che leggerete questo libricino, augurandoci che con loro cercherete un contatto. Voi lettori che sarete, speriamo, invogliati a fare come Maria: farvi avanti, nel lungo e difficile cammino della conoscenza dell'altro, cancellando finalmente la paura. Anziché rimanere barricati nelle vostre case (“tiepide case”, come diceva qualcuno), e come protezione sicura

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solo lo schermo della Tv che, al posto vostro, vi informa con notizie imprecise, spesso false.

I progetti a fine sociale non hanno mai successo senza la partecipazione della collettività.

Colgo l'occasione per ringraziare di cuore Maria per tutto il suo paziente operato: ha dato parole a chi non aveva parole.

Da questo, ora, chi le ha ricevute può iniziare a imparare tutto da capo, a camminare in una nuova vita, con altre regole, con altre parole per chiamare e interpretare ciò che lo circonda.

Dott.ssa Maria Molinari

Consorzio Fantasia

Coordinatrice Progetto SPRAR di Borgotaro

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Uno sguardo nella diversità

Introdurre le opere di una persona che stimiamo, con la quale siamo in qualche modo legati spiritualmente, non è mai semplice. Ho deciso di presentare questo libretto di esperienze con umiltà, a testa bassa, cercando un luogo profondo dentro di me che facesse risuonare le esperienze vissute durante la lettura.

Parliamo di Maria Antonietta Brugnoli, classe 1941, storica professoressa, volontaria al servizio della comunità borgotarese, impegnata nel supporto e nella crescita culturale di un paese montano. Credente, che sceglie di porsi domande esistenziali mettendo talvolta in discussione dottrine di pensiero classiche, pregiudizi e stereotipi comuni.

Conobbi Maria durante una gita sul monte Penna, insieme a Daniele e ai nostri ragazzi del Progetto di Accoglienza Mare Nostrum: progetto complesso, delicato, a contatto con la sofferenza e la diversità, volto all’autonomia e alla ricostruzione di vite spezzate. In quel momento condividemmo pensieri, sorrisi, dubbi, parlando delle credenze, dei diversi modi di affacciarsi ad un universo culturale distante dal nostro conosciuto, dalla piacevolezza alla difficoltà dell’incontro tra persone con esperienze, conoscenze e tradizioni così diverse, insomma, durante la camminata si aprirono molti spunti e possibilità di riflessione. Una giornata all’aria aperta, un percorso lungo, tante parole, i sorrisi dei ragazzi, per un giorno spensierati, alla scoperta di una realtà totalmente nuova ai loro occhi. Una mangiata insieme, celebrando i doni del nostro Appennino.

Rividi Maria ad un incontro di discussione e conoscenza con alcuni membri dell’ONU e di nuovo tante riflessioni tra noi fino al giorno in cui ricevetti una mail ricca di testi, considerazioni personali, esperienze vissute: era giunto il momento per lei di condividere questo bagaglio di vissuti interiori, che io, personalmente, apprezzai con onore.

Leggendo e rileggendo quei testi mi accorsi che non si trattava semplicemente di parole ma di sistemi di significato profondi, semplici forse, a un primo sguardo, ma se sono letti con attenzione, se ci si trova sulla stessa lunghezza d’onda, beh, avrebbero garantito l’accesso alle porte della mente e del cuore.

“Mi chiamano maestra” è un luogo d’incontro, un cammino di consapevolezza verso la diversità culturale e il possibile esito positivo che ne può derivare: siamo soliti visualizzare le immagini proposte dalla

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televisione e dai mass-media in generale, descrizioni stereotipate dell’essere e del conoscere che ci allontanano dalla verità; bene, questo piccolo libro di racconti è esattamente l’opposto. Sono brevi cronache di quotidianità, che esprimono al meglio la tolleranza dell’incertezza, lo stupore e la paura delle relazioni interculturali. I pregiudizi che ciascuno di noi “occidentali industrializzati” ci siamo creati, senza darci tempo di sperimentare e conoscere.

Mi sono ritrovato in questi racconti perché, in qualche modo, ho vissuto esperienze simili a quelle di Maria, anch’io iniziando il mio lavoro da operatore per il supporto all’accoglienza, col mio bel bagaglio di credenze inesatte, che ben presto ho deciso di lasciare ai piedi della montagna, altrimenti non mi sarebbe stato possibile scalarla. E quale mezzo migliore si poteva trovare per esplorare queste dinamiche relazionali se non raccontando l’esperienza quotidiana? Come un cammino di scoperta dentro noi stessi, di unione e condivisione.

Questo Maria racconta: la sua personale esperienza, le difficoltà iniziali, il doversi mettere in discussione, alla sua età, di fronte a una realtà talmente lontana e allo stesso tempo umanamente così vicina da lasciare sconcertati.

Nel libro sono descritti frammenti di storie di ragazzi che rimbalzano dentro il nostro “Io” facendoci sobbalzare, altalenando tra sofferenze e sorrisi che ci illuminano un percorso di quei sentimenti arcaici delle mente umana come l’amore per il prossimo.

Tanti sono i temi toccati: le differenze religiose, il modo di leggere o concepire la Bibbia, le usanze e tradizioni, i ruoli di genere, l’analfabetismo, la forza d’animo, le perdite, il lavoro duro e la povertà, che ci ricordano un po’ la società dei nostri nonni, lo sguardo terrorizzato di giovani ragazzi arrivati dall’inferno, piombati in una società post-moderna, alle prese con una realtà totalmente nuova da scoprire ed esplorare, nel tentativo di inglobarla, mantenendo stretta la propria identità: un duro lavoro di consapevolezza e di discussione interiore verso la realtà interculturale.

Questo è ciò che personalmente mi è risuonato dentro, forse facilitato dalle esperienze di incontri che io stesso ho vissuto e queste, mi auguro possano essere lenti da indossare per vedere il mondo descritto da Maria Antonietta che ha deciso di accogliere il grido di anime ferite, di accompagnarli in questo tratto di vita per renderli più sicuri di sé e per suscitare un po’ di gioia nei loro cuori solitari.

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Guido Conti Dottore in Psicologia

Operatore di Accoglienza per Richiedenti Asilo e Rifugiati

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L’ amica “maestra”

Ho ritrovato dopo 30 anni l’amica Maria Antonietta Brugnoli, la “maestra”, quando nella Biblioteca Manara di Borgo Val di Taro il 27 marzo 2015 tenni una conferenza di presentazione dell’ Associazione Religions for Peace, e presentai il calendario “ Accogliamoci l’un l’altro”.

Dopo tanti anni è stato come se ci fossimo lasciate da pochi mesi e cominciammo a raccontarci le nostre esperienze, così seppi che la Professoressa di Matematica era diventata la “Maestra” di un gruppo di giovani emigrati dall’Africa ai quali volontariamente insegnava l’Italiano e altre materie. Subito mi accennò alle difficoltà che aveva incontrato in quanto alcuni dei giovani erano analfabeti e le lingue che conoscevano erano diverse, ma fu incoraggiata dal fatto che tutti erano fortemente motivati ad apprendere la lingua italiana per potersi integrare nel Paese che li aveva accolti e che cominciavano ad amare.

Oltre a questa difficoltà di iniziare il DIALOGO linguistico per comprendersi, la Maestra trovò altre difficoltà quando cercò di iniziare il dialogo culturale e religioso, sfida che con tanta pazienza, amore e umiltà riuscirà a superare brillantemente aiutata anche da un testo di studio e riflessione “sui generis”: il calendario che riportava frasi tratte dalle varie tradizioni religiose sull’accoglienza del diverso.

L’esperienza di Maria Antonietta descritta in queste pagine mi ha ricordato quanto sia importante e delicata la professione dell’insegnante, in particolare del MAESTRO, che forgia la conoscenza, il carattere e, in ultima analisi, il destino di una persona.

Vorrei concludere con alcune considerazioni: secondo il mio modesto parere per un proficuo dialogo interculturale e interreligioso è necessario sforzarsi di seguire questi consigli di Baha’u’lláh, il Fondatore della Fede Baha’i:

“Non risparmiate energie nello sforzo di acquisire perfezioni interiori ed esteriori, giacché frutto dell’albero umano sono sempre state e sempre saranno le perfezioni interiori ed esteriori. Non è consigliabile permettere che un uomo rimanga ignorante e incapace, perché allora egli non è altro che un albero sterile. Pertanto, nei limiti delle capacità e delle possibilità, dovete adornare l’albero dell’essere con frutti come il sapere, la saggezza, la percezione spirituale e l’eloquenza”

1 - Il sapere è il primo frutto da acquisire: è necessario infatti conoscere almeno le tradizioni culturali e le leggi fondamentali delle varie

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confessioni religiose quali la Preghiera, il Digiuno, le Festività… prima di parlare.

2 - La saggezza: modo di rapportarsi con i seguaci di altre religioni con umiltà, moderazione e senza pregiudizi. Si acquisisce con l’accettazione del diverso e con l’esperienza di momenti di vita vissuta insieme.

3 - La percezione spirituale: non è facile riuscire a percepire la spiritualità in riti, feste, manifestazioni estranee al nostro contesto culturale-religioso, in un primo momento ci sembrano obsolete e/o profane. E’ necessario essere distaccati dal nostro EGO e molto spirituali per sentire il profumo della Spiritualià.

4 - L’eloquenza: infine il quarto frutto è l’eloquenza, ossia l’uso ottimale della PAROLA in modo da guidare il pensiero, i sentimenti e la volontà dell’ascoltatore verso il Bene e la Pace.

Maria Augusta Favali Hedayat

Resp. Commissione Scuola e Formazione

Religions for Peace

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L’esperienza che Maria Antonietta Brugnoli ha voluto condividere in questo opuscolo mi sembra un percorso esemplare di integrazione intesa come armonizzazione e fecondazione reciproca delle differenze.

Si potrebbe riassumere l’ispirazione di quanto sta facendo nei confronti di immigrati e rifugiati giunti nella sua terra in due scelte fondamentali: voler bene e imparare insegnando. Questa disponibilità nasce da una dinamica essenzialmente materna: preoccuparsi della crescita a prescindere da delusioni, incomprensioni, insuccessi nel breve periodo.

E’ proprio questo tipo di disponibilità che occorre in questa fase storica segnata da grandi sfide quali le migrazioni forzate senza precedenti su scala globale, anche a seguito di una crisi di un assetto internazionale fondato sull’egemonia delle due superpotenze emerse dalla terribile seconda guerra mondiale, spesso esercitata secondo dinamiche spregiudicate ed anche brutali.

A molti che operano a vari livelli spetta il compito di arginare tutta la violenza che cresce in tale crisi, ma quello che conta di più, in ultima analisi, è l’azione quotidiana di persone come Maria Antonietta, che “osano il bene” per rispondere a tanta sofferenza, sfiducia e violenza che le circonda.

Senza sottovalutare quanto fatto a livello istituzionale per tante gravi emergenze umane, un futuro di coesistenza pacifica fondata sulla dignità delle differenze potrà realizzarsi essenzialmente grazie a quanta “premura materna” sia donne che uomini riusciranno ad esprimere, scegliendo di voler bene ed imparare insegnando.

Lo potremo fare tanto più facilmente quanto sapremo intuire, oltre le apparenze, un mistero più grande racchiuso in ogni persona che incontriamo.

Molto volentieri come Religions for Peace / Italia abbiamo dato il patrocinio a questa testimonianza preziosa che vogliamo contribuire a diffondere.

Luigi De Salvia

Presidente della sezione italiana di Religions for Peace

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Mi chiamano maestra.

E’ un cupo pomeriggio di febbraio del 2015.Entro in classe.Sei sguardi smarriti, angosciati, interroganti mi fissano.Rivedo il bianco di quegli occhi, sola luce tra le pupille e la pelle nera come l’ebano.Da qualche mese insegnavo l’italiano agli extracomunitari. Avevo già conosciuto pakistani, afgani, rumeni, moldavi, marocchini. Gli uomini comunicavano poco, parevano diffidenti, più che altro interessati a superare l’esame per il rinnovo del permesso di soggiorno. Le donne, le mogli, invece mi avevano accolto col sorriso, volevano capire, parlare, imparare. Ma prima di impegnarsi nello studio dovevano occupare i figli di tre/quattro anni con fogli e pennarelli, mettere tranquilli i più piccoli nei passeggini, allattarli se necessario. Quelli nella pancia erano i meno impegnativi. Poi il tempo scorreva veloce. I ceppi linguistici di provenienza erano: quello orientale (Pakistan, Afganistan), quello dei paesi dell’est (Moldavia, Romania) e quello dell’Africa mediterranea (Tunisia, Marocco).L’arrivo dei giovani dall’Africa sub sahariana costrinse a dividere gli studenti in tre gruppi; a me, volontaria e ultima arrivata, toccò di insegnare l’italiano a questi giovani sbarcati a Palermo in gennaio da una nave che li aveva soccorsi in mare.Il tempo di realizzare quanto mi viene comunicato, sempre lì sulla porta, inchiodata da quegli sguardi, e il panico sommerge me e anche loro, mi pare. Già comincia a risuonarmi dentro una domanda che vuole risposta urgente: “Come riusciremo a comunicare?”Con parole no, non ci capiamo, men che meno scrivendo, per quanto ne so sono analfabeti. Resta il linguaggio del corpo e quello che riusciremo ad esprimere disegnando. Non c’è altro. Anche perché mi si dice che questi giovani non parlano la stessa lingua e fanno fatica a capirsi tra loro.Cambiamo aula, si siedono, mi guardano, tiro il fiato e comincio: “Io Maria, Italia” e poi, indicandoli uno ad uno: “Tu?”. Mi rispondono con i

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loro nomi e mi dicono da dove vengono: : Guinea Bissau, per lo più, e Senegal.Riguardo alla mia conoscenza della geografia dell’Africa sono rimasta quasi all’“hic sunt leones” di 2000 anni fa. Devo approfondire.Siamo in classe, ci sono banchi, cattedra, lavagna; forse riesco a farmi capire: “Io maestra, e voi?”. Mimano il vangare, lo zappare, fanno i versi degli animali. Hanno capito e capisco anch’io: sono contadini, allevano bestiame, tranne uno che mormora “business”.Mi si apre uno spiraglio: “Do you speak english?” “Yes I do, during the journey from Guinea to Libia, two years across Sahara, a man teached me english, just a little”.Decido: l’inglese sarà la nostra lingua di transito. L. la parlerà con me e poi tradurrà in mandingo, chi lo capisce comunicherà con quelli che parlano in fula che a sua volta sarà tradotto in criolo, la lingua africano portoghese diffusa nell’Africa occidentale.Così comincia una sarabanda che dura qualche mese, quando esco da scuola non so più in che modi mi sono espressa: in italiano, con la mimica, con le lettere dell’alfabeto o con disegni di animali, di oggetti, di facce sorridenti o arrabbiate, dello stivale d’Italia… sempre un po’ storto.Disegniamo di tutto, tutti. Scarabocchi mostruosi, ci ridiamo su, la tensione si allenta, scriviamo qualche parola, ci parliamo in lingue diverse.E poi guardiamo le mappe su internet. La Guinea e il Senegal sono lontani, nell’Africa più occidentale, vicino all’isola di Capo Verde, tristemente famosa perché da lì, secoli orsono, partivano le navi negriere. Portavano gli schiavi catturati nella foresta a lavorare nei campi di cotone d’America, era mano d’opera umana strappata dalla terra nativa, a costo quasi zero.Oggi invece… è mano d’opera umana cacciata dalla terra nativa, a quale costo?Sulla mappa mi indicano il loro viaggio, riconoscono gli stati attraversati, si rattristano al ricordo di quei due anni appena trascorsi.Pian piano matura l’idea di confezionare un piccolo dizionario e, poiché qualcuno conosce qualche termine francese, si potrebbe estendere a sei lingue: italiano, fula, mandingo, inglese, francese e criolo. Sarebbe l’occasione per avvicinare i giovani alla tastiera del computer, per cominciare a capire i vocaboli e a intenderne il significato. Ma più d’uno è

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analfabeta, non ha mai scritto né in caratteri arabi né latini. Perciò l’idea resta un desiderio, per ora continuiamo a parlare, a disegnare, a scrivere parole.E poi venne il giorno insperato.Qualcuno pronunciò la parola “casa”, parlava in criolo, ma anche in italiano “casa” si dice “casa”!Per me fu un segno e anche per loro.Quanti significati ha “casa”, quanti sentimenti, quanta nostalgia suscita!Il contadino che lavorava nelle risaie, il più riservato tra loro, qualche tempo dopo mi disse sorridendo per la prima volta: “Maestra oggi sono felice” . “ Perché?” gli chiedo “Perché mi ha telefonato mia moglie da casa”. Me la mostra sul cellulare: una bella ragazza con in braccio un bel bimbo. Capisco la sua felicità e la sua malinconia.Insieme alla nostalgia affiorano anche ricordi amari, ferite difficili da guarire: “ho visto tre miei amici annegare in mare e io non ho potuto aiutarli, non so nuotare”, “ho cercato mio padre, l’ho trovato, mangiava, gli ho detto che avevo fame. Mi ha riso in faccia, non gli importava. Ho deciso di andarmene”.Aveva quattordici anni, ora ne ha diciotto. Con la carovana ha attraversato il Sahara a piedi o attaccato a mezzi di fortuna, alle frontiere dovevano disperdersi, fuggire dalle guardie. In Libia è stato imprigionato.Ne parlò un giorno mentre sgombravamo un pollaio alto più o meno un metro e mezzo e largo forse due metri quadri. “Era così la nostra prigione ma noi eravamo dentro in venti, venticinque. Non potevamo stare in piedi né sederci, stavamo accucciati uno addosso all’altro. Quando venivano le guardie, ci facevano tirar fuori i morti, pulire dentro, ci davano da bere e poco cibo”.I loro occhi esprimono l’orrore per i delitti a cui hanno assistito, per il sangue che hanno dovuto pulire, sono stati torturati, umiliati, sono riusciti a fuggire, hanno vagato sul bagnasciuga fino al giorno in cui hanno trovato una barchetta di plastica che li ha portati in alto mare.Ci capiamo… un po’Poi la nave italiana, Palermo, Napoli ed ora sono qui nel nostro freddo inverno.

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Spaesati, ma coperti, hanno un appartamento che non sanno gestire (hanno riempito il frigorifero di spaghetti e di spezie), la pulizia lascia a desiderare ma vogliono imparare. Ogni giorno scoprono tante cose: come funziona l’accendino del fornello, la lavatrice, il forno, la raccolta differenziata…Ma, più di tutto vogliono capire le persone del luogo in cui sono arrivati, vogliono conoscerle, parlare con loro.Da più di un mese vivono chiusi in casa, gli abitanti del paese non sanno di loro. Non disturbano.Solo quando è nevicato sono usciti in giardino per vedere quello strano fenomeno calzando gli infradito. All’equatore non nevica.Subito, facendosi capire a gesti, hanno aiutato i vicini a sgombrare la neve.A scuola osservo la loro inquietudine, non hanno riferimenti, neanche i più semplici, così, un giorno li porto fuori e cominciamo a camminare insieme: “Avanti, indietro, a destra, a sinistra, quello è il fiume, il Taro, le anatre, un cigno... Camminiamo, corriamo, parliamo ad alta voce.Cominciano a respirare più liberi, a fare qualche sorriso, mi indicano qualche stelo di erba cipollina, mi fanno segni con le mani, capisco: “ da noi crescono cipolle grandi così”. Finalmente cercano di parlare con me anche se le parole che abbiamo in comune sono venti, forse trenta.L’inverno trascorre. Lo studio prosegue sul manuale per gli stranieri: “Come ti chiami? Di dove sei? Come stai?” Bisogna imparare a leggere un orario, un avviso su Internet, a spiegarsi e a capire quando si va al Centro per l’impiego o in Questura per i documenti.Le procedure per ottenerli sono lunghe, causano un’inquietudine che non si acquieta mai. Infatti ancor oggi, dopo quasi due anni abbiamo letto la domanda su quale fosse il loro desiderio più profondo.Mi aspettavo le solite risposte: salute, denaro, famiglia, invece, dopo aver pensato un po’ hanno risposto tutti insieme: “documenti”.Questi giovani sono ora inseriti nel programma di accoglienza ministeriale chiamato SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), dopo un primo periodo di accoglienza nel programma di accoglienza emergenziale coordinato dalla Prefettura.Daniele, l’operatore della cooperativa, li ha guidati fino ad ora con umanità e fermezza, ha cercato di dar loro i consigli più elementari di un corretto

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comportamento, in modo da avviarli verso una futura autosufficienza. Penso che possa essere soddisfatto dai risultati raggiunti.In seguito ho conosciuto altri giovani tutori di gruppi di richiedenti asilo: ho intravisto la difficoltà del loro lavoro tra l’incudine delle norme di uno stato che vuole inserire i migranti in un contesto sociale organizzato e il martello costituito dalla cultura, dallo stile di vita di questi giovani vissuti in villaggi della foresta equatoriale dove, oltre la famiglia, gli amici, i campi da coltivare, c’è un complesso sistema culrurale e di vita che pochi di noi conoscono. Da qui l'enorme importanza di figure come i mediatori culturali, ponti tra culture e società enormemente differenti.Mi assilla una domanda che per ora non trova risposta: per la nostra società in futuro, i rifugiati saranno un peso insostenibile o una risorsa positiva?Nel frattempo continuo a parlare con questi giovani, considero la reazione di molti stati europei che vogliono estraniarsi dal problema costruendo barriere, osservo sfilare popoli stremati in fuga dalla guerra, guardo Rete4 che istiga gli ascoltatori, puntando sull’egoismo e sulla paura del diverso senza mai proporre alternative positive, credibili, fattibili.E i poveri protestano, combattono questi nuovi poveri distogliendo lo sguardo dalle troppe sanguisughe che ogni giorno rubano, truffano milioni, che dico, miliardi, con arroganza, senza vergogna. Così chi alimenta questa lotta tra sventurati può vincerla senza danni e anzi può trarne vantaggi collaterali.

Torniamo a scuola, è meglio.E’ arrivato aprile, hanno imparato un po’ di vocaboli, di fonetica, ci capiamo di più; ora dobbiamo costruire le colonne portanti della lingua: soggetto, verbo, complementi. I tempi passato, presente, futuro per coniugare i verbi diventano ieri, ora, domani.Qui capisco le difficoltà della nostra lingua e rimpiango l’inglese, molto più semplice e rapido. Ma tant’è, siamo in Italia e l’italiano ha suoni che toccano il cuore, anche il loro.C’è poi una parola che mi martella dentro: integrazione. E’ un termine potente, la meta degli sforzi di chi aiuta i migranti, promette quella convivenza pacifica tra i popoli che per adesso non si vede.Questi giovani non la conoscono ma avverto che arde anche dentro di loro.

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Mi chiedo: da dove si può cominciare?Il nostro è un paese piccolo, può essere un vantaggio, le autorità sono facilmente raggiungibili.Penso a una lettera.

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Primi passi verso l’integrazione.

Tutti insieme andiamo in municipio con Daniele dove ci attendono il Sindaco con gli assessori, il Parroco, il Maggiore dei carabinieri e il Presidente dell’Assistenza Pubblica. Uno di loro legge la lettera.“Gentile signor Sindaco,siamo i sei giovani arrivati a Borgotaro dalla Guinea e dal Senegal.Il nostro viaggio è stato lungo e difficile: abbiamo attraversato il deserto del Sahara dall’equatore per migliaia di chilometri fino alla Libia dove fuggivamo sempre inseguiti dai poliziotti e dove alcuni di noi sono stati in prigione per tanti mesi, picchiati e maltrattati. Infine abbiamo trovato una piccola barca di plastica su cui siamo arrivati fino a una nave italiana che ci ha sbarcati a Palermo. Da quattro mesi siamo a Borgotaro. Voi ci avete ospitato in una casa, ci avete dato il cibo, ci avete vestito e noi vi ringraziamo di cuore.In futuro vogliamo dirvelo meglio a parole e anche con quello che potremo fare per voi.Siamo qui oggi per conoscere meglio voi che rappresentate le persone di Borgotaro. Non conosciamo il nostro futuro ma abbiamo capito che il primo passo per noi è conoscere la lingua italiana per parlare con voi. Noi da piccoli non siamo andati a scuola ed ora impariamo a leggere e a scrivere in italiano.La lettera l’ha scritta la maestra Maria, noi l’abbiamo capita. Ora vogliamo fare un piccolo dizionario per capire le parole necessarie in sei lingue:italiano, inglese, francese, lingue d’Europa, mandingo, fula e criolo le nostre lingue d’Africa.Quando parleremo meglio vi racconteremo qualcosa di noiPer ora grazie di cuore per la vostra ospitalità”.

Seguono le firme. E’ il primo passo verso l’integrazione: poco tempo dopo infatti il Sindaco ha inserito questi giovani in attività di volontariato. Gli abitanti hanno rilevato che il paese ora è più pulito; i carabinieri hanno aiutato uno di loro spaventato per essere incappato in un problema di

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omonimia su internet, sono riusciti a tranquillizzarlo; il Parroco, quando a scuola è terminato il corso per gli stranieri, ci ha ospitato in un’aula di Casa Molinari e poi, nell’estate nel cortile dove studiano su tavolini sotto gli alberi, danno qualche calcio al pallone e, per ringraziare, si occupano delle pulizie necessarie.Ogni tanto si ode un rintocco di campana. “cos’è?” “è un richiamo alla preghiera”, “tu, maestra preghi?”, “quante volte preghi?”Quando poi qualcuno di loro in un momento di entusiasmo mi dice: “maestra, vieni da noi, a casa mia, il pesce è abbondante e costa poco, la frutta è buonissima e poi … tu diventi mussulmana!” rispondo ridendo: “si ma mi ci vuole una badante” e lui di rimando: “tu non hai bisogno di badante”. Poco tempo dopo un altro: “tu maestra sei una brava persona, ci aiuti, diventa mussulmana”. Dalla loro espressione capisco che ormai hanno deciso: devo diventare mussulmana. A questo punto, guardandoli in faccia dico: “voi dite che sono una brava persona, non avete pensato che quello che vedete di buono in me dipende anche dal fatto che sono cristiana?” E infine: “e se io chiedessi a voi di cambiare religione perché vi considero brave persone, voi cambiereste?” La risposta fu un semplice no, così questa questione fu risolta e non ne parlarono più.

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La preghiera.

Ma urgono tante altre domande. La dimensione spirituale è un elemento fondante della loro personalità, e non so se noi europei, impoveriti dall’aspettativa dominante di ricchezza e di potere, riusciremo a capirli.Il più silenzioso di loro mi chiede un giorno: “maestra, qual’è il nome di Dio?”Anche se ho alle spalle una vita di catechista, esito, ho paura di sbagliare,ma rispondo: “Per quello che ne so, dai testi biblici, Dio è chiamato in più di mille modi, in tutte le lingue del mondo, ma Gesù, quando gli apostoli (i suoi amici) gli hanno fatto questa domanda, ha detto loro: “Chiamatelo Padre, vi risponderà”, ci ascolta e risponde a tutti perché è un Papà che ama i suoi figli”.Grazie al cielo in nostro parroco, don Angelo, ogni tanto viene a parlare con questi giovani, loro lo aspettano e lo accolgono con gioia.Quando affrontò il problema delle diverse religioni e del loro compito disse: “Pensate a un’alta montagna, tante strade partono dal piano, da ogni direzione per arrivare alla vetta. Le religioni sono così: tante strade. Ma la cima è una sola. Perché gli uomini vogliono arrivare lassù? Chi cercano?”Ma.., penso io, al piano succede di tutto. Forse la metà della popolazione mondiale crede in Dio, l’altra metà no. E’ pur vero che conosciamo laici non credenti, eroi forti e solitari, la cui condotta morale è limpida e la disponibilità verso gli altri totale; tuttavia le religioni, chiedendo atti di fede, penso che si fondino su un terreno più solido di quello umano, che uniscano di più, che diano forza ai più deboli, che preparino un terreno fertile su cui possono nascere creature come Madre Teresa di Calcutta o Padre Kolbe o Martin Luther King. Purtroppo i credenti spesso sono in guerra tra loro e questo avvantaggia chi non crede, che così porta avanti i propri interessi senza tanti problemi di giustizia e di fratellanza.Con questi giovani spesso mi è capitato di trovarmi intenta a qualche lavoro. Parlano, scherzano, faticano, ad un certo punto non sento più nulla, mi guardo intorno, vedo delle scarpe a terra, li cerco con lo sguardo, si sono appartati, si sono inginocchiati, fanno gesti di invocazione. Il silenzio è intenso, sacro.Si diffonde un’atmosfera di pace.

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Al contrario le notizie che i telegiornali ci scaricano addosso, le immagini di chi chiede aiuto in alto mare, i popoli che camminano, camminano per poi fermarsi contro reticolati di filo spinato, le proteste della popolazione che non sopporta più l’arrivo di questa massa ormai divenuta tanto critica che può vanificare i propositi di accoglienza e d’integrazione, mi rendono inquieta, loro se ne accorgono e mi chiedono il perché.Anche loro vedono la TV, sanno di cosa parlo, si sentono parte in causa e, smarriti, cercano qualche soluzione. Ricordo il giorno in cui uno di loro mi disse: “In Africa ci hanno combattuti, l’Europa non ci aiuta, ma il Papa cosa fa?”E’ strano che questi giovani mussulmani nutrano una venerazione così profonda per il Santo Padre, contino su di Lui. Ed io: “Il Papa fa quello che può, tutto quello che può, ma anche lui è un uomo”.Non so dire altro.Qualcuno replica, quasi sognando: “Fortunati i figli del Papa ad avere un padre così!”. Rispondo d’istinto: “Il Papa non ha figli, né moglie, neanche il parroco ne ha!”.Questa notizia li spiazza, cominciano a protestare: “Ma come? Questo non è giusto! E poi il Papa quando muore a chi li lascia tutti i suoi soldi?”. Ora ad essere spiazzata sono io ma rispondo: “Si, è vero, il Papa possiede enormi ricchezze ma credo che non disponga neanche di un euro”. Quello che dico non è chiaro neppure a me e, tra il serio e il faceto, intravedo la distanza che ci separa.

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Monte Penna.Suocere e pulizie, musica.

La primavera avanza, ora i giovani si muovono meglio grazie alla due biciclette donate loro dalle sorelle Laura e Luigina. E’ tempo di allargare i loro orizzonti. Così con Daniele e col gruppo di Guido, tutore dei migranti di Pellegrino Parmense, li portiamo sul monte Penna.La montagna li incanta, salgono di corsa per il bosco di faggi e arrivano alla vetta dandomi un bel distacco.Lassù si guardano intorno meravigliati, scorgono Borgotaro da lontano, fanno foto, giocano, scherzano, qualcuno dice che non era mai salito su un monte, da loro c’è mare e pianura.Il giorno scorre veloce e leggero, al ritorno, camminando, pregano. Ci ripromettiamo di organizzare ancora qualche altra giornata così, con altre mete, per mostrar loro come è bella l’Italia.Ma questo proposito viene scartato presto quando in TV vediamo quattro o cinque ragazzi che fanno il bagno nel meridione e altri quattro o cinque che salgono un monte in un paese alpino.Il commento della Tv: “Portiamo gli africani in vacanza, gli italiani invece!…”Non c’è limite alla capacità di scandalizzarsi dei benpensanti. A noi è andata bene perché sul nostro cammino non ne abbiamo incontrati, solo qualche daino, qualche capriolo.Nel nostro percorso linguistico un giorno ci eravamo imbattuti nella parola “suocera”. “E’ la madre di tua moglie” ho spiegato. Subito ho notato che il termine non destava pensieri gentili, qualcuno brontolava di brutto. Strano, certe antipatie pare che siano comuni a tutti gli abitanti del pianeta perciò li ho tranquillizzati: “Siete nella norma, anche da noi questa parola non è molto gradita”.Ma, le rare volte che mi hanno chiamato a casa, anch’io: “No alle pentole sporche a terra, in cucina il tavolo deve essere sgombro, i pacchi degli alimenti riposti nei mobili (che invece restavano inutilizzati), il pavimento

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e il terrazzo devono essere liberati dalle cassette, dai cartoni e puliti ogni giorno, le stoviglie si lavano così!”.Mi rendo conto di parlare di pulizia domestica a uomini africani di venti-trent’anni e mi chiedo che effetto avrebbero le mie parole se dicessi le stesse cose a giovani uomini italiani. Più o meno lo stesso. E infatti alla fine sulle loro facce leggo la parola : “SUOCERA!”Ma questa persona così pesante, che la sa tanto lunga, forse a volte è necessaria.Mi pare che per loro almeno lo sia stata, infatti le rare volte che in seguito sono andata da loro la casa mi è parsa più curata.Il tre giugno è pulita (relativamente). Sul tavolo c’è perfino un vaso di fiori. Aspettiamo il Viceprefetto che deve controllare e riferire sulla situazione dei migranti in provincia di Parma. Il Dottor Ubaldi e le segretarie parlano con i ragazzi, controllano l’appartamento, sembrano soddisfatti della capacità di relazione dei giovani, ringraziano e salutano. Tutti tiriamo un respiro di sollievo, pare che l’ispezione sia andata bene.A casa Molinari, mentre ci sforziamo sulla coniugazione dei verbi, nell’aula vicina sentiamo qualcosa che ci fa tacere. E’ una musica gentile, dialogante, non comune. Subito ci informiamo. C’è un maestro di là, un giovane maestro tzigano-ungherese che insegna a suonare il violino. Lo conosciamo, gli parliamo e ogni tanto lui viene e suona per noi. Czarde, ouverture, Vivaldi… Ascoltiamo rapiti, grati di questo dono del cielo.Poi chiedo al maestro se mi aiuta a farli cantare l’inno nazionale. Hanno sentito i calciatori cantarlo prima delle partite, vorrebbero impararlo. L’ho scritto, ho spiegato le parole, il violinista ci suona la musica, ma in quanto a cantarlo siamo ancora indietro.Conosciamo anche Federico, il responsabile dell’Emporio Solidale, ha bisogno di volontari per lo scarico delle merci, per immagazzinare e distribuire le derrate, per parlare con le persone che vengono per ricevere cibo. Si capiscono all’istante, i giovani accettano con entusiasmo e già si organizzano i turni di presenza, quest’attività dura tuttora con vantaggi per tutti e Federico è diventato il loro allenatore di calcio.Hanno già giocato nei tornei organizzati dal Borgotaro con risultati diciamo “soddisfacenti”. Sono principianti…

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Ci muoviamo in cielo.

Ormai è estate. La scuola va avanti sotto gli alberi di casa Molinari.Individuiamo i punti cardinali: “Il sole sorge a est e tramonta a ovest”. “ Si, ci gira intorno”. “No è la terra che gira intorno al sole e intorno a se stessa”.Quest’idea viene subito rifiutata: “Ma come? Tu sei lì, noi siamo qui, l’albero che ci fa ombra è là dove era ieri e tu ci racconti che ci muoviamo sempre?”Metto un ragazzo a fare il sole, un altro lo faccio girare intorno mentre fa ruotare il pallone intorno ad un asse fisso. Il pallone rappresenta la terra che gira su se stessa e intorno al sole.“Ma noi non ci accorgiamo di questi movimenti”.“Perché siamo sulla terra e, come i colori, le macchie mantengono le distanze tra loro sul pallone, anche noi restiamo fermi uno rispetto all’altro”.Certo capirebbero meglio se vedessero il movimento della volta celeste al Planetarium del Seminario di Bedonia. Ci andiamo.Gli astri che ruotano in cielo, le stelle che compongono i segni dello zodiaco, il sole, la piccola terra che viaggia insieme al sole li affascinano; pare che percepiscano il respiro e l’armonia dell’universo in cui siamo immersi.

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La festa della capra.

Un giorno il più taciturno di tutti mi dice sottovoce: “Maestra, sono triste”. “Perché?” gli chiedo. “Perché ieri era un giorno importante per noi, è finito il Ramadam, abbiamo digiunato e pregato per quaranta giorni, ma tu ieri non sei venuta a casa nostra. Ti aspettavamo. Dovevi venire e dirci: Siete stati bravi, facciamo festa.” Mi spiazza come al solito, cado dalle nuvole. “Ma io non so nulla e voi non me ne avete mai parlato”. La mia mancanza di delicatezza, se pure involontaria lo aveva rattristato perciò gli chiesi di informarmi della prossima ricorrenza.Sarebbe arrivata tra qualche settimana, era la festa della capra, quella che fu sacrificata al posto di Isacco, figlio di Abramo. Noi cristiani non celebriamo questo evento eppure la Bibbia ci racconta che Ibraim (Abramo) fu fatto uscire da Ur, la sua terra nel deserto iracheno e fu mandato da Dio verso Israele con la promessa di una generazione più numerosa delle stelle del cielo, anche se lui e sua moglie erano vecchi e senza figli. In seguito era nato Isacco, un giorno Dio chiese ad Abramo di sacrificarlo a Lui.Il profeta, nonostante il dolore atroce provocato da quest’ordine, decise di obbedire. Lui e il suo bambino salirono sul monte e prepararono l’altare per il sacrificio.Nel momento in cui stava affondando il coltello nel collo del figlio, Dio fermò il suo braccio e, al posto del bimbo, comparve una capra che fu sacrificata. Così era stata temprata la fede del profeta, ora era degno di proclamare che c’è un solo Dio. Da Abramo infatti discendono le tre grandi religioni monoteiste: ebraica, cristiana, mussulmana.E’ facile capire quanto sia importante per chi crede ricordare questo evento, noi cristiani forse l’abbiamo rimosso ma non i mussulmani che lo rivivono con fede.Lo celebreremo insieme. Con Daniele prepariamo il banchetto, ci vorrebbe la capra ma è difficile trovarla e poi costa troppo, va bene anche la mucca, la cuciniamo, puliscono la casa, stendiamo la tovaglia colorata, piatti veri, bicchieri di vetro, tovaglioli di carta. Abbiamo anche ospiti: Giuseppe e Federico che arrivano con una casseruola di buone lasagne (da magro) e tanti dolci.

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Alla vista della tavola così apparecchiata comincia il servizio fotografico da mostrare ai lontani. Un momento di preghiera, di silenzio e poi comincia la festa, allegrissima anche senza vino.E’ una festa religiosa, con convitati di religione diversa, in pace e in amicizia.

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Parliamo di religioni.

Questo episodio mi fece pensare: una causa delle divisioni fra i popoli è l’ignoranza dei reciproci credi religiosi. E’ strano, i principi fondanti delle religioni sono la convivenza pacifica fra le persone, la condivisione dei frutti della terra, l’anelito a Chi sta più in alto degli uomini, di tutti gli uomini.Ma le radici delle religioni hanno attecchito su suoli diversi e hanno prodotto piante e frutti diversi. E’ facile allora credere che solo la propria fede abbia la Verità, mentre quella degli altri...Mi sono posta questo problema sempre, ora più che mai nel confronto con la fede di questi giovani venuti da lontano e penso di aver trovato una soluzione accettabile nella mia storia, nelle mie amicizie del passato quando, tanti anni orsono, vissi i miei anni di università con i miei nuovi compagni di studiI miei genitori avevano scelto la sede e la facoltà, i miei amici del liceo si erano iscritti in altre sedi, la prima persona con cui parlai quando, sola e intimorita, mi trovai nella folla urlante delle matricole fu Maria Augusta. Presto gli amici e le amiche divennero tantiTra di loro c’era un gruppo di persiani di religione Baha’i da sempre perseguitati dai mussulmani, per questo erano sparsi per il mondo. Noi italiani li ammiravamo per l’educazione, l’intelligenza, l’aiuto che davano a chi aveva bisogno senza riserve di appartenenze religiose e per le loro storie di vita difficile. Quegli anni trascorsero veloci, l’amicizia tra noi era diventata sempre più profonda, il giorno della laurea venne troppo presto, le nostre strade si divisero. Maria Augusta sposò Manoucher Hedayat, il responsabile del gruppo di studenti Baha’i, vissero per anni nelle Filippine, Maonucher lavorando come ingegnere consulente della Banca Mondiale per i progetti finanziati al governo delle Filippine per la costruzione di strade in Mindanao e Maria Augusta come insegnante presso l’Università di Los Banos dove anche conduceva ricerche sulle malattie del riso. Le notizie fra noi si diradarono fino ad alcuni anni orsono quando tornarono a Parma. Poi Manoucher morì.Ritrovai Maria Augusta nel 2015, era venuta a Borgotaro per tenere una conferenza presso la Biblioteca Manara per presentare l’Associazione Religions for Peace che opera a livello nazionale, europeo e mondiale. In quell’occasione mi fece dono del calendario di RfP sul tema

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“Accogliamoci l’un l’altro” dove erano riportati scritti delle 14 tradizioni religiose presenti in Italia sull’accoglienza del diverso. L’amicizia fra noi è quella di sempre, con qualche vena di nostalgia e di rimpianto, il suo appoggio è stato insostituibile per il lavoro che sto facendo con i migranti. Da lei sono stata introdotta nel pensiero del sodalizio che rispetta tutte le fedi religiose cercando di unirle in opere di pace. Da lei ho avuto in dono i calendari di Religions for Peace, che quest’anno si intitolano: “Custodiamo la terra insieme”. E’ un’opera semplice e profonda che permette anche a chi è inesperto di entrare nello spirito delle diverse religioni. Bibbia, Corano, Talmud e tutti gli altri testi sacri, tutte le religioni hanno la stessa dignità se il loro intento è di costruire la pace ed elevare gli uomini a Dio. Questi calendari sono anche facilmente comprensibili infatti con i giovani africani ne abbiamo letto alcuni passi, ne abbiamo parlato, li hanno capiti e li hanno condivisi. Continuiamo a leggerli, ogni brano ci esorta a pensieri e ad azioni di pace.

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Parole e parolacce

Ogni volta arrivano a scuola con dei foglietti su cui hanno scritto parole che non conoscono. Correggo la scrittura, spiego il significato, gli articoli, il maschile e il femminile. Un giorno uno di loro mi dice che all’allenamento di calcio sente spesso. “io cane, io cane”. Cosa significa?Mi blocco.Devo dire che anche da noi ci sono persone che non rispettano Chi deve essere rispettato da tutti. Non so se anche i mussulmani bestemmiano. Cerco di spiegarmi e dico che noi cristiani dobbiamo osservare delle regole: non chiamare Dio se non è necessario o con titoli offensivi, non rubare, non dire bugie, ecc. Mi rispondono: “E’ così anche per noi”. Chiedo: “Secondo voi le religioni vengono da persone diverse o da Uno solo?” Mi rispondono : “Da Uno solo”.Siamo d’accordo perciò dobbiamo osservare ciò che ci dicono i profeti, ciò che ci dicono le religioni che, nei secoli hanno adeguato le norme alle diverse situazioni di vita dei popoli.Non mangiar carne di maiale è giusto per i mussulmani, ma i popoli che vivono nei climi freddi devono nutrirsi di cibi più grassi.Certo, penso io, digiunare farebbe bene a tanti e non solo al corpo; la rinuncia rafforza lo spirito, aiuta a dare meno peso alle nostre esigenze, ai nostri capricci e a capire le necessità degli altri, ma pare che noi cristiani, io per prima, abbiamo rimosso anche questa norma.Poi, visto che si discute di regole, ne do una anch’io, perentoria. Pare che né Gesù né Maometto ne abbiano mai accennato, ma allora le macchinette mangiasoldi non esistevano. Sento dire che i migranti ne sono le vittime più sprovvedute. Qualcuno dà loro dei soldi e li invita a giocare. Dapprima vincono, poi restano senza denaro, ne chiedono in prestito e il gioco è fatto.Un uomo è diventato uno schiavo disposto a tutto… finirà male.Mai, mai sopporterei che loro si rovinassero così.Ultimamente un’altra lingua è entrata nei loro discorsi. Mentre lavoravano li ho sentiti incitarsi tra loro: “Dai, dai, anduma fiò!” “Su, su andiamo ragazzi!”. E’ il nostro dialetto che non si sente quasi più, e lo pronunciano bene.

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Torniamo alle parole. L’esperienza ora mi aiuta infatti quando mi hanno chiesto cosa significa “incazzarsi” ho deviato il tiro e, convinta che tra maschi si sarebbero spiegati meglio, ho detto loro: “Chiedetelo a Daniele”.Una mattina mi raccontano che hanno conosciuto il loro medico di base, è simpatico, li ha ascoltati, visitati e infine li ha salutati dicendo loro: “In bocca al lupo!” Quel saluto li ha lasciati perplessi. Ma il dottore cosa voleva dire? Si sono rasserenati solo quando si sono convinti che era un bel saluto, l’augurio di un amico a chi deve affrontare una prova difficile. Il medico li aveva capiti. Ho detto loro come si risponde a questo saluto.Continuano tuttora a chiedermi il significato delle parole, l’ultima è stata “coniglio”, io ho detto “rabbit”, loro hanno risposto “lapin”. Siamo poliglotti!

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Le leggi, regole di vita.

Ora si parla di tutto, anche del loro paese, argomento che non abbiamo mai affrontato.Vengo a sapere che la Guinea Bissau è stata da sempre una colonia del Portogallo, nel secolo scorso gli abitanti erano stati dichiarati cittadini portoghesi, perciò dovevano osservare le leggi di quel paese.Negli ultimi anni del novecento è scoppiata una guerra che ha costretto le famiglie di alcuni di questi giovani a lasciare la capitale Bissau e la scuola appena cominciata per rifugiarsi nella foresta. Dopo anni e alterne vicende ora pare che ci sia un nuovo governo, non si sa se sia migliore o peggiore dei precedenti. Non ne hanno notizie, sono anni che viaggiano.Mi raccontano che la foresta equatoriale è stata devastata, gli antichi alberi di legno pregiato: mogano, ebano, palissandro, sono stati abbattuti e caricati su navi dirette in Cina e in Russia. I cinesi poi hanno comprato territori grandi come le nostre nazioni e vi hanno installato le loro industrie. Macchinari e manodopera sono cinesi, chiusi per questi giovani che per ciò non trovano lavoro in patria.Non conoscono le leggi vigenti ora, per quel che ne sanno sono scritte in portoghese e loro sono analfabeti o quasi.Adesso sono qui da noi, l’Italia ha le sue leggi, devono conoscerle per riuscire a capirci e a comunicare con noi.Si potrebbe cominciare dalle regole più semplici, dai principi fondanti le nostre norme.Ce la farò ad affrontare questo compito? Ho i minimi strumenti culturali necessari?Penso alla nostra Costituzione, in fondo tratta di argomenti comprensibili ad ogni essere umano.Il più ricco di spunti mi pare l’articolo tre che afferma: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.Ha un respiro talmente ampio che mi sento troppo piccola di fronte a tanta grandezza.

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L’articolo parla in termini semplici, puliti e contemporaneamente apre numerosissimi temi di discussione e di indagine.Però, è meglio dire qualcosa in proposito piuttosto che niente.Lo leggo, mi ascoltano, mi commuovo. Non è normativa di legge, è poesia.In questi istanti la mia ammirazione è tutta rivolta verso i padri costituenti, coloro che nel momento storico peggiore della nostra storia recente trovarono la forza e la capacità di costruire quest’opera, insieme, nonostante non la pensassero tutti nello stesso modo.Se noi lo estendessimo al genere umano: “Tutti … sono eguali davanti alla legge senza distinzione di ecc, ecc.” non basterebbe una vita per discuterne, per osservare quanto in realtà vengano rispettati questi principi sul nostro pianeta. Comunque il compito dell’insegnante è quello di seminare. E questi semi mi sembrano necessari.

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Cercano lavoro

Si avvicina l’autunno, nel cortile di casa Molinari cadono le foglie, le spazziamo, sono mucchi.Mi chiedono quante ne dovranno ancora raccogliere. “Finché saranno tutte cadute dagli alberi”. “Tutte?” “ Sì, cadranno tutte poi verrà l’inverno”.Si meravigliano. Da loro le foglie non cadono, forse perché all’equatore non c’è né autunno né inverno.Un giorno ci troviamo in viale Bottego, anche lì la strada è coperta di foglie. Uno di loro mi dice: “Domani veniamo e puliamo tutto”. “ Ma avete le scope, le palette, i sacchi? E … vi hanno dato il permesso?”Non capiscono la domanda. Il Sindaco conosce le procedure, ci precipitiamo da lui. Telefona subito al responsabile della pulizia urbana, espone il problema e rassicura: “Possono lavorare, hanno le autorizzazioni necessarie, cercate di organizzarli”.Dall’altro capo rispondono che devono agire secondo la normativa.Dopo qualche tempo li incontro, indossano una giacca segnaletica, spazzano la strada, in seguito hanno verniciato a nuovo il recinto delle scuole elementari.E’ volontariato, come quello che svolgono all’Emporio Solidale due giorni alla settimana. Non ricevono nulla in cambio, ma fanno attività e questo dà loro fiducia, li fa sentire utili e inseriti nella nostra comunità, conferisce loro quella dignità che non riconoscono in chi chiede l’elemosina, come tanti altri giovani che sono a Borgotaro e, purtoppo per loro, non fanno parte di alcun programma di accoglienza e vengono spesso da altre province, perché il racket coinvolge anche l'elemosina, e le zone sono controllate anche su questo fronte.Invece il programma di integrazione dello SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) prevede che, dopo un periodo dedicato all’ambientazione e all’apprendimento della lingua, questi giovani debbano impegnarsi personalmente alla ricerca di un’ occupazione.Gli operatori del progetto li informano e danno loro qualche indicazione. Loro si iscrivono nelle procedure del Centro per l’impiego, devono imparare a orientarsi, a cercare, a chiedere... e non è facile. Qualcuno comincia la ricerca, riceve tanti “no” dagli imprenditori e dagli artigiani della zona, anche loro devono far fronte a parecchi impedimenti burocratici, hanno difficoltà a capire gli annunci che ricevono su internet: “C’è un lavoro per te, cerchiamo operatori specializzati”. E poi ci sono altri

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ostacoli: “Qual è il tuo titolo di studio? laurea, diploma, terza media?”. Qui si blocca tutto perché molti di loro non hanno titoli di studio.C’è fra loro uno capace di fare il maniscalco, ha cercato, si è informato. Per farlo è necessario un recapito su internet, una patente di guida, un’auto per spostarsi, l’iscrizione ai lavoratori di questo genere, l’autorizzazione degli enti preposti all’antinfortunistica e poi ancora e ancora.Come riusciranno i migranti a diventare una risorsa positiva per una nazione in cui si necessitano di tante rassicurazioni per poter svolgere il lavoro più umile? E trovare lavoro nella nostra valle è un problema storico che ci assilla da sempre ed ora più che mai.Uno di loro è arrivato una sera a casa mia e mi ha mostrato uno scritto. Una ditta, la mattina dopo, avrebbe assunto cinquanta operai. Chi glielo aveva dato lo aveva consigliato di farsi accompagnare per poter capire e spiegarsi meglio. Alle sette e mezzo del mattino dopo ci siamo trovati davanti ai cancelli, ma eravamo solo noi due. Dopo una lunga attesa è arrivata la segretaria che mi ha detto che non ne sapeva nulla. Siamo tornati mogi come cani bastonati. Mi ha chiesto di non dire nulla agli altri.

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Quante mogli?

Sì, abbiamo parlato anche di questo.

Mi hanno spiegato che per la loro legge un uomo ne può sposare fino a quattro ma lo fanno solo i molto ricchi, il perché si può capire. Poi mi hanno detto quante ne vorrebbero loro. Il più giovane a quattordici anni al suo paese aveva una ragazza, c’è nostalgia nei suoi occhi. Ora ne ha diciannove, non ne ha più notizie, di sabbia nel deserto ne è volata tanta però è fermamente deciso: di moglie ne avrà una e una sola. Altri tre sono sposati con figli, uno ha una suocera, gli basta; un altro non parla, al più giovane dei tre non dispiacerebbe averne una in Guinea e una in Italia, il quinto non ha ancora deciso, l’ultimo non ne ha, per ora, però in futuro ne avrà dieci: applausi!

E’ comprensibile quanto manchino le ragazze a questi giovani, tuttavia la domanda che riesco a stento a trattenere riguarda la possibile integrazione e gli argomenti introdotti dall’articolo tre della Costituzione: “E le donne quanti mariti possono sposare?”. Per loro sarebbe surreale. A questo proposito cosa accadrà in futuro? Noi occidentali non rinunceremo mai alle norme che fondano la nostra forma mentis, raggiunte attraverso secoli di ricerca e di civiltà. I nuovi arrivati riusciranno a riconoscere i pari diritti delle persone senza differenza di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche di condizioni personali e sociali? Questa è forse la sfida che ci attende, quella che dobbiamo prepararci a risolvere. Però ultimamente mi è capitato di trovare uno di loro mentre ascoltava un discorso sul cellulare. Mi ha detto che era un Imam, parlava delle relazioni fra uomini e donne. Alla mia richiesta di spiegazioni: “Quante mogli?”, l'Imam ne raccomandava una, una sola e raccomandava di proteggerla, di trattarla con gentilezza, perché la donna è più debole dell’uomo. “L’uomo è più alto in tutti i sensi” è per questo che la donna deve restare in casa e aver cura del marito, dei figli.

Non mi è del tutto nuova quest’ultima parte del discorso; due o tre generazioni fa era la convinzione prevalente anche da noi.

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Così simili, così diversi

A conclusione di queste esperienze vissute insieme è arrivato il momento di presentare ciascuno di questi giovani così diversi tra loro anche se nati e vissuti nello stesso continente.

Il più giovane, A., è stato rifugiato nella foresta per anni. In qualche modo ha imparato a scrivere e a contare, ora ha superato il test che gli permette frequentare il corso a Fornovo per dare presto l’esame di terza media. E’ attento, rigoroso, lavora in modo preciso e ordinato, non sopporterebbe mai di diventare un mendicante come i tanti che vede in giro. Ha imparato a scrivere sul computer e a tradurre nel tentativo di compilare il dizionario multilingue. Ora sta affrontando la matematica: è impegnato con le parentesi tonde, quadre, graffe. Impara rapidamente. Per lui Borgotaro è il posto più bello del mondo.

L. mi pare abile nelle pubbliche relazioni, era già un business-man nei mercati del suo paese. Si esprime piuttosto bene in inglese, imparato durante il viaggio nel deserto e si meraviglia che i giovani di Borgotaro non lo parlino. Vorrebbe diventare assistente familiare: lo farebbe bene perché è allegro e sorridente oltre che attento agli altri. E’ appassionato di football e ha già segnato qualche gol nel torneo del Borgotaro.

In ordine di età ora c’è A. che in Africa lavorava nelle risaie. E’ il più silenzioso e talvolta mi pone domande difficili e profonde. A casa ha una moglie e un bimbo, ne ha nostalgia. Si impegna seriamente nello studio e nel lavoro senza però mai mettersi in evidenza. E’ delicato nell’approccio con le persone, sereno, a volte malinconico.

C. viene dal Senegal. Nei primi tempi era completamente isolato dagli altri, non ne capiva la lingua, ne soffriva. Poi ha cominciato a parlare con loro e con me. E’ il più diligente nel voler capire il significato delle parole che spesso mi dice in francese. E’ serio, lavora bene ed è interessato al nostro modo di vivere. Giorni fa mi ha telefonato, aveva bisogno di me. Quando è arrivato ha alzato un braccio e mi ha mostrato la manica tutta scucita. Mentre l’aggiusto lui scrive qualcosa su un foglietto. E’ bella questa scrittura da destra a sinistra, tanti armoniosi arabeschi, ma io non li leggo

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né conosco il significato perciò gli chiedo di tradurlo. E’ un versetto del Corano, parla di pace. Per contraccambiare gli recito il Padre nostro e glielo spiego. Ma quando arrivo a “perdona noi come noi perdoniamo chi ci ha fatto del male” gli dico che io faccio fatica a perdonare. Mi ha risposto che lui no, lui a volte si arrabbia e litiga con i suoi amici ma dopo tre giorni torna da loro sorridente, l’offesa è dimenticata. E questo è l’insegnamento che meritavo. Poi ha sminuzzato il foglietto in pezzetti che ha lavato sotto il rubinetto. Gli ho indicato il cestino della spazzatura. “No, è il Corano” mi ha detto molto seriamente e se li è messi in tasca. “Ciao maestra, grazie, avevo vergogna a alzare il braccio” e se ne è andato.

Il sesto è M., un uomo maturo per quanto è determinato a trovare un lavoro perché ha tre bambini e sente la responsabilità di essere padre. La sua storia è un po’ diversa da quella degli altri, era emigrato in Libia dove aveva trovato un buon lavoro come giardiniere presso un funzionario della polizia. A causa dei disordini in quel paese, un giorno si è trovato ad assistere ad un omicidio, gli è stato ordinato di trasportare il morto e di pulirne il sangue. Poi è dovuto fuggire dai poliziotti che sparavano ad altezza d’uomo. Tutta quella violenza lo ha sconvolto. M. è analfabeta, ma è esperto di tutti i lavori agricoli, sa intagliare il legno, sa fare il maniscalco. Cerca lavoro, ha capito quanto è umiliante non saper leggere e scrivere e non vuole che questo succeda ai suoi figli perciò: “Maestra, sono in arretrato con le rate della scuola, da noi bisogna pagarla”. E quando mi mostra i bambini i suoi occhi diventano dolci.

Resta Y. Ho capito che è il più autorevole quando si doveva scegliere chi avrebbe letto la lettera alle autorità. Hanno scelto lui nonostante si intacchi un po’. Lui me ne aveva accennato prima, imbarazzato. “Vai tranquillo, anche Mosè aveva il tuo difetto”. Y. sa chi era Mosè, anche lui un leader e che leader! L’ho visto preparare le porzioni nei piatti, attento che siano uguali per tutti, le più scarse erano per lui. Un giorno, con esitazione, mi ha mostrato un libretto tra le cui pagine c’era un biglietto da cinquanta euro tutto strappato, tenuto insieme con lo scotch. Lo aveva scambiato in Libia, voleva sapere se era utilizzabile. Siamo andati in banca, il direttore mi ha detto che forse se non era falso, è andato a verificarlo, è tornato sorridendo e gli ha dato un biglietto nuovo di zecca. Y. felice mi ha guardato con ammirazione. Il direttore è un mio ex studente. Y. non sa che può accadere tra studenti e insegnanti: dapprima è l’insegnante che conduce gli studenti ma poi l’insegnante va in pensione e per affrontare le difficoltà del mondo che cambia si affida agli ex alunni ormai seri professionisti. Ora sono loro a

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condurlo. E’ la proprietà commutativa delle relazioni significative. Il giovane africano non la conosce. Ha superato il test d’ammissione per prepararsi all’esame di terza media ed ora frequenta la scuola a Fornovo. Subito dopo i primi giorni mi ha chiesto aiuto mostrandomi le fotocopie di esercizi da risolvere. Attraverso i suoi occhi ho visto la faccia arcigna che l’aritmetica mostra se bisogna in poco tempo fare le divisioni o calcolare le potenze quando si riesce a malapena a fare le somme con le dita. Ora pian piano stiamo superando questo ostacolo e, quando Y. arriva al risultato esatto, splende come il sole.

Qui termina il racconto degli ultimi due anni che ho trascorso insegnando a sei giovani migranti. La storia non ha una fine perché siamo ancora in vita. Noi speriamo. Inshallah. Se Dio vuole.

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Finito di stampare:

venerdì 13 gennaio 2017

Gli apprezzamenti, le critiche motivate sono gradite, per gl’insulti c’è il cestino. Contatto email: [email protected]

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Un progetto realizzato da

Progetto Sprar (www.sprar.it)

Servizio di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati.

in collaborazione con il Comune di Borgotaro, Unione dei Comuni Valli Taro e Ceno, Associazione Associazione APS

Gianni Ballerio e Religions For Peace

Consorzio Fantasia Onlusvia S.Ilario 7 – 43040 Viazzano, Varano Dè Melegari (Pr)