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Marcello dell’Utri Vincenzo Visco Alfredo Vito Sergio d’Elia Umberto Bossi Cesare Previti Daniele Farina Mario Borghezio Gianni De Michelis Paolo Cirino Pomicino Vito Bonsignore Giorgio La Malfa Antonio Tomassini ? Domenico Nania Antonio Del Pennino ? Enzo Carra Lino Jannuzzi Marcello De Angelis Gianpiero Cantoni Massimo Maria Berruti Egidio Sterpa ? Aldo Patriciello Giovanni Mauro ? MIRACOLATI: Giulio Andreotti Massimo d’Alema Silvio Berlusconi Lorenzo Cesa 1

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MIRACOLATI:Giulio AndreottiMassimo d’AlemaSilvio BerlusconiLorenzo Cesa

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DELL’UTRI

PASSEROTTO, NON ANDARE VIA

Oggi la Camera dovrebbe votare pro o contro la proposta della giunta per le elezioni di mettere alla porta l’onorevole pregiudicato e interdetto Cesare Previti. Il tutto con 14 mesi esatti di ritardo, visto che la sentenza della Cassazione del 4 maggio 2006 aveva già stabilito irrevocabilmente il da farsi. Per 420 giorni il deputato abusivo ha percepito indebitamente lo stipendio (13-14 mila euro al mese netti) e maturato i diritti alla pensione a spese dei contribuenti. Ed è riuscito ad affermare il principio cardine della Repubblica dei Mandarini, largamente e trasversalmente condiviso: quando c’è di mezzo un membro della casta, o della cosca, anche le sentenze definitive diventano provvisorie. Trattabili. Chiunque vinca le elezioni, la legge non è uguale per tutti, perché in Parlamento vige il diritto d’asilo. Giunti a questo punto, è vivamente sconsigliabile votare sì alla cacciata di Previti dal Parlamento. Forse è meglio che resti dov’è, a imperitura memoria. Gli terranno compagnia altri 24 onorevoli pregiudicati, più uno che, per meglio difendere la famiglia e combattere la droga, organizzava coca-party con due squillo a botta in un grand hotel (ieri s’è dimesso dall’Udc, ma non dal Parlamenip), e un altro che, per arrivare prima in uno studio tv usò un’ambulanza come taxi (s’era dimesso dal Parlamento, ma poi ci ha ripensato e ha traslocato da An a Forza Italia: sempre in ambulanza, si presume). La loro presenza a Montecitorio servirà ai Mandarini per rivendicare lo status di legibus soluti e ai cittadini per rassegnarsi a quello di sudditi. E poi, come rivela L’espresso, Previti ha già mostrato ampi segni di ravvedimento: ora non corrompe più i giudici, ma - affidato ai servizi sociali grazie alla legge ex Cirielli che gli ha regalato i domiciliari e all’indulto extralarge che gli ha restituito la libertà - rieduca tossicodipendenti nella comunità Ceis di don Mario Picchi. In particolare sovrintende al «Programma serale», che prevede «colloqui individuali e di gruppo per strappare dalla cocaina, dal gioco d’azzardo e da altre azioni compulsive (come lo shopping) professionisti, dirigenti di aziende e giovani che hanno deciso di dare una sterzata alle loro esistenze». Salvo i due mesi che gli tocca passare di nuovo in casa, a causa della seconda condanna definitiva per aver comprato la sentenza Mondadori (anche lui aveva problemi di shopping compulsivo), ma nel ramo giudici), tornerà presto all’aria aperta dalle 7 alle 23 (salvo qualche permesso premio per ritemprarsi nella villa all’ Argentario, dove un tempo veleggiava sul mitico “Barbarossa” nelle acque dell’allusiva Cala Galera). Per dedicarsi, tre giorni a settimana, ai ragazzi del Ceis: «colloqui collettivi e individuali», precisa L’espresso, nei quali «nessuno lo ha mai rifiutato come consulente». Previti, in particolare, segue «l’evoluzione di due ex tossicodipendenti, due liberi professionisti» entusiasti del loro nuovo rieducatore: «Previti ci ha sorpreso», assicura don Musio, braccio destro di Picchi: «È aperto, franco, collaborativo, si è guadagnato la stima di tutto lo staff. L’onorevole si sta mettendo in discussione e nei colloqui con i frequentatori offre un grande contributo di pragmatismo». Come ai vecchi tempi, quando smistava compulsivamente, ma pragmaticamente, miliardi su miliardi da un conto svizzero all’altro senza pagare una lira di tasse. Qualche maligno temeva che, vistolo in faccia, i ragazzi ricadessero negli antichi vizi e abbisognassero di una rieducazione supplementare. Invece finora tutto è filato

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liscio come un bonifico estero su estero «Il bilancio - aggiunge il sacerdote - è positivo: spero Previti che riversi questa nuova esperienza anche negli ambienti che frequenta». Magari che rieduchi anche Berlusconi e Dell’Utri, peraltro esperti in altri tipi di bilanci, perlopiù falsi. Nel tempo libero, a parte qualche partitella al circolo Canottieri Lazio («sempre più sporadiche, ma la passione resta nonostante l’età», confida un amico) e «la ginnastica agli attrezzi di cui si è dotato in casa», Cesare «riceve e conversa». Pare che sia un po’ in freddo con Pera e Tajani, mentre Silvio e Marcello sono sempre affettuosissimi, e ci mancherebbe altro. Gli onorevoli che oggi hanno in mano il suo destino si mettano una mano sul cuore e una sul portafogli. E ci pensino bene, prima di privare le istituzioni democratiche di un apporto così fondamentale. In fondo, al Parlamento, un educatore di tossici può sempre tornare utile.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIO l’Unità (31 luglio 2007)

lunedì, 30 luglio 2007 IL SILENZIOSO SOVRANO DI ARCORE*

Perché Berlusconi non dice dove ha preso i capitali i capitali Fininvest?

Il consulente della Procura di Palermo firma una transazione. I suoi avvocati: non condividiamo la ricostruzione dei fatti.Sette anni dopo Francesco Giuffrida dichiara che il suo giudizio era «parziale e non definitivo». Curioso: il vicedirettore della Banca d’Italia a Palermo sa da dove vengono quei capitali e l’ex premier no.FRANCESCO Giuffrida, vicedirettore della Banca d’italia a Palermo e consulente della Procura nel processo Dell’Utri a proposito della misteriosa provenienza dei capitali della Fininvest, ha «raggiunto un accordo transattivo» con la stessa Fininvest nella causa civile per danni che il gruppo Berlusconi gli aveva intentato l’anno scorso. In cambio del ritiro della denuncia, Giuffrida dichiara che la sua consulenza sui finanziamenti alla Fininvest fra gli anni 70 e 80 era «parziale e non definitiva»: s’interruppe nel 1998 con l’archiviazione del fascicolo a carico di Berlusconi (per mafia e riciclaggio) per decorrenza dei termini. Fin qui, nulla di nuovo: la circostanza era già stata precisata dai pm e da Giuffrida al processo Dell’Utri.

Provvista interna? La novità è che Giuffrida dichiara di essersi sbagliato in Tribunale quando, sotto giuramento, sostenne che alcune operazioni finanziarie erano «anomale» e che 113 miliardi di lire dell’epoca (300 milioni di euro di oggi, in parte in contanti e assegni circolari) risalivano a «flussi di provenienza non identificabile»: ora, 7 anni dopo, scopre improvvisamente che «le operazioni erano tutte ricostruibili e tali da escludere l’apporto di capitali di provenienza esterna al gruppo Fininvest». La provvista dei soldi dunque non

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era esterna, come da lui sostenuto al processo sotto giuramento, ma «interna». I soldi a Berlusconi li dava Berlusconi. Nessun sospetto di capitali mafiosi o poco trasparenti. Il Cavaliere è candido come un giglio, limpido come acqua di fonte. Tutto è bene quel che finisce bene (resta da capire chi finanziava Berlusconi per consentirgli di finanziare se stesso). Sulle ali dell’entusiasmo, la stampa berlusconiana trae deduzioni mirabolanti. Libero: «Su Silvio un mucchio di balle», «Ritratta tutto il perito dei giudici che accusò Fininvest di essere nata con i soldi della mafia. E’ la fine di una persecuzione e dei teoremi di Travaglio & C». Il Giornale: «Crollano i teoremi sulla nascita della Fininvest»; sotto, un cronista appena licenziato da Repubblica perché avvertiva il Sismi di quel che scrivevano i suoi colleghi, racconta a modo suo «Il partito di Giuffrida che ha ispirato libri e show. Da Travaglio a Grillo e Luttazzi, la sinistra ha elevato il funzionario di Bankitalia a eroe della resistenza anti-Cavaliere». L’on. avv. Nicolò Ghedini si sporge oltre: «Berlusconi ha creato ricchezza e migliaia di posti di lavoro in modo assolutamente corretto. Oscuri giornalisti sono diventati famosi e analfabeti di ritorno sono diventati scrittori, diffamando Berlusconi in merito all’origine del suo patrimonio. Molti dovrebbero scusarsi con lui». L’on. avv. non spiega chi avrebbe diffamato il Cavaliere, visto che tutte le cause civili intentate da lui e dai suoi cari contro i giornalisti (ma anche contro Luttazzi e Freccero) che hanno raccontato i misteri delle sue fortune sono finite con l’assoluzione dei denunciati e la condanna di Berlusconi & C. a rifondere le spese legali. In ogni caso, se un consulente parla in un pubblico dibattimento, un giornalista riferisce e poi il consulente ritratta, perché mai dovrebbe scusarsi il giornalista? Fatti nuovi o bugie? Spetta ora a Giuffrida spiegare quali fatti nuovi (non indicati nella transazione) l’abbiano indotto al clamoroso voltafaccia. In caso contrario, spetterà alla magistratura accertare quando il consulente abbia mentito: se al processo Dell’Utri (sotto giuramento) o nella transazione con la Fininvest E, soprattutto, perché. Tanto più che Giuffrida ha firmato la resa da solo, all’insaputa dei suoi legali che ieri hanno fatto sapere: «Non abbiamo firmato e non firmeremo la transazione» perché «non condividiamo la ricostruzione dei fatti e le affermazioni» che «non corrispondono alle reali acquisizioni processuali» (dal chè si deduce che l’atto diffuso da Fininvest e pubblicato da Libero con i loro nomi è un falso). Ora, si può comprendere il tormento di un uomo solo trascinato in giudizio da un gruppo tanto potente. Ma visto l’uso disinvolto che si fa della transazione, qualche precisazione s’impone.

1) Dell’Utri è stato condannato dal Tribunale di Palermo a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, e non per riciclaggio. Non in base alla consulenza Giuffrida, ma a una gran mole di prove (i giudici parlano di «imponente produzione di documenti rappresentativi di fatti, persone e cose mediante fotografie e filmati tv; perquisizioni nei luoghi di pertinenza anche di Dell’Utri; intercettazioni telefoniche e ambientali; sequestri di cose pertinenti ai reati e di documenti presso istituti di credito»). Correttamente la II sezione prende atto delle dichiarazioni di Filippo Alberto Rapisarda e dei mafiosi pentiti Di Carlo, Pennino e Cannella (ritrattate dagli ultimi due) sul riciclaggio di denaro mafioso da parte della Fininvest, ma le ha

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ritenute insufficienti. Quanto alla consulenza Giuffrida, pur fondata su «documentazione parziale», i giudici osservano che «evidenzia la scarsa trasparenza o l’anomalia di molte operazioni effettuate da Fininvest negli anni 1975-1984», e soprattutto che «non ha trovato smentita dal consulente della difesa Dell’Utri»: il professor Paolo lovenitti della Bocconi. 2) Nemmeno un luminare come lovenitti riesce a dimostrare che è tutto regolare. Anzi, davanti alle contestazioni dei pm e di Giuffrida, è costretto ad ammettere che alcune operazioni erano «potenzialmente non trasparenti». Scrivono i giudici: «Non è stato possibile, da parte di entrambi i consulenti, risalire in termini di assoluta certezza e chiarezza all’origine, qualunque essa fosse, lecita od illecita, dei flussi di denaro investiti nella creazione delle holding Fininvest. E allora le “indicazioni” dei collaboranti e del Rapisarda non possono ritenersi del tutto “incompatibili” con l’esito degli accertamenti (...)». Ora la retromarcia di Giuffrida “scavalca” addirittura il consulente Fininvest che «non ha contribuito a chiarire la natura di alcune operazioni finanziarie “anomale” e a evidenziare la correttezza delle risultanze societarie, contabili e bancarie del gruppo Fininvest, in modo da escludere una volta per tutte la possibilità che Dell’Utri avesse utilizzato la Fininvest per la sua attività di riciclaggio». Possibile che il consulente dell’accusa, in assenza di fatti nuovi, sia diventato più «buono» di quello della difesa? Perché non parli? Su un punto i berluscones hanno ragione: la storia delle origini misteriose dei capitali Fininvest si trascina da troppo tempo. Ma chi meglio di Silvio Berlusconi potrebbe fare piena luce? L’occasione d’oro gli si presenta il 26 novembre 2002, quando il Tribunale di Palermo che processa Dell’Utri va a interrogarlo a Palazzo Chigi. Ma lui, invece di chiarire dove ha preso quei soldi, si avvale della facoltà di non rispondere. Il pm Ingroia lo stuzzica: «La sua deposizione sarebbe preziosa per dare un importante contributo all’accertamento della verità». E snocciola le questioni che giudici e pm han deciso dì sottoporgli: «I rapporti del sen. Dell’Utri con Rapisarda, Cinà, Mangano, la provenienza dei capitali...». ll premier pare tentato di replicare, Ghedini lo stoppa: meglio di no. Giudici, pm e avvocati se ne tornano a Palermo a mani vuote. Scriverà il Tribunale: «Il premier s’è lasciato sfuggire l’imperdibile occasione di fare personalmente, pubblicamente e definitivamente chiarezza sulla delicata tematica, incidente sulla correttezza e trasparenza del suo precedente operato di imprenditore che solo lui, meglio di qualunque consulente o testimone, avrebbe potuto illustrare. Invece, ha scelto il silenzio».

Ora che Giuffrida dice che è tutto regolare, c’è da sperare che se ne convinca anche il Cavaliere. E, se non ha nulla da nascondere, ritrovi la favella. Altrimenti si verrebbe a creare una situazione davvero curiosa: un funzionario della Banca d’Italia sa dove Berlusconi ha preso i soldi, e Berlusconi non lo sa. PS. La Corte d’appello di Milano ha appena condannato a 2 anni Dell’Utri per tentata estorsione mafiosa insieme al capomafia di Trapani Vincenzo Virga ai danni dell’imprenditore Garraffa, che rifiutava di pagare un credito non dovuto di 750 milioni, per giunta in nero. Poco prima di mandargli il boss, Dell’Utri lo avrebbe avvertito con queste parole: «Abbiamo uomini e mezzi capaci di farle cambiare idea». Così, a puro titolo di cronaca.

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MARCO TRAVAGLIOl’Unità (29 luglio 2007) *Il titolo è mio

sabato, 28 luglio 2007 TOTÒ ANTIMAFIAMentre ti sale lo sconforto e ti vien da pensare che «questi sono come Berlusconi», una mano amica ti manda un’intervista di Totò Cuffaro al Giornale di Sicilia. E ringrazi di cuore Cuffaro, perché finché ci saranno lui e i suoi mandanti sarà difficile per il centrosinistra, nonostante gli sforzi, diventare come Berlusconi. Il governatore, fotografato senza la tradizionale coppola, annuncia che la sua Regione «vuol entrare nella gestione dei beni confiscati alla mafia, per accelerare il processo di assegnazione a enti o associazioni che li sfruttino per promuovere sviluppo e legalità». E minaccia di pubblicare ogni tre mesi «il bilancio trimestrale dell’attività della Regione contro Cosa Nostra». È vero che, se Pomicino e Vito fan parte dell’Antimafia, se Previti è onorevole, se Fiorani si propone come difensore civico dei consumatori dalle truffe delle banche, se Pollari è giudice del Consiglio di Stato e Pio Pompa dirigente della Difesa, se Gianpaolo Nuvoli che voleva impiccare Borrelli in piazza è direttore generale al ministero di Giustizia con delega ai diritti umani, manca solo Fabrizio Corona garante della Privacy. Dunque anche Cuffaro, imputato per favoreggiamento mafioso e indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, può partecipare alla lotta alla mafia. Non sarebbe la prima volta: l’aveva già fatto il suo amico Francesco Campanella, il giovanotto a mezzadria tra la politica (presidente dei giovani Udeur e del consiglio comunale di Villabate sciolto 2 volte per mafia) e il clan Mandalà, che fornì i documenti falsi a Provenzano per la trasferta ospedaliera a Marsiglia e, quando si sposò, esibì come testimoni Cuffaro e Mastella. Bene, Campanella era solito organizzare marce antimafia: premiò pure Raul Bova per l’indimenticabile interpretazione del Capitano Ultimo. Quindi non facciamo gli schizzinosi: se Cuffaro vuole lottare anche lui contro la mafia, lo si lasci entrare. Tutto si potrà dire tranne che non si tratti di un esperto del ramo. «Le procedure di assegnazione dei beni confiscati alla mafia», sdottoreggia il governatore imputato, «sono troppo lente. Ho chiesto al ministro degl’Interni di entrare nella gestione». Così, fra l’altro, si garantirebbe la necessaria continuità fra il prima e il dopo: l’assemblea regionale siciliana ha sei deputati indagati per mafia e un vicepresidente arrestato. Se i beni confiscati alle cosche passassero alla regione, nessuno noterebbe la differenza e si eviterebbero pericolosi salti nel buio. Ma Totò Antimafia si spinge oltre e promette «controlli preventivi nel sistema dei finanziamenti» pubblici e dei fondi comunitari di Agenda 2007, «affinché le risorse siano utilizzate al meglio evitando infiltrazioni mafiose». Anche perché «ancora si incontrano difficoltà a ottenere, in sede di assegnazione degli appalti, la certificazione antimafia». E meno male che la certificazione non devono rilasciarla anche i politici, altrimenti lui avrebbe qualche problemino. E così il suo spirito-guida Calogero Mannino, imputato di mafia, adulterazione di vini e truffa allo Stato finalizzata alla concessione di finanziamenti pubblici alla sua azienda vinicola Abraxas, dunque senatore dell’Udc: ieri la Guardia di Finanza, su ordine del gip di Marsala, ha

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sequestrato all’azienda beni per mezzo milione. Chissà se Mannino aveva la certificazione antimafia: pare di no, visto che di recente aveva dovuto dimettersi da presidente del Cerisdi, il centro studi palermitano d’eccellenza, perché il prefetto gliel’aveva negata, tagliando fuori l’istituto dai fondi pubblici. Mannino ottenne l’immediata solidarietà di Buttiglione e Cesa, ma pure da Follini, ultimo acquisto del Pd: tutti sdegnati contro il prefetto che osa negare il certificato antimafia agl’imputati di mafia. Mannino, sobriamente, lo paragonò ai prefetti fascisti «che mandavano al confino Gramsci e Pertini». Ora Totò illustrerà i propri solidi meriti antimafia («abbiamo finanziato la ristrutturazione di un capannone da adibire a laboratorio di indagine chimica della polizia scientifica») in un libro, ovviamente a spese della Regione: «Il nostro no alla mafia». L’ultima volta che patrocinò un libro - un’enciclopedia sulla Sicilia - incaricò Andreotti di compilare la voce «Salvo Lima». Questa volta, per cambiare, potrebbe affidare la prefazione a Dell’Utri.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIO l’Unità (25 Luglio 2007)

giovedì, 19 luglio 2007 COMANDA SEMPRE LUI

Ieri il Corriere, in beata solitudine, pubblicava le motivazioni della condanna d’appello a 2 anni per tentata estorsione mafiosa a carico di Marcello Dell’Utri e del capomafia di Trapani Vincenzo Virga. Una vicenda mai raccontata negli ultimi 6 anni agl’italiani da nessun tg o programma di approfondimento, pubblico o privato. Così come quella della sentenza Mondadori comprata da Previti con 420 milioni della Fininvest nella «piena consapevolezza» del Cavaliere. In compenso da cinque giorni si fa un gran parlare dell’iscrizione di Romano Prodi sul registro degli indagati della Procura di Catanzaro per abuso d’ufficio. Ed è giusto che sia così. L’anomalia non sta nell’attenzione al caso Prodi, ma nel silenzio sui casi Prevlti-Berlusconi-Dell’Utri, tra l’altro imparagonabili col primo, in quanto i nomi del Trio Arcore non sono iscritti sul registro degli indagati, ma scritti su sentenze di condanna per reati infinitamente più gravi. Quando qualche buontempone o «volonteroso», a sinistra, è portato a minimizzare l’influenza nefasta del Cavaliere sulla vita pubblica dichiarando archiviato l’antiberlusconismo, potrebbe riflettere sulla diversa eco mediatica che suscitano i coinvolgimenti di Berlusconi e Prodi in indagini giudiziarie. La prima volta di Silvio fu il 21 novembre ‘94, quando il pool di Milano lo convocò d’urgenza per un interrogatorio sulle tangenti Fininvest alla Guardia di Finanza, dunque lo iscrisse sul registro e gli notificò un invito a comparire. Quel mattino Borrelli consegnò il plico ai carabinieri e li spedì a Roma, dove risultava che il premier sarebbe rientrato in serata da Napoli (lì aveva inaugurato un convegno internazionale sulla criminalità). Giunti a Palazzo Chigi i militari scoprirono che aveva cambiato programma e s’era trattenuto a Napoli anche per l’indomani. Allora Borrelli li incaricò di telefonargli a Napoli per prendere appuntamento al suo ritorno e spiegargli di che si trattava. In tarda serata dunque gli uomini

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dell’Arma lessero al telefono a Berlusconi il contenuto dell’invito a comparire, almeno fino alla terza delle quattro tangenti contestate: prima che leggessero la quarta, lui mise giù infuriato. Guarda caso, l’indomani il Corriere riferì di tre (e non quattro) mazzette: proprio quelle che i militi gli avevano letto. Naturalmente il premier ebbe buon gioco a inscenare il pianto greco sulla «fuga di notizie» piotata dalle «toghe rosse» per «colpirmi politicamente durante un vertice internazionale», in «violazione del segreto istruttorio». Tutte balle: la fuga di notizie, com’è evidente e come appurerà il Tribunale di Brescia, non veniva dalla Procura; ma soprattutto non violava il segreto istruttorio (abolito dal 1989), visto che per la legge italiana «gli atti conosciuti o conoscibili dall’indagato» non sono più segreti. E lui l’invito lo conosceva dalla sera prima. Dunque fu lui, non il pool, a screditare l’Italia continuando a presiedere un summit anti-crimine pur sapendo di esser indagato per corruzione. Da che nasceva l’urgenza di interrogarlo e dunque di convocarlo? Dalla scoperta che l’8 giugno ’94, un minuto prima di avviare un mega-depistaggio delle indagini sulle mazzette Fininvest alla Guardia di Finanza, l’avvocato Fininvest Massimo Maria Berruti (ex ufficiale della (Gdf), era salito a Palazzo Chigi per parlare con lui. Alla fine Berlusconi, condannato in primo grado e prescritto in appello, fu assolto in Cassazione per insufficienza di prove; ma Berruti fu condannato definitivamente per favoreggiamento (dunque promosso deputato di Forza Italia) e Salvatore Sciascia, il manager Fininvest che pagava i finanzieri, per corruzione (ora infatti è socio della Brambilla nell’editrice de Il Giornale delle Libertà). Fatti gravissimi e documentati. Eppure, da 13 anni, l’invito al Cavaliere non è citato per ricordare che le sue aziende corrompevano le Fiamme Gialle, ma per deplorare la violazione di un segreto inesistente. Ora che il sito di Panorama (vedi alla voce Previti-Mondadori) ha svelato che Prodi è indagato a Catanzaro, invece, tutti giustamente parlano del contenuto dell’inchiesta: e cioè dei telefonini usati da Prodi quand’era presidente della Commissione europea. Eppure la notizia, questa sì, è segreta: non lo sarebbe se Prodi avesse ricevuto un avviso di garanzia o un invito a comparire, ma non ha ricevuto nulla. Ciò che Berlusconi lamenta per sé, mentendo dal 1994, si è avverato nel 2007 contro Prodi a opera di un settimanale di proprietà (si fa per dire) di Berlusconi. Ma la cosa passa sotto silenzio, anche perché Prodi, mostrando un senso delle istituzioni sconosciuto al suo predecessore, s’è detto subito «fiducioso nella magistratura» e ha spiegato, tramite il portavoce Sircana, l’oggetto del contendere: cioè l’uso, a suo dire del tutto lecito, che ha fatto di quei cellulari. Già, perché - almeno finora - sul suo conto non emerge null’altro che l’uso di alcune utenze in contatto con persone del suo entourage accusate di aver incassato indebitamente fondi europei su cui Prodi non aveva influenza alcuna. Ma, in base alla solita demenziale legge Boato del 2003, per usare i tabulati e accertare chi chiamava chi, i giudici devono chiedere il permesso alla Camera, e per farlo han dovuto iscrivere Prodi. Se le cose restassero a questo punto, Prodi farà bene ad allontanare eventuali collaboratori disinvolti, magari abituati a spendere il suo nome per i loro affari. E morta lì. In ogni caso è giusto che se ne continui a parlare. Purché il caso Prodi venga inserito nella giusta gerarchia d’importanza rispetto ad altri casi: quello di Berlusconi che dal 1991 controlla la Mondadori grazie a una sentenza comprata, quello di Dell’Utri che usava i capimafia per il recupero crediti e quello di Previti che pagava i giudici per vincere le cause perse. Sempre che i volonterosi dell’anti-antiberlusconismo non abbiano nulla in contrario.

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ULIWOOD PARTY MARCO TRAVAGLIO l’Unità (18 luglio 2007)

“Chiedo alla Procura di Caltanissetta di non archiviare, se non lo ha già fatto, le indagini relative alla sparizione dell’agenda rossa di Paolo e di chiarire il coinvolgimento dei tutte le persone, dei servizi e non, in essa coinvolte. Chiedo soprattutto al sen. Nicola Mancino, del quale ricordo, negli anni immediatamente successivi al 1992, una sua lacrima spremuta a forza durante una commemorazione di Paolo a Palermo, lacrima che mi fece indignare al punto da alzarmi ed abbandonare la sala, di sforzare la memoria per raccontarci di che cosa si parlò nell’incontro con Paolo nei giorni immediatamente precedenti alla sua morte. O spiegarci perché, dopo avere telefonato a Paolo per incontrarlo mentre stava interrogando Gaspare Mutolo, a sole 48 ore dalla strage, gli fece invece incontrare il capo della Poliza Dott. Parisi e il Dott. Contrada, incontro dal quale Paolo uscì sconvolto tanto, come racconto lo stesso Mutolo, da tenere in mano due sigarette accese contemporaneamente. Altrimenti, grazie alla sparizione dell’ agenda rossa di Paolo, non saremo mai in grado di saperlo. E in quel colloquio si trova sicuramente la chiave dalla sua morte e della strage di Via D’Amelio.

Milano, 15 Luglio 2007

Salvatore Borsellino

www.palermoweb.com

domenica, 01 luglio 2007 SMALTIMENTO RIFIUTI

Ogniqualvolta le indecenze trasversali della politica ci inducono in tentazione di pensare che i politici sono tutti uguali, la cronaca ci ricorda che, anche sforzandosi, è impossibile eguagliare Bellachioma: lui è fuori concorso. L’altroieri la Corte costituzionale ha provveduto a smaltire un altro cumulo di monnezza abbandonato da due anni a Montecitorio: la legge anti-Caselli che nell’estate 2005 impedì all’ex procuratore di Palermo di candidarsi alla Procura nazionale antimafia e spianò la strada all’altro concorrente, Piero Grasso. Anche quella legge, come pure il lodo Maccanico-Schifani, la Pecorella e mezza Cirielli, era incostituzionale. Violava l’articolo 3 della Costituzione sull’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Nel paese degli smemorati, è il caso di riepilogare di che si tratta. Nell’autunno 2004, alla vigilia del pensionamento del procuratore Vigna, il Csm bandisce il concorso per il suo successore. Caselli, Grasso e altri fanno domanda. E subito, nella controriforma Castelli dell’ordinamento giudiziario, spunta un codicillo che elimina Caselli: prevede l’impossibilità per chi ha compiuto 66 anni di concorrere a incarichi giudiziari direttivi (che «scadranno» a 70 anni e dovranno restare «coperti» per almeno 4). Caselli i 66 anni non li ha ancora compiuti, ma per dargli il tempo di compierli Vigna viene prorogato fino all’estate 2005. Centinaia di magistrati gli chiedono di rifiutare e andarsene subito, per non prestarsi alla manovra. Vigna invece accetta. Ma il 19 dicembre Ciampi rimanda indietro la Castelli: tanto per cambiare, è incostituzionale. I tempi si allungano e, per la Casa delle Impunità, c’è il rischio che il Csm decida sulla Dna prima dell’entrata in vigore della Castelli-bis. A questo punto scende in campo Luigi Bobbio, magistrato in aspettativa e senatore di An. Presenta un emendamento con effetto immediato (la Castelli è una legge delega e sarà operativa solo mesi dopo, coi decreti delegati) che taglia fuori tutti gli ultrasessantaseienni pur di fulminarne uno. E lo dice pure: «Dobbiamo avere la certezza che Caselli non vada alla Superprocura». Visto che le leggi sono «provvedimento generali e astratti», questa è specifica e concreta: bisogna farla pagare a Caselli per aver combattuto la mafia e processato i suoi sponsor politici. Così impara ad applicare i principi costituzionali dell’obbligatorietà dell’azione penale, dell’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi

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alla legge. Che la cosa serva di lezione a chiunque volesse fare come Caselli. «I processi di mafia e politica sono falliti», sentenziano i Ferrara, gli Iannuzzi e i Macalusi. Ma, se fossero falliti, a Caselli farebbero ponti d’oro: il suo guaio è che sono perfettamente riusciti. Andreotti colpevole anche se prescritto, Contrada condannato definitivamente, Dell’Utri condannato in primo grado. Il Riformista s’inventa che Caselli deve stare alla larga dalla Dna in nome di un’antimafia «più riformista». Gli spaccatori del capello in quattro e i sessuologi degli angeli parlano d’altro o si voltano dall’altra. Un emendamento del ds Calvi che farebbe saltare la porcata al Senato viene bocciato grazie alla decisiva astensione di Rifondazione. L’emendamento Bobbio passa appena in tempo, quando il Csm sta per scegliere tra Caselli e Grasso. Nel pieno della partita, una delle due squadre viene squalificata per aver rispettato le regole del gioco. Così vince l’altra, cioè Grasso, per mancanza di avversario. Naturalmente la porcata si applica a tutti i magistrati «over 66» e blocca centinaia di concorsi già banditi. «La legge anti-Caselli andrà cancellata», giura Prodi. Poi però ha la bella idea di nominare Mastella alla Giustizia, e anche quella vergogna resta in vigore, insieme a tutte le altre. Chissà se c’entrano qualcosa con l’«aria irrespirabile» e la «spazzatura» di cui parlano oggi Prodi, D’Alema e Berlusconi. Nessuno s’accorge che non basta sloggiare Bellachioma da Palazzo Chigi, se poi le sue vergogne restano in vigore. Per fortuna c’è la Consulta, che cancella la legge Bobbio: oltrechè incostituzionale, è pure «irragionevole», visto che i magistrati vanno in pensione a 75 anni. Il risultato, si capisce, è la paralisi del Csm, ora costretto a riaprire tutti i concorsi in cui gli «over 66» avevan fatto ricorso al Tar contro la legge Bobbio. Costoro potranno rientrare in partita. Caselli invece, destinatario unico della legge, ormai è tagliato fuori. Grasso infatti si dice «contento» per la bocciatura di una legge che - assicura oggi - «non ho condiviso». Poteva dirlo prima.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIO l’Unità (22 Giugno 2007)

È LUI O NON È LUI

Sarà anche una mossa abile, quella di Uòlter Veltroni di non citare mai, nelle quasi due ore del suo discorso al Lingotto di Torino, il nome di Silvio Berlusconi. Parlare e agire come se il Cavaliere non esistesse più potrebbe anche aiutare chi, nel centrodestra, lavora per scaricarlo. Ma c’è un piccolo problema: Berlusconi c’è ancora. Ha ancora tre televisioni di sua proprietà, anzi ne ha aggiunta una, la leggendaria Tv delle Libertà a cura della signorina Brambilla, che pubblica anche il neonato Giornale delle Libertà allegato a Il Giornale. Possiede la Mondadori, anche se una sentenza d’appello ha stabilito che la rubò a De Benedetti grazie a una sentenza comprata da Previti con soldi Fininvest. Ha tuttora la maggioranza nel Cda Rai, dove il diktat bulgaro e post-bulgaro continua a valere per Luttazzi e la Guzzanti. Ha in tasca 2 miliardi di euro che, come lui stesso ha confessato in una straziante intervista ad “A”, “non so come spendere”. Ha appena rilevato Endemol, che occupa gran parte dei palinsesti di Mediaset e della Rai (che d’ora in poi pagherà lui per mandare in onda i programmi della ditta). Fininvest ha appena aumentato la sua partecipazione in Mediobanca. Rete4, in barba a due sentenze della Consulta, continua a trasmettere sull’analogico terrestre, occupando frequenze che dal 1999 non potrebbe più usare, avendo perduto la gara per le concessioni pubbliche vinta da Europa 7 da Francesco Di Stefano, il quale ora spera di avere quel che gli spetta dalla Corte di giustizia europea, dove il governo Prodi, come il governo Berlusconi, ha difeso la legge Gasparri, cioè Rete4. Il risultato è che in tv, salvo rare oasi, si continua a parlare soltanto di quel che vuole Lui. Il quale intanto ha quasi risolto i suoi guai giudiziari: i pochi processi ancora in corso (corruzione di Mills e diritti Mediaset) cadranno in prescrizione grazie alla legge ex Cirielli e alla controriforma del falso in bilancio che l’Unione non ha ancora avuto il coraggio di smantellare. Uno dei suoi lobbisti di più stretta osservanza e di più antica data, Gianni Letta, è appena entrato in Goldman Sachs come superconsulente e viene incredibilmente elogiato da esponenti del Pd a cominciare da Veltroni (che lo vorrebbe addirittura in un suo eventuale futuro governo). Grazie alla tremebonda maggioranza unionista alla Camera, Berlusconi è riuscito finora a conservare il seggio parlamentare al suo braccio

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destro Cesare Previti, che pure da 14 mesi è pregiudicato e interdetto in perpetuo. Il suo braccio sinistro Marcello Dell’Utri colleziona condanne su condanne (oltre a quella per mafia in primo grado e quella per false fatture definitiva, ne ha appena avuta una in appello per estorsione insieme a un boss mafioso), ma nessuno ne parla e anzi il noto bibliofilo che prese per buoni i falsi diari del Duce continua a essere considerato un valido e colto interlocutore a destra e a sinistra, intervistatissimo da giornali e tv su tutto lo scibile umano, fuorché sulle sue pendenze giudiziarie e i suoi rapporti conclamati con la mafia. In compenso, grazie anche al dilettantismo dell’Unione e alle pessime frequentazioni di alcuni suoi dirigenti, la propaganda berlusconiana è riuscita addirittura a rinfacciare la questione morale al centrosinistra, dipingendo la maggioranza come un covo di affaristi e Vincenzo Visco come una sorta di Al Capone redivivo che - chiedono a una sola voce il Giornale, Libero e la Cdl - “dovrebbe dimettersi”. Ecco: Berlusconi, Dell’Utri e Previti in Parlamento (per tacere degli altri 23 pregiudicati, quasi tutti forzisti), e Visco a casa. La vicenda della Guardia di Finanza è stata gestita come peggio non si poteva: bastava spiegare un anno fa perché alcuni ufficiali milanesi e il loro protettore Speciale andavano rimossi, e nessuno avrebbe potuto obiettare alcunché, visto che Tremonti a suo tempo aveva fatto altrettanto e visto che la legge assegna al ministro delle Finanze l’ultima parola su ogni nomina alle Fiamme Gialle. Ma di qui a chiedere le dimissioni del ministro per qualche telefonata di fuoco a un generale, ce ne corre (semmai c’è da domandarsi perché, quando al governo c’era lui, il centrosinistra non chiese mai le dimissioni del premier imputato, anzi tutti lo invitavano a restare e zittivano i girotondi che invocavano un po’ di pulizia). Forse, prima di dare Berlusconi per morto, bisognerebbe consultare un medico legale. A vederlo così, scoppia di salute.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità (30 Giugno 2007)

lunedì, 18 giugno 2007 BERTINOTTI E MARINI: C’È POSTA PER VOI.

Gentili On. Fausto Bertinotti e Sen. Franco Marini, in qualità di presidenti delle Camere siete giustamente preoccupati per la marea montante di antipolitica che sta travolgendo il sistema dei partiti. L'impressione che si ha, però, è che non abbiate ben capito da cosa deriva. Ancora l'altro giorno avete chiesto spiegazioni al Tribunale di Milano sul deposito della perizia del gip Forleo con le trascrizioni delle telefonate dei furbetti intercettati al telefono con i loro amichetti politici, denunciando inesistenti violazioni dell'immunità parlamentare. Lo stesso han fatto i ministri Amato e Mastella. La domanda è: ma lo sapete cosa prevedono le leggi che voi stessi approvate?

La legge Boato, varata nel 2003 da destra e sinistra a braccetto, impedisce ai giudici di usare la telefonata di un indagato che parla dei suoi delitti, se dall'altro capo del filo c'è un parlamentare. Per usarla a carico dell'indagato, devono chiedere il permesso al Parlamento. Dunque, prima, devono farla trascrivere da un perito fonico. E poi non possono tenersela per sé, ma devono depositarla alle parti: pm e avvocati. E quando le depositano non sono più segrete, visto che il codice di procedura del 1989 prevede la discovery progressiva degli atti, man mano che diventano noti agli indagati. Appena finiscono in mano agli avvocati, la carte non sono più segrete. E la gente le deve conoscere, per controllare in diretta l'attività dei magistrati, che altrimenti agirebbero per anni nell'ombra. Queste leggi le avete fatte voi. Siete voi che avete abolito il segreto istruttorio, che copriva tutte le indagini.

Ora i giudici, semplicemente, applicano quelle leggi. Di che vi lagnate? E perché lo fate proprio ora, dopo 18 anni, solo perché ci va di mezzo qualche membro del club? Tra l'altro avete ottenuto un bel risultato: le vostre pressioni sui giudici li hanno indotti a vietare le fotocopie e a consentire solo gli appunti, col risultato che i giornalisti lavorano con brandelli di telefonate, quelli che convengono agli avvocati. E ora volete approvare anche al Senato la legge-bavaglio

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Mastella che abolirà la cronaca giudiziaria, segretando tutto fino al processo, in certi casi addirittura fino a sentenza d'appello. E siete tutti d'accordo, destra e sinistra amorevolmente insieme, come quando vi aumentate lo stipendio, o ritoccate i finanziamenti ai partiti, o votate l'indulto (anzi l'autoindulto), o regalate l'immunità ai membri del club che offendono privati cittadini, mentre il privato cittadino che osa parlar male di voi lo seppellite sotto raffiche di querele e cause civili miliardarie.

Ma non vi rendete conto che la casta e l'antipolitica nascono proprio qui? Che la colpa dell'antipolitica è questa politica, siete voi, non qualche trasmissione o libro che vi criticano? O davvero pensate di risolvere il problema tagliando qualche stipendio o qualche consulenza? Il caso delle scalate bancarie è sotto giudizio della magistratura, per gli aspetti penali. Ma già ora, con quel che è emerso, è un grave caso di conflitto d'interessi, di turbativa del mercato, di invasione di campo della politica nel campo dell'economia o dell'economia nel campo della politica. E voi, che ogni due per tre rivendicate il "primato della politica" contro i giudici che applicano le vostre leggi, non vi accorgete che dalle telefonate intercettate emerge il primato dei furbetti e degli affaristi sulla politica.

Non solo sui Ds, il cui segretario si faceva scrivere i testi da Consorte e il cui Lider Massimo si occupava di pacchetti azionari. Ma anche su esponenti di Forza Italia, Lega, Udc e Margherita. E su Berlusconi, che riceveva il banchiere ladro Fiorani nella sua villa in Sardegna con tanto di cactus o faceva cene elettorali con Gnutti, e di riffa o di raffa era coinvolto in tutte e tre le scalate: a quella di Bpl su Antonveneta partecipava Mediolanum; quella di Ricucci su Rcs era amorevolmente seguita dai fedelissimi Comincioli e Cicu; a quella di Consorte, Fininvest partecipava in quanto azionista di Hopa, la finanziaria di Gnutti che metteva insieme Biscione, Unipol e Montepaschi. Ma, essendo il padrone dell'informazione, riesce a far parlare solo di Unipol, dove non c'è politico indagato, e a far dimenticare se stesso, amici e alleati. Come può l'on. Bertinotti affermare che non c'è questione morale? Come potete legiferare sul conflitto d'interessi se non riuscite a vederlo neanche quand'è grosso come una casa?

La casta non crea antipolitica solo perché spreca troppi soldi o perché il piccolo Buttiglione vuole pure il gelato alla buvette. Molto nobilmente, il sen. Selva s'è dimesso per aver usato un'ambulanza come un taxi, fingendosi moribondo per arrivare prima in tv. Ed è bastato l'annuncio perché si smettesse di parlare del fatto e si elogiasse il senatore per il bel gesto, finora a costo zero. Vedremo se l'aula accoglierà le dimissioni: l'esperienza insegna che le respingerà. Anzi si spera che le respinga. Sarebbe curioso un Parlamento che espelle uno del club per abuso di ambulanza e continua a tenersi da 13 mesi, a nostre spese, un pregiudicato per corruzione giudiziaria interdetto in perpetuo dai pubblici uffici come Previti; un condannato in primo grado per mafia, in appello per estorsione e in Cassazione per frode fiscale come Dell'Utri; e altri 23 pregiudicati anche per reati gravissimi, come l'omicidio.

Due condannati per corruzione li avete designati voi, presidenti Bertinotti e Marini, alla commissione Antimafia. Ecco, i cittadini non capiscono perché un condannato non può fare il bidello o il consigliere di circoscrizione, ma il parlamentare e il ministro sì. E quando vede che vivete al di sopra delle leggi che voi stessi approvate, ha come l'impressione che siate al di sotto di ogni sospetto. Aiutateci, vi prego, a scacciare questi cattivi pensieri. In attesa di un cortese riscontro, porgo distinti saluti.

Posta prioritariaMarco TravaglioAnnozero (14 giugno 2007)

mercoledì, 13 giugno 2007 CLEMENTINA FACCI SOGNARE

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L’attento e fedele lettore meulen mi segnala l’eccellente pezzo di Marco Travaglio, uscito sul sito www.marcotravaglio.it per il motivo che lo stesso giornalista indica nell’articolo. Ringrazio doppiamente meulen, non soltanto per la cortese comunicazione, ma anche perchè si tratta di un ottimo scritto in cui trasuda tutta l’indignazione civile di Travaglio. Considerata la sua rilevanza lo posto in entrambi i miei blog certo di far cosa gradita a molti. Sperando che il faro di Marco Travaglio resti ancora acceso. Se, infatti, gli editori del glorioso giornale dell’altrettanto glorioso Partito Comunista Italiano (un tempo) stanno accanendosi contro il precedente e l’attuale direttore dell’Unità, penso che a maggior ragione possano avere campo libero nei confronti di un collaboratore. Ma qui vorrei tanto sbagliare ed eccedere in pessimismo, per quanto giustificato.Oggi l’Unità non sarà in edicola per uno sciopero sacrosanto (gli editori stanno cercando di far fuori il direttore Antonio Padellaro e di rimetter mano al contratto di collaborazione di Furio Colombo). Dunque non uscirà nemmeno la rubrica “Uliwood Party”. Chiedo ospitalità al sito per dire quel che penso delle intercettazioni del caso Unipol.

Se in Italia non esistesse Berlusconi con la fairy band dei Previti e dei Dell’Utri, ce ne sarebbe a sufficienza per chiedere le dimissioni di Massimo D’Alema da vicepremier, di Piero Fassino da segretario dei Ds e di Nicola Latorre da vicecapogruppo dell’Ulivo al Senato. Quello che emerge dalle loro telefonate con Giovanni Consorte (e, nel caso di Latorre, anche con il preclaro “compagno” Stefano Ricucci) ha un solo nome: conflitto d’interessi, e dei più gravi. Naturalmente tutto il dibattito è falsato dalla presenza in Parlamento di Berlusconi e della fairy band, al cui confronto il gravissimo conflitto d’interessi Ds-Unipol-coop rosse impallidisce. Ma in un paese normale (espressione cara a D’Alema), nel quale dunque Berlusconi & C. fossero già stati sbattuti fuori dalla vita pubblica, i telefonisti rossi se ne dovrebbero andare su due piedi. Fassino doveva incontrare il banchiere Luigi Abete (chissà perché, poi) e non sapeva cosa dirgli: perciò chiedeva a Consorte di scrivergli i testi. Poi si lamentava perché Chicco Gnutti era andato a una cena elettorale di Berlusconi: credeva che anche lui fosse un “compagno”, solo perché aveva partecipato all’orrenda scalata Telecom insieme a Consorte e Colaninno, e osservava che Gnutti stava puntando sul cavallo sbagliato, il Cavaliere, che prevedibilmente di lì a un anno avrebbe perso le elezioni.

Intanto Latorre amoreggiava con Ricucci, un tipo che Enrico Berlinguer non avrebbe sfiorato nemmeno con una canna da pesca. Ci scherzava, lo trattava da pari a pari, faceva il tifo per lui. D’Alema, che com’è noto è molto intelligente, avvertiva Consorte delle possibili intercettazioni telefoniche (“attenzione alle comunicazioni”) parlandogli al telefono: una mossa davvero geniale, machiavellica, volpina. Poi lo esortava ad “andare avanti” nella scalata alla banca romana, abbandonandosi a un tifo da stadio (“facci sognare!”). E si occupava personalmente della quota detenuta in Bnl da Vito Bonsignore, pregiudicato per corruzione nonché

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europarlamentare dell’Udc.

Stiamo parlando dei tre massimi dirigenti de Ds che, due estati fa, negavano spudoratamente di essersi occupati dell’Opa di Unipol alla Bnl, affermando di essersi limitati a rivendicare il buon diritto dell’assicurazione delle coop rosse a partecipare alla contesa bancaria. Latorre negava addirittura di aver passato il suo telefono a D’Alema perché parlasse con Consorte. I cavalli sui quali questi insigni statisti puntavano sono poi finiti tutti sotto inchiesta per gravissimi reati finanziari. Ricucci addirittura in galera e in bancarotta. Consorte e Gnutti hanno condanne non definitive per insider trading. Se questa non è una gigantesca “questione morale”, come solo Parisi, Di Pietro e pochi altri politici dissero fin dall’estate 2005, non si sa proprio che cosa lo sia. Ma, nelle reazioni del Botteghino alla divulgazione di brani di intercettazioni, non c’è un’ombra di autocritica, di ripensamento, di riflessione. Anzi si sentono e si leggono frasi copiate pari pari dalla propaganda berlusconiana e craxiana: “veleni”, “attacco”, “operazione scandalistica”, fughe di notizie”, “circuito mediatico-giudiziario”. Condite con attacchi vergognosi alla giudice Clementina Forleo, che ha fatto semplicemente il suo dovere, applicando una legge demenziale - la Boato - varata da destra e sinistra amorevolmente a braccetto nell’estate 2003. Se ieri, per tutta la giornata, sono usciti brandelli di intercettazioni, è soltanto perché, con una decisione giuridicamente inedita quanto discutibile, il vertice del Tribunale di Milano ha stabilito che gli avvocati difensori degli 83 indagati del caso Antonveneta potessero soltanto prendere appunti dalle centinaia di pagine di trascrizioni, ma non prelevarne copia. Se, come dovrebbe avvenire in un paese civile, e come infatti avviene in America e in Inghilterra, gli atti giudiziari non più segreti venissero messi integralmente a disposizione delle parti e anche della stampa, si saprebbe tutto subito, e si eviterebbe di costringere i giornalisti a pendere dalle labbra di questo o quell’avvocato, a fidarsi dei loro appunti non certo completi né disinteressati. Chi è causa del suo mal, pianga se stesso. Ma qui non c’è alcun “attacco”, nessuna “operazione”, nessun “circuito mediatico-giudiziario”. Si chiama, molto più semplicemente, “informazione”. I cittadini da oggi sanno qualcosa in più delle scalate bancarie illegali all’Antonveneta, alla Bnl e alla Rcs avviate dai furbetti del quartierino sotto l’alta protezione dello sgovernatore Fazio, dell’allora premier Berlusconi, dei vertici dei Ds, della Lega Nord e di Forza Italia (ci sono anche i berlusconiani Cicu, Grillo e Comincioli, al telefono con Fiorani). Ed è doveroso che sappiano, visto che su quelle telefonate il Parlamento sarà chiamato molto presto a votare pro o contro l’autorizzazione a usarle nei processi ai furbetti. Invece il senatore-avvocato Guido Calvi, già difensore di Ricucci e di D’Alema, nonché attuale difensore dell’ottimo Geronzi, dunque in pieno conflitto d’interessi anche lui, dice cose assurde contro i giudici di Milano e contro i giornalisti. Invoca interventi della Procura per “bloccare” le notizie che doverosamente la libera stampa fornisce ai cittadini. E chiede l’immediata approvazione al Senato della legge-bavaglio-Mastella, già varata dalla Camera con maggioranza bulgara: tutti i partiti affratellati, nessuno escluso. I voti del centrodestra all’ennesima porcata non mancheranno: Berlusconi ha già solidarizzato con D’Alema e D’Alema ha già solidarizzato con Berlusconi per la

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splendida contestazione (uova a parte) subìta da Bellachioma a Sestri Ponente. E la Cdl ha già annunciato con non userà politicamente quelle telefonate, onde evitare che a qualcuno, a sinistra, salti in mente di usare i gravissimi reati della fairy band berlusconiana per rinfacciare finalmente la questione morale alla destra.

Persino Veltroni perde la testa e vaneggia di “crisi del sistema democratico”: ma non per il contagio del conflitto d’interessi che infetta il maggior partito della sinistra, bensì perché è finalmente affiorato alla luce del sole. Come se il problema non fosse ciò che i suoi compagni dicevano al telefono con personaggi ben poco raccomandabili, nel pieno di un’Opa e di una contro-Opa, in spregio alle più elementari regole del libero mercato; ma il fatto che finalmente tutto ciò stia venendo fuori. Hai la faccia sporca? Invece di andarti a lavare, dai la colpa allo specchio che la riflette. E tenti di romperlo, lo specchio, per non vedere mai più la faccia sporca. Che schifo.

Marco Travaglio

12 giugno 2007

venerdì, 08 giugno 2007 DISCORSO SPECIALE

Questo è il discorso che ieri Prodi non ha pronunciato al Senato

Gentili senatrici e senatori, abbiamo sbagliato. Ha sbagliato Visco a non spiegare subito, nel luglio scorso, perché voleva il cambio della guardia al vertice delle Fiamme Gialle milanesi. Come viceministro delegato ne aveva il potere (quando le stesse cose le faceva Tremonti non fiatava nessuno, anche perché all’opposizione c’eravamo noi, e dormivamo). Ma ha sbagliato il modo: se pensava che quegli ufficiali avessero fatto qualcosa di male, doveva dire cosa; se li riteneva colpevoli della fuga di notizie sulla telefonata Fassino-Consorte al Giornale, non aveva che da dirlo. Invece ha fatto tutto in via riservata, alimentando sospetti di conflitti d’interessi su Unipol e fidandosi del comandante Speciale, uno che basta guardarlo in faccia per capire che ti frega. L’errore di partenza ne ha prodotti altri a catena: sabato abbiamo cacciato Speciale, ma nemmeno stavolta abbiamo spiegato chi è e perché lo Stato non può fidarsi di lui. Solo oggi il ministro Padoa-Schioppa analizzando vita e opere non edificanti del comandante licenziato ci ha fatto capire quel perché. Costui fa parte del giro del generale Pollari, che ha trasformato il Sismi in una palude di dossier illegali, veline fasulle e stecche a giornalisti compiacenti e, pare, addirittura di sequestri di persona. Ma anche su Pollari abbiamo sbagliato: scaduto al Sismi, l’abbiamo nominato giudice del Consiglio di Stato, lui che è imputato di sequestro di persona; l’abbiamo coperto col segreto di Stato, salvo poi fare retromarcia; e l’abbiamo pure nominato consulente di Palazzo Chigi anziché spedirlo a casa. Idem per Pio Pompa, pure lui coinvolto nei dossier e nel sequestro Abu Omar: l’abbiamo tolto dal Sismi e promosso dirigente del ministero della Difesa. Lo stesso errore abbiamo commesso con Speciale offrendogli un posto alla Corte dei Conti, come se questa fosse la discarica pubblica, anziché spedirlo a casa e spiegare al Paese perché non poteva più comandare la Guardia di Finanza, anche se piace molto a Fiorello. Ecco: in tutti i nostri errori s’è incuneato

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come lama incandescente nel burro il centrodestra. Che, diversamente da noi, sa come fare l’opposizione. Quando l’Unità e altri giornali amici denunciavano le porcate della Banda Berlusconi, infinitamente più gravi dei nostri recenti errori, noi li invitavamo a non «demonizzare». Quando i girotondi scendevano in piazza contro le leggi vergogna, li snobbavamo o li accusavamo di radicalismo e giustizialismo, alla ricerca di un fantomatico «dialogo col Cavaliere». Ora ce lo insegna lui come si fa l’opposizione: il suo Giornale racconta le nostre pagliuzze, la Cdl ne fa una battaglia politica, e noi che potremmo rispondere con le sue travi ce ne stiamo zitti. Se penso che Berlusconi solo un mese fa veniva applaudito al congressi Ds e Dl e addirittura invitato a entrare in Telecom, mi viene da piangere. Così lui oggi ci dà lezioni di morale, con i suoi Previti, i suoi Dell’Utri, i suoi 7 reati prescritti, i suoi fondi neri, il suo processo per evasione fiscale, i suoi condoni. E atteggiarsi a difensore della Gdf, lui che la definiva «associazione a delinquere». Ma ora basta. D’ora in poi ricorderemo chi sono Berlusconi e la sua banda. Comincio subito. Il capo dei servizi fiscali della Fininvest Salvatore Sciascia fu condannato in Cassazione per corruzione della GdF. Credete che l’abbiano cacciato? Come scriverà domani Franco Bechis su Italia Oggi, è socio di Michela Vittoria Brambilla nella Vittoria Media Partners Srl, editrice del Giornale delle Libertà. Se l’on. Massimo Maria Berruti volesse, potrebbe raccontarci di quando, capitano delle Fiamme Gialle, condusse un’ispezione valutaria all’Edilnord e interrogò Berlusconi sulle sigle svizzere retrostanti le sue società. Era il 1979. Lui si spacciò per «un semplice consulente», mentre era il proprietario. Berruti bevve tutto, archiviò e si dimise dal corpo. E andò a lavorare in Fininvest. Nel ‘94 fu arrestato e poi condannato a 1 anno e 8 mesi per i depistaggi sulle tangenti alla Gdf, dunque è deputato di Forza Italia. Per ora basta così, il resto alla prossima puntata. Ora scusate, ma devo correre a cancellare le leggi vergogna, perché non resti traccia del berlusconismo.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità (7 Giugno 2007)

giovedì, 07 giugno 2007 FINE PENA SEMPRE

NeI 1999 l’Ulivo vara la riforma del «giudice unico». La legge attuativa «Carotti» estende il giudizio abbreviato a tutti i delitti, compresa la strage: basta scegliere il rito alternativo, e scatta automatico lo sconto dl un terzo della pena. Così gli stragisti, anziché l’ergastolo, rischiano al massimo 30 anni, che coi benefici della Gozzini diventano 20 e consentono i primi permessi dopo 10. Così i boss mafiosi arrestati dopo le stragi del 1992-93 fino ad allora rassegnati all’idea di restare dietro le sbarre per tutta la vita, contano gli anni (pochissimi) che li separano dalla scarcerazione. I pm antimafia e i parenti della vittime ricordano che in cima al «papello» consegnato da Totò Riina nei primi anni 90 ai suoi referenti politici col programma della mafia c’era proprio l’abrogazione dell’ergastolo e del 41-bis. Ma è tutto inutile. Il 23 ottobre 2000, nell’aula bunker della Corte d’assise d’appello di Firenze, Totò Riina, Giuseppe Graviano e altri 15 boss condannati in primo grado all’ergastolo per le bombe del ‘93 a Milano, Firenze e Roma ne approfittano: si alzano nelle gabbie e chiedono alla Corte il rito abbreviato per scendere dall’ergastolo a 30 anni. Stavolta, dinanzi alla prospettiva concreta di veder uscire in poco tempo gli stragisti del 1992-’93 e alle proteste dei familiari delle vittime dei Georgofili, il governo Amato ingrana la retromarcia e corre ai ripari in tutta fretta: il 23 novembre vara un decreto che esclude dal rito abbreviato i mafiosi processati per omicidio o strage: chiunque, oltre al delitto

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di sangue, risponda anche di un altro reato (tipo l’associazione mafiosa) viene condannato all’ergastolo più l’isolamento diurno. Che gli viene revocato con lo sconto dell’abbreviato, mentre l’ergastolo rimane. E, per qualche anno, non se ne parla più. Il 12 luglio 2002, dopo un anno di governo Berlusconi, Cosa Nostra torna a farsi viva: Leoluca Bagarella, dalla gabbia di un processo tuona contro i «politici che non mantengono le promesse» e «ci usano come merce di scambio». Altri mafiosi inviano ultimatum al loro difensori eletti con la Cdl perché si decidano a tradurre in legge il famoso papello. Alcuni onorevoli avvocati vengono precipitosamente dotati di scorta, e con loro anche Previti e Dell’Utri che – secondo il Sisde - potrebbero rischiare rappresaglie mafiose: stavolta Cosa Nostra non colpirà più personaggi immacolati come Falcone e Borsellino. La mafia affigge pure uno striscione allo stadio di Palermo: «Uniti contro il 41 bis. Berlusconi dimentica la Sicilia». Il governo Berlusconi vara una legge che stabilizza il 41-bis (finora rinnovato per decreto dl sei mesi in sei mesi): pare una norma più severa, in realtà ha l’effetto opposto. Se prima era difficilissimo per i boss far revocare il 41-bis, visto che i tempi dei ricorsi erano più lunghi di quelli delle proroghe semestrali e ogni volta bisognava ricominciare da capo, ora che il regime è definitivo c’è tutto il tempo per chiederne e ottenerne l’annullamento. Risultato: solo nell’ultimo anno, a cavallo tra il governo Berlusconi e il governo Prodi, 89 boss e killer mafiosi su 526 escono dal 41-bis. Ma, anche per chi ancora vi soggiace, il carcere duro è sempre più molle. E c’è chi, come l’onorevole avvocata Bongiorno, vorrebbe addirittura abolirlo. Resta un solo punto del «papello» da realizzare: l’ergastolo. Purtroppo si sta provvedendo anche a quello, con una coazione a ripetere tutti gli errori del passato che lascia basiti. Mentre 310 ergastolani su 1294 (tra cui i killer di Livatino e Siani) scrivono a Napolitano, la rifondarola Luisa Boccia presenta un ddl per abolire il «fine pena mai». e lo stesso annuncia Giuliano Pisapia, che riscrive il Codice penale per il governo Prodi. Il sottosegretario Manconi è d’accordo. Naturalmente sono tutte brave persone e possono fare ciò che vogliono. L’importante è avere chiare le conseguenze. Gli ergastolani arrestati dopo le stragi scenderebbero a 30 anni di pena, che poi, con la liberazione anticipata per «regolare condotta» sono 20. Avendone già scontati 13-14, uscirebbero fra 6-7, anzi fra 3-4 ai servizi sociali. E potrebbero chiedere subito semilibertà e permessi premio. Non bastava l’indulto? E’ sicura la maggioranza di voler completare il papello di Riina e di affrontare la scarcerazione di mafiosi e terroristi? Ci facciano sapere.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità (6 giugno 2007)

L'OMETTO QUALUNQUETira una cert'aria furbetta, intorno al dibattito sulla crisi della politica e sul possibile "nuovo 1992": è vero, anche stavolta c'è un referendum elettorale; anche stavolta i cittadini si sentono sudditi e non ne possono più; la casta degl'intoccabili trova di nuovo mille marchingegni per finanziarsi alle nostre spalle e dalle nostre tasche;la corruzione supera di nuovo i livelli di guardia. Ma stavolta mancano i nomi. Mani Pulite ebbe il merito di rivelare chi rubava, e quanto, e chi no. Checché se ne dica, la responsabilità era ed è personale. Ora però non si fanno nomi. Tutto sporco, tutto sbagliato, tutto da rifare. Così Bellachioma punta su una Signora Nessuno, tale Brambilla, per la successione. E Monteprezzemolo, per il «nuovo che avanza», punta su quanto di più vecchio sia su piazza: se stesso, simbolo di un capitalismo senza capitali e di un mercato senza mercato. Si fa presto a dire che la politica è in crisi. Poi condannano il senatore Dell'Utri per estorsione in combutta con un boss, e tutti zitti. Poi la Camera continua a trovare il modo di non cacciare Previti, interdetto

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in perpetuo dai pubblici uffici da ben 13 mesi, e nessuno dice nulla. Poi la giunta per le elezioni nega ai giudici l'autorizzazione all'uso delle intercettazioni sull' ex ministro Matteoli, imputato di favoreggiamento in una brutta storia di abusi all'Elba, e non una parola. Poi il ministro dell'Interno Giuliano Amato va a predicare la legalità a Palermo nel XV anniversario della strage di Capaci. E uno studente, col candore del bambino che urla «re è nudo», lo interrompe: «In Parlamento siedono 25 indagati. Come fate a combattere la mafia?». In realtà i 25 sono i condannati definitivi. Poi ci sono i parlamentari indagati o imputati o condannati in primo o secondo grado: una settantina. Totale: un centinaio, oltre il 10% degl'inquilini delle Camere. E Amato come risponde? Testuale: «So cos'è la lotta alla mafia, ma tu sembri un piccolo capo populista. Occorre distinguere le condanne: ci sono reati minori». Per la verità in Parlamento (addirittura in commissione antimafia) siedono condannati per omicidio, corruzione, concussione, finanziamento illegale, falso in bilancio, concorso esterno in associazione mafiosa, estorsione, lesioni, percosse, incendio, truffa, peculato. Sarebbero questi i reati minori? Quali sarebbero, eventualmente, i reati maggiori? E, anche ammettendo che siano tutti minori: in quale paese un ministro dell'Interno giustificherebbe la presenza in Parlamento di decine di condannati e imputati perché hanno commesso «solo» reati minori? Il Parlamento è il luogo dove si fanno le leggi: come possono sedervi persone che le leggi le fanno e poi le violano, o le violano mentre le fanno, o le hanno violate prima di farle? Che c'è di populista nel chiedere che questa gente, che già oggi non può far parte dei consigli circoscrizionali, comunali, provinciali e regionali, sia incompatibile anche con la carica di parlamentare, di ministro, di presidente del Consiglio e della Repubblica? L'altra sera abbiamo appreso da Report che l'ex ministro della Malasanità Francesco De Lorenzo, condannato in via definitiva a oltre 5 anni per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e ad altri reati (minori?), è tornato all'università Federico II di Napoli. Quale materia può insegnare un docente con quel pedigree? Il ministro Nicolais ha varato una legge che prevede nel pubblico impiego l'immediato licenziamento dei condannati a più di 2 anni. Ma una statistica illustrata dal giudice Davigo e dalla professoressa Mannozzi dimostra che, tra patteggiamenti, riti abbreviati e indulti, i corrotti e corruttori che superano i 2 anni di pena sono l'1,7%. Gli altri restano sotto la soglia, e seguiteranno a infestare la pubblica amministrazione. Senza contare i miracolati dalla prescrizione. Navigo ha proposto di licenziare semplicemente i condannati, non importa a quale pena; e di costringere il pubblico funzionario imputato a rinunciare alla prescrizione, per essere assolto nel merito: se è innocente, dovrebbe pretenderlo. Se invece arraffa la prescrizione, che è riservata ai colpevoli, andrebbe licenziato comunque. Nicolais ha balbettato: bisogna distinguere tra condanne "lievi" e "pesanti". Vuol dire che per servire lo Stato basta tradirlo solo un po'?

