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DOSSIER CON DATI E TESTIMONIANZE Numero 6 – Giugno 2015 Mari e muri Infinite barriere mortali per i migranti Gibuti

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DOSSIER CON DATI E TESTIMONIANZE

Numero 6 – Giugno 2015

Mari e muri

Infinite barriere mortali per i migranti

Gibuti

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INDICE

Introduzione 3

1. Il problema a livello internazionale 5

2. Il problema a livello regionale e nazionale 9

3. Le cause e le connessioni con l’Italia e con l’Europa 11

4. I dati Caritas 13

5. Testimonianze 15

6. La questione 17

7. Le esperienze e le proposte 19

Fonti bibliografiche 21

Note 22

A cura di: Francesco Soddu | Angelo Pittaluga | Silvio Tessari | Paolo Beccegato

Testi: Angelo Pittaluga

Hanno collaborato: Danilo Angelelli | Renato Marinaro | Valentina Cazzanti

Foto: Bianca Saini | Angelo Pittaluga

Grafica e impaginazione: Danilo Angelelli

DOSSIER CON DATI E TESTIMONIANZE

Numero 6 | Giugno 2015

GIBUTI | MARI E MURI

Infiite barriere mortali per i migranti

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«Emigrano i semi sulle ali dei venti, emigrano le pianteda continente a continente portate dalle correnti delleacque, emigrano gli uccelli e gli animali e, più di tutti,emigra l'uomo, ora in forma collettiva, ora in forma iso-lata, ma sempre strumento di quella Provvidenza chepresiede agli umani destini e li guida, anche attraversocatastrofi, verso la meta, che è il perfezionamento del-l’uomo sulla terra e la gloria di Dio nei cieli»

G.B. ScalabriniSeconda conferenza sull’emigrazione

Torino, 1898

«A chi chiede: “Non era meglio rimanere a casa piuttostoche morire in mare?”, rispondo: “Non siamo stupidi, népazzi. Siamo disperati e perseguitati. Restare vuol diremorte certa, partire vuol dire morte probabile. Tu chesceglieresti? O meglio cosa sceglieresti per i tuoi figli?”»

Awas AhmedRifugiato somalo in Italia

Roma, 2014

“Mari e muri” sono gli ostacoli che ogni giorno milionidi uomini e donne, in fuga da conflitti armati, disastrinaturali e povertà estreme, trovano dinanzi al lorocammino di migranti, a interrompere la strada. Il mareè il confine naturale per eccellenza, una barriera scon-finata e carica di insidie, che spesso diviene la meta ul-tima del viaggio. Per quanto l’attenzione mediatica siaconcentrata esclusivamente sul Mediterraneo – il“Mare Nostrum”, come era chiamato dagli antichi ro-mani – le rotte migratorie attraversano diversi mari nelmondo. In passato la traversata riguardava prevalen-temente l’Atlantico, solcato dai ba-stimenti carichi di poveri europeiche cercavano fortuna nelle Ame-riche. Oggi i “barconi della spe-ranza” percorrono nuove traiet-torie, verso nuove e diverse mete:attraverso il Golfo di Aden (MarRosso) per raggiungere dal Cornod’Africa la penisola Arabica; neimari del sud-est asiatico verso laThailandia, la Malesia o l’Indonesiae nell’Oceano Pacifico verso l’Au-stralia; tra le isole del Mar dei Ca-raibi, verso gli Stati Uniti; da unasponda all’altra del Mediterraneo,cercando approdo nella “fortezzaEuropa”.

Spesso, tuttavia, i migranti nonarrivano nemmeno al limite del

mare e vengono fermati prima nel loro cammino daulteriori ostacoli naturali: montagne, fiumi e deserti. Ildeserto del Sahara, in particolare, che separa l’Africanera dal miraggio europeo, rappresenta un confinenaturale sterminato, per molti invalicabile. Infine, dovela natura non ha posto barriere adatte a prevenire mo-vimenti umani, sono intervenuti gli uomini stessi, co-struendo muri.

Il muro Saharawi, conosciuto anche come “il murodella vergogna”, che separa il Marocco e la parte del-l’ex-Sahara Occidentale, occupata nel 1975, dalle zonesotto controllo della popolazione Saharawi: lungo2.720 chilometri, protetto da 160 mila soldati armati,240 batterie di artiglieria pesante, più di 20 mila Kmdi filo spinato, veicoli blindati e mine antipersona proi-bite dalla convenzione internazionale.

I muri di Ceuta e Melilla, le ultime due enclavessotto la sovranità spagnola in territorio africano, costi-tuiti da una tripla barriera lungo i confini delle duecittà con il Marocco, con recinzioni alte 6 metri, sor-montate da reticolati di filo spinato e controllate co-stantemente da agenti della Guardia Civil spagnola. Ilmuro Tijuana, che si estende per oltre 1.000 chilometri

sul confine tra il Messico e gli StatiUniti. E molti altri ancora (oltre 50,secondo gli ultimi dati), come ilmuro israelo-palestinese, il murotra India e Bangladesh, quello traIran e Pakistan... a formare tantebarriere artificiali. Migliaia di chilo-metri – circa 8.000 – che hanno loscopo di separare gli esseri umanigli uni dagli altri e di difendere iPaesi più ricchi, o “democrazie mu-rate”, da scomode intrusioni 1.

Ai muri naturali e artificiali siaggiungono poi i muri metaforiciche abitano le società dove i mi-granti giungono: l’indifferenzaverso chi soffre, il pregiudizioverso lo straniero, il sentimento dichiusura e avversione contro pro-

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In questo dossier,che Caritas Italianapropone in occasionedella Giornata mondiale delRifugiato del 20 giugno 2015,si vuole indagare il fenomenomigratorio con uno sguardoparticolare sui confinida varcare (“mari e muri”)e con un focus sulla realtà,poco conosciuta quantodrammatica, delle migrazioninel Corno d’Africa versoil Golfo di Aden

Introduzione

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fughi e rifugiati. Nuove barriere che spesso le personemigranti trovano alla fine del loro viaggio, quando ilpeggio sembrava ormai alle spalle e la speranza di unanuova vita provava a germogliare; atteggiamenti chefanno sorgere una domanda: «Perché? Che cosa è suc-cesso alla nostra umanità?» 2.

In questo dossier, che Caritas Italiana propone inoccasione della Giornata mondiale del Rifugiato del20 giugno 2015, si vuole indagare il fenomeno migra-torio con uno sguardo particolare sui confini da var-care (“mari e muri”) e con un focus sulla realtà, pococonosciuta quanto drammatica, delle migrazioni nelCorno d’Africa verso il Golfo di Aden.

Al contempo, si vuole ricordare e promuovere il di-ritto fondamentale alla libertà di movimento, garan-tito dalle Convenzioni Internazionali e compiuta-mente espresso nella Dottrina Sociale della Chiesa:«Ogni essere umano ha il diritto alla libertà di movi-mento e di dimora nell’interno della comunità politicadi cui è cittadino e ha pure il diritto di immigrare inaltre comunità politiche. Per il fatto che si è cittadinidi una determinata comunità politica, nulla perde dicontenuto la propria appartenenza alla stessa famigliaumana e quindi l’appartenenza, in qualità di cittadini,alla comunità mondiale». Poiché di fronte a Dio, tuttigli uomini sono uguali 3.

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Il fenomeno delle migrazioni a livello internazionale ri-guarda, ogni anno, decine di milioni di persone. Se-condo il nuovo Rapporto annuale dell’UNHCR GlobalTrends, alla fine del 2014 erano 59,5 milioni le personecostrette ad emigrare dai luoghi di origine, a causa diconflitti armati, persecuzioni, violenze generalizzate eviolazioni dei diritti umani. Un numero impressionante,che esprime chiaramente il dramma della realtà migra-toria: in media ogni 4 secondi, nel mondo, una personaè costretta a fuggire dalla propria casa 4.

Va considerato, peraltro, che le statistiche fornitedalle Nazioni Unite considerano soltanto alcune ca-tegorie di migranti: coloro che sono riconosciuticome rifugiati secondo la Convenzione di Ginevra del1951, i richiedenti asilo, coloro che sono stati costrettialla fuga dal luogo di origine ma non hanno oltrepas-sato i confini del loro Paese (IDPs – Internally Displa-ced Peoples), gli apolidi e coloro chehanno fatto ritorno al Paese di origine,ma non sono ancora stati reintegrati(Returnees). In sintesi, i dati citati fannoriferimento alle migrazioni “forzate” enon tengono conto degli ulteriori mi-lioni di individui che si mettono incammino per “motivi economici”, spintinon da guerre e persecuzioni ma dallafame e dalla povertà estrema, o dal le-gittimo desiderio di costruirsi un fu-turo migliore al di fuori del proprioPaese, e dei “profughi ambientali”, co-stretti a migrare a causa di catastrofiambientali.

A livello globale, dunque, il feno-meno migratorio costituisce una que-stione di primaria importanza, cheriguarda tutte le latitudini del pianeta ecoinvolge inevitabilmente tutte le po-polazioni. Si tratta peraltro di un feno-meno in crescita, che vede aumentareogni anno il numero di persone in movimento o infuga. Per quanto una certa retorica sostenga che la cre-scita economica globale dovrebbe garantire una mag-giore stabilità internazionale e una pace diffusa, laverità è che il numero dei conflitti armati è in costantecrescita. A quanto afferma l’Istituto Internazionale diRicerca sui Confitti di Heidelberg, in Germania, il 2013è stato caratterizzato dal più alto numero di scontri ar-mati dopo la Seconda Guerra Mondiale: 414 conflittinel mondo 5. Come afferma Antonio Guterres, AltoCommissario per i Rifugiati delle Nazioni Unite, vi-

viamo in «un’epoca in cui il numero di persone in fugadalle guerre ha raggiunto livelli record».

Le rotte dei rifugiati

Secondo le stime delle autorità costiere e le informazioniconfermate da altre attività di monitoraggio, nel 2014almeno 348 mila persone nel mondo hanno tentatoqueste traversate per via mare. L’Europa, che confina conimportanti conflitti a Sud (Libia) e Sud-est (Siria/Iraq), è

stata destinataria del numero piùelevato di arrivi via mare. Sono più di200 mila le persone che hanno attra-versato il Mediterraneo nel corso del2014, quasi tre volte in più rispettoal precedente picco di circa 70 milapersone nel 2011, quando la guerracivile libica era in pieno svolgimento.

«Nel 2014, i richiedenti asilo rap-presentano la componente mag-gioritaria di questo tragico flusso. Il50% circa degli arrivi è compostoinfatti da persone provenienti daPaesi di origine dei rifugiati (princi-palmente Siria ed Eritrea). Oltre alMediterraneo, ci sono attualmentealmeno altre tre rotte marittime uti-lizzate in via prioritaria sia dai mi-granti che dalle persone in fuga daconflitti o persecuzioni.

Dal 1 gennaio alla fine di novem-bre 2014, nella regione del Corno

d’Africa 82.680 persone hanno attraversato il Golfo diAden e il Mar Rosso nella rotta che dall’Etiopia e dallaSomalia permette di raggiungere lo Yemen o succes-sivamente l’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo Persico.

Nel sud-est asiatico, si stima che siano 54 mila lepersone che hanno intrapreso queste traversate viamare nel 2014. In molti casi si tratta di persone in fugadal Bangladesh e dal Myanmar e intenzionate a rag-giungere la Thailandia, la Malesia o l’Indonesia.

Nei Caraibi, inoltre, sono circa 4.475 le persone chehanno preso la via del mare dal 1 gennaio al 1 dicem-

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1. Il problema a livello

internazionale

milioni di personesono state costrettead emigraredai luoghidi origine

59,5

In media ogni 4 secondi,nel mondo, una personaè costretta a fuggiredalla propria casa

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bre di quest’anno, nella speranza di sfuggire alla po-vertà o in cerca di asilo» 6.

Oltre alle traversate via mare, continuano le migra-zioni attraverso i deserti (in Africa e in America), lesteppe dell’Asia centrale, i corsi d’acqua, le montagne ei grandi valichi che la natura ha posto come ostacoli almovimento umano. E prosegue inesorabile il tentativocostante di varcare i muri, che segnano artificialmentei confini politici segnati dagli uomini e che separanometaforicamente il “primo mondo”, visto ancora come

miraggio di benessere e opulenza, dal Sud del mondo,tenuto in posizione di esclusione e marginalità.

La mappa sottostante riporta i dati raccolti dall’IOM(OIM − Organizzazione Internazionale per le Migra-zioni) da varie fonti in tutto il mondo e rappresenta ilnumero delle vittime identificate con certezza nel2014, pari a 5.017 persone. Solo nell’area mediterra-nea si contano 3.279 vittime, il 63% del totale. Si trattadi un dato minimo, non essendo possibile stimarequante persone sono morte effettivamente.

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È salito degli onori alla cronaca agli inizi del 2015 ildramma che colpisce il popolo dei Rohyngya, nelMyanmar, il Paese un tempo chiamato Birmania:un dramma che affonda le radici in una lunga storia.Con il nome di Rohingya si identificano le comunitàdi fede islamica e di lingua del gruppo bengalese,che abitano prevalentemente l’area ai confini tra ilMyanmar e il Bangladesh, ma che non trova in nes-suno di essi una casa accogliente, al punto di gua-dagnarsi la definizione di «popolo meno voluto almondo». Gli insediamenti di comunità islamiche nelterritorio storicamente chiamato Arakan e identifi-cato con il Rakhine State (in Myanmar) trova infattiattestazioni precedenti al dominio inglese. La con-dizione di queste comunità è particolarmente gravein Myanmar, dove vivono circa 800 mila Rohingya,ai margini della vita sociale, senza diritto di cittadi-nanza, spesso confinati in campi per rifugiati; lostesso nome di “rohingya”, pur di uso non comunetra le popolazioni musulmane del Rakhine State, èaddirittura vietato da parte del Governo del Myan-mar, che non riconosce l’esistenza di questa mino-ranza etnica. Il Governo del Bangladesh, da partesua, non ha mai incoraggiato l’insediamento di que-ste comunità dalla propria parte del confine, pro-muovendo ciclicamente il rientro verso il Myanmardegli sfollati presenti nel suo territorio.

La transizione verso un regime più democratico,in corso negli ultimi anni in Myanmar, non ha por-tato miglioramenti, ed è stata anzi accompagnatada un rinfocolarsi delle tensioni tra queste popola-zioni e le popolazioni rahkhine, buddhiste e digruppo linguistico birmano, prevalenti nella partemeridionale dello stato. Secondo un recente rap-porto dell’International Crisis Group, «la situazionedello stato del Rakhine presenta una mistura tossicadi tensioni tra centro e periferia, importanti conflittitra comunità e minoranze religiose che coinvolgonola minoranza musulmana, ed una situazione diestrema povertà e sottosviluppo».

Queste tensioni sono sfociate in veri e propriscontri a partire dal 2012, alimentando così il flussodi profughi e rifugiati verso i Paesi vicini, in partico-lare la Thailandia, la Malesia e l’Indonesia, attraversolo stretto di Malacca. L’esodo dei profughi Rohyngyanel Golfo del Bengala, in molti casi rifiutati e respintiin mare dalle autorità dei Paesi limitrofi, ha generatonegli ultimi mesi una vera e propria crisi umanitaria,conosciuta come “crisi dei barconi”. Per avere un’idea

della portata di questo fenomeno, in un solo giorno(11 maggio 2015) sono stati intercettati al largo dellecoste indonesiane quattro barconi con 1.400 mi-granti e altre imbarcazioni più piccole con a bordo600 migranti (Rohyngya e cittadini bengalesi). Il 14maggio sono stati trovati altri 400 profughi a bordodi imbarcazioni senza acqua potabile e cibo; il 15maggio ne sono stati salvati 677, dopo che sul bat-tello erano scoppiati incidenti tra i due gruppi chehanno causato 200 morti, tra cui sette bambini.

Secondo i più recenti rapporti dell’ Alto Commis-sariato per i Rifugiati (UNHCR), aggiornati al 31marzo 2015, «le rotte di traffico via mare dall’area delGolfo del Bengala alla volta della Thailandia e poidella Malaysia sono diventate sempre più lucroseper i trafficanti e sempre più pericolose per il loro ca-rico umano. Nonostante i rischi, ultimamente il nu-mero di persone che ricorrono a queste vie e aquesti mezzi è in aumento». In particolare, si stimache circa 25.000 profughi si sarebbero imbarcati subarche di trafficanti tra gennaio e marzo di que-st’anno – quasi il doppio rispetto allo stesso trime-stre del 2014 – e almeno 300 persone sarebberomorte a causa di fame, disidratazione e abusi daparte degli equipaggi e dei trafficanti, fatto resonoto dal recente ritrovamento di fosse comuni nelsud della Thailandia, con decine di cadaveri di pro-fughi Rohingya. «Le condizioni nel campo dei traffi-canti – continua il rapporto – sono terribili. Lepersone sono detenute e maltrattate fino a quandoi loro parenti non pagano per il loro rilascio. Più dellametà dei sopravvissuti intervistati dall’UNHCR ha ri-ferito che qualcuno è morto nel campo dei traffi-canti dove sono stati trattenuti. I pestaggi sonocomuni e ci sono segnalazioni di stupri. Coloro checercano di fuggire, rischiano di essere fucilati».

In Myanmar, l’approssimarsi delle elezioni, previ-ste per la fine del 2015, non facilita la soluzione diun problema che rischia di alienare le simpatie dellamaggioranza buddhista del Paese. La questione deiprofughi Rohingya è stata discussa in un recentevertice dell’ASEAN (Associazione delle Nazioni delSud-est asiatico), senza tuttavia molti risultati.Anche se l’Indonesia e le Filippine hanno offerto unrifugio ai profughi – seppur temporaneo –, e un di-spositivo di risposta umanitaria efficace è quantomai urgente. Una soluzione definitiva rimane com-plessa, e non potrà aggirare lo spinoso tema dellacittadinanza a cui hanno diritto queste persone.

IL DESTINO TRAGICO DEI RIFUGIATI ROHYNGYA NEL GOLFO DEL BENGALA

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Avvicinando lo sguardo, come uno zoom, dalla scenainternazionale alla regione del Corno d’Africa, tro-viamo una realtà migratoria tanto drammatica quantopoco conosciuta.

L’instabilità politica e i conflitti hanno agitato negliultimi decenni l’Eritrea, l’Etiopia, la Somalia e il Sudan,dove la parte meridionale, il Sud Sudan, si è resa indi-pendente dal luglio 2011 dopo un conflitto pluride-cennale, che continua ora con un conflitto internosud-sudanese. Insieme alla miseria assoluta che colpi-sce larga parte della popolazione di questi Paesi, l’as-senza di prospettive lavorative, la discriminazione digruppi etnici e minoranze e la violazione di dirittiumani fondamentali, hanno determinato in questazona del continente africano un movimento umanoconsistente e preoccupante.

Milioni di persone, lasciati dietro di loro i villaggi,le famiglie, gli affetti, si sono messi in marcia senzanulla al seguito, se non la speranza di una vita mi-gliore; spesso, la speranza stessa di sopravvivere. Unflusso umano inimmaginabile che ogni giorno, senzasosta, percorre queste terre dell’Africa Orientale.

Nei primi mesi del 2015, inoltre, la crisi dello Yemen,nel sud della penisola arabica, con la guerra civile traribelli Houti e le forze lealiste sostenute dall’ArabiaSaudita, ha portato a un significativo flusso migratoriodi profughi e rifugiati verso la piccola repubblica di Gi-buti, sulla costa africana del golfo di Aden.

In questa regione martoriata da guerre e calamitàil piccolo Stato di Gibuti, che conta appena 870 milaabitanti 7, a ragione della sua, seppur relativa, stabilitàeconomica e politica, viene generalmente visto comeun’oasi di pace in un deserto in tempesta, tanto da at-tirare migliaia di persone in cerca di migliori prospet-tive di vita. La realtà degli immigrati a Gibuti sipresenta estremamente variegata per quanto ri-guarda il Paese di provenienza, la ragione della migra-zione e lo status giuridico sotto il quale il migranteviene riconosciuto.

In linea generale, si trovano nel Paese due princi-pali gruppi di migranti: coloro che attraversano ilPaese per raggiungere, attraverso lo stretto di Bab el-Mandeb, lo Yemen e gli altri Paesi arabi, e coloro cheraggiungono il Paese come destinazione finale. Questiultimi, migranti “economici” e “politici”, si stabilisconoa Gibuti cercando un impiego lavorativo che permettaloro di sopravvivere e, laddove ve ne siano i presup-posti, intraprendono il complesso iter burocratico peril riconoscimento dello status di rifugiato.

Le stime quantitative sulla presenza degli stranierisono inevitabilmente parziali e imprecise, e riguar-dano principalmente quella parte di persone “ricono-sciute” dal Governo gibutino e dall’Agenzia delleNazioni Unite per i Rifugiati come titolari di protezionegiuridica (richiedenti asilo e rifugiati). Secondo le piùrecenti statistiche, del febbraio 2015, sono presenti aGibuti 14.944 richiedenti asilo e rifugiati registrati a Gi-buti, che risiedono presso i campi profughi di Ali-Addé, al confine con la Somalia, e Holl Holl, oppurenella città di Gibuti (2.513 “rifugiati urbani”). Gli stra-nieri richiedenti asilo a Gibuti provengono da Somalia,Etiopia, Eritrea.

Nei grafici della pagina seguente si possono osser-vare più nel dettaglio i numeri dei richiedenti asilosuddivisi per nazionalità, secondo i dati forniti dall’AltoCommissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati 8:

2. Il problema a livello

regionale e nazionale

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Yemen

Gibuti Golfo

di Aden

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Nell’ultimo decennio la Repubblica di Gibuti è dive-nuta inoltre una “destinazione di transito” per coloro cheintendono dirigersi verso i Paesi Arabi e verso l’Europa,attraversando il Mar Rosso dalla costa gibutina del Golfodi Aden verso lo Yemen. Questi flussi migratori proven-gono principalmente dalla Somalia e dall’Etiopia.

Le tappe di una lunga fuga

La rotta migratoria principale riguarda, in particolare,il tragitto che dall’Etiopia attraversa Gibuti fino allacosta nord-orientale, punto di imbarco verso i Paesiarabi. Su questa strada si contano ogni giorno centi-naia di persone che, partite a piedi dall’Etiopia, ten-tano di raggiungere i villaggi di Tadjoura e Obock nellasperanza di trovare, il prima possibile, un passaggioverso lo Yemen. A una trentina di chilometri a nord diObock si estende una costa sabbiosa molto lunga, cheva da Raz Bir fino alla spiaggia di Godoria, dove ogninotte partono piccole imbarcazioni yemenite per l’al-tra sponda dello stretto. Per arrivare a queste spiaggei migranti si fanno accompagnare da guide locali (pas-seurs). Dietro pagamento, moltissimi giovani di Tad-joura, Obock e altri villaggi di Gibuti, conducononottetempo i clandestini attraverso le piste del de-serto, fino ai luoghi di partenza delle barche. Diversiragazzi intervistati raccontano di svolgere abitual-mente questo lavoro e affermano di considerare ilviaggio dei migranti una risorsa per il loro Paese.

Secondo le stime dell’IOM (OIM – OrganizzazioneInternazionale per le Migrazioni), ogni anno almeno

100 mila migranti, prevalentemente di nazionalitàetiope, attraversano Gibuti diretti verso lo Yemen e diqui verso l’Arabia Saudita e altre destinazioni 9. Le bar-che che partono verso lo Yemen sono riempite all’in-verosimile prima di salpare. Una piccola imbarcazionedi pescatori, che normalmente può contenere dieci,quindici persone, viene caricata di quaranta e più in-dividui, ammassati uno sull’altro. Le barche sono do-tate inoltre di motori molto potenti, che permettonodi raggiungere la costa dello Yemen in poco più di treore.

Tuttavia, a causa del carico spropositato e della ve-locità sostenuta, di gran lunga superiori alle capacitàdella barca, non sempre i migranti arrivano a raggiun-gere l’altra sponda. Inoltre, per coloro che riescono araggiungere la costa yemenita, i problemi e le diffi-coltà vanno spesso a crescere. I migranti finisconospesso, infatti, nelle mani di gruppi di trafficanti e cri-minali che pur di ottenere un guadagno sono prontia commettere qualunque azione. Le testimonianze dicoloro che sono stati sequestrati in veri e propri campidi tortura sono letteralmente strazianti. Rinchiusi persettimane in mezzo al deserto, finché le famiglie nonmandano somme di denaro ai trafficanti, i migranti(soprattutto etiopi) subiscono quotidianamente vio-lenze, abusi sessuali, torture e in alcuni casi uccisioni.

La povertà e le guerre

La tragedia degli affondamenti nel Golfo di Aden edelle violenze e abusi nei confronti dei migranti espri-me in maniera quanto mai efficace il problema glo-bale delle migrazioni: in ogni angolo del pianeta ladiseguaglianza economica e le sue conseguenze(guerre, persecuzioni e malattie legate alla povertà)generano esodi migratori difficilmente controllabili egestibili, nell’ambito dei quali un ingente numero dipersone rimane ucciso.

Per il momento la guerra civile in Yemen non ha in-terrotto il flusso migratorio dall’Etiopia verso la penisolaarabica, ma ha creato a sua volta un flusso migratorioin direzione opposta, dallo Yemen a Gibuti. Secondo lestime delle Nazioni Unite e del Ministero dell’Interno gi-butino, alla fine di aprile 2015 sono stati registrati aObock, sulla costa nord-orientale di Gibuti, circa 500 ri-fugiati yemeniti. A questi vanno aggiunti tutti coloroche, potendo permetterselo, hanno viaggiato conmezzi propri verso il porto e l’aeroporto di Gibuti persfuggire alla guerra. Se la guerra civile yemenita do-vesse continuare nei prossimi mesi, si attende l’arrivo dialmeno 5.000 rifugiati da aprile a giugno e 30 mila sinoa settembre. Le stime sul lungo termine, sino al dicem-bre 2015, oscillano tra un’aspettativa di 150 mila per-sone e, come previsione peggiore, di 300 mila: unnumero decisamente superiore alle possibilità di assor-bimento e gestione per un piccolo Stato come Gibuti.

Richiedenti asilo a Gibuti (febbraio 2015)

Somali

11.739

79%

Eritrei

753

5%

Etiopi

2.417

16%

Variazioni numero di rifugiati per provenienza

a Gibuti (2009-2015)

2015

2009

0 2000 4000 6000 8000 10.000 12.000 14.000 16.000

11.739

2.417

753

8.480551

150

Somalia Etiopia Eritrea

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Le cause alla base dei movimenti migratori nel Cornod’Africa sono molteplici, dalle persecuzioni subite nelPaese di origine, all’insicurezza diffusa alla povertà, adisastri ambientali che obbligano intere famiglie a mi-grare per sopravvivere, come periodi prolungati di sic-cità, che rendono il terreno arido e privano uomini eanimali della fonte di sostentamento principale: l’ac-qua.

Le popolazioni del Corno d’Africa sono tra coloroche al mondo soffrono maggiormente l’insicurezza ali-mentare, a causa del continuo crescere dell’aridità delsuolo, della frequenza delle siccità, della dipendenzaalimentare dall’esterno e di un’economia paralizzatada conflitti e ingiustizie sociali. A partire dall’autunnodel 2010 si è verificata in questa regione dell’Africa unacrisi ambientale particolarmente severa, con la peg-giore siccità degli ultimi sessant’anni – di cui ancoraoggi si soffrono le conseguenze – che ha provocatouna grave carestia e una crisi alimentare che ha col-pito oltre l’80% della popolazione 10. Tale catastrofeambientale ha segnato la regione in maniera indele-bile, prosciugando corsi d’acqua e laghi, rendendo ilterreno completamente arido e improduttivo, ridu-cendo drasticamente le principali fonti di sostentamento della popolazione locale, dedita prevalente-mente alla pastorizia e all’agricoltura. Centinaia di mi-gliaia di famiglie sono state costrette ad emigrare dailuoghi di origine, dopo aver visto i raccolti distrutti eil bestiame ucciso dalla sete: in tutto il Corno d’Africasono state oltre 13 milioni le vittime di questa crisi.

La siccità non è solo un problema locale

La crisi ambientale e le conseguenti migrazioni dimassa verso la penisola arabica everso l’Europa presentano impor-tanti interconnessioni a livello in-ternazionale. In primo luogo, lagrave siccità nel Corno d’Africa èstrettamente legata al fenomenodel cambiamento climatico, le cuicause derivano dall’inquina-mento globale e dall’uso deicombustibili fossili. Come è statodimostrato, tali fattori risiedonoprincipalmente nei Paesi più in-dustrializzati e nelle nuove eco-nomie in crescita (Sud America,India e Cina); non certo nei Paesidel Corno d’Africa, che tuttaviane subiscono le conseguenze più

pesanti, anche a causa della mancanza di infrastrut-ture che permettano di far fronte alla crisi.

Inoltre, la crisi provocata dalla siccità si lega adaltri fattori economici e politici, che vanno oltre i con-fini africani. Le politiche economiche degli ultimianni, infatti, sono state rivolte a soddisfare gli inte-ressi di grandi compagnie commerciali, principal-mente nel settore alimentare e dell’agrobusiness, chehanno occupato grandi appezzamenti di terreno fer-tile a discapito della popolazione locale (fenomenodel land grabbing) e hanno attivato strategie di de-forestazione e sfruttamento intensivo delle risorsenaturali, per una produzione agricola finalizzata al-l’esportazione.

In aggiunta a questo, il mancato intervento dei Go-verni sui prezzi degli alimenti – e forse l’impossibilitàdi farlo – ha contribuito a trasformare la siccità in unacatastrofe umanitaria, rendendo irreperibili le dueprincipali fonti di vita: l’acqua e il cibo. «La crisi delCorno d’Africa può essere letta, in tutta la sua durezzae drammaticità, come l’altra faccia – quella più scon-volgente e tragica – della crisi economica e dell’insta-bilità finanziaria in cui il mondo si dibatte in questiultimi anni. Una vera e propria crisi di trasformazionedegli equilibri geo-politici del capitalismo mondiale,

che colpisce il cuore dell’Occidenteed è degenerata in crisi sociale,dove domina la volatilità dei mer-cati e tutto il peso ricade sulle fascesociali più vulnerabili ed esposte.

Ideologie o interessi?

«Vacilla l’Occidente politico ed en-trano in crisi le costruzioni post-ideologiche che hanno dominatodopo la fine della contrapposizionetra Est e Ovest, a partire dalle ricettedel neoliberismo e del monetari-smo» 11.

L’Italia e l’Europa hanno forti in-teressi economici in questa regione:basti pensare che la compagnia in-

3. Le cause e le connessioni

con l’Italia e con l’Europa

11GIBUTI | MARI E MURI

L’Italia e l’Europa hanno fortiinteressi economici in questaregione. La compagniaincaricata di realizzarein Etiopia la “grande digadella rinascita”, moltodiscussa a causa dell’enormeimpatto ambientalee dell’evacuazione armatadelle zone interessatedal progetto dei gruppiumani residenti, è italiana

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caricata di realizzare in Etiopia la “grande diga della ri-nascita”, molto discussa a causa dell’enorme impattoambientale e dell’evacuazione armata delle zone in-teressate dal progetto dei gruppi umani residenti, èuna compagnia italiana 12.

Un’altra interessante connessione tra i movimenti mi-gratori in questa regione dell’Africa e gli interessi econo-mici europei e internazionali riguarda, infine, il businessdella guerra. Una della cause principali che costringe mi-lioni di persone a spostarsi dai luoghi di origine riguardainfatti la guerra, o più in generale conflitti armati inter eintra statali, assai numerosi nella regione del Corno.

Possiamo citare: la guerra civile in Somalia, che prosegue senza

sosta da oltre vent’anni; i conflitti interni all’Etiopia e la costante guerra di

confine tra Etiopia ed Eritrea; la disputa di confine tra Eritrea e Gibuti; gli scontri armati tra esercito del Kenya e milizie so-

male di Al Shabab; i massacri nella zona del Sudan (Darfur, Monti Nuba

e Nilo Azzurro); la sanguinosa guerra civile sud-sudanese, che ha

già causato oltre 15 mila morti; le stragi del Congo e da ultimo gli scontri in Bu-

rundi, nella regione dei Grandi Laghi.

Al di là del Golfo di Aden, la situazione non apparemigliore, con scontri incessanti in Iraq, Siria e negli ul-

timi mesi in Yemen, con migliaia di profughi che sistanno riversando sulla costa di Gibuti.

Il grande e crescente numero di conflitti armati su-scita spontaneamente una domanda: chi trae beneficioda queste guerre? Un elemento in particolare dovrebbefar riflettere: il 90% delle armi e munizioni utilizzate neiconflitti africani proviene da Paesi non africani 13.

Da dove provengono, in particolare, le armi? A li-vello internazionale, i più grandi produttori ed espor-tatori di armi sono: Stati Uniti, Russia, Germania, Cina,Francia e Gran Bretagna 14. Ma anche altri Paesi “menopotenti” giocano un ruolo significativo nel businessdelle armi. La Spagna, ad esempio, è il principale for-nitore di munizioni per l’Africa sub-sahariana 15.

L’Italia ha significativi interessi economici in questocommercio, con importanti compagnie come Oto Me-lara, Finmeccanica e Beretta. Nel 2013, la portaerei ita-liana Cavour ha visitato 20 Paesi africani per pubblicizzareil meglio della produzione militare “made in Italy”. Questaesibizione itinerante è costata 33 milioni di euro: 20 mi-lioni pagati dal Ministero della Difesa, 13 milioni dallecompagnie coinvolte 16. Le somme investite possonorendere un’idea del valore del business in questione.

In conclusione, si può affermare che i Paesi più svi-luppati contribuiscono in maniera determinante acreare le cause – ambientali, economiche e politiche– che generano i movimenti migratori di massa, salvopoi adottare politiche di respingimento verso gli stessimigranti che spesso raggiungono le coste del “PrimoMondo”, attraversando il mare.

12 CARITAS ITALIANA | DOSSIER CON DATI E TESTIMONIANZE

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Etiopia Somalia Gibuti Con famiglia Senza famiglia Totale

126 57 20 100 103 203

Maschi 100 54 20 75 99 174

Femmine 26 3 0 25 4 29

La Chiesa Cattolica di Gibuti, che è una realtà estrema-mente fragile e minoritaria in un Paese musulmano, èimpegnata da anni per la tutela dei più vulnerabili trai migranti: i bambini e i malati. In particolare, forniscequesti servizi attraverso l’ufficio della Caritas, nato nel1952 come “Delegazione diocesana del Secours Ca-tholique”, trasformato in “Caritas Gibuti” a partire dal1978, e attraverso le scuole informali del LEC (Lire,Ecrire, Compter, leggere, scrivere, far di conto), nellequali si offre un’educazione di base ai ragazzi migranti,orfani o privi di mezzi per pagare gli studi.

Il Centro Caritas per i bambini di strada offre quo-tidianamente accoglienza e nutrimento per un centi-naio circa di ragazzi e ragazze senza dimora, di etàcompresa tra i 7 e i 17 anni. Le statistiche e le testimo-nianze raccolte dalla Caritas locale – il solo ufficio ingrado di fornire tali dati e informazioni aggiornati 17 –permettono altresì di avere una chiara idea del feno-meno delle migrazioni di minori abbandonati.

I bambini, rifugiati e abbandonati

Nel corso dell’anno 2014 18 si sono contate in totale19.917 presenze dei bambini di strada al centro Ca-

ritas, con 312 bambini registrati (283 maschi e 29femmine). Di questi, soltanto 203 bambini hannofrequentato con regolarità il Centro Caritas nel corsodell’anno, mentre 90 di loro hanno smesso di veniree 19 sono rientrati in Etiopia con il supporto di Cari-tas. L’alto numero di ragazzi di cui si sono perse letracce durante l’anno, così come la grande diffe-renza tra il numero di maschi e quello delle femmineche frequentano il Centro, lasciano intendere la re-altà drammatica dei bambini di strada in questa re-gione africana.

La ripartizione dei bambini per sesso e Paese diprovenienza si coglie con chiarezza nella seguente ta-bella, fornita da Caritas Gibuti:

4. I dati Caritas

Bambini seguiti dal Centro Caritas di Gibuti nel 2014 per Paese di provenienza e per sesso

Presenze femminili per provenienza presso il Centro

per bambini di strada di Caritas Gibuti (2014)

Somalia 10%Etiopia 90%

Fonte: Caritas Gibuti

Situazione famigliare dei beneficiari del Centro

per bambini di strada di Caritas Gibuti (2014)

Senza famiglia 51%

Con famiglia 49%

13GIBUTI | MARI E MURI

Tra le diverse attività organizzate all’interno delCentro Caritas, si distinguono il programma nutrizio-nale, l’assistenza medica e il programma di alfabetiz-zazione.

Per quanto riguarda il programma di alfabetizza-zione di base, nel corso del 2014 si sono registrate intotale 827 presenze; i ragazzi che hanno mostratomaggiore impegno durante le lezioni sono stati inse-riti nei Centri diocesani per un percorso di scolarizza-zione più strutturato, nell’ambito del già citatoprogetto LEC 19.

La Caritas di Gibuti offre inoltre un servizio di assi-stenza sanitaria attraverso il proprio dispensario me-dico e la presa in carico dei casi più gravi, che vengonoinviati all’ospedale pubblico. I dati registrati dall’infer-meria Caritas, relativi al numero di pazienti e alla na-zionalità di provenienza, permettono di farsi un’ideapiù chiara sulla condizione dei migranti a Gibuti affettida problemi sanitari, come mostrano i grafici e la ta-bella di seguito riportati:

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14 CARITAS ITALIANA | DOSSIER CON DATI E TESTIMONIANZE

Visite dei malati all’Infermeria di Caritas Gibuti

per Paese di provenienza e per sesso (2014)

(valori assoluti e valori percentuali)

Gibutini 1.554

30%

Etiopi 2.819

55%

Alcune interviste raccolte presso il Centro Caritasper i bambini di strada, inoltre, hanno messo in evi-

denza il problema degli abusi compiuti sui minori ab-bandonati, anche da parte delle forze di polizia 20.

In primo luogo, dagli studi condotti da agenzie in-ternazionali presenti nel Paese, risulta che oltre il 30%dei migranti che attraversano il Gibuti sono minori di18 anni. Alcuni di loro sono migranti indipendenti,altri sono partiti al seguito della famiglia, ma spessosono stati abbandonati lungo il tragitto: tra questi,anche giovanissimi, minori di 7 anni.

La maggioranza di questi migranti minori di etàsono di origine etiope e di etnia Oromo: solitamenteseguono la via che da Addis Abeba conduce a DireDawa e di qui salgono sul treno per Gibuti. Una voltaraggiunta la città, incontrano grandi difficoltà nel tro-vare un lavoro (considerato che a Gibuti il tasso di di-soccupazione tocca il 60%) e facilmente si ritrovano avivere di espedienti e a dormire per strada.

Secondo le testimonianze raccolte dallo staff e daibambini ospitati presso il Centro Caritas, sono fre-quenti gli arresti compiuti dalle forze di polizia e, al-l’interno delle prigioni, i maltrattamenti e gli abusi,compresi quelli sessuali. Una situazione di particolarevulnerabilità riguarda poi le ragazze di strada, checome si è visto difficilmente si recano al Centro Caritas(tra i bambini registrati, si riscontrano solo 24 ragazzesu un totale di 203). Trovandosi da sole in strada, in unPaese rigidamente musulmano, facilmente vengonostigmatizzate come persone prive di moralità e av-viate alla prostituzione e a violenze sessuali consu-mate per strada.

Somali 739

14%

Altri 19

1%

Le prese in carico di Caritas

Maternità 65Ricoveri ospedalieri 385

Cliniche 21

Farmacia 830

Totale: 5.131

di cui

maschi 4.372 femmine 759

85% 15%

di cui

bambini di strada 1.664

Fonte: Caritas Gibuti

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15GIBUTI | MARI E MURI

STUDENTE ERITREO, FUGGITO DAL SUO PAESE

«Vengo dall’Eritrea. Ero studente universitario, ma suc-cedevano cose strane. Ci avevano comunicato chetutti noi studenti saremmo dovuti entrare per un certoperiodo nell’esercito per frequentare un corso tenutodai militari. Noi eravamo studenti, non dovevamo en-trare nell’esercito. Ci dicevano che entrandoci per que-sto periodo avremmo avuto diverse agevolazioni, edopo il corso avremmo potuto riprendere le lezioni.Ma non era precisato se e quando saremmo potuti ri-tornare all’Università. Alla fine abbiamo capito che en-trare nell’esercito non era più una proposta, ma chetutti eravamo tenuti a farlo. Senza possibilità di deci-dere. Ci hanno tolto le tessere universitarie, e un ufficiomilitare si è insediato all’interno della facoltà.

L’Eritrea è governata da un regime totalitario. Il pre-sidente è la persona che ha l’ultima parola su ogni de-cisione. Non ci sono mai state elezioni democratichenel Paese. Quando il presidente è salito al potere erobambino, non mi ricordo bene… Ma ho visto quelloche è successo nel corso degli anni. Cinque ministridel Governo sono finiti in prigione per opinioni poli-tiche divergenti rispetto al presidente. E ancora oggisono in prigione. Anche 15 membri del Gabinettosono finiti in carcere. Sono stati arrestati diversi gior-nalisti. Otto giornali privati sono stati chiusi. Non esi-ste libertà di parola; non puoi parlare di tutto ciò chevuoi. Puoi parlare solo di argomenti a favore del Go-verno. Se parli negativamente del Governo, può es-sere pericoloso. I servizi segreti possono arrivare acasa tua nel cuore della notte e prelevarti. È successo;e nessuno sa dove queste persone siano finite. Nes-suno parla di loro o osa chiedere dove sono finiti. Tuttihanno paura. C’è una fortissima attività di spionaggio.Tutti i giornali fanno solo una propaganda a favore delGoverno. Il carattere autoritario dello Stato è divenutochiaro a tutti. La libertà di parola è stata annientata».

Il desiderio di libertà e dignità

Lo studente continua: «La libertà di movimento è stataa sua volta molto ristretta. Il Paese ha iniziato a essereoccupato da un numero inverosimile di check points.Per andare dal mio paese a quello più vicino, che è untragitto di 25 chilometri, trovi 3 check points. Capisci?In 25 chilometri! E controllano costantemente i docu-menti. Il regime totalitario controlla ogni movimentoe ogni cosa che succede nel Paese. Sanno dove vado,cosa sto facendo… L’attività delle spie è fortissima: litrovi ovunque, soprattutto tra le giovani generazioni.Non puoi fidarti di nessuno, nemmeno dei tuoi amici.Nemmeno dei tuoi fratelli.

Non puoi incontrare chi vuoi… Se per esempio ungiorno ospiti un bianco a casa, è sicuro che il giornodopo i servizi segreti vengono a bussarti alla porta, ea interrogarti. È successo anche a me. Avevo incon-trato un vecchio amico, che veniva da Israele. Ci siamofermati a chiacchierare, in inglese. Appena ci siamo sa-lutati, delle persone sono venute a chiedermi spiega-zioni su chi era quel tale, e cosa ci fossimo detti.Persino se ci si ferma a chiacchierare in gruppi nume-rosi, più di 5 o 6 persone, può destare il sospetto chesi stia tramando qualcosa…

Non c’è alternativa: o giuri obbedienza al regime, odevi lasciare il Paese».

Infine, la decisione

«Alla fine, ho deciso di lasciare l’Eritrea. Era il dicembre2008. Sono partito dal mio paese per Asmara, da quiper Massawa, e da Massawa verso l’Etiopia. È stato unviaggio tremendo, a piedi, senza nulla con me. C’eraun’altra persona. Era la prima volta che mi trovavo inquesta parte dell’Eritrea; non conoscevo nemmeno lastrada giusta. Ma alla fine siamo arrivati al confine. Làabbiamo incontrato un gruppo di militari etiopi, dicontrollo alla frontiera. Abbiamo subito raccontatoloro la situazione, e loro hanno risposto che ci avreb-bero accompagnato al campo dei rifugiati. Però, cihanno detto, se volete entrare al campo, dovete pa-gare del denaro. E io ho detto “ok”, e ho pagato unasomma molto alta. Mi sono fidato di loro. Ci hanno ca-ricato su un camion, ed è iniziato un viaggio di tregiorni. Finalmente siamo arrivati a un villaggio. Il ca-mion si è fermato là e ci ha scaricato. Non c’era nessuncampo in questo villaggio. Un militare ci ha detto al-lora di aspettare sul posto, che avrebbero fatto ritornoin breve. E sono scomparsi. Non li abbiamo più rivisti...

Abbiamo chiesto, allora, dove ci trovassimo. E gliabitanti ci hanno risposto che eravamo al confine conlo Stato di Gibuti. “Cosa”?, ho detto io. Ci eravamo fidatidei militari, non avevamo alternativa, e ci ritrovavamoin un posto sperduto al confine con Gibuti. A Gibutisono andato subito all’UNHCR. Ho bussato alla porta,ma la porta era chiusa. Ero spaventato, non avevo nulla

5. Testimonianze

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con me, nemmeno un documento. Era il maggio 2008.Ho dovuto aspettare molti mesi. Finalmente, a settem-bre 2008, sono riuscito ad avere accesso agli uffici, mami hanno rimandato all’ONARS, l’ufficio del Ministerodell’Interno di Gibuti per i rifugiati, ma non sono mairiuscito a ottenere un documento di riconoscimento.Ho provato in tutti i modi. Ho pensato anche di cam-biare il mio nome, ho telefonato e ho detto di chia-marmi George, di essere americano, per farmi fissareun appuntamento. Ma quando sono arrivato, ancorauna volta non mi hanno fatto entrare.

Capisci che per noi avere la carta di rifugiato è unanecessità. Per trovare un lavoro, per essere sicuri… Neabbiamo bisogno! E poi ne abbiamo diritto. Abbiamolasciato il nostro Paese a causa della dittatura, e quinon abbiamo niente. Acqua per lavarci, vestiti, lavoro,assistenza medica… Siamo esseri umani, abbiamo bi-sogno di queste cose basilari! E le Nazioni Unite, per-ché sono lì? Non dovrebbero giusto aiutarci? Sono piùdi quattro anni che aspettiamo. E intanto continuiamoa essere immigrati illegali, esposti a tutti i rischi.

Vedi, la differenza tra gli esseri umani e gli animali èche noi esseri umani pensiamo, e pensiamo al nostrofuturo, a cosa potremo fare. Ma ora, come puoi pensareal futuro in questa situazione? Non abbiamo un postodove andare, non una speranza. Siamo diventati comeanimali. Abbiamo bisogno di qualcosa per il nostro fu-turo. A Gibuti non abbiamo nessuna possibilità. Nonpossiamo studiare, e migliorarci. Non possiamo trovareun lavoro stabile. E poi abbiamo paura, perché le spiedel Governo eritreo sono anche qui. Sono ovunque, so-prattutto in America, e in Italia. A Roma c’è una nume-rosissima comunità eritrea, e sono tutti a favore delregime, lo sostengono. E nessuno parla di quello cherealmente succede nel nostro Paese».

RIFUGIATO SOMALO,

PROVENIENTE DA MOGADISCIO

«Mi chiamo Y. Vengo da Mogadiscio. Sono arrivato a Gi-buti nel dicembre 2013 e sono andato ad Ali Addé.Sono partito a causa della guerra. È troppo pericoloso,tutti i giorni ci sono combattimenti, e uccidono ledonne e i bambini, continuamente. Non si può stare là.Troppo pericoloso. Ti uccidono in strada, ti sparano ad-dosso. Per questo sono partito. Ho 9 bambini, e la miafamiglia è ancora a Mogadiscio. Sono venuto a Gibutiper avere l’attestato di rifugiato, e fare qualcosa per lamia famiglia. Ci sono voluti 10 giorni per arrivare qui,un viaggio difficile. Quindi sono entrato nel campo,sono andato direttamente ad Ali Addé. Là ti dannoqualcosa da mangiare, poi c’è una scuola. Sto cercandoil modo di far venire qui la mia famiglia. Anche se la vitanel campo ha molti problemi. Soprattutto perché non

c’è nulla da fare. Non puoi lavorare, non puoi far niente.Ma almeno non c’è il rischio di essere ucciso in strada.Qualche volta vengo a Gibuti per cercare di fare qual-cosa, ma anche qui non c’è niente. Così dopo qualchegiorno torno al campo, col bus. Qui a Gibuti vado ma-gari alla moschea, dove mi danno qualche offerta. Manon so come far arrivare la mia famiglia. Vorrei avereuna vita migliore. Ma a Mogadiscio va sempre peggio».

La speranza e la disperazione

«La Somalia è un Paese meraviglioso, ma la situazionepolitica è ingestibile. Ognuno vuole il comando, il po-tere; ogni gruppo vuole la presidenza per comandareil Paese, e questo genera la guerra. I miei bambini nonpossono più andare a scuola. Anche uscire in strada èmolto pericoloso.

Al campo di Ali Addé ci sono molte persone etiopi,eritree e somale. E tutte hanno bisogno di aiuto. Tutteaspettano che le Nazioni Unite trovino per loro una so-luzione; tutte vogliono uscire dal campo. E aspettanoun programma di resettlement. Ogni sera vai a dormiree speri che il giorno dopo sia quello buono. Ma noncambia niente. Speri di partire per l’America, ma saiche è un sogno, che non succederà.

Ogni giorno la vita è sempre uguale. Al mattino misveglio, mangio un po’ di pane, per colazione. E poi…niente. Torno un po’ a dormire, sto seduto nei pressidella tenda, parlo con gli altri. Il pomeriggio è uguale:dormo un po’, parlo con gli altri. Per far passare iltempo mastichiamo kat. Se ne trova molto al campo,tutti lo prendono. Ti aiuta a non pensare».

ELIAS, ETIOPE, 16 ANNI 21

«Vivevo vicino a Harare con la mia famiglia. Mio papàera diventato molto aggressivo e picchiava mia madreogni giorno. Eravamo molto poveri: due dei miei fra-telli sono morti di stenti. Io sono il maggiore dei figli ecercavo di darmi da fare per aiutare il resto della fami-glia: cucinavo, curavo l’orto davanti a casa, stavo at-tento ai fratelli più piccoli. A un certo punto però miopadre si è messo a picchiare anche me. Non potevamopiù vivere con lui. Una notte siamo scappati e ab-biamo raggiunto Jijiga. Arrivati lì ho aiutato mia madrea sistemarsi, quindi ho proseguito da solo il viaggioper Gibuti, per cercare un lavoro.

Con i pochi soldi che mi ero portato dietro ho com-prato alcuni strumenti per iniziare a lavorare. Ora faccioun sacco di lavori in giro, pulisco le scarpe in Piazza Me-nelik, faccio commissioni per i negozianti della zona,porto via la spazzatura alle persone che vivono lì, facciole pulizie in casa. In cambio loro mi danno da mangiare equalche volta mi fanno dormire in casa. Cerco di mettereda parte il più possibile per mandarlo alla mia famiglia».

16 CARITAS ITALIANA | DOSSIER CON DATI E TESTIMONIANZE

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Il diritto a vivere, il primo diritto umano

Di fronte al dramma dei milioni di profughi in fuga edelle famiglie migranti in cerca di una vita migliore,sembra che i sentimenti di accoglienza, solidarietà ecompassione stiano progressivamente cedendo ilpasso ad atteggiamenti di chiusura, ostilità e avver-sione. Da dove nasce tale rifiuto?

Le società si stanno sempre più trincerando entroi loro confini politici e naturali e guardano con so-spetto e diffidenza – se non con antipatia e malevo-lenza – all’arrivo di estranei e stranieri. Militarizzano imari, costruiscono costantemente nuovi muri, mobi-litano eserciti, quasi che il fenomeno migratorio, in-vece che una questione da gestire, fosse un’invasioneda fermare, una guerra da combattere. Persino il lin-guaggio politico e mediatico, che ha una profonda in-fluenza sull’opinione pubblica, si è fatto militaresco,con una diffusione nel dibattito quotidiano di terminiforti e fuorvianti, quali “crisi”, “minaccia”, “terrorismo”,“invasione”, “criminalità”. Di conseguenza, la reazionedei cittadini sta assumendo sempre più toni di preoc-cupazione e chiusura.

I timori dell’invasione dei migranti

I timori principali riguardano inprimo luogo la sicurezza, con l’ideadiffusa (alimentata da una certapropaganda politica) che i migrantiportano con sé un aumento dellacriminalità e potenzialmente grup-pi terroristici interessati a minarealla base i valori della nostra so-cietà. In secondo luogo, le preoccu-pazioni più diffuse sono legate alla dimensioneeconomica, in particolare al timore che i nuovi arrivatipossano sottrarre lavoro (che già scarseggia) alle co-munità residenti e che il costo sociale dei servizi offertiagli stranieri possa gravare oltremodo sulle casse delloStato (e sulle tasche delle società ospitanti). Poco im-porta che tali timori siano stati smentiti da analisi uffi-ciali, che dimostrano come all’aumento dell’immigra-zione non sia conseguito un aumento della crimina-lità, e come addirittura il contributo economico deglistranieri nelle società ospitanti sia superiore al costodei servizi sociali offerti loro: il discorso anti-immigraticontinua a far breccia nell’opinione pubblica e l’argo-mento prevalente rimane il “come fermarli”.

Il problema delle migrazioni dal Corno d’Africa

Esistono ragioni economiche e politiche che spingonol’attenzione delle società verso gli aspetti problematici

del fenomeno migratorio e pongono l’accento sull’op-zione del “bloccare” invece che del regolamentare, sulrespingere piuttosto che accogliere e integrare.

Intanto, sino a che la grande maggioranza dei mi-granti continuerà ad essere posta in una condizionedi irregolarità e clandestinità, ci saranno persone egruppi di potere (trafficanti di uomini) che potrannolucrare su di loro, organizzando spostamenti e viaggial di fuori della legge: più restrittive saranno le rego-lamentazioni giuridiche dei movimenti migratori, piùlauti i loro guadagni.

Inoltre, non va nascosto che nei Paesi del cosid-detto “primo mondo” la presenza dimigranti irregolari, senza docu-menti e senza diritti, faccia comodoa molti datori di lavoro interessati adavere manodopera non tutelata esottopagata.

Va rilevato inoltre che quantosuccede sulle nostre coste con i rifu-giati subsahariani riflette un mecca-nismo analogo nel Corno d’Africa: lagrande disuguaglianza economicatra Paesi vicini. Etiopia, Eritrea, So-

malia e Gibuti hanno una popolazione totale di circa110 milioni di abitanti e un reddito medio procapitedi 5-600 dollari all’anno. Solo Gibuti supera i 1.500 dol-lari, ma con una popolazione di poco più di 800 milaabitanti. Si può capire che lo Yemen, con un redditomedio pro-capite di 2.500 dollari, sia la prima tappaverso la vicina Arabia Saudita o gli Emirati Arabi, doveil reddito medio pro-capite va dai 30 ai 40mila dollari(in Italia siamo a 34 mila dollari).

Le disuguaglianze sono inaccettabili e l’economiaglobalizzata non mostra ancora nessuna tendenza acambiare rotta.

Le manipolazioni politiche del fenomeno

Sul piano politico, poi, è ancora più evidente come di-versi partiti in tutti Paesi industrializzati abbiano let-teralmente costruito la loro fortuna elettorale – pernon dire la loro ragione di esistere – sulla propaganda

6. La questione

17GIBUTI | MARI E MURI

Sino a che la grandemaggioranza dei migranticontinuerà ad essere postain una condizione diirregolarità e clandestinità,ci saranno persone e gruppidi potere che potrannolucrare su di loro

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anti-stranieri, proclamando e diffondendo messagginetti e semplici, anche se poco documentati, sulla mi-naccia migratoria, e ottenendo in cambio un cre-scente consenso politico.

Infine, si può affermare che nei momenti storici,come quello attuale, contrassegnati da crisi economi-che globali, le autorità politiche abbiano sempre cer-cato di individuare una causa pretestuosa su cuiindirizzare l’attenzione pubblica, in modo da disto-glierla dalle loro responsabilità e dagli interessi deigruppi dominanti; in tal senso, la categoria degli stra-nieri migranti, per loro sfortuna, si presta particolar-mente bene a svolgere questo ingrato compito dicapro espiatorio.

Al di là di queste ragioni che hanno spinto le so-cietà contemporanee a fortificare ostacoli naturali e acostruire muri, dovrebbe far riflettere il progressivodeterioramento dei sentimenti di solidarietà umana,che normalmente sorgono di fronte a situazioni diparticolare disagio esistenziale (come senz’altro è ilcaso delle famiglie migranti, vittime di guerre, perse-cuzioni, torture, povertà estreme e catastrofi ambien-tali). Sempre più persone, sotto ogni latitudine e diogni fede – compresi i cristiani –, mostrano intolle-ranza e ostilità verso i migranti, innalzando contro diloro muri fisici e metaforici.

Alcuni spunti di riflessione

per un fenomeno in crescita

Prima di tutto, il realismo: in un mondo di crescenti di-suguaglianze, non basta proporsi il pur indispensabileobiettivo di “cancellare” la fame, come ricorda oppor-tunamente l’EXPO 2015 di Milano. Se la “forbice” deiredditi aumenterà, come tutto lascia prevedere, le mi-grazioni aumenteranno di importanza e i “muri” nonfaranno altro che peggiorare la situazione di partenzae aumentare l’immigrazione clandestina.

La presenza di conflitti che si prolungano neglianni o di regimi oppressivi sono altri due elementi chein questa sede accenniamo soltanto, ma che non pos-sono che amplificare il fenomeno. Come tante altrevolte, denunciamo l’incapacità delle istituzioni inter-nazionali a fermare l’estendersi dei focolai di tensionein tante parti del mondo.

Vi sono anche responsabilità locali. Nei Paesi dellaregione non mancano le leggi, ad esempio contro iltraffico degli esseri umani, ma sono poco conosciutee ancor meno applicate; i trafficanti sono per lo piùimpuniti e approfittano di complicità locali con la cor-ruzione. Nulla si può fare nel campo della coopera-zione internazionale per fermare questo fenomeno,invece di spendere soldi per “blindare” i Paesi ricchi?

Non è vero che si debba temere un’invasione,anche se si adottassero politiche di maggior libertà dimovimento che di per sé diminuirebbero l’immigra-zione clandestina. Gli studi disponibili per il Cornod’Africa mostrano che la proporzione di chi vuole fug-gire definitivamente è molto bassa (dall’1 al 2%). Lagente vorrebbe stare a casa propria e vuole tornare acasa propria, se cessassero i conflitti, che sono la primacausa della fuga.

La risposta della Chiesa

Pare importante, di fronte a questa “perdita di uma-nità”, riaffermare con forza il messaggio del Vangelo ela missione della Chiesa, «senza frontiere e madre ditutti» 22. Gesù insegnava con parole inequivocabili ildovere morale di accogliere lo straniero e noi siamochiamati a «riconoscere Dio nei migranti e nei rifugiati,nei profughi e negli esuli, condividendo le nostre ri-sorse e talvolta rinunciando a qualcosa del nostro ac-quisito benessere» 23.

La dottrina sociale della Chiesa predica e pro-muove con chiarezza il diritto alla libertà di mo-vimento, in quanto tutti gli uomini, figli di Dio, appar-tengono ad una sola famiglia umana e devono essereliberi di poter emigrare alla ricerca di condizioni mi-gliori. La Chiesa non può fare distinzioni tra comunitàresidenti e comunità di migranti, poiché di fronte aDio tutti gli uomini sono uguali. Piuttosto, sulla basedella dottrina sociale, tutti i cristiani sono chiamati adesprimere un’opzione preferenziale per i poveri e pergli ultimi, come appunto gli stranieri migranti 24. Allaluce di questi principi si capisce ancor meglio il mes-saggio di Papa Francesco:

«Alla globalizzazione del fenomeno migratorio oc-corre rispondere con la globalizzazione della carità edella cooperazione, in modo da umanizzare le condi-zioni dei migranti. Nel medesimo tempo, occorre inten-sificare gli sforzi per creare le condizioni atte a garantireuna progressiva diminuzione delle ragioni che spin-gono interi popoli a lasciare la loro terra natale a motivodi guerre e carestie, spesso l’una causa delle altre.

Alla solidarietà verso i migranti e i rifugiati occorreunire il coraggio e la creatività necessarie a svilupparea livello mondiale un ordine economico-finanziariopiù giusto ed equo insieme ad un accresciuto impe-gno in favore della pace, condizione indispensabile diogni autentico progresso.

Cari migranti e rifugiati! Voi avete un posto specialenel cuore della Chiesa, e la aiutate ad allargare le di-mensioni del suo cuore per manifestare la sua mater-nità verso l’intera famiglia umana. Non perdete lavostra fiducia e la vostra speranza!» 25.

18 CARITAS ITALIANA | DOSSIER CON DATI E TESTIMONIANZE

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7. Le esperienze e le proposte

19GIBUTI | MARI E MURI

Nella Repubblica di Gibuti

La Chiesa cattolica e la Caritas sono impegnate intutto il mondo per accompagnare e migliorare le con-dizioni di vita dei migranti. Questo succede anche intutti i Paesi del Corno d’Africa, ma qui accenniamo uni-camente alle attività delle due Caritas più implicatenel fenomeno della migrazione: la Caritas della Soma-lia, come luogo di origine geografica di molti rifugiati,e quella di Gibuti, passaggio obbligato dei migrantiverso la penisola arabica.

La Chiesa Cattolica di Gibuti, che è una realtà estre-mamente fragile e minoritaria in un Paese musul-mano, è impegnata da anni per la tutela dei piùvulnerabili tra i migranti: i bambini abbandonati, i ma-lati, i giovani analfabeti. In particolare, fornisce questiservizi attraverso l’ufficio di Caritas Gibuti. I giovanianalfabeti, strato sociale più facilmente vittima delleforme più crudeli di sfruttamento, trovano nellescuole informali “LEC” un’educazione di base sia per iragazzi migranti che per quelli locali, orfani o privi dimezzi per pagare gli studi. Vi sono nel Paese 5 CentriLEC: a Gibuti (LEC di Boulaos), Arta, Ali-Sabieh, Tad-joura e Obock. Molti acquisiscono le conoscenze dibase per trovare un lavoro e non lanciarsi alla cieca inviaggi senza meta sicura.

Il secondo fronte di attività di Caritas Gibuti è per ibambini di strada: si offre quotidianamente acco-glienza e nutrimento ogni giorno per un centinaio diragazzi e ragazze senza dimora, di età compresa tra i7 e i 17 anni e dei quali oltre la metà è straniera. Perquanto riguarda il programma di alfabetizzazione dibase, che nel 2014 ha registrato 827 presenze, riman-diamo al capitolo 4; i ragazzi che hanno mostratomaggiore impegno durante le lezioni sono stati inse-riti nei centri diocesani per un percorso di scolarizza-zione più strutturato, nell’ambito del già citatoprogetto LEC.

Ad integrare le due linee di azione appena de-scritte, Caritas Gibuti lavora sempre di più per otte-nere la cittadinanza gibutina per molti bambini chealtrimenti rimarrebbero in uno status di incertezza ci-vile e di facile preda dei trafficanti. Dall’altro canto sicerca anche, dove possibile, di contattare le famigliedi origine di minori, soprattutto etiopi, e operare perun ricongiungimento familiare che dia ai minori nuo-va speranza e ai parenti la ritrovata responsabilitàverso i loro figli.

Infine, la Caritas di Gibuti offre anche un servizio diassistenza sanitaria attraverso il proprio dispensariomedico e la presa in carico dei casi più gravi, che ven-gono inviati all’ospedale pubblico.

In Somalia

La Somalia è un Paese in totale anarchia dal 1992, inbalia di bande armate e di milizie terroriste, colpito daperiodiche siccità come quella molto grave del 2011.Un Paese che non supera i sette milioni di abitanti, deiquali tre milioni sono bisognosi di assistenza, oltre unmilione sono sfollati interni e un milione è rifugiatonei Paesi confinanti, in campi da dove, se possono,cercano di fuggire a tutti i costi. La maggior parte deibambini (1,7 milioni) non va a scuola, da anni 2 6.

La Caritas non può operare direttamente, ma attra-verso alcune ONG locali che Caritas Somalia sostienefinanziariamente, grazie anche a Caritas Italiana, il suomaggior donatore. Da anni si tenta, quando possibile,date le condizioni di generale insicurezza, di migliorarel’agricoltura, l’istruzione scolastica nei quartieri relati-vamente tranquilli, la formazione professionale, l’assi-stenza sanitaria e le distribuzioni di viveri. Un lavorosilenzioso, precario, che a volte bisogna riavviare dopoun nuovo scoppio di violenza.

Da molti anni Caritas Somalia invoca inutilmenteun’azione politica internazionale che risolva la situa-zione, mentre le conferenze di pace si susseguono unadopo l’altra, senza nessun esito. Non a caso nei barconidel Mediterraneo ci sono sempre numerosi somali

La Somalia, per Caritas Italiana, significa anche ri-cordare il più grande dei doni possibili: la morte diun suo operatore, Graziella Fumagalli, medico nel-l’ospedale per gli ammalati di tubercolosi a Merca.Proprio quest’anno, il 22 ottobre, ricorre il ventesimoanniversario di un assassinio senza ragione e rimastoimpunito, e della testimonianza di una donna fedeleal suo lavoro anche nelle situazioni più difficili, uccisamentre visitava un paziente, perché, come era solitadire: «questo è il mio compito».

E PER CHI NON VIVE NEL CORNO D’AFRICA?

L’assistenza e l’advocacy

A Gibuti come nel resto del mondo, la Chiesa e le Ca-ritas hanno anche la difficile responsabilità di richia-mare le autorità politiche al rispetto delle norme etiche

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e dei diritti fondamentali dei migranti. Accanto ai ser-vizi che quotidianamente vengono offerti (Centri diaccoglienza, mense, dispensari medici, etc.), sta diven-tando sempre più necessario rafforzare il lavoro poli-tico di advocacy e di denuncia, alla luce del messaggiodel Vangelo e della dottrina sociale della Chiesa.

È inaccettabile, infatti, la maniera in cui la maggiorparte degli Stati si sta comportando nei confronti dellepersone migranti. Da un lato le democrazie liberalimostrano preoccupazione verso i milioni di personein fuga da guerre e persecuzioni, povertà estreme edisastri naturali, e nell’ultimo secolo hanno assuntoanche una precisa responsabilità giuridica volta a con-cedere protezione a queste persone, con la ratificadella Convenzione di Ginevra sullo stato di Rifugiato.Dall’altro lato, le stesse democrazie liberali hanno im-plementato misure sempre più restrittive per impedireai migranti di raggiungere i loro territori, rafforzandobarriere e ostacoli naturali e artificiali (mari e muri, ap-punto) in modo da impedire i movimenti umani.

Un altro chiaro paradosso si può riscontrare nelfatto che, nel mondo globale contemporaneo, vengaincoraggiata con forza la mobilità di beni, soldi, servizie informazioni, ma venga ostacolata in tutti i modi lalibertà di movimento degli esseri umani 27.

Attività a 360 gradi

Compito della Chiesa è dunque quello di denunciarequeste contraddizioni e richiamare le autorità politi-che al rispetto dei loro impegni, morali e giuridici. Un altro importante settore di intervento riguarda

la comunicazione. A fronte di una propaganda po-litica che diffonde notizie imprecise e fuorviantisulla “minaccia migratoria”, è necessario far sentireuna voce diversa, approfondita e documentata,che dia spazio alle concrete dimensioni del feno-meno e che dia voce alle vere vittime di questa si-tuazione, che sono le famiglie in fuga 28.

Si parla troppo poco, infatti, dei motivi per cui milionidi persone sono costrette a lasciare i loro villaggi e iloro Paesi, dei conflitti armati nel mondo, dell’im-patto umano sul deterioramento dell’ambiente edelle conseguenze sulle catastrofi ambientali.

Ancor meno si parla degli interessi che il “primomondo”, ovvero il mondo delle moderne democra-zie liberali (e ultimamente anche delle nuove po-tenze economiche in Asia e Sud America), ha nelleregioni a più alto tasso di emigrazione: businessdelle armi, estrazione del petrolio e di altri minerali,sfruttamento intensivo delle risorse naturali.

Una maggiore consapevolezza del fenomeno mi-gratorio nel suo insieme, che tenga conto dellecause profonde, degli interessi internazionali coin-volti e delle strategie in atto per distogliere l’atten-zione dai problemi reali, permetterebbe di aprire

gli occhi su un grande paradosso: il fatto che glistessi Stati che provocano, con le loro politiche,movimenti migratori in altre parti del mondo,fanno poi di tutto per bloccare e reprimere questiflussi umani, impedendo ai profughi di raggiun-gere i loro confini.

Infine, la Chiesa dovrà continuare con perseve-ranza il proprio lavoro di conversione dei cuori, deigovernanti come dei fedeli, richiamandoci al no-stro dovere di solidarietà verso gli ultimi, metten-doci in guardia dalla «tentazione di essere cristianimantenendo una prudente distanza dalle piaghedel Signore» 29.

L’impegno di Caritas Italiana nel Corno d’Africa haassunto proporzioni molto significative soprattuttoin Somalia, a partire dal 1992, quando iniziò il pe-riodo di instabilità politica a seguito della cadutadel dittatore Siad Barre. Alla situazione di violenzae di anarchia che si era così creata, si aggiunse unagrande siccità con centinaia di migliaia di vittime eun flusso di rifugiati nei Paesi vicini che da alloranon è più terminato.

In tempi più vicini, una siccità ancora più gravescoppiò nell’estate del 2011, colpendo tutti i Paesidella regione. Venne indetta dalla CEI una collettanazionale e i fondi raccolti sono stati distribuiti se-condo una duplice linea di intervento: le urgenzedi base, viveri e sanità; la riabilitazione dell’agricol-tura, la captazione e la conservazione delle risorseidriche (irrigazioni, pozzi e riserve d’acqua).

DAL 2011 A FINE MAGGIO 2015 SONO STATI

SPESI GLOBALMENTE 8.861.894 EURO,

COSÌ SUDDIVISI:

20 CARITAS ITALIANA | DOSSIER CON DATI E TESTIMONIANZE

Kenya

€ 2.414.284

27,2%

Somalia

€ 2.045.475

23,1%

Etiopia

€ 1.432.866

16,2%

Eritrea

€ 1.015.241

11,5%

Sud Sudan

€ 588.750

6,6%

Gibuti

€ 540.602

6,1%

Sudan

€ 465.000

5,2%

Attivitàtrasversali€ 359.6774,1%

Caritas Italiana nel Corno d’Africa

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FONTI BIBLIOGRAFICHE

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21GIBUTI | MARI E MURI

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NOTE

Introduzione

1 Cfr. Wallet, E. (2014). Borders, Fences and Walls. State ofInsecurity? Ashgate.

2 Card. Rodríguez, O., A. (2009). A Witness to Hope. Migra-tion and Human Solidarity. In Groody, G., D., Campese, G.(2009). A promised Land, a Perilous Journey. TheologicalPerspectives on Migration. University of Notre DamePress.

3 Cfr. Giovanni XXIII, Enciclica Pacem in Terris e Compendiodella Dottrina Sociale della Chiesa.

Capitolo 1

4 UNHCR (2014). Global Trends 2013. War’s human costs.Ginevra.

5 Heidelberg Institute for International Conflict Research(2014). Conflict Barometer 2013. Disputes, non violentCrises, Violent Crises, Limited Wars, Wars. Heidelberg,Germany.

6 UNHCR, Comunicato stampa. Nel 2014 oltre 348.000 per-sone in tutto il mondo hanno attraversato il mare in cercadi asilo o di migliori opportunità. Necessario dare la prioritàal salvataggio di vite umane. Roma. 10 dicembre 2014.

Capitolo 2

7 UNDP, Human Development Report 2014.8 UNHCR, Statistics as of February 2015 e Unité d’Enregi-

strement et Statistiques. Djibouti. Le statistiche riportatenon includono ancora il numero di rifugiati provenientidallo Yemen.

9 Intervista a Rosalinda Cottone, IOM Gibuti, aprile 2015.Tale cifra viene indicata confrontando il numerodi migranti registrati a Gibuti (in media 22.000 all’anno),quelli registrati in Yemen (oltre 80.000), e considerandoche la registrazione presso i siti di IOM è una proceduravolontaria, che molti migranti non effettuano.

Capitolo 3

10 Cfr. Caritas Italiana (2012). Fame di pane e di futuro.Emergenza Corno d’Africa, Roma.

11 Zupi, M. (2011). La crisi nel Corno d’Africa, Roma,Osservatorio di politica internazionale – Servizio StudiDipartimento Affari Esteri.

12 Cfr. Saini, B., Diga della rinascita o della discordia?(1 settembre 2014). http://www.nigrizia.it/notizia/diga-della-rinascita-o-della-discordia_1«La diga, in costruzione dal 2011 da parte della italianaSalini Costruttori, misura 1.800 m in lunghezza, 170 min altezza, avrà 6.000 Megawatt di potenza installata e siprevede entrerà in funzione nel 2017. Evidentementel’opera preoccupa tutti i Paesi che si affacciano sul Nilo eparticolarmente l’Egitto che dipende dal Nilo per il 90%dei suoi approvvigionamenti d’acqua e in particolare perl’85% dalle acque del Nilo Blu» (http://www.conflittie-strategie.it/le-dighe-etiopiche-sul-nilo-un-caso-di-stu-dio). 20 ottobre 2013.

13 Iansa, Oxfam, Safreworld, 2007, Africa missing billions: in-ternational arms flows and the cost of conflict.

14 Durdon, T. (2014). Selling War: The World's Biggest Expor-ters Of Weapons. http://www.zerohedge.com/news/2014-05-18/selling-war-worlds-biggest-exporters-weapons

15 Oxfam (2006). Ammunition: the fuel of conflict. Oxfambriefing note. 15 June 2006.

16 Simoncelli, M. (2014). La fiera galleggiante delle armi.Rientrata la portaerei Cavour. Nigrizia, 9 aprile 2014.

Capitolo 4

17 Le stime sui minori abbandonati e i bambini di stradanella Repubblica di Gibuti costituiscono una materiacontroversa. Il Governo di Gibuti tende a coprire tale realtà, negando l’esistenza del problema e censurando gli studi realizzati da UNICEF e altre organizzazioniinternazionali sul tema.

18 Caritas Gibuti, Rapport Annuel 2014. Un pas vers un avenirplus humain. Gibuti, 2014.

19 I centri di alfabetizzazione del progetto LEC (Leggere,scrivere e far di conto) sono sostenuti dalla Chiesa localeper offrire un’educazione di base per gli studenti orfani odi famiglie non abbienti. Vi sono nel Paese 5 Centri LEC:a Gibuti (LEC di Boulaos), Arta, Ali-Sabieh, Tadjoura eObock.

20 DIIS (Danish Institute for International Studies), High RiskMigration in the Horn of Africa. South-South Child migrations,aprile 2015. Ricerca realizzata con interviste pressoil Centro Caritas di Gibuti.

Capitolo 5

21 Ibidem.

Capitolo 6

22 Chiesa senza frontiere, madre di tutti. Messaggio del SantoPadre Francesco per la Giornata mondiale del Migrante edel Rifugiato 2015.

23 Ibidem. Cfr. anche Paolo VI, Lettera Apostolica Octogesimaadveniens, 14 maggio 1971, 23.

24 Cfr. Giovanni XXIII, Enciclica Mater et Magistra, 30, GiovanniXXIII, De Pastorali Migratorum Cura, Giovanni Paolo II, Mes-saggio per la Giornata Mondiale delle Migrazioni 2001.

25 Chiesa senza frontiere, madre di tutti, cit., 2015.

Capitolo 7

26 Caritas Somalia, Annual Report 2014, p. 6 27.27 Cfr. Gibney, M. J. (2004). The Ethics and Politics of Asylum.

Liberal Democracies and Response to Refugees. Cambridge:Cambridge University Press; Hollenbach, D. (2008). RefugeeRights. Ethics, Advocacy and Africa. Washington, D. C.: Ge-orgetown University Press; Hollenbach, D. (2010). Drivenfrom Home. Protecting the rights of forced migrants. Washin-gton, D. C.: Georgetown University Press.

28 Cfr. i dossier annuali sulle migrazioni di Caritas e Migrantes. 29 Francesco I, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium,

270.

22 CARITAS ITALIANA | DOSSIER CON DATI E TESTIMONIANZE

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Per maggiori informazioni e per contribuire

ai progetti di Caritas Italiana:

www.caritas.itUfficio Medio Oriente e Nord Africa:tel. 06 66177 242 / [email protected]

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Le migrazioni: un dramma mondiale che non tocca solo gli Stati che si affaccianosul Mediterraneo. Questo dossier ricorda una realtà poco conosciuta, quelladei Paesi del Corno d’Africa: Somalia, Etiopia, Eritrea, Gibuti.

La repubblica di Gibuti è un piccolo Stato che si affaccia sul Mar Rosso.Rappresenta il passaggio obbligato di molti migranti che fuggono dai conflittie dalle repressioni nei loro Paesi per riversarsi nell’antistante Yemen.

Nel 2014 sono state 82.680 le persone passate da Gibuti verso lo Yemen eidentificate. Si ignora il numero dei clandestini. 265 le vittime accertate.

Il conflitto nella confinante Somalia dura dal 1992, e costituisce ancora oggila causa principale dei rifugiati da questo Stato.

Il Corno d’Africa è inoltre una regione particolarmente colpita da periodichesiccità, altra causa di fuga.

Storie di sofferenze, con mancanza di effettiva protezione giuridica, che lasciacampo libero ai trafficanti di esseri umani.

Intanto prendono spazio teorie che giustificano nuovi muri, che non risolverannoil dramma dei rifugiati e non metteranno in discussione le responsabilitàinternazionali.

Grecia

DOSSIER CON DATI E TESTIMONIANZE

Numero 1 – Gennaio 2015

Gioventù feritaLa crisi come una guerra, il Paese a un bivio

I precedenti dossier (download dagli shortlink):1. GRECIA: Gioventù ferita – Gennaio 2015 – http://bit.ly/1KOT4KB2. SIRIA: Strage di innocenti – Marzo 2015 – http://bit.ly/1x0H4VI3. HAITI: Se questo è un detenuto – Aprile 2015 – http://bit.ly/1H0LwGe4. BANGLADESH, INDIA, SRI LANKA, THAILANDIA: Lavoro dignitoso per tutti – Maggio 2015 – http://bit.ly/1JaZEvv5. BOSNIA ED ERZEGOVINA: Una generazione alla ricerca di pace vera – Giugno 2015 – http://bit.ly/1H7YPWa

Bangladesh | India | Sri Lanka | Thailandia

DOSSIER CON DATI E TESTIMONIANZE

Numero 4 – Maggio 2015

Lavoro dignitoso per tuttiDisoccupazione, sfruttamento, riduzione in schiavitù

ledono i diritti umani fondamentali

DOSSIER CON DATI E TESTIMONIANZE

Numero 5 – Giugno 2015

Una generazione alla ricerca di pace vera

I giovani e le sfide per il futuro:riconciliazione, dialogo interreligioso, lavoro

Bosnia ed Erzegovina