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIO l’Unità (25 maggio 2007)

venerdì, 18 maggio 2007 SILENZIO, SI MAFIA

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Due giorni fa la Corte d'appello di Milano ha confermato la condanna di Marcello Dell'Utri e del boss mafioso Vincenzo Virga a 2 anni di reclusione per tentata estorsione aggravata ai danni dell'imprenditore Vincenzo Garraffa. Nessun telegiornale ha dato la notizia. Così come nessun quotidiano, a parte un paio di trafiletti sul Corriere e su l'Unità. Il che è comprensibile: visti i suoi rapporti con la mafia, Dell'Utri fa paura. E i giornalisti italiani, come pure i loro editori, tengono famiglia. Si sarebbero scatenati con fior di articoli, commenti e interviste se fosse stato assolto, come la settimana scorsa quando la stessa Corte ha dichiarato innocente Berlusconi per la tangente che, con i suoi soldi, il suo avvocato pagò a un giudice. Ecco: per sapere che Dell'Utri è sotto processo per estorsione, bisogna sperare che lo assolvano. Se lo condannano, nessuno ne parla e nessuno lo sa. Ma forse è meglio così: stiamo parlando del braccio destro di Berlusconi, ideatore di Forza Italia, senatore della Repubblica, membro del Consiglio d'Europa, già condannato in via definitiva a 2 anni per false fatture e a 9 anni in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa. Per molto meno si sciolgono i consigli comunali, qui bisognerebbe sciogliere il Parlamento.

La tentata estorsione riguarda un fatto del 1992, quando Publitalia intermediò una sponsorizzazione della Heinecken sulle magliette della Pallacanestro Trapani per 1,5 miliardi di lire. Ricevuto il denaro, il presidente del club Vincenzo Garraffa (medico e senatore del Pri) si vide chiedere indietro da Publitalia 750 milioni, cioè metà dell'incasso, ovviamente in nero. Rispose di non avere fondi neri e chiese la fattura. Niet. A quel punto - l'ha denunciato lui stesso ai giudici - Dell'Utri lo minacciò: «Le consiglio di ripensarci, abbiamo uomini e mezzi che possono convincerla a cambiare opinione». Di lì a poco, invitato al "Maurizio Costanzo Show" con tutta la squadra, ricevette la disdetta senz'alcuna spiegazione. Poi, un bel mattino, al pronto soccorso dove lavorava, andò a trovarlo Vincenzo Virga, capomafia di Trapani: gli disse di essere lì per quel «debito» con gli «amici» milanesi. Garraffa resistette e denunciò tutto alla Procura di Palermo, che trasmise il fascicolo a Milano. Di lì il processo e la doppia condanna. Che, se confermata in Cassazione, si aggiungerebbe a quella definitiva per false fatture, porterebbe il totale a 4 anni e Dell'Utri in carcere (l'indulto, almeno per i reati con aggravante mafiosa, non dovrebbe scattare).

Una notizia gravissima e importantissima. Invece, silenzio. Onde evitare che qualche giornale, magari per sbaglio, ne parlasse, l'Ansa l'ha nascosta sotto un titolo depistante: «Sponsorizzazioni: confermata in appello condanna Dell'Utri». Come se il pover' uomo fosse stato condannato perché sponsorizzava. Il testo, poi, è ancor meglio del titolo: «Dell'Utri era accusato, insieme a Vincenzo Virga, di tentata estorsione, in relazione alle modalità di sponsorizzazione della Pallacanestro Trapani...». Roba da bocciatura immediata all'asilo del giornalismo: non si dice che Vincenzo Virga è un capomafia arrestato dopo lunga latitanza per vari omicidi; e si fa

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credere che il processo riguardi «le modalità di sponsorizzazione», mentre si riferisce a un caso di vero e proprio racket mafioso, con un manager che, da Milano, manda il boss di Trapani a riscuotere un credito non dovuto, per giunta in nero, a un imprenditore siciliano. Del resto, se si sapesse in giro che un senatore della Repubblica è condannato per racket, sarebbe più difficile interpellarlo su qualunque cosa accada nella politica, nella cultura, nell'arte e nello spettacolo, come fa il fior fiore della stampa italiota dipingendolo come un vecchio saggio e un sopraffino bibliofilo (infatti ha preso per buona persino la patacca dei diari del Duce).

Martedì, giorno dell'ennesima condanna, il Corriere pubblicava un'intervista a Dell'Utri sulla sconfitta di Leoluca Orlando, definito dal senatore pregiudicato «un cadavere che cammina». Lo chiamavano così anche i mafiosi, tra gli anni 80 e i 90, quando lo volevano accoppare per le sue battaglie antimafia. L'ultima volta ci provarono i narcos, tre anni fa, in Sudamerica. Purtroppo fallirono il bersaglio, e il cadavere di Orlando ancora cammina. Altri, invece, hanno smesso di camminare nel 1992-'93. Avevano il grave torto di non frequentare Vittorio Mangano, Vincenzo Virga e Marcello Dell'Utri. Gentaglia.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl'Unità (17 maggio 2007)Don Verzé

Vita e miracoli del prete che cura per conto di dio

Fede e denaro L'irresistibile ascesa del San Raffaele, un impero con amici potenti dove non tramonta mai il sole

Luca Fazio

L'uomo d'affari (anche se il termine è riduttivo) ha un unico irrisolvibile complesso di inferiorità: «Solo l'Onnipotente è il Top Manager». Per evitare di cadere in tentazione e collocarsi al Top ha anche deciso di fondare una facoltà universitaria di teoantropologia: «Un termine di mio conio che esprime la tensione dell'uomo a indiarsi, a diventare come Dio». Appunto. Ama parlare di sé, ma ai giornalisti amici - ne ha tanti - si concede col contagocce. Però scrive libri. Titolo più significativo: Il carisma del denaro. Sempre ispirato dal mandato evangelico «guarite gli infermi», di soldi negli ultimi 57 anni ne ha fatti girare a palate, da quando l'arcivescovo di Milano Alfredo Ildefonso Schuster lo chiamò per costruire un ospedale cristiano. E adesso, tolti gli ospedali di Emergency in Afghanistan, si usa dire che sull'impero di don Luigi Maria Verzé, classe 1920, «non tramonta mai il sole». Fra quelli funzionanti, o progettati, si estende dal Brasile alle Filippine, da Malta alla Polonia, dall'Algeria all'India fino alla Palestina...Un prete manager, modestamente parlando.

Ma il cuore del suo impero (il core business) è a Segrate, hinterland milanese, provincia di Berlusconi. Il presidente è più di un amico - «è un dono di Dio al nostro paese» - e prima di tutto è stato un generoso vicino di casa e di edificazione, almeno da quando don Verzé inaugurò il San Raffaele di Milano, il primo «mitico» ospedale lussuoso di Italia (oggi Fondazione San Raffaele del Monte Tabor). Il prete, quando gli si chiede conto dei suoi soliti amici, si schermisce. Craxi, un fratello, Formigoni e la lobby di Cl, soci di missione, i vertici delle banche e del capitalismo italiano, partner interessanti e interessati...ma che dire di Fidel Castro che si confida con lui sui mali dell'ex Urss come fosse un fratello, e di Arafat, e di Gheddafi, che per un contrattempo non riuscì a farsi curare nel suo ospedale a 12 stelle? Che, va detto, è all'avanguardia sotto il profilo medico e della ricerca scientifica - e accreditato con la Regione Lombardia, «curiamo i potenti e le persone normali con la stessa dedizione». Si estende su 300mila metri quadrati, con una capienza di 1.350

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posti letto, dà lavoro a 3.400 persone, l'inno ufficiale - Angelo Raffaele - è di Al Bano, un altro amico. Ma è solo un microcosmo se confrontato con l'impressionante espansione del «modello San Raffaele», un riferimento per l'Italia quanto a integrazione tra ricerca e gestione spregiudicatamente manageriale. Non si contano i dipartimenti scientifici e i centri diagnostici, le fondazioni attive in diversi paesi, le convenzioni stipulate con i dipartimenti di biotecnologie, con le università italiane e straniere, e con le industrie farmaceutiche. Ma don Verzé ha inventato qualcosa di più di una struttura sanitaria come Dio comanda, il suo è anche «un centro di pensiero umanistico», perché lui - il prete - ha sempre cercato di «mettere insieme le menti». Ecco perché, per la «sua» Libera Università Vita-Salute, reclutò il filosofo Cacciari per dirigere il dipartimento Filosofia (oggi fa il sindaco a Venezia e al suo posto c'è Galli della Loggia). Anche la stilista Miuccia Prada è stata sedotta dal don Verzé-pensiero, decidendo di finanziare la cattedra di Estetica con la bellezza di 300 mila euro. «Non è il denaro a fare le idee, ma le idee a fare denaro». www.ilmanifesto.it (17 maggio 2007)

venerdì, 13 aprile 2007 I DILETTANTI DELL'ANTIMAFIA

A furia di attaccare i «professionisti dell'antimafia», dobbiamo accontentarci dei dilettanti. Ma immaginiamo un turista straniero che visita l'Italia per le feste pasquali e s'imbatte nei titoli di giornale che annunciano con enfasi la storica decisione della commissione Antimafia: «Si sconsigliano vivamente i partiti dal candidare gli imputati e i condannati per mafia e reati affini alle prossime elezioni amministrative». L'unica reazione possibile è fermare un passante italiano e domandare: «Ma perché, finora da voi si potevano candidare gli imputati e i condannati per mafia?». Certo che si poteva. Anzi, si faceva. E si potrà continuare a farlo (il divieto non è vincolante). Solo che i partiti che lo faranno dovranno sottoporsi a una draconiana sanzione sociale: quella di «dare pubbliche spiegazioni». Le stesse che han dato finora, le rare volte che qualcuno le chiedeva: se Forza Italia candida Dell'Utri, condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa, o Gaspare Giudice, imputato per mafia, se l'Udc candida Cuffaro, imputato per favoreggiamento alla mafia, o Mannino, imputato per concorso esterno, è perché queste preclare figure di statisti sono «perseguitati dai giudici». L'ex pm onorevole forzista Nitto Palma ha già avvertito tutti, a scanso d'equivoci: «Continueremo a candidare i politici perseguitati».

Come si fa a distinguere un politico imputato o condannato da un politico perseguitato? Si fa così: se il politico è del tuo partito o di un partito alleato, è un perseguitato; se invece è di un partito avversario, allora non è un perseguitato e deve

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sparire. Ultimamente, però, c'è la tendenza a considerare perseguitati tutti i politici condannati o imputati, così una mano (sporca) lava l'altra. Oggi a me, domani a te.

Si spera che il turista straniero, già sconvolto da quei titoli, non venga a sapere che dell'Antimafia fanno parte due pregiudicati per corruzione e finanziamento illecito, Cirino Pomicino e Alfredo Vito, e un discreto numero di indagati. In pratica, Pomicino, dall'alto delle sue due condanne, e Vito, dall'alto del suo patteggiamento per 22 tangenti (con restituzione di 5 miliardi di lire di refurtiva) raccomandano ai partiti di attenersi alla più rigorosa legalità, evitando di candidare condannati (a parte loro due, si capisce). Non è meraviglioso?

Tutto ciò accade in un paese in cui, per essere ammessi a un incarico pubblico, bisogna esibire la fedina penale, e se questa non è immacolata non si può concorrere. Un paese in cui, per fare il carabiniere, bisogna non avere condanne, né processi, né parenti condannati o imputati. Un paese in cui i condannati per reati contro la pubblica amministrazione non possono candidarsi a consiglieri circoscrizionali, comunali, provinciali, regionali, né diventare assessori, né tantomeno sindaci o presidenti di provincia o di regione. Ma deputati e senatori sì, come pure ministri, sottosegretari, presidenti del Consiglio. Basterebbe estendere al governo, alla Camera e al Senato la legge degli enti locali. Ma dovrebbe proporla il governo e dovrebbero approvarla Camera e Senato. Il che, per la «contraddizion che nol consente», è una pia illusione.

Escludere imputati e condannati, poi, non basta: se uno ha commesso reati gravissimi, ma l'ha fatta franca per prescrizione (tipo Andreotti e Berlusconi), che si fa? Ci si accontenta dell'incensuratezza e si ignorano i reati accertati ma prescritti? E ritenere idoneo a ricoprire cariche pubbliche chiunque non abbia riportato rinvii a giudizio o condanne è già una resa all'immoralità: c'è una vasta gamma di comportamenti che non costituiscono reato, ma sono eticamente incompatibili con la «cosa pubblica». L'altro giorno hanno arrestato a Trapani, insieme a vari boss, l'ex vice di Cuffaro, Bartolo Pellegrino, che si spartiva le tangenti fifty fifty con i mafiosi. Anni fa era stato intercettato mentre definiva i carabinieri «sbirri» e «pezzi di cani», e i pentiti «infami». L'inchiesta fu archiviata, quella condotta non è reato: ma può fare politica uno che parla con e come i mafiosi? L'altroieri il senatore Ds Mirello Crisafulli - filmato nel 2002 a Pergusa mentre abbracciava e baciava il boss Bevilacqua e indagato con Cuffaro per rivelazione di segreti d'ufficio - è stato nominato dalla Camera nella commissione di vigilanza sulla Cassa depositi e prestiti. L'uomo giusto al posto giusto.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità (6 aprile 2007)Mastella scatenato: "Vogliono fottere i partiti più piccoli"

Clemente Mastella esordisce in una versione "senza filtri" e nella registrazione di Otto e Mezzo (stasera in onda su La7) attacca gli alleati e dichiara di aver trovato un feeling con Umberto Bossi.

Il guardasigilli confessa: "Mi sono sentito con Bossi e abbiamo convenuto che vogliono fotterci. Sono più d'accordo con lui e con la Lega, che con i miei.  I piccoli partiti - aggiunge - resistevano anche alle intemperie della prima Repubblica. Non vedo perché i piccoli partiti che hanno una tradizione debbano essere eliminati". Mastella è pronto a far di tutto per salvare l'Udeur (ma anche la Lega Nord), anche scatenare una nuova crisi di governo: il referendum non s'ha da fare. Punto e basta. "Berlusconi prende in giro i suoi e i miei alleati vogliono fottere noi. E' vero - ammette - che

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ci sono leggi di convenienza ma perché debbo accettare la convenienza della Margherita e non quella del mio partito?". http://www.barimia.info (13 aprile 2007)

giovedì, 29 marzo 2007 TELECAMERA DI CONSIGLIO

 

Bisognerebbe distribuirla nelle università, la requisitoria del sostituto procuratore generale Vittorio Corsi di Bosnasco al processo di Cogne. Soprattutto la parte in cui il magistrato illustra la storia di questo processo celebrato negli studi di Porta a Porta, Costanzo Show e Matrix (Mentana aveva promesso di non occuparsi mai di Cogne: infatti...) e giunto irrimediabilmente deformato nelle aule di giustizia. Dalle parole di questo magistrato all'antica, studiosi e studenti trarrebbero ricchi spunti di riflessione sugli ultimi lasciti del berlusconismo: la tv giudiziaria e la giustizia televisiva. Grazie a Vespa, a Mentana e all'avvocato Taormina, la signora Franzoni è stata la cavia su cui, per 5 anni, si è sperimentato il modello di difesa berlusconiano su un cittadino comune. Con effetti devastanti per il cittadino normale ma soprattutto per quel che resta dell'informazione e della giustizia in Italia. Che poi le requisitorie dei processi d'appello alla Franzoni e a Berlusconi siano arrivate lo stesso giorno, è una di quelle astuzie della storia che portano a credere nella divina provvidenza.

Cosa fa Giorgio Franzoni, padre dell'imputata, quando le cose per la sua «Bimba» si mettono male? Ingaggia un avvocato-deputato di Forza Italia, Taormina. «Voglio sentirgli dire - tuona al telefono - che aprirà un'inchiesta sui carabinieri», cioè sul Ris di Parma che ha il torto di indagare sulla figlia. Poi fa pressione su vari ministri di Berlusconi («Far intervenire il ministro della Difesa», «Nel governo abbiamo appoggi»). Sua moglie telefona alla segretaria del presidente della Camera Casini: «Mio marito conosce bene l'onorevole». Se Casini solidarizza pubblicamente con Dell'Utri alla vigilia della sentenza, darà una mano anche alla Bimba. Il resto lo fanno le interviste sapientemente dosate in tv e ai rotocalchi, le lacrime a comando («Ho pianto troppo?»), le gravidanze in serie, le foto in bikini col marito in Sardegna o nella piazza del paese, versione baby sitter con bambini, e le orde di tele-fans che sciamano verso il Tribunale di Torino, come nelle gite delle pentole e nelle visite alla Torre di Pisa, come i guardoni dei vip in Costa Smeralda.

Nel processo berlusconizzato e lelemorizzato i fatti non contano più nulla. Conta il reality show. L'imputato non è più la mamma rinviata a giudizio e condannata a 30 anni in primo grado, ma tutti gli altri, puntualmente denunciati da Taormina: i vicini di

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casa, i pm e il gip di Aosta, il colonnello del Ris, i consulenti del Tribunale, i giornalisti non allineati. «Se i giudici non scagioneranno la Bimba, dovranno essere distrutti», annuncia il patriarca Franzoni, mentre il premier Silvio distrugge i suoi («cancro da estirpare», «doppiamente matti»), tempestandoli di calunnie, denunce, ispezioni, procedimenti disciplinari. Come i colleghi avvocati-deputati del Cavaliere, Taormina provvede alla difesa «dal» processo: tira in lungo, denuncia e attacca tutti, da Aosta chiede di passare a Torino, e da Torino a Milano, e alla fine risulta pure lui indagato per certe false impronte lasciate dal suo staff per depistare.

«Questo - dice allibito il Pg - è uno dei casi più semplici di "figlicidio": le statistiche dicono che sono una ventina l'anno, perlopiù commessi da madri. Tanti sono rapidamente chiariti e dimenticati. Per questo, dopo 5 anni, ancora ci si domanda se l'imputata è innocente perché non confessa, o perché si teme di ammettere che un delitto così orrendo sia stato commesso da una madre "normale". Ma è il processo che è anomalo: la difesa l'ha imposto come se si venisse dal nulla, come se non ci fossero i fatti, le prove».

I fatti, le prove: roba da tribunali, non da tv, nel paese che affida le sentenze a Vespa, Palombelli, Crepet; nel paese dove chi racconta il bonifico da 434 mila dollari Berlusconi-Previti-Squillante è un pericoloso eversore. La mamma di Cogne, intercettata, aveva persino confessato («Non so cosa mi è success... cioè, cosa gli è successo»). Ma nessuno, nelle 73 puntate di Porta a Porta, ne ha mai parlato. Sennò il presunto «giallo di Cogne» finiva subito. E magari, poi, toccava raccontare come Berlusconi e Previti corruppero un paio di giudici, o come Andreotti mafiò per 30 anni. Non sia mai.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità (28 marzo 2007)

lunedì, 26 marzo 2007 (ARCHIVIO) 5 AGOSTO 2003Quelli che il lodo

Niente da fare, è più forte di lui. C’è chi il lodo ce l’ha nel sangue, nel Dna. Antonio Maccanico è uno di questi. Non può farne a meno: il lodo gli scappa. Come se gliel’avesse prescritto il medico: «Onorevole, me l’ha fatto il lodo? Mi raccomando, eh! Prima e dopo i pasti». E lui lo fa. Che si chiami governissimo (1996), legge sull’emittenza (1997), immunità incostituzionale per le alte cariche e soprattutto per una (2003), non si tira mai indietro. Ora incombe il pericolo che l’ultima vergogna, a legge Gasparri-Confalonieri, finisca male e Mediaset sia finalmente costretta a rispettare la legge e la Costituzione rinunciando a una rete «terrestre» su tre. Chi si lancia al salvamento? Antonio Maccanico, per gli amici Lodo. E cosa propone? Di salvare i fatturati Mediaset lasciando Rete4 al Cavalier Premier, ma trasformandola in «servizio pubblico a proprietà privata». Geniale. Chapeau. Berlusconi e Confalonieri saranno furiosi. Pare già di sentirli: noi siamo contrari, non ne sappiamo niente, però Maccanico ha tanto insistito... Diceva di lui Enrico Cuccia: «Riuscirebbe a mettere d’accordo due sedie vuote». Qui però almeno una sedia è piena: quella di Berlusconi.

Antonio detto Lodo, comunque, non è solo. L’altro giorno Berlusconi ha assicurato che Ciampi non aveva obiezioni sulla legge Gasparri. Qualche minuto dopo Ciampi ha

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comunicato di non aver mai parlato con lui dell’argomento, e se l’ha fatto è perché qualche obiezione ce l’ha. Nella lingua italiana soltanto pochi vocaboli descrivono questa imbarazzante situazione: per Berlusconi, i sostantivi «bugia», «menzogna», «patacca», «bufala», «frottola»; per Ciampi, i verbi «smentire» e «sbugiardare». Ma solo tre quotidiani nazionali li hanno usati nel titolo di prima pagina: l’Unità, il manifesto e la Repubblica. Tutti gli altri hanno preferito l’emolliente e la vaselina: «Ciampi corregge Berlusconi» (Stampa e Corriere della Sera), «Berlusconi cita Ciampi e poi precisa» (Corriere), «Precisazione del Quirinale» (Il Foglio), fino alla comica del Giornale («Ciampi-Berlusconi, molto rumore per nulla», «La stampa assedia il Quirinale»). Per non parlare dei tg: chiunque li avesse visti non poteva, nemmeno con sforzi sovrumani, capire che il premier aveva appena mentito persino a proposito del capo dello Stato.

Replay: giovedì scorso il presidente della Corte d’appello di Palermo, Salvatore Scaduti, sbugiarda con secco quanto irrituale comunicato i delirii del presidente dell’Antimafia sulla sentenza Andreotti. Ne parlano i soliti due o tre giornali. Su Stampa, Corriere, Foglio e Giornale, nemmeno una riga. Nei tg, omertà assoluta. E si capisce. Dopo aver minimizzato o ignorato o manipolato le dirompenti motivazioni, non si può certo dare voce al giudice che le ha scritte. Altrimenti la gente capisce chi è Andreotti e come funziona la cosiddetta informazione.

Poi c’è Ostellino, che ormai è il Cireneo del Cavaliere. Porta la croce al posto suo. Giorni fa, in un articolo opportunamente relegato dal Corriere a pagina 10, era affranto per l’inchiesta dell’Economist. Ma cercava di mascherare i rossori di innamorato dietro il cerone dei soliti finti equilibrismi: l’Economist e Berlusconi sarebbero «ridicoli entrambi», il primo per aver scritto quel che ha scritto, il secondo per averlo querelato, vittima «dell’eccesso di zelo dei suoi avvocati» (ma certo, se da vent’anni non risponde alle domande sul suo passato e le sue fortune, non è perché non può: è perché gli avvocati cattivi non vogliono). Scrive dunque l’Ostellino ‘nnammurato: «Non ho mai fatto un’inchiesta per spiegare perché Blair non è adatto a guidare l’Inghilterra, Chirac la Francia, Schroder la Germania, Bush gli Usa e via elencando... Non ci ho neppure pensato». Uno normale direbbe: magari è perché Blair, Chirac e via elencando sono adatti a guidare i rispettivi paesi, non avendo tv né aziende né amicizie mafiose né processi per corruzione giudiziaria. Invece no: Ostellino spiega che «sono affari miei, ma degli inglesi, dei francesi, dei tedeschi» e via elencando. Insomma, perché è una personcina riservata, che si fa i fatti suoi e non mette il naso in casa d’altri. Dev’essere per questo che, quando dirigeva il Corriere, non si lasciò mai scappare una critica a Craxi (il quale, fra l’altro, l’aveva messo lì). L’aveva fatto un altro direttore, Alberto Cavallari, dandogli giustamente del ladro e beccandosi un’ingiusta condanna. Non aveva capito che non erano affari suoi (semmai, di Craxi).

Ora Berlusconi è sospettato di aver ricevuto, tramite Dell’Utri, soldi dalla mafia e di aver fregato, tramite Previti, alcune aziende a un concorrente corrompendo magistrati. Questi, dal maggio 2001, erano affari nostri, essendo quest’uomo il nostro premier: non risulta che Ostellino gliene abbia mai chiesto conto. Ora che il Cavaliere presiede, per sei mesi, un organismo con 15 stati membri e altri 10 prossimi a diventarlo, parrebbe naturale che anche quelli vogliano sapere chi li rappresenta. Ostellino però zittisce gli impiccioni («vecchie zitelle vittoriane») e invita l’amato Silvio a rispondere all’Economist: «Signori, non sono affari vostri, andate a scopare il mare». Una risposta da vero statista, meglio delle corna e del kapò. Ieri persino il direttore Stefano Folli l’ha sbugiardato (pardon, «corretto») in prima pagina, scrivendo che l’Economist ha dato «un esempio di giornalismo». Resta da capire perché Ostellino continui a scrivere; a meno che non ci parli di se stesso, narrandoci la sua autobiografia (non proprio avventurosa) a puntate. Nel qual caso, in effetti, sarebbero affari suoi. Ma qualche lettore potrebbe ugualmente domandargli perché mai raccontarli agli altri. E mandarlo a scopare il mare.

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BANANASMARCO TRAVAGLIOl’Unità (5 agosto 2003)

FOTTI & CHIAGNI

Dobbiamo ringraziare il cavalier Bellachioma perché ogni giorno fa di tutto per convincere l'Unione che il suo conflitto d'interessi non è finito con la sua uscita da Palazzo Chigi, ma prosegue intatto anche all'opposizione. Se poi l'Unione continua a non capire (vedi ddl sul conflitto d'interessi, che nulla prevede per chi controlla aziende e non sta al governo), non è colpa sua. Cade il governo Prodi? Il titolo Mediaset schizza alle stelle e nelle tasche di Berlusconi entrano 50 milioni di euro. Poi Berlusconi parla alla Confcommercio e diffida il governo dall'approvare la legge Gentiloni, «altrimenti i fondi di investimento Usa lasciano Mediaset».

Intanto scoppia Vallettopoli. E lui interpreta tutte le parti in commedia. Come editore di Mediaset, da lavoro alle agenzie di Mora & Corona che rimpinzano i programmi di veline e velini (ma anche di Fede). Come papà di Barbara, cede al ricatto di Corona e paga 20 mila euro per ritirare dal mercato le foto della ragazza, ritratta alticcia fuori dalla discoteca "Hollywood" con un giovanotto che non è il suo fidanzato. Come presidente del Milan, è responsabile del pagamento effettuato da Adriano Galliani (6 mila euro) per ritirare certe foto di Francesco Coco. Come padrone di Villa Certosa, invita Lele Mora col contorno di Costantini alle feste estive in Costa Smeralda. Come editore del Giornale, è corresponsabile della pubblicazione della notizia sull'incontro fra Sircana e un transessuale. Come capo dell'opposizione solidarizza con Sircana e urla all’"imbarbarimento" della cronaca politico-giudiziaria. Come imputato in vari processi, invoca una legge che limiti le intercettazioni e la loro pubblicazione, almeno per i politici, almeno per lui. Come editore del Foglio e di Chi, da oggi farà soldi a palate facendo pubblicare le foto di Sircana e di Barbara, soldi che si aggiungeranno a quelli incassati per anni pubblicando telefonate e pettegolezzi a gogò (che poi gli scatti su Barbara siano solo quelli, innocentissimi, anticipati da Porta a Porta, non ci crede nessuno: altrimenti perché pagare?).

Insomma è il solito, eterno cavalier Chiagni & Fotti, come lo chiamava Montanelli. Qualunque cosa accada, lui trova il modo di guadagnarci. Ora gli faranno pure la legge contro le intercettazioni, che ridurrà i poteri d'indagine dei pm e abolirà la cronaca giudiziaria. E non dovrà muovere un dito, perché ci penserà Mastella con tutta l'Unione, così nessuno potrà parlare di legge ad personam: fosse riuscito a farla lui, quando ci provò due anni fa, gli sarebbero saltati tutti addosso. Ora invece nessuno evocherà il conflitto d'interessi. Non è meraviglioso? In compenso, da Porta a Porta a Matrìx, è ripreso più forsennato che pria il processo mediatico ai magistrati che indagano, senza che nessuno si sogni di chiedere il "contraddittorio": anzi, si occupano quotidianamente di Woodcock il Feltri e il Polito Margherito, entrambi condannati in tribunale per aver diffamato Woodcock.

Intanto, a Milano, s'è tenuta l'udienza dinanzi al gip Clementina Forleo per far trascrivere 150 telefonate intercettate nel 2005 a Fazio & furbetti vari che parlavano con parlamentari: Berlusconi (con Fiorani e Gnutti), Grillo (con Fiorani e lady Fazio), Latorre (con Ricucci e Consorte), Fassino e D'Alema (con Consorte), ma anche Dell'Utri, Previti, l'udc Tarolli, il leghista Giorgetti, i forzisti Cicu e Comincioli. Per poterle utilizzare (anche solo a carico dei furbetti indagati), una legge

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demenziale del 2003 impone ai giudici di chiedere il permesso al Parlamento. Così, quando le bobine arriveranno in giunta per le autorizzazioni a procedere, la destra farà uscire quelle di sinistra, e viceversa. E i giornali le pubblicheranno: nemmeno il garante Pizzetti potrebbe negare il diritto di sapere se qualche politico scalava banche. Berlusconi, per esempio, era coinvolto sia nella scalata della Bpl ad Antonveneta (tramite Mediolanum), sia in quella di Ricucci a Rcs (tramite Livolsi), sia in quella di Unipol a Bnl (tramite la Hopa di Gnutti, socia di Fininvest e di Unipol). Se dovesse passare la legge Mastella, nemmeno una parola di quelle telefonate finirebbe sui giornali. Ma è ovvio che la legge la fanno per Totti e Aida Yespica. Ci mancherebbe.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità (21 marzo 2007)L’accoppiata Luttazzi-Travaglio si rivelò devastante in quella famosa puntata di “Satyricon” (2001) così dopo aver letto nel blog Non contro ma per! di Samuele Siani un post ripreso dal blog di Daniele Luttazzi decido di riportarlo integralmente.

Esemplare nella sua chiarezza fa capire, più di tanti dibattiti, perchè il comico romagnolo non rientrerà (mai più?) in Rai, dopo l’editto di Sofia, a differenza di Biagi (il prossimo 22 aprile) e Santoro (già dall’8 marzo). E allora, visto che ancora Internet rimane una palestra di libertà, assaporiamolo con calma, semmai diffondendolo urbi et orbi. Da parte mia condivido integralmente ogni sua parola.

Il Dalemma Daniele Luttazzi (27 febbraio 2007)

Ogni disastro non ha mai un solo colpevole. E’ sempre il risultato di una catena di eventi. Cominciamo dall'inizio:

Qualche mese fa, Berlusconi teme di perdere le elezioni e cambia la legge elettorale con una porcata.

Poi il 49% degli elettori lo vota ancora nonostante 5 anni fallimentari.

Poi vince d’un soffio l’Unione.

Poi nasce una maggioranza debole, specie al Senato.

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Poi è urgente fare la Finanziaria e gliela lasciano fare.

Poi il Partito Democratico stenta a nascere.

Poi la Chiesa vuole bloccare il Partito Democratico per evitare la deriva laicista su eutanasia, pacs, eccetera.

Poi i DS subiscono a sinistra il pressing dei pacifisti, che raccolgono sempre più consensi su temi sensibili come Vicenza e Afghanistan.

Poi nei DS Mussi minaccia la scissione e la confluenza a sinistra.

Che fare? Cedere alla sinistra pacifista sulla politica estera o restare amico di Condoleeza Rice? Era il dilèmma di D’Alema. Era il dalèmma.

A questo punto del poker, D’Alema, che è permaloso come un campo minato, va a vedere:-Se si va sotto al Senato, tutti a casa.-

E così è stato.

Cade il governo Prodi, e subito tutti i commentatori, i tg e i talk-show a dare la colpa ai due senatori di sinistra che non hanno votato, Turigliatto e Rossi.

Ma è un falso. Se anche i due avessero votato a favore, infatti, in base al regolamento del Senato la soglia dei voti necessari si sarebbe alzata di uno: quindi un voto sarebbe comunque mancato.

Nessuno lo ha spiegato agli italiani, di cui sono stati però subito raccolti tutti gli sfoghi indignati e delusi. Una manipolazione da manuale. Metodo ormai testato, lo stesso con cui ci hanno venduto la guerra in Iraq.

C’è anche chi ha dato la colpa ai due senatori a vita che si sono astenuti, Andreotti e Pininfarina. Possiamo dare la colpa ad Andreotti e Pininfarina? Oh, mi piacerebbe: sarebbe come comprare una scarpa col calzino incorporato. Ma non sarebbe del tutto vero, nonostante Andreotti si sia scusato ("Se sapevo che cadeva il governo avrei votato diversamente.") usando la stessa faccia con cui dieci anni fa negò di conoscere i cugini Salvo.

E' stato dunque un complotto? No, politica all'italiana. Prodi poteva benissimo non dimettersi. Lo ha fatto per metterci il carico da 90 e ottenere il risultato che voleva: i 12 punti che "rilanciano" l'azione di governo, con Pdci e Rifondazione che chiedono scusa e uggiolano nell'angolino dove li hanno cacciati. Cai cai cai!

Ci avevano impiegato quattro anni per redigere il programma dell'Unione! Adesso in un giorno sbucano fuori dodici punti che spostano al centro l'azione di governo. Ci ritroviamo con un governo Prodi-Vaticano. D'Alema: "La politica della testimonianza la lascio a Franca Rame." Che cinismo! Ma se uno in politica non testimonia gli ideali in cui crede, perchè fa politica? Per tradire se stesso? No, e infatti D'Alema esprime i propri. D'Alema: "Certa sinistra non serve all'Italia". E' la sinistra che tutti bollano come "radicale" per coprirla di ignominia. E' la sinistra pacifista. E' la sinistra.

E' la sinistra che non vuole il Partito Democratico: equivale al 12% ( Pdci, Rifondazione, Verdi + correntone DS ).

Un politico che usa la sua maggioranza con arroganza è un politico mediocre e D'Alema lo è. Infatti i DS si stanno sfasciando.

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Come ministro degli Esteri, poi, D'Alema, come Blair, ha ben poco di sinistra: quand'era capo del governo autorizzò i bombardamenti in Kosovo dicendo che c'entrava l'Onu e non era vero ( tutti adesso concordano sul fatto che quei bombardamenti non erano necessari, era meglio una più energica azione diplomatica, come sostenevano i pacifisti; per fermare Milosevic, che aveva massacrato 2000 civili, le bombe Nato di D'Alema ne massacrarono altri diecimila! );

così come adesso D'Alema sostiene che in Afghanistan c'entra l'Onu E NON E' VERO: le nostre truppe sono sotto il comando del Pentagono. Il ministro della Difesa Parisi ha detto al Tg2:"Quella in Afghanistan è una missione militare per la pace in una situazione che presenta molti tratti che richiamano la guerra." Sono io, o questa frase di Parisi presenta molti tratti che richiamano la stronzata?

Siamo in guerra, nonostante la nostra Costituzione lo vieti. Una guerra in cui i talebani vengono accolti come liberatori nel sud del Paese! Con gli USA che ammettono di non sapere quando potrà finire, e che forse si farà la guerra all'Iran! Che ci stiamo a fare là, se non la guerra per conto terzi? Facciamo quello che vuole Bush, ma 10 anni fa gli USA erano CON Saddam, oggi contro. Erano CON i talebani, oggi contro. Si decidano, o il resto del mondo penserà che D'Alema non abbia una politica estera!

Tutti a parlare di "responsabilità" agitando il ricatto dello spauracchio berlusconiano. "Zitti tutti! Buoni! Volete che torni Berlusconi?" No di certo, ma le soluzioni sono almeno due, non c'è solo la vostra.

La Repubblica ha scomodato addirittura il filosofo Galimberti per spiegare che una politica responsabile tiene conto delle conseguenze. Il pacifismo è allora irresponsabile? O immaturo, come sostiene sempre D'Alema? Votare in favore della guerra è tenere conto delle conseguenze?

Ma alla pace hanno mai dato una vera possibilità? Non mi pare, mentre le loro "soluzioni responsabili" finora hanno solo aggravato i problemi e provocato centinaia di migliaia di morti. Tutto per lucrare sulle condotte di gas e petrolio in quella regione.

Come vedete, il disastro è una catena di eventi. Lo so che sembra folle, ma vi assicuro che aveva un senso quando la settimana scorsa me l’ha spiegato, Cossiga.

mercoledì, 14 marzo 2007 IL GRANDE PORCELLO

Nei mitici, craxianissimi anni 80 della Milano da bere e dell’Italia da rubare, certe cose si facevano, ma non si dicevano. Negli anni 90 arrivò Berlusconi, che di Craxi era l’allievo e quelle cose le faceva e ogni tanto le diceva pure, ma sempre cercando qualche alibi e scusa (si pagano le tangenti perché si è costretti, si evadono le tasse perché il fisco è esoso, si fanno gli abusi edilizi perché «il piano regolatore di Olbia è comunista»). Ora la notizia è questa: rimpiangeremo Berlusconi, perché i discepoli stanno superando il maestro.

Le intercettazioni di Potenza inaugurano ufficialmente l’era post-berlusconiana: l’era dei Corona, dei Lelemora, dei Briatore, che è molto peggio dell’era berlusconiana perché ora certe cose si fanno, si dicono e si vantano con un certo orgoglio. «Io - dice Corona alla moglie disgustata - queste troie le faccio incontrare con questi ricchi». Poi scatta il ricatto. «È vero, rovino la vita agli altri. Sono un pezzo di merda e non ci ho più neanche i sensi di colpa». Nemmeno quando va ad accalappiare Azouz Marzouk ai funerali della sua famiglia sterminata a Erba, poi telefona all’amico Lele: «Ho chiuso

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l’intervista per Costanzo e l’esclusiva per Chi. Sai cos’avrà lui (Marzouk, ndr) durante il funerale? La maglietta di “Corona’s”!». Mora, un filino turbato: «Sei un pazzo». E lui: «Lelito, ma tu ti rendi conto?». E l’altro: «Che mostro ho creato!». Un’altra volta Corona tenta addirittura di infilare la propria moglie nel letto di Eros Ramazzotti, per creare «un falso scoop» (la signora ne uscirebbe come nuova: «Una lavata, un’asciugata e sembra neanche averla usata!»).

Ma se il coronismo è una degenerazione del berlusconismo, Corona resta comunque un po’ meno peggio del Cavaliere. È molto meno ricco e meno potente. Non ha mai pensato di rifugiarsi in Parlamento per non finire in galera. Non fa nulla per nascondere quello che è, ma almeno lo sa: «Se fossi moralmente una persona a posto, non farei ‘sto lavoro. In un certo senso faccio schifo, ma il fine giustifica i mezzi». Una frase così il Cavaliere non si sognerebbe nemmeno di pensarla: come diceva Montanelli, «lui mente a tutti, anche a se stesso: è un bugiardo sincero». La differenza che meno conta tra i due è quella che più viene sottolineata in questi giorni da tv e giornali compiacenti (praticamente tutti): e cioè che Berlusconi sarebbe «vittima» del ricatto di Corona, costretto a pagargli 20 mila euro per ritirare certe foto della figlia.

Per carità, ormai si può sostenere qualsiasi cosa: ma che l’uomo più ricco e potente d’Italia possa passare per vittima di un paparazzo di 32 anni è la barzelletta del secolo. Al Cavaliere non mancavano certo i mezzi di comunicazione per denunciare pubblicamente la gang. Anzi, trattandosi di un presidente del Consiglio uscente, capo dell’opposizione parlamentare, sarebbe stato suo preciso dovere fare quello che qualunque privato cittadino avrebbe dovuto fare: recarsi nel più vicino commissariato e sporgere querela. Il fatto interessante è che la cosa non gli è neppure passata per la testa. Lui è abituato così. La mafia lo minaccia? Assume un mafioso travestito da stalliere. La mafia mette le bombe in casa sua? Ne parla con Dell’Utri e non denuncia nulla, in fondo «è una bomba gentile e affettuosa». La mafia attenta alla Standa di Catania? Secondo il Tribunale di Palermo, Dell’Utri scende giù a pagare un’altra volta il pizzo («Anziché astenersi dal trattare con la mafia, Dell’Utri ha scelto di mediare tra gli interessi di Cosa Nostra e gli interessi imprenditoriali di Berlusconi, un industriale disposto a pagare pur di stare tranquillo»). Il lodo Mondadori dà ragione a De Benedetti? Previti paga un giudice e la Mondadori passa a Berlusconi. Arrivano i marescialli della Finanza per l’ispezione fiscale? La Fininvest li imbottisce di mazzette per chiudere un occhio. Per questo, quando si fa avanti un Corona qualunque, lo Statista di Milanello mette mano al portafogli: è la forza dell’abitudine.

Parlare di vittima pare eccessivo, anche perché Mora è di casa a villa Certosa; è l’«agente» di Emilio Fede e lavora per la De Filippi; e Corona agisce per “Chi” e per Costanzo, tutta roba Fininvest, senza contare che fra i soci ha il figlio di Flavio Carboni (che era socio di Berlusconi).Giocando con le frasi storiche dell’inchiesta si ottengono risultati strepitosi. Il gip Alberto Jannuzzi parla di un tipo «sempre pronto a mercificare qualsiasi cosa e chiunque». Ce l’ha con Berlusconi? No, con Corona. Una donna dice al marito: «A me questa tua vita mi fa schifo! I tuoi sono soldi marci!». Veronica che parla con Silvio? No, Nina Moric che parla con Fabrizio. Un uomo dice al giudice: “L’unica cosa pulita della mia vita è mia moglie”. È Berlusconi? No, Corona. Altra voce intercettata: «Se passa questa legge, non mi possono fare un cazzo. Se non passa, praticamente sono fottuto: cioè, quello che tu dici al telefono vale!». Il Cavaliere alle prese con l’ennesima legge ad personam? No, Corona che tifa per la legge anti-intercettazioni del governo Prodi. Per Mastella, sono soddisfazioni. «Purtroppo - scuote il capo Riccardo Schicchi dagli arresti domiciliari - ci sono due Italie: una si diverte, l’altra giudica». Ma si rassereni: vince sempre la prima.

ULIWOOD PARTY

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MARCO TRAVAGLIO l’Unità 14 marzo 200715:23 Agguato a Napoli, un morto. Colpito da alcuni sicari a Secondigliano (ANSA) - NAPOLI, 14 MAR - Un uomo, Giuseppe Pica, di 34 anni, è stato ucciso in via Praga Magica nel quartiere Secondigliano, di Napoli. Pica, già noto alle forze dell'ordine, era in via Praga Magica (nel cosiddetto rione del 'Terzo Mondo') quando è stato raggiunto da alcuni sicari che hanno esploso diversi colpi di pistola. Sul posto sono giunti i carabinieri del comando provinciale di Napoli che seguono diverse piste, tra cui quella del regolamento di conti.

16:25 Secondo omicidio in poche ore a Napoli. Ucciso un presunto affiliato al clan Di Lauro (ANSA) - NAPOLI, 14 MAR - Secondo omicidio, in poche ore, a Napoli: è stato ucciso Francesco Cardillo, 36 anni, presunto affiliato del clan Di Lauro. L'uomo è stato raggiunto da alcuni colpi di arma da fuoco non lontano dal luogo in cui è avvenuto l'omicidio di Giuseppe Pica, caduto in un agguato avvenuto nel quartiere Secondigliano. Sul fatto indaga la polizia. Per ora non si escludono nè si confermano collegamenti tra i due episodi.

20:24 Camorra: terzo omicidio avvenuto oggi a Napoli. La vittima è Ciro Giuliano della nota famiglia di Forcella (ANSA) - NAPOLI, 14 MAR - Ciro Giuliano, 50 anni, appartenente alla nota famiglia di Forcella è stato ucciso stasera in un agguato a Napoli. Sul luogo, in via Sant'Alfonso de' Liguori,è intervenuta la polizia. Si tratta del terzo omicidio avvenuto oggi a Napoli.

venerdì, 09 marzo 2007 (17 APRILE 2005) FORZA BAHAMAS

In un film d’azione americano, «Swat», si racconta la cattura di un pericoloso terrorista stramiliardario che, appena la squadra speciale della polizia gli mette le manette, comincia a offrire miliardi agli agenti se lo lasciano libero. Due si fanno convincere e gli organizzano la fuga. Ma alla fine viene preso. Ecco: vedere quel film (trasmesso l’altra sera da Sky) durante questa crisi di governo fa una strana impressione. Perché in fondo, mutatis trapiantis, la trama è la stessa. Un pericoloso stramiliardario disperato si presenta dai presunti alleati con in tasca 2.2 miliardi di euro in aggiunta a quelli che già possedeva prima, e ricorda elegantemente che «io ho un patrimonio di 20 miliardi». D’altra parte, ha sempre fatto così. Prima provava con le barzellette. Poi metteva li un orologio d’oro, con stemma del Milan o senza. Poi evocava il suo ingente patrimonio personale ed eventualmente, a mali estremi, mostrava una foto di Previti o di Dell’Utri. A quel punto, se le mosse precedenti non funzionavano, minacciava l’interlocutore riottoso di fargli sparare o farlo sparire sulle sue televisioni. L’altro giorno, resosi conto che nemmeno lo spettro dei telekiller sortiva l’effetto sperato (anche perché, almeno in Rai, sono tutti in guardaroba a caccia di uniformi dell’Ulivo), ha minacciato di trasferirsi alle Bahamas e mandare una cartolina. Ma non c’è stato niente da fare. L’Udc, Unione dei Cadreghini, nella speranza di trovarne qualcuno in più dall’altra parte, l’ha rimasto solo con Calderoli. L’estremo sacrificio ha coinvolto, per obbedienza di partito, persino Carlo Giovanardi, il ministro Fernandel. Ha tentato una strenua, disperata difesa dell’uomo che quattro anni fa lo miracolò: «Vi imploro, fatelo almeno per Gianni Letta», ha esalato con un fil di voce genuflettendosi a terra, l’occhio languido rivolto per l’estremo saluto alla poltrona che s’allontanava per sempre. Poi ha ceduto di schianto. Ora è un uomo distrutto: sa bene che un ministero non gli capiterà mai più nella vita. E se qualcuno pensava di aver visto tutto quando uno così divenne ministro, ora la scena straziante di Giovanardi che rinuncia allo strapuntino è oltre i confini della realtà.

La risposta dello stramiiardario agli ex alleati in fuga è stata: «Vado avanti senza di voi». Stupore generale. Commentatori attoniti perché il premier non si dimette, non

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passa la mano a qualcun altro, non sceglie l’azzardo delle elezioni. Insomma, non mette la testa sul tagliere. Come se non lo conoscessero, come se non l’avessero visto all’opera in politica per undici anni. Come se non si sapesse perché era sceso in campo. E dire che lui non ha mai nascosto nulla a nessuno. Fin dall’inizio lo disse chiaro e tondo, ai suoi (ma anche a Biagi e a Montanelli): «Se non entro, in politica, vado in galera e fallisco per debiti». La carriera politica è stata perfettamente coerente con quello che era l’unico, vero contratto con gli italiani: non andare in galera e non fallire per debiti. Contratto perfettamente rispettato. Missione compiuta, almeno finora.

Ora è commovente la meraviglia dell’inconsolabile Galli Della Loggia perché Berlusconi in questi anni «non è riuscito a includere» nessuno dall’altro fronte: politici, intellettuali, imprenditori, «nemmeno un cuoco». Per non parlare di Ostellino, che cade dal solito pero e si duole perché Berlusconi «non è riuscito a essere la Thatcher» e non ha fatto «la rivoluzione liberale». Beata ingenuità: e perché mai uno che sta per finire in galera dovrebbe preoccuparsi di includere cuochi o pensare a Tocqueville e alla Thatcher? La Thatcher era figlia di un droghiere e non aveva processi. E pare che Tocqueville non corrompesse giudìcì e non avesse in casa stallieri mafiosi.

A tutti questi stupefatti osservatori sfuggono un paio di dettagli: appena il Cavalier Bellachioma dovesse lasciare Palazzo Chigi, è pronto per lui il processo in Spagna per Telecinco, congelato a suo tempo dal giudice Garzon, che però Io pensa sempre. Senza contare il processo a Milano per i diritti tv e quello a Previti che sta per finire in Corte d’appello per le rnazzette al giudice che regalò la Mondadori alla Fininvest: se fosse confermata la condanna, con risarcimenti incorporati, difficilmente Cesarone si sobbarcherebbe quella sommetta (in primo grado era di 380 milioni di euro), anche perché la Mondadori non andò a lui, ma a Silvio. E poi c’è Palermo, dove Dell’Utri è stato condannato a 9 anni in tribunale per mafia: come il salva-Previti, anche il salva-Dell’Utri pare tramontato per insufficienza di alleati, e c’è il rischio che pure a Marcello torni la memoria su alcune cosette che finora aveva taciuto per carità di patria. «Eh, Silvio lo sa che se parlo io...», diceva Dell’Utri nel ‘93 al consulente Ezio Cartotto, che l’ha raccontato ai giudici. Se parlasse lui: questo è il problema. L’altro giorno Maria Latella, sempre bene informata sugli affari di famiglia, scriveva sul Corriere che «Dell’Utri, forse scherzando forse no, avrebbe detto agli amici di esser pronto a trasferirsi all’estero, famiglia compresa». L’indomani, al culmine del vertice-rissa, Berlusconi ha sibilato agli alleati in fuga: «Vi scriverò qualche cartolina dalle Bahamas». Un uomo off-shore fino all’ultimo, anche nel passo d’addio. Qui giace Forza Italia: (Hammamet 1994- Bahamas 2005).

BANANASMARCO TRAVAGLIO l’Unità 17 aprile 2005

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CESARE PREVITI

UNO IN MENO

LA VICENDA La resistibile «guerra di Segrate». Gli intrecci giudiziari dietro la scalata editoriale di Berlusconi. Impugnazioni, colpi di scena, ricorsi e ingloriose cadute dei protagonistiCesare all'ultimo atto. Storia di due sentenze comprate

La sentenza del 1991 che annullò il Lodo Mondadori era comprata. Da 17 anni, dunque, Berlusconi - soi disant «uomo che s'è fatto da sé» - possiede abusivamente una casa editrice, con i suoi libri e i suoi settimanali (tra i quali Panorama e il defunto Epoca), che ha utilizzato finanziariamente per accumulare utili e politicamente, prima per sostenere i suoi padrini (Craxi in primis), poi per costruire il consenso necessario alla sua «discesa in campo», ai suoi due governi e alle sue quattro campagne elettorali. Ecco la storia.IL LODO. Nel 1988 Berlusconi, che già da tempo ha messo un piede nella casa editrice rilevando le azioni di Leonardo Mondadori, annuncia: «Non voglio restare sul sedile posteriore». De Benedetti, che controlla il pacchetto di maggioranza, resiste all'assalto e si accorda con la famiglia Formenton, erede di Arnaldo, che s'impegna a vendergli il suo pacchetto azionario entro il 30 gennaio '91. Ma gli eredi cambiano idea e, nel novembre '89, fanno blocco con Berlusconi che, il 25 gennaio 1990, si insedia alla presidenza della casa editrice.Oltre a tre tv e al Giornale, dunque, il Cavaliere s'impossessa del gruppo edi-toriale che controlla Repubblica, Panorama, Espresso, Epoca e i 15 giornali locali Finegil, spostandolo dal campo anticraxiano a quello filocraxiano. La "guerra di Segrate", per unanime decisione dei contendenti, finisce dinanzi a un collegio di tre arbitri, scelti da De Benedetti, dai Formenton e dalla Cas-sazione. Il lodo arbitrale, il 20 giugno '90, dà ragione a De Benedetti. Il suo patto con i Formenton resta valido, le azioni Mondadori devono tornare al-l'Ingegnere. Berlusconi lascia la presidenza, arrivano i manager della Cir debenedettiana: Carlo Caracciolo, Antonio Coppi e Corrado Passera. Ma il Cavaliere rovescia il tavolo e, insieme ai Formenton, impugna il lodo alla Corte d'appello di Roma. Se ne occupa la I sezione civile, presieduta da Arnaldo Valente (secondo Stefania Ariosto, frequentatore di casa Previti). Giudice relatore ed estensore della sentenza: Vittorio Metta, anch'egli intimo di Previti. La camera di consiglio si chiude il 14 gennaio '91. Dieci giorni dopo, il 24, la sentenza viene resa pubblica: annullato il Lodo, la Mondadori torna per sempre a Berlusconi. L'Ingegnere lo sapeva già: un mese prima il presidente della Consob, l'andreottiano Bruno Pazzi, aveva preannunciato la sconfitta al suo legale Vittorio Ripa di Meana. «Correva voce - testimonierà De Benedetti - che la sentenza era stata scritta a macchina nello studio dell'avvocato Acampora ed era costata 10 miliardi... Fu allora che sentii per la prima volta il nome di Cesare Previti, come persona vicina a Berlusconi e notoriamente molto introdotta negli uffici giudiziari romani». Nonostante il trionfo, comunque, Berlusconi non riesce a portare a casa l'intera torta. I direttori e molti giornalisti di Repubblica, Espresso e Panorama si ribellano ai

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nuovi padroni. Giulio Andreotti, allarmato dallo strapotere di Craxi sull'editoria, impone una transazione nell'ufficio del suo amico Giuseppe Ciarrapico: Repubblica, Espresso e i giornali Finegil tornano al gruppo Caracciolo-De Benedetti. Panorama, Epoca e il resto della Mondadori riman-gono alla Fininvest. I SOLDI. Indagando dal 1995 sulle rivelazioni di Stefania Ariosto sulle mazzette di Previti ad alcuni giudici romani, il pool di Milano scopre il fiume di denaro che dalla Fininvest affluì sui conti esteri degli avvocati della Fininvest e da questi, in contanti, nelle mani del giudice Metta. Il 14 febbraio '91 dalle casse della All Iberian parte un bonifico di 2.732.868 dollari (3 miliardi di lire) al conto Mercier di Previti. Da questo, il 26 febbraio, altro bonifico di 1 miliardo e mezzo (metà della provvista) al conto Careliza Trade di Acampora. Questi il 1° ottobre bonifica 425 milioni a Previti, che li dirotta in due tranche (11 e 16 ottobre) sul conto Pavoncella di Pacifico. Il quale preleva 400 milioni in contanti il 15 e il 17 ottobre, e li fa recapitare in Italia a un misterioso destinatario: secondo l'accusa, è Vittorio Metta. Il giudice, nei mesi successivi, fa diverse spese (tra cui l'acquisto e la ristrutturazione di un appartamento per la figlia Sabrina e l'acquisto di una nuova auto Bmw) soprattutto con denaro contante di provenienza imprecisata (circa 400 milioni). Poi si dimette dalla magistratura, diventa avvocato e va a lavorare con la figlia Sabrina nello studio Previti. A proposito di quei 3 miliardi Fininvest, Previti parla di «tranquillissime parcelle», ma non riesce a documentare nemmeno uno straccio di incarico professionale in quel periodo. Mentono anche Pacifico e Acampora. E così Metta che, sulla provenienza dell'improvvisa, abbondante liquidità (per esempio, un'eredità), viene regolarmente smentito dai fatti. Poi giura di aver conosciuto Previti solo nel '94, ma mente ancora: i pm Boccassini e Colombo scoprono telefonate fra i due già nel 1992-93. Poi ci sono le modalità a dir poco stravaganti della sentenza Mondadori: dai registri della Corte d'appello emerge che Metta depositò la motivazione (168 pagine) il 15 gennaio '91: il giorno dopo della camera di consiglio. Un'impresa mai riuscita a un giudice, né tantomeno a lui, che impiegava 2-3 mesi per sentenze molto più brevi. Evidente che quella era stata scritta prima che la Corte decidesse.IL PROCESSO. Nel 1999 il pool chiede il rinvio a giudizio per Berlusconi, Previti, Metta, Acampora, Pacifico. Nel 2000 il gup li proscioglie tutti con formula dubitativa (comma 2 ari. 530 cpp). Ma nel 2001 la Corte d'appello, accogliendo il ricorso della Procura, li rinvia a giudizio, tranne Berlusconi, ap-pena tornato a Palazzo Chigi e salvato dalla prescrizione: a lui i giudici accor-dano le attenuanti generiche. Perché a lui sì e agli altri no? Per «le attuali con-dizioni di vita individuale e sociale il cui oggettivo di per sé giustifica l'applicazione» delle attenuanti. La Cassazione conferma: il Cavaliere non è innocente, anzi è «ragionevole» e «logico» che il mandante della tangente a Metta fosse proprio lui. Ma un semplice fatto tecnico come le attenuanti prevalenti «per la condotta di vita successiva all'ipotizzato delitto». Anziché rinunciare alle generiche per essere assolto nel merito, Berlusconi prende e porta a casa. E fa bene: gli altri coimputati, senza le attenuanti, saranno tutti condannati. In primo grado, nel 2003, Metta si prende 13 anni, Previti e Pacifico 11 anni sia per Mondadori sia per Imi-Sir, e Acampora (per la sola Mondadorì) 5 anni e 6 mesi. Nel 2005, in appello, tutti condannati per Imi-Sir e tutti assolti (sempre col comma 2 dell'ari. 530) per Mondadori. Ma nel 2006 la Cassazione

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annulla le assoluzioni e ordina alla Corte d'appello di condannare anche per Mondadori. La qual cosa accade nel febbraio 2007: Previti, Pacifico e Acampora si vedono aumentare la pena di un altro anno e 6 mesi e Metta di 1 anno e 9 mesi, in «continuazione» con le condanne ormai definitive per Imi-Sir. Scrivono i giudici che la sentenza Mondadori fu «stilata prima della camera di consiglio», «dattiloscritta presso terzi estranei sconosciuti» e al di «fuori degli ambienti istituzionali». Tant'è che al processo ne sono emerse «copie diverse dall'originale». Berlusconi era all'oscuro dell'attività corruttiva del suo avvocato-faccendiere (che ufficialmente non difendeva la Fininvest nella causa, seguita dagli avvocati Mezzanotte Vaccarella e Dotti)? Nemmeno per sogno: il Cavaliere - scrivono i giudici - aveva «la piena consapevolezza che la sentenza era stata oggetto di mercimonio». Del resto, «la retribuzione del giudice corrotto è fatta nell'interesse e su incarico del corruttore», cioè di Berlusconi. E «l'episodio delittuoso si svolse all'interno della cosiddetta "guerra di Segrate", combattuta per il controllo di noti ed influenti mezzi di informazione e si deve tener conto dei conseguenti interessi in gioco, rilevanti non solo sotto un profilo meramente economico, comunque ingente, ma anche sotto quello prettamente sociale della proprietà e dell'acquisizione dei mezzi di informazione di tale diffusione». La Corte riconosce infine alla parte civile Cir di De Benedetti il diritto ai danni morali e patrimoniali, da quantificare in separata sede civile: «tanto il danno emergente quanto il lucro cessante, sotto una molteplicità di profili relativi non solo ai costi effettivi di cessione della Mondadori, ma anche ai riflessi della vicenda sul mercato dei titoli azionari». Ora che la sentenza è definitiva, e che Previti si è visto revocare l'affidamento ai servizi sociali per il "regime" dei domiciliari la Cir con gli avvocati Pisapia e Rubini chiederà 1 miliardo di euro di danni.In pratica, 17 anni dopo, la restituzione del maltolto.

L’ UNITA’ (1 agosto 2007)

PASSEROTTO, NON ANDARE VIA

Oggi la Camera dovrebbe votare pro o contro la proposta della giunta per le elezioni di mettere alla porta l’onorevole pregiudicato e interdetto Cesare Previti. Il tutto con 14 mesi esatti di ritardo, visto che la sentenza della Cassazione del 4 maggio 2006 aveva già stabilito irrevocabilmente il da farsi. Per 420 giorni il deputato abusivo ha percepito indebitamente lo stipendio (13-14 mila euro al mese netti) e maturato i diritti alla pensione a spese dei contribuenti. Ed è riuscito ad affermare il principio cardine della Repubblica dei Mandarini, largamente e trasversalmente condiviso: quando c’è di mezzo un membro della casta, o della cosca, anche le sentenze definitive diventano provvisorie. Trattabili. Chiunque vinca le elezioni, la legge non è uguale per tutti, perché in Parlamento vige il diritto d’asilo. Giunti a questo punto, è vivamente sconsigliabile votare sì alla cacciata di Previti dal Parlamento. Forse è meglio che resti dov’è, a imperitura memoria. Gli terranno compagnia altri 24 onorevoli pregiudicati, più uno che, per meglio difendere la famiglia e combattere la droga, organizzava coca-party con due squillo a botta in un grand hotel (ieri s’è dimesso dall’Udc, ma non dal Parlamenip), e un altro che, per arrivare prima in uno studio tv usò un’ambulanza come taxi (s’era dimesso

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dal Parlamento, ma poi ci ha ripensato e ha traslocato da An a Forza Italia: sempre in ambulanza, si presume). La loro presenza a Montecitorio servirà ai Mandarini per rivendicare lo status di legibus soluti e ai cittadini per rassegnarsi a quello di sudditi. E poi, come rivela L’espresso, Previti ha già mostrato ampi segni di ravvedimento: ora non corrompe più i giudici, ma - affidato ai servizi sociali grazie alla legge ex Cirielli che gli ha regalato i domiciliari e all’indulto extralarge che gli ha restituito la libertà - rieduca tossicodipendenti nella comunità Ceis di don Mario Picchi. In particolare sovrintende al «Programma serale», che prevede «colloqui individuali e di gruppo per strappare dalla cocaina, dal gioco d’azzardo e da altre azioni compulsive (come lo shopping) professionisti, dirigenti di aziende e giovani che hanno deciso di dare una sterzata alle loro esistenze». Salvo i due mesi che gli tocca passare di nuovo in casa, a causa della seconda condanna definitiva per aver comprato la sentenza Mondadori (anche lui aveva problemi di shopping compulsivo), ma nel ramo giudici), tornerà presto all’aria aperta dalle 7 alle 23 (salvo qualche permesso premio per ritemprarsi nella villa all’ Argentario, dove un tempo veleggiava sul mitico “Barbarossa” nelle acque dell’allusiva Cala Galera). Per dedicarsi, tre giorni a settimana, ai ragazzi del Ceis: «colloqui collettivi e individuali», precisa L’espresso, nei quali «nessuno lo ha mai rifiutato come consulente». Previti, in particolare, segue «l’evoluzione di due ex tossicodipendenti, due liberi professionisti» entusiasti del loro nuovo rieducatore: «Previti ci ha sorpreso», assicura don Musio, braccio destro di Picchi: «È aperto, franco, collaborativo, si è guadagnato la stima di tutto lo staff. L’onorevole si sta mettendo in discussione e nei colloqui con i frequentatori offre un grande contributo di pragmatismo». Come ai vecchi tempi, quando smistava compulsivamente, ma pragmaticamente, miliardi su miliardi da un conto svizzero all’altro senza pagare una lira di tasse. Qualche maligno temeva che, vistolo in faccia, i ragazzi ricadessero negli antichi vizi e abbisognassero di una rieducazione supplementare. Invece finora tutto è filato liscio come un bonifico estero su estero «Il bilancio - aggiunge il sacerdote - è positivo: spero Previti che riversi questa nuova esperienza anche negli ambienti che frequenta». Magari che rieduchi anche Berlusconi e Dell’Utri, peraltro esperti in altri tipi di bilanci, perlopiù falsi. Nel tempo libero, a parte qualche partitella al circolo Canottieri Lazio («sempre più sporadiche, ma la passione resta nonostante l’età», confida un amico) e «la ginnastica agli attrezzi di cui si è dotato in casa», Cesare «riceve e conversa». Pare che sia un po’ in freddo con Pera e Tajani, mentre Silvio e Marcello sono sempre affettuosissimi, e ci mancherebbe altro. Gli onorevoli che oggi hanno in mano il suo destino si mettano una mano sul cuore e una sul portafogli. E ci pensino bene, prima di privare le istituzioni democratiche di un apporto così fondamentale. In fondo, al Parlamento, un educatore di tossici può sempre tornare utile

L’ UNITA’ (31 luglio 2007)

COMANDA SEMPRE LUI

Ieri il Corriere, in beata solitudine, pubblicava le motivazioni della condanna d’appello a 2 anni per tentata estorsione mafiosa a carico di Marcello

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Dell’Utri e del capomafia di Trapani Vincenzo Virga. Una vicenda mai raccontata negli ultimi 6 anni agl’italiani da nessun tg o programma di approfondimento, pubblico o privato. Così come quella della sentenza Mondadori comprata da Previti con 420 milioni della Fininvest nella «piena consapevolezza» del Cavaliere. In compenso da cinque giorni si fa un gran parlare dell’iscrizione di Romano Prodi sul registro degli indagati della Procura di Catanzaro per abuso d’ufficio. Ed è giusto che sia così. L’anomalia non sta nell’attenzione al caso Prodi, ma nel silenzio sui casi Prevlti-Berlusconi-Dell’Utri, tra l’altro imparagonabili col primo, in quanto i nomi del Trio Arcore non sono iscritti sul registro degli indagati, ma scritti su sentenze di condanna per reati infinitamente più gravi. Quando qualche buontempone o «volonteroso», a sinistra, è portato a minimizzare l’influenza nefasta del Cavaliere sulla vita pubblica dichiarando archiviato l’antiberlusconismo, potrebbe riflettere sulla diversa eco mediatica che suscitano i coinvolgimenti di Berlusconi e Prodi in indagini giudiziarie. La prima volta di Silvio fu il 21 novembre ‘94, quando il pool di Milano lo convocò d’urgenza per un interrogatorio sulle tangenti Fininvest alla Guardia di Finanza, dunque lo iscrisse sul registro e gli notificò un invito a comparire. Quel mattino Borrelli consegnò il plico ai carabinieri e li spedì a Roma, dove risultava che il premier sarebbe rientrato in serata da Napoli (lì aveva inaugurato un convegno internazionale sulla criminalità). Giunti a Palazzo Chigi i militari scoprirono che aveva cambiato programma e s’era trattenuto a Napoli anche per l’indomani. Allora Borrelli li incaricò di telefonargli a Napoli per prendere appuntamento al suo ritorno e spiegargli di che si trattava. In tarda serata dunque gli uomini dell’Arma lessero al telefono a Berlusconi il contenuto dell’invito a comparire, almeno fino alla terza delle quattro tangenti contestate: prima che leggessero la quarta, lui mise giù infuriato. Guarda caso, l’indomani il Corriere riferì di tre (e non quattro) mazzette: proprio quelle che i militi gli avevano letto. Naturalmente il premier ebbe buon gioco a inscenare il pianto greco sulla «fuga di notizie» piotata dalle «toghe rosse» per «colpirmi politicamente durante un vertice internazionale», in «violazione del segreto istruttorio». Tutte balle: la fuga di notizie, com’è evidente e come appurerà il Tribunale di Brescia, non veniva dalla Procura; ma soprattutto non violava il segreto istruttorio (abolito dal 1989), visto che per la legge italiana «gli atti conosciuti o conoscibili dall’indagato» non sono più segreti. E lui l’invito lo conosceva dalla sera prima. Dunque fu lui, non il pool, a screditare l’Italia continuando a presiedere un summit anti-crimine pur sapendo di esser indagato per corruzione. Da che nasceva l’urgenza di interrogarlo e dunque di convocarlo? Dalla scoperta che l’8 giugno ’94, un minuto prima di avviare un mega-depistaggio delle indagini sulle mazzette Fininvest alla Guardia di Finanza, l’avvocato Fininvest Massimo Maria Berruti (ex ufficiale della (Gdf), era salito a Palazzo Chigi per parlare con lui. Alla fine Berlusconi, condannato in primo grado e prescritto in appello, fu assolto in Cassazione per insufficienza di prove; ma Berruti fu condannato definitivamente per favoreggiamento (dunque promosso deputato di Forza Italia) e Salvatore Sciascia, il manager Fininvest che pagava i finanzieri, per corruzione (ora infatti è socio della Brambilla nell’editrice de Il Giornale delle Libertà). Fatti gravissimi e documentati. Eppure, da 13 anni, l’invito al Cavaliere non è citato per ricordare che le sue aziende corrompevano le Fiamme Gialle, ma per deplorare la violazione di un segreto inesistente. Ora che il sito di Panorama (vedi alla voce Previti-Mondadori) ha svelato che Prodi è indagato a Catanzaro, invece, tutti giustamente parlano del contenuto

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dell’inchiesta: e cioè dei telefonini usati da Prodi quand’era presidente della Commissione europea. Eppure la notizia, questa sì, è segreta: non lo sarebbe se Prodi avesse ricevuto un avviso di garanzia o un invito a comparire, ma non ha ricevuto nulla. Ciò che Berlusconi lamenta per sé, mentendo dal 1994, si è avverato nel 2007 contro Prodi a opera di un settimanale di proprietà (si fa per dire) di Berlusconi. Ma la cosa passa sotto silenzio, anche perché Prodi, mostrando un senso delle istituzioni sconosciuto al suo predecessore, s’è detto subito «fiducioso nella magistratura» e ha spiegato, tramite il portavoce Sircana, l’oggetto del contendere: cioè l’uso, a suo dire del tutto lecito, che ha fatto di quei cellulari. Già, perché - almeno finora - sul suo conto non emerge null’altro che l’uso di alcune utenze in contatto con persone del suo entourage accusate di aver incassato indebitamente fondi europei su cui Prodi non aveva influenza alcuna. Ma, in base alla solita demenziale legge Boato del 2003, per usare i tabulati e accertare chi chiamava chi, i giudici devono chiedere il permesso alla Camera, e per farlo han dovuto iscrivere Prodi. Se le cose restassero a questo punto, Prodi farà bene ad allontanare eventuali collaboratori disinvolti, magari abituati a spendere il suo nome per i loro affari. E morta lì. In ogni caso è giusto che se ne continui a parlare. Purché il caso Prodi venga inserito nella giusta gerarchia d’importanza rispetto ad altri casi: quello di Berlusconi che dal 1991 controlla la Mondadori grazie a una sentenza comprata, quello di Dell’Utri che usava i capimafia per il recupero crediti e quello di Previti che pagava i giudici per vincere le cause perse. Sempre che i volonterosi dell’anti-antiberlusconismo non abbiano nulla in contrario.

L’ UNITA’ (18 luglio 2007)Lettera apertaGentili on. Prodi e Berlusconi,

approfitto dell’ultima puntata, alla vigilia delle vacanze, perché non so se a settembre ci sarete ancora, intendo dire se sarete ancora il premier e il capo dell’opposizione. Da qualche tempo, mentre beccate fischi un po’ ovunque, avete sviluppato un olfatto sensibilissimo e avvertite una certa puzza, anche se non avete ancora capito da dove arriva. Lei, Berlusconi, parla di “spazzatura”. Lei, Prodi, di “aria irrespirabile”. D’Alema, bipartisan, parla di “spazzatura” e di “aria irrespirabile”. Ma vi riferite alle intercettazioni e ai verbali delle scalate bancarie e della Rcs, ai giudici che li han raccolti e ai giornali che li pubblicano. Invece il cittadino comune, quando sente quelle parole, pensa all’aria delle nostre città, agli appelli inascoltati sulle emissioni inquinanti, alla monnezza accatastata in Campania, ai milioni di ecoballe che nessuno smaltirà mai e a tutte le ecoballe che i politici raccontano.

La stampa ha molte colpe, ma non quella di criticare troppo i potenti. Semmai di criticarvi troppo poco. Se in questi anni giornali e tv avessero chiesto conto per tempo ad Antonio Bassolino, che da quasi 15 anni regna e governa su Napoli e la Campania prima come sindaco, poi come governatore e commissario di governo ai rifiuti, forse l’avrebbero costretto a gestire un po’ meglio il dramma della monnezza. O magari a dimettersi. Invece tutti a glorificare il “miracolo napoletano” e Bassolino è stato addirittura promosso con la Jervolino tra i 45 saggi del Partito democratico. Ma lo stesso vale per gli altri 4 commissari di governo, alcuni di destra come Antonio Rastrelli di An, che si sono succeduti nell’ultimo decennio. A proposito: che senso ha sciacquarsi la bocca col “primato della politica” e poi scaricare le responsabilità su commissari straordinari, esponendoli ai linciaggi delle popolazioni prese in giro ed esasperate dall’aumento dei tumori al pancreas, ai polmoni e ai dotti biliari (+12% della media nazionale) e delle malformazioni fetali (+80% che nel resto d’Italia), dall’inquinamento delle falde per discariche abusive e i bidoni interrati dalla camorra? Magari, con più “spazzatura” sulla stampa, ora avremmo meno spazzatura in strada.

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La tragedia è che, sui problemi ambientali, nessuno può dare lezioni a nessuno. Il leggendario Lunardi nel 2001 stabilì che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, non erano più da considerare rifiuti anche se altamente contaminate: come dire che il veleno, d’ora in poi, si chiama aranciata. Poi il suo governo, on. Berlusconi, ha varato un devastante condono ambientale e uno edilizio e s’è sdraiato sulla linea di Bush che sabotava il Protocollo di Kyoto, mettendo l’Italia in coda all’Europa, dove tutti i politici si occupano dei problemi ambientali.

Due settimane fa lei, on. Prodi, ha vantato come strepitoso successo il penoso compromesso del G8, che ha rinviato al 2012 l’accordo sui gas serra e al 2050 il loro dimezzamento, peraltro senza vincoli né sanzioni per chi trasgredisce. E quando l’Ue ha bocciato il piano italiano sulle emissioni di CO2, intimando alle nostre industrie di ridurle di un altro 6%, il ministro Bersani ha risposto che con le sanzioni “si puniscono le imprese italiane”: più sprezzante di Montezemolo e dei petrolieri. Bersani è un sostenitore del carbone, modernissima fonte energetica che ci consentirà di lanciare presto una nuova avanzatissima professione: lo spazzacamino.

Forse, se la gente vi contesta dappertutto, è anche perché con la gente non ci parlate mai. Cianciate tanto di federalismo, di territorio, ma chi vi ha mai visti, sul territorio? Quando mai siete andati a spiegare il perché della base Usa o del Tav? Lunardi liquidò il caso Valsusa “un problema di ordine pubblico”. Pisanu mandò la polizia coi manganelli, salvo poi fermare i cantieri per non sostituire le ruspe coi carrarmati. Ora che Di Pietro ha aperto un dialogo con le popolazioni, la tensione è subito calata.

Il fatto è che sul cosiddetto “sviluppo” a base di asfalto e cemento si registrano prodigiosi trasversalismi fra destra e sinistra: nel Tav ha lavorato l’impresa del ministro Lunardi e lavoreranno le coop rosse. Forse questa politica che si occupa di banche e di affari, e ora addirittura lo rivendica come cosa buona e giusta, non ha le mani completamente libere, quando deve prendere decisioni fondamentali per l’aria che respiriamo e la vita che viviamo. C’è un conflitto d’interessi tra i nostri polmoni e i nostri politici che scalano le banche, fanno i costruttori e sponsorizzano le coop. Esattamente come, nella Prima Repubblica, non si poteva potenziare il trasporto su rotaia e su acqua perché la Fiat doveva intasare l’Italia di auto. L’ambiente non è di destra né di sinistra. Eppure, invece di adottare politiche bipartisan per l’ambiente, le politiche bipartisan sono quelle contro l’ambiente. Due domande, per finire.

1) Provate a guardare alla stampa con occhio diverso, soprattutto con quella che vi costringe a confrontarvi con la gente e il territorio. Noi quest’anno abbiamo dato voce all’Italia dei senza voce: alle popolazioni di Serre, Tarquinia e Vicenza, alle fasce più deboli che si sentono minacciate dal precariato, dal caro casa, dalla criminalità ingigantita dall’indulto. Voi non siete mai venuti a confrontarvi con loro. Vi siete rinchiusi nelle vostre torri d’avorio o avete preferito altri salotti ben più confortevoli. Tipo Ballarò, dove D’Alema può zittire così il conduttore che gli fa una domanda: “Lei non si preoccupi!”, come Totò che diceva: “Si lasci servire da me, ho fatto 3 anni di militare a Cuneo”. A settembre, se ci sarete ancora, pensateci: qui non incontrerete giornalisti in ginocchio, veline, plastici della villa di Cogne col contorno di mestoli, zoccoli e zoccole. Ma qualche pezzo di paese reale. Non è meglio incontrarla subito, la gente, invece di aspettare che vi insegua, vi raggiunga e vi fischi? Un tempo eravate voi a dire “lei non sa chi sono io”. Oggi sono i vostri elettori che lo dicono a voi.

2) A settembre, se ci sarete ancora, perché non organizzate un bell’accordo bipartisan sull’ambiente? Anziché inciuciare per scalare le banche e i giornali, per l’indulto e le leggi contro la giustizia o contro la stampa che racconta gli scandali, perché non fate una bella Bicamerale per rendere più respirabile l’aria? Sarà l’unico inciucio che la gente non fischierà. Anzi, potrebbe persino applaudirvi.

In attesa di un cortese riscontro, che per esperienza difficilmente arriverà, vi auguro buone vacanze. Ci vediamo a settembre, se ci sarete ancora.

POSTA PRIORITARIA

MARCO TRAVAGLIO

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Annozero (21 giugno 2007)

LA RISPOSTA DI FAUSTO BERTINOTTI

Roma, 21 giugno 2007 Egregio dottor Travaglio, ho letto la lettera aperta che ha voluto rivolgere dalla trasmissione “Anno Zero” ai Presidenti dei due rami del Parlamento. Per parte mia vorrei provare a rispondere alle questioni da Lei poste che investono la mia responsabilità. Altre e assai complesse pone la Sua lettera, ma su di esse non ho titolo per intervenire, almeno qui. Su altre questioni ancora, altri hanno la responsabilità di decisioni che non mi hanno investito. Capisco che se si pensa di rivolgersi non a una persona ma a una casta - e il voi è indifferenziatamente rivolto al ceto politico - le differenze valgono poco o nulla. Non pretendo di convincere alcuno ad una diversa lettura della politica, solo vorrei testimoniare un altro vissuto, un differente punto di vista. Ho fatto per oltre trenta anni consecutivi il sindacalista e, anche quando un grande partito mi offrì una prestigiosa candidatura parlamentare (molti, molti anni fa), rifiutai per continuare a fare il mestiere di sindacalista perché mi pareva più consono ad un certo progetto politico. Poi ho fatto - mi hanno consentito di fare - altre scelte di dirigente di partito e di parlamentare, le ho fatte con la stessa motivazione e con la stessa idea della vita. Insomma, la politica come una pratica e un processo dalle molte e diverse esperienze unite da una stessa ispirazione, il contrario della casta. Ancora una premessa, se posso. Non ho né l’abitudine né l’attitudine a sfuggire dalle responsabilità di una scelta compiuta, neppure se impopolare. Ho avuto buoni maestri. Vengo, seppure in una versione assai più modesta, da una tradizione che non teme l’impopolarità immediata quando si pensi che la scelta che la può produrre debba essere fatta per il suo valore intrinseco (un elemento pedagogico) o perché capace di lavorare per un obiettivo differito, più lontano nel tempo, ma considerato importante. Si pensi, per capirci, al Togliatti Guardasigilli del primo Governo repubblicano dopo la vittoria della Lotta di liberazione, che vara l’amnistia nei confronti dei suoi nemici. Non c’è paragone possibile con altre esposizioni al rischio. Non ho votato, solo perché il Presidente della Camera non vota, l’indulto, ma non ho alcuna difficoltà ad assumermi la responsabilità di una piena condivisione. Ero tra i parlamentari che applaudivano, con qualche emozione - in realtà tutti i parlamentari di tutti i gruppi hanno applaudito calorosamente - l’intenso intervento di Papa Giovanni Paolo II quando chiese al legislatore di adottare una misura di clemenza per i carcerati, proposta come una misura di umanità e di civiltà giuridica. Non ho cambiato idea nel troppo lungo tempo di inazione parlamentare che vi ha fatto colpevolmente seguito. La condizione della popolazione carceraria, gli ultimi, aveva raggiunto un livello intollerabile;

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intervenire per alleviare una condizione diventata disumana mi è sembrato, e ancora mi pare, una priorità, quand’anche questo producesse contraddizioni e nuovi problemi. La parola degli ultimi andava ascoltata. Come vede non fuggo. Ma certo, invece, non posso rispondere di atti di cui non sono stato partecipe direttamente né indirettamente, come, per esempio, di una legge votata diciotto anni fa - il nuovo codice di procedura penale - che mi viene messa in carico seppure non fossi neppure parlamentare. Qui mi professo innocente. A proposito di altre questioni ancora, che questa volta riguardano il tempo presente, vorrei ricordare che la Camera dei deputati, per fortuna, non è organizzata come una monarchia assoluta ma secondo il modello dello Stato di diritto. In esso vige il principio della divisione dei poteri e della suddivisione delle responsabilità e ogni potere, a partire da quello del Presidente, è disciplinato da regolamenti, norme e interpretazioni delle stesse, secondo una dottrina che si avvale dei precedenti al fine di produrre una tradizione consolidata che ne ispiri i comportamenti. La logica è evidente: vanno evitati gli abusi, gli arbītri, le discrezionalità nell’esercizio dei poteri e, insieme, le dittature delle maggioranze. La questione della ineleggibilità e della decadenza dal mandato è regolata dalla legge. Essa prevede che, perché se ne realizzino le condizioni, deve essere intervenuta la condanna definitiva in un giudizio penale cui sia seguita l’irrogazione della sanzione accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici e la conseguente perdita del diritto di elettorato, con la cancellazione dalle liste elettorali del comune di residenza. Nessuno dei parlamentari in carica si trova in questa condizione, ad eccezione del deputato Previti per il quale è aperto il procedimento. La proclamazione della decadenza di un parlamentare è, a sua volta, regolata dalle norme interne all’istituzione. Esse attribuiscono alla Giunta per le elezioni l’istruttoria del procedimento al fine di giungere ad una proposta, sia all’unanimità sia a maggioranza, da sottoporre all’Assemblea. La decisione è rimessa all’Assemblea, che vota la proposta della Giunta. Può anche accadere, come è recentemente accaduto di fronte ad una proposta avanzata unanimemente dalla Giunta nel senso della decadenza di due parlamentari per incompatibilità con altri incarichi, che l’Assemblea bocci la proposta. Quel che non può accadere è, invece, che sia il Presidente della Camera a decidere o ad essere responsabile della decisione. La Giunta per le elezioni propone, l’Assemblea dispone. Nel caso del deputato Previti, dopo una lunga istruttoria, la Giunta per le elezioni ha accertato, nella riunione del 29 maggio 2007, una causa di ineleggibilità, deliberando la contestazione della sua elezione. Per il prossimo lunedì 9 luglio, in applicazione del regolamento della Giunta, che ne fissa i tempi, è convocata la seduta pubblica per l’esame della contestazione, in contraddittorio fra le parti. Al termine, la Giunta si riunisce in camera di consiglio, senza soluzione di continuità, per deliberare la proposta da sottoporre all’Assemblea. Chiedo, a mia volta, a leggi e regolamenti vigenti, qual è il rilievo critico che si avanza? Cosa altro si sarebbe dovuto fare? Può manifestarsi una critica per la lunghezza dei procedimenti, ma c’è qualcuno che, perché si protraggono a lungo dei procedimenti giudiziari, incolpa di ciò il Presidente della Repubblica, quale Presidente del Consiglio superiore della magistratura? Obiettivamente più delicata e complessa è la questione dei componenti della Commissione Antimafia. E’ vero, infatti, che essi sono nominati dai Presidenti

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delle due Camere, ma per prassi la nomina è sempre avvenuta sulla base della designazione dei gruppi parlamentari. Nell’attuale legislatura si è soltanto confermata la prassi consolidata e ininterrotta, secondo la quale, senza eccezioni, i Presidenti delle Camere non si sono mai discostati dalle designazioni provenienti dai gruppi parlamentari. Riconosco che si può discutere questa scelta. Vorrei tuttavia far osservare la particolare delicatezza di un eventuale intervento dei Presidenti in una condizione in cui entrambi provengono dalle fila della maggioranza, per cui si sarebbe potuto avanzare il sospetto di una pressione per menomare le prerogative dell’opposizione. Uno strappo istituzionale di controversa lettura rispetto alla dialettica maggioranza-opposizione presenterebbe, mi pare, più d’una controindicazione. Certo, un problema esiste ma, io credo, a monte dell’ingresso in Parlamento nella qualità di deputati eletti. Se posso esprimere un’opinione personale, non connessa alla mia attuale funzione, mi confermo in quella che ho avuto occasione di sostenere in passate elezioni, quando le ho affrontate da dirigente di partito. I partiti dovrebbero convenire nella decisione di escludere dalle proprio liste - secondo un principio di responsabilità politica, e non giuridica - condannati o, anche, rinviati a giudizio per reati socialmente pericolosi. Per questo mi convinse molto e sostenni nelle ultime elezioni la proposta del Procuratore Grasso. Su questo trovo importante l’orientamento della Commissione Antimafia di proporre ai partiti, già nelle elezioni comunali e provinciali, un codice che impegni i partiti stessi ad un’autotutela, in particolare nei confronti di tipologie di reati quali quelli di mafia, di riciclaggio di denaro, di usura, eccetera. Quel che credo sbagliato sarebbe la sostituzione di una volontà politica moralizzatrice, che si può manifestare nei comportamenti scelti come nella produzione di leggi adeguate, con interventi autoritativi, per altro non consentiti dalle leggi e dalle norme. Il ricorso alla legge e il suo rispetto non sono, credo, un lusso garantista, bensì il fondamento (quanto duro e a volte persino vissuto come iniquo, lo so bene) della democrazia conosciuta. Con questa ispirazione abbiamo scritto, il Presidente Marini ed io, al Presidente del tribunale di Milano, la dottoressa Livia Pomodoro, su una questione concernente intercettazioni riguardanti alcuni parlamentari. Non è vero che abbiamo scritto, come Lei ha detto, “denunciando inesistenti violazioni dell’immunità parlamentare”. Ne fa fede il testo della legge. Abbiamo, molto rispettosi dell’autonomia del magistrato, chiesto un chiarimento. Ci ha guidati l’esigenza non di tutelare qualcuno, ma una prerogativa generale del Parlamento secondo la quale per l’utilizzo delle intercettazioni operate sui suoi membri è necessaria un’autorizzazione da parte della Camera di appartenenza. Giusta prerogativa o sbagliata? Quel che è certo è che si tratta della prerogativa fissata dalla legge Boato, oggi in vigore. Mi pare che ci sia, inoltre, un qualche problema di applicazione, di interpretazione. La risposta del magistrato, che considero utile e corretta, ha reso evidente che la sollecitazione da noi operata non era pretestuosa e che meritava una risposta. L’abbiamo avuta. Nessuno è andato oltre. Bene, non capisco cosa ci sia da recriminare e nei confronti di chi. Come vede il riscontro, certamente cortese, forse si è già fin troppo dilungato, abusando della Sua attenzione. Una cosa almeno vorrei però aggiungere. Siamo di fronte a problemi grandi e difficili. C’è, secondo me, una crisi profonda della politica e una separatezza delle Istituzioni dal paese reale. C’è una crisi

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strisciante della democrazia in tutta Europa e in Italia, con caratteri specifici. Penso che solo una rinascita della politica come progetto di società e come organizzazione della partecipazione possa rispondervi adeguatamente. Ma intanto ognuno deve fare la sua parte e sottoporsi al giudizio della popolazione. Anche sulla questione dei costi della politica, a cui Lei pure si è riferito. Su questo tema la Presidenza del Senato e della Camera stanno lavorando, d’intesa con i rispettivi Collegi dei Questori, per definire rapidamente delle proposte comuni. Ci sarà il coinvolgimento di tutti i soggetti interessati. Poi ci sarà una proposta di un intervento per correggere storture e rendere più convincenti le Istituzioni. Non si dovrà attendere molto. Il merito delle proposte potrà essere valutato e criticato. Ma non si potrà denunciare un immobilismo. Al di là di ogni singola questione, più in generale - e per ciò che mi riguarda - voglio solo continuare a poter rispondere dei miei atti e delle mie responsabilità in piena coscienza, come sempre. Cordiali saluti. Fausto BertinottiRISPOSTA A BERTINOTTI

di Marco Travaglio

23 giugno 2007 Gentile presidente Bertinotti, la ringrazio per la sua risposta alla mia Posta Prioritaria (praticamente la prima che ricevo, in sedici puntate) e per la pacatezza a cui è improntata, che la rende ancor più rara e preziosa. Le questioni che Lei solleva sono complesse, ma in questa mia replica mi limiterò, per brevità, ai punti fondamentali. Precisando subito che la Posta Prioritaria era indirizzata a Lei e al presidente del Senato Franco Marini non in quanto vi ritenessi responsabili di tutto quanto fanno le Camere, ma in quanto siete i massimi rappresentanti delle medesime. 1) L’intenzione di venire incontro con l’indulto alle parole del Santo Padre e alle esigenze della popolazione carceraria in soprannumero era certamente lodevole. Gli effetti devastanti del provvedimento, peraltro prevedibili, sull’ordine e la sicurezza pubblici avrebbero dovuto forse consigliare maggiore prudenza (per esempio, con uno sconto di 1 anno sulle pene anziché di 3), o magari il ricorso a qualche misura alternativa, come la riforma delle leggi che “producono” detenuti in sovrannumero: la ex Cirielli per i recidivi, la Bossi-Fini sugli immigrati clandestini e la Fini-Giovanardi che punisce anche i consumatori di droghe. Rivedendo quelle tre leggi, oltre a sfollare le carceri, avreste anche mantenuto alcune promesse del Vostro programma elettorale, che resta invece in larghissima parte inattuato. Resta poi da capire che cosa c’entrasse con il sovraffollamento delle carceri l’inclusione nell’indulto dei reati finanziari, fiscali e contro la Pubblica amministrazione, ma anche il voto di scambio politico-mafioso, la cui incidenza sulla popolazione carceraria è nulla. Ho il massimo rispetto per la Sua trentennale esperienza sindacale, ma proprio per questo sono rimasto sorpreso quando ho saputo della contrarietà Sua e del Suo partito all’esclusione dall’indulto dei delitti commessi ai danni dei lavoratori e persino degli omicidi colposi dovuti a infortuni sul lavoro e a

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contaminazioni letali da amianto. Gli appelli in tal senso dei parenti delle vittime dell’amianto e della Fiom-Cgil sono rimasti desolatamente inascoltati. Non credo che papa Giovanni Paolo II, quando chiese alla Camera un gesto concreto per alleviare le condizioni dei carcerati, pensasse a Previti, ai furbetti del quartierino, ai bancarottieri, agli evasori fiscali, ai politici che trafficano con la mafia, agl’imprenditori senza scrupoli che ammazzano e avvelenano i loro dipendenti. 2) Ho citato il Codice del 1989 per rammentare ai parlamentari che il “segreto istruttorio” di cui continuamente parlano, imputandone le violazioni a magistrati, polizia giudiziaria e giornalisti, non esiste più da 18 anni. Dunque le presunte violazioni sempre lamentate, semplicemente, non esistono. E tutte le polemiche in materia sono pretestuose. La lettera scritta da Lei e da Marini al presidente del Tribunale di Milano citava espressamente le “preoccupazioni” del Parlamento in merito a possibili, future violazioni dell’articolo 68 della Costituzione che regola le guarentigie dei parlamentari. Preoccupazioni del tutto infondate, visto che proprio in ossequio alla legge Boato i giudici di Milano si accingono a trasmettere alle Camere le intercettazioni che, indirettamente, hanno coinvolto membri del Parlamento, per ottenere l’autorizzazione a utilizzarle nei processi. Tutt’altra faccenda è quella della divulgabilità di quelle telefonate che, dal momento del deposito delle trascrizioni a disposizione delle parti (e tantopiù quando arriveranno alla Camera e al Senato), non sono più segrete e dunque i giornali - come sempre fanno dal 1989 - ne possono, anzi ne devono parlare in nome del sacrosanto dovere di informare e dell’inviolabile diritto dei cittadini a essere informati. La Vostra lettera ha purtroppo sortito l’effetto di indurre il Tribunale a vietare agli avvocati la fotocopiatura degli atti, costringendo così i giornalisti ad affidarsi alla memoria dei legali o ai brandelli di conversazioni che quelli riuscivano ad appuntarsi nel poco tempo loro concesso per consultare quasi 500 pagine di materiale. 3) So bene che non spetta al presidente della Camera pronunciarsi sulla decadenza dal mandato parlamentare del pregiudicato interdetto Cesare Previti. E che la giunta per le elezioni sta seguendo la pratica da 14 mesi. Ma, proprio perché conosco il principio della divisione dei poteri a cui Lei fa riferimento, mi domando come possa la Camera sindacare per 14 mesi una sentenza definitiva della magistratura, quasi che esistesse per i parlamentari un quarto grado di giudizio in aggiunta ai tre consentiti ai comuni mortali. Se il bidello di una scuola pubblica viene condannato con interdizione perpetua dai pubblici uffici, smette sic et simpliciter di fare il bidello. Lo licenziano in tronco, punto e basta. Se la Camera discute, e addirittura vota, pro o contro un verdetto già irrevocabilmente emesso dalla Corte di Cassazione, si configura una gravissima lesione del potere giudiziario da parte del legislativo, tale da rendere addirittura possibile un conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato. Possibile che la condanna di Previti sia divenuta immediatamente esecutiva per la pena detentiva (al punto che Previti si consegnò spontaneamente al carcere di Rebibbia all’indomani della lettura del dispositivo), mentre la pena accessoria - interdizione perpetua dai pubblici uffici - è oggetto di interminabili negoziati, dibattiti, votazioni da parte del Parlamento, che invece dovrebbe limitarsi a prendere atto della decisione della magistratura e accompagnare l’interdetto alla porta affinché sia sostituito dal primo dei non eletti? Possibile che Lei, nella sua veste di presidente della Camera, magari con quella che

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viene definita “moral suasion” (anche se nel caso Previti di “moral” c’è veramente ben poco), non possa sollecitare la giunta e l’assemblea a porre fine a questo sconcio? Se nell’Ordine dei giornalisti sedesse un ladro conclamato, Le assicuro che molti, compreso il sottoscritto, ne chiederebbero l’immediata espulsione o, in alternativa, si dimetterebbero per non dover sedere nel medesimo organismo che ospita un ladro. Mi domando perché, alla Camera, nessuno dei 630 deputati avverta il disagio per la convivenza da 14, diconsi quattordici mesi, con un corruttore di giudici. 4) Sarà pur vero che la “prassi consolidata” vuole che i presidenti delle Camere si limitino a confermare i candidati per la commissione parlamentare Antimafia indicati dai partiti, senza alcun sindacato sulla loro qualità morale o penale. Ma, trattandosi di un organismo che dovrebbe indagare sulla criminalità organizzata e combatterne i legami con la politica, mi pare davvero impossibile che, magari con discrezione, Lei non potesse invitare i gruppi parlamentari a non sottoporle candidati condannati definitivamente per corruzione, come i poco onorevoli Paolo Cirino Pomicino e Alfredo Vito. Non foss’altro che per un motivo: che quella scelta, ufficialmente, ricade su di Lei e sul presidente Marini. Il problema, Lei dice, è “a monte dell’ingresso in Parlamento”: i condannati non andrebbero candidati perché, una volta eletti, non c’è più nulla da fare. Mi permetto di dissentire. Intanto perché la legge sugli enti locali vieta ai condannati per reati contro la Pubblica amministrazione e per quelli ancor più gravi di farsi eleggere nei consigli comunali, provinciali e regionali; ma il Parlamento si è “dimenticato” di estendere il divieto ai membri di Camera e Senato. Ragion per cui esistono attualmente 25 personaggi condannati definitivamente che, non potendo fare i consiglieri comunali, fanno i parlamentari. In secondo luogo, perché il suo partito ha candidato e fatto eleggere (con le liste bloccate) in Parlamento un condannato per fabbricazione, detenzione e porto abusivo di ordigni esplosivi, resistenza a pubblico ufficiale, lesioni personali gravi e inosservanza degli ordini dell’autorità: reati che definirei, secondo una Sua espressione, “socialmente pericolosi”. Il soggetto in questione è stato subito promosso vicepresidente della commissione Giustizia del Senato: l’uomo giusto al posto giusto. In terzo luogo, perché il segretario generale della Camera da Lei presieduta, eletto con la Rosa nel Pugno, è un signore condannato addirittura per concorso in omicidio. Nessuna legge, credo, obbliga di inserire due corrotti in Antimafia o un omicida ai vertici dell’aula di Montecitorio. 5) Apprezzo molto gli sforzi dei presidenti di Camera e Senato per ridurre i costi della politica, anche se da quel che ho capito gli eventuali tagli riguarderanno la prossima legislatura e non l’attuale, peraltro iniziata da un anno soltanto. Mi permetto però di dubitare che la “crisi profonda della politica” e la “separatezza delle Istituzioni dal paese reale” che lei segnala col giusto allarme dipendano soltanto, o principalmente, dagli alti costi della politica. Quando in Parlamento siedono, perlopiù legalmente (ma nel caso di Previti abusivamente), 25 pregiudicati per delitti anche molto gravi, e una settantina fra imputati, indagati o condannati in via provvisoria, con una percentuale che supera ormai il 10%, cioè con un tasso di devianza criminale non riscontrabile nemmeno nei quartieri più a rischio come Scampia o Secondigliano, i cittadini non possono far altro che domandarsi: ma chi fa le leggi non dovrebbe essere il primo a rispettarle?

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Marco TravaglioCOMPRATI E VENDUTI

Mondadori - Sentenza comprata coi soldi di Berlusconi, sfuggito al processoChi pagherà i danni a De Benedetti?

Dunque, la sentenza della Corte d’appello di Roma che nel gennaio 1991 annullò il lodo Mondadori e sfilò il primo gruppo editoriale italiano dalle mani di Carlo De Benedetti per consegnarlo a Silvio Berlusconi, era una sentenza comprata. Comprata da Cesare Previti, Attilio Pacifico e Giovanni Acampora con denaro della Fininvest di Silvio Berlusconi: almeno 400 milioni di lire consegnati brevi manu al giudice relatore ed estensore del verdetto, Vittorio Metta, che depositò 168 pagine di motivazione in meno di 24 ore dalla fine della camera di consiglio. Perché, evidentemente, le aveva scritte prima o gliele aveva scritte qualcun altro: magari gli avvocati della Fininvest, Previti, Pacifico e Acampora, che due mesi prima avevano fatto altrettanto con la sentenza Imi-Sir. Un mese dopo, dalle casse della All Iberian (Fininvest), parte un bonifico di 3 miliardi e 36 milioni di lire destinato al conto svizzero Careliza Trade di Acampora. Il quale, il 1° ottobre ‘91, ne gira una parte - 425 milioni - a Previti, che li dirotta in due tranche al conto Pavoncella di Pacifico. Questi preleva in contanti quei 400 milioni che, secondo l’accusa, qualche giorno dopo vengono consegnati a Metta. Metta, qualche tempo dopo, lascia la magistratura e va a lavorare con la figlia Sabrina nello studio Previti. È questa, in attesa delle motivazioni, la traduzione della sentenza con cui la Corte d’appello di Milano ha condannato tutti gli imputati a pene varianti fra i 18 mesi (i tre avvocati corruttori) e i 33 mesi (il giudice corrotto). Manca all’appello un solo imputato: Silvio Berlusconi, uscito anche da questo processo prim’ancora che cominciasse. A lui, il 25 giugno 2001, la Corte d’appello di Milano regalò la prescrizione grazie alla generosa concessione delle attenuanti generiche (le merita "di per sé" - scrissero i giudici - per le sue "attuali condizioni di vita individuale e sociale"): regalo sempre negato ai coimputati. Alla fine il paradosso è che colui che ha fornito la provvista per corrompere il giudice e ha beneficiato della sentenza comprata, cioè il Cavaliere, rimane indenne, mentre chi ha materialmente gestito l’operazione paga anche per lui. Almeno sul piano penale. Tutt’altro discorso per il livello civile. Difficilmente, infatti, Previti accetterà di pagare anche queste conseguenze per l’attività corruttiva svolta per conto di Berlusconi. Tutto dipende dalla sentenza della Cassazione, che dovrebbe arrivare molto presto, per evitare che il caso cada in prescrizione proprio sul filo di lana. È altamente probabile che la Suprema Corte confermi le condanne del secondo appello, visto che era stata proprio lei ad annullare le assoluzioni del primo. Se dunque le condanne divenissero definitive (ma anche se dovessero cadere in prescrizione), gli imputati dovrebbero risarcire i danni alla Cir, la finanziaria di Carlo De Benedetti, defraudata nel ‘91 della Mondadori. Danni da capogiro, se si pensa che il gruppo editoriale scippato all’Ingegnere comprendeva, oltre al settore libri, il quotidiano la Repubblica, i settimanali, l'Espresso, Panorama ed Epoca, una quindicina di giornali locali Finegil e varie riviste (grazie a una mediazione imposta da Andreotti tramite l’amico Ciarrapico, il Cavaliere restituì solo una parte del maltolto: la Repubblica, l’Espresso e i quotidiani Finegil). La Cir, parte civile al processo,

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aveva quantificato il risarcimento in 1 miliardo di euro per i danni patrimoniali e non. I giudici hanno deciso di non liquidare alla Cir una provvisionale immediatamente esecutiva, limitandosi a condannare gli imputati a versare 390 mila euro di spese legali; ma hanno riconosciuto all'Ingegnere tanto i danni patrimoniali quanto quelli non patrimoniali, demandando al separato giudizio civile di quantificarli. Dopo la sentenza definitiva, la causa civile della Cir contro i condannati non dovrebbe riservare sorprese. A quel punto Previti, prima di mettere mano al portafogli alla ricerca di qualche centinaio di milioni di euro, sarà costretto a ricordare al suo illustre cliente chi si è intascato la Mondadori, con 16 anni di profitti abusivi.

MARCO TRAVAGLIO l’Unità (25 febbraio 2007)Prendi la Mondadori e scappa

La sentenza del 1991 che annullò il lodo Mondadori e consegnò il primo gruppo editoriale italiano a Silvio Berlusconi, sfilandolo a Carlo De Benedetti, era comprata. L’acquirente si chiama Cesare Previti, che agiva per conto del Cavaliere e con denaro della Fininvest, beneficiaria finale del mercimonio criminale. Questo, tradotto in italiano, significa la condanna definitiva emessa l'altroieri dalla Cassazione a carico degli avvocati Fininvest Cesare Previti (che ieri è tornato agli arresti domiciliari nella residenza di piazza Farnese), Attilio Pacifico e Giovanni Acampora e del giudice Vittorio Metta.

DA 17 ANNI, dunque, Berlusconi - soi disant «uomo che s’è fatto da sé» - possiede abusivamente una casa editrice, con i suoi libri e i suoi settimanali (tra i quali Panorama e il defunto Epoca), che ha utilizzato finanziariamente per accumulare utili e politicamente, prima per sostenere i suoi padrini (Craxi in primis), poi per costruire il consenso necessario alla sua «discesa in campo», ai suoi due governi e alle sue quattro campagne elettorali. Ancora l’altroieri il sito di Panorama ha diramato, in violazione del segreto investigativo, la notizia della presunta iscrizione sul registro degli indagati di Romano Prodi da parte della Procura di Catanzaro: ma Panorama, senza la sentenza comprata del 1991, non apparterrebbe a Berlusconi. Visto lo spazio lillipuziano riservato dai media “indipendenti” a un verdetto così clamoroso (nemmeno un accenno sulla prime pagine di Corriere della sera, Messaggero e Stampa, per non parlare del Giornale), è il caso di riepilogare la storia di quella sentenza comprata. IL LODO. Nel 1988 Berlusconi, che già da tempo ha messo un piede nella casa editrice rilevando le azioni di Leonardo Mondadori, annuncia: «Non voglio restare sul sedile posteriore». De Benedetti, che controlla il pacchetto di maggioranza, resiste all’assalto e si accorda con la famiglia Formenton, erede di Arnoldo, che s’impegna a vendergli il suo pacchetto azionario entro il 30 gennaio ‘91. Ma gli eredi cambiano idea e, nel novembre ‘89, fanno blocco con Berlusconi che, il 25 gennaio 1990, si insedia alla presidenza della casa editrice. Oltre a tre tv e al Giornale, dunque, il Cavaliere s’impossessa del gruppo editoriale che controlla Repubblica, Panorama, Espresso, Epoca e i 15 giornali locali Finegil, spostandolo dal campo anticraxiano a quello

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filocraxiano. La “guerra di Segrate”, per unanime decisione dei contendenti, finisce dinanzi a un collegio di tre arbitri, scelti da De Benedetti, dai Formenton e dalla Cassazione. Il lodo arbitrale, il 20 giugno ‘90, dà ragione a De Benedetti. Il suo patto con i Formenton resta valido, le azioni Mondadori devono tornare all’Ingegnere. Berlusconi lascia la presidenza, arrivano i manager della Cir debenedettiana: Carlo Caracciolo, Antonio Coppi e Corrado Passera. Ma il Cavaliere rovescia il tavolo e, insieme ai Formenton, impugna il lodo alla Corte d’appello di Roma. Se ne occupa la I sezione civile, presieduta da Arnaldo Valente (secondo Stefania Ariosto, frequentatore di casa Previti). Giudice relatore ed estensore della sentenza: Vittorio Metta, anch’egli intimo di Previti. La camera di consiglio si chiude il 14 gennaio ‘91. Dieci giorni dopo, il 24, la sentenza viene resa pubblica: annullato il Lodo, la Mondadori torna per sempre a Berlusconi. L’Ingegnere lo sapeva già: un mese prima il presidente della Consob, l’andreottiano Bruno Pazzi, aveva preannunciato la sconfitta al suo legale Vittorio Ripa di Meana. «Correva voce - testimonierà De Benedetti - che la sentenza era stata scritta a macchina nello studio dell’avvocato Acampora ed era costata 10 miliardi... Fu allora che sentii per la prima volta il nome di Cesare Previti, come persona vicina a Berlusconi e notoriamente molto introdotta negli uffici giudiziari romani». Nonostante il trionfo, comunque, Berlusconi non riesce a portare a casa l’intera torta. I direttori e molti giornalisti di Repubblica, Espresso e Panorama si ribellano ai nuovi padroni. Giulio Andreotti, allarmato dallo strapotere di Craxi sull’editoria, impone una transazione nell’ufficio del suo amico Giuseppe Ciarrapico: Repubblica, Espresso e i giornali Finegil tornano al gruppo Caracciolo-De Benedetti; Panorama, Epoca e il resto della Mondadori rimangono alla Fininvest. I SOLDI. Indagando dal 1995 sulle rivelazioni di Stefania Ariosto sulle mazzette di Previti ad alcuni giudici romani, il pool di Milano scopre il fiume di denaro che dalla Fininvest affluì sui conti esteri degli avvocati della Fininvest e da questi, in contanti, nelle mani del giudice Metta. Il 14 febbraio ‘91 dalle casse della All Iberian parte un bonifico di 2.732.868 dollari (3 miliardi di lire) al conto Mercier di Previti. Da questo, il 26 febbraio, altro bonifico di 1 miliardo e mezzo (metà della provvista) al conto Careliza Trade di Acampora. Questi il 1° ottobre bonifica 425 milioni a Previti, che li dirotta in due tranche (11 e 16 ottobre) sul conto Pavoncella di Pacifico. Il quale preleva 400 milioni in contanti il 15 e il 17 ottobre, e li fa recapitare in Italia a un misterioso destinatario: secondo l’accusa, è Vittorio Metta. Il giudice, nei mesi successivi, fa diverse spese (tra cui l’acquisto e la ristrutturazione di un appartamento per la figlia Sabrina e l’acquisto di una nuova auto Bmw) soprattutto con denaro contante di provenienza imprecisata (circa 400 milioni). Poi si dimette dalla magistratura, diventa avvocato e va a lavorare con la figlia Sabrina nello studio Previti. A proposito di quei 3 miliardi Fininvest, Previti parla di «tranquillissime parcelle», ma non riesce a documentare nemmeno uno straccio di incarico professionale in quel periodo. Mentono anche Pacifico e Acampora. E così Metta che, sulla provenienza dell’improvvisa, abbondante liquidità (per esempio, un’eredità), viene regolarmente smentito dai fatti. Poi giura di aver conosciuto Previti solo nel ‘94, ma mente ancora: i pm Boccassini e Colombo scoprono telefonate fra i due già nel 1992-93. Poi ci sono le modalità a dir poco stravaganti della sentenza Mondadori: dai registri della Corte d’appello emerge che Metta depositò la motivazione (168 pagine) il 15 gennaio ’91: il giorno dopo della camera di consiglio. Un’impresa mai riuscita a un giudice, né

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tantomeno a lui, che impiegava 2-3 mesi per sentenze molto più brevi. Evidente che quella era stata scritta prima che la Corte decidesse.

IL PROCESSO. Nel 1999 il pool chiede il rinvio a giudizio per Berlusconi, Previti, Metta, Acampora, Pacifico. Nel 2000 il gup li proscioglie tutti con formula dubitativa (comma 2 art. 530 cpp). Ma nel 2001 la Corte d’appello, accogliendo il ricorso della Procura, li rinvia a giudizio, tranne Berlusconi, appena tornato a Palazzo Chigi e salvato dalla prescrizione: a lui i giudici accordano le attenuanti generiche. Perché a lui sí e agli altri no? Per «le attuali condizioni di vita individuale e sociale il cui oggettivo di per sé giustifica l’applicazione» delle attenuanti. La Cassazione conferma: il Cavaliere non è innocente, anzi è «ragionevole» e «logico» che il mandante della tangente a Metta fosse proprio lui. Ma un semplice fatto tecnico come le attenuanti prevalenti «per la condotta di vita successiva all’ipotizzato delitto». Anziché rinunciare alle generiche per essere assolto nel merito, Berlusconi prende e porta a casa. E fa bene: gli altri coimputati, senza le attenuanti, saranno tutti condannati. In primo grado, nel 2003, Metta si prende 13 anni, Previti e Pacifico 11 anni sia per Mondadori sia per Imi-Sir, e Acampora (per la sola Mondadori) 5 anni e 6 mesi. Nel 2005, in appello, tutti condannati per Imi-Sir e tutti assolti (sempre col comma 2 dell’art. 530) per Mondadori. Ma nel 2006 la Cassazione annulla le assoluzioni e ordina alla Corte d’appello di condannare anche per Mondadori. La qual cosa accade nel febbraio 2007: Previti, Pacifico e Acampora si vedono aumentare la pena di un altro anno e 6 mesi e Metta di 1 anno e 9 mesi, in «continuazione» con le condanne ormai definitive per Imi-Sir. Scrivono i giudici che la sentenza Mondadori fu «stilata prima della camera di consiglio», «dattiloscritta presso terzi estranei sconosciuti» e al di «fuori degli ambienti istituzionali». Tant’è che al processo ne sono emerse «copie diverse dall’originale». Berlusconi era all’oscuro dell’attività corruttiva del suo avvocato-faccendiere (che ufficialmente non difendeva la Fininvest nella causa, seguita dagli avvocati Mezzanotte Vaccarella e Dotti)? Nemmeno per sogno: il Cavaliere - scrivono i giudici - aveva «la piena consapevolezza che la sentenza era stata oggetto di mercimonio». Del resto, «la retribuzione del giudice corrotto è fatta nell’interesse e su incarico del corruttore», cioè di Berlusconi. E «l’episodio delittuoso si svolse all’interno della cosiddetta “guerra di Segrate”, combattuta per il controllo di noti ed influenti mezzi di informazione; e si deve tener conto dei conseguenti interessi in gioco, rilevanti non solo sotto un profilo meramente economico, comunque ingente, ma anche sotto quello prettamente sociale della proprietà e dell’acquisizione dei mezzi di informazione di tale diffusione». La Corte riconosce infine alla parte civile Cir di De Benedetti il diritto ai danni morali e patrimoniali, da quantificare in separata sede civile: «tanto il danno emergente quanto il lucro cessante, sotto una molteplicità di profili relativi non solo ai costi effettivi di cessione della Mondadori, ma anche ai riflessi della vicenda sul mercato dei titoli azionari». Ora che la sentenza è definitiva, e che Previti si è visto revocare l’affidamento ai servizi sociali per il “regime” dei domiciliari (e potrebbe decadere anche a breve il suo mandato parlamentare), la Cir con gli avvocati Pisapia e Rubini chiederà 1 miliardo di euro di danni. In pratica, 17 anni dopo, la restituzione del maltolto. Chissà se il Cavalier Prescritto li farà pagare ai condannati, o se metterà mano al portafogli. Nella prima ipotesi, qualcuno potrebbe innervosirsi e ricordarsi qualcosa. Magari raccontando chi gli chiese di comprare la sentenza Mondadori.

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MARCO TRAVAGLIOl’Unità (15 Luglio 2007)

CESARE IN ARTE CRISTO

Il personaggio ha sempre avuto un rapporto, per così dire, problematico con la verità. Fin da quando giurò che i 21 miliardi di lire recapitatigli in Svizzera dai Rovelli erano una “parcella” pagata da una famiglia che lui non aveva mai difeso. Poi cambiò tre o quattro versioni, spiegando poi al Tribunale attonito di aver mentito per «proteggermi dal fisco». Cioè perché era un evasore fiscale. Ma guai a ricordarglielo: lui rispondeva rabbioso «non sono un evasore perché ho fatto il condono», come se il condono lo facessero i contribuenti modello. Ora però le balle sesquipedali che Cesare Previti ha raccontato ieri alla giunta per le elezioni suonano decrepite, quasi provenissero dal Jurassic Park della memoria. Il suo vergognoso caso è già stato digerito dalla classe politica tutta, che l’ha frettolosamente archiviato insieme a tutte le altre putribonde indecenze della storia patria. Il fatto che il braccio destro di Berlusconi comprasse sentenze per conto del Cavaliere e di altri clienti che vincevano cause civili in cui avevano torto, scippando la Mondadori a De Benedetti o procurando a Rovelli 1000 miliardi di lire non dovuti a spese dei contribuenti, è considerato un accidente della storia. Da non usare mai nella battaglia politica, onde evitare che la questione morale vi si riaffacci pericolosamente. Da undici anni si sa che cosa faceva questo barattiere di sentenze con un pugno di giudici corrotti e impresari corruttori nelle aule di Giustizia, ma nessun leader politico s’è mai alzato per chiederne solennemente la cacciata dal Parlamento. Quel che lui ha detto ieri, a prescindere dal voto finale di 16 a 11 (comunque tardivo e ingiusto, per lo scempio che s’è fatto delle prerogative parlamentari dinanzi a una sentenza definitiva), dipende dall’annoiata indifferenza che l’ha avvolto in tutti questi anni. Quel che lui ha detto ieri, insozzando il Parlamento repubblicano e oltraggiando la logica, il diritto e la pubblica decenza, è esattamente ciò che lui sapeva di poter dire: «I miei persecutori non riusciranno mai a fiaccare la mia forza d’animo che deriva dal fatto che sono sempre stato onesto, leale e sono vittima di una persecuzione». In un paese che consente a tal Corona d’insultare a reti unificate senza replica i pm che hanno scoperto le sue porcherie, anche Previti vuole la sua parte. «L’ultimo mio giudice non è stato imparziale», ha sostenuto il perseguitato, profittando del fatto che nessuno ricorda quanti giudici l’han giudicato colpevole in base a prove che con la politica non c’entrano nulla: i bonifici bancari degli anni 80 e dei primi 90, quando lui faceva l’avvocato e il suo principale l’imprenditore. Previti s’è appellato alla Corte europea, come se esistesse per gli adepti della casta un quarto grado di giudizio. Anzi, un quinto: il quarto è l’incredibile giunta per le elezioni, che da 14 mesi si permette di discutere una sentenza della Cassazione e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici che ha già prodotto la cancellazione del nostro dalle liste elettorali. Così Previti ha potuto affermare: «Tesi contrapposte si dovrebbero confrontare in una posizione “in dubio pro reo”» (le “tesi contrapposte” sarebbero una sentenza irrevocabile della Suprema Corte e i delirii di un pregiudicato). E ha potuto spiegare, in barba alla giurisprudenza consolidata, che l’anno prossimo,

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quando concluderà il servizio sociale nella comunità per ex-tossici di don Picchi, insieme alla pena detentiva si esaurirà anche quella accessoria, che invece viaggia separatamente ed, essendo perpetua, è incancellabile. Ma anche se, per assurdo, avesse ragione, è davvero singolare che si dica: visto che devo scontare 3 anni, tanto vale aspettare 3 anni e non farmi scontare nemmeno un giorno. Se esistesse un minimo di decenza o di normalità, tutto finirebbe in una risata omerica. Invece sono tutti seriosi: discutono, si macerano, votano, rivotano, rivoteranno e chissà quando finirà la pantomima. Ne fa parte l’ex senatore dell’Ulivo Giovanni Pellegrino, che difende Previti e mette la faccia per sostenere tesi che uno si vergognerebbe di pensare: i giudici che han condannato Previti erano «politicizzati», «parziali», «prevenuti». Insomma, come direbbe anche Pio Pompa, toghe rosse. Parola del presidente Ds della Provincia di Lecce… Il quale riesce pure a dire, restando serio: «Qui non si tratta di difendere la persona Previti, ma lo status di parlamentare: Barabba fu assolto, il Nazareno fu condannato. E Socrate fu costretto a bere la cicuta». A nessuno è venuto in mente di rispondere: sì, ma Gesù e Socrate non rubavano. Pare brutto parlare di furto in casa del ladro.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIO l’Unità (10 luglio 2007)

ARCHIVIO: 29 APRILE 2007

Berlusconi assolto, "non fate domande e chiedetegli scusa"Dopo la sentenza Sme si scatenano i giornalisti, da Ferrara a Battista, fra sollievo e vendette: «È finito un quindicennio di giustizialismo»

PONIAMO IL CASO, puramente teorico, che in America si scoprisse che l’avvocato di Bush, deputato al Congresso, ha pagato due giudici con soldi provenienti da una società di Bush per fargli vincere alcune cause in cui aveva torto. Fra l’altro, per rubare il primo gruppo editoriale del Paese a un concorrente. Nell’eventualità, piuttosto remota, che l’avvocato-imputato in questione fosse riuscito a farsi eleggere al Congresso e il suo illustre cliente a farsi eleggere Presidente, che cosa farebbero i giornali e le tv di tutta l’America, cioè del paese in cui molti chiedono la testa del governatore della banca centrale perché ha raccomandato la sua fidanzata? In ogni articolo di fondo, conferenza stampa e programma televisivo, tutti tempesterebbero Bush con una semplice domanda: Dear Mister President, sapeva che, con i suoi soldi, il suo avvocato pagava giudici e comprava sentenze per farle vincere i processi? Se non lo sapeva, come lei afferma, non ritiene di essere responsabile di una macroscopica culpa in vigilando? E perché, quando l’ha scoperto, ha finora protetto il suo avvocato, facendolo eleggere deputato, anziché allontanarlo e chiedere i danni? Se invece lo sapeva, perché ha mentito al suo Paese? E cos’aspetta a dimettersi? BUONGIORNO, ITALIA Si dà il caso che queste cose siano accadute in Italia. Dunque ieri, dopo l’assoluzione di Berlusconi per insufficienza di prove dall’accusa di corruzione per un episodio costato all'avvocato Previti e al giudice Squillante una condanna in primo e secondo grado (annullata dalla Cassazione per questioni territoriali, non di merito), la politica e la stampa al seguito festeggiavano l'evento come se il caso fosse chiuso: mentre non lo è né sul piano penale (c'è ancora la Cassazione), né su quello politico-morale (la sentenza non può cancellare il bonifico Fininvest-Previti-Squillante da 434.404 dollari del 6 marzo 1991). I CORISTI La stampa berlusconiana suona trombette e tromboni, evitando di ricordare che se Previti e Pacifico non avessero pagato giudici con soldi di Berlusconi e del suo socio Barilla, nessuno avrebbe mai processato l'allegra brigata per corruzione giudiziaria. Renato Farina, alias Betulla, dice che «qualcuno» dovrebbe «chiedere scusa» a Berlusconi. Allude a Previti? No, ai giornalisti che han raccontato quelle

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tangenti. Ma anche a Prodi, che voleva «svendere la Sme» a De Benedetti. Lo scrive anche il Giornale della ditta: Prodi voleva «regalare la Sme per poche centinaia di miliardi», poi arrivò il Cavaliere bianco a sventare la minaccia (naturalmente è tutto falso: il prezzo concordato tra l'Iri e De Benedetti, unico pretendente, fu fissato da due perizie indipendenti, mentre quelle della cordata Fininvest-Barilla-Ferrero stimavano un prezzo addirittura inferiore). Poi c’è Giuliano Ferrara che, essendo molto intelligente per scienza infusa, può permettersi di scrivere un sacco di fesserie. Delira di «mozzorecchi» che «dilagano in tv con il loro uso criminoso, codino, qualunquista e volgare del mezzo» (parola di uno che imperversa ogni sera su La7, peraltro all'insaputa del pubblico, e anni fa compariva in tv spuntando da una pattumiera). Afferma che il processo Sme «è stato riaperto in fretta e furia dopo che il centrosinistra aveva liquidato la più bella e sana delle riforme della scorsa legislatura»: la legge Pecorella sull’inappellabilità (ma la legge è stata cancellata dalla Consulta: il centrosinistra, di leggi ad personam, non ne ha abrogata nemmeno mezza). Infine invita anche lui a «chiedere scusa al perseguitato». Parola di uno che definì «uomo probo» il giudice corrotto Squillante. Che pubblicò su Panorama l’«elogio di Previti», noto corruttore. Che nel ‘96 chiese alla sinistra di «inginocchiarsi per chiedere scusa a Craxi», pluripregiudicato e latitante. Se uno viene condannato, bisogna scusarsi con lui. Se uno viene assolto (o prescritto), bisogna scusarsi con lui. Solo chi non ruba non merita scuse: farebbe meglio ad autodenunciarsi al Foglio. PIGI Poi c’è la cosiddetta stampa indipendente. La Stampa scrive che «la fedina penale di Berlusconi è tornata candida e immacolata: niente più reati prescritti, basta formule dubitative». Ma qui la formula è dubitativa (art.530, comma 2), e Berlusconi ha ben 7 prescrizioni, più un paio di assoluzioni perché il fatto non è più reato in quanto lui stesso l’ha depenalizzato. Il meglio, però, lo dà Pierluigi Battista, che sul Corriere riesce a collezionare tutte le bugie e i luoghi comuni partoriti negli anni su Mani Pulite e sulle Toghe Sporche. A cominciare dal titolo: «Cambio di clima». Svolgimento: l’Italia «per 15 anni non è stata un paese normale, incatenata all’idea che nei tribunali si forgiassero i destini politici della Nazione»: chi abbia mai sostenuto una simile corbelleria, non lo dice, anche perché non troverebbe una sola dichiarazione in tal senso di un solo politico o giornalista (tranne forse il Pera e il Feltri dei tempi d'oro). Ma ora - aggiunge compiaciuto Battista - «l’Italia è stata restituita a una parvenza di normalità». Perché mai? Perché «Berlusconi è stato assolto e non ha invocato rappresaglie su chi lo aveva messo alla sbarra». Bel paese normale, quello in cui il primo quotidiano si felicita perché il capo dell'opposizione non invoca rappresaglie sulla magistratura. Battista mette in guardia da «una delle più pericolose patologie italiane». La corruzione dei giudici da parte dell'avvocato di Berlusconi coi soldi di Berlusconi? No, le «schegge e cascami» dell’«oltranzismo anti-berlusconiano» che sperano ancora «che il leader dell’opposizione possa inciampare nel groviglio giudiziario». Che il capo dell’opposizione esibisse bilanci fasulli, occultasse centinaia di miliardi all'estero, ingaggiasse mafiosi come stallieri o manager che corrompevano giudici e ufficiali della Finanza, è un dettaglio trascurabile. I fatti non contano: se Berlusconi è imputato da anni in tribunale, è perché ogni tanto «inciampa» distrattamente in un «groviglio giudiziario». E se finora l’ha fatta franca 7 volte per prescrizione, 2 perché ha cancellato i suoi reati, 2 per insufficienza di prove, 1 per amnistia, è perché siamo finalmente «un paese normale». «Come in tutte le democrazie liberali», precisa Battista che evidentemente non ne ha mai visitata una. Poi spiega ai giudici che «la responsabilità penale è personale e non di un sistema», come se Berlusconi non fosse imputato per la destinazione illecita dei suoi soldi, ma per un fantomatico «sistema». Entusiasta per questo «cambiamento di clima», riepiloga il «quindicennio giustizialista»: un museo degli orrori con «la decapitazione della classe di governo della Prima Repubblica» (rubavano, ma lui non lo ricorda), «la guerra totale sulla giustizia» (chi l'abbia ingaggiata e chi l'abbia subita, non è ben chiaro, visto che uno insultava i giudici e quelli subivano), «lo scontro permanente tra "il caimano" e "le toghe rosse"» (cioè i processi imposti dalla legge per le innumerevoli notizie di reato a carico di Berlusconi), i «processi-spettacolo» (forse il processo di Cogne, in onda da 5 anni a reti unificate). E poi, nell'ordine: «le sfide, i girotondi, le leggi ad personam». In realtà i girotondi nacquero dopo, anzi per le leggi ad personam, contro cui il «liberale» Battista non levò mai un pigolìo per ricordare che in un paese normale e in una democrazia liberale sarebbero impensabili. Infine, dulcis in fundo, il Cerchiobattista lacrima copiosamente per il calvario patito dal sant'uomo: «Berlusconi può legittimamente lamentarsi del carattere troppo tardivo (sic!) di una sentenza che lo scagiona». In effetti il processo Sme-Ariosto è durato un po’ troppo. Ma il perché lo spiega, a pag. 5 dello stesso Corriere, Luigi Ferrarella: «L'esito finale arriva dopo 12 anni dall’indagine, dopo 6 cambi di legge (rogatorie, falso in bilancio, patteggiamento allargato, legittimo sospetto, immunità, inappellabilità), 2 Cassazioni a sezioni unite per dire no al legittimo sospetto degli imputati sui giudici milanesi, 3 pronunce della Corte costituzionale, 1

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Cassazione sull'incompetenza territoriale, 3 fallite ricusazioni di giudici, 2 azioni ministeriali, 2 inchieste a Brescia e Perugia sui pm Boccassini e Colombo (poi archiviate)». Ma c’è il legittimo sospetto che Pigi Battista, vicedirettore del Corriere della sera, non legga il Corriere della sera.

MARCO TRAVAGLIO

l'Unità  (29 aprile 2007)

FORZA LADRI

Un filo rosso, anzi marron collega le spiate del Sismi, il voto del consiglio comunale di Roma per dedicare una via a Craxi e le manovre di Forza Italia per far saltare il processo Mondadori in Cassazione. È lo stesso filo rosso, anzi marron, che ha impedito finora alla politica e all’informazione al seguito di dire la verità sulla sentenza della Cassazione che ha dichiarato Giulio Andreotti mafioso fino al 1980 ma prescritto. Come ha osservato giustamente Livio Pepino, se la mafiosità di Andreotti, simbolo del potere, non esiste o non conta, vuol dire che tutti i potenti saranno autorizzati a intrattenere rapporti con la mafia. La rimozione forzata della verità non riguarda soltanto lui: è un lasciapassare per tutti, a futura memoria. I dossier di Pollari&Pompa su magistrati, politici e giornalisti non allineati, dunque pericolosi per Berlusconi, dunque da “destrutturare con azioni traumatiche” sono noti da un anno. Da allora Pollari e Pompa sono stati promossi, il primo al Consiglio di Stato e a Palazzo Chigi, il secondo al ministero della Difesa. Ora, dopo un anno di cincischiamenti, il Csm ha fatto chiarezza: quelli non erano ”servizi deviati”, ma istituzionali, piegati al servizio non della Repubblica, ma di un clan, il solito. E ora di chi è la colpa? Non di chi ha commesso il fatto, ma di chi l’ha denunciato: il Csm. Lo dice la Casa delle Impunità, e si può capirla. Ma lo scrivono pure commentatori, per così dire, indipendenti. Augusto Minzolini parla su La Stampa di “atto destabilizzante”. Ma non da parte del Sismi: da parte del Csm, “una parodia del Parlamento” che infanga “il decoro delle istituzioni”. E’ l’eterna fiaba di Pinocchio. Il burattino viene derubato? Che si arresti il burattino! Commentando sul Corriere il voto su Via Craxi e la dura critica di Padellaro, il senatore veltroniano Goffredo Bettini ha voluto addirittura agganciarlo al nascente Partito democratico: “Lavoriamo a un progetto, quello del Pd, che cerca di chiudere un periodo di grande transizione che ha attraversato il Paese. Possibile che si debba ancora star qui a discutere se Craxi è stato il bene o il male?”. Davvero il Pd si propone di archiviare Mani Pulite mettendo insieme colpevoli e innocenti? Su un punto Bettini ha ragione: su Craxi non c’è nulla da discutere. Grande esperto di dossier sui giudici, aveva 50 miliardi su 3 conti svizzeri personali, è stato condannato definitivamente per corruzione e finanziamento illecito a 10 anni, è fuggito all’estero per non finire in galera. A uno così non si intestano le strade. Punto e fine della discussione. Si riparla pure di Previti: condannato a 1 anno e 6 mesi in appello per aver comprato la sentenza Mondadori, “in continuazione” con la condanna definitiva a 6 anni per Imi-Sir, l’onorevole abusivo comparirà dinanzi alla Suprema Corte l’11 luglio. Se la condanna divenisse definitiva, Previti perderà l’affidamento ai servizi sociali (ottenuto grazie all’indulto) e tornerà in carcere. Ecco perché i pasdaran azzurri Bondi, Cicchitto, Vito e Leone hanno presentato un’interrogazione a Mastella per denunciare lo “zelo” e l’”accelerazione forsennata” della Cassazione, che ha fissato l’udienza entro la pausa estiva. Per i Quattro dell’Ave Cesare, è “un’operazione ad personam contro Previti”. In realtà, come spiega il Pg Vito D’Ambrosio, la Corte ha seguito “la prassi normale e consolidata” di dare la precedenza ai processi a rischio prescrizione. Qui, poi, non si tratta di una questioncella da poco: si tratta della corruzione del giudice Metta, pagato da Previti con soldi Fininvest per consegnare a Berlusconi il maggiore gruppo editoriale italiano. Il che puntualmente avvenne nel 1991. Ragion per cui, prima o poi, il Cavaliere dovrebbe restituire il maltolto. La cosa comprensibilmente inquieta i suoi discepoli. Le indagini risalgono al ‘95, l’udienza preliminare al ‘99, il dibattimento al 2001. Siamo al 2007: c’è qualcosa di sospetto in quest’«accelerazione forsennata».

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l’Unità (6 luglio 2007)

E’ LUI O NON E’ LUI

Sarà anche una mossa abile, quella di Uòlter Veltroni di non citare mai, nelle quasi due ore del suo discorso al Lingotto di Torino, il nome di Silvio Berlusconi. Parlare e agire come se il Cavaliere non esistesse più potrebbe anche aiutare chi, nel centrodestra, lavora per scaricarlo. Ma c’è un piccolo problema: Berlusconi c’è ancora. Ha ancora tre televisioni di sua proprietà, anzi ne ha aggiunta una, la leggendaria Tv delle Libertà a cura della signorina Brambilla, che pubblica anche il neonato Giornale delle Libertà allegato a Il Giornale. Possiede la Mondadori, anche se una sentenza d’appello ha stabilito che la rubò a De Benedetti grazie a una sentenza comprata da Previti con soldi Fininvest. Ha tuttora la maggioranza nel Cda Rai, dove il diktat bulgaro e post-bulgaro continua a valere per Luttazzi e la Guzzanti. Ha in tasca 2 miliardi di euro che, come lui stesso ha confessato in una straziante intervista ad “A”, “non so come spendere”. Ha appena rilevato Endemol, che occupa gran parte dei palinsesti di Mediaset e della Rai (che d’ora in poi pagherà lui per mandare in onda i programmi della ditta). Fininvest ha appena aumentato la sua partecipazione in Mediobanca. Rete4, in barba a due sentenze della Consulta, continua a trasmettere sull’analogico terrestre, occupando frequenze che dal 1999 non potrebbe più usare, avendo perduto la gara per le concessioni pubbliche vinta da Europa 7 da Francesco Di Stefano, il quale ora spera di avere quel che gli spetta dalla Corte di giustizia europea, dove il governo Prodi, come il governo Berlusconi, ha difeso la legge Gasparri, cioè Rete4. Il risultato è che in tv, salvo rare oasi, si continua a parlare soltanto di quel che vuole Lui. Il quale intanto ha quasi risolto i suoi guai giudiziari: i pochi processi ancora in corso (corruzione di Mills e diritti Mediaset) cadranno in prescrizione grazie alla legge ex Cirielli e alla controriforma del falso in bilancio che l’Unione non ha ancora avuto il coraggio di smantellare. Uno dei suoi lobbisti di più stretta osservanza e di più antica data, Gianni Letta, è appena entrato in Goldman Sachs come superconsulente e viene incredibilmente elogiato da esponenti del Pd a cominciare da Veltroni (che lo vorrebbe addirittura in un suo eventuale futuro governo). Grazie alla tremebonda maggioranza unionista alla Camera, Berlusconi è riuscito finora a conservare il seggio parlamentare al suo braccio destro Cesare Previti, che pure da 14 mesi è pregiudicato e interdetto in perpetuo. Il suo braccio sinistro Marcello Dell’Utri colleziona condanne su condanne (oltre a quella per mafia in primo grado e quella per false fatture definitiva, ne ha appena avuta una in appello per estorsione insieme a un boss mafioso), ma nessuno ne parla e anzi il noto bibliofilo che prese per buoni i falsi diari del Duce continua a essere considerato un valido e colto interlocutore a destra e a sinistra, intervistatissimo da giornali e tv su tutto lo scibile umano, fuorché sulle sue pendenze giudiziarie e i suoi rapporti conclamati con la mafia. In compenso, grazie anche al dilettantismo dell’Unione e alle pessime frequentazioni di alcuni suoi dirigenti, la propaganda berlusconiana è riuscita addirittura a rinfacciare la questione morale al centrosinistra, dipingendo la maggioranza come un covo di affaristi e Vincenzo Visco come una sorta di Al Capone redivivo che - chiedono a una sola voce il Giornale, Libero e la Cdl - “dovrebbe dimettersi”. Ecco: Berlusconi, Dell’Utri e Previti in Parlamento (per tacere degli altri 23 pregiudicati, quasi tutti forzisti), e Visco a casa. La vicenda della Guardia di Finanza è stata gestita come peggio non si poteva: bastava spiegare un anno fa perché alcuni ufficiali milanesi e il loro protettore Speciale andavano rimossi, e nessuno avrebbe potuto obiettare alcunché, visto che Tremonti a suo tempo aveva fatto altrettanto e visto che la legge assegna al ministro delle Finanze l’ultima parola su ogni nomina alle Fiamme Gialle. Ma di qui a chiedere le dimissioni del ministro per qualche telefonata di fuoco a un generale, ce ne corre (semmai c’è da domandarsi perché, quando al governo c’era lui, il centrosinistra non chiese mai le dimissioni del premier imputato, anzi tutti lo invitavano a restare e zittivano i girotondi che invocavano un po’ di pulizia). Forse, prima di dare Berlusconi per morto, bisognerebbe consultare un medico legale. A vederlo così, scoppia di salute.

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l’Unità (30 Giugno 2007)

NON SI BUTTA VIA NIENTE

Molti lettori dell’Unità, sconcertati dalle telefonate di alcuni politici con alcuni furbetti del quartierino, sperano che Veltroni riparta dalla questione morale. Cioè porti Enrico Berlinguer nel pantheon del Pd, attualmente popolato dalla buonanima di Craxi. Torino, la città scelta da Uòlter per l’annuncio della sua candidatura, potrebbe ispirarlo: la prima Tangentopoli dell’era moderna esplose proprio lì, grazie al sindaco comunista Diego Novelli. Nel 1983 un imprenditore gli confidò che alcuni assessori intascavano mazzette. Lui, anziché far finta di non sentire, lo accompagnò in Procura a sporgere denuncia. Così il vicesindaco socialista e alcuni assessori finirono in galera o sotto inchiesta. Il caso Zampini, dal nome del faccendiere che dirigeva il traffico della tangenti, segnò la fine della giunta rossa. Non perché qualcuno rubava, ma perché il sindaco aveva osato denunciare i ladri. Dunque era divenuto «inaffidabile». Craxi giurò di fargliela pagare e Giuliano Amato, inviato a commissariare il Garofano, lo rimproverò per non aver «risolto politicamente la faccenda». Oggi non c’è nemmeno bisogno di risolvere politicamente. Nel 1993, quand’era un semplice consigliere comunale, Lorenzo Cesa fu arrestato per le mazzette incassate per il ministro Prandini. Ne confessò una dozzina (il verbale iniziava così: «Intendo svuotare il sacco», manco fosse Pietro Gambadilegno). Fu condannato a 3 anni (Prandini a 6) in primo grado. Poi il solito cavillo mandò il processo a farsi benedire. Cesa intanto era divenuto deputato. Ora è segretario dell’Udc. L’altro giorno, indagato nell’inchiesta di Catanzaro, ha dichiarato: «Io non c’entro, ho le mani pulite». Ma anche se le avesse ancora sporche, cambierebbe qualcosa? A giorni, il 4 luglio, Cesare Previti compirà 14 mesi da deputato abusivo: il 4 maggio 2006 la Cassazione l’ha condannato a 6 anni per corruzione giudiziaria e interdetto in perpetuo dai pubblici uffici. Ma in Parlamento le sentenze della Cassazione non valgono: la giunta per le elezioni è ancora lì che discute se cacciarlo o meno. Il 9 aprile forse voterà la decadenza, poi la cosa passerà all’aula e si andrà all’autunno. Ma qualcuno già subordina la cacciata dell’abusivo al suo reintegro quando - tra un paio d’anni - finirà il «servizio sociale» in una comunità di tossicodipendenti. Pare che, nel dizionario del Parlamento, l’aggettivo «perpetuo» significhi temporaneo, provvisorio, trattabile. Ieri, bontà sua, il presidente Bertinotti ha escluso la possibilità del reintegro: o Previti viene cacciato, o resta al suo posto. E il fatto che, in barba a una sentenza irrevocabile, si ipotizzi la permanenza dell’interdetto la dice lunga sul rispetto che il Parlamento riserva alle sentenze della magistratura. In un paese serio, la Cassazione avrebbe già sollevato un conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato contro la Camera che ignora una sentenza definitiva. Ieri il caso Previti, come quelli degli altri 24 pregiudicati felicemente assisi tra Camera e Senato, è approdato al Parlamento europeo grazie a un comico, Beppe Grillo. Intanto l’esempio dall’alto fa scuola negli enti locali. Ad Asti è stato appena rieletto sindaco Giorgio Galvagno, arrestato nel ‘94 per lo scandalo della discarica di Vallemanina-Valleandona (smaltimento fuorilegge di rifiuti tossici in cambio di tangenti): nel ‘96 patteggiò 6 mesi e 26 giorni per inquinamento delle falde acquifere, abuso e omissione di atti ufficio, falso ideologico, delitti colposi contro la salute pubblica e omessa denuncia. Nel 2001 Forza Italia lo fece eleggere deputato. Ora torna sindaco. E nel nuovo consiglio comunale è in ottima compagnia. Secondo Alberto Pasta, vicesindaco uscente dell’Ulivo, altri due consiglieri, ovviamente di Forzitalia, hanno precedenti penali. Il primo è Vincenzo Sangiovanni, napoletano, condannato definitivamente a 4 anni e 4 mesi nel ‘79 per concorso in rapina continuata, detenzione illegale di armi e munizioni, porto illegale di armi; non contento, nel ‘93 s’è beccato altri 2 anni e 3 mesi definitivi per violazione della legge sulla droga; poi ha ottenuto la riabilitazione. Il secondo è Gino Trifone: nel ‘95 ha patteggiato 40 giorni per gioco d’azzardo e nel 2000 altri 11 mesi per tolleranza abituale della prostituzione nel suo locale; ora è imputato per usura. Un inquinatore, un rapinatore e un biscazziere in consiglio comunale. Poi dicono che non c’è selezione delle classi dirigenti.

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l’Unità (27 Giugno 2007)

BERTINOTTI E MARINI: C’E’ POSTA PER VOI

Gentili On. Fausto Bertinotti e Sen. Franco Marini, in qualità di presidenti delle Camere siete giustamente preoccupati per la marea montante di antipolitica che sta travolgendo il sistema dei partiti. L'impressione che si ha, però, è che non abbiate ben capito da cosa deriva. Ancora l'altro giorno avete chiesto spiegazioni al Tribunale di Milano sul deposito della perizia del gip Forleo con le trascrizioni delle telefonate dei furbetti intercettati al telefono con i loro amichetti politici, denunciando inesistenti violazioni dell'immunità parlamentare. Lo stesso han fatto i ministri Amato e Mastella. La domanda è: ma lo sapete cosa prevedono le leggi che voi stessi approvate?

La legge Boato, varata nel 2003 da destra e sinistra a braccetto, impedisce ai giudici di usare la telefonata di un indagato che parla dei suoi delitti, se dall'altro capo del filo c'è un parlamentare. Per usarla a carico dell'indagato, devono chiedere il permesso al Parlamento. Dunque, prima, devono farla trascrivere da un perito fonico. E poi non possono tenersela per sé, ma devono depositarla alle parti: pm e avvocati. E quando le depositano non sono più segrete, visto che il codice di procedura del 1989 prevede la discovery progressiva degli atti, man mano che diventano noti agli indagati. Appena finiscono in mano agli avvocati, la carte non sono più segrete. E la gente le deve conoscere, per controllare in diretta l'attività dei magistrati, che altrimenti agirebbero per anni nell'ombra. Queste leggi le avete fatte voi. Siete voi che avete abolito il segreto istruttorio, che copriva tutte le indagini.

Ora i giudici, semplicemente, applicano quelle leggi. Di che vi lagnate? E perché lo fate proprio ora, dopo 18 anni, solo perché ci va di mezzo qualche membro del club? Tra l'altro avete ottenuto un bel risultato: le vostre pressioni sui giudici li hanno indotti a vietare le fotocopie e a consentire solo gli appunti, col risultato che i giornalisti lavorano con brandelli di telefonate, quelli che convengono agli avvocati. E ora volete approvare anche al Senato la legge-bavaglio Mastella che abolirà la cronaca giudiziaria, segretando tutto fino al processo, in certi casi addirittura fino a sentenza d'appello. E siete tutti d'accordo, destra e sinistra amorevolmente insieme, come quando vi aumentate lo stipendio, o ritoccate i finanziamenti ai partiti, o votate l'indulto (anzi l'autoindulto), o regalate l'immunità ai membri del club che offendono privati cittadini, mentre il privato cittadino che osa parlar male di voi lo seppellite sotto raffiche di querele e cause civili miliardarie.

Ma non vi rendete conto che la casta e l'antipolitica nascono proprio qui? Che la colpa dell'antipolitica è questa politica, siete voi, non qualche trasmissione o libro che vi criticano? O davvero pensate di risolvere il problema tagliando qualche stipendio o qualche consulenza? Il caso delle scalate bancarie è sotto giudizio della magistratura, per gli aspetti penali. Ma già ora, con quel che è emerso, è un grave caso di conflitto d'interessi, di turbativa del mercato, di invasione di campo della politica nel campo dell'economia o dell'economia nel campo della politica. E voi, che ogni due per tre rivendicate il "primato della politica" contro i giudici che applicano le vostre leggi, non vi accorgete che dalle telefonate intercettate emerge il primato dei furbetti e degli affaristi sulla politica.

Non solo sui Ds, il cui segretario si faceva scrivere i testi da Consorte e il cui Lider Massimo si occupava di pacchetti azionari. Ma anche su esponenti di Forza Italia, Lega, Udc e Margherita. E su Berlusconi, che riceveva il banchiere ladro Fiorani nella sua villa in Sardegna con tanto di cactus o faceva cene elettorali con Gnutti, e di riffa o di raffa era coinvolto in tutte e tre le scalate: a quella di Bpl su Antonveneta partecipava Mediolanum; quella di Ricucci su Rcs era amorevolmente seguita dai fedelissimi Comincioli e Cicu; a quella di Consorte, Fininvest partecipava in quanto azionista di Hopa, la finanziaria di Gnutti che metteva insieme Biscione, Unipol e Montepaschi. Ma, essendo il padrone dell'informazione, riesce a far parlare solo di Unipol, dove non c'è politico indagato, e a far dimenticare se stesso, amici e alleati. Come può l'on. Bertinotti affermare che non c'è questione morale? Come potete legiferare sul conflitto d'interessi se non riuscite a vederlo neanche quand'è grosso come una casa?

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La casta non crea antipolitica solo perché spreca troppi soldi o perché il piccolo Buttiglione vuole pure il gelato alla buvette. Molto nobilmente, il sen. Selva s'è dimesso per aver usato un'ambulanza come un taxi, fingendosi moribondo per arrivare prima in tv. Ed è bastato l'annuncio perché si smettesse di parlare del fatto e si elogiasse il senatore per il bel gesto, finora a costo zero. Vedremo se l'aula accoglierà le dimissioni: l'esperienza insegna che le respingerà. Anzi si spera che le respinga. Sarebbe curioso un Parlamento che espelle uno del club per abuso di ambulanza e continua a tenersi da 13 mesi, a nostre spese, un pregiudicato per corruzione giudiziaria interdetto in perpetuo dai pubblici uffici come Previti; un condannato in primo grado per mafia, in appello per estorsione e in Cassazione per frode fiscale come Dell'Utri; e altri 23 pregiudicati anche per reati gravissimi, come l'omicidio.

Due condannati per corruzione li avete designati voi, presidenti Bertinotti e Marini, alla commissione Antimafia. Ecco, i cittadini non capiscono perché un condannato non può fare il bidello o il consigliere di circoscrizione, ma il parlamentare e il ministro sì. E quando vede che vivete al di sopra delle leggi che voi stessi approvate, ha come l'impressione che siate al di sotto di ogni sospetto. Aiutateci, vi prego, a scacciare questi cattivi pensieri. In attesa di un cortese riscontro, porgo distinti saluti.

Posta prioritariaMarco TravaglioAnnozero (14 giugno 2007

GLI IMPUNITI

A furia di parlare degli scandalosi costi della politica, si trascura l’aspetto forse più odioso della Casta degl’Intoccabili: il ritorno surrettizio dell’ immunità parlamentare, abrogata nel ‘93 in un sussulto di dignità dal Parlamento degl’inquisiti. Caduta per le indagini, l’autorizzazione a procedere restò per arresti, intercettazioni e perquisizioni, che però può essere negata solo quand’è provato il «fumus persecutionis». Cioè in casi eccezionalissimi. Restò anche l’insindacabilità per le opinioni espresse e i voti dati «nell’esercizio delle funzioni parlamentari», molto ampliata nel 2003 con la legge Boato-Schifani: si stabilì pure che i giudici non possano, senza il permesso delle Camere, usare le intercettazioni quando un indagato intercettato parla con un parlamentare. Per usarle, a carico del cittadino comune come del parlamentare, occorre il permesso del Parlamento. Che lo nega sistematicamente. Così Montecitorio e Palazzo Madama son tornati a essere quello che erano prima di Tangentopoli: come le chiese e i conventi del Medioevo. Chi entra lì dentro, può aver fatto o fare quel che gli pare. Previti, interdetto in perpetuo dai pubblici uffici il 4 maggio 2006, è ancora deputato a nostre spese: l’altro giorno la giunta ha votato per cacciarlo, ma l’iter è ancora lungo e non si vede francamente perché, visto che la decisione l’ha già presa la Cassazione, inappellabile e immediatamente esecutiva. In 61 anni di storia repubblicana si son potuti arrestare solo 4 deputati su 61 candidati alle manette: 2 richieste accolte per l’ex partigiano comunista Franco Moranino, condannato per 5 omicidi; una per il fascista Massimo Abbatangelo, coinvolto in storie di armi; una per il missino Sandro Saccucci, omicidio e cospirazione. Nel primo anno della legislatura, tre richieste di arresto: tutte respinte coi voti determinanti di parte dell’Unione oltre a quelli, scontati, della Cdl. La prima riguardava Vittorio Adolfo (Udc), indagato per turbativa d’asta, corruzione e truffa aggravata. Respinta. La seconda era per l’ex governatore pugliese Raffaele Fitto (FI), proposto per gli arresti domiciliari per aver ricevuto 500 mila euro dalla famiglia Angelucci in cambio - secondo l’accusa - dell’appalto da 198 milioni per 11 residenze sanitarie assistite.

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Respinta con applausi bipartisan e abbracci festosi per l’onorevole miracolato. La terza investiva il forzista Giorgio Simeoni, ex vicepresidente della giunta Storace, eletto deputato, coinvolto nello scandalo della sanità del Lazio e accusato da “Lady Asl” (arrestata in quanto non parlamentare: non ancora). Secondo l’accusa, Simeoni «usava il suo ruolo per appropriarsi di denaro pubblico in modo reiterato» e «inquinava le prove». Nella giunta per le autorizzazioni a procedere l’Unione aveva annunciato il sì all’arresto, ma all’ultimo momento ha cambiato idea e ha votato no. Solo Vacca (Pdci), Palomba (Idv) e Samperi (Ulivo) han votato a favore. Arresto negato, Simeoni salvato. Poi c’è l’abuso di insindacabilità. L’onorevole o il senatore diffamano o calunniano un privato cittadino; questo querela o chiede i danni; il Parlamento annulla il processo perché il suo membro agiva «nell’esercizio delle sue funzioni». Qui, per fortuna, i giudici possono ricorrere alla Consulta, che sempre più spesso cancella il voto parlamentare, stabilisce che le Camere hanno abusato del proprio potere e sblocca il processo. È accaduto per Previti che aveva diffamato l’Ariosto, per Iannuzzi e Sgarbi specializzati nel diffamare i pm di Milano e Palermo, per Bondi che se l’era presa con due ginecologi favorevoli alla fecondazione assistita, per la Maiolo che aveva insultato il giudice Almerighi, per Bossi che voleva «pulirsi il culo col Tricolore», per Boato che aveva lanciato accuse al gip Salvini. La Camera aveva salvato persino il ds Rocco Loreto, imputato non per le sue parole, ma per calunnia e violenza privata, cioè per aver convinto un imprenditore a calunniare un giudice. Nelle ultime settimane il Parlamento ha negato - sempre coi voti della Cdl e di un bel pezzo di Unione - l’ok alle intercettazioni nei processi a carico di Altero Matteoli di An (imputato di favoreggiamento) e Michele Ranieli dell’Udc (concussione). E tra poco si vota sulle telefonate dei furbetti del quartierino e su quelle del duo Guzzanti-Scaramella. Gentilissimi politici preoccupati per la crisi della politica, ci fate sapere qualcosa?

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIO l'Unità (1 giugno 2007)

L’OMETTO QUALUNQUE

Tira una cert'aria furbetta, intorno al dibattito sulla crisi della politica e sul possibile "nuovo 1992": è vero, anche stavolta c'è un referendum elettorale; anche stavolta i cittadini si sentono sudditi e non ne possono più; la casta degl'intoccabili trova di nuovo mille marchingegni per finanziarsi alle nostre spalle e dalle nostre tasche;la corruzione supera di nuovo i livelli di guardia. Ma stavolta mancano i nomi. Mani Pulite ebbe il merito di rivelare chi rubava, e quanto, e chi no. Checché se ne dica, la responsabilità era ed è personale. Ora però non si fanno nomi. Tutto sporco, tutto sbagliato, tutto da rifare. Così Bellachioma punta su una Signora Nessuno, tale Brambilla, per la successione. E Monteprezzemolo, per il «nuovo che avanza», punta su quanto di più vecchio sia su piazza: se stesso, simbolo di un capitalismo senza capitali e di un mercato senza mercato. Si fa presto a dire che la politica è in crisi. Poi condannano il senatore Dell'Utri per estorsione in combutta con un boss, e tutti zitti. Poi la Camera continua a trovare il modo di non cacciare Previti, interdetto in perpetuo dai pubblici uffici da ben 13 mesi, e nessuno dice nulla. Poi la giunta per le elezioni nega ai giudici l'autorizzazione all'uso delle intercettazioni sull' ex ministro Matteoli, imputato di favoreggiamento in una brutta storia di abusi all'Elba, e non una parola. Poi il ministro dell'Interno Giuliano Amato va a predicare la legalità a Palermo nel XV anniversario della strage di Capaci. E uno studente, col candore del bambino

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che urla «re è nudo», lo interrompe: «In Parlamento siedono 25 indagati. Come fate a combattere la mafia?». In realtà i 25 sono i condannati definitivi. Poi ci sono i parlamentari indagati o imputati o condannati in primo o secondo grado: una settantina. Totale: un centinaio, oltre il 10% degl'inquilini delle Camere. E Amato come risponde? Testuale: «So cos'è la lotta alla mafia, ma tu sembri un piccolo capo populista. Occorre distinguere le condanne: ci sono reati minori». Per la verità in Parlamento (addirittura in commissione antimafia) siedono condannati per omicidio, corruzione, concussione, finanziamento illegale, falso in bilancio, concorso esterno in associazione mafiosa, estorsione, lesioni, percosse, incendio, truffa, peculato. Sarebbero questi i reati minori? Quali sarebbero, eventualmente, i reati maggiori? E, anche ammettendo che siano tutti minori: in quale paese un ministro dell'Interno giustificherebbe la presenza in Parlamento di decine di condannati e imputati perché hanno commesso «solo» reati minori? Il Parlamento è il luogo dove si fanno le leggi: come possono sedervi persone che le leggi le fanno e poi le violano, o le violano mentre le fanno, o le hanno violate prima di farle? Che c'è di populista nel chiedere che questa gente, che già oggi non può far parte dei consigli circoscrizionali, comunali, provinciali e regionali, sia incompatibile anche con la carica di parlamentare, di ministro, di presidente del Consiglio e della Repubblica? L'altra sera abbiamo appreso da Report che l'ex ministro della Malasanità Francesco De Lorenzo, condannato in via definitiva a oltre 5 anni per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e ad altri reati (minori?), è tornato all'università Federico II di Napoli. Quale materia può insegnare un docente con quel pedigree? Il ministro Nicolais ha varato una legge che prevede nel pubblico impiego l'immediato licenziamento dei condannati a più di 2 anni. Ma una statistica illustrata dal giudice Davigo e dalla professoressa Mannozzi dimostra che, tra patteggiamenti, riti abbreviati e indulti, i corrotti e corruttori che superano i 2 anni di pena sono l'1,7%. Gli altri restano sotto la soglia, e seguiteranno a infestare la pubblica amministrazione. Senza contare i miracolati dalla prescrizione. Navigo ha proposto di licenziare semplicemente i condannati, non importa a quale pena; e di costringere il pubblico funzionario imputato a rinunciare alla prescrizione, per essere assolto nel merito: se è innocente, dovrebbe pretenderlo. Se invece arraffa la prescrizione, che è riservata ai colpevoli, andrebbe licenziato comunque. Nicolais ha balbettato: bisogna distinguere tra condanne "lievi" e "pesanti". Vuol dire che per servire lo Stato basta tradirlo solo un po'?

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIO l’Unità (25 maggio 2007)

LE MOTIVAZIONI . L’assoluzione per il caso Squillante della Corte d’Appello di Milano

Berlusconi, con il bonifico mica è corruzione...

Poniamo che un rapinatore venga ripreso a volto scoperto dalla telecamera di una banca mentre la svaligia. E che i giudici lo assolvano, con formula dubitativa, con questa argomentazione: ma vi pare possibile che un rapinatore sia cosi cretino da farsi riprendere dalla telecamera senza coprirsi il volto? Con un ragionamento (si fa per dire) analogo, Silvio Berlusconi è stato assolto dalla II Corte d’appello di Milano dall’accusa di aver corrotto il giudice Renato Squillante con il bonifico di 434.404 dollari (500 milioni di lire) partito il 6 marzo 1991 dal conto svizzero «Ferrido», alimentato con suoi fondi privati, approdato al conto svizzero «Mercier» del suo

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avvocato Cesare Previti, e di lì al conto svizzero «Rowena» di Squillante. «Perché mai - domanda la Corte - un imprenditore avveduto come Berlusconi, dotato di immense disponibilità finanziarie, avrebbe dovuto effettuare (o meglio far effettuare) un pagamento corruttivo attraverso una modalità (bonifico bancario) destinata a lasciare traccia, anziché con denaro contante? E per quale ragione il pagamento avrebbe dovuto essere eseguito attraverso il transito sul conto di Previti anziché direttamente al destinatario? (...).Lo stesso risultato pratico sarebbe stato perseguibile più prudentemente con versamenti, sia pure all’estero, per contanti».

Detto ciò, è «ragionevole» che quel pagamento «avesse funzione corruttiva». È pura «fantasia» la versione Previti. Ed è «macroscopica l’inverosimiglianza che Berlusconi fosse del tutto all’oscuro dei pagamenti esteri compiuti dai suoi dipendenti e che costoro avessero mano libera per movimentazioni bancarie illecite (effettuate in nero su conti esteri)». Ma pagare un giudice non equivale a corromperlo, anche perché poi Squillante «non fece nulla» per Berlusconi. Ergo «questo complesso di elementi indiziari, tra loro contrastanti, non permettono di sostenere la incrollabile convinzione che Silvio Berlusconi, al di là di ogni ragionevole dubbio, sia colpevole, (...) indipendentemente dalla ben diversa consistenza che le prove possono assumere nei confronti di terzi». Cioè di Previti. Squillante era a libro paga di Previti («propenso a pratiche corruttive di magistrati»), ma non è sufficientemente provato che Berlusconi lo sapesse.

È la «prova impossibile»: se l’imputato non lascia tracce, è innocente perché manca la prova; se invece lascia tracce, è impossibile che le abbia lasciate, così la prova a carico diventa prova a discarico e lui è innocente lo stesso. A prescindere. I giudici non devono credere neppure ai propri occhi. Una sentenza a dir poco sorprendente, che ignora montagne di prove e di indizi contenuti nei 200 faldoni di atti, liquidando 12 anni di processo e 160 pagine di ricorsi in appello in una quindicina di paginette striminzite di motivazioni, scritte in appena cinque giorni. Ora il Pg ricorrerà in Cassazione, contestando la sentenza d’appello sia in punto di diritto, sia di fatto. In diritto la tesi della Corte è smentita dalla Cassazione su Imi-Sir: la «corruzione propria antecedente», cioè le mazzette al giudice perché «venda la sua funzione» una volta per tutte e si tenga a disposizione del corruttore per ogni esigenza futura, non richiede la prova della successiva controprestazione: basta il pagamento preventivo.

Quanto ai fatti, i giudici domandano: perché mai Berlusconi avrebbe dovuto pagare Squillante via bonifico, tramite Previti, quando poteva portargli le rnazzette cash senza lasciare traccia? Domanda assurda, visto che è documentalmente prova-

to che negli stessi mesi del ‘91 Berlusconi bonificò in Svizzera 23 miliardi di lire a Craxi (sentenza definitiva All lberian) e 1 miliardo e mezzo a Previti per ricompensare lui e il giudice Vittorio Metta dell’annullamento del lodo Mondadori (condanna in appello di Previti e Metta, Berlusconi salvo per prescrizione). Sarà pure strano che Berlusconi usi i bonifici, ma quei bonifici risultano dagli atti. E non è forse più strano immaginarlo mentre valica la frontiera di Chiasso con una borsa piena di contanti, per consegnarli brevi manu ai giudici amici? Perché mai uno dovrebbe pagare cash, quando dispone di 64 società off-shore, di decine di conti esteri e di tre avvocati (Previti, Pacifico e Acampora) dotati conti esteri comunicanti con quelli di alcuni giudici? Perché questa bella gente apriva conti in Svizzera, se poi non li usava? Oggi quei conti sono noti grazie alle rogatorie. Ma 20 anni fa nessuno immaginava che sarebbero stati scoperti: se l’Ariosto non avesse parlato, nessuno li avrebbe cercati. Tanto le mazzette a Craxi quanto quelle ai giudici passarono per la Svizzera. Anche quelle del caso Imi-Sir, che seguono lo stesso percorso di quelle targate Fininvest: i Rovelli bonificano in Svizzera 68 miliardi ai tre avvocati, che ne girano una parte ai giudici. La domanda della Corte va dunque ribaltata: perché Berlusconi NON avrebbe dovuto pagare con bonifici svizzeri?

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Che il denaro usato da Previti per pagare Squillante provenisse «dal patrimonio personale di Berlusconi» lo dicono, al processo All Iberian, gli stessi suoi difensori. E risulta dalle carte. Il 1° marzo ‘91 uno spallone porta 316,8 milioni di lire dalla sede Fininvest di Palazzo Donatello alla Diba Cambi di Lugano. Diba li versa sul conto Polifemo (All Iberian), gestito dal cassiere del Cavaliere, Giuseppino Scabini.Grazie a quei fondi Polifemo può bonificare 5 giorni dopo i 434.404 dollari a Previti, che li gira a Squillante. Polifemo va in rosso, ma in 2 giorni viene rabboccato con 6 miliardi da All Iberian. Subito dopo Polifemo gira altri 2 miliardi a Previti e 10 miliardi a Craxi, che con la Mammì ha appena salvato le tv Fininvest. Polifemo finanzia esclusivamente Craxi e Previti (non come avvocato: come corruttore di giudici), nell’interesse di Berlusconi e con fondi del suo «patrimonio personale». Ma Berlusconi, per la Corte, non c’entra.

Previti sostiene che quei fondi erano «normalissime parcelle». Ma, anche per la Corte, mente. Il direttore finanziario Fininvest, Livio Gironi, dice di aver concordato con lui una mega-parcella di 10 miliardi in nero, che Previti doveva farsi liquidare da Scabini. Ma Previti dice di non conoscere Scabini. In compenso conosce Berlusconi. Pure Squillante conosce Berlusconi. Anche Barilla conosce Berlusconi, ma non Previti, né Squillante: eppure Barilla, alleato di Berlusconi nella causa Sme, appena la vince nel 1988 bonifica 1 miliardo a Previti che gira 100 milioni a Squillante. Anche di questo, per la Corte, Berlusconi non sa nulla.

Ci sarebbe poi la testimonianza dell’Ariosto: Previti le disse che i soldi per pagare i giudici glieli dava Berlusconi. Cinque pm, un gip, una trentina di giudici l’han ritenuta attendibile, più tutti quelli che l’hanno assolta dall’accusa di aver diffamato e han condannato decine di persone per averla diffamata, più lo stesso Previti che le ha chiesto scusa. Ma, per la Corte, la Teste Omega è un po’ credibile e un po’ no. Il suo racconto «suscita ovvie perplessità laddove accredita la tesi, deviante rispetto all’esperienza, che persone accorte e professionalmente qualificate come Previti e Squillante si spartissero mazzette coram populo». È la prova impossibile rovesciata. Triplo salto mortale carpiato: se Berlusconi lascia tracce su un bonifico, è impossibile che abbia lasciato tracce su un bonifico; se Previti viene visto spartire mazzette, è impossibile che l’abbiano visto spartire mazzette. La corruzione c’è soltanto se nessuno la scopre. Ma, se nessuno la scopre, non è mai punibile. Non è meraviglioso?

Marco Travagliol’Unità 16 maggio 2007

TELECAMERA DI CONSIGLIO

Bisognerebbe distribuirla nelle università, la requisitoria del sostituto procuratore generale Vittorio Corsi di Bosnasco al processo di Cogne. Soprattutto la parte in cui il magistrato illustra la storia di questo processo celebrato negli studi di Porta a Porta, Costanzo Show e Matrix (Mentana aveva promesso di non occuparsi mai di Cogne: infatti...) e giunto irrimediabilmente deformato nelle aule di giustizia. Dalle parole di questo magistrato all'antica, studiosi e studenti trarrebbero ricchi spunti di riflessione sugli ultimi lasciti del berlusconismo: la tv giudiziaria e la giustizia televisiva. Grazie a Vespa, a Mentana e all'avvocato Taormina, la signora Franzoni è stata la cavia su cui, per 5 anni, si è sperimentato il modello di difesa berlusconiano su un cittadino comune. Con effetti devastanti per il cittadino normale ma soprattutto per quel che resta dell'informazione e della giustizia in Italia. Che poi le requisitorie dei processi d'appello alla Franzoni e a Berlusconi siano arrivate lo stesso giorno, è una di quelle astuzie della storia che portano a credere nella divina provvidenza.

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Cosa fa Giorgio Franzoni, padre dell'imputata, quando le cose per la sua «Bimba» si mettono male? Ingaggia un avvocato-deputato di Forza Italia, Taormina. «Voglio sentirgli dire - tuona al telefono - che aprirà un'inchiesta sui carabinieri», cioè sul Ris di Parma che ha il torto di indagare sulla figlia. Poi fa pressione su vari ministri di Berlusconi («Far intervenire il ministro della Difesa», «Nel governo abbiamo appoggi»). Sua moglie telefona alla segretaria del presidente della Camera Casini: «Mio marito conosce bene l'onorevole». Se Casini solidarizza pubblicamente con Dell'Utri alla vigilia della sentenza, darà una mano anche alla Bimba. Il resto lo fanno le interviste sapientemente dosate in tv e ai rotocalchi, le lacrime a comando («Ho pianto troppo?»), le gravidanze in serie, le foto in bikini col marito in Sardegna o nella piazza del paese, versione baby sitter con bambini, e le orde di tele-fans che sciamano verso il Tribunale di Torino, come nelle gite delle pentole e nelle visite alla Torre di Pisa, come i guardoni dei vip in Costa Smeralda.

Nel processo berlusconizzato e lelemorizzato i fatti non contano più nulla. Conta il reality show. L'imputato non è più la mamma rinviata a giudizio e condannata a 30 anni in primo grado, ma tutti gli altri, puntualmente denunciati da Taormina: i vicini di casa, i pm e il gip di Aosta, il colonnello del Ris, i consulenti del Tribunale, i giornalisti non allineati. «Se i giudici non scagioneranno la Bimba, dovranno essere distrutti», annuncia il patriarca Franzoni, mentre il premier Silvio distrugge i suoi («cancro da estirpare», «doppiamente matti»), tempestandoli di calunnie, denunce, ispezioni, procedimenti disciplinari. Come i colleghi avvocati-deputati del Cavaliere, Taormina provvede alla difesa «dal» processo: tira in lungo, denuncia e attacca tutti, da Aosta chiede di passare a Torino, e da Torino a Milano, e alla fine risulta pure lui indagato per certe false impronte lasciate dal suo staff per depistare.

«Questo - dice allibito il Pg - è uno dei casi più semplici di "figlicidio": le statistiche dicono che sono una ventina l'anno, perlopiù commessi da madri. Tanti sono rapidamente chiariti e dimenticati. Per questo, dopo 5 anni, ancora ci si domanda se l'imputata è innocente perché non confessa, o perché si teme di ammettere che un delitto così orrendo sia stato commesso da una madre "normale". Ma è il processo che è anomalo: la difesa l'ha imposto come se si venisse dal nulla, come se non ci fossero i fatti, le prove».

I fatti, le prove: roba da tribunali, non da tv, nel paese che affida le sentenze a Vespa, Palombelli, Crepet; nel paese dove chi racconta il bonifico da 434 mila dollari Berlusconi-Previti-Squillante è un pericoloso eversore. La mamma di Cogne, intercettata, aveva persino confessato («Non so cosa mi è success... cioè, cosa gli è successo»). Ma nessuno, nelle 73 puntate di Porta a Porta, ne ha mai parlato. Sennò il presunto «giallo di Cogne» finiva subito. E magari, poi, toccava raccontare come Berlusconi e Previti corruppero un paio di giudici, o come Andreotti mafiò per 30 anni. Non sia mai.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità (28 marzo 2007)

ARCHIVIO: 5 AGOSTO 2003

Quelli che il lodo

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Niente da fare, è più forte di lui. C’è chi il lodo ce l’ha nel sangue, nel Dna. Antonio Maccanico è uno di questi. Non può farne a meno: il lodo gli scappa. Come se gliel’avesse prescritto il medico: «Onorevole, me l’ha fatto il lodo? Mi raccomando, eh! Prima e dopo i pasti». E lui lo fa. Che si chiami governissimo (1996), legge sull’emittenza (1997), immunità incostituzionale per le alte cariche e soprattutto per una (2003), non si tira mai indietro. Ora incombe il pericolo che l’ultima vergogna, a legge Gasparri-Confalonieri, finisca male e Mediaset sia finalmente costretta a rispettare la legge e la Costituzione rinunciando a una rete «terrestre» su tre. Chi si lancia al salvamento? Antonio Maccanico, per gli amici Lodo. E cosa propone? Di salvare i fatturati Mediaset lasciando Rete4 al Cavalier Premier, ma trasformandola in «servizio pubblico a proprietà privata». Geniale. Chapeau. Berlusconi e Confalonieri saranno furiosi. Pare già di sentirli: noi siamo contrari, non ne sappiamo niente, però Maccanico ha tanto insistito... Diceva di lui Enrico Cuccia: «Riuscirebbe a mettere d’accordo due sedie vuote». Qui però almeno una sedia è piena: quella di Berlusconi.

Antonio detto Lodo, comunque, non è solo. L’altro giorno Berlusconi ha assicurato che Ciampi non aveva obiezioni sulla legge Gasparri. Qualche minuto dopo Ciampi ha comunicato di non aver mai parlato con lui dell’argomento, e se l’ha fatto è perché qualche obiezione ce l’ha. Nella lingua italiana soltanto pochi vocaboli descrivono questa imbarazzante situazione: per Berlusconi, i sostantivi «bugia», «menzogna», «patacca», «bufala», «frottola»; per Ciampi, i verbi «smentire» e «sbugiardare». Ma solo tre quotidiani nazionali li hanno usati nel titolo di prima pagina: l’Unità, il manifesto e la Repubblica. Tutti gli altri hanno preferito l’emolliente e la vaselina: «Ciampi corregge Berlusconi» (Stampa e Corriere della Sera), «Berlusconi cita Ciampi e poi precisa» (Corriere), «Precisazione del Quirinale» (Il Foglio), fino alla comica del Giornale («Ciampi-Berlusconi, molto rumore per nulla», «La stampa assedia il Quirinale»). Per non parlare dei tg: chiunque li avesse visti non poteva, nemmeno con sforzi sovrumani, capire che il premier aveva appena mentito persino a proposito del capo dello Stato.

Replay: giovedì scorso il presidente della Corte d’appello di Palermo, Salvatore Scaduti, sbugiarda con secco quanto irrituale comunicato i delirii del presidente dell’Antimafia sulla sentenza Andreotti. Ne parlano i soliti due o tre giornali. Su Stampa, Corriere, Foglio e Giornale, nemmeno una riga. Nei tg, omertà assoluta. E si capisce. Dopo aver minimizzato o ignorato o manipolato le dirompenti motivazioni, non si può certo dare voce al giudice che le ha scritte. Altrimenti la gente capisce chi è Andreotti e come funziona la cosiddetta informazione.

Poi c’è Ostellino, che ormai è il Cireneo del Cavaliere. Porta la croce al posto suo. Giorni fa, in un articolo opportunamente relegato dal Corriere a pagina 10, era affranto per l’inchiesta dell’Economist. Ma cercava di mascherare i rossori di innamorato dietro il cerone dei soliti finti equilibrismi: l’Economist e Berlusconi sarebbero «ridicoli entrambi», il primo per aver scritto quel che ha scritto, il secondo per averlo querelato, vittima «dell’eccesso di zelo dei suoi avvocati» (ma certo, se da vent’anni non risponde alle domande sul suo passato e le sue fortune, non è perché non può: è perché gli avvocati cattivi non vogliono). Scrive dunque l’Ostellino ‘nnammurato: «Non ho mai fatto un’inchiesta per spiegare perché Blair non è adatto a guidare l’Inghilterra, Chirac la Francia, Schroder la Germania, Bush gli Usa e via elencando... Non ci ho neppure pensato». Uno normale direbbe: magari è perché Blair, Chirac e via elencando sono adatti a guidare i rispettivi paesi, non avendo tv né aziende né amicizie mafiose né processi per corruzione giudiziaria. Invece no: Ostellino spiega che «sono affari miei, ma degli inglesi, dei francesi, dei tedeschi» e via elencando. Insomma, perché è una personcina riservata, che si fa i fatti suoi e non mette il naso in casa d’altri. Dev’essere per questo che, quando dirigeva il Corriere, non si lasciò mai scappare una critica a Craxi (il quale, fra l’altro, l’aveva messo lì). L’aveva fatto

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un altro direttore, Alberto Cavallari, dandogli giustamente del ladro e beccandosi un’ingiusta condanna. Non aveva capito che non erano affari suoi (semmai, di Craxi).

Ora Berlusconi è sospettato di aver ricevuto, tramite Dell’Utri, soldi dalla mafia e di aver fregato, tramite Previti, alcune aziende a un concorrente corrompendo magistrati. Questi, dal maggio 2001, erano affari nostri, essendo quest’uomo il nostro premier: non risulta che Ostellino gliene abbia mai chiesto conto. Ora che il Cavaliere presiede, per sei mesi, un organismo con 15 stati membri e altri 10 prossimi a diventarlo, parrebbe naturale che anche quelli vogliano sapere chi li rappresenta. Ostellino però zittisce gli impiccioni («vecchie zitelle vittoriane») e invita l’amato Silvio a rispondere all’Economist: «Signori, non sono affari vostri, andate a scopare il mare». Una risposta da vero statista, meglio delle corna e del kapò. Ieri persino il direttore Stefano Folli l’ha sbugiardato (pardon, «corretto») in prima pagina, scrivendo che l’Economist ha dato «un esempio di giornalismo». Resta da capire perché Ostellino continui a scrivere; a meno che non ci parli di se stesso, narrandoci la sua autobiografia (non proprio avventurosa) a puntate. Nel qual caso, in effetti, sarebbero affari suoi. Ma qualche lettore potrebbe ugualmente domandargli perché mai raccontarli agli altri. E mandarlo a scopare il mare.

BANANASMARCO TRAVAGLIOl’Unità (5 agosto 2003

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DOMENICO NANIA

BARCELLONA PIZZO DI GOTTO

Dieci giorni fa, a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), abbiamo ricordato il 14° anniversario della morte di un giornalista coraggioso, Beppe Alfano, ucciso dalla mafia nel 1993. La sala del convegno, con Sonia Alfano (figlia di Beppe) e l'avvocato della famiglia Fabio Repici, don Luigi Ciotti, Carlo Lucarelli, Giuseppe Lumia, rigurgitava di gente. Più volte s'è rischiato lo scontro fisico, nella beata indifferenza delle forze dell'ordine, fra il pubblico che voleva ascoltare e un gruppo di fascisti e di membri di una strana confraternita venuti apposta per disturbare e insultare. L'odore di mafia si respirava dappertutto, anche nella sala.

S'è parlato molto del presente e del futuro. Soprattutto della pratica di scioglimento del consiglio comunale avviata sotto il governo Berlusconi con un'ispezione ministeriale. Bene, l'ispezione s'è conclusa il 24 luglio con una relazione finale di 150 pagine firmata dal prefetto Antonio Nunziante e dai suoi tre collaboratori (un ufficiale dei Carabinieri, uno della Finanza, un funzionario di Polizia), semplicemente devastante sul "pesante e convergente quadro di possibile e probabile capacità di penetrazione della locale organizzazione di tipo mafioso nel tessuto connettivo e nei gangli dell'amministrazione comunale", insomma una "realtà molto inquietante» dove il boss Salvatore di Salvo è "di casa al Comune" grazie al buoni uffici del vicepresidente del consiglio comunale, che si chiama Marchetta ed è imputato di mafia (íl boss, in una telefonata intercettata, lo chiama affettuosamente "ragazzo").

Barcellona, patria di Emilio Fede, ha 17 consiglieri comunali su 30 nei guai con la giustizia (ben al di sopra della pur ragguardevole media del Parlamento). Ma il sindaco di An Candeloro Nania, cugino del senatore di An Domenico (che nel comune a conduzione familiare ha potuto costruirsi una villa abusiva), assicura che il suo "è un presidio di legalità". È lo stesso sindaco che ha abbracciato in pubblico un suo fan arrestato per detenzione e vendita di esplosivi e s'è mostrato in giro con pregiudicati. Nella sua giunta-modello siedono un assessore imputato per riciclaggio ed estorsione e un altro denunciato per appropriazione indebita e minacce. Poi c'è il vigile urbano che fa gli accertamenti anagrafici per la ricerca latitanti che è pregiudicato, e ha pure un fratello diffidato e accusato di associazione per delinquere finalizzata ad omicidi; il terzo fratello è consigliere comunale. Non basta. I suoi uffici il Comune li affitta per 27.800 euro l'anno da Rosario Cattafi, avvocato sospeso dall'Ordine, già indagato per la strage di Capaci, già arrestato nelle indagini sull'autoparco della mafia a Milano, già coinvolto nell'inchiesta di La Spezia sul traffico d’armi.

Per questi e altri gravissimi motivi, i quattro ispettori chiedevano al governo Prodi di azzerare e commissariare l'amministrazione barcellonese. I giornali scrivevano che il Viminale aveva pronto il decreto di scioglimento. Ma poi il sindaco Nania fece sapere di aver avuto udienza al Viminale e spiegato ad alti funzionari che il suo comune è un faro di legalità. A quel punto Sonia Alfano e i

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suoi familiari han chiesto al Comune di astenersi dal celebrare messe in suffragio di Beppe, per non ammazzarlo una seconda volta.

Ora trapela la notizia che il governo ha deciso di non commissariare il Comune di Barcellona. Sonia, infaticabile, ha scritto a Prodi e al ministro dell'Interno Amato tutto il suo sconcerto: "Il settimanale Centonove ha riferito che la procedura di scioglimento sarebbe stata sacrificata sull'altare di un accordo sottobanco fra esponenti vicini a quell'amministrazione e importanti esponenti dell'attuale maggioranza." Nessuno l'ha smentito. Il sen. Nania, in un comizio domenica, ha affermato di aver ricevuto personalmente dal Viminale confidenze secondo le quali il ministro stesso non reputa sussistere i presupposti per lo scioglimento, ma che non è detto che egli riesca a respingere le poderose pressioni di personaggi che ambirebbero allo scioglimento per bieche convenienze politiche. Nessuna smentita.

ULIWOOD PARTY

MARCO TRAVAGLIO

l'Unità 20 gennaio 2007

giovedì, 01 febbraio 2007 BARCELLONA PIZZO DI GOTTO/2

Torniamo a Barcellona Pozzo di Gotto, la città messinese che attende da sei mesi una decisione del Viminale sul suo consiglio comunale per le "inquietanti" infiltrazioni mafiose e malavitose denunciate dalla commissione ispettiva guidata dal prefetto Antonio Nunziante, che ha sollecitato il governo a sciogliere il Comune. Barcellona è una capitale della mafia provenzaniana, fatta di una ferocissima ala militare (centinaia di omicidi impuniti, solo negli ultimi vent'anni) e di una potente cupola legata a pezzi di politica, forze dell'ordine e forse magistratura. Il telecomando di Capaci e l'artificiere dell'ordigno venivano di lì. A Barcellona latitò a lungo indisturbato Nitto Santapaola. A Barcellona fu ucciso il giornalista Beppe Alfano. A Barcellona c'è un sindaco di An, Candeloro Nania (cugino del più noto senatore Domenico, condannato in I grado per villa abusiva) che abbraccia in pubblico un tizio arrestato per traffico di esplosivi e va a braccetto con pregiudicati. La sua giunta assegna incarichi a noti mafiosi. Nel suo comune lavorano condannati per mafia. Nel consiglio comunale, 17 su 30 sono inquisiti, compreso il vicepresidente Maurizio Marchetta, indagato per associazione a delinquere e turbativa d'asta nonché amico del boss Salvatore Di Salvo, col quale va pure in crociera. L'altro giorno, in consiglio comunale, Marchetta ha inveito contro un integerrimo capitano dei carabinieri e contro i pm che indagano su di lui, inutilmente redarguito dal presidente. Intanto il Comune veniva visitato dagli uomini della Dda di Messina, venuti a sequestrare gli atti di un appalto. Per molto meno, negli ultimi anni, sono stati sciolti decine di consigli comunali. Quello di Barcellona, invece, pare intoccabile, se è vero che il ministro Amato ha deciso di respingere la richiesta di scioglimento avanzata dagli ispettori e il

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sindaco Nania ha avuto addirittura udienza al Viminale per perorare la causa del suo Comune infiltrato dalla mafia. Non osiamo nemmeno pensare che sia pure vero ciò che scrive, citando notizie di stampa mai smentite, l'avvocato della famiglia Alfano e di tante altre vittime di mafia, Fabio Repici, in una lettera aperta: e cioè che il salvataggio del Comune è stato deciso in amabili e riservati conversari che han coinvolto "il senatore Nania, il Pg messinese Cassata e importanti esponenti della maggioranza parlamentare di centrosinistra", catanesi e non". E ancora: "Dieci giorni fa, in un comizio in piazza, il sen. Nania ha dichiarato di aver ricevuto parole confortanti dal ministro Amato". Il quale sarebbe stato rassicurato sul ritorno di Barcellona alla legalità da una nota, tutta rose e fiori, del prefetto di Messina, Scammacca. Repici traccia anche un ritrattino del prefetto, piuttosto distratto negli ultimi anni sui gravissimi fatti che avvenivano sotto il suo naso e che gli ispettori ministeriali, venuti da fuori, hanno segnalato (purtroppo invano) al Viminale: "Di lui - scrive Repici - si rammenteranno l'attitudine a compiacere i desiderata del sen. Nania e le gaffes pubbliche, come quella di presentarsi allo stadio per la partita Messina-Juventus in compagnia dell'ex deputato Giuseppe Astone, in quel momento indagato dalla Dda di Messina insieme all'on. Crisafulli, al presidente Cuffaro e a personaggi legati al sen. Nania, in un'inchiesta di mafia relativa alla raccolta rifiuti a Messina. Nulla al confronto di quanto lo stesso dr. Scammacca aveva fatto dal '93 come commissario del Comune di S. Giovanni la Punta (Catania), sciolto per mafia: il dr. Scammacca creò una 'consulta cittadina', in cui inserì l'imprenditore multimiliardario Sebastiano Scuto, col quale instaurò rapporti di frequentazione personale, allargata alle rispettive mogli. Sennonché, nel 2001, Scuto finì in carcere per mafia visti i suoi rapporti col clan Laudani, e gli investigatori trovarono tracce del passaggio di somme di denaro da Scuto a Scammacca. Interrogato al processo, Scammacca (già prefetto di Messina), con grande impaccio ammise di aver ricevuto denaro da Scuto, in pagamento di una vecchia auto da collezione". Ora, vogliamo sperare che l'avvocato Repici sia un pazzo che s'inventa le cose, nel qual caso va ricoverato in un manicomio criminale. Se invece non lo fosse, e le sue parole non ricevessero immediate smentite, il governo Prodi dovrebbe sciogliere subito il Comune di Barcellona Pozzo di Gotto. O, in alternativa, spiegare pubblicamente perché non lo fa. Restiamo in fiduciosa attesa.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità 31 gennaio 2007

sabato, 06 gennaio 2007 WOODCOCK, IL SILENZIO È D’ORO

« Non ho niente da dire, non parlo mai delle mie inchieste». È il 16 giugno 2006. Il gip di Potenza Alberto Iannuzzi ha appena accolto la richiesta di arresto del pm Henry John Woodcock per Vittorio Emanuele di Savoia (in carcere), Salvatore Sottile (ai domiciliari) e altri. E questo è l’unico

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commento del pm anglo-napoletano: «Non ho niente da dire». È il titolare dell’inchiesta, ed è l’unico, in Italia, a non aver niente da dire. Altri, invece, hanno molto da dire, anche se non sanno nulla. Un minuto dopo che l’Ansa ha battuto la notizia, dichiaratori ed esternatori in servizio permanente effettivo aprono le cateratte del «commento a caldo», senz’aver letto una sola riga del provvedimento cautelare. Il più lesto è Maurizio Gasparri, An: «Sottile non c’entra nulla. Metto la mano sul fuoco. Anche sul fatto che Woodcock è inadatto a svolgere la sua funzione di magistrato. Le sue inchieste servono solo per andare sui giornali. Tranne la strage degli Ugonotti, s’è occupato di tutto. Perchè? Tutto succede a Potenza? Perchè non interviene il Csm?». Pure Francesco Cossiga, presidente «emerito», dà fiato alla lingua e chiede al ministro della Giustizia, in un’apposita interrogazione parlamentare, se sia vero che un’inchiesta disciplinare su Woodcock è stata bloccata dal Csm «su istruzione dell’Associazione Nazionale Magistrati per non indebolire la magistratura nel confronto con la classe politica», nel qual caso è «doveroso lo scioglimento del Csm per abuso di potere e violazione delle leggi».Non sanno, i due pover’uomini, che il procedimento disciplinare ha già dato ragione a Woodcock: il cosiddetto ministro Castelli fece appello in Cassazione, e qui le Sezioni Unite lo respinsero con perdite, condannando Castelli a pagare le spese processuali. “È l’ennesimo colpo pubblicitario di Woodcock», delira Emanuele Filiberto: «Spero che sia certo delle accuse, altrimenti sarà l’ultima volta che farà qualcosa. Hanno trattato mio padre come un bandito: è un uomo di 70 anni con problemi di salute». Naturalmente Vittorio Emanuele, a parte una caduta dal letto a castello, risulterà sanissimo. Ma ecco un altro ex ministro di An, Mario Landolfi: «Piena solidarietà all’amico Sottile, che è totalmente estraneo. La custodia cautelare inutilmente vessatoria getta un’ombra sulle finalità di certa magistratura». Dai palazzi della politica è tutto un commentare. Erminia Mazzoni, Udc: «Ancora una volta la spettacolarità del provvedimento prevale sul merito. Il pm Woodcock non è nuovo a iniziative clamorose poi naufragate al vaglio del giudice». Gianfranco Rotondi, Dc: «Chiedo a Napolitano e Mastella di assumere un’iniziativa forte per fermare Woodcock: è l’ennesima volta che quel giudice (che è un pm, ndr) prende dai telegiornali le vittime della sua pirateria giudiziaria. Non si arresta un ex re (Vittorio Emanuele non è mai stato re, ndr), al massimo lo si convoca. Chi è fuori dall’Italia si farà l’idea di una Repubblica delle banane in cui la sinistra vince le elezioni e fa arrestare il portavoce della destra e l’ex re schierato con Berlusconi, con accuse fantomatiche». Alfredo Biondi, FI: «Torna il tintinnio delle manette, è la faccia feroce della presunzione di colpevolezza contro la Costituzione». Fabrizio Cicchitto, Fl: «In Italia l’inciviltà ha raggiunto livelli inaccettabili». Filippo Berselli, An: «Le accuse a Vittorio Emanuele sono esilaranti». Altri attacchi al pm da Matteoli, Nania e Alemanno (An). Ri-Gasparri: «Woodcock è un pm da Guida Monaci a caccia di vittime illustri: andava cacciato da tempo». Gianfranco Fini: « Woodcock è un signore che in un Paese serio avrebbe già cambiato mestiere. Il Csm dovrebbe prendere provvedimenti. Questo linciaggio mediatico deve far scattare un grido sdegnato di allarme. Non ci faremo intimidire». Roberto Calderoli, il giurista

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più fine della Lega Nord: «Meglio fottersi una valletta che una banca» (tipo la Credieuronord). Sandro Bondi, FI: «Qualcuno intervenga per porre fine a questo scempio della legge e del buon senso». Daniela Santanchè, An: «Una scandalosa gogna mediatica che mi venire in mente la Rivoluzione francese: ghigliottina in piazza e la gente che guarda soddisfatta». Michele Vietti, Udc: «Questo magistrato è noto per mettere in piedi inchieste tanto clamorose quanto inconcludenti. Ora una legge sulle intercettazioni». E Clemente Mastella, ministro della Giustizia, pronto: «Se il centrodestra è d’accordo, faccio un decreto sulle intercettazioni. Basta con il Grande Fratello». Il centrodestra è d’accordo, i Ds e Di Pietro fortunatamente no. Non mancano comunque i critici centrosinistri. Roberto Villetti, Rosa nel Pugno: «Siamo il paese delle manette facili: l’arresto di Vittorio Emanuele è inspiegabile, basta con queste brutte abitudini» (quelle dei magistrati, non quelle del «principe» e dei suoi compari). Sergio D’Elia, Rosa nel Pugno (condannato a 25 anni per omicidio e banda armata): «È un segno incivile del degrado forse irreversibile dello stato di diritto che persone solo indagate siano sottoposte al pubblico ludibrio, a una condanna preventiva e irreparabile. Occorre intervenire, anche con norme più rigorose, perchè i depositari di atti coperti dal segreto istruttorio (che non esiste più dal 1989, ndr) rispondano personalmente della sua violazione». Nicola Latorre, Ds: «Sulla Procura di Potenza ho scelto di stare zitto, ma il mio silenzio grida più di mille accuse». Altri, bontà loro, stanno zitti per davvero. Nessuno difende i magistrati di Potenza. Angius e D’Alema criticano la pubblicazione delle intercettazioni. Polito rilancia la sua commissione d’inchiesta sulle intercettazioni. Berlusconi concorda: «Una barbarie inaccettabile». Il 20 giugno, nel pieno delle indagini e degl’interrogatori, l’Ansa informa che il Quirinale ha chiesto e ottenuto «una informativa dal Csm sui fascicoli riguardanti il sostituto procuratore di Potenza John Woodcock». Rotondi esulta: «Bene: ora Napolitano faccia con Woodcock come fece alla Camera con un deputato dei Ds fuori riga: gli diede un bel ceffone e quello ringraziò». Cicchitto è entusiasta: «Ora il Csm e il Consiglio dei Ministri vadano a vedere ciò che accade a Potenza, dove emergono cose inquietanti: vediamo a quali aberrazioni può portare questa sistematica violazione del segreto istruttorio e della legge sulle intercettazioni che si combina con l’incredibile pratica di una Santa Inquisizione su pratiche sessuali fra adulti consenzienti. Sia la dichiarazione della Gregoraci sul trattamento riservatole dal pm Woodcock, sia l’immediata pubblicazione del verbale, dimostrano che in Italia siamo tornati ad un grottesco Medioevo». Pochi minuti e l’Ansa annuncia: «Partiranno presto per Potenza, forse anche entro la settimana, gli ispettori del ministero della Giustizia incaricati dal Guardasigilli Mastella di compiere accertamenti sull’operato dei magistrati potentini». Non solo contro il pm, a proposito dell’«uso delle intercettazioni telefoniche» e delle sue presunte «pressioni» sulla Elisabetta Gregoraci (inesistenti, come dimostra la registrazione dell’interrogatorio); ma anche contro il gip Iannuzzi, per le dichiarazioni in cui smentiva attacchi e falsità sull’inchiesta. I due magistrati sono figli di un dio minore. Si prendono le reprimende persino del collega Nello Rossi, segretario dell’Anm ed esponente di Magistratura democratica, che parla di «Grande fratello», di «dignità degli indagati

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calpestata» e chiede «regole più severe e incisive». A questo punto anche il Pg di Potenza Tufano e il procuratore capo Galante scaricano Woodcock, denunciandolo al Csm per non aver fatto vistare dal capo le richieste d’arresto: peccato che non avesse alcun obbligo di farlo. Intanto, il 26 giugno, la Procura di Roma che ha ereditato il fascicolo su Sottile annuncia all’Ansa e ai giornali l’intenzione di chiedere la scarcerazione del portavoce di Fini, cosa che poi puntualmente fa. Ma nessuno, al Ministero, pensa di mandare un’ispezione a Roma per indagare sui pm che parlano dei loro provvedimenti prim ‘ancora di averli presi. In prima fila contro Woodcock c’è tutta la stampa del centrodestra, dal Tempo al Giornale, dal Foglio a Libero. E, sul Corriere, il duo Ostellino&Panebianco. Ostellino dice che le «rumorosissime inchieste di Woodcock finiscono in una bolla di sapone» e dubita della necessità di arrestare il Savoia e di fare «domande morbose» a Sottile (come se, indagando su un reato sessuale, si potesse parlare del sole e della luna). Panebianco ripete a pappagallo: «Bolle di sapone». Il Giornale è scatenato. Pubblica commenti dal titolo «Abusi togati». Sostiene che «Potenza è la Procura che spia di più: record delle intercettazioni, dei mandati di cattura e delle inchieste che si sgonfiano». Rivela addirittura che «alcune intercettazioni di Woodcock sono illegali». Altro titolone a caratteri cubitali: «Il Tribunale del Riesame boccia i magistrati di Potenza: ingiustificato il 70 per cento degli arresti». Dunque, par di capire, il Riesame è Vangelo. Senonchè lo stesso Riesame di Potenza dà ragione a Woodcock e a Iannuzzi su tutta la linea. Sulla competenza territoriale (l’inchiesta sull’associazione a delinquere Savoia&C. rimane a Potenza). Ma anche sui «gravi indizi di colpevolezza» del sindaco di Campione e dei tre faccendieri legati a Vittorio Emanuele, che giustificano ampiamente gli arresti di due settimane prima. Anche perché nel frattempo una decina di indagati, dal Savoia in giù, hanno confessato. È il 30 giugno. Ma nemmeno nel giorno della prima vittoria il pm Woodcock dice una parola: «Non ho nulla da dire». E gli altri, quelli che sapevano tutto senza sapere nulla? Nulla da dichiarare? Ora che dovrebbero chiedere scusa, e vergognarsi un po’, preferiscono tacere. In questi casi, per le facce di bronzo, il silenzio è d’oro.

MARCO TRAVAGLIO

l’Unità 3 luglio 2006 È da tempo che avevo intenzione di editare questo pezzo che non fa parte della consueta rubrica di Travaglio. Meritava il post non solo il giornalista ovviamente, ma anche il pm Woodcock che gestisce alcune inchieste scomode per i cosiddetti "potenti" e che, per questo motivo, continuerà ad essere al centro di attenzioni indesiderate. Anche il suo silenzio è d’oro. E molto significativo in questo paese alla rovescia.

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lunedì, 26 giugno 2006 COSTITUZIONE INCOSTITUZIONALE E ANTIMAFIA MAFIOSA

Mentre, con rara tempestività, l’Authority blocca gli spot-vergogna di Mediaset sul referendum a tre giorni dal referendum, e mentre molti leader dell’Unione replicano con un efficacissimo “Votiamo No per difendere la Costituzione da Bossi e Berlusconi e poi la riscriviamo con Berlusconi e Bossi”, il Venerdì di Repubblica azzecca il miglior manifesto per il No. Foto dell’acuto Calderoli e titolo: “Comprereste una Costituzione usata da quest’uomo?”. All’interno, l’album di famiglia dei padri ricostituenti nella baita del Cadore: oltre al Gianduja di Bergamo Alta, svettano il piccolo Nania (An), il medio Pastore (FI), il quasi alto D’Onofrio (Udc) e il molto alto Brancher (FI). E’ a questi cinque pensatori rupestri che dobbiamo la controriforma che fa dell’Italia una repubblica dittatoriale di stampo caucasico-bananiero. E che, come scrive Michele Ainis sulla Stampa, è una “legge illeggibile”: 8.533 parole, per giunta in sanscrito-ostrogoto, con danni irreparabili non solo alla democrazia, ma anche alla grammatica e alla sintassi. L’articolo 70 dei costituenti veri, quelli del ‘48, è di 9 parole; quello dei ricostituenti al grappino ne conta 585. Per giunta incomprensibili. Figurarsi gli sforzi intellettuali dei Magnifici Cinque per partorire concetti alati quali “gli enti autonomi hanno iniziativa autonoma”, “lo statuto è approvato con legge approvata”, “la regione interessata ratifica le intese della regione medesima”, “l’espressione del parere che ogni Consiglio può esprimere”. Roba da ernia al cervello. Ma, oltrechè con le leggi della lingua, alcuni di loro hanno rapporti conflittuali con le leggi penali. Brancher pagava tangenti al Psi e al Pli e, condannato in primo e secondo grado, l’ha fatta franca in Cassazione per prescrizione e abolizione del falso in bilancio. Nania ha una condanna definitiva per lesioni e una in primo grado per la sua villa abusiva a Barcellona Pozzo di Gotto. Calderoli, a parte i processi per le camicie verdi e le botte alla polizia in via Bellerio, deve ancora spiegare insieme a Brancher i generosi fidi di Fiorani, che derubava i clienti vivi e morti, ma i leghisti e i forzisti li trattava coi guanti. Ora la domanda è: chi eventualmente viola la legge può riscrivere la Costituzione?

Pare un gioco di parole. Ma non lo è. Nei giorni scorsi, in commissione Affari costituzionali, s’è tenuto un appassionante dibattito sul tema: può un imputato di mafia far parte della commissione Antimafia? Già il fatto che qualcuno abbia posto il problema. significa che il no è tutt’altro che scontato. Infatti alla fine è passato il sì. Tenetevi forte, perché questa è strepitosa. Angela Napoli, deputata calabrese di An e persona seria, propone di escludere dall’Antimafia i parlamentari sotto processo per mafia. Orazio Licandro, noto giurista catanese eletto nel Pdci, sgrana gli occhi: “Perché, non sono già esclusi?”. Scorre il testo base delle legge istitutiva della nuova commissione Antimafia e scopre che no, non lo sono. Così propone un emendamento ad hoc. Ma il rifondatore comunista Francesco Forgione, che pure in Sicilia ha condotto battaglie solitarie contro mafia & politica, obietta: “Non sarà un affievolimento delle prerogative del parlamentare?”. Il ds Luciano Violante, altro antimafia con le stimmate, concorda: “La materia è delicata, meglio lasciarla al buon senso del singolo parlamentare e dei presidenti delle Camere”. Il meglio però lo dà Giampiero D’Alia (Udc): “C’è il rischio di creare una disparità inaccettabile: il pericolo è che possa far parte dell’Antimafia un condannato, ad esempio, per falso in bilancio”. Si potrebbe stabilire che è escluso qualunque condannato e imputato, ma la soluzione viene scartata a priori: poi si faticherebbe a coprire gli organici. Dunque la proposta non passa: se ne riparlerà martedì in aula. Presto sapremo pure chi è l’imputato di mafia che aspira a far parte dell’Antimafia. Esclusi Provenzano e Messina Denaro, che non sono (almeno per ora) in Parlamento, il cerchio si stringe intorno ai 6 parlamentari indagati o imputati per concorso esterno: Romano (Udc), Malvano, Firrarello, Giudice e Dell’Utri (FI), Cusumano (Udeur). Ora analogo dibattito si accenderà in altre commissioni. Escludere gli imputati di pedofilia dalla commissione Infanzia? Precedente pericoloso. Escludere gli imputati di stupro dalla commissione Pari Opportunità?

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Allora chiamiamola Dispari Opportunità. Escludere gli evasori fiscali dalla commissione Finanze? Si rischia di favorire gl’imputati di abigeato. Escludere i rapinatori dal Comitato per l’Ordine e la Sicurezza? Attentato alle prerogative parlamentari. Escludere i ladri e i loro avvocati dalla commissione Giustizia? Sarebbe la prima volta, pare brutto.

 ULIWOOD PARTY

MARCO TRAVAGLIO – “l’Unità” 24 giugno 2006giovedì, 15 giugno 2006

JURASSIC RAI

Il diavoletto che s‘intrufola nelle redazioni per infilare notizie false nei resoconti dei giornali e dei tg ha colpito ancora. L‘altro ieri ha diffuso un falso comunicato del Cda Rai che esprimeva un giudizio «nettamente positivo» sull‘informazione «complessivamente equilibrata» a proposito del referendum costituzionale. È ovvio che si tratta di un comunicato apocrifo, messo in circolazione per screditare il Cda. È impensabile infatti che persone sane di mente, quali dovrebbero essere almeno alcuni consiglieri, se ne escano con una simile enormità essendo sotto gli occhi di tutti lo stato comatoso della cosiddetta informazione del cosiddetto servizio pubblico (e non solo sul referendum). Se invece il comunicato del Cda dovesse rivelarsi autentico, cosa che ci rifiutiamo di credere, non resterebbe che mandare a casa tutti i firmatari per manifesta incapacità di intendere e volere. Chi ha la sfortuna di informarsi (si fa per dire) attraverso i principali tg Rai (per non parlare di Mediaset), sa tutto sul parere di questo o quel politico a proposito del referendum: nulla infatti ci viene lesinato sulle opinioni in merito di Nania e Calderoli, Pecoraro Scanio e Mastella, Angius e la signorina Carfagna. Purtroppo, finito il solito teatrino, non resta granché tempo per raccontare i contenuti della Costituzione-boiata escogitata due estati fa, fra un rutto e un grappino, dai presunti «saggi» in una baita del Cadore. Per saperne qualcosa bisogna leggere alcuni giornali: sul Corriere Giovanni Sartori, che di queste faccende capisce parecchio, e infatti non viene mai consultato dalle tv, spiegava i trucchi della disinformatija in corso a reti unificate. Ed è appunto a Sartori che ha risposto il Cda Rai, con il comunicato che ci auguriamo falso e apocrifo. Qualcuno dirà: ma perché mai, se la Rai è già passata spontaneamente al centrosinistra senza bisogno di epurazioni, continua a comportarsi come se al governo ci fosse il centrodestra? Purtroppo il problema non è questo: è proprio perché la Rai sta passando ai nuovi padroni del vapore (con i leggendari panini del Tg1 invertiti: due fette di pane alla maggioranza, sottiletta all‘opposizione) che, sul referendum, si tiene così sul vago. Lì dentro anche il più impercettibile spiffero politico viene colto in pieno, e s’è capito che

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l‘Unione è quasi spaventata all‘idea di stravincere il referendum, dunque parla di «spoliticizzarlo», di «evitare lo scontro», di «preparare il dialogo» per riformare, subito dopo, la Costituzione «insieme». Ecco, è la parola «insieme» la chiave di tutto. Un avverbio che manda in brodo di giuggiole Vespa e tutti i vespini e gl‘insettini al seguito. Ancora una volta, la Rai è lo specchio del Palazzo, la prosecuzione della politica con altri mezzi. E i cittadini lì a sperare che, fra un Risiko e l’altro, passi qualche notizia vera.

In questo senso, e solo in questo senso, non è cambiato niente: l’idea dominante resta quella secondo cui l’informazione non è un diritto fondamentale dei cittadini, ma un favore che, bontà loro, ci fanno i politici di tanto in tanto per tenerci buoni, allentando un po’ le maglie della censura. Per cui, alla Rai, basta qualche aggiustamento qua e là, e il resto viene da sé. I quasi 40 mila italiani che hanno già firmato la legge di iniziativa popolare per cacciare i partiti dalla Rai e il partito unico da Mediaset, e quelli che la sottoscriveranno domani nel Firma Day in tutte le piazze d’Italia (per informazioni, www.perunaltratv.it) non la pensano così. Chiunque, sul satellite, dia un‘occhiata alle tv pubbliche (e anche private) di Francia, Inghilterra, Germania e Spagna, sa che nelle democrazie vere non funziona così. Se l’informazione (e la satira) si può fare solo «col permesso de li superiori», la partita è già persa in partenza. E basta leggere le letterine affrante di Vespa ai giornali contro i politici cattivi che lo vorrebbero ridimensionare da quattro a tre sere settimanali (come peraltro prevede il suo sontuoso contratto di pensionato d’oro) per rendersene conto. I politici cattivi che lo vorrebbero solo uno e trino, e non più quattrino, sono gli stessi del centrosinistra che nel 1998 lo trasformarono in quattrino. Ciò che spaventa l’insetto è l’idea stessa che gli vengano affiancati dei giornalisti non di partito né di palazzo (Nino Rizzo Nervo parla di Santoro, Biagi, Feltri) e che la gente possa fare il confronto. Proposta sacrosanta, che però sarebbe ancor più credibile se, a farla, fossero dei professionisti indipendenti. Persino il Jurassic Park del calcio è oggi nelle mani di un professionista indipendente. Firmiamo in massa quella legge, e magari chissà, avremo un miracolo-bis anche alla Rai.  ULIWOOD PARTY

MARCO TRAVAGLIO – “l’Unità” 15 giugno 2006

SI SA MA NON SI DICE

Ormai in Italia scoppia uno scandalo ogni due mesi. E scatta automatico il paragone con Tangentopoli.A proposito di Calciopoli, l'ambasciatore Romano ha trovato un'analogia nel presunto "protagonismo della magistratura", che tutti vorrebbero relegare al rango di comprimaria, senza spiegare perchè mai uno dei tre poteri dello Stato non dovrebbe essere protagonista nel suo campo: un pm che indaga è "protagonista" esattamente come un ministro che governa o un parlamentare che legifera. Il Platinette Barbuto è costernato perchè i tifosi vorrebbero la condanna di chi truccava designazioni, partite e campionati, "giustizialisti" che non sono altro. In realtà l'unica vera analogia fra Calciopoli e Tangentopoli, oltre all'usanza sempre più diffusa di fare le regole e non rispettarle, è la reazione degli intoccabili presi con le mani nella marmellata.Per esempio Beppe Pisanu, il più alto in grado: telefonava a Moggi per salvare la squadra del cuore (e del collegio), la Torres, segno che conosce la sua influenza illecita sui campionati dalla A alla C2. Le sue imbarazzanti parole a "Lucià" le abbiamo lette tutti: bell'esempio di "primato della politica". Lui come si difende? Tuonando contro la "divulgazione arbitraria che getta ombre sulla mia condotta di ministro". Il sant'uomo finge di non accorgersi che è proprio la sua condotta che getta ombre sulla sua condotta, non chi la racconta.

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E' l'eterna litania di Craxi e altre centinaia di tangentari, che appena li accusavano di aver rubato non si difendevano dicendo "Non è vero" e denunciando chi li accusava, ma dicendo: "E' un segreto" e tuonavano contro inesistenti "fughe di notizie" (avvisi di garanzia e verbali, per il nostro Codice, non sono affatto segreti dal momento in cui sono "conoscibili dall'indagato"). Bella difesa. Persuasiva. "Dicono che rubo, ma è un segreto". Ora ci risiamo. Uno indica la luna e tutti guardano il dito. Perchè la luna non è la parola di un pentito o di un nemico, ma è la voce del ministro Pisanu che chiede favori inconfessabili. Nulla da dichiarare, sul punto, a parte il fatto che la gente non deve sapere.Nemmeno stavolta c'è nulla di illecito almeno da parte della stampa e dei magistrati. La Costituzione vieta di intercettare i parlamentari, non Moggi. Se poi un onorevole ministro chiama Moggi, peggio per l'on.min.  La legge-vergona votata da Polo e Ulivo nel 2003 insieme al Lodo Maccanico sulle intercettazioni indirette dice solo che, per usare processualmente un'intercettazione in cui compare indirettamente un onorevole, bisogna chiedere il permesso al Parlamento. Se il Parlamento lo nega, questa viene distrutta. Ma se intanto viene contestata all'indagato, può capitare che finisca su un giornale.In ogni caso, se il pm chiede alle Camere il permesso di usarla, trasmettendola alla giunta delle immunità (formata da decine di persone), è difficile tenerla segreta. Se poi resta segreta, può diventare un'arma di ricatto. Se invece il pm non la manda al Parlamento, si sa che c'è ma non se ne conosce il contenuto, alimentando chissà quali sospetti, magari infondati, senza che l'onorevole parlante possa dissiparli. Bel risultato, non c'è che dire.Ora i vari Cossiga, Nania, Cicchitto, Follini e Ghedini assicurano massima "solidarietà": non alla squadra retrocessa al posto della Torres, ma a Pisanu. E non si capisce perchè, contro chi, in che senso. Il presidente del Senato Marini coglie la palla al balzo per invocare "iniziative legislative a tutela dei parlamentari". Ancora? E per arrivare dove? Delle due l'una. O si vieta ai magistrati di intercettare chicchessia, compresi i mafiosi, perchè c'è sempre il rischio che chiamino un politico o parlino di lui (già successo, col boss Guttadauro, il governatore Cuffaro e l'on. Dell'Utri). O si opta finalmente per la "casa di vetro", abrogando l'anacronistico privilegio dei parlamentari, almeno sulle intercettazioni indirette (quando questi parlano con gli indagati) e consentono ai giudici di renderle pubbliche, fatte salve le faccende private, appena l'indagine lo permette.Gli elettori devono sapere tutto degli eletti, e non viceversa. È ora che i personaggi pubblici, oltre agli onori, si sobbarchino anche gli oneri. Se poi vogliono evitare di finire intercettati insieme ai delinquenti, non hanno che un sistema, davvero infallibile: non parlare con i delinquenti e, possibilmente, non conoscerli. O, se proprio non ne possono fare a meno, servirsi di comodi pizzini. Uliwoodparty Marco Travaglio - l'Unità 19 maggio 2006

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ALDO PATRICIELLO

FURBETTI DEL QUARTIERINO E NON

Wanna Marchi, Cesare Previti. E molti, molti politici

L’indulto, così come è stato pensato, riguarda anche casi di corruzione già a sentenza e casi che ci devono arrivare ancora. Ci sarà un esercito che andrà ai servizi sociali

 L'indulto è come la patente a punti. Chiunque, fino al maggio 2006, ha concusso, ha corrotto o s'è fatto corrompere, ha abusato dei suoi poteri per favorire qualcuno, derubato lo Stato col peculato o la sua società con la bancarotta, truffato il prossimo, truccato gare d'appalto, incassato fondi neri, frodato il fisco, falsato bilanci, turbato il mercato finanziario con l'aggiotaggio, scalato banche violando le leggi, speculato con l'insider trading, giocato con la salute dei dipendenti provocando infortuni o addirittura decessi nei luoghi di lavoro, e fino a oggi temeva - in caso di condanna - di andare in carcere a scontare la pena, può tirare un sospiro di sollievo: partirà da meno tre. Nel senso di meno 3 anni di pena, da detrarre da eventuali condanne definitive.

Per i reati puniti più severamente (per esempio, la bancarotta o la rapina), l'indulto comporterà semplicemente uno sconto di pena. Per quelli puniti con sanzioni più blande (tutti quelli dei colletti bianchi), significherà azzerare le pene del tutto o quasi. E comunque garantirsi l'esenzione dal carcere: in Italia infatti si scontano dietro le sbarre solo le pene superiori ai 3 anni (sotto, c'è l'affidamento al servizio sociale: cioè l'assoluta libertà con qualche opera buona). Risultato: chi rischia pene fino ai 6 anni scende a 3, e non sconta nemmeno un giorno. Non solo: l'indulto cancella pure le pene accessorie (interdizione da pubblici uffici, cariche societarie, professioni): i condannati resteranno in Parlamento, nella pubblica amministrazione, nei mestieri che esercitavano mentre delinquevano. Giudici, pm e investigatori dovranno portare a termine indagini e processi già sapendo che sarà tutto inutile, o quasi: come per la Juventus, il campionato degli inquirenti partirà con una forte penalizzazione.

L'elenco dei beneficiari di questo colpo di spugna a orologeria, che sta per esser varato urbi et orbi con la scusa delle carceri affollate, è lungo chilometri. In cima alla lista, com'è noto, c'è Cesare Previti (pregiudicato per corruzione giudiziaria), che scenderà da 5 a 2 anni, lascerà gli arresti domiciliari e rientrerà in Parlamento, almeno finché la Camera non si deciderà a dichiararlo decaduto per l'interdizione perpetua. Poi c'è Silvio Berlusconi, imputato per corruzione del testimone David Mills e per i diritti Mediaset (appropriazione indebita, falso in bilancio e frode fiscale), insieme a Confalonieri (falso in bilancio) e ai figli Marina e Piersilvio (indagati per riciclaggio).

Poi ci sono i protagonisti di tutti gli scandali degli ultimi due anni. Comprese le teletruffe di Wanna Marchi e Stefania Nobile: condannate a 10 anni in primo grado, se patteggiano in appello scendono a 6 anni, e con l'indulto a 3: in pratica, non tornano mai più in carcere. I protagonisti dell'inchiesta penale su Calciopoli, a Napoli), non dovranno neppure patteggiare: le pene per la frode sportiva sono talmente basse da vanificare il futuro processo a Moggi, Carraro, Giraudo, Galliani, Mazzini, De Santis, Pairetto, Bergamo, ai figli di papà targati Gea e così via. Idem per Bancopoli (aggiotaggio e altri reati finanziari, a Milano e Roma), che vede inquisiti l'ex governatore Fazio e i multicolori furbetti del quartierino: Fiorani, Gnutti, Ricucci, Coppola,

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Consorte, Sacchetti, Billè, Palenzona. E sono ancora al vaglio degli inquirenti le posizioni dei politici beneficiati dal munifico banchiere di Lodi: i forzisti Brancher, Grillo, Dell'Utri, Romani e Comincioli, il leghista Calderoli e l'Udc Tarolli. Poi c'è la banda Parmalat, imputata a Milano e a Parma: da Calisto Tanzi in giù, fino ai banchieri (a cominciare da Cesare Geronzi) suoi presunti complici nella truffa a migliaia di risparmiatori. E c'è la banda Cirio di Sergio Cragnotti, anch'essa specializzata in bond-carta straccia. In una tranche collaterale del caso Parmalat sono indagati per corruzione De Mita (Dl) e Burlando (Ds), e in un'altra ancora, per finanziamento illecito, l'ex ministro Alemanno (An). Il "meno tre" potrebbe far comodo anche al forzista Raffaele Fitto e ai suoi coindagati a Bari per le presunte tangenti dal gruppo Angelucci. Per non parlare dei protagonisti dell'ultimo scandalo di Potenza: Vittorio Emanuele e due uomini di Fini: Salvo Sottile e Francesco Proietti Cosimi.

Ma c'è pure un esercito di deputati e senatori nei guai con la giustizia per vari reati, tutti compresi nell'indulto (conflitto d'interessi? Forse). Marcello Dell'Utri è imputato a Palermo per calunnia contro tre pentiti. Francesco Storace e il suo entourage sono accusati a Roma di associazione a delinquere per aver spiato illegalmente Marrazzo e la Mussolini. Il Ds ribelle Vincenzo De Luca, neosindaco di Salerno, è indagato per concussione, abuso, truffa e falso. An voterà no all'indulto, salvo due ex ministri, entrambi indagati: uno è Alemanno, l'altro è Altero Matteoli, rinviato a giudizio per favoreggiamento nell'inchiesta sugli abusi edilizi all'Elba. E la lista "nera" non finisce qui: Ugo Martinat è inquisito a Torino per turbativa d'asta e abuso per alcuni appalti Tav; e Silvano Moffa lo è a Velletri per corruzione. Nutrita anche la pattuglia Udc: se cade l'aggravante mafiosa del favoreggiamento, l'indulto serve a Totò Cuffaro; e, in caso di condanna, servirà di certo al neo-onorevole Vittorio Adolfo, accusato a Sanremo di corruzione, truffa e turbativa d'asta; a Giampiero Catone, imputato per truffa e bancarotta a Roma e L'Aquila; ad Aldo Patriciello, coinvolto nello scandalo molisano della circonvallazione di Venafro; e a Teresio Delfino, indagato per associazione a delinquere e truffa nella gestione allegra dell'Enoteca d'Italia; senza dimenticare Giuseppe Drago, condannato in primo grado a 3 anni e 3 mesi per peculato per aver svuotato la cassa della presidenza della regione Sicilia quando ne era governatore. Idem come sopra per altri ex Dc come Pino Firrarello (FI) e Nuccio Cusumano (Udeur), imputati per gli appalti truccati dell'ospedale di Catania.

A condurre le trattative col centrosinistra per l'indulto è stato l'on. avv. prof. Gaetano Pecorella (FI), che non solo difende Berlusconi in vari processi per reati non esclusi dall'indulto; ma, a quel che si sa, risulta ancora indagato a Brescia con l'accusa di aver pagato il supertestimone Martino Siciliano, affinchè ritrattasse le accuse al suo cliente Delfo Zorzi per le stragi di Piazza Fontana e Piazza della Loggia. Il reato ipotizzato è favoreggiamento: anch'esso compreso nel Grande Condono.  MARCO TRAVAGLIO

“l'Unità” 25 luglio 2006

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LINO JANNUZZI

SERVIZIETTI (POCO) SEGRETI

Berlusconi fa sapere che, con le spiate del Sismi nominato dal governo Berlusconi, Berlusconi non c’entra. Del resto, se anziché spiare i terroristi islamici e nostrani, i mafiosi, i camorristi e gli ‘ndranghetisti, il duo Pompa&Pollari spiava magistrati, politici d’opposizione e giornalisti ritenuti ostili a Berlusconi, chi mai potrebbe sospettare che lo facesse per conto dì Berlusconi? È vero, i dossìer di Spio Pompa su Prodi finivano dritti e filati su Libero per la firma di Renato Farina, intervistatore di fiducia di Berlusconi, stipendiato dal Sismi. Ma Berlusconi non c’entra. I dossier su inesistenti vertici a Lugano tra magistrati Italiani e stranieri ansiosi di arrestare Berlusconi finivano su Panorama di Berlusconi, sul Foglio di Berlusconi e sul Giornale di Berlusconi per la penna di Lino Jannuzzi, senatore del partito di Berlusconi, ma Berlusconi non c’entra. Pompa e Pollari maneggiavano dossier sulla Telekom Serbia che foraggiavano l’omonima commissione creata da Berlusconi per dimostrare la corruzione degli oppositori di Berlusconi, ma Berlusconi non c’entra. Le teorie sul planetario complotto mediatico-gludiziario ai danni di Berlusconi formulate chez Pompa venivano copiate pari pari e rilanciate da Berlusconi, ma Berlusconi non c’entra. I giornalisti che scrivevano cose turpi (e dunque vere) su Berlusconi venivano pedinati da uomini del Sismi a spese dei contribuenti ma Berlusconi non c’entra. Nei dossier di via Nazionale si progettava di «disarticolare con mezzi traumatici» i magistrati che indagavano su Berlusconi e i suoi cari, ma Berlusconi non c’entra. Pompa nel 2001 scriveva a Berlusconi: «Sarò, se Lei vorrà, il Suo uomo fedele e leale... Desidero averLa come riferimento e esempio ponendomi da subito al lavoro. Un lavoro che vorrei concordare con Lei quando potrò, se lo riterrà opportuno, nuovamente incontrarla… Insieme a don Luigi (Verzè, ndr) voglio impegnarmi a fondo, com’è nella tradizione contadina della mia famiglia, nella difesa della Sua straordinaria missione che scandisce la Sua esistenza», ma Berlusconi non c’entra. In un paese decente, per molto meno, si parlerebbe di regime, tanto più se si associa il caso Sismi a quanto sta emergendo sulla «macelleria messicana» del G8 di Genova (uno a zero per noi!», esultava nel 2001 un poliziotto dopo la morte di Carlo Giuliani) e chi ha avuto responsabilità anche solo politiche in questi sporchi affari andrebbe ipso facto a casa, o forse in luoghi meno ospitali. Invece da noi la parola «regime» è stata per 5 anni vietata dalla stessa sinistra (dava l’orticaria», come ben ricorda Furio Colombo) e non si dimette nessuno. La classe politica, salvo rare eccezioni, guarda a questi scandali con annoiata sufficienza. Poi c’è qualche furbastro trasversale che coglie la palla al balzo per varare la tanto sospirata commissione d’inchiesta sulle intercettazioni. Naturalmente le deviazioni istituzionali del Sismi non c’entrano: le intercettazioni non le fa il Sismi, ma i magistrati, che proprio grazie alle intercettazioni hanno scoperto i dossieraggi e le complicità dei vertici del servizio militare in un sequestro di persona, prima che il governo opponesse un inesistente segreto dì Stato e bloccasse il processo. Non facciano i furbi:la commissione sulle intercettazioni non è contro i dossieraggi illegali, è contro i magistrati che applicano le leggi. Semmai, se le commissioni servissero a qualcosa, ne andrebbe creata una sulle imprese dei Sismi e degli altri apparati di spionaggio abusivi con copertura istituzionali, come quello di Telecom. Invece abbiamo indagato per 5 anni su Mitrokhin, cioè sullo spionaggio sovietico, tema senz’altro stimolante se non avessimo in casa due o tre centrali di spionaggio italiano. Ma il tema non appassiona nessuno, a parte la magistratura, ostacolata in ogni modo. Sarebbe interessante conoscere il parere degl’intellettuali “liberali” che ogni due per tre intasano le prime pagine per denunciare le «invasioni di campo» della magistratura nella politica e nella privacy dei cittadini inermi. Che ne dicono delle invasioni di campo del Sismi nella politica e nella libera informazione, spiate a spese dei contribuenti addirittura nei pubblici convegni e nelle presentazioni di libri? Come si chiamano i posti in cui avvengono queste cose, se non regimi? I Panebianchi, gli Ostellini, i Galli della Loggia e altri liberali a 24 carati staranno preparando articoli di fuoco. sull’argomento. Speriamo pure di leggerli, prima o poi.

ULIWOOD PARTY

MARCO TRAVAGLIO

l’Unità (7 luglio 2007)77

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LA CARICA DEGLI IPOCRITIdi Gian Antonio Stella

Per celebrare la decisione del governo di dare una sforbiciata ai costi della politica, la Regione Calabria ha avuto una bella pensata: ha appena inserito tra le comunità montane altri 19 comuni tra i quali Bova Marina, il cui municipio svetta dolomitico a 20 metri sul livello del mare. Prova provata che tra il dire e il fare, su questo tema spinosissimo, c'è di mezzo il mare. Peggio: un mare montagnoso. Tanto che il disegno di legge sui tagli agli sprechi è slittato ieri per l'ennesima volta. A quando? Boh... Che le resistenze sarebbero state molte, al progetto di smontare almeno un po' di meccanismi clientelari e riordinare almeno un po' di assurdità e rimuovere almeno un po' dei privilegi che appaiono ai cittadini ogni giorno più insopportabili, si sapeva. Bastava notare l'assoluto, imbarazzato, abissale silenzio, in questi mesi, da parte di tutte le forze politiche, intorno alla possibilità di rovesciare l'indecente leggina sui finanziamenti privati ai partiti. Quella in base alla quale chi regala soldi a una segreteria politica o a un candidato alle elezioni ha sconti fiscali fino a 51 volte più alti rispetto a chi regala gli stessi soldi alla ricerca sulla leucemia infantile o alla lotta alla fame nel mondo. Bastava ascoltare certi dibattiti televisivi dove, secondo i più accaniti guardiani del dorato status quo, il problema non era che i pranzi al ristorante della Camera costino mediamente 90 euro e vengano pagati dai deputati, ma il rischio che queste denunce «possano creare sfiducia nelle istituzioni». Bastava interpretare il piccolo gesto di sfida di Rocco Buttiglione che nel bel mezzo delle polemiche sfregiava ridacchiando i censori: «Alla buvette vogliamo pure il gelato». Oppure bastava annusare l'ostilità che emanava già a fine maggio alla Commissione Affari istituzionali presieduta da Luciano Violante. Dove il forzista Gabriele Boscetto era preoccupatissimo perfino dall'ipotesi di «un'indagine conoscitiva sulle spese attinenti al funzionamento della Repubblica» poiché già questo gli faceva venire «il timore che si tratti di un'iniziativa demagogica, preparatoria di interventi drastici e meramente propagandistici». Nessuna meraviglia: abituato com'è a un certo andazzo, durante l'ultima finanziaria era arrivato a proporre l'abolizione del divieto, per chi ha una carica in un ente locale di «ricoprire incarichi e assumere consulenze professionali non solo presso gli enti in cui esercitano la loro carica, ma anche presso altri enti territoriali». Una incompatibilità ovvia, varata per impedire a un sindaco di affidare incarichi a un altro sindaco ricevendo in cambio lo stesso regalino. Gli pareva troppo: «Comporta una perdita economica e un impedimento ingiusto ».

Non c'è stato giorno, in queste settimane, soprattutto dopo l'allarme lanciato sul Corriere da Massimo D'Alema («Rischiamo di essere travolti come la Prima Repubblica») in cui Romano Prodi, Linda Lanzillotta, Giulio Santagata o altri non abbiano promesso un disegno di legge del governo per contenere i costi esorbitanti della macchina politica. E non c'è stato giorno in cui non si potessero cogliere qua e là segnali, su questo percorso, di grande difficoltà. E una crescente insofferenza per le polemiche: «Uffa, ma come, basta, ancora questa storia?». Dice tutto il tormentone sulla comunità montane. All'inizio, dopo lo scandalizzato stupore popolare per l'esistenza di comunità come quella delle Murge Tarantine dove nessuno dei suoi nove comuni è «montano» e dove Palagiano sorge a 39 metri sul livello del mare (massimo dell'altezza 86 metri, 12 meno del campanile veneziano di San Marco) pareva che l'orientamento fosse ovvio: d'ora in avanti avrebbero potuto appartenere alle comunità montane solo paesi sopra i mille metri. No, meglio novecento. Forse ottocento. Ma no, non si può guardare solo l'altitudine: settecento. Non esageriamo: seicento. E mentre il taglio diventava un taglietto e poi una sforbiciatina (ultima puntata: se ne occuperà l'Osservatorio per l'applicazione della legge sulla montagna), la Calabria, infischiandosene di tutto e tutti, allargava le sue comunità a paesi appunto come Bova Marina (sul mare), Cassano allo Jonio (sul mare) o Monasterace, il cui territorio sale dalla spiaggia alla vertiginosa altezza di 177 metri, più o meno quanto la Mole Antonelliana. Una cosa che, nella convinzione che per salvare i paesi spopolati della montagna vera occorre spazzare via quella finta e clientelare, ha fatto infuriare lo stesso presidente dell'Unione comunità montane Enrico Borghi: «Ma come, a Roma stiamo lavorando per ridefinire cos'è la montagna e come aiutarla e in Calabria vanno per conto loro così?». Per non dire del taglio alla massa di consiglieri regionali, provinciali, comunali, circoscrizionali. A parte la rinuncia a priori alla soppressione delle province, che tutti considerano più o meno inutili ma nessuno ha la forza e la volontà politica di spazzar via (nel 1985 Margaret Thatcher le sue 45 Contee metropolitane le eliminò tutte in un colpo solo, compresa quella di Londra: ma era la Thatcher), si prevede che si andrà a una limatura. Ma è illuminante quanto accaduto intorno ai comuni. Il sindaco di Firenze Leonardo Domenici, presidente dell'Anci, aveva detto che, per quanto lo riguardava, poteva essere concordato («concordato, però!») un taglio del 25% dei consiglieri. Macché: ben che vada sarà (forse) del 10%. Ma sempre lì si torna, come lo stesso Domenici ha sottolineato mille volte: urgono una consapevolezza e uno sforzo di riforma corale, magari sotto il «patronato» del capo dello Stato. Sennò andrà sempre a finire come in una delle riunioni di queste settimane. Conclusa da Vasco Errani, Roberto Formigoni e altri governatori, di destra e di sinistra, con una battuta che concentrava tutto: «Dobbiamo tagliare? D'accordo, ci

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stiamo. Eccoci qua, pronti. Ma non sarà il caso che cominciate voi, che al governo siete in 103?».

Corriere della Sera (07 Luglio 2007)

mercoledì, 14 marzo 2007 IL GRANDE PORCELLO

Nei mitici, craxianissimi anni 80 della Milano da bere e dell’Italia da rubare, certe cose si facevano, ma non si dicevano. Negli anni 90 arrivò Berlusconi, che di Craxi era l’allievo e quelle cose le faceva e ogni tanto le diceva pure, ma sempre cercando qualche alibi e scusa (si pagano le tangenti perché si è costretti, si evadono le tasse perché il fisco è esoso, si fanno gli abusi edilizi perché «il piano regolatore di Olbia è comunista»). Ora la notizia è questa: rimpiangeremo Berlusconi, perché i discepoli stanno superando il maestro.

Le intercettazioni di Potenza inaugurano ufficialmente l’era post-berlusconiana: l’era dei Corona, dei Lelemora, dei Briatore, che è molto peggio dell’era berlusconiana perché ora certe cose si fanno, si dicono e si vantano con un certo orgoglio. «Io - dice Corona alla moglie disgustata - queste troie le faccio incontrare con questi ricchi». Poi scatta il ricatto. «È vero, rovino la vita agli altri. Sono un pezzo di merda e non ci ho più neanche i sensi di colpa». Nemmeno quando va ad accalappiare Azouz Marzouk ai funerali della sua famiglia sterminata a Erba, poi telefona all’amico Lele: «Ho chiuso l’intervista per Costanzo e l’esclusiva per Chi. Sai cos’avrà lui (Marzouk, ndr) durante il funerale? La maglietta di “Corona’s”!». Mora, un filino turbato: «Sei un pazzo». E lui: «Lelito, ma tu ti rendi conto?». E l’altro: «Che mostro ho creato!». Un’altra volta Corona tenta addirittura di infilare la propria moglie nel letto di Eros Ramazzotti, per creare «un falso scoop» (la signora ne uscirebbe come nuova: «Una lavata, un’asciugata e sembra neanche averla usata!»).

Ma se il coronismo è una degenerazione del berlusconismo, Corona resta comunque un po’ meno peggio del Cavaliere. È molto meno ricco e meno potente. Non ha mai pensato di rifugiarsi in Parlamento per non finire in galera. Non fa nulla per nascondere quello che è, ma almeno lo sa: «Se fossi moralmente una persona a posto, non farei ‘sto lavoro. In un certo senso faccio schifo, ma il fine giustifica i mezzi». Una frase così il Cavaliere non si sognerebbe nemmeno di pensarla: come diceva Montanelli, «lui mente a tutti, anche a se stesso: è un bugiardo sincero». La differenza che meno conta tra i due è quella che più viene sottolineata in questi giorni da tv e giornali compiacenti (praticamente tutti): e cioè che Berlusconi sarebbe «vittima» del ricatto di Corona, costretto a pagargli 20 mila euro per ritirare certe foto della figlia.

Per carità, ormai si può sostenere qualsiasi cosa: ma che l’uomo più ricco e potente d’Italia possa passare per vittima di un paparazzo di 32 anni è la barzelletta del secolo. Al Cavaliere non mancavano certo i mezzi di comunicazione per denunciare pubblicamente la gang. Anzi, trattandosi di un presidente del Consiglio uscente, capo dell’opposizione parlamentare, sarebbe stato suo preciso dovere fare quello che qualunque privato cittadino avrebbe dovuto fare: recarsi nel più vicino commissariato e sporgere querela. Il fatto interessante è che la cosa non gli è neppure passata per la testa. Lui è abituato così. La mafia lo minaccia? Assume un mafioso travestito da stalliere. La mafia mette le bombe in casa sua? Ne parla con Dell’Utri e non denuncia nulla, in fondo «è una bomba gentile e affettuosa». La mafia attenta alla Standa di Catania? Secondo il Tribunale di Palermo, Dell’Utri scende giù a pagare un’altra volta il pizzo («Anziché astenersi dal trattare con la mafia, Dell’Utri ha scelto di mediare tra gli interessi di Cosa Nostra e gli interessi imprenditoriali di Berlusconi, un industriale disposto a pagare pur di stare tranquillo»). Il lodo Mondadori dà ragione a De Benedetti? Previti paga un giudice e la Mondadori passa a Berlusconi. Arrivano i

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marescialli della Finanza per l’ispezione fiscale? La Fininvest li imbottisce di mazzette per chiudere un occhio. Per questo, quando si fa avanti un Corona qualunque, lo Statista di Milanello mette mano al portafogli: è la forza dell’abitudine.

Parlare di vittima pare eccessivo, anche perché Mora è di casa a villa Certosa; è l’«agente» di Emilio Fede e lavora per la De Filippi; e Corona agisce per “Chi” e per Costanzo, tutta roba Fininvest, senza contare che fra i soci ha il figlio di Flavio Carboni (che era socio di Berlusconi).Giocando con le frasi storiche dell’inchiesta si ottengono risultati strepitosi. Il gip Alberto Jannuzzi parla di un tipo «sempre pronto a mercificare qualsiasi cosa e chiunque». Ce l’ha con Berlusconi? No, con Corona. Una donna dice al marito: «A me questa tua vita mi fa schifo! I tuoi sono soldi marci!». Veronica che parla con Silvio? No, Nina Moric che parla con Fabrizio. Un uomo dice al giudice: “L’unica cosa pulita della mia vita è mia moglie”. È Berlusconi? No, Corona. Altra voce intercettata: «Se passa questa legge, non mi possono fare un cazzo. Se non passa, praticamente sono fottuto: cioè, quello che tu dici al telefono vale!». Il Cavaliere alle prese con l’ennesima legge ad personam? No, Corona che tifa per la legge anti-intercettazioni del governo Prodi. Per Mastella, sono soddisfazioni. «Purtroppo - scuote il capo Riccardo Schicchi dagli arresti domiciliari - ci sono due Italie: una si diverte, l’altra giudica». Ma si rassereni: vince sempre la prima.

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venerdì, 02 marzo 2007 CANI SCELTI E CANI SCIOLTI

Forse al Wall Street Journal non lo sanno, ma definendo «cane sciolto» Armando Spataro gli hanno fatto il migliore dei complimenti. Non c'è nulla di più onorevole, per un magistrato italiano, che essere accusato di non avere collare, né guinzaglio, né padrone. Che un merito così alto gli venga rinfacciato come un insulto sanguinoso, è comprensibile in America dove il concetto di pm indipendente è sconosciuto, essendo l'azione penale affidata a un prosecutor nominato dal governo e dunque facoltativa, secondo gl'interessi politici del momento. Purtroppo le stesse accuse risuonano anche in Italia, dove la magistratura requirente e giudicante è «autonoma e indipendente da ogni altro potere». Se i somari del WSJ pretendono che un pm italiano obbedisca alla Costituzione americana, i somari della politica e della stampa italiana sono sinceramente meravigliati se un pm italiano obbedisca alla Costituzione italiana e dunque non alla politica: lo guardano con stupore e curiosità, come un soggetto strano, bizzarro, deviato. I somari del WSJ forse non sanno che in Italia il pm dev'essere un cane sciolto e, se c'è un sequestro di persona deve procedere sia che i rapitori siano pastori della Barbagia, sia che siano spie della Cia o del Sismi. L'essere un cane sciolto, per Spataro, non è una scelta, una fisima, un puntiglio, un tic: è un obbligo costituzionale. Che non lo capiscano gli americani, è comprensibile. Che non lo capiscano tanti politici e giornalisti italiani, lo è molto meno.

Vedremo tra qualche giorno - quando il ministro Mastella si degnerà di pronunciarsi sull'estradizione dei 26 agenti della Cia imputati per il sequestro Abu Omar - se almeno per il governo italiano la Costituzione conta ancora qualcosa. Intanto in Calabria e in Basilicata emergono altre razze canine. In attesa delle eventuali responsabilità penali dei quattro magistrati lucani coinvolti nelle indagini del pm antimafia di Catanzaro Luigi De Magistris, la divisione dei ruoli è chiarissima: c'erano toghe gradite al potere, incistate nel potere, raccomandate dal potere, insomma cani da collare, da riporto e da compagnia; e toghe autonome e indipendenti

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da ogni potere, cioè cani sciolti. Non è questione di reati. Ma di costumi. Prendiamo la Procura di Potenza, agli onori delle cronache per le indagini del giovane pm Henry John Woodcock. Il Pg Tufano, inaugurando ogni anno giudiziario, dice che in Lucania tutto va bene, se non fosse per le troppe intercettazioni. Qualche mese fa, insieme al procuratore Galante (ora indagato), denunciò Woodcock al ministero e al Csm per l'arresto di Vittorio Emanuele, Sottile & C. Woodcock fu attaccato e insultato da esponenti di destra, centro e sinistra, mentre il presidente Napolitano chiedeva notizie al Csm sul suo fascicolo personale e il ministro Mastella, come già Castelli, spediva un paio di ispezioni a lui e al gip Alberto Jannuzzi, che aveva osato arrestare Sua Bassezza Reale. Ora si scopre che, a due passi da Woodcock, operava una pm molto singolare, Felicia Genovese: indagava sui politici di centrosinistra che dovevano nominare suo marito al vertice dell'Asl; lei chiese l'archiviazione (respinta dal gip Jannuzzi); e la nomina del marito felicemente arrivò. Per questa condotta quantomeno inelegante la pm è indagata a Catanzaro (come pure, in un'altra vicenda, il procuratore e la presidente del Tribunale di Matera). Intanto An l'aveva segnalata come consulente della commissione Antimafia: averne di pm così.

Possibile che Woodcock e Jannuzzi abbiano subito ispezioni, azioni disciplinari, interrogazioni parlamentari, attacchi d'ogni sorta, e gli altri no? Idem in Calabria: in una magistratura infestata da faide, collusioni e guerre per bande, arriva da Napoli un pm, De Magistris, che fa un po' di pulizia. E chi finisce sotto accusa? De Magistris, ber-sagliato da un'interrogazione e da 4 interpellanze firmate da 100 eletti della Cdl. Manco fosse Totò Riina. Il tutto a 15 anni esatti da Mani Pulite, quando i pm del pool passavano da un’ispezione all'altra, mentre una preclara figura come Renato Squillante, già consigliere Consob, già al fianco di Cossiga al Quirinale e di Craxi a Palazzo Chigi, era capo dei Gip di Roma e stava per candidarsi in Forza Italia se non l'avessero arrestato. Aveva 9 miliardi in Svizzera, a Roma tutti sapevano che rubava, ma non aveva mai visto in faccia un ispettore. Senza quei cani sciolti di Milano, sarebbe ancora lì.

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sabato, 03 febbraio 2007 STRATEGIA DELLA PENSIONE

Anche oggi trascureremo le questioni planetarie, come l’epocale distinzione tra sinistra riformista e sinistra radicale, per occuparci di un problemuccio che, ce ne rendiamo ben conto, è del tutto marginale: la corruzione. La Corte dei conti la indica anche quest’anno come il cancro che divora la politica e la pubblica amministrazione, ma l’allarme dei giudici contabili ha avuto, sui media italioti, la stessa audience che riscuote l’annuale allarme dell’Onu sull’imminente morte del pianeta terra con la tracimazione, fra l’altro, del Mediterraneo (alla peggio ci giochiamo mezza dozzina di regioni, che sarà mai). La corruzione c’entra con l’evasione fiscale, di cui è compagna inseparabile. C’entra persino con le pensioni, visto che l’economia sommersa provoca evasione contributiva e alimenta il buco dell’Inps costringendo i governi a tagliare continuamente la previdenza a chi ne ha diritto.

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Guarda caso proprio oggi l’Espresso pubblica l’elenco degli ex onorevoli che percepiscono dallo Stato, cioè da noi, pensioni da favola anche se son rimasti in Parlamento mezza legislatura: a lorsignori bastano due anni e mezzo per intascare più di un normale cittadino dopo 40 anni di lavoro. E la loro pensione è cumulabile con qualunque altro emolumento, visto che non c’è ex parlamentare che non si accomodi subito su almeno un‘altra poltrona, perlopiù a spese nostre. Ma il bello deve ancora venire: nella lista delle onorevoli pensioni d’oro spiccano quelle dei disonorevoli protagonisti di Tangentopoli. Limitandoci ai condannati, abbiamo Altissimo, Di Donato, Pillitteri, La Malfa, La Ganga, De Lorenzo, Pomicino, Martelli, Tognoli. Senza dimenticare i falsi testimoni Carra e Formica, e gli avanzi delle Tangentopoli primigenie: Pietro Longo, Franco Nicolazzi e Mario Tanassi. Completano il quadro Vittorio Sgarbi, pregiudicato per truffa allo Stato, e Toni Negri, che lo Stato non lo derubava, ma lo voleva addirittura sovvertire con la violenza: oggi, da quello stesso Stato, non disdegna una pensioncina, nella migliore tradizione nazionale. Se non fossimo in Italia e questi discorsi non venissero immediatamente silenziati con la parolina magica del “giustizialismo”, si potrebbe domandare che razza di Stato è quello che paga profumate pensioni a quanti l’han depredato per anni e decenni. La domanda è tutt’altro che peregrina se si dà un’occhiata alla stampa estera. La Washington Post informa che prima il Senato degli Stati Uniti, e subito dopo la Camera dei rappresentanti, all’unanimità, hanno deciso di negare la pensione ai parlamentari condannati per corruzione, spergiuro e altri reati contro la pubblica amministrazione. Avete capito bene: all’unanimità. Anzi, qualcuno ha protestato perché non è stata inclusa la frode fiscale. «I politici corrotti - ha spiegato il promotore della legge, Nancy Boyda - meritano condanne alla prigione, non pensioni pagate dal contribuente». L’unanimità è agevolata dal fatto che, negli Usa, chiunque sia sospettato di corruzione viene cacciato dal Parlamento: per questo, in tema di corruzione, non passano mai leggi salva-ladri, ma sempre anti-ladri. La solidarietà di partito non fa mai premio sul principio di legalità e sulla questione morale: il partito repubblicano, infatti, ha votato in massa per questa legge sebbene alcuni (ormai ex) deputati repubblicani siano stati condannati per corruzione. Anzi, proprio per questo: per prenderne le distanze e riacquistare credibilità agli occhi dei cittadini. In Italia, com’è noto, una mano (sporca) lava l’altra (ancora tre giorni fa il Senato ha votato a gran maggioranza l’insindacabilità del senatore-diffamatore Jannuzzi, mandando a monte una denuncia di Gian Carlo Caselli e del pool di Palermo, mentre Jannuzzi veniva condannato a 1 anno e 4 mesi definitivi dalla Cassazione per aver scritto un sacco di balle sul caso Andreotti nel libro «Il processo del secolo»). Così la corruzione diventa il passepartout per la carriera politica: se in America chi ruba perde il seggio, dunque lo stipendio, ma pure la reputazione, e infine la pensione, in Italia si guadagna un posto in prima fila nelle liste bloccate, con garanzia di essere eletto e riconfermato la volta successiva. Poi, che lo scoprano o che la faccia franca, che resti in Parlamento o che ne esca, ha il vitalizio assicurato. Anche se momentaneamente è agli arresti. Se poi muore, lascia il seggio in eredità ai

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figli. E, se tutto va bene, gli fanno il monumento. Se va male, gli intestano una via.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIO l'Unità 3 febbraio 2007

domenica, 14 gennaio 2007 I PROFESSIONISTI DELL'ANTI-ANTIMAFIA

L’Italia ha quattro regioni in mano alla mafia. Secondo la sentenza della Cassazione su Andreotti, è stata governata da un mafioso fino al 1980. Nel '93, secondo il Tribunale di Palermo, Marcello Dell'Utri fece un patto con Provenzano e la mafia confluì su Forza Italia. Da allora Silvio Berlusconi, che aveva scambiato un mafioso per uno stalliere, fa il bello e il brutto tempo in politica. Dice che la mafia ormai è una robetta di pochi disperati e i giudici antimafia sono «matti, antropologicamente diversi dal resto della razza umana». Per il senatore Dell'Utri la mafia è «uno stato d'animo». Per un (ex) ministro, Pietro Lunardi, invece la mafia «c'è sempre stata e bisogna conviverci». Il governatore di Sicilia è imputato di favoreggiamento alla mafia e se ne va in tv con la coppola in testa a dire che «bisogna smitizzare la mafia». Il generale Mori, che nel '93 riuscì a non perquisire il covo di Riina lasciandolo perquisire alla mafia, ora che finalmente è andato in pensione dal Sismi, è stato promosso dal governo Prodi a commissario straordinario per gli appalti a Gioia Tauro. In Parlamento siedono otto fra indagati e imputati per reati di mafia, mentre due pregiudicati per corruzione sono entrati nella commissione Antimafia. La mafia ha ricominciato a sparare in Sicilia e ha continuato a farlo in Calabria e in Campania. I mandanti esterni delle stragi di mafia del 1992-'93 restano ignoti. Così come quelli del delitto Fortugno. E con chi se la prendono i giornali? Con i «professionisti dell'antimafia», che dovrebbero scusarsi di esistere.Il ventennale dell'articolo di Leonardo Sciascia, pubblicato dal Corriere di Piero Ostellino il 10.1.1987 sotto lo sciagurato titolo «I professionisti dell'antimafia», vanta commemorazioni che fanno impallidire quelle per i 60 anni della Repubblica e della Costituente e per i 210 del Tricolore. Da una ventina di giorni, non ne passa uno senza che qualcuno salti su a chiedere a chi giustamente criticò Sciascia per quell'infelice articolo di scusarsi con lo scrittore, peraltro scomparso. I fatti, come al solito, non contano. Spariti. Si sorvola persino sul bersaglio numero uno dell'articolo di Sciascia: Paolo Borsellino, dipinto come un «esempio attuale ed effettuale» di un giudice che fa disinvoltamente carriera per meriti antimafia, perché il Csm l'aveva preferito come capo della Procura di Marsala a un concorrente più anziano, ma meno esperto in processi di mafia. Il grande scrittore ironizzò: «Nulla vale più, in Sicilia, per far carriera in magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso». Osservazione piuttosto curiosa, salvo pensare con Johnny Stecchino che le vere piaghe della Sicilia sono lo scirocco e il traffico. L'articolo fu poi usato con successo da chi voleva delegittimare il maxi-processo a Cosa Nostra, istruito da Falcone e Borsellino. E da chi, qualche tempo dopo, sbarrò

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a Falcone la strada dell'Ufficio istruzione, sventolando il principio dell'anzianità contro quello dell'esperienza antimafia. Oggi si leggono cose grottesche: tipo che «Sciascia aveva ragione, a parte quell'accenno a Borsellino», come se l'articolo riguardasse il collezionismo di farfalle o il gioco del cricket; o tipo che, in fondo, Borsellino condivideva la tesi di Sciascia (falso: nel suo testamento spirituale dopo la strage di Capaci, dichiarò: «Tutto cominciò con quell'articolo sui professionisti dell'antimafia»). Non manca il contributo del senatore forzista Lino Jannuzzi, che racconta sul Giornale un suo incontro con Sciascia nel 1989. Sciascia aveva appena ricevuto la visita di Leoluca Orlando e confidò inorridito a Jannuzzi: «Mi ha parlato male dei magistrati di Palermo». Poi non resse allo choc, e mori. Per la verità, anche Falcone parlava male di molti suoi colleghi, che gli rendevano la vita impossibile (tant'è che emigrò a Roma). In compenso, Jannuzzi parlava male di Falcone. Il 29 ottobre 1991, in un articolo sul Giornale di Napoli intitolato «Cosa Nostra uno e due», definì Falcone «maggiore responsabile della débàcle dello Stato di fronte alla mafia» e la sua possibile nomina a procuratore nazionale antimafia «un affare pericoloso per noi tutti»: «Dovremo guardarci da due Cosa Nostra: quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma. E sarà prudente tenere a portata di mano il passaporto». Nessuno, naturalmente, ha mai chiesto a Jannuzzi di scusarsi con Falcone. Mica è un professionista dell'antimafia, lui. 

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità 10 gennaio 2007CENTO MORTI E NON SENTIRLI

Vignetta tratta da http://www.sestaluna.com/maurobiani/

Nel 2005 la camorra ha fatto secche 90 persone. Nel 2006 solo 76, ma ha ancora due mesi di tempo per eguagliare il record. La risposta dello Stato, però, è stata all’altezza della situazione. In attesa di inviare mille poliziotti in più, che andranno ad aggiungersi ai 13.500 già schierati sul campo, il

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Parlamento ha già provveduto, con l’indulto, a inviare sul posto altri delinquenti in più, casomai non bastassero quelli già a piede libero. Ora, se misurassimo, anche a spanne, le parole dedicate dalla classe politica, e dunque da giornali e tv al seguito, all’analisi della criminalità organizzata e dei rimedi per combatterla, e lo confrontassimo con quelle usate sul fronte del fondamentalismo islamico, il rapporto sarebbe di uno a dieci, forse di uno a mille. Eppure, a oggi, i morti per terrorismo islamico sul territorio italiano sono zero. Mentre i morti per camorra, mafia, ‘ndrangheta e Sacra Corona sono centinaia ogni anno. Le ultime stragi, in Italia, le ha fatte un’organizzazione terroristica denominata Cosa Nostra nel 1992-’93, fra Palermo, Milano, Firenze e Roma. Gli esecutori materiali sono dentro, mentre i mandanti «esterni» restano, secondo le stesse sentenze che condannano gli esecutori, «a volto coperto». Cioè fuori. La Seconda Repubblica - come ha ricordato l’altroieri il pm Ingroia presentando a Palermo «Il gioco grande» di Giuseppe Lobianco e Sandra Rizza (Ed. Riuniti) «è nata sul sangue dei magistrati, degli uomini di scorta e dei cittadini assassinati in quella mattanza, ma i mandanti non interessano a nessuno». In compenso, con uno sforzo di altruismo davvero encomiabile, siamo molto interessati ai mandanti delle stragi in casa d’altri, tant’è che da quattro anni collaboriamo a radere al suolo l’Afghanistan e l’Iraq, senza peraltro cavarne un ragno dal buco, mentre dei morti di casa nostra, anzi di Cosa Nostra, allegramente c’infischiamo. Uno straniero che, per masochismo, leggesse l’opera omnia dei nostri migliori intellettuali, da Panebianco a Ferrara, verrebbe colto da un lievissimo senso di spaesamento: possibile che queste teste d’uovo non parlino d’altro che di Islam radicale, avendo sull’uscio di casa pericoli ben più concreti e incombenti che parlano e sparano in italiano? Per tutta l’estate ha spopolato un editoriale di Panebianco, a metà strada tra Kafka e Ionesco, che domandava se non sia il caso di autorizzare una «zona grigia» di illegalità per consentire ai nostri servizi di torturare almeno un po’ i terroristi islamici (che fortunatamente, finora, In Italia non hanno sparato neppure un petardo a Capodanno). Ora ferve il dibattito su quell’autentica emergenza nazionale che sono le donne col velo islamico, per non parlare delle due o tre avvistate in Val Brembana addirittura col burqa. I passamontagna e i giubbotti con kalashnikov incorporato a Napoli e Reggio Calabria allarmano molto meno. Giuliano Ferrara, sempre molto intelligente ma soprattutto molto intelligence, dedica colate di piombo (di tipografia) alle gravi minacce incombenti sui vignettisti danesi che prendono per i fondelli Maometto, per poi scoprire che in Italia c’è uno scrittore, Roberto Saviano, che finisce sotto scorta per essersi occupato di mafia, cioè di un tema che da parecchi anni è uscito dall’agenda dei molto intelligenti (salvo, si capisce, quando si tratta di attaccare i magistrati antimafia, spontaneamente o su commissione del Sismi). Ancora l’altro giorno s’invocavano pene esemplari contro l’imam di Segrate, reo di aver dato dell’ignorante alla signora Santanchè che si era dimostrata ignorante in fatto di Corano. E Magdi Allam, sul Corriere, ammoniva severamente chi consente ad Al Jazeera di celebrare l’anniversario della sua fondazione. Ora, per carità, non saremo noi a sottovalutare il pericolo della propaganda televisiva contro chi combatte, o dice di combattere, il terrorismo

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islamico. Ma della propaganda televisiva contro chi combatte le mafie ne vogliamo parlare? Ieri, sul Foglio, Lino Jannuzzi rivendicava con orgoglio i suoi rapporti con i servizi deviati, con Gelli, Liggio, Michele Greco detto «il Papa», Ciancimino e altri galantuomini, sostenendo che avere «molti amici criminali» è normale, «perché sono un giornalista». Fortuna che nessuno di quegli amici si chiama Mohammed. Altrimenti, invece di pubblicargli il pezzo, Ferrara lo faceva arrestare su due piedi.  

ULIWOOD PARTY MARCO TRAVAGLIOl'Unità 2 novembre 2006 

lunedì, 12 dicembre 2005 LUGANO ADDIOdi Marco Travaglioda l’Unità del 13 agosto 2005Nella sua comica lettera dell'altro giorno a "Repubblica", il cavalier Silvio Bugiardoni giurava che i suoi mass media non hanno mai «censurato o attaccato» nessuno. Negli stessi giorni il suo settimanale di famiglia, Panorama, era costretto a pubblicare una sentenza del Tribunale di Napoli, che il 20 giugno scorso ha «accolto le domande della dott.sa Ilda Boccassini, ritenendo diffamatorio l'articolo riportato il 20/12/2001 dalla rivista Panorama a firma di Lino Jannuzzi dal titolo "II gioco dei quattro congiurati ", in cui si riferiva che in un albergo di Lugano si erano riuniti Elena Paciotti, Ilda Boccassini, Carla Del Ponte, e Carlos Castresana allo scopo di trovare il modo per arrestare Berlusconi»; e ha «condannato l'Arnaldo Mondadori Editore Spa e il dr. Carlo Rossella al pagamento in favore della dott.sa Boccassini di euro 12 mila a titolo di risarcimento danni e di riparazione pecuniaria». Ieri, sempre su Panorama, è comparso il seguente comunicato del Cdr: « Una sentenza del Tribunale di Napoli ha ritenuto diffamatorio nei confronti di Ilda Boccassini un articolo di Lino Jannuzzi del 20.12.2001 in cui si riferiva di un incontro a Lugano tra magistrati e politici per "trovare il modo di arrestare Berlusconi ". Ci furono smentite e polemiche. In un editoriale pubblicato il 27.12.2001, Panorama scriveva: "Jannuzzi annuncia che dimostrerà che l'incontro c’e stato. Se così non sarà, diciamolo con chiarezza, chiederemo scusa ". A fronte di questa sentenza i rappresentanti sindacali di Panorama si rammaricano che sulla vicenda il collega Jannuzzi non abbia fatto la promessa chiarezza, lasciando un'ombra di discredito sul nostro giornale che ha pubblicato il suo articolo».La prima cosa che balza all'occhio è che, fra i condannati, manca l'autore materiale del reato: e cioè il senatore forzista e rubrichista di Panorama Lino Jannuzzi, sfuggito al processo grazie al solito scandalo dell'insindacabilità parlamentare. Buon per lui: i 12 mila euro alla Boccassi-ni per le balle che ha scritto li paga Berlusconi, che poi ne era il beneficiario. Nel dicembre 2001 infuriava la polemica sulla prima legge salva-Berlusconi e salva-Previti, quella sulle rogatorie. Il governo era scatenato contro "Forcolandia " e "l'Internazionale delle toghe rosse", accusata di perseguitare il povero Silvio, La bufala di Jannuzzi arrivò a proposito, infatti fu subito rilanciata dall'altro house organ, Il Giornale. Paciotti, Castresana, Boccassini e Del Ponte smentirono subito tutto: il giorno del vertice inventato si trovavano rispettiva-mente a Bruxelles, a Madrid, a Milano e in Tanzania. Ma né Panorama né il Giornale chiesero scusa. Anzi, come ricorda il Cdr, Jannuzzi promise di portare «le prove». Poi naturalmente non le portò, per il banale motivo che non esistevano, proprio come la congiura elvetica. Ora, per carità, sappiamo bene quali scherzi possano giocare a un giornalista la fretta o l'eccessiva fiducia in una fonte. È accaduto anche all'Unità, nel marzo scorso, di fidarsi di un ex deportato nei lager nazisti, che giurava di essere stato picchiato dal padre di Storace. Subito si scoprì che si era sbagliato, e il direttore dell'Unità si scusò. Storace, cavalleresca-mente, non querelò. Quando l'errore è in buonafede, l'incidente si chiude così. Ma quello di

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Jannuzzi non era un errore. Era una bufala costruita a tavolino. Tant'è che le scuse a Boccassini, Del Ponte, Castresana e Paciotti non sono mai arrivate. Anzi Rossella, il direttore che avallò la mega-patacca e che nell'amata America avrebbe già dovuto cambiare mestiere, fu subito promosso direttore del Tg5. Dopo il caso Unità-Storace, i parlamentari di An Stefano Bonatesta e di FI Antonio Tajani e Francesco Giro, chiesero le dimissioni di Padellaro da direttore dell'Unità e «provvedimenti disciplinari dell’ Ordine dei giornalisti». Il ministro Gasparri invocò addirittura «il capo dello Stato e gli organi di garanzia», poi si autosospese dall'Ordine dei giornalisti «fino a quando non assumerà con urgenza provvedimenti contro chi ha delineato la grave menzogna» e contro l'Unità «giornale di bugiardi». Ma rientrò subito, perché l’ Ordine annunciò a gentile richiesta un «procedimento disciplinare contro il direttore e la giornalista dell'Unità» Invano ieri, abbiamo cercato sulle agenzie qualche traccia di Bonatesta, Gasparri Giro e Tajani, nonché dell'Ordine dei giornalisti. Una dichiarazione, o almeno un sospiro, sulla superballa jannuzziana Niente. Saranno tutti in ferie. Magari con Jannuzzi, in un hotel di Lugano. 

domenica, 20 novembre 2005 PIÙ STALLE PER TUTTIdi Marco Travaglioda l’Unità del 19 novembre 2005Cadono i veli sulla campagna elettorale di Bellachioma. Da tempo gli esperti si domandavano con quali slogan il premier avrebbe tentato di raggirare un‘altra volta i suoi eventuali elettori, ritenendo improbabile una rivendicazione dei grandi successi (la patente a punti) mietuti in questi cinque anni e controproducente un‘altra raffica di promesse modello Contratto con gl’italiani. E noto che il Cavalier Crescina intende smantellare la par condicio per fare in tutti i programmi tv quello che di solito fa a Porta a Porta: parlare solo lui. Ma per dire cosa? Un primo assaggio è arrivato con lo slogan «Più case per tutti», poi ritoccato in «Più case per gli sfrattati», che verrà presto ridimensionato in «Più case per Marina e Piersilvio» e infine in «Più case per me». Anche se Dell’Utri avrebbe preferito «Più stalle per tutti», in onore del compianto Vittorio Mangano. Per non farsi mancare nulla, il Cavalier Boccoluto ha scelto proprio Dell’Utri come regista della campagna e selezionatore dei candidati: come li seleziona lui, non li seleziona nessuno. Possiede anche eccezionali doti persuasive, come dimostrò nel ‘91 quando, a riscuotere un credito in nero da un imprenditore trapanese, gli mandò il locale boss mafioso Vincenzo Virga. Un sistema infallibile, che potrebbe essere usato anche con i candidati riottosi. Non ti vuoi candidare? Ti mando Bernardo Provenzano, così magari ci pensi un po‘su. La prassi potrebbe rivelarsi utile se passerà l’ultima trovata dello staff italoforzuto: quella di far sborsare 70mila euro alle teste di lista e 50mila euro ai candidati semplici (nel 2001 erano 10 milioni di lire, poi si sa, con l’euro di Prodi...). Per aver l’onore di un posto in Forza Italia bisognerà pagare una quota di iscrizione, che potrà eventualmente essere impiegata per convincere gli elettori a votare. La controriforma elettorale stabilisce che chi indica una o più preferenze non annulla la scheda: così i voti venduti saranno facilmente individuabili da chi li ha comprati. Ma la compravendita dei voti non è una novità. Quella dei candidati invece sì. In caso di affollamento, si potrebbero mettere i posti all’asta. Testa di lista in Sicilia, vista mare, ottime possibilità, chi offre di più? Astenersi perditempo. Manifesti 6 per 3 non ne vedremo più: «Non servono», ha confidato Bellicapelli ai suoi. Verranno sostituiti - informa il Giornale di casa - con «il modello Koizumi», perché «servono nuovi testimonial, personaggi di eccellenza nelle varie categorie, un’operazione rivelatasi vincente per il premier giapponese». Una campagna sushi affidata a testimonial di sicuro successo: «Un comitato elettorale che inizierà a vagliare tutto lo spettro delle candidature». Ecco gli spettri: «Il capitano sarà Dell’Utri, ma ogni decisione verrà concertata con Bondi, Cicchitto e Miccichè», quest’ultimo richiestissimo per il suo proverbiale fiuto. Volti rassicuranti da proibire in fascia protetta. Per il resto il Cavalier Crescina ha in mente «un colpo a sorpresa, tipo la nave azzurra»: l’indimenticabile crociera con mamma Rosa a prua che salutava col fazzoletto. Meno sorprendenti «gli slogan sull’incombente pericolo comunista» che - giura Jannuzzi - Silvio s’appresta a sfornare a 17 anni dal crollo del muro di Berlino. Slogan da sventolare in Italia, non certo a Mosca dall’amico Putin (che fra l’altro, secondo il sempre lucido Paolo Guzzanti, sta organizzando un attentato contro Paolo Guzzanti). Ma qualcosa agli elettori anziani bisogna pur raccontare, oltre alle barzellette. La vera novità però sono i giovani, i più facili da prendere per i fondelli per via dell’età: nel 2001, ai tempi del Contratto con gl’Italiani avevano

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di meglio che vedere Porta a Porta. La rutilante Silvienjugend ha sfilato a Sorrento, passata in rassegna da Bellachioma, Previti, Dell’Utri e Apicella. «Siete giovani ed eleganti - s’è congratulato il padrone - e ci sono tante belle ragazze. Negli altri partiti non si vede nulla del genere». E lui è per le quote rosa: «Sono favorevole a portare in Parlamento tante donne giovani e carine». E’ per le quote carine, ecco. Prima ancora di partire, la macchina elettorale alla giapponese già produce effetti mirabolanti. Il 10 novembre Bellicapelli ammetteva che «nei sondaggi siamo 3 punti sotto l’Unione». Ora annuncia che «siamo pari al 48 per cento». Guadagna mezzo punto al giorno e alle elezioni ne mancano ancora 140. Se tiene la media, di questo passo, vince lui col 118 per cento.  

martedì, 01 novembre 2005 BUFAL HOUSEdi Marco Travaglioda “l’Unità” del 30 ottobre 2005Proprio un bel giornale, Panorama: comunista all’85%, come dice Bellachioma, che assume solo comunisti nella speranza che diventino come Bondi, Adornato e Ferrara. Infatti ci scrive anche Ferrara. E poi Paolo Guzzanti, senatore forzista. Lino Jannuzzi, senatore forzista. Giampiero Cantoni, senatore forzista, Gianni Budget Bozzo, cappellano forzista. Bruno Vespa, confessore dei forzisti. Con gente così, tanto vale che non lo diriga nessuno. Infatti lo dirige Pietro Calabrese. Nell’ultimo numero ben tre editoriali riguardano Freedom House che ha declassato l’Italia fra i paesi “semiliberi”, come sappiamo grazie non ai tg o ai cosiddetti programmi di informazione, ma a Celentano e al film di Sabina Guzzanti. Ora Paolo Guzzanti spiega amorevolmente alla figlia Sabina che i comici non possono fare informazione perché non sono informati. Lui, essendo giornalista, lo è. Lei invece “dà per ovvii dei fatti non veri”: infatti l’Italia è stata declassata per un “unico e solo motivo: non per Santoro, Biagi, Luttazzi o te”, ma per “l’arresto di Lino Jannuzzi” e “in nessun paese civile si arresta un giornalista” Quella pericolosa comica della figlia ha “presentato come effetto del governo berlusconiano liberticida e censorio la persecuzione del più grande maestro del giornalismo italiano (che sarebbe Jannuzzi, ndr). Vedi che cosa succede se si fanno pasticci fra i generi?”. Paolo Guzzanti, che per evitare pasticci fra i generi fa sia il condirettore del Giornale sia il senatore, considera gli Usa un paese incivile, visto che una giornalista è stata arrestata per non aver rivelato una fonte. Ma restiamo al punto. Un altro giornalista, per definizione molto informato, è Vespa: “E’ fantastico scoprire che siamo finiti al 77° posto per la pena carceraria inflitta a due giornalisti: uno è ... il senatore Jannuzzi. La condanna di un amico di Berlusconi per aver parlato male dei nemici di Berlusconi è costata una sanzione all’Italia in quanto troppo berlusconiana. Quando ha scoperto che Jannuzzi è stato graziato, una delle autrici del rapporto sull’Italia ha detto al Giornale che adesso, sì, la nostra stampa tornerà a essere considerata libera”. Forse l’insetto non sa che Jannuzzi è stato condannato ai domiciliari per aver diffamato i giudici di Tortora, Ma restiamo al punto. Ecco dunque l’informatissimo Jannuzzi: “L’Italia è parzialmente libera non per Biagi e Santoro, che la Freedom House ignora del tutto, ma perché è stato arrestato per le sue critiche ai magistrati un senatore”. Che poi sarebbe lui. Possiamo forse dubitare di tre maestri del giornalismo come Guzzanti, Vespa e Jannuzzi? Certo che no. Mica sono comici: sono giornalisti che non fanno pasticci fra i generi. Figurarsi se si lasciano cogliere impreparati su Freedom House, che è la Casa delle Libertà americana. C’è però un problemino di date. L’Italia passa da libera a semilibera, dal 53° al 74° posto, nel rapporto di Freedom House pubblicato il 28 aprile 2004 (relativo aI 2003). L’arresto di Jannuzzi viene disposto (peraltro a domicilio e solo di notte quasi tre mesi dopo: il 19 luglio 2004. Come può un fatto avvenuto dopo averne provocato uno accaduto prima? Infatti i motivi della retrocessione, riportati nel comunicato ufficiale di F.H. del 28 aprile 2004, non nominano Jannuzzi. Nominano Berlusconi: “Il premier Silvio Berlusconi è riuscito a esercitare un’indebita influenza sulla tv pubblica Rai, un fatto che ha ulteriormente esacerbato un già preoccupante clima mediatico caratterizzato da un‘estensione squilibrata dell’enorme impero mediatico di Berlusconi”. Parole di Karin Deutch Karlekar, la funzionaria che secondo Vespa si appresterebbe a riabilitare l’Italia, ora che Jannuzzi è stato graziato. Il rapporto cita poi le pressioni berlusconiane sul Corriere della sera, la Gasparri-I e il decreto salva-Rete4. Il caso Jannuzzi compare in tre righe del rapporto del 27 aprile 2005, in cui l’Italia rimane “semilibera“e scivola dal 74° al 77° posto. Non certo soltanto per Jannuzzi, visto che Freedom House cita ben più diffusamente il

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monopolio di Berlusconi, le pressioni su Rai e giornali, la Gasparri-2, il salvataggio di Rete4 e l’esistenza di “2 giornali nazionali 8 controllati dal premier e famiglia” (e dimentica Panorama). Non sono documenti clandestini: sono reperibili sul sito di Freedom House e non solo. Celentano e Sabina li hanno letti. Guzzanti (padre), Vespa e Jannuzzi no: non sono mica showman, loro. Sono giornalisti: devono informare, loro. Mica informarsi.

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MASSIMO MARIA BERRUTI

COMANDA SEMPRE LUI

Ieri il Corriere, in beata solitudine, pubblicava le motivazioni della condanna d’appello a 2 anni per tentata estorsione mafiosa a carico di Marcello Dell’Utri e del capomafia di Trapani Vincenzo Virga. Una vicenda mai raccontata negli ultimi 6 anni agl’italiani da nessun tg o programma di approfondimento, pubblico o privato. Così come quella della sentenza Mondadori comprata da Previti con 420 milioni della Fininvest nella «piena consapevolezza» del Cavaliere. In compenso da cinque giorni si fa un gran parlare dell’iscrizione di Romano Prodi sul registro degli indagati della Procura di Catanzaro per abuso d’ufficio. Ed è giusto che sia così. L’anomalia non sta nell’attenzione al caso Prodi, ma nel silenzio sui casi Prevlti-Berlusconi-Dell’Utri, tra l’altro imparagonabili col primo, in quanto i nomi del Trio Arcore non sono iscritti sul registro degli indagati, ma scritti su sentenze di condanna per reati infinitamente più gravi. Quando qualche buontempone o «volonteroso», a sinistra, è portato a minimizzare l’influenza nefasta del Cavaliere sulla vita pubblica dichiarando archiviato l’antiberlusconismo, potrebbe riflettere sulla diversa eco mediatica che suscitano i coinvolgimenti di Berlusconi e Prodi in indagini giudiziarie. La prima volta di Silvio fu il 21 novembre ‘94, quando il pool di Milano lo convocò d’urgenza per un interrogatorio sulle tangenti Fininvest alla Guardia di Finanza, dunque lo iscrisse sul registro e gli notificò un invito a comparire. Quel mattino Borrelli consegnò il plico ai carabinieri e li spedì a Roma, dove risultava che il premier sarebbe rientrato in serata da Napoli (lì aveva inaugurato un convegno internazionale sulla criminalità). Giunti a Palazzo Chigi i militari scoprirono che aveva cambiato programma e s’era trattenuto a Napoli anche per l’indomani. Allora Borrelli li incaricò di telefonargli a Napoli per prendere appuntamento al suo ritorno e spiegargli di che si trattava. In tarda serata dunque gli uomini dell’Arma lessero al telefono a Berlusconi il contenuto dell’invito a comparire, almeno fino alla terza delle quattro tangenti contestate: prima che leggessero la quarta, lui mise giù infuriato. Guarda caso, l’indomani il Corriere riferì di tre (e non quattro) mazzette: proprio quelle che i militi gli avevano letto. Naturalmente il premier ebbe buon gioco a inscenare il pianto greco sulla «fuga di notizie» piotata dalle «toghe rosse» per «colpirmi politicamente durante un vertice internazionale», in «violazione del segreto istruttorio». Tutte balle: la fuga di notizie, com’è evidente e come appurerà il Tribunale di Brescia, non veniva dalla Procura; ma soprattutto non violava il segreto istruttorio (abolito dal 1989), visto che per la legge italiana «gli atti conosciuti o conoscibili dall’indagato» non sono più segreti. E lui l’invito lo conosceva dalla sera prima. Dunque fu lui, non il pool, a screditare l’Italia continuando a presiedere un summit anti-crimine pur sapendo di esser indagato per corruzione. Da che nasceva l’urgenza di interrogarlo e dunque di convocarlo? Dalla scoperta che l’8 giugno ’94, un minuto prima di avviare un mega-depistaggio delle indagini sulle mazzette Fininvest alla Guardia di Finanza, l’avvocato Fininvest Massimo Maria Berruti (ex ufficiale della (Gdf), era salito a Palazzo Chigi per parlare con lui. Alla fine Berlusconi, condannato in primo grado e prescritto in appello, fu assolto in Cassazione per insufficienza di prove; ma Berruti fu condannato definitivamente per favoreggiamento (dunque promosso deputato di Forza

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Italia) e Salvatore Sciascia, il manager Fininvest che pagava i finanzieri, per corruzione (ora infatti è socio della Brambilla nell’editrice de Il Giornale delle Libertà). Fatti gravissimi e documentati. Eppure, da 13 anni, l’invito al Cavaliere non è citato per ricordare che le sue aziende corrompevano le Fiamme Gialle, ma per deplorare la violazione di un segreto inesistente. Ora che il sito di Panorama (vedi alla voce Previti-Mondadori) ha svelato che Prodi è indagato a Catanzaro, invece, tutti giustamente parlano del contenuto dell’inchiesta: e cioè dei telefonini usati da Prodi quand’era presidente della Commissione europea. Eppure la notizia, questa sì, è segreta: non lo sarebbe se Prodi avesse ricevuto un avviso di garanzia o un invito a comparire, ma non ha ricevuto nulla. Ciò che Berlusconi lamenta per sé, mentendo dal 1994, si è avverato nel 2007 contro Prodi a opera di un settimanale di proprietà (si fa per dire) di Berlusconi. Ma la cosa passa sotto silenzio, anche perché Prodi, mostrando un senso delle istituzioni sconosciuto al suo predecessore, s’è detto subito «fiducioso nella magistratura» e ha spiegato, tramite il portavoce Sircana, l’oggetto del contendere: cioè l’uso, a suo dire del tutto lecito, che ha fatto di quei cellulari. Già, perché - almeno finora - sul suo conto non emerge null’altro che l’uso di alcune utenze in contatto con persone del suo entourage accusate di aver incassato indebitamente fondi europei su cui Prodi non aveva influenza alcuna. Ma, in base alla solita demenziale legge Boato del 2003, per usare i tabulati e accertare chi chiamava chi, i giudici devono chiedere il permesso alla Camera, e per farlo han dovuto iscrivere Prodi. Se le cose restassero a questo punto, Prodi farà bene ad allontanare eventuali collaboratori disinvolti, magari abituati a spendere il suo nome per i loro affari. E morta lì. In ogni caso è giusto che se ne continui a parlare. Purché il caso Prodi venga inserito nella giusta gerarchia d’importanza rispetto ad altri casi: quello di Berlusconi che dal 1991 controlla la Mondadori grazie a una sentenza comprata, quello di Dell’Utri che usava i capimafia per il recupero crediti e quello di Previti che pagava i giudici per vincere le cause perse. Sempre che i volonterosi dell’anti-antiberlusconismo non abbiano nulla in contrario.

ULIWOOD PARTY MARCO TRAVAGLIO l’Unità (18 luglio 2007)

“Chiedo alla Procura di Caltanissetta di non archiviare, se non lo ha già fatto, le indagini relative alla sparizione dell’agenda rossa di Paolo e di chiarire il coinvolgimento dei tutte le persone, dei servizi e non, in essa coinvolte. Chiedo soprattutto al sen. Nicola Mancino, del quale ricordo, negli anni immediatamente successivi al 1992, una sua lacrima spremuta a forza durante una commemorazione di Paolo a Palermo, lacrima che mi fece indignare al punto da alzarmi ed abbandonare la sala, di sforzare la memoria per raccontarci di che cosa si parlò nell’incontro con Paolo nei giorni immediatamente precedenti alla sua morte. O spiegarci perché, dopo avere telefonato a Paolo per incontrarlo mentre stava interrogando Gaspare Mutolo, a sole 48 ore dalla strage, gli fece invece incontrare il capo della Poliza Dott. Parisi e il Dott. Contrada, incontro dal quale Paolo uscì sconvolto tanto, come racconto lo stesso Mutolo, da tenere in mano due sigarette accese contemporaneamente. Altrimenti, grazie alla sparizione dell’ agenda rossa di Paolo, non saremo mai in grado di saperlo. E in quel colloquio si trova sicuramente la chiave dalla sua morte e della strage di Via D’Amelio.

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Milano, 15 Luglio 2007

Salvatore Borsellino

www.palermoweb.com

venerdì, 08 giugno 2007 DISCORSO SPECIALE

Questo è il discorso che ieri Prodi non ha pronunciato al Senato

Gentili senatrici e senatori, abbiamo sbagliato. Ha sbagliato Visco a non spiegare subito, nel luglio scorso, perché voleva il cambio della guardia al vertice delle Fiamme Gialle milanesi. Come viceministro delegato ne aveva il potere (quando le stesse cose le faceva Tremonti non fiatava nessuno, anche perché all’opposizione c’eravamo noi, e dormivamo). Ma ha sbagliato il modo: se pensava che quegli ufficiali avessero fatto qualcosa di male, doveva dire cosa; se li riteneva colpevoli della fuga di notizie sulla telefonata Fassino-Consorte al Giornale, non aveva che da dirlo. Invece ha fatto tutto in via riservata, alimentando sospetti di conflitti d’interessi su Unipol e fidandosi del comandante Speciale, uno che basta guardarlo in faccia per capire che ti frega. L’errore di partenza ne ha prodotti altri a catena: sabato abbiamo cacciato Speciale, ma nemmeno stavolta abbiamo spiegato chi è e perché lo Stato non può fidarsi di lui. Solo oggi il ministro Padoa-Schioppa analizzando vita e opere non edificanti del comandante licenziato ci ha fatto capire quel perché. Costui fa parte del giro del generale Pollari, che ha trasformato il Sismi in una palude di dossier illegali, veline fasulle e stecche a giornalisti compiacenti e, pare, addirittura di sequestri di persona. Ma anche su Pollari abbiamo sbagliato: scaduto al Sismi, l’abbiamo nominato giudice del Consiglio di Stato, lui che è imputato di sequestro di persona; l’abbiamo coperto col segreto di Stato, salvo poi fare retromarcia; e l’abbiamo pure nominato consulente di Palazzo Chigi anziché spedirlo a casa. Idem per Pio Pompa, pure lui coinvolto nei dossier e nel sequestro Abu Omar: l’abbiamo tolto dal Sismi e promosso dirigente del ministero della Difesa. Lo stesso errore abbiamo commesso con Speciale offrendogli un posto alla Corte dei Conti, come se questa fosse la discarica pubblica, anziché spedirlo a casa e spiegare al Paese perché non poteva più comandare la Guardia di Finanza, anche se piace molto a Fiorello. Ecco: in tutti i nostri errori s’è incuneato come lama incandescente nel burro il centrodestra. Che, diversamente da noi, sa come fare l’opposizione. Quando l’Unità e altri giornali amici denunciavano le porcate della Banda Berlusconi, infinitamente più gravi dei nostri recenti errori, noi li invitavamo a non «demonizzare». Quando i girotondi scendevano in piazza contro le leggi vergogna, li snobbavamo o li accusavamo di radicalismo e giustizialismo, alla ricerca di un fantomatico «dialogo col Cavaliere». Ora ce lo insegna lui come si fa l’opposizione: il suo Giornale racconta le nostre pagliuzze, la Cdl ne fa una battaglia politica, e noi che potremmo rispondere con le sue travi ce ne stiamo zitti. Se penso che Berlusconi solo un mese fa veniva applaudito al congressi Ds e Dl e addirittura invitato a entrare in Telecom, mi viene da piangere. Così lui oggi ci dà lezioni di morale, con i suoi Previti, i suoi Dell’Utri, i suoi 7 reati prescritti, i suoi fondi neri, il suo processo per evasione fiscale, i suoi condoni. E atteggiarsi a difensore della Gdf, lui che la definiva «associazione a delinquere». Ma ora basta. D’ora in poi ricorderemo chi sono Berlusconi e la sua banda. Comincio subito. Il capo dei servizi fiscali della Fininvest Salvatore Sciascia fu condannato in Cassazione per corruzione della GdF. Credete che l’abbiano cacciato? Come scriverà domani Franco Bechis su Italia Oggi, è socio di Michela Vittoria Brambilla nella Vittoria Media Partners Srl, editrice del Giornale delle Libertà. Se l’on. Massimo Maria Berruti volesse, potrebbe raccontarci di quando, capitano delle Fiamme Gialle, condusse un’ispezione valutaria

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all’Edilnord e interrogò Berlusconi sulle sigle svizzere retrostanti le sue società. Era il 1979. Lui si spacciò per «un semplice consulente», mentre era il proprietario. Berruti bevve tutto, archiviò e si dimise dal corpo. E andò a lavorare in Fininvest. Nel ‘94 fu arrestato e poi condannato a 1 anno e 8 mesi per i depistaggi sulle tangenti alla Gdf, dunque è deputato di Forza Italia. Per ora basta così, il resto alla prossima puntata. Ora scusate, ma devo correre a cancellare le leggi vergogna, perché non resti traccia del berlusconismo.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità (7 Giugno 2007)

venerdì, 21 luglio 2006 VIVA BERLUSCONI

Questo è un elogio spassionato del Cavalier Bellachioma. Se, dopo 12 anni di berlusconismo, il ministro della Giustizia del presunto «dopo-Berlusconi» si complimenta con lui perché l‘ha fatta franca un‘altra volta nello scandalo Calciopoli, non rimane che arrendersi e riconoscere che ha ragione lui, ha vinto lui. Ha vinto con un sistema talmente banale, ripetitivo e monotono da diventare noioso: il sistema di delegare le porcate agli altri, evitando di sporcarsi le mani. La tecnica del prestanome, della testa di legno, dello scudo umano. Che poi è la professione più diffusa sul mercato del lavoro, almeno in Italia. Dapprincipio i prestanomi li pescava in famiglia: il fratello Paolo, lo zio Luigi Foscale, il cugino Giancarlo Foscale. Senza contare i figli di primo e secondo letto, sulle cui teste giurò per anni, esponendoli a pericoli indicibili. Mancavano solo le zie suore, riottose a certe incombenze. Poi l’offerta di parafulmini si allargò. Ultimamente è saltato fuori il prestanome di ultima generazione, Leonardo Meani, che si divideva fra la professione di ristoratore e quella, decisamente più avvincente, di dirigente occulto del Milan addetto agli arbitri e (essendo questi quasi tutti occupati con Moggi) ai guardalinee. Ma senza incarichi ufficiali. Dietro le quinte. Nel suo stipendio era tutto compreso, anche la rinuncia alla faccia, alla dignità, a un minimo di autostima. Lo s’è visto al processo dell’Olimpico, dove l‘avvocato rossonero De

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Luca lo ha letteralmente polverizzato dinanzi ai giudici: più lo insultava, lo scherniva, lo vetrificava, più Meani - seduto lì accanto - annuiva con la faccia mogia e con le labbra curvate all‘ingiù. «Ma guardatelo, ma l’avete visto bene? Ma vi pare che uno così potesse contare qualcosa? Ma questo è un millantatore, un chiacchierone, uno che parla tanto e conclude nulla». E lui, il destinatario di cotanti complimenti, faceva sì col testolone e all’uscita commentava con la stampa tutto giulivo: «Mi pare che siamo andati bene». Mutatis mutandis, la sua funzione al Milan era quella di Suslov al Cremlino ai tempi di Stalin: quando il Baffone era nervoso, lo convocava in ufficio e gli scaricava una raffica di calci nel sedere, finché non si era sfogato. Qualcuno potrà domandarsi come possa funzionare, dinanzi a una cosa seria quale dovrebbe essere la Giustizia, un giochetto talmente miserevole, invece funziona eccome. Beata ingenuità: funziona eccome, almeno quando c ‘è di mezzo Bellachioma.

Corruzione Fininvest della Guardia di Finanza: le tangenti c’erano eccome, tre versamenti da 100 milioni di lire da altrettante società del gruppo. Berlusconi però viene assolto (insufficienza di prove): unico condannato Salvatore Sciascia, capo dei servizi fiscali della holding, lui stesso ex finanziere. Non solo pagava all’insaputa dei superiori, ma pare che addirittura si autotassasse dal suo magro stipendio (a 100 milioni a botta) pur di non disturbare il Cavaliere con fastidiose richieste di denaro. Il tutto per proteggere non se stesso, ma il Cavaliere dalle verifiche fiscali. Quando si dice la dedizione.

Depistaggio sulle indagini Guardia di Finanza per tappare la bocca ai finanzieri corrotti: se ne occupa l’avvocato Fininvest Massimo Maria Berruti, previa visita a Berlusconi a Palazzo Chigi. Berruti condannato per favoreggiamento a Berlusconi, mentre il favoreggiato, Berlusconi, viene assolto: evidentemente quella sera, a Palazzo Chigi, si parlò di giardinaggio.

Fondi neri per l‘acquisto della Medusa Cinema: 10 miliardi dì lire finiti sui libretti al portatore della famiglia Berlusconi, tutto provato. Ma Berlusconi è assolto in appello per insufficienza di prove: viene condannato il manager Carlo Bernasconi, perché Silvio è così ricco che potrebbe anche non essersi reso conto che il suo collaboratore gli aveva versato 10 miliardi in nero: «La molteplicità dei libretti riconducibili alla famiglia Berlusconi - scrivono i giudici, molto spiritosi - e le notorie rilevanti dimensioni del patrimonio di Berlusconi postulano l’impossibilità di conoscenza sia dell’incremento sia soprattutto dell‘origine dello stesso». Molto credibile, no?

Corruzione dei giudici che poi davano ragione a Berlusconi facendogli guadagnare centinaia di miliardi. Previti condannato per aver pagato giudici con soldi Fininvest. Berlusconi in parte prescritto per le sue «attuali condizioni di vita sociale e individuale», in parte assolto. Anche Previti, che diamine, prendeva iniziative all’insaputa del capo (e per giunta con i soldi del capo). Un po’ come Leonardo Meani. Vatti a fidare degli amici.

 

ULIWOOD PARTY

MARCO TRAVAGLIO – “l’Unità” 18 luglio 2006 

martedì, 28 marzo 2006 IL CAVALIER BUGIARDONIdi Marco Travaglioda MicroMega-La Primavera n° 4 del 23 marzo 2006 «Vorrei concludere ricordando una breve storia. La storia di un ragazzo che alla fine degli studi liceali fu portato dal padre a visitare il cimitero in cui riposano molti giovani valorosi soldati che avevano attraversato l’Oceano per ridare libertà e dignità a un popolo oppresso. Nel mostrarmi quelle croci, quel

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padre fece giurare a quel ragazzo che non avrebbe mai dimenticato il supremo sacrificio con cui quei soldati americani avevano difeso la sua libertà... Quel padre era mio padre, quel ragazzo ero io. Quel giuramento non l’ho mai dimenticato e non lo dimenticherò mai» (discorso al Congresso americano, 1-3-2006). Per alcuni giorni gli osservatori s’interrogano su quale cimitero di caduti americani abbia visitato il giovane Silvio, visto che in tutta la Lombardia ci sono soltanto 400 tombe di caduti Usa. Poi, il 6 marzo, rispondendo a un giornalista a Telelombardia, Berlusconi svela l’arcano: «Era il cimitero di Nettuno ad Anzio» (come se le due località fossero la stessa cosa). Si intuisce subito che sta improvvisando, anche perché poi aggiunge: «Mio padre era un grande estimatore di De Gasperi e andava spesso a Roma quando c’erano delle situazioni con lui. Una volta portò anche me e l’indomani mi condusse al cimitero. Avevo vent’anni, era il 1956 o il 1957». Ma purtroppo De Gasperi è morto il l9 agosto 1954: un anno prima che il giovane Silvio (classe 1936) si diplomasse e due-tre anni prima della sua presunta missione al cimitero di «Nettuno ad Anzio». Che evidentemente è frutto della sua sconfinata fantasia. «Non ho mai conosciuto l’avocato Mills. Può darsi che gli abbia stretto una volta la mano ad Arcore, come la stringo a decine di persone ogni giorno, ma senza conoscerlo» (a Telelombardia, 6-3-2006).Anche questo è falso. Come risulta da un appunto sequestrato a David Mackenzje Mills — l’avvocato inglese che architettò il comparto estero e occulto della Fininvest nei paradisi fiscali e che lavora per il gruppo Berlusconi da fine anni Ottanta — il 23 novembre 1995 il Cavaliere parlò con lui al telefono da Milano a Londra: erano trascorsi appena due giorni dal nuovo mandato di cattura spiccato dai giudici di Milano contro il latitante Bettino Craxi, per 10 dei 23 miliardi versatigli in Svizzera dalla All lberian. «Quando ho parlato a Silvio Berlusconi giovedì», annota Mills, «lui ha insistito sul fatto che le ultime accuse sono motivate politicamente. Sono bombe politiche perché ora i giudici di Mani Pulite sono in grado di affermare che dietro a questo pagamento a Craxi ci sia Berlusconi...» Da un altro documento sequestrato a Mills emerge che qualche mese prima, nel luglio 1995, l’avvocato aveva incontrato Berlusconi, accompagnato dalla figlia maggiore Marina, ai Garrick Club di Londra, e lì i due avevano discusso delle Società estere del gruppo. «L’editoriale di Mieli sul Corriere della Sera dimostra che la sinistra ha conquistato un altro pezzo di società, applicando la teoria gramsciana della conquista delle casematte del potere. D’altra parte era proprio Mieli il direttore di quel Corriere che annunciò l’avviso di garanzia contro di me in pieno G7 a Napoil» (a Porta a porta 8-3-2005).L’editoriale di Mieli non è una novità, visto che già nel 1996 il direttore del Corriere firmò un editoriale alla vigilia delle elezioni augurandosi la vittoria di Prodi dopo il rovinoso fallimento del primo governo Berlusconi, durato appena 7 mesi e rovesciato da Umberto Bossi. La stessa cosa faceva, a ogni elezione locale o nazionale, Indro Montanelli sul Giornale edito da Berlusconi, invitando a votare per la Dc («turandosi il naso», nel 1976) o per i partiti laici del pentapartito, in funzione non certo gramsciana, ma anticomunista. Montanelli fece altrettanto invitando i lettori della Voce a votare per il Centro di Segni-Martinazzoli nel 1994 e, sul Corriere, si espresse per Prodi nel 1996 e nel 2001. Si tratta di una prassi di trasparenza tipica non dei paesi comunisti, ma della migliore tradizione della stampa anglosassone. Quanto al preannuncio dell’avviso di garanzia durante il G7 di Napoli sul Corriere dei 22 novembre 1994, è una triplice menzogna. 1) Non era un avviso di garanzia, ma un invito a comparire, cioè un atto dovuto per legge, visto che si rendeva necessario interrogare urgentemente il premier. A suo carico, infatti, erano emersi gravi indizi di complicità nelle tangenti Fininvest alla guardia di finanza e nel depistaggio delle indagini attivato da Massimo Maria Berruti (ex ufficiale della guardia di finanza, poi passato al gruppo Berlusconi come avvocato, e oggi deputato di Forza Italia) subito dopo una visita a palazzo Chigi. L’urgenza derivava dalla necessità di sentire

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Berlusconi e Berruti separatamente ma contemporaneamente su quell’incontro cruciale. 2) In quel momento a Napoli non si teneva alcun vertice del G7 (tenutosi nel mese di giugno), ma una conferenza internazionale sulla criminalità, che inizialmente Berlusconi contava di inaugurare soltanto nella prima giornata, lunedì 21 novembre, per poi rientrare a Roma in serata. Questo almeno risultava ai carabinieri, che infatti, incaricati dal procuratore Borrelli di recapitargli il plico, si recarono a Roma e non a Napoli. A palazzo Chigi appresero che Berlusconi aveva cambiato idea, trattenendosi a Napoli un altro giorno. Allora lo chiamarono al telefono e in tarda serata riuscirono a leggergli parte dell’invito a comparire, che conteneva tre capi d’imputazione. Dopo il secondo, però, il premier buttò giù la cornetta infuriato. L’indomani il Corriere della Sera riportò soltanto due dei tre capi d’imputazione: guardacaso quelli che Berlusconi conosceva. Il che, come ha ripetuto di recente, dimostra che la fuga di notizie al Corriere della Sera partì dall’entourage del Cavaliere, e non dai pm o dagl’investigatori, che le accuse le conoscevano tutte e tre per intero. 3) Il Corriere non preannunciò dunque un bel nulla al premier, la mattina di martedì 22 novembre; dalla sera prima Berlusconi sapeva di essere indagato per corruzione. Ciononostante decise di presiedere anche quel giorno il forum sulla criminalità. Ergo fu lui, e non la procura di Milano, a esporre l’Italia al ludibrio internazionale, pur di dirottare l’attenzione generale sulla (inesistente) violazione del segreto investigativo, anziché sulla vera notizia grave: il premier italiano coinvolto nelle tangenti pagate da tre sue aziende alla guardia di finanza.

sabato, 14 gennaio 2006 MENO TASSE PER LUIdi Marco Travaglioda l’Unità del 10 gennaio 2006 Promessa mantenutaQuando disse: «Un po’ di evasione non fa male...» Tutto si può dire di Silvio Berlusconi, fuorché non sia un uomo di parola. Aveva promesso «Meno tasse» e ha scrupolosamente mantenuto l’impegno. Fatto! E’ vero, sottilizzerà qualche sofistico, che aveva promesso “Meno tasse per tutti”, ma era una classica figura retorica: il tutto per la parte. Per il momento, meno tasse per lui. Ma anche per i colleghi evasori fiscali, che non sono pochi. La notizia della modica quantità di denaro sborsata dal Cavaliere e dalle sue aziende per «sanare» un debituccio con l’erario di qualche decina di milioni di euro emerso nel processo sui diritti Mediaset è dunque incoraggiante. Ma non è una novità. Non è la prima volta che emerge questo rapporto, diciamo, evasivo fra il premier e il Fisco. Era stato lui stesso, passando in rassegna le fiamme gialle in una leggendaria visita alla Guardia di Finanza, a teorizzare che un po’ di evasione non fa male a nessuno, tantomeno a lui: “C’è una norma di diritto naturale che dice che se lo Stato ti chiede più di un terzo di quello che con tanta fatica hai guadagnato, c’è una sopraffazione dello Stato nei tuoi confronti e allora ti ingegni per trovare dei sistemi elusivi o addirittura evasivi che senti in sintonia con il tuo intimo sentimento di moralità e non ti fanno sentire colpevole” (11 novembre 2004). Anche i suoi più stretti collaboratori hanno sempre avuto le idee chiare in materia: appena vedevano un maresciallo entrare in azienda per un‘ispezione, gli mettevano in tasca una mazzetta perché se ne andasse, non potendoli assumere tutti nel gruppo come aveva fatto il Cavaliere con il primo visitatore in uniforme grigia, l’allora maggiore Massimo Maria Berruti, poi divenuto legale del gruppo e infine, previa condanna definitiva per favoreggiamento, deputato di Forza Italia. Furono tutti condannati, i manager rei confessi di quelle stecche: tre tangenti da 100 milioni ciascuna per ammorbidire le verifiche a Mediolanum, Mondadori e Videotime. L‘unico assolto (sia pure con formula dubitativa) fu il Cavaliere, sempre l’ultimo a sapere. Cosa avesse da nascondere, lo si scoprì qualche anno più tardi, quando la

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Procura di Milano mise le mani su 64 off-shore del “comparto riservato “Fininvest, capofila la mitica All Iberian, mai comparse sui bilanci del gruppo: custodivano la bellezza di 1550 miliardi di fondi neri. Ma il processo per falso in bilancio andò in prescrizione prima ancora di cominciare, grazie alla provvidenziale riforma del falso in bilancio scritta dagli on. avv. dell’imputato e varata dal governo dell’imputato. Intanto Marcello Dell’Utri, come ex presidente di Publitalia, veniva condannato a Torino per frode fiscale e false fatture e dunque premiato con un seggio sicuro al Senato e al Consiglio d’Europa. E Cesare Previti, con comprensibile orgoglio, si difendeva dall’accusa di aver pagato tangenti estero su estero a un gruppo di giudici romani adducendo come alibi le sue evasioni fiscali: tanto su 21 miliardi di “consulenze” versati in Svizzera dalla famiglia Rovelli nel ‘94 quanto su decine di miliardi di “parcelle” Fininvest, sempre estero su estero e senza uno straccio di fattura. Tutti fatti che risalivano a prima della provvidenziale discesa in campo del Cavaliere & soci. Per quelli successivi, appunto, ci sono i condoni e le altre norme fiscali su misura varati dal cavaliere medesimo. Grazie alla legge Tremonti-1 del ‘94 che defiscalizza gli utili reinvestiti, si gonfiano i costi di vecchi film già posseduti da società del gruppo e si risparmiano 243 miliardi di lire di tasse. Grazie all’abolizione della tassa di successione e sulle donazioni, si possono passare enormi capitali a figli o parenti vari senza lasciare un euro al fisco. Grazie allo scudo fiscale si possono eventualmente far rientrare capitali illegalmente esportati o guadagnati all’estero, pagando un modesto 2,5% allo Stato, e con l’assoluto anonimato. Poi il capolavoro: il condono fiscale del 2003. Berlusconi giura solennemente che non se ne avvarrà, poi naturalmente se ne avvale: dei 197 milioni di euro di tasse non pagate che gli contesta l’erario, ne paga solo 35; ora completa l’opera con 1800 euro per decine di milioni mai pagati. Col decreto “spalmadebiti” del calcio, i passivi del Milan vengono diluiti su dieci anni, con un risparmio di 217 milioni di euro per il bilancio 2003. Infine la riduzione delle tasse: l’aliquota più alta - salvo contributo di solidarietà- scende al 39% e, secondo l’Espresso, il contribuente Berlusconi risparmia 760 milioni di euro l’anno. Infine gli sgravi fiscali tremontiani sulla vendita partecipazioni azionarie: l’estate scorsa il Cavaliere vende il 16.8% di azioni.Mediaset incassando 2.2 miliardi di euro cash, praticamente esentasse. Ma lui, sia chiaro, “non ho mai fatto affari con la politica. Anzi, ci ho solo rimesso”.

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GIANPIERO CANTONI

martedì, 09 maggio 2006 MOGGI FOR PRESIDENT

Fra le opere di misericordia di Santa Romana Chiesa, c‘è quella di visitare i carcerati. Ma qui forse si esagera. Da quando Previti è associato al carcere di Rebibbia, braccio G16, l’hanno visitato nell‘ordine: i sen. Pera e Guzzanti, gli on. Cicchitto, Bondi, Pecorella, Tajani, Lainati, Craxi (figlia), Gardini, Cantoni. Giro, Simeone, Marini ,Jannarilli, Cicolani, Barelli, Antoniozzi, i sottosegretari Santelli, Grillo e Di Virgilio, il consigliere regionale Sammarco, il caposegreteria del Cavaliere, Valentini, e l‘on. Cirino Pomicino in veste di cicerone: lui conosce la strada. Nessuno dei visitatori è stato trattenuto per accertamenti: li han fatti uscire tutti. Scanso di equivoci, il Cavaliere ha preferito limitarsi a un telegramma. In carcere sai quando entri, ma non sai quando esci. «Ci vediamo martedì a casa», ha mandato a dire. Mentre trasloca da Palazzo Chigi, aspira a una nuova occupazione: quella di grimaldello. La scena è avvincente: un premier in carica scrive a un galeotto dandogli appuntamento ai domiciliari per il tè delle 5. E, già che c’è, minaccia di non pagare le tasse se va al Quirinale chi non gli garba: minaccia spuntata, come se Moggi minacciasse di taroccare le partite. Le cronache da Rebibbia segnalano un viavai di autoblu da ora di punta. Il famoso «ingorgo istituzionale». Centralinisti costretti agli straordinari, il direttore che smista il traffico, organizza turni all’ingresso e all’uscita, manca poco che distribuisca i numeretti come al pronto soccorso. La madre di un condannato a 5 anni ricorda allibita che i! figlio la pena l’ha trascorsa tutta in carcere: si fosse mai fatto vivo un consigliere circoscrizionale. Fuori dal penitenziario, postazioni fisse radio-tv per raccogliere ogni sospiro dell’illustre («Non c’è Sky»), ogni lacrima dei pellegrini in visita al nuovo Gramsci, al Silvio Pellico redivivo. Fini, sempre spiritoso, intima alla sinistra di «chiedere scusa» per aver parlato di «leggi ad personam», mentre «noi non abbiamo favorito nessuno e il caso Previti lo dimostra». In realtà il caso Previti dimostra proprio il contrario, visto che i domiciliari arriveranno proprio per la legge ex Cirielli, votata apposta per lui ed espressamente invocata dai suoi avvocati. Ma la detenzione del noto galantuomo suscita viva commozione anche in vasti settori dell‘Unione. L‘Udeur ha preannunciato l’invio a Rebibbia di una delegazione degna del suo rango: i capigruppo di Camera e Senato, Fabris e Cusumano. Il direttore di Liberazione, organo del partito del presidente della Camera, propone di «salvare Previti con una legge ad personam: l’amnistia». Il dl Pierluigi Mantini garantisce che «Previti ha diritto a pieno titolo ai domiciliari» e che la vicenda «aiuta a voltar pagina sulla giustizia e ad aprire il dialogo in Parlamento» (infatti Previti vorrebbe un dibattito sulle sue dimissioni, seguito da un voto della Camera pro o contro la sentenza definitiva: roba da golpe). Il rosapugnista Salvatore Buglio, ex ds, già autore di un‘interrogazione contro i giudici di Torino che osavano occuparsi della sua Juventus, elogia Previti perché, «a differenza di altri imputati eccellenti che sono fuggiti, ha affrontato il processo, è stato condannato, si è costituito, si è dimesso da parlamentare», insomma «il presunto “mostro” si è comportato lealmente. Mi auguro che, considerata l’età e il comportamento corretto, la pena venga espiata con la detenzione domiciliare». Anche l’on. prof. avv. Vincenzo Siniscalchi dei Ds auspica gli arresti domiciliari col decisivo argomento che «Previti non ha evitato la carcerazione». Siamo così ridotti che il fatto che un ex ministro e parlamentare in carica non si dia alla latitanza è già un comportamento «leale e corretto», merito così alto e nobile da imporne l’immediata scarcerazione. Nella casta degli intoccabili tale è il disprezzo per i comuni mortali da far dimenticare che Previti ha corrotto un giudice in cambio di 21 miliardi, e che nelle patrie galere sono detenute quasi 60mila persone che, se sono lì, è perché «non hanno evitato la carcerazione», «non sono fuggite», eppure nessuno si sogna di scarcerarli tutti o di aprirci un «dialogo in Parlamento». Se chi va in carcere deve per ciò stesso uscirne, chi deve

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andare in carcere? Chi è fuggito e non si trova più? E con chi bisogna dialogare sulla giustizia: con chi la comprava un tanto al chilo? Pare una commedia di Ionesco. A questo punto, come propongono Paolo Rossi e Oliviero Beha, tanto vale candidare Moggi al Quirinale: è il migliore interprete della Costituzione materiale di questo bel Paese.  MARCO TRAVAGLIO - “l’Unità” 9 maggio 2006

giovedì, 22 dicembre 2005 SCANTONAMENTIdi Marco Travaglioda l’Unità del 20 dicembre 2005Toccava vedere anche questa: un presidente del Consiglio con dodici rinvii a giudizio, sei prescrizioni e due processi in corso all'attivo, circondato di pregiudicati, ottiene le dimissioni del governatore di Bankitalia che non voleva sloggiare per ben due avvisi di garanzia. Dimissioni invocate a gran voce, "per la credibilità dell'Italia", da quanti non hanno mai chiesto le dimissioni del presidente del Consiglio né dei pregiudicati al seguito, Naturalmente l'anomalia non sono l dimissioni: ma il fatto che le dia solo Fazio e non Berlusconi. II quale, per la cronaca, non è sospettato di abuso d'ufficio e insider trading, ma ha sicuramente pagato un giudice tramite un suo avvocato (reo confesso di frode fiscale), già ministro, da 12 anni parlamentare. C'entra qualcosa, tutto ciò, con la "credibilità dell'Italia"? Chissà. A sentire i tg di regime, pare quasi che Gianpiero Fiorani avesse due soli amici: Fazio e Consorte. Invece ne aveva ben di più. La variopinta compagnia di giro che qualche mese fa, all'ombra dello sgovernatore e dei protettori azzurri, bianchi, rossi e verdi, decise di spartirsi Antonveneta, Bnl e Rizzoli-Corriere della sera (tanto per gradire: poi sarebbe toccato verosimilmente alle Generali e alla solita Telecom), aveva molto a che fare con il Cavalier Bellachioma e i suoi cari. Prendiamo uno dei capi della banda, anzi della banca: Gianpiero Fiorani, l'uomo che è riuscito ad associare due figure. in genere distinte, quella del banchiere e quella del rapinatore, in una sola persona, la sua. Bene, Fiorani è colui che acquista gentilmente la Banca Rasini , dove il padre del Cavaliere, ragionier Luigi Berlusconi, era entrato sportellista e uscito direttore generale, e dove secondo Sindona la mafia riciclava i soldi sporchi. Poi ingloba nella Popolare di Lodi anche l'Efibanca, la merchant dell'Eni infestata di piduisti di cui Previti era ovviamente consulente e che fornì crediti illimitati a Bellachioma per la sua scalata alle tv. Insomma, fino all'altroieri il banchiere-rapinatore è rimasto seduto sulle due banche che nascondono molti segreti dell'oscuro passato del Biscione, e sui rispettivi archivi. Nel '99 la Guardia di Finanza dì Palermo andò alla Lodi in cerca delle carte sui misteriosi finanziamenti alle holding Fininvest, ma si sentì rispondere che l'archivio Rasini non c'era più. I finanzieri tornarono poco dopo, ripetendo la domanda con più energia. Allora ai dirigenti fioraniani venne improvvisamente in mente che forse l'archivio. c'era: fu riesumato dalla pensione un vecchio archivista che accompagnò i militari in una soffitta di via Mercanti. Purtroppo alcuni microfilm erano andati bruciati (autocombustione?), mentre le holding Fininvest - si faticava a trovarle perché erano state registrate (quando si dice la sbadataggine) alla voce "negozi di estetista e parrucchiere per signora". Quanto all’Efibanca, dopo averla incorporata, Fioroni si mette in società con l'Hdc di Enrico Crespi, il sondaggista dì Forza Italia. Un impegnuccio da 15 miliardi di lire. Poi all'improvviso gli chiede di rientrare dai fidi: Hdc fallisce e Crespi finisce in galera per bancarotta.Insomma, il presidente del Consiglio è proprio l'uomo adatto per risolvere il caso. Infatti, per il dopo-Fazio, mentre i giornali fanno i nomi di Monti, Quadrio Curzio, Padoa Schioppa, Draghi e altri pericolosi incensurati, lui ha in mente l'uomo giusto al posto giusto: il senatore forzista Giampiero Cantoni. Ex socialista, Cantoni era presidente di Bnl nel febbraio '94 quando dovette "autosospendersi" in tutta fretta per una spiacevole disavventura. Mentre un'ispezione di Bankitalia si occupava di finanziamenti Bnl al gruppo meccanico Mandelli che aveva rilevato un'azienda legata alla sua famiglia, la Procura di Milano lo indagava e poi lo faceva arrestare per corruzione. L'accusa era quella di aver corrotto l'architetto Anchise Marcori, capogruppo del Psi al comune di Segrate, con una mazzetta di 400 milioni di lire in cambio della concessione edilizia per un complesso residenziale nei terreni della sua famiglia. Cantoni confessò di aver pagato, ma sostenne di essere stato costretto. Cioè concusso. Ma non fu creduto, nemmeno da se stesso, visto che all'udienza preliminare si presentò con 800 milioni sull'unghia a titolo di risarcimento e patteggiò circa 2 anni di reclusione. Per corruzione. Ecco perchè Bellachioma ha subito pensato a lui per rimpiazzare Fazio. Scegliere

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un incensurato, col pericolo che poi venga indagato, è troppo rischioso. Molto meglio un pregiudicato, che è già allenato.

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MARCELLO DE ANGELIS

venerdì, 09 giugno 2006 LISCIA LA NOTIZIA (ARCHIVIO)

Signor Primo Ministro, lei ha le mani sporche di sangue? Ha intenzione di dimettersi?». Così, il 19 luglio 2003, un giornalista inglese si rivolse a Tony Blair durante la conferenza stampa congiunta col premier giapponese Koizumi. Il giornalista si riferiva alla morte misteriosa del dottor Kelly, che aveva denunciato le manovre del governo inglese per appesantire il rapporto dei servizi segreti sulle armi di distruzione di massa di Saddam. Non risulta che il giornalista abbia ricevuto critiche, insulti o richieste di ritrattare come invece è capitato a Oliviero Diliberto per l’ovvia constatazione che Bush ha le mani «grondanti di sangue» iracheno, avendo mandato i suoi uomini a sterminare, anche con bombe al fosforo, migliaia di civili. «Signor presidente, lei è un cocainomane?», domandò nel 2001 David Letterman a George W. Bush durante il suo seguitissimo show televisivo. Bush non si sognò neppure di recarsi in Bulgaria per chiedere la cacciata di Letterman dalla televisione, e comunque anche se l’avesse fatto non avrebbe trovato nessuno pronto a obbedirgli. Figurarsi che accadrebbe in Italia se qualcuno, giornalista o comico, osasse tanto.

Bisogna partire di qui, dal «mondo a parte» che è il dibattito politico-giornalistico in Italia, per capire come mai da noi «certe cose non si possono dire», soprattutto in televisione. E dunque come mai certe cose la gente non le sa e non le potrà mai sapere. Infatti le proteste del centrodestra per quanto è avvenuto domenica a Rai3 non si appuntano sull’inutile provocazione di Lucia Annunziata che ha dato il pretesto a Bellachioma di andarsene anzitempo («Lei non può dire che si alza e se ne va», ripetuto una decina di volte in due minuti). Ma sul fatto che prima dell’incidente la giornalista ponesse domande e pretendesse risposte, mentre il premier tentava di suggerirle le domande e di non dare le risposte.

Ogni tanto è utile immaginare come sarebbe l’Italia se, per incanto, si potesse realizzare un cambio merci fra la Rai e la Bbc. I politici fuggirebbero dalle tv, invece di accorrervi a ogni ora del giorno e della notte. E anche il teleconfronto di stasera, se si svolgesse negli studi di una tv inglese o americana, ma anche francese o tedesca, sarebbe tutt’altra musica, anche perché di Vespa e di Mimun, in quei paesi, non ce ne sono, O, se ce ne sono, non dirigono tg né programmi d’informazione. Prendiamo il caso dei teppisti e picchiatori di sabato a Milano. Ma in quale paese il governo potrebbe iscriverli d’ufficio all’opposizione («sono alleati di Prodi»), avendo nelle proprie file due condannati per resistenza a pubblico ufficiale? Ben due ministri, Roberto Maroni e Roberto Calderoli, l’uno in via definitiva l’altro in appello, sono stati condannati per aver alzato le mani sulla polizia che perquisiva la sede milanese della Lega Nord di via Bellerio. Cioè per aver fatto esattamente ciò di cui sono accusati i facinorosi di corso Buenos Aires, contro i quali il governo dei Maroni e dei Calderoli (alle memoria) invoca «pene esemplari». La Lega è la stessa che ha sostenuto (addirittura con una colletta per pagare loro gli avvocati) i tre fanatici «serenissimi» che qualche anno fa si armarono di tutto punto e sequestrarono un traghetto a Venezia (con passeggeri incorporarti) concludendo il loro blitz eversivo sul campanile di San Marco. Chi lo ricorda più?

In un lungo elenco di candidati impresentabili l’Espresso fa il nome di Marcello De Angelis, in lista con An: negli anni di piombo faceva parte di «Terza posizione», fu a lungo latitante e venne poi condannato per associazione sovversiva; ora dirige la rivista «Area» del ministro Alemanno. Poi c’è un candidato milanese di Alternativa sociale dell’ottima Mussolini, Pasquale Guaglianone che ha una condanna per i suoi rapporti con i Nar, i nuclei armati rivoluzionari che seminarono terrore e morte in Italia negli anni 70 e 80. Chi l’ha mai fatto notare a quanti, accendendo ogni giorno la tv, si fanno l’idea che Prodi sia alleato con i terroristi e debba «prenderne le distanze»? Chi

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ricorda mai in tv che le ultime stragi in Italia le perpetrò un’organizzazione denominata Cosa Nostra, a cui - secondo il Tribunale di Palermo - era organico Marcello Dell’Utri, l’uomo che ha selezionato le liste di Forza Italia ed è candidato a Milano? Ci vorrebbe l’informazione. Magari, prima o poi, arriverà anche da noi.

MARCO TRAVAGLIO – “L’Unità” 14 marzo 2006

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ENZO CARRA

AL CITTADINO NON FAR SAPERE

Cari lettori, quando il Parlamento approva una legge all’unanimità, di solito bisogna preoccuparsi. Indulto docet. Questa volta è anche peggio. L’altroieri, in poche ore, con i voti della destra, del centro e della sinistra (447 sì e 7 astenuti, tra cui Giulietti, Carra, De Zulueta, Zaccaria e Caldarola), la Camera ha dato il via libera alla legge Mastella che di fatto cancella la cronaca giudiziaria. Nessuno si lasci ingannare dall’uso furbetto delle parole: non è una legge “in difesa della privacy” (che esiste da 15 anni) né contro “la gogna delle intercettazioni”. Questa è una legge che, se passerà pure al Senato, impedirà ai giornalisti di raccontare - e ai cittadini di conoscere - le indagini della magistratura e in certi casi persino i processi di primo e secondo grado. Non è una legge contro i giornalisti. È una legge contro i cittadini ansiosi di essere informati sugli scandali del potere, ma anche sul vicino di casa sospettato di pedofilia. Vediamo perché. Oggi gli atti d’indagine sono coperti dal segreto investigativo finché diventano “conoscibili dall’indagato”. Da allora non sono più segreti e se ne può parlare. Per chi li pubblica integralmente, c’è un blando divieto di pubblicazione, la cui violazione è sanzionata con una multa da 51 a 258 euro, talmente lieve da essere sopportabile quando le carte investono il diritto-dovere di cronaca. Dunque i verbali d’interrogatorio, le ordinanze di custodia, i verbali di perquisizione e sequestro, che per definizione vengono consegnati all’indagato e al difensore, non sono segreti e si possono raccontare e, di fatto, citare testualmente (alla peggio si paga la mini-multa). È per questo che, ai tempi di Mani Pulite, gli italiani han potuto sapere in tempo reale i nomi dei politici e degli imprenditori indagati, e di cosa erano accusati. È per questo che, di recente, abbiamo potuto conoscere subito molti particolari di Bancopoli, Furbettopoli, Calciopoli, Vallettopoli, dei crac Cirio e Parmalat, degli spionaggi di Telecom e Sismi. Fosse stata già in vigore la legge Mastella, Fazio sarebbe ancora al suo posto, Moggi seguiterebbe a truccare i campionati, Fiorani a derubare i correntisti Bpl, Gnutti e Consorte ad accumulare fortune in barba alle regole, Pollari e Pompa a spiare a destra e manca. Per la semplice ragione che, al momento, costoro non sono stati arrestati né processati: dunque non sapremmo ancora nulla delle accuse a loro carico. Lo stesso vale per i sospetti serial killer e pedofili, che potrebbero agire indisturbati senza che i vicini di casa sappiano di cosa sono sospettati. La nuova legge, infatti, da un lato aggrava a dismisura le sanzioni per chi infrange il divieto di pubblicazione: arresto fino a 30 giorni o, in alternativa, ammenda da 10 mila a 100 mila euro (cifre che nessun cronista è disposto a pagare pur di dare una notizia). Dall’altro allarga à gogò il novero degli atti non più pubblicabili. Anzitutto “è vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, degli atti di indagine contenuti nel fascicolo del pm o delle investigazioni difensive, anche se non più coperti da segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare”. La notizia è vera e non é segreta, ma è vietato pubblicarla: i giornalisti la sapranno, ma non potranno più raccontarla. A meno che non vogliano rovinarsi, sborsando decine di migliaia di euro. È pure vietato

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pubblicare, anche solo nel contenuto, “la documentazione e gli atti relativi a conversazioni, anche telefoniche, o a comunicazioni informatiche o telematiche ovvero ai dati sul traffico telefonico e telematico, anche se non più coperti da segreto”. Le intercettazioni che hanno il pregio di fotografare in diretta un comportamento illecito, o comunque immorale, o deontologicamente grave sono sempre top secret. Bontà loro, gli unanimi legislatori consentiranno ancora ai giornalisti di raccontare che Tizio è stato arrestato (anche per evitare strani fenomeni di desaparecidos, come nel vecchio Sudamerica o nella Russia e nell’Iraq di oggi). Si potranno ancora riferire, ma solo nel contenuto e non nel testo, le misure cautelari, eccetto “le parti che riproducono il contenuto di intercettazioni”. Troppo chiare per farle sapere alla gente. E i dibattimenti? Almeno quelli sono pubblici, ma fino a un certo punto: “non possono essere pubblicati gli atti del fascicolo del pm, se non dopo la pronuncia della sentenza d’appello”. Le accuse raccolte (esempio, nei processi Tanzi, Wanna Marchi, Cuffaro, Cogne, Berlusconi etc.) si potranno conoscere dopo una decina d’anni da quando sono state raccolte: alla fine dell’appello. Non è meraviglioso? L’ultima parte della legge è una minaccia ai magistrati che indagano e intercettano ”troppo”, come se l’obbligatorietà dell’azione penale fosse compatibile con criteri quantitativi o di convenienza economica: le spese delle Procure per intercettazioni (che peraltro vengono poi pagate dagli imputati condannati, ma questo nessuno lo ricorda mai) saranno vagliate dalla Corte dei Conti per eventuali responsabilità contabili. Così, per non rischiare di risponderne di tasca propria, nessun pm si spingerà troppo in là, soprattutto per gli indagati eccellenti. A parte «Il Giornale», nessun quotidiano ha finora compreso la gravità del provvedimento. L’Ordine dei giornalisti continua a concentrarsi su un falso problema: quello del “carcere per i giornalisti”, che è un’ipotesi puramente teorica, in un paese in cui bisogna totalizzare più di 3 anni di reclusione per rischiare di finire dentro. Qui la questione non è il carcere: sono le multe. Molto meglio una o più condanne (perlopiù virtuali) a qualche mese di galera, che una multa che nessun giornalista sarà mai disposto a pagare. Se esistessero editori seri, sarebbero in prima fila contro la legge Mastella. A costo di lanciare un referendum abrogativo. Invece se ne infischiano: meno notizie “scomode” portano i cronisti, meno grane e cause giudiziarie avrà l’azienda. Mastella, comprensibilmente, esulta: «Un grande ed esaltante momento della nostra attività parlamentare». Pecorella pure: «Una buona riforma, varata col contributo fondamentale dell’opposizione». Vivi applausi da tutto l’emiciclo, che è riuscito finalmente là dove persino Berlusconi aveva fallito: imbavagliare i cronisti. Ma a stupire non è la cosiddetta Casa delle Libertà, che facendo onore alla sua ragione sociale ha tentato fino all’ultimo di aumentare le pene detentive e le multe (fino al 500 mila euro!) per i giornalisti. È l’Unione, che nell’elefantiaco programma elettorale aveva promesso di allargare la libertà di stampa. Invece l’ha allegramente limitata con la gentile collaborazione del centrodestra. Ma chi sostiene che nell’ultimo anno non è cambiato nulla, ha torto marcio. Quando le leggi-vergogna le faceva Berlusconi, l’opposizione strillava e votava contro. Ora che le fa l’Unione, l’opposizione non

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strilla, anzi le vota. In vista del passaggio al Senato, cari lettori, facciamoci sentire almeno noi, giornalisti e cittadini.

MARCO TRAVAGLIOl'Unità (19 aprile 2007)Fronte del video

Gli manca la parola

Maria Novella Oppo

Se la cronaca del Tg1 è esatta (e perché mai dovremmo dubitarne?), George Bush atterrando a Roma, conscio della tensione provocata nel Paese e del particolare momento storico, avrebbe dichiarato: «Sono felice di essere qui». Una dichiarazione impegnativa, che non ha però esaurito la capacità espressiva del presidente Usa, il quale, in quello che viene definito da molti il momento più impegnativo (per lui) del passaggio in Italia, e cioè la visita in Vaticano, stringendo la mano del Papa avrebbe detto all'incirca: «È una gioia essere qui con lei». Notoriamente l’uomo considerato più potente del mondo non è cattolico, ma non perde occasione per dichiarare la sua fede in Dio. Giuliano Ferrara gli crede, e chi siamo noi per dubitare di Giuliano Ferrara? Del resto, quello che possiamo vedere coi nostri occhi anche noi miscredenti è che Bush ha avuto molto da Dio: soldi, petrolio, potere. Gli manca solo il dono della parola. Mentre al suo amico Berlusconi le parole non mancano mai. Ieri infatti ha detto che si vergogna. Era ora. http://www.unita.it (10 giugno 2007)

sabato, 24 febbraio 2007 CHI VA AL MULINO, PININFARINA

Mentre «l'onorevole professor Romano Prodi» rassegnava le sue dimissioni nelle mani del capo dello Stato in un colloquio di 20 minuti «grave e asciutto», mentre migliaia di elettori esausti e inferociti tempestavano le redazioni e le segreterie dei partiti per esternare i sensi di tutto il loro schifo, la consueta compagnia di giro sciamava nei vari boudoir televisivi per una promettente seratina-nottatina di cazzeggio sottovuotospinto. Particolarmente apprezzato, non so più se chez Vespa o chez Mentana, ormai perfettamente intercambiabili, il siparietto del Politomargherito, del Vladimirluxuria e del Paolocento dal cognome francamente eccessivo (basterebbe e avanzerebbe un Dieci) che distillavano stravaccati sui divanetti bianchi i sapidi retroscena della catastrofe. «Non sapete con che auto è arrivato Pininfarina, ah ah!». «E cos'è successo quando si è seduto nei banchi del Polo, ah ah!». «Per non parlare di quando è arrivato Zanone per dirgli di votare sì, ah ah!». Le risate, signora mia, le risate!

In ossequio al detto di Flaiano «la situazione è grave ma non seria», alcuni dei protagonisti, anzi delle comparse dell'ennesima debacle intrattenevano gli elettori attoniti e sgomenti con aria ridanciana, come se stessero parlando di un film appena visto al cinema, di un vaudeville al teatro, comunque di un qualcosa che non li riguardava ma li divertiva un sacco. Si capiva benissimo che, Prodi o non Prodi, governicchio o governissimo, loro saranno sempre lì, morbidamente assisi: anzi, una bella crisi ogni tanto elettrizza il clima, alza l'audience e costringe i bravi conduttori a invitare loro anziché la compagnia della buona morte sul delitto di Cogne o sulla strage di Erba. Averne, di crisi così ricche di retroscena, aneddoti, storielline carine: con tutto quel bendidio si staziona in tv per qualche altra settimana a commentare consultazioni, esplorazioni, indiscrezioni, dichiarazioni. Sempre meglio che governare.

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Così la gente si convince che sono tutti uguali, che è tutto un magnamagna e che ci meritiamo Berlusconi. Il quale, dal canto suo, dimostra già vent'anni di meno in perfetta sintonia col rialzo del titolo Mediaset in borsa e ha buon gioco a pontificare sull’inaffidabilità dei comunisti, ai quali - con un tocco di classe – insegna la «coerenza morale». Poi rassicura: «Casini non va da nessuna parte, me l'ha garantito personalmente il nostro amico siciliano Totò Cuffaro» («e io allora che ci sto a fare?», avrebbe commentato piccato Marcello Dell'Utri, reduce dai trionfi dei falsi diari del Duce). Così chi, fino all'altroieri lo dava per morto e lo proponeva addirittura come senatore a vita è servito.

Il resto è vacuo chiacchiericcio sul complotto dei «poteri forti» - la spectre Vaticano-Amerika-Confindustria - che avrebbe subornato i compagni Andreotti, Cossiga e Pininfarina su cui i professionisti della politica, quelli che ci capiscono, contavano moltissimo. «Sono mancati i voti di Andreotti e Pininfarina», osservava stupefatta Anna Finocchiaro, che pure in mattinata pareva rincuorata dall'arrivo dell'industriale. Come se Pininfarina fosse un operaio delle presse e Andreotti non fosse l'ex candidato di Bellachioma alla presidenza del Senato. Per non parlare di Cossiga, che ci aveva pure fatto la grazia di dare le dimissioni da senatore a vita, ma l'Unione le aveva astutamente respinte. «Ma come, Andreotti aveva assicurato il suo appoggio», diceva costernato Nicola Latorre, che crede ancora alla parola di Andreotti e, probabilmente, anche alla Befana. Come pure Mastella, che mesi fa annunciava un Andreotti ormai conquistato alla causa («Dobbiamo fargli un monumento, altro che parlare della sentenza di Palermo») e ora lo difende ancora, accusando la maggioranza (di cui lui fa parte): «Facciamo la guerra agli Usa, attacchiamo il Vaticano e abbiamo nei dintorni qualche epigono del terrorismo». Berlusconi o Calderoli non saprebbero dire meglio. Resta da capire perché Blair possa ritirarsi dall'Iraq, mentre noi non possiamo nemmeno discutere dell'Afghanistan. Enzo Carra, il teodem condannato, sta già alla cassa: «Intanto abbiamo affossato i Dico». Ma bravo, complimenti vivissimi.

Insomma, gl'insulti giustamente piovuti sulle eventuali teste del trotzkista Turigliatto e del signor Rossi dell'Officina Comunista andrebbero condivisi con tanti, troppi.

Poi, fuori dal palazzo e dai salotti, ci sarebbe la signora Giuliana Vaccari, che scrive implorante all'Unità: «Chi vi ha votato vive con mille euro al mese. Siate seri». Ma chi cazzo si crede di essere, questa qua?

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità 23 febbraio 2007

sabato, 03 febbraio 2007 STRATEGIA DELLA PENSIONEAnche oggi trascureremo le questioni planetarie, come l’epocale distinzione tra sinistra riformista e sinistra radicale, per occuparci di un problemuccio che, ce ne rendiamo ben conto, è del tutto marginale: la corruzione. La Corte dei conti la indica anche quest’anno come il cancro che divora la politica e la pubblica amministrazione, ma l’allarme dei giudici contabili ha avuto, sui media italioti, la stessa audience che riscuote l’annuale allarme dell’Onu sull’imminente morte del pianeta terra con la tracimazione, fra l’altro, del Mediterraneo (alla peggio ci giochiamo mezza dozzina di regioni, che sarà mai). La corruzione c’entra con l’evasione fiscale, di cui è compagna inseparabile. C’entra persino con le pensioni, visto che l’economia sommersa provoca

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evasione contributiva e alimenta il buco dell’Inps costringendo i governi a tagliare continuamente la previdenza a chi ne ha diritto. Guarda caso proprio oggi l’Espresso pubblica l’elenco degli ex onorevoli che percepiscono dallo Stato, cioè da noi, pensioni da favola anche se son rimasti in Parlamento mezza legislatura: a lorsignori bastano due anni e mezzo per intascare più di un normale cittadino dopo 40 anni di lavoro. E la loro pensione è cumulabile con qualunque altro emolumento, visto che non c’è ex parlamentare che non si accomodi subito su almeno un‘altra poltrona, perlopiù a spese nostre. Ma il bello deve ancora venire: nella lista delle onorevoli pensioni d’oro spiccano quelle dei disonorevoli protagonisti di Tangentopoli. Limitandoci ai condannati, abbiamo Altissimo, Di Donato, Pillitteri, La Malfa, La Ganga, De Lorenzo, Pomicino, Martelli, Tognoli. Senza dimenticare i falsi testimoni Carra e Formica, e gli avanzi delle Tangentopoli primigenie: Pietro Longo, Franco Nicolazzi e Mario Tanassi. Completano il quadro Vittorio Sgarbi, pregiudicato per truffa allo Stato, e Toni Negri, che lo Stato non lo derubava, ma lo voleva addirittura sovvertire con la violenza: oggi, da quello stesso Stato, non disdegna una pensioncina, nella migliore tradizione nazionale. Se non fossimo in Italia e questi discorsi non venissero immediatamente silenziati con la parolina magica del “giustizialismo”, si potrebbe domandare che razza di Stato è quello che paga profumate pensioni a quanti l’han depredato per anni e decenni. La domanda è tutt’altro che peregrina se si dà un’occhiata alla stampa estera. La Washington Post informa che prima il Senato degli Stati Uniti, e subito dopo la Camera dei rappresentanti, all’unanimità, hanno deciso di negare la pensione ai parlamentari condannati per corruzione, spergiuro e altri reati contro la pubblica amministrazione. Avete capito bene: all’unanimità. Anzi, qualcuno ha protestato perché non è stata inclusa la frode fiscale. «I politici corrotti - ha spiegato il promotore della legge, Nancy Boyda - meritano condanne alla prigione, non pensioni pagate dal contribuente». L’unanimità è agevolata dal fatto che, negli Usa, chiunque sia sospettato di corruzione viene cacciato dal Parlamento: per questo, in tema di corruzione, non passano mai leggi salva-ladri, ma sempre anti-ladri. La solidarietà di partito non fa mai premio sul principio di legalità e sulla questione morale: il partito repubblicano, infatti, ha votato in massa per questa legge sebbene alcuni (ormai ex) deputati repubblicani siano stati condannati per corruzione. Anzi, proprio per questo: per prenderne le distanze e riacquistare credibilità agli occhi dei cittadini. In Italia, com’è noto, una mano (sporca) lava l’altra (ancora tre giorni fa il Senato ha votato a gran maggioranza l’insindacabilità del senatore-diffamatore Jannuzzi, mandando a monte una denuncia di Gian Carlo Caselli e del pool di Palermo, mentre Jannuzzi veniva condannato a 1 anno e 4 mesi definitivi dalla Cassazione per aver scritto un sacco di balle sul caso Andreotti nel libro «Il processo del secolo»). Così la corruzione diventa il passepartout per la carriera politica: se in America chi ruba perde il seggio, dunque lo stipendio, ma pure la reputazione, e infine la pensione, in Italia si guadagna un posto in prima fila nelle liste bloccate, con garanzia di essere eletto e riconfermato la volta successiva. Poi, che lo scoprano o che la faccia franca, che resti in Parlamento o che ne esca, ha il vitalizio assicurato. Anche se

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momentaneamente è agli arresti. Se poi muore, lascia il seggio in eredità ai figli. E, se tutto va bene, gli fanno il monumento. Se va male, gli intestano una via.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIO l'Unità 3 febbraio 2007

giovedì, 13 luglio 2006 CHIAGNI E FOTTI

Il Grande Piagnisteo è cominciato. Meno di due mesi dopo l’esplodere di Calciopoli, sbiadito il ricordo delle intercettazioni, politici di chiara fama e fame lacrimano copiosamente sulle sorti di Juve, Milan, Fiorentina e Lazio. L‘impresa pare disperata, essendo gli argomenti delle difese un po’ meno credibili di quelli dell‘avvocato Taormina. La Juve sostiene che Moggi non era un dirigente, ma un passante. Giraudo racconta che il calcio è «un mondo border line» (infatti lui era uno dei capi) e «bisogna pur difendersi» (e da chi? dall‘Albinoleffe?). Bellachioma assicura: «Galliani è la persona più trasparente che io conosca» (il che è vero: le altre sono Previti e Dell‘Utri). I legali rossoneri dipingono Meani, addetto agli arbitri, come un seminfermo di mente incapace di intendere e volere, ma non spiegano perché mai Galliani avesse scelto uno così. Lotito-Lolito rivela: «Io alla Lazio ho portato il cappellano» e, se telefonava alla Figc, «era per chiedere che gli arbitri non facessero errori» (bastava uno squillo e gli errori sparivano). De Santis parla di «diritti umani calpestati », manco fosse ad Abu Ghraib. Della Valle denuncia i «tempi troppo stretti» del processo: è la parola d’ordine di tutti gli aspiranti impuniti. Come se la scadenza di fine luglio fosse un pallino di Borrelli, Ruperto, Palazzi e Guido Rossi. Invece l’ha imposta l‘Uefa, che entro luglio deve stilare i calendari delle coppe. Lorsignori vogliono tempi più lunghi? Rinuncino alle coppe, con i miliardi della tv e degli incassi, e il processo potrà durare sino a ferragosto. Se poi rinunciano pure al campionato, si va avanti anche un anno. I tempi stretti sono una concessione agli imputati, che vogliono la botte piena e la moglie ubriaca, non un‘imposizione giacobina. È curioso che i tanti salici piangenti fingano di ignorarlo. E non si comprende cosa intendano gli on. avv. Calvi, Pecorella e Pisapia quando lamentano che «la difesa non può interloquire». Che stan facendo da un mese deferiti e avvocati, prima con Borrelli e poi con la Caf? Interloquiscono eccome. Il guaio è che non hanno niente da dire, se non che «così facevan tutti» e che al telefono si scherzava. È stupefacente poi che insigni giuristi confondano il processo penale con quello sportivo, dove l’onere della prova è invertito (non è l‘accusa a dover dimostrare la colpevolezza degli incolpati: sono gl‘incolpati a dover provare la propria innocenza). Le regole del calcio sono queste, si è sempre fatto così, molti club medio-piccoli sono retrocessi in base a queste norme: perché mai non dovrebbero valere ora per i grandi? I grandi oltretutto godono di appoggi politici sconosciuti ai medio-piccoli. La Juve ha un apposito club di lobbisti in Parlamento, capitanato dall‘ineffabile on. Buglio (Zebra nel Pugno) che vaneggia di «giustizialismo, gogna mediatica, giustizia sommaria, vizio politico» e altre baggianate. Il Milan, oltre al rifondarolo Piero Sansonetti che lacrima ogni sera in tv per il povero Diavolo perseguitato, ha un intero partito ai suoi piedi: è intervenuto persino James Bondi, che non distingue un pallone da un paracarro. Il forzista on. Paniz, juventino nel calcio e berlusconiano nella vita, chiede dal primo giorno l’amnistia per Calciopoli. All’inizio tutti ridevano; ora fioccano le prime adesioni, con la scusa dei Mondiali. Strepitosa quella del margherito Carra: sì all‘amnistia, ma «fra un anno».

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Poteva mancare il ministro della Clemenza Mastella? No che non poteva: l’amico di Berlusconi, poi di Moggi, poi di Della Valle confida al Corriere: «Capisco chi chiede l’amnistia, la chiedono la maggior parte dei tifosi». E, se lo dice lui, dev‘essere vero: «Il processo è come l’arena del Colosseo»; Guido Rossi non gli piace (sarebbe strano il contrario); e poi «non è giusto che Del Piero, Cannavaro e altri giochino in serie C» (non sa che, se la Juve va in C, Cannavaro e altri scappano). L‘Oscar del piagnisteo spetterebbe di diritto a lui, se non arrivasse Piero Ostellino, habituè della tribuna vip moggiana, a spiegare in mezza pagina di Corriere che il processo «è un mostro giuridico» e rischia di scivolare nella «responsabilità oggettiva dei processi staliniani». Non sa, il pover‘uomo, che la responsabilità oggettiva è dalla notte dei tempi il pilastro della giustizia sportiva. Ma, per quanto difficile possa sembrare, c‘è persino chi lo supera. Il forzista bianconero Crosetto parla di «metodi da Gestapo». E il forzista romanista Cicchitto sostiene che «mandano la Juve in C per poter mandare il Milan in B». Era meglio quando tifava per il Castiglion Fibocchi.  ULIWOOD PARTY

MARCO TRAVAGLIO – “l’Unità” 8 luglio 2006

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VINCENZO VISCO

È LUI O NON È LUI

Sarà anche una mossa abile, quella di Uòlter Veltroni di non citare mai, nelle quasi due ore del suo discorso al Lingotto di Torino, il nome di Silvio Berlusconi. Parlare e agire come se il Cavaliere non esistesse più potrebbe anche aiutare chi, nel centrodestra, lavora per scaricarlo. Ma c’è un piccolo problema: Berlusconi c’è ancora. Ha ancora tre televisioni di sua proprietà, anzi ne ha aggiunta una, la leggendaria Tv delle Libertà a cura della signorina Brambilla, che pubblica anche il neonato Giornale delle Libertà allegato a Il Giornale. Possiede la Mondadori, anche se una sentenza d’appello ha stabilito che la rubò a De Benedetti grazie a una sentenza comprata da Previti con soldi Fininvest. Ha tuttora la maggioranza nel Cda Rai, dove il diktat bulgaro e post-bulgaro continua a valere per Luttazzi e la Guzzanti. Ha in tasca 2 miliardi di euro che, come lui stesso ha confessato in una straziante intervista ad “A”, “non so come spendere”. Ha appena rilevato Endemol, che occupa gran parte dei palinsesti di Mediaset e della Rai (che d’ora in poi pagherà lui per mandare in onda i programmi della ditta). Fininvest ha appena aumentato la sua partecipazione in Mediobanca. Rete4, in barba a due sentenze della Consulta, continua a trasmettere sull’analogico terrestre, occupando frequenze che dal 1999 non potrebbe più usare, avendo perduto la gara per le concessioni pubbliche vinta da Europa 7 da Francesco Di Stefano, il quale ora spera di avere quel che gli spetta dalla Corte di giustizia europea, dove il governo Prodi, come il governo Berlusconi, ha difeso la legge Gasparri, cioè Rete4. Il risultato è che in tv, salvo rare oasi, si continua a parlare soltanto di quel che vuole Lui. Il quale intanto ha quasi risolto i suoi guai giudiziari: i pochi processi ancora in corso (corruzione di Mills e diritti Mediaset) cadranno in prescrizione grazie alla legge ex Cirielli e alla controriforma del falso in bilancio che l’Unione non ha ancora avuto il coraggio di smantellare. Uno dei suoi lobbisti di più stretta osservanza e di più antica data, Gianni Letta, è appena entrato in Goldman Sachs come superconsulente e viene incredibilmente elogiato da esponenti del Pd a cominciare da Veltroni (che lo vorrebbe addirittura in un suo eventuale futuro governo). Grazie alla tremebonda maggioranza unionista alla Camera, Berlusconi è riuscito finora a conservare il seggio parlamentare al suo braccio destro Cesare Previti, che pure da 14 mesi è pregiudicato e interdetto in perpetuo. Il suo braccio sinistro Marcello Dell’Utri colleziona condanne su condanne (oltre a quella per mafia in primo grado e quella per false fatture definitiva, ne ha appena avuta una in appello per estorsione insieme a un boss mafioso), ma nessuno ne parla e anzi il noto bibliofilo che prese per buoni i falsi diari del Duce continua a essere considerato un valido e colto interlocutore a destra e a sinistra, intervistatissimo da giornali e tv su tutto lo scibile umano, fuorché sulle sue pendenze giudiziarie e i suoi rapporti conclamati con la mafia. In compenso, grazie anche al dilettantismo dell’Unione e alle pessime frequentazioni di alcuni suoi dirigenti, la propaganda berlusconiana è riuscita addirittura a rinfacciare la questione morale al centrosinistra, dipingendo la maggioranza come un covo di affaristi e Vincenzo Visco come una sorta di Al Capone redivivo che - chiedono a una sola voce il Giornale, Libero e la Cdl - “dovrebbe dimettersi”. Ecco: Berlusconi, Dell’Utri e Previti in Parlamento (per tacere degli altri 23 pregiudicati, quasi tutti forzisti), e Visco a casa. La vicenda della Guardia di Finanza è stata gestita come peggio non si poteva: bastava spiegare un anno fa perché alcuni ufficiali milanesi e il loro protettore Speciale andavano rimossi, e nessuno avrebbe potuto obiettare alcunché, visto che Tremonti a suo tempo aveva fatto altrettanto e visto che la legge assegna al ministro delle Finanze l’ultima parola su ogni nomina alle Fiamme Gialle. Ma di qui a chiedere le dimissioni del ministro per qualche telefonata di fuoco a un generale, ce ne corre (semmai c’è da domandarsi perché, quando al governo c’era lui, il centrosinistra non chiese mai le dimissioni del premier imputato, anzi tutti lo invitavano a restare e zittivano i girotondi che invocavano un po’ di pulizia). Forse, prima di dare Berlusconi per morto, bisognerebbe consultare un medico legale. A vederlo così, scoppia di salute.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità (30 Giugno 2007)

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venerdì, 08 giugno 2007 DISCORSO SPECIALEQuesto è il discorso che ieri Prodi non ha pronunciato al Senato

Gentili senatrici e senatori, abbiamo sbagliato. Ha sbagliato Visco a non spiegare subito, nel luglio scorso, perché voleva il cambio della guardia al vertice delle Fiamme Gialle milanesi. Come viceministro delegato ne aveva il potere (quando le stesse cose le faceva Tremonti non fiatava nessuno, anche perché all’opposizione c’eravamo noi, e dormivamo). Ma ha sbagliato il modo: se pensava che quegli ufficiali avessero fatto qualcosa di male, doveva dire cosa; se li riteneva colpevoli della fuga di notizie sulla telefonata Fassino-Consorte al Giornale, non aveva che da dirlo. Invece ha fatto tutto in via riservata, alimentando sospetti di conflitti d’interessi su Unipol e fidandosi del comandante Speciale, uno che basta guardarlo in faccia per capire che ti frega. L’errore di partenza ne ha prodotti altri a catena: sabato abbiamo cacciato Speciale, ma nemmeno stavolta abbiamo spiegato chi è e perché lo Stato non può fidarsi di lui. Solo oggi il ministro Padoa-Schioppa analizzando vita e opere non edificanti del comandante licenziato ci ha fatto capire quel perché. Costui fa parte del giro del generale Pollari, che ha trasformato il Sismi in una palude di dossier illegali, veline fasulle e stecche a giornalisti compiacenti e, pare, addirittura di sequestri di persona. Ma anche su Pollari abbiamo sbagliato: scaduto al Sismi, l’abbiamo nominato giudice del Consiglio di Stato, lui che è imputato di sequestro di persona; l’abbiamo coperto col segreto di Stato, salvo poi fare retromarcia; e l’abbiamo pure nominato consulente di Palazzo Chigi anziché spedirlo a casa. Idem per Pio Pompa, pure lui coinvolto nei dossier e nel sequestro Abu Omar: l’abbiamo tolto dal Sismi e promosso dirigente del ministero della Difesa. Lo stesso errore abbiamo commesso con Speciale offrendogli un posto alla Corte dei Conti, come se questa fosse la discarica pubblica, anziché spedirlo a casa e spiegare al Paese perché non poteva più comandare la Guardia di Finanza, anche se piace molto a Fiorello. Ecco: in tutti i nostri errori s’è incuneato come lama incandescente nel burro il centrodestra. Che, diversamente da noi, sa come fare l’opposizione. Quando l’Unità e altri giornali amici denunciavano le porcate della Banda Berlusconi, infinitamente più gravi dei nostri recenti errori, noi li invitavamo a non «demonizzare». Quando i girotondi scendevano in piazza contro le leggi vergogna, li snobbavamo o li accusavamo di radicalismo e giustizialismo, alla ricerca di un fantomatico «dialogo col Cavaliere». Ora ce lo insegna lui come si fa l’opposizione: il suo Giornale racconta le nostre pagliuzze, la Cdl ne fa una battaglia politica, e noi che potremmo rispondere con le sue travi ce ne stiamo zitti. Se penso che Berlusconi solo un mese fa veniva applaudito al congressi Ds e Dl e addirittura invitato a entrare in Telecom, mi viene da piangere. Così lui oggi ci dà lezioni di morale, con i suoi Previti, i suoi Dell’Utri, i suoi 7 reati prescritti, i suoi fondi neri, il suo processo per evasione fiscale, i suoi condoni. E atteggiarsi a difensore della Gdf, lui che la definiva «associazione a delinquere». Ma ora basta. D’ora in poi ricorderemo chi sono Berlusconi e la sua banda. Comincio subito. Il capo dei servizi fiscali della Fininvest Salvatore Sciascia fu condannato in Cassazione per corruzione della GdF. Credete che l’abbiano cacciato? Come scriverà domani Franco Bechis su Italia Oggi, è socio di Michela Vittoria Brambilla nella Vittoria Media Partners Srl, editrice del Giornale delle Libertà. Se l’on. Massimo Maria Berruti volesse, potrebbe raccontarci di quando, capitano delle Fiamme Gialle, condusse un’ispezione valutaria all’Edilnord e interrogò Berlusconi sulle sigle svizzere retrostanti le sue società. Era il 1979. Lui si spacciò per «un semplice consulente», mentre era il proprietario. Berruti bevve tutto, archiviò e si dimise dal corpo. E andò a lavorare in Fininvest. Nel ‘94 fu arrestato e poi condannato a 1 anno e 8 mesi per i depistaggi sulle tangenti alla Gdf, dunque è deputato di Forza Italia. Per ora basta così, il resto alla prossima puntata. Ora scusate, ma devo correre a cancellare le leggi vergogna, perché non resti traccia del berlusconismo.

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MARCO TRAVAGLIOl’Unità (7 Giugno 2007)

venerdì, 24 novembre 2006 VITA AGRAMAGuarda un po', alle volte, le combinazioni. Mentre in Italia gli avvocati di Bellachioma ricusano l'ennesimo (trentesimo?centoventesimo?) giudice, ovviamente «prevenuto», e mentre il ministro Visco predispone un fisco speciale per i poveri Vip che evadono le tasse, negli Stati Uniti 50 agenti del reparto «colletti bianchi» dell'Fbi fanno irruzione negli uffici e nella villa del «socio occulto di Silvio Berlusconi» e suo coimputato, sequestrandovi dieci computer e uno scatolone. Il ritrovamento più compromettente è una manciata di timbri di società off-shore legate ad Agrama ma intestate a due cittadine di Hong Kong: la prova per l'accusa che i contratti sui diritti cine-tv, acquistati da società di Mediaset e di Agrama e fatti rimbalzare dall'una all'altra per gonfiare i prezzi e accantonare fondi neri, non erano stipulati a Hong Kong con la semplice mediazione di Agrama, ma negli Usa per sua iniziativa e in combutta con Berlusconi. Chissà perché Agrama non ha fatto sparire tutto: forse non ha capito che in Italia è cambiato il governo, e quello nuovo non è più presieduto dal suo coimputato, dunque ha smesso di ostacolare le rogatorie fra pm milanesi e americani. È proprio su richiesta dei pm Robledo e De Pasquale che è scattato il blitz a Hollywood, disposto dall'attorney di Los Angeles Jason Gonzales. Il quale, scoperto il trucco dei timbri, cioè che i redditi delle società non erano prodotti a Los Angeles ma a Hong Kong, potrebbe aprire un'inchiesta su Agrama per evasione fiscale: reato che lì è punito un po' più severamente dell'omicidio. E non solo lì: l'anno scorso i giudici svizzeri sequestrarono ad Agrama la bellezza di 140 milioni di franchi. È la vita grama, anzi Agrama, di chi prova a fare all'estero quel che Berlusconi fa in Italia. Ne sa qualcosa l'avvocato inglese David Mills, altro coimputato di Bellachioma: appena si scoprì a Londra quel che aveva fatto per Fininvest e Mediaset, entrò in un tunnel degli orrori dal quale non è più uscito: il suo commercialista, anziché coprirlo, lo denunciò all'Antiriciclaggio, e poi perquisizioni, sequestri, ispezioni, campagne giornalistiche e infine la separazione annunciata dalla moglie ministra per vivere in pace. In Italia intanto l'uomo che è accusato di essere il mandante di Mills e Agrama se la spassa raccontando barzellette sporche (per giunta vecchie) ai party della Santanchè, annuncia e smentisce l'addio alla politica, e prepara l'ennesimo addio ai tribunali. Non pago dell'indulto gentilmente offerto dalla sinistra più stupida del mondo e dell'ex-Cirielli varata appositamente due anni fa per garantirsi la prescrizione urbi et orbi, ora è impegnatissimo a evitare persino che il processo cominci. Così, tramite gli onorevoli avvocati, ricusa il presidente del Tribunale Edoardo D'Avossa prim'ancora che si sieda e apra la prima udienza. È la guerra preventiva applicata al diritto penale.

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Di cos'è accusato il giudice? Di essersi «già espresso sui fondi neri Fininvest». Nel '97 condannò Berlusconi per appropriazione indebita per i 10 miliardi di lire finiti sui suoi libretti al portatore dopo l'acquisto a prezzi gonfiati di Medusa Cinema (la Cassazione poi l'assolse, sostenendo che i fondi neri c'erano ma, essendo molto ricco, Berlusconi non s'era accorto di averli in tasca). Non contento, nel 2004 D'Avossa condannò Dell'Utri e il boss Virga per estorsione ai danni di un imprenditore trapanese dal quale il primo pretendeva 700 milioni di lire in nero; e scrisse nella sentenza che i fondi neri sono un «fatto notorio non solo per Publitalia, ma per l'intero gruppo Fininvest». Ecco, secondo lorsignori, se un giudice scrive che un'azienda ha fondi neri, non è perché l'azienda ha fondi neri, ma perché la toga è rossa. Si dà il caso però che i fondi neri Fininvest siano stati confermati da diverse sentenze definitive della Cassazione. Si chiamano «precedenti penali». Se uno ci ricasca, si chiama «recidiva». Secondo gli avvocati di Bellachioma, invece, si chiama "prevenzione" e il giudice deve sloggiare. È come se un tizio, condannato per rapina, si ritrovasse anni dopo davanti allo stesso giudice con la stessa accusa e lo apostrofasse dicendo: «Ancora tu? Ma non dovevamo vederci più?». In America e in Inghilterra finirebbe dentro su due piedi per oltraggio alla corte. In Italia, mal che vada, diventa capo dell'opposizione.

ULIWOOD PARTY MARCO TRAVAGLIOl'Unità 23 novembre 2006

sabato, 28 ottobre 2006 SCONTRO DI CIVILTÀ

Come volevasi dimostrare, negli ultimi quindici anni l’Italia non era spaccata fra destra e sinistra, ma fra mascalzoni e persone perbene. E le prime due categorie non coincidono sempre con le seconde, anche se non era mai capitato, nemmeno nei tempi più bui della Prima Repubblica, che per cinque anni un governo proteggesse un tale esercito di ladri e spioni. C’è il caso del sequestro di Abu Omar a opera della joint venture Cia-Sismi, che incredibilmente anche l’attuale governo ha deciso di coprire col segreto di Stato (o meglio, con la «bugia di Stato», per dirla con Claudio Fava, l’unico esponente dell’Unione che si batte contro quella plateale violazione dei diritti umani). C’è la centrale di spionaggio e disinformatija Sismi del leggendario Pio Pompa, braccio destro del direttore del servizio militare Nicolò Pollari, scoperta in Via Nazionale a Roma, da cui partivano i dossier-bufala per screditare e «disarticolare» magistrati perbene, giornalisti perbene, politici perbene, comprensibilmente invisi al governo Berlusconi. Collaboravano alle grandi manovre politici e giornalisti venduti (ma qualcuno lo faceva anche gratis: come diceva Victor Hugo, «c’è gente che pagherebbe per vendersi»). Uno, il

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prode Renato Farina in Betulla, pubblicò un dossier-patacca per dimostrare che Prodi, dall’Europa, aveva autorizzato i rapimenti Cia. Poi c’era la banda Telecom di Tavaroli & C.: anche loro spiavano e dossieravano giornalisti, magistrati e politici, ma solo quelli perbene. Dunque, anche Prodi. Dunque, meglio sorvolare. Poi, è notizia di ieri, c’erano settori «deviati» delle Fiamme Gialle e dell’agenzia delle Entrate che hanno spiato i conti di vari personaggi, compresi Prodi e la moglie (almeno 128 volte), senza cavarne un ragno dal buco (altrimenti il Giornale e Libero ci avrebbero informati in tempo reale). «Deviati», poi, si fa per dire, essendo altamente improbabile che dei semplici impiegati e marescialli prendano iniziative tanto gravi senza coprirsi le spalle. Avevano al governo uno dei più illustri evasori fiscali che la storia ricordi, ma spiavano Prodi per trovargli qualche bottone fuori posto. Infine abbiamo le telefonate dei vari Mancini & C., incriminati per il sequestro di Abu Omar, che cercavano sponde nel solito Gianni Letta, ma anche nel centrosinistra, anche nella cosiddetta «sinistra radicale», e immancabilmente ne trovavano. Fino a ieri, ci veniva autorevolmente e trasversalmente spiegato che il pericolo per la privacy viene dai giudici cattivi che fanno le intercettazioni legali e dai giornali che legalmente le pubblicano. Chissà se ora cambierà qualcosa. Anche perché la lista dei nemici da «destabilizzare», «disarticolare», «neutralizzare», «ridimensionare» è piuttosto interessante. Comprende politici come Violante, Visco, Veltri, Arlacchi e Leoluca Orlando, direttori come Flores d’Arcais, magistrati come Caselli, Borrelli, Bruti Liberati, gli interi pool di Milano e Palermo, vari pm romani, baresi, napoletani. Quel grande precursore di Totò Riina aveva dato la linea fin dal ’94: «Il governo Berlusconi si deve guardare dai Violante, dai Caselli, dagli Arlacchi». Più o meno le stesse cose aveva poi ripetuto il Cavaliere, senza nemmeno versargli il copyright.È una vera fortuna che quell’elenco esista e sia venuto alla luce. Dimostra che l’Italia dei mascalzoni le persone perbene da cui guardarsi le ha individuate tutte, o quasi. Curiosamente, si tratta delle stesse persone perbene che ampi settori «dialoganti» e «riformisti» del centrosinistra attaccano da anni come «demonizzatori», insultano come «giustizialisti», isolano come «estremisti», accusano di «esagerare» e di «girotondare». La destra più putrida del mondo sa bene chi sono i suoi nemici. La sinistra, non tutta e non sempre. Quando Gherardo Colombo, uno dei «disarticolandi», disse che gli inciuci bicamerali erano figli del ricatto e che la P2 non era mai morta, mancò poco che lo arrestassero: qualcuno gli chiederà scusa? A mano a mano che si scoprirà il doppiofondo dell’ultimo quinquennio, la parola «regime» usata dai noti demonizzatori de l’Unità, Micromega, Repubblica, Espresso, Diario, ma anche da Montanelli, Biagi, Sartori, Sylos Labini, Barbara Spinelli, potrebbe rivelarsi un leggiadro eufemismo. Ma non facciamoci illusioni. Nessuno si scuserà con chi ha avuto il torto di avere ragione.

 

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MARCO TRAVAGLIO

l’Unità 27 ottobre 2006  

sabato, 22 aprile 2006 LE LARGHE OFFESE DI BERLUSCONIMa certo, le «larghe intese»: come non averci pensato prima? Un «governissimo», o almeno un «tavolo» per «dialogare su tutto». Dal Quirinale all’economia, dalla politica estera alle riforme, a cominciare - si capisce - dalla giustizia e dal conflitto d’interessi. L’idea, lanciata dal Cavaliere un minuto dopo aver perso le elezioni (senza mai riconoscerlo), è eccellente. Lui ci lavora da tempo. Sono anni che il premier uscente (si spera) si produce in sforzi immani per riportare un po’ di balsamica concordia nell’arroventato clima politico.Già il 25 marzo ’94, vigilia delle sue prime elezioni, rassicurava: «Se la sinistra andrà al governo controllerà la stampa, la tv e l'economia attraverso i processi, le prigioni e l’esilio». Quando poi Bossi rovesciò il suo governo, pretendeva le elezioni anticipate anche se in Parlamento la maggioranza era contraria. E, visto che Scalfaro obbediva al Parlamento, gli diede del «golpista». Nel 1995, quando a dispetto degli exit poll dell'amico Luigi Crespi perse le elezioni regionali, riconobbe sportivamente la sconfitta: «Gli elettori si sono sbagliati: erano giusti gli exit poll». E, per le politiche del ‘96, rilasciò una dichiarazione distensiva: «Siamo sicuri che, se vince l’Ulivo, ci faranno ancora votare?». Anche Previti rassicurò gl’italiani: «Stavolta non faremo prigionieri». Non bastò. E il Cavaliere, con squisito spirito istituzionale, si congratulò con Romano Prodi: «I professionisti della sinistra ci han sottratto un milione e 171 mila schede. La sinistra ha una lunga tradizione di brogli» (col tempo i «voti rubati» divennero «1 milione e 700 mila», ad abundantiam).Antesignano delle larghe intese, Berlusconi sosteneva che «il governo Prodi si comporta come il governo Mussolini quando chiese i pieni poteri nel 1926, e fu dittatura per vent’anni. L'Italia non è uno Stato democratico, ma uno Stato poliziesco, l'unico in Occidente il cui governo è appoggiato da un partito di estrema sinistra che crede ancora in Marx ed Engels», tant'è che «l’opposizione sta diventando non più un diritto democratico, ma un rischio personale: io rischio la mia vita». Infatti di lì a poco, nell'ottobre ‘98, il partito di Marx ed Engels rovesciò Prodi e al governo arrivò D’Alema con Cossiga e Mastella. E Berlusconi ancora lì a chiedere grandi intese: «Siamo al regime. Una democrazia ferita, senza vera libertà, con l’occupazione dei posti di potere, delle tv, delle aziende del parastato, con i posti di lavoro usati per attirare nuove clientele e l’uso politico della giustizia, le visite della Guardia di Finanza per spaventare chi non accetta di chinare la testa, il controllo della vita privata nostra e dei nostri cari». Nel 2000 D'Alema, novello Stalin, si dimise per aver perso le elezioni regionali. Arrivò il terzo premier rosso, Giuliano Amato. E Berlusconi sempre lì con la mano tesa: «Chiameremo tutti i giorni Amato l’utile idiota a Palazzo Chigi».Nel 2001, fortunatamente, tornò la democrazia con la vittoria berlusconiana. Ma per poco, perché i brogli delle sinistre ripresero a dopare le elezioni comunali, provinciali, regionali, europee e suppletive, tutte vinte dall’Ulivo. Ma il Cavaliere, stoico, sopportò cristianamente i soprusi e seguitò a invocare il dialogo: «Se la sinistra andasse al governo, questo sarebbe l’esito: miseria, terrore, morte. Come avviene ovunque governi il comunismo» (17-1-05). «In Italia c'è uno Stato parallelo: quello organizzato dalla sinistra nelle scuole e nelle università, nel giornalismo e nelle tv, nei sindacati e nella magistratura, nel Csm e nei Tar, fino alla Consulta. Se si consentirà a questo Stato occulto di unirsi allo Stato palese, avremo in Italia un regime vendicativo e giustizialista» (5-4-05). Una campagna elettorale distensiva quant’altre mai: «La democrazia e la libertà nel nostro Paese non sono ancora garantite, perché c’è un’opposizione che ancora sventola nelle sue bandiere i simboli del terrorismo e della tirannide

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sovietica» (21-11-2005). «C'è un’opposizione illiberale che vorrebbe che noi non votassimo» (22-11-2005). «Dobbiamo fare una colossale operazione verità: spiegare che quelli della sinistra, se andassero al governo, porterebbero il Paese al fallimento, costringerebbero i piccoli imprenditori a chiudere, i produttori di vino a non vendere più bottiglie, almeno negli Stati Uniti, gli industriali della moda alla crisi, il made in Italy a non essere più apprezzato sui mercati... Questa sinistra vorrebbe tanto ricoverarmi: li vedo come si voltano alla Camera per non salutarmi» (25-11-2005). «Quelli della sinistra restano comunisti. Sono da eliminare, se non fisicamente, politicamente» (26-11-05). «Se vince la sinistra, addio democrazia» (13-12-05). «Se vince la sinistra, è per i suoi brogli» (4-4-2006).Con queste premesse, è naturale che si inizi a lavorare intorno a un governo di larghe intese. Non si contano i leader dell'Unione che il Cavaliere ha gratificato in questi anni della sua stima e del suo apprezzamento. Prodi: «leader d’accatto», «maschera dei comunisti», «utile idiota», «bollito», «poveraccio» che «passava il tempo a svendere aziende pubbliche ai suoi amici». Rosi Bindi: «Lei e Prodi sono come i ladri di Pisa: litigano di giorno per rubare insieme di notte». Francesco Rutelli: «In vita sua, non ha mai varcato la soglia di un posto di lavoro». Walter Veltroni: «coglione» e «miserabile». Fabio Mussi: «un sosia di Hitler». Armando Cossutta: «uno che gestiva bande armate negli anni non lontani del dopoguerra e ha continuato fino a pochi anni fa». E poi D’Alema: «comunista», «stalinista», uno che «non riesce nemmeno a dire il suo nome e cognome per intero, perché due verità di fila lo ucciderebbero» e «usa lo Stato come il garage di sua zia, non è laureato, è stato a Mosca 33 volte e lanciava le molotov», insomma «mi ricorda Benito Mussolini». Per non parlare di Piero Fassino: «complice morale del compagno Pol Pot» e «testimonial ideale delle pompe funebri».Ecco, come stupirsi per la proposta di un governissimo con i rappresentanti di «milioni di coglioni che votano contro il proprio interesse»? Con gli eredi-complici di chi «nella Cina di Mao bolliva i bambini per concimare le campagne»? Se il Cavaliere non vede l’ora di governare con quei «Prodi, Bertinotti e Rutelli» che solo il 6 aprile, sulla rivista «Pocket», definiva «come la gramigna che infesta tutto ed è difficile da estirpare», come dubitare della sua buona fede? Se Giulio Tremonti non sta più nella pelle di collaborare con Visco e Amato che chiamava «gangster» e con Fassino («aviaria dell’economia» e «uccellaccio del malaugurio»), e se Antonio Martino agogna un dialogo con quell’Unione che un mese fa dipingeva come «una congrega di mascalzoni», come non prenderli sul serio? È una questione di coerenza. «Non si può consentire a chi è stato comunista di andare al governo», aveva giurato il Cavaliere l’11 maggio 2003. Infatti, coerentemente, non glielo consente.MARCO TRAVAGLIO l’Unità – 18 aprile 2006)

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ALFREDO VITOTOTÒ ANTIMAFIA

Mentre ti sale lo sconforto e ti vien da pensare che «questi sono come Berlusconi», una mano amica ti manda un’intervista di Totò Cuffaro al Giornale di Sicilia. E ringrazi di cuore Cuffaro, perché finché ci saranno lui e i suoi mandanti sarà difficile per il centrosinistra, nonostante gli sforzi, diventare come Berlusconi. Il governatore, fotografato senza la tradizionale coppola, annuncia che la sua Regione «vuol entrare nella gestione dei beni confiscati alla mafia, per accelerare il processo di assegnazione a enti o associazioni che li sfruttino per promuovere sviluppo e legalità». E minaccia di pubblicare ogni tre mesi «il bilancio trimestrale dell’attività della Regione contro Cosa Nostra». È vero che, se Pomicino e Vito fan parte dell’Antimafia, se Previti è onorevole, se Fiorani si propone come difensore civico dei consumatori dalle truffe delle banche, se Pollari è giudice del Consiglio di Stato e Pio Pompa dirigente della Difesa, se Gianpaolo Nuvoli che voleva impiccare Borrelli in piazza è direttore generale al ministero di Giustizia con delega ai diritti umani, manca solo Fabrizio Corona garante della Privacy. Dunque anche Cuffaro, imputato per favoreggiamento mafioso e indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, può partecipare alla lotta alla mafia. Non sarebbe la prima volta: l’aveva già fatto il suo amico Francesco Campanella, il giovanotto a mezzadria tra la politica (presidente dei giovani Udeur e del consiglio comunale di Villabate sciolto 2 volte per mafia) e il clan Mandalà, che fornì i documenti falsi a Provenzano per la trasferta ospedaliera a Marsiglia e, quando si sposò, esibì come testimoni Cuffaro e Mastella. Bene, Campanella era solito organizzare marce antimafia: premiò pure Raul Bova per l’indimenticabile interpretazione del Capitano Ultimo. Quindi non facciamo gli schizzinosi: se Cuffaro vuole lottare anche lui contro la mafia, lo si lasci entrare. Tutto si potrà dire tranne che non si tratti di un esperto del ramo. «Le procedure di assegnazione dei beni confiscati alla mafia», sdottoreggia il governatore imputato, «sono troppo lente. Ho chiesto al ministro degl’Interni di entrare nella gestione». Così, fra l’altro, si garantirebbe la necessaria continuità fra il prima e il dopo: l’assemblea regionale siciliana ha sei deputati indagati per mafia e un vicepresidente arrestato. Se i beni confiscati alle cosche passassero alla regione, nessuno noterebbe la differenza e si eviterebbero pericolosi salti nel buio. Ma Totò Antimafia si spinge oltre e promette «controlli preventivi nel sistema dei finanziamenti» pubblici e dei fondi comunitari di Agenda 2007, «affinché le risorse siano utilizzate al meglio evitando infiltrazioni mafiose». Anche perché «ancora si incontrano difficoltà a ottenere, in sede di assegnazione degli appalti, la certificazione antimafia». E meno male che la certificazione non devono rilasciarla anche i politici, altrimenti lui avrebbe qualche problemino. E così il suo spirito-guida Calogero Mannino, imputato di mafia, adulterazione di vini e truffa allo Stato finalizzata alla concessione di finanziamenti pubblici alla sua azienda vinicola Abraxas, dunque senatore dell’Udc: ieri la Guardia di Finanza, su ordine del gip di Marsala, ha sequestrato all’azienda beni per mezzo milione. Chissà se Mannino aveva la certificazione antimafia: pare di no, visto che di recente aveva dovuto dimettersi da presidente del Cerisdi, il centro studi palermitano d’eccellenza, perché il prefetto gliel’aveva negata, tagliando fuori l’istituto dai fondi pubblici. Mannino ottenne l’immediata solidarietà di Buttiglione e Cesa, ma pure da

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Follini, ultimo acquisto del Pd: tutti sdegnati contro il prefetto che osa negare il certificato antimafia agl’imputati di mafia. Mannino, sobriamente, lo paragonò ai prefetti fascisti «che mandavano al confino Gramsci e Pertini». Ora Totò illustrerà i propri solidi meriti antimafia («abbiamo finanziato la ristrutturazione di un capannone da adibire a laboratorio di indagine chimica della polizia scientifica») in un libro, ovviamente a spese della Regione: «Il nostro no alla mafia». L’ultima volta che patrocinò un libro - un’enciclopedia sulla Sicilia - incaricò Andreotti di compilare la voce «Salvo Lima». Questa volta, per cambiare, potrebbe affidare la prefazione a Dell’Utri.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIO l’Unità (25 Luglio 2007)

martedì, 17 luglio 2007 BERTINOTTI-TRAVAGLIO: POSTA E (RIS)POSTA PRIORITARIA

LA RISPOSTA DI FAUSTO BERTINOTTI

Roma, 21 giugno 2007 Egregio dottor Travaglio, …..

venerdì, 06 luglio 2007 FORZA LADRI

Un filo rosso, anzi marron collega le spiate del Sismi, il voto del consiglio comunale di Roma per dedicare una via a Craxi e le manovre di Forza Italia per far saltare il processo Mondadori in Cassazione. È lo stesso filo rosso, anzi marron, che ha impedito finora alla politica e all’informazione al seguito di dire la verità sulla sentenza della Cassazione che ha dichiarato Giulio Andreotti mafioso fino al 1980 ma prescritto. Come ha osservato giustamente Livio Pepino, se la mafiosità di Andreotti, simbolo del potere, non esiste o non conta, vuol dire che tutti i potenti saranno autorizzati a intrattenere rapporti con la mafia. La rimozione forzata della verità non riguarda soltanto lui: è un lasciapassare per tutti, a futura memoria. I dossier di Pollari&Pompa su magistrati, politici e giornalisti non allineati, dunque pericolosi per Berlusconi, dunque da “destrutturare con azioni traumatiche” sono noti da un anno. Da allora Pollari e Pompa sono stati promossi, il primo al Consiglio di Stato e a Palazzo Chigi, il secondo al ministero della Difesa. Ora, dopo un anno di cincischiamenti, il Csm ha fatto chiarezza: quelli non erano ”servizi deviati”, ma istituzionali, piegati al servizio non della Repubblica, ma di un clan, il solito. E ora di chi è la colpa? Non di chi ha commesso il fatto, ma di chi l’ha denunciato: il Csm. Lo dice la Casa delle Impunità, e si può capirla. Ma lo scrivono pure commentatori, per così dire, indipendenti. Augusto Minzolini parla su La Stampa di “atto destabilizzante”. Ma non da parte del Sismi: da parte del Csm, “una parodia del Parlamento” che infanga “il decoro delle istituzioni”. E’ l’eterna fiaba di Pinocchio. Il burattino viene derubato? Che si arresti il burattino! Commentando sul Corriere il voto su Via Craxi e la dura critica di Padellaro, il senatore veltroniano Goffredo Bettini ha voluto addirittura agganciarlo al nascente Partito democratico: “Lavoriamo a un progetto, quello del Pd, che cerca di chiudere un periodo di grande transizione che ha attraversato il Paese. Possibile che si debba ancora star qui a discutere se Craxi è stato il bene o il male?”. Davvero il Pd si propone di archiviare Mani Pulite mettendo insieme colpevoli e innocenti? Su un punto Bettini ha ragione: su Craxi non c’è nulla da discutere. Grande esperto di dossier sui giudici, aveva 50 miliardi su 3 conti svizzeri personali, è stato condannato definitivamente per corruzione e finanziamento illecito a 10 anni, è fuggito all’estero per non finire in galera. A uno così non si

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intestano le strade. Punto e fine della discussione. Si riparla pure di Previti: condannato a 1 anno e 6 mesi in appello per aver comprato la sentenza Mondadori, “in continuazione” con la condanna definitiva a 6 anni per Imi-Sir, l’onorevole abusivo comparirà dinanzi alla Suprema Corte l’11 luglio. Se la condanna divenisse definitiva, Previti perderà l’affidamento ai servizi sociali (ottenuto grazie all’indulto) e tornerà in carcere. Ecco perché i pasdaran azzurri Bondi, Cicchitto, Vito e Leone hanno presentato un’interrogazione a Mastella per denunciare lo “zelo” e l’”accelerazione forsennata” della Cassazione, che ha fissato l’udienza entro la pausa estiva. Per i Quattro dell’Ave Cesare, è “un’operazione ad personam contro Previti”. In realtà, come spiega il Pg Vito D’Ambrosio, la Corte ha seguito “la prassi normale e consolidata” di dare la precedenza ai processi a rischio prescrizione. Qui, poi, non si tratta di una questioncella da poco: si tratta della corruzione del giudice Metta, pagato da Previti con soldi Fininvest per consegnare a Berlusconi il maggiore gruppo editoriale italiano. Il che puntualmente avvenne nel 1991. Ragion per cui, prima o poi, il Cavaliere dovrebbe restituire il maltolto. La cosa comprensibilmente inquieta i suoi discepoli. Le indagini risalgono al ‘95, l’udienza preliminare al ‘99, il dibattimento al 2001. Siamo al 2007: c’è qualcosa di sospetto in quest’«accelerazione forsennata».

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità (6 luglio 2007)

martedì, 15 maggio 2007 FAMILIARMENTE

Eminenza reverendissima cardinale Camillo Ruini,

mi rivolgo a lei anche se la so da poco in pensione, anziché al suo successore card. Bagnasco, perché lei è un po’ l’Andreotti del Vaticano: ha accompagnato la vita politica e religiosa del nostro paese per molti decenni. Come lei ben sa, non c’è paese d’Europa che abbia avuto tanti capi del governo cattolici come l’Italia. Su 60 governi in 60 anni, 51 avevano come premier un cattolico e solo 9 un laico: 2 volte Spadolini, 2 Craxi, 2 Amato, 2 D’Alema, 1 Ciampi, che peraltro si dichiara cattolico. In 60 anni l’Italia è stata governata per 52 anni da un cattolico e per 8 da un laico. Se la DC e i suoi numerosi eredi avessero fatto per la famiglia tutto ciò che avevano promesso, oggi le famiglie italiane dormirebbero tra due guanciali. Sa invece qual è il risultato? Che l’Italia investe nella spesa sociale il 26,4% del Pil, 5 punti in meno che nel resto d’Europa a 15, quella infestata di massoni, mangiapreti, satanisti e - per dirla con Tremaglia - culattoni. Se poi andiamo a vedere quanti fondi vanno alle famiglie e all’infanzia nei paesi che non hanno avuto la fortuna di avere in casa Dc e Vaticano, scopriamo altri dati interessanti. L’Italia è penultima in Europa col 3,8% della spesa sociale alle famiglie, contro il 7,7% dell’Europa, il 10,2% della Germania, il 14,3% dell’Irlanda. Noi diamo alla famiglia l’1,1% del Pil: meno della metà della media europea (2,4). Sarà un caso, ma noi siamo in coda in Europa per tasso di natalità: la Francia ha il record con 2 figli per donna, la media europea è 1,5, quella italiana 1,3. E il resto d’Europa ha i Pacs, noi no: pare che riconoscere i diritti alle coppie di fatto non impedisca le politiche per la famiglia, anzi. Lei che ne dice?

Lei sa, poi, che per sposarsi e fare figli, una coppia ha bisogno di un lavoro stabile. Sa quanto spendiamo per aiutare i disoccupati? Il 2% della spesa sociale, ultimi in Europa. La media Ue è il 6%. La Spagna del terribile Zapatero spende il 12,5. I disoccupati che ricevono un sussidio in Italia sono il 17%, contro il 71 della Francia, l’80 della Germania, l’84 dell’Austria, il 92 del Belgio, il 93 dell’Irlanda, il 95 dell’Olanda, il 100% del Regno Unito. E per i giovani è ancora peggio: sotto 25 anni, da noi, riceve il sussidio solo lo 0,65%; in Francia il 43, in Belgio il 51, in Danimarca il 53, nel Regno

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Unito il 57. Poi c’è la casa. Anche lì siamo penultimi: solo lo 0,06% della spesa sociale va in politiche abitative (la media Ue è il 2%, il Regno Unito è al 5,5). Se in Italia i figli stanno meglio che nel resto del mondo, anche perché sono pochissimi, per i servizi alle madri siamo solo al 19° posto.

Forse, Eminenza, visto il rendimento dei politici cattolici o sedicenti tali, avete sempre puntato sui cavalli sbagliati. O forse, se aveste dedicato un decimo delle energie spese per combattere Dico e i gay a raccomandare qualche misura concreta per la famiglia, non saremmo i fanalini di coda dell’Europa: perché i nostri politici le promesse fatte agli elettori non le mantengono, ma quelle a voi le mantengono eccome. Sono proprio sacre.

Ora speriamo che il Family Day faccia il miracolo. A questo proposito, vorrei mettere una buona parola per evitare inutili imbarazzi. Come lei sa, hanno aderito all’iniziativa moltissimi politici così affezionati alla famiglia da averne due o tre a testa. Come Berlusconi, che ha avuto due mogli, senza contare le giovani e avvenenti attiviste di Forza Italia con cui prepara il Family Day nel parco di villa Certosa.

Le cito qualche altro esempio da un bell’articolo di Barbara Romano su Libero. Vediamo la Lega, che fa fuoco e fiamme per la sacra famiglia. Bossi 2 mogli. Calderoli 2 mogli (la seconda sposata con rito celtico) e una compagna. Castelli, una moglie in chiesa e l’altra davanti al druido. Poi c’è l’Udc, l’Unione democratico cristiana, dunque piena di separati e divorziati. Divorziato Casini, che ha avuto due figlie dalla prima moglie e ora vive con Azzurra. Divorziati l’ex segretario Follini e il vicecapogruppo Giuseppe Drago, mentre la vicesegretaria Erminia Mazzoni sta con un divorziato. D’Onofrio ha avuto l’annullamento dalla Sacra Rota. Anche An è ferocissima contro i Dico. Fini ha sposato una divorziata. L’on. Enzo Raisi ha detto:“Io vivo un pacs”. Altro “pacs” inconfessato è quello tra Alessio Butti e la sua compagna Giovanna. Poi i due capigruppo: alla Camera, Ignazio La Russa, avvocato divorzista e divorziato, convive; al Senato, Altero Matteoli, è divorziato e risposato con l’ex assistente. Adolfo Urso è separato. L’unico big in regola è Alemanno:si era separato dalla moglie Isabella Rauti, ma poi son tornati insieme. Divorziati gli ex ministri Baldassarri (risposato) e Martinat (convivente). La Santanchè ha avuto le prime nozze annullate dalla Sacra Rota, poi ha convissuto a lungo.

E Forza Italia? A parte il focoso Cavaliere, sono divorziati il capogruppo alla Camera Elio Vito e il vicecapogruppo Antonio Leone. L’altro vice, Paolo Romani, è già al secondo matrimonio: «e non è finita qui», minaccia. Gaetano Pecorella ha alle spalle una moglie e “diverse convivenze”. Divorziati anche Previti, Adornato, Vegas, Boniver. Libero cita tra gli irregolari persino Elisabetta Gardini, grande amica di Luxuria, che ha un figlio e (dice Libero) convive con un regista. Frattini, separato e convivente, è in pieno Pacs. Risposati pure Malan, D’Alì e Gabriella Carlucci, mentre la Prestigiacomo ha sposato un divorziato. E al Family day ci sarà pure la Moratti col marito Gianmarco, pure lui divorziato.

Ecco, Eminenza, personalmente sono convinto che ciascuno a casa sua sia libero di fare ciò che vuole. Ma è difficile accettare l’idea che questi signori, solo perché siedono in Parlamento, abbiano dal ‘93 l’assistenza sanitaria per i conviventi more uxorio e vogliano negarla a chi sta fuori. E che lei Eminenza non abbia mai tuonato contro i Pacs parlamentari.

Ora però non vorrei che qualche Onorevole Pacs disertasse il Family Day per paura di beccarsi una scomunica. Perciò mi appello a lei: se volesse concedere una speciale dispensa almeno per sabato, ne toglierebbe d’imbarazzo parecchi. Potrebbe pure autorizzarli a sfilare ciascuno con tutte le sue famiglie, magari entro e non oltre il

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numero di 3. Per far numero. Ne guadagnerebbe la partecipazione. Si potrebbe ribattezzare l’iniziativa Multifamily Day.

MARCO TRAVAGLIOPOSTA PRIORITARIA Annozero 10 maggio 2007

venerdì, 13 aprile 2007 I DILETTANTI DELL'ANTIMAFIA

A furia di attaccare i «professionisti dell'antimafia», dobbiamo accontentarci dei dilettanti. Ma immaginiamo un turista straniero che visita l'Italia per le feste pasquali e s'imbatte nei titoli di giornale che annunciano con enfasi la storica decisione della commissione Antimafia: «Si sconsigliano vivamente i partiti dal candidare gli imputati e i condannati per mafia e reati affini alle prossime elezioni amministrative». L'unica reazione possibile è fermare un passante italiano e domandare: «Ma perché, finora da voi si potevano candidare gli imputati e i condannati per mafia?». Certo che si poteva. Anzi, si faceva. E si potrà continuare a farlo (il divieto non è vincolante). Solo che i partiti che lo faranno dovranno sottoporsi a una draconiana sanzione sociale: quella di «dare pubbliche spiegazioni». Le stesse che han dato finora, le rare volte che qualcuno le chiedeva: se Forza Italia candida Dell'Utri, condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa, o Gaspare Giudice, imputato per mafia, se l'Udc candida Cuffaro, imputato per favoreggiamento alla mafia, o Mannino, imputato per concorso esterno, è perché queste preclare figure di statisti sono «perseguitati dai giudici». L'ex pm onorevole forzista Nitto Palma ha già avvertito tutti, a scanso d'equivoci: «Continueremo a candidare i politici perseguitati».

Come si fa a distinguere un politico imputato o condannato da un politico perseguitato? Si fa così: se il politico è del tuo partito o di un partito alleato, è un perseguitato; se invece è di un partito avversario, allora non è un perseguitato e deve sparire. Ultimamente, però, c'è la tendenza a considerare perseguitati tutti i politici condannati o imputati, così una mano (sporca) lava l'altra. Oggi a me, domani a te.

Si spera che il turista straniero, già sconvolto da quei titoli, non venga a sapere che dell'Antimafia fanno parte due pregiudicati per corruzione e finanziamento illecito, Cirino Pomicino e Alfredo Vito, e un discreto numero di indagati. In pratica, Pomicino, dall'alto delle sue due condanne, e Vito, dall'alto del suo patteggiamento

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per 22 tangenti (con restituzione di 5 miliardi di lire di refurtiva) raccomandano ai partiti di attenersi alla più rigorosa legalità, evitando di candidare condannati (a parte loro due, si capisce). Non è meraviglioso?

Tutto ciò accade in un paese in cui, per essere ammessi a un incarico pubblico, bisogna esibire la fedina penale, e se questa non è immacolata non si può concorrere. Un paese in cui, per fare il carabiniere, bisogna non avere condanne, né processi, né parenti condannati o imputati. Un paese in cui i condannati per reati contro la pubblica amministrazione non possono candidarsi a consiglieri circoscrizionali, comunali, provinciali, regionali, né diventare assessori, né tantomeno sindaci o presidenti di provincia o di regione. Ma deputati e senatori sì, come pure ministri, sottosegretari, presidenti del Consiglio. Basterebbe estendere al governo, alla Camera e al Senato la legge degli enti locali. Ma dovrebbe proporla il governo e dovrebbero approvarla Camera e Senato. Il che, per la «contraddizion che nol consente», è una pia illusione.

Escludere imputati e condannati, poi, non basta: se uno ha commesso reati gravissimi, ma l'ha fatta franca per prescrizione (tipo Andreotti e Berlusconi), che si fa? Ci si accontenta dell'incensuratezza e si ignorano i reati accertati ma prescritti? E ritenere idoneo a ricoprire cariche pubbliche chiunque non abbia riportato rinvii a giudizio o condanne è già una resa all'immoralità: c'è una vasta gamma di comportamenti che non costituiscono reato, ma sono eticamente incompatibili con la «cosa pubblica». L'altro giorno hanno arrestato a Trapani, insieme a vari boss, l'ex vice di Cuffaro, Bartolo Pellegrino, che si spartiva le tangenti fifty fifty con i mafiosi. Anni fa era stato intercettato mentre definiva i carabinieri «sbirri» e «pezzi di cani», e i pentiti «infami». L'inchiesta fu archiviata, quella condotta non è reato: ma può fare politica uno che parla con e come i mafiosi? L'altroieri il senatore Ds Mirello Crisafulli - filmato nel 2002 a Pergusa mentre abbracciava e baciava il boss Bevilacqua e indagato con Cuffaro per rivelazione di segreti d'ufficio - è stato nominato dalla Camera nella commissione di vigilanza sulla Cassa depositi e prestiti. L'uomo giusto al posto giusto.

venerdì, 12 gennaio 2007 CORROTTI E RIMBORSATI

Un disegno di legge appena varato dal governo Prodi e firmato dal ministro della Funzione Pubblica Luigi Nicolais stabilisce il licenziamento automatico dei dipendenti pubblici condannati per corruzione, o concussione o peculato a pene superiori ai 3 anni. Anche se la pena è arrivata in seguito al patteggiamento. Oggi quell’automatismo non c’è: per licenziare un condannato bisogna aspettare il procedimento disciplinare della sua amministrazione, con tempi lunghissimi che si aggiungono a quelli biblici del processo penale. E oggi, soprattutto, il patteggiamento non vale una condanna: profittando dell’ambiguità della legge, c’è sempre qualche furbacchione che dice «è vero, ho patteggiato, ma non perché fossi colpevole: solo perché volevo levarmi dai piedi il processo e stare tranquillo».Siamo pieni di sedicenti innocenti che, a sentir loro, concordano col giudice anni di galera pur non avendo fatto nulla. La furbata serve ovviamente a mantenere un simulacro di rispettabilità sociale e, soprattutto, a scansare le sanzioni disciplinari. Con la legge Nicolais patteggiamento e condanna vengono finalmente equiparati: almeno per i pubblici dipendenti che superano i 3 anni. Ma fatta la legge, trovato l’inganno: secondo un’inchiesta di Gian Antonio Stella sul Corriere, i condannati per corruzione a più di 3 anni sono il 2% del totale. Tutti gli altri, grazie allo sconto di un terzo previsto dai riti alternativi

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(abbreviato e patteggiamento), si fermano sotto la fatidica soglia. Quindi il 98% dei condannati per corruzione resterebbero tranquillamente al loro posto, stipendiati coi nostri soldi. A meno che il governo non corregga la legge, prevedendo semplicemente il licenziamento di tutti i condannati, a un mese o a 10 anni non importa. Se ne potrebbe parlare a Caserta, se Mastella non se ne ha a male: chi ruba denaro pubblico, pochi euro o molti milioni fa lo stesso, deve sapere che sarà cacciato. Punto e basta. Anzi, non basta ancora. Una seria bonifica della Pubblica amministrazione, oggi infestata dai pregiudicati, esige un altro intervento urgente: la cancellazione della legge ex Cirielli, che dimezza i termini di prescrizione anche per la corruzione. Fino a due anni fa il corrotto che veniva scoperto era quasi certo di esser condannato in tempo utile, visto che il reato si prescriveva in 15 anni: quanto bastava per celebrare i tre gradi di giudizio. Dal 2005, grazie all’ex Cirielli, la prescrizione scatta al massimo dopo 7 anni e mezzo dalla commissione del reato: basta avere un mediocre avvocato armato di cavilli, o un avvocato parlamentare che fa slittare le udienze perché impegnato alla Camera, per essere sicuri di farla franca. Perché mai uno dovrebbe accettare uno sconto di pena col patteggiamento o con l’abbreviato, se resistendo in giudizio ha la certezza di non avere alcuna pena? Ultima questione: il presidente dell’Eni Paolo Scaroni, per dirne uno, ha patteggiato 1 anno e 4 mesi perché, quand’era alla Techint, pagava mazzette al Psi in cambio di appalti dall’Enel. Berlusconi lo promosse presidente dell’Enel e poi dell’ Eni. L’incensuratezza è richiesta solo ai dipendenti, o anche ai dirigenti pubblici? Come lo si spiega a un impiegato che lui dev’essere incensurato, mentre il suo capo può essere pregiudicato? E la regola Nicolais vale solo per il pubblico impiego o si estende al Parlamento e al governo? Difficile immaginare qualcosa di più «pubblico» di Montecitorio, Palazzo Madama e Palazzo Chigi. Eppure in Parlamento siedono 25 condannati definitivi (più una sessantina di imputati o indagati). Soprattutto per corruzione (18 casi). Tutta gente che, in base a una legge dello Stato, non può sedere in un consiglio comunale, provinciale o regionale, dove i pregiudicati sono ineleggibili. In Parlamento invece sono eleggibilissimi. L’altroieri il presidente dell’Antimafia Francesco Forgione invocava sull’Unità «una bonifica della politica» con «un censimento dei funzionari pubblici con processi in corso o sentenze in giudicato che seguitano a operare dove han commesso il reato». Fantastico. Ma si dà il caso che, nella sua Antimafia, i presidenti delle Camere abbiano appena nominato due condannati per corruzione, Vito e Pomicino, e che Forgione li abbia difesi. Ora sarà divertente spiegare a un impiegato delle Poste condannato per corruzione che deve lasciare il suo ufficio, ma, se vuole, può diventare deputato. E, se fa il bravo, pure commissario antimafia. 

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità del 12 dicembre 2007

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sabato, 30 dicembre 2006 ANNO ZERO

Piccolo gioco di società per Capodanno: immaginare che cosa accadrebbe se ciò che fa la Cdl l’avesse fatto a suo tempo il centrosinistra, e se ciò che fa l’Unione l’avesse fatto il Polo. Insomma, provare a riportare a testa insù un paese che cammina a testa ingiù. Per cinque anni Bellachioma ha infestato ogni fine anno con torrenziali sermoni raccontando carrettate di balle (leggendaria quella sul crollo del 247% degli sbarchi dei clandestini) e scaricando i suoi fiaschi sulla "pesante eredità del precedente governo delle sinistre", sull’euro, sull’11 settembre e sul clima sfavorevole. Ora che Prodi tiene una conferenza stampa sobria, ragionieristica, a tratti autocritica, viene investito da una grandinata di insulti: quelli risparmiati per un lustro a Bellachioma in nome del "dialogo col governo democraticamente eletto" (a differenza del governo Prodi, notoriamente frutto dei "brogli della sinistra" e mai riconosciuto come legittimo dallo sconfitto che continua a proclamarsi vincitore). Nel quinquennio berluscomico furono approvate alcune decine di leggi vergogna che assicuravano (e continuano ad assicurare, visto che sono tutte in vigore) l’impunità ai peggiori ladroni. Soprattutto a uno. Eppure nessuna ha avuto l’esposizione mediatica che giustamente sta avendo il comma salvaladri del prode Fuda. Ai tempi delle rogatorie, del falso in bilancio, della Cirielli, della Cirami, del lodo Maccanico, della Pecorella, se ne parlava per qualche giorno, poi tutto veniva dimenticato, mentre le alte cariche dello Stato invitavano alla "pacificazione" e i terzisti paraculi esortavano a "non demonizzare" sostenendo che comunque "il problema giustizia esiste" e bisogna "evitare la piazza". Ora basta un comma infilato da qualche mascalzone nella Finanziaria per occupare ogni giorno le prime pagine dei giornali, giustamente indignati e lanciati alla caccia della gelida manina. Su Previti, graziato dall’indulto e

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lasciato in Parlamento grazie alle meline della giunta della Camera, invece, silenzio. Forse perché lì le manine da stanare sarebbero troppe. Nel quinquennio berluscomico furono cacciati o emarginati dalla Rai Biagi, Santoro, Luttazzi, la Guzzanti, Freccero, Beha, Massimo Fini e altri. Anziché garantire un Cda Rai indipendente dai partiti che riportasse in onda i migliori professionisti, l’Unione ha lasciato in piedi quello vecchio. Così la gran parte degli epurati continua a non lavorare, mentre i Ds invitano a discutere del futuro della Rai gli epuratori Saccà e Del Noce. Ieri è stato arrestato in Calabria per mafia il vicepresidente della commissione regionale antimafia, Dionisio Gallo, ovviamente Udc (partito che, non a caso, ha per motto "Io c’entro"). Fosse del centrosinistra, tutto il centrodestra sarebbe sulle barricate a chiedere non solo le sue dimissioni, ma anche quelle del segretario del suo partito e, naturalmente, quelle di Prodi. Invece il centrosinistra che fa? Non dice una parola, anzi invita un giorno sì e l’altro pure l’Udc a entrare nell’Unione con tutto il cucuzzaro e, si presume, anche il Cuffaro. E fa buon viso all’ingresso nella commissione parlamentare antimafia di due pregiudicati per corruzione, Vito e Pomicino.

Prendiamo il caso Scaramella-Mitrokhin, che poi è il replay del caso Igor Marini-Telekom Serbia. Se il centrosinistra al governo promuovesse due commissioni parlamentari per dimostrare che Bellachioma ha preso tangenti dal regime delle Isole Andemane e aveva rapporti coi servizi segreti delle Barbados ed è coinvolto nei delitti del mostro di Firenze, ingaggiando come testimoni dei pataccari poi arrestati per calunnia, il centrodestra scatenerebbe giustamente il finimondo, spalleggiato da stampa e tv, che non parlerebbero d’altro fino alle dimissioni dei parlamentari coinvolti. Invece tutto ciò l’ha fatto il centrodestra, raccogliendo in combutta con i servizi e diffondendo a piene mani dossier fasulli contro Prodi: e l’Unione che fa? Porge l’altra guancia e tiene fuori dal Parlamento i parlamentari (Bielli, Zancan, Kessler) che, a mani nude, hanno smontato quelle macchinazioni. Si potrebbe almeno osservare che, se da 15 anni cercano prove contro Prodi senza trovare nemmeno uno spillo, forse vuol dire che Prodi è una persona perbene. Ma nessuno si azzarda a ipotizzarlo: se si sparge la voce, cade il governo.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIO

l'Unità 29 dicembre 2006 domenica, 17 dicembre 2006

FUDA PER LA VITTORIA

Mentre alcuni illuminati parlamentari dell’Unione scattavano come un sol uomo per sventare una gravissima emergenza nazionale, e cioè il nuovo film di Vanzina con Massimo Boldi, tra il lusco e il brusco una manina furtiva infilava nel maxi-emendamento della finanziaria un codicillo di tre righe (comma 1346) che dimezza la prescrizione per i reati contabili, cioè per i processi dinanzi alla Corte dei Conti. Una Cirielli bis per garantire l’impunità a migliaia di politici e manager che hanno derubato o danneggiato la pubblica amministrazione. Visto

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che a fine 2005 i processi pendenti erano 5600, l’inventario dei danni è presto fatto: il Pg Claudio De Rose calcola 310 milioni di euro sottratti all’erario.

Le solite anime belle parlano di «errore», di «svista», di «leggerezza». Ma una porcata del genere nel maxiemendamento non ci è entrata da sola. O per caso. Ce l’ha infilata - tra l’altro dopo una prima bocciatura - qualcuno, che merita di essere citato con tutti gli onori, perché se ne assuma la responsabilità e perché gli elettori sappiano.

Il primo firmatario è il senatore calabrese Pietro Fuda, già presidente forzista della Provincia di Reggio, poi riciclatosi nell’Unione al seguito del governatore Loiero, poi eletto nella lista Consumatori, poi passato alla Margherita e ora galleggiante nel gruppo misto come fondatore di un nuovo partito di cui si sentiva davvero il bisogno: il Democratico Meridionale.

Alla sua firma se ne sono aggiunte altre sei, probabilmente per strappare il suo voto alla finanziaria: il rutelliano Zanda, vicecapogruppo dell’Unione, il mariniano Ladu, i margheriti sciolti Sinisi, Bruno e Boccia e il diessino Iovene. Ora, dopo il sollecito attivarsi di Salvi, Villone, Finocchiaro, Manzione, Di Pietro e altri, pare che la porcata non passerà e sarà cancellata per decreto. Ma, grazie ai Magnifici Sette, Silvio Berlusconi - sorprendendosene lui stesso - ha potuto accusare l’Unione di «fare leggi ad personam». E il governo Prodi ha subìto un altro colpo sulla questione morale, come se non bastassero l’indulto extralarge, l’inciucio Mastella sull’ordinamento giudiziario Castelli, le manfrine sul caso Previti, la «nuova» Antimafia con Vito e Pomicino, la mancata abrogazione delle leggi vergogna, i minuetti sul conflitto d’interessi, la difesa della Gasparri alla Corte Europea, i minuetti su Pollari & Pompa. Tanto poi i fischi li becca Prodi, e i partiti cosiddetti alleati pretendono pure la Fase Due, come se la Uno fosse opera sua.

Poi Giuliano Amato si meraviglia perché nel paese, intorno ai partiti, c’è un brutto clima di «antipolitica». Strano, eh? Dopo aver sorseggiato bile a ettolitri, il lettore-elettore si domanda come certe cose siano possibili e cosa facciano i suoi «rappresentanti» quando non devono partecipare all’avvincente dibattito sul partito democratico. E scopre - da un’intera pagina sulla Stampa - che «Mastella fa outing sui capelli: “È vero, li tingo, è un’innocente illusione di gioventù che pago con la schiavitù del ritocco...». Apprende pure che, nella sua mission impossible in Campania, dove alla criminalità esistente si sono aggiunti 7-8 mila detenuti scarcerati dall’indulto, il ministro dell’Interno Amato lancia un fondamentale appello contro i cantanti «neomelodici». Infine, se riesce ad arrivare lucido alla pagina degli spettacoli, trova pure traccia di quel che dicevamo all’inizio: la crociata di quattro parlamentari contro Boldi e Salemme. Anch’essi meritano una speciale menzione a beneficio degli eventuali elettori: la dl Villari, la verde De Petris, il ds Ceccuzzi e il rifondatore Di Lello. Invocano fantomatici «criteri da fissare per individuare quali film possono trovare spazio nella tv pubblica» e la invitano a boicottare «Olè» perché «non formativo» e per giunta «offensivo per le categorie degl’insegnanti e degli studenti». Se poi nella finanziaria ci scappa una norma salvaladri non è colpa loro: avevano altro da fare.

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ULIWOOD PARTY

MARCO TRAVAGLIO

l'Unità 16 dicembre 2006 lunedì, 27 novembre 2006

SPECCHIO DELLE MIE BRAME

L'idea di combattere la mafia con Vito e Pomicino, condannati per corruzione, ha destato un certo scandalo nell'opinione pubblica. Ma non ha minimamente turbato il neopresidente della commissione Antimafia Francesco Forgione. Il quale anzi, in un'intervista al Corriere, difende l'illustre consesso così ben composto. E se la prende pure con i pochissimi che hanno osato sollevare obiezioni, tra i quali Nando Dalla Chiesa sull'«Unità», accusandoli di spargere «veleni» per «delegittimare l'istituzione» e tirando addirittura in ballo gli attacchi a Falcone e Borsellino. Chi ha conosciuto Forgione fino a 8 mesi fa, quando all'assemblea siciliana chiedeva le dimissioni del governatore Cuffaro «soltanto» indagato e poi «soltanto» rinviato a giudizio per favoreggiamento alla mafia, non può non ipotizzare un caso di omonimia, o di amnesia, o di possessione.1. «Nella scorsa legislatura -dice Forgione- Dalla Chiesa fu parte di un'Antimafia in cui tre membri avevano vicende giudiziarie in corso o già risolte, eppure non ricordo di aver sentito sollevare questo argomento». Ma intanto la precedente Antimafia non ospitava alcun pregiudicato: questa ne ha due. Dalla Chiesa era uno dei tanti membri della commissione, non il presidente. E, soprattutto, l'altra volta la maggioranza e la presidenza erano della Cdl: ora sono dell'Unione, i cui elettori forse si attendevano qualcosa di diverso sulla questione morale, o penale. O no?2. «Il Parlamento è lo specchio del Paese«. Una vecchia solfa che poteva reggere quando i parlamentari li eleggevano gli elettori. Stavolta - complice il "porcellum" di Calderoli, biecamente sfruttato anche dai partiti dell'Unione con le liste bloccate senza primarie sui candidati - i parlamentari li hanno nominati dieci segretari riuniti a Roma. Il problema non sono più gli elettori che votano condannati e inquisiti: sono i partiti che li candidano nei posti sicuri. Forgione sostiene che Rifondazione non l'ha fatto. Ma non è vero: a parte Francesco Caruso, c'è Daniele Farina, condannato per fabbricazione e porto abusivo di esplosivi, resistenza a pubblico ufficiale, lesioni gravi, nominato addirittura vicepresidente della commissione Giustizia. L'uomo giusto al posto giusto. E poi dove sta scritto che il Parlamento dev'essere lo specchio del paese, con i delegati delle categorie criminali? Siccome abbiamo molti spacciatori, rapinatori e pedofili, si prevederà una quota di rappresentanza anche per costoro?3. Forgione è angosciato dal «clima pericoloso che si respira in vari settori dell'informazione e dei cosiddetti movimenti, per cui destra e sinistra sono uguali, la politica è tutto scambio e inciucio». Giusto. Se però evitasse di giustificare chi manda in Antimafia pregiudicati per corruzione, aiuterebbe a

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smentire quelle orrende dicerie. Perché, se dice che «è sempre stato così anche in passato», qualcuno si domanderà che senso abbia andare a votare per un futuro migliore. Chi voleva conservare il passato il 9-10 aprile ha votato Berlusconi o è rimasto a casa.4. «Dopo che un candidato è stato eletto al Parlamento, non si possono mettere confini alla sua attività. Gli unici sono quelli posti dalla Costituzione». Oh bella: e allora perché Forgione chiedeva le dimissioni di Cuffaro, visto che nessuna legge o articolo della Costituzione impone agli inquisiti e agli imputati di dimettersi? «Per ragioni politiche», risponde. Perfetto: e allora perché le stesse ragioni politiche non valgono per Pomicino e Vito? Angela Napoli (An) e Orazio Licandro (Pdci) avevano proposto di escludere imputati e condannati dall'Antimafia: perché tutti gli altri, Forgione incluso, hanno votato contro? Qualcuno dirà: anche se glielo si chiede, Vito e Pomicino non si dimettono. Già. Ma, se non gradisce la compagnia, potrebbe sempre dimettersi il presidente. Non gliel'ha mica prescritto il medico, di presiedere «questa» Antimafia. Paolo Sylos Labini, quand'era consulente del ministero del Bilancio, si vide arrivare come sottosegretario Salvo Lima. Protestò subito: "O Lima o io". Andreotti rispose: «Lima non si tocca». E Sylos Labini se ne andò, su due piedi. Era il 1974. Altri tempi. Altri uomini. 

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità 24 novembre 2006

domenica, 19 novembre 2006 SI FA PRESTO A DIRE ANTIMAFIAS’è finalmente insediata, a sette mesi dalle elezioni, la nuova commissione parlamentare Antimafia. La buona notizia è che il presidente non è più il forzista Roberto Centaro, che un anno fa riuscì con gli amici della Cdl a varare una relazione che sbianchettava la sentenza Andreotti: non gli piaceva che i giudici della Cassazione avessero confermato le accuse della Procura di Caselli, dichiarando il senatore a vita colpevole di associazione per delinquere con la mafia fino al 1980, reato «commesso» ma prescritto; così decise di scrivere un’altra sentenza in cui sosteneva che «i giudici hanno malamente sbugiardato le accuse» che invece avevano confermato. Il nuovo presidente è Francesco Forgione del Prc, che fino a un anno fa, quand’era deputato regionale in Sicilia, condusse una dura e solitaria battaglia per le dimissioni di Totò Cuffaro, rinviato a giudizio per favoreggiamento alla mafia. Poi entrò in Parlamento e diede l’impressione di riposizionarsi un filino.

Quando Angela Napoli di An e Orazio Licandro del Pdci proposero di escludere dall’Antimafia gli imputati e i condannati per mafia e gli avvocati dei mafiosi, obiettò inorridito che non era il caso per «non limitare le prerogative dei parlamentari». Quasi che, fra le prerogative dei parlamentari, rientrassero pure i processi e le condanne per mafia. Sembrerà strano, ma si può fare il

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parlamentare anche da incensurati. Forse i condannati e gl’imputati per mafia potrebbero essere più utili in altre commissioni, mentre inserirli nell’Antimafia sarebbe un ossimoro.Bocciati dunque gli emendamenti Napoli e Licandro, ci si domandò quali fossero gli imputati e i condannati per mafia che aspiravano a combatterla. Dell’Utri? Cuffaro? Mannino? Giudice? Nessuno fortunatamente ha avuto l’ardire. In compenso nella nuova Antimafia fanno il loro ingresso trionfale due pregiudicati per tangenti: Paolo Cirino Pomicino della Nuova Dc (notare la spiritosaggine di quel «nuova»), condannato per finanziamento illecito e corruzione; e l’indimenticabile Alfredo Vito, detto Alfredone ‘o Prevete e Mister Centomila Preferenze, pure lui ex dc, l’uomo che confessò 22 mazzette, restituì 5 miliardi di lire sull’unghia, patteggiò 2 anni per corruzione in cambio della promessa di ritirarsi per sempre dalla politica, poi corse a candidarsi in Fi e tornò in Parlamento. L’idea di combattere la mafia con i corrotti potrebbe dare i suoi frutti. È come combattere le rapine con gli scippatori, lo spaccio con i rubagalline, la pedofilia con i truffatori o l’evasione fiscale con Berlusconi. Potrebbe funzionare. Completano il quadro i forzisti Carlo Vizzini, salvato dalla prescrizione al processo per la maxitangente Enimont (300 milioni di illecito finanziamento dalla Ferruzzi); e il senatore Franco Malvano, ex questore di Napoli trombato alle comunali dalla Jervolino, che un anno fa - rivelò l’Espresso- era indagato per concorso esterno in associazione camorristica: il boss pentito Luigi Giuliano lo accusava di essere stato «nelle mani della camorra». Se fosse ancora indagato, la sua presenza in Antimafia sarebbe un fatto davvero avvincente: confermerebbe che, contro le mafie, si sta tentando una cura omeopatica. La delegazione italoforzuta è impreziosita dalle presenze eccellenti di Luigi Vitali, l’avvocato pugliese già coautore dell’ex-Cirielli che ha mandato in prescrizione qualche centinaio di migliaia di processi ed è stato premiato, nella scorsa legislatura, col sottosegretariato alla Giustizia; e dal calabrese Antonio Gentile, che nel 1987 fu arrestato per la mala gestione della Carical (3500 miliardi di buco, poi il processo finì nel nulla): geologo, ex capufficio stampa dell’Asl di Cosenza, celebre per aver candidato Berlusconi al Nobel per la Pace. L’hanno eletto segretario dell’Antimafia. Dopo aver fatto la conoscenza dei membri della commissione, il neopresidente Forgione ha dichiarato: «Va superata la dimensione giudiziaria della lotta alla mafia». In effetti, per come la politica ha ridotto i tribunali e le procure, senza soldi, benzina, personale, computer, stenografi, carta per fotocopie siamo già a buon punto: un piccolo sforzo e la dimensione giudiziaria sarà definitivamente superata. Resta da capire perché la chiamino ancora Antimafia. «Promafia» potrebbe rendere meglio l’idea.  

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità 17 novembre 2006

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IL VENTO DEL DECADENTISMO

C’è voluto del tempo, ma alla fine tutti i tasselli degli ultimi scandali stanno andando a posto. Pio Pompa, in arte Pompa, è comunista, vota Prodi e legge l’Unità: dunque dev’essere innocente per forza. Renato Farina, alias Betulla, non era proprio comunista, ma dice di aver lavorato per i comunisti ai tempi del Kosovo: dunque dev’essere innocente per forza. Cesare Previti, per restare deputato a dispetto della lettera di dimissioni inviata sei mesi fa e della condanna definitiva che lo dichiara «interdetto in perpetuo dai pubblici uffici», dunque decaduto, s’è preso un avvocato comunista: l’ex onorevole Ds Giovanni Pellegrino, ora presidente della provincia di Lecce. Annamaria Franzoni ha già da tempo provveduto a farsi difendere, almeno in tv, da Barbara Palombelli: infatti, a Porta a Porta, risultava sempre innocente. In tribunale, un po’ meno. Ora che lady Rutelli ha traslocato al Tg5, il teleprocesso di Cogne va in onda a reti unificate. L’altra sera la giornalista intervistava un prestigioso esperto per sostenere che il piccolo Samuele morì per «cause naturali». Qualche giorno, e si troverà qualcuno disposto a giurare che fu un suicidio, o un attacco di Bin Laden in trasferta in Val d’Aosta.Francesco Storace, invece, continua ostinatamente a proclamarsi di destra. Infatti l’altroieri le toghe rosse della Procura di Roma han chiesto il suo rinvio a giudizio per istigazione a delinquere nel Laziogate. La sera, anziché vergognarsi o preoccuparsi, Storhacker festeggiava il lieto evento in una sezione di Morlupo e partecipava tutto giulivo a Primopiano. Manco l’avessero assolto. A chi gli domandava che cos’avesse da festeggiare, rispondeva che erano cadute tre accuse e ne era rimasta in piedi «solo» una. Sarebbe come se un tizio accusato di quattro rapine organizzasse un carnevale di Rio, perché lo processano per una rapina sola. Il fatto che poi il tizio sia pure un ex ministro e un parlamentare della Repubblica, aggiunge al tutto un tocco di surrealismo. Siamo così ridotti che, se un senatore è imputato «solo» di istigazione a delinquere, si ammazza il vitello grasso.Si dirà: tutto è relativo. In effetti, da sei mesi il cosiddetto onorevole Cesare Previti è contemporaneamente detenuto e deputato (in Italia il doppio incarico è consentito). Gli paghiamo lo stipendio di parlamentare, con tutti i benefit, più

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la scorta armata per proteggerlo da eventuali passanti incensurati, anche se avrebbe dovuto sloggiare da un pezzo, per via dell’interdizione perpetua. Purtroppo in Italia la rimozione dei parlamentari interdetti non è affidata, come nei paesi seri, alla magistratura con l’eventuale ausilio dei carabinieri, ma al Parlamento medesimo. È la giustizia domestica. Nelle scuole si insegna che «nemo iudex in causa sua». Ma i parlamentari fanno eccezione. Ragion per cui, se una sentenza della Cassazione impone l’immediato allontanamento del pregiudicato Previti da Montecitorio, per sei mesi non accade nulla. Si cercano scuse, si prende tempo, si guarda per aria, si fischietta facendo finta di niente. All’inizio si dice che si attendono le motivazioni. Poi la Cassazione fa sapere che le sentenze definitive sono esecutive subito, dal deposito del dispositivo. Lo sa persino Previti, che non sembra, ma è un uomo di legge: infatti, un minuto dopo, spedisce la lettera di dimissioni e si consegna a Rebibbia. Poi però i suoi colleghi, amorevolmente, lo scavalcano: gli levano 3 anni di pena (su 6) con l’indulto e fanno melina in attesa delle inutili motivazioni. Così passa l’estate e un pezzo d’autunno. Poi però, venti giorni fa, le motivazioni arrivano. E allora che s’inventa l’ineffabile giunta (che non sembra, ma è a maggioranza Unione)? Che, anziché accompagnarlo alla porta, bisogna convocare Previti per «un’audizione». Forse per chiedergli se è d’accordo con la sentenza, o se ha niente in contrario a levarsi di torno. Così il sant’uomo si rianima, si rimangia la lettera di dimissioni (tenuta chiusa in un cassetto dall’apposito on. Elio Vito) e preannuncia addirittura un «ricorso straordinario» contro la sentenza definitiva che, a suo avviso, presenta vari «errori». E se lo dice lui, fonte super partes, c’è da crederci. Qualche ingenuo domanderà: ma, se si possono impugnare pure le sentenze definitive, che differenza c’è fra definitive e provvisorie? Che domande. La stessa differenza che passa fra votare l’indulto spensieratamente e votarlo soffrendo. 

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl'Unità 9 novembre 2006

mercoledì, 31 maggio 2006 EI FU

Non siamo sicuri di trovare le parole e i toni giusti, per descrivere le esequie in corso sulla Bara delle Libertà. L‘anziano leader, il baro, si dice «nauseato». Nauseato dagli elettori che inspiegabilmente «non vanno a votare» per candidati stuzzicanti come Buttiglione, arrapanti come Malvano e trascinanti come Alemanno. E nauseato dagli alleati che, come dice Gassmann nel “Sorpasso“, l’hanno rimasto solo. Ha dovuto fare tutto lui, come al solito. Ma stavolta, nonostante il prodigarsi dell’insetto in barba alla par condicio, senza le tv. E Bellachioma senza televisione è come Sansone senza chioma: una pippa.

A Napoli, per dire, le ha provate tutte. Nel rispetto della tradizione, ha candidato a sindaco un questore inquisito per collusioni con la camorra. Ha acquistato la villa della moglie di Emilio Fede, ovviamente abusiva con tanto di

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sigilli (la villa, non la moglie di Fede). Poi per eliminare l’accento siculo-brianzolo e sembrare ancor più napoletano, è andato a ripetizioni da Apicella.

Ha salvato, con le nude mani, un bimbo e la sua mamma dispersi dalla folla in delirio sotto il suo palco, acquistando poi alla signora un paio di scarpe nuove alla maniera di Lauro, Ha gridato al regime, ha denunciato brogli, ha chiesto la riconta di tutte le schede e di un paio di scudetti, ha invocato nuove elezioni minacciando, in caso contrario, di «portare in piazza la nostra collera che sale» e di ritirare l’opposizione dal Parlamento per trasferirla nella più comoda Milano2.

Ha proposto l’amnistia, molto popolare a Scampia e Secondigliano, oltrechè in casa Previti. Ha insultato Napolitano, i senatori a vita e anche Biagi (Enzo: a Marco aveva già pensato a suo tempo Scajola). Ha minacciato di levare il voto agli italiani all‘estero che non lo votano («non pagano le tasse, perché dovrebbero votare?», ha domandato, senza peraltro spiegare perché mai allora dovrebbe votare lui). Ha esibito il ri-onorevole Alfredo Vito, quello delle 100 mila preferenze e delle ventidue mazzette, per spiegare meglio la «legalità» ai napoletani. Ha mostrato un sondaggio, non si sa se americano o turkmeno, che «ci dà al 53 contro il 47 della sinistra». Ha annunciato che «con le amministrative sfratteremo Prodi da Palazzo Chigi». Poi la mossa decisiva: ha promesso di trasferirsi a Napoli in pianta stabile come «consulente del nuovo sindaco Malvano», magari con l’aiuto del neodisoccupato Albertini.

Ora, Napoli ne ha viste tante, ma una minaccia così non la poteva sopportare. Ed è corsa ai ripari: pronta a tutto, anche a risentire per altri cinque anni la voce della Jervolino. Nella capitale mondiale del farlocco e del tarocco, una sola cosa risulta intollerabile: il falso napoletano.

«Se non corro io - dice ora sconsolato Bellachioma - non c ‘è niente da fare». Ecco, prima che si candidi a sindaco di tutte le città d’Italia, ma anche a presidente di tutte le province e di tutte le regioni, trasformando il Paese in un gigantesco monocolore rosso, Fini e Casini inizieranno forse a domandarsi se eventualmente, per così dire, casomai, senza offesa per nessuno, parlando con pardòn, non sia il caso di cambiare leader. Il primo e l’ultimo che l’ha detto, tal Follini, è disperso nella tundra travestito da lichene e inseguito da mute di dobermann con la faccia di Previti.

Dunque occorre prudenza. Ma non c‘è molto tempo: il bacio della morte del Re Mida alla rovescia è in grado di incenerire e vampirizzare chiunque. Prendete Buttiglione: non è mai stato granché come filosofo (insegnava estero su estero all’università di Vaduz, Liechtenstein) né come politico (appena arrivò a Bruxelles travestito da commissario europeo, lo riconobbero e lo rimpatriarono in 24 ore col foglio di via). Ma in fondo era pur sempre un ministro. Poi gli strateghi di Forza Italia si sono accorti che è nato a Gallipoli, e han subito pensato: ecco il candidato ideale a sindaco di Torino. Risultato: 28 per cento a lui, 66 a Chiamparino.

Ma, ai primi giornalisti accorsi sul luogo della catastrofe, il Kant gallipolino dichiara: «Peccato, a Torino sono arrivato troppo tardi». Se arrivava prima e si faceva conoscere meglio, magari arrivava anche al 5 per cento. Ecco, è questo che colpisce nei commenti esalati dalla Bara delle Libertà: la freddezza e la lucidità con cui viene elaborato il lutto.

Sul Giornale della ditta, il sempre lucido Paolo Guzzanti argomenta: «A bocce ferme si scopre che le bocce sono effettivamente ferme». Alemanno, dopo aver raccolto 10 punti in meno di Tajani (il che è tutto dire), si dice soddisfatto. E se il 36per cento a Roma gli pare tanto, chissà cosa si aspettava: dovrebbe fare qualcosa per l’autostima. Intanto in tv un tizio che si fa chiamare Rotondi, si qualifica come segretario della Nuova Dc e porta in capo un cactus bonsai, esalta «il contributo decisivo del nostro partito, che a Imperia raggiunge il 2,2%». Me’ cojoni, come dicevano i vecchi marinai della Riviera di Ponente.

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ULIWOOD PARTY

MARCO TRAVAGLIO – “l’Unità” 31 maggio 2006

lunedì, 08 maggio 2006 UNA PRECE

E ora? Ci mancherà? Riusciremo a fare a meno di Lui? Avrà pure esagerato Bellachioma quando ha detto: «Mi rimpiangeranno». Visto che non glielo diceva nessuno, se l’è detto da solo. «Il guaio di Berlusconi -diceva Montanelli- non è che si ama: è che si corrisponde». Lo rimpiangeremo? Chi può dirlo. Lo scopriremo vivendo: quando la mente, ora appannata dalle lacrime e dal lutto per l’incolmabile dipartita, riacquisterà un minimo di lucidità. Solo allora, a ciglio asciutto, potremo prenderci cura dei tanti cari estinti che ieri, idealmente, si son dimessi insieme a Lui. Alcuni, come Vito, Schifani, Bondi e Cicchitto, si sono rifugiati negli affetti più cari: le poltrone. Ma che ne è di Nando Adornato? Sono settimane che non si hanno più notizie di lui, tant’è che qualcuno ha allertato la protezione civile e, conoscendone la passione per le arrampicate, i cani da valanga. E Paolo Guzzanti, dov’è? E come sta dopo la prematura scomparsa della commissione Mitrokhin, inseparabile compagna degli ultimi anni? Assimilato il lutto, bisognerà creare comunità di recupero per le decine di cadrega dipendenti in crisi d’astinenza, onde avviarli a un graduale reinserimento nella società. I ministri uscenti Moratti, Buttiglione e Alemanno, i più pronti di riflessi, han subito fatto ricorso a quella sorta di metadone politico che è la candidatura a sindaco: a Milano, Roma e Torino. Alemanno appare più statico, mentre Letizia e Rocco affiancano la campagna elettorale con un’attività ludico-motoria degna di un maratoneta etiope: non si perdono una marcia, un corteo, una sfilata. Esponendo il petto ai fischi e alle contestazioni di chi non li aveva mai visti. Il 25 Aprile e il Primo Maggio sono soltanto le prime tappe di un tour che li porterà dappertutto. Buttiglione prepara un blitz alle prossime marce No-Tav in Valsusa, perché è ora di finirla con questa sinistra che monopolizza le marce No-Tav: a chi gli obietterà che lui è Pro-Tav e lo contesterà, lui risponderà serafico: «Tav? E cos‘è la Tav? Basta con questa sinistra intollerante che inventa strane sigle per escludere dalle marce chi non è di sinistra». Nessun incidente è previsto invece per le prossime tappe della tournée: Buttiglione ha già prenotato un posto d’onore alla fiera del peperone di Carmagnola, alla fiera del tartufo di Alba, alla fiera del bue grasso di Moncalieri, alla fiera dell’Antiquariato di Saluzzo, anzi gli espositori saranno felici di esibirlo nei loro stand con gli altri prodotti tipici.Più nutrito il cartellone primavera-estate di Letizia Moratti che, avendo scoperto in tarda età la Liberazione e la festa dei Lavoratori, non la ferma più nessuno. Nei prossimi giorni sarà alla Parigi-Dakar, alla Millemiglia, alla 24 Ore di Le Mans, alla 500 Miglia di Indianapolis, alla Parigi-Roubaix, alla Vasaloppe e alla maratona di New York, e se non la faranno correre sarà la prova dell’intolleranza della sinistra. Poi, indossando una simpatica divisa nerazzurra, atterrerà in elicottero sullo stadio Delle Alpi in festa per il 29°scudetto della Juventus e se non le consentiranno di festeggiare sarà la prova della morsa terzinternazionalista che attanaglia il mondo del calcio. Poi si sposterà alla cerimonia inaugurale dei mondiali di Germania, e se non le faranno tirare il calcio d’inizio sarà la prova del regime della sinistra. Poi s’iscriverà al Festivalbar, a Miss Italia e a Miss Muretto di Alassio, e se non la faranno vincere sarà la prova dell’inaffidabilità democratica della sinistra.

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Poi occuperà la Fiat Mirafiori e le acciaierie di Terni contro i soprusi del padronato comunista distribuendo volantini di Confindustria e se la contesteranno sarà la prova della dittatura dell‘Unione. Poi visiterà tutti i centri sociali a cominciare dal Leonka e senza dimenticare il circolo anarchico della Ghisolfa, distribuendo tessere gratuite di San Patrignano, e se le domanderanno che ci fa da quelle parti sarà la prova dello stalinismo imperante nella sinistra. Poi, avvolta in una pelliccia di foca monaca, tenterà di abbordare i battelli di Greenpeace che combattono la strage delle foche al circolo polare e se non la faranno salire sarà la prova della natura comunista dei movimenti ambientalisti. Infine presenzierà come testimonial al campionato Lacche & Stucchi riservata ai coffeur pour dames. Lì, finalmente, troverà l’unico angolo del pianeta immune dal contagio rosso. Ma verrà contestata da un anziano signore molto basso e molto truccato, pochi capelli e molti bigodi, che l’apostroferà al grido di «Vergogna, cribbio, sono arrivato prima io!».  MARCO TRAVAGLIO – “l’Unità” 3 maggio 2006 

domenica, 07 maggio 2006 VESTIVAMO ALLA MARINARA

Ora che Marini è passato al Senato, resta da capire quante cadreghe occorrono per insegnare ai clementi tiratori a chiamarlo Franco. Ora che Berty è passato alla Camera, resta da capire quanto impiegheranno i massimi tiratori per rassegnarsi all’idea che Fausto è sinonimo di letizia e che Romano deve restare a Roma almeno un mese, fino alla battaglia del Quirinale. Probabilmente gli elettori dell’Unione (la metà degl’italiani più 24.755) avevano sperato di godere di più, ma non si può avere tutto dalla vita. Inizia l’era del “menopeggismo” E poi, via, dopo settimane di allenamento Bellachioma ha pronunciato la parola “dimissioni”, e chissà quanto gli è costato. E poi Porompompera e Piercasinando non presiederanno più nulla, cioè se stessi. E poi Andreotti ha gettato la maschera (mancava solo qualche voto per Francesco Marino Mannoia): c’è pure il caso che perda qualche fan nell’Unione. E poi la corsa alle due Camere è stata molto più facile della prossima scalata al Colle. A questo proposito, D’Alema dovrebbe far causa a chi ha lanciato la sua candidatura: sponsor come Lanfranco Pace, Oreste Scalzone, Giuliano Ferrara, Piero Ostellino, Giano Accame e Carlo Rossella non sono proprio il massimo della vita. Certo, quel viavai di imputati di mafia in Senato, da Andreotti a Dell’Utri da Mannino a Cuffaro, proprio mentre la parola “pizzino“ faceva il suo ingresso trionfale in Parlamento, era uno spettacolo niente male. Avvincente come Bruno Vespa avvistato in piazza del Pantheon che inseguiva trafelato Marini all’ora del pranzo, attratto come una calamita dal nuovo potente e ansioso di carpirgli menu da rivelare in esclusiva nel suo prossimo libro. Come Schifani che nel cuore della notte insegna “la sacralità delle regole” a Scalfaro. Come il ragionier Pera in lacrime dinanzi alla dipartita della poltrona. O come la triste fine di Tremonti ministro fortunatamente uscente, ridotto a mendicare uno strapuntino da capogruppo e trombato da un Vito qualunque (“me l’avevano promesso”, piagnucola inconsolabile minacciando la fuga nel gruppo misto come un Udeur qualsiasi). Quadretti da fine impero, come quello di Silviolo Augustolo - da molti scambiato per il “padre del bipolarismo”e il “fondatore della Seconda Repubblica”- costretto a riesumare il simbolo peggiore della Prima per mancanza di uno straccio di candidato. E, al seguito, gli ex nemici della Prima Repubblica come la Lega e An ridotti a votare Andreotti, perché il boss voleva così. Alla fine tutti i tasselli sono andati a posto: l’ex muratorino di Gelli alleato con l’ex confratello di Bontate e Badalamenti, all’insegna del nuovo che avanza o del vecchio che è avanzato. Sfogliando i giornali di ieri, per trovare un titolo su Bellachioma, bisognava andare a pagina 12 o 13, il che non accadeva dal 1993. Sotto la sua ultima foto dal balcone, insieme alle consuete molestie alle neoelette in Forza Italia (“Qui vige lo jus primae noctis, noi le donne le preferiamo di facili costumi... “).

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erano annotate le sue penose profferte all’Unione perché gli lasci tenere almeno un gomito sul tavolo: “Se il centrosinistra rinuncia a Prodi, siamo disposti a votare il nuovo governo, anche guidato da un altro esponente del centrosinistra. L’importante è che Prodi non si insedi al posto mio”. Poveretto, come s’offre. “Non possiamo -dice- esporre il Paese a queste figuracce indegne”. Peggio delle sue, sarà difficile. “Comunque l’Unione al Senato non ha la maggioranza e dipende dai senatori a vita”. Esattamente come il Polo che nel ‘94 elesse Scognamiglio per un voto, e solo dopo aver comprato un paio di senatori dell’opposizione. Il pover’uomo ricorda il protagonista di “Polvere di stelle” con Alberto Sordi, il vecchio guitto bollito che tenta di strappare l’ultimo applauso replicando le gag dei bei tempi. Ormai lo prende per i fondelli persino un Pomicino che, sentendosi chiamare “vecchio leone”, lo fulmina: “Guarda presidente che son più giovane di te”. Nell’ora del menopeggismo, anche queste sono soddisfazioni. MARCO TRAVAGLIO - "L'Unità" 30 aprile 2006 

venerdì, 05 maggio 2006 L’ORA ILLEGALE

Chi cercasse un inventano aggiornato dei danni provocati dalla catastrofe, denominata “governo Berlusconi”, abbattutasi sull’Italia per cinque anni, non ha che da sfogliare i giornali di ieri.

Esteri. Altri 3 soldati italiani morti in Iraq. Gli avevano raccontato che erano in missione di pace, purtroppo hanno scoperto a proprie spese di essere in guerra. Sale così a 29, soltanto nell’Iraq “democratico e pacificato “, il numero di cadaveri che questo governo ha sulla coscienza, «A Baghdad - annunciò il premier nel 2004 - la vita è regolare, a parte i semafori: a Baghdad non funzionano».

Interni, anzi interiora. Venti milioni di incolpevoli coglioni costretti a tifare per uno come Franco Marini (Franco, non Francesco, e nemmeno Valeria). Intanto, inchini e salamelecchi, a destra e a sinistra, per Andreotti: a destra perché accettasse di candidarsi a presidente del Senato, a sinistra perché rinunciasse. Chi (l’Unità e basta) osa ricordare quel che ha stabilito sul suo conto la Cassazione (era mafioso almeno fino all’80, reato di associazione a delinquere commesso ma prescritto), viene sbertucciato come disturbatore di manovratori. Persino il Tg3, ieri, racconta che «Andreotti è stato assolto perché il fatto non sussiste» (falso). Alcuni, anche nel centrosinistra trovano politicamente inopportuno ricordare le sue vicissitudini giudiziarie, quando contro di lui c’è ben di peggio. Che cosa? L’età. Ecco, passi la mafiosità, passi l’abbraccio di Arcinazzo al repubblichino Graziani, passi Sindona, passino i peggiori scandali della Prima Repubblica. Ma l’età, quella, è davvero imperdonabile.

Cronaca giudiziaria, sempre molto ricca. Evapora all’improvviso il processo d’appello al premier per lo stipendio-bis che era solito pagare, tramite Previti, al capo dei gip di Roma Squillante in Svizzera: il gioco di prestigio è opera del suo avvocato Gaetano Pecorella, che in qualità di legislatore ha abolito per legge gli appelli dei pm e in qualità di difensore ha incassato il risultato della sua legge e, si presume, una parcella degna di cotanto sforzo. Anziché nascondersi per la vergogna, il penalista Ogm ha pure trovato il coraggio di commentare: “C’è un giudice non solo a Berlino, ma anche a Milano”. Intanto l’ex ministro Storace viene accusato anche di associazione a delinquere per aver fatto spiare i suoi oppositori alle ultime elezioni nel Lazio. Un reato da niente. Ma i suoi alleati, ultimo della serie il redivivo Elio Vito, continuano a denunciare i famosi brogli della sinistra.

Televisione. Il direttore generale della Rai Alfredo Meocci è dichiarato incompatibile con l’incarico ricoperto dall’agosto scorso, perché la legge istitutiva delle Authority vieta a chi ne fa parte di dirigere aziende

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controllate dalle Authority medesime. Proprio quel che ha fatto Meocci che prima era commissario dell’Autorità per le comunicazioni, poi andò a dirigere la Rai. La sua incompatibilità era nota fin da subito, ma il premier l’aveva imposto ugualmente: troppo bravo per perderlo (Meocci aveva appena dichiarato di voler rivedere in Rai “la tv dei ragazzi degli anni 60, da Zurlì il mago del giovedì a Giovanna la nonna del Corsaro Nero”). E i suoi maggiordomi del Cda l’avevano votato lo stesso, dopo che quel Tesoro di Siniscalcolo aveva garantito loro la copertura assicurativa in caso di “colpa grave”, per l’atto illegale che stavano per compiere. I consiglieri di sinistra avevano votato No, tranne il presidente Petruccioli che aveva annunciato il suo Sì e poi s’era astenuto. Ora la Rai, coi nostri soldi, dovrà pagare una multa di 14,3 milioni e Meocci dovrà sborsare 373mila euro, restituendo lo stipendio indebitamente incassato. Si comprende così il significato di un’oscura espressione usata dal premier in Bulgaria: “Uso criminoso della tv pubblica pagata coi soldi di tutti”.

Sport. A tre giorni dall’eliminazione dalla Champions League, il Milan non riconosce la sconfitta con il Barcellona, replicando così il figurone di qualche anno fa a Marsiglia, quando la squadra berlusconiana soccombente contro l’Olympique fu ritirata a metà partita con la scusa di una lampadina fulminata in un riflettore (la visibilità era perfetta, ma Galliani si aggirava brancolante per il campo come la cieca di Sorrento). Sotto accusa l’arbitro, nota giacchetta rossa, per aver fischiato la fine con ben 20 secondi di anticipo. Urgono il ricalcolo dei tempi da parte della Cassazione e l’intervento dei caschi blu dell’Onu.

Ma non era scattata l’ora legale?

MARCO TRAVAGLIO – “l’Unità” 29 aprile 2006

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SERGIO D’ELIA

(ARCHIVIO 8 AGOSTO 2003) QUELLI CHE IL CANCRO

Nulla è impossibile all’Unto del Signore. Ma d’ora in poi gli sarà lievemente più arduo definire i giudici e i pm milanesi «un cancro da estirpare». Soprattutto da parte di un signore (sia pure unto da un altro Signore) che nel 1991 stanziò 3 miliardi da girare a Previti per far annullare il Lodo Mondadori dall’apposito giudice Metta e mettersi in tasca un gruppo editoriale, il primo d’Italia, che apparteneva a un concorrente non uso a comprar sentenze un tanto al chio. Se Carfì, Colombo, Boccassini, Consolandi, Balzarotti, Ponti, D’Elia e Brambilla, per tacer degli altri, sono un «cancro», il dizionario medico è inadeguato per definire Metta, Squillante, Previti & C. Ascessi? Orticarie? Foruncoli? Unghie incarnite? Cancrena? Minimalismo puro. Sarà comunque bene tenerla a portata di mano, questa sentenza-macigno, per quando qualcuno di questi soggetti ritirerà fuori la terzietà del giudice, la separazione delle carriere, la giustizia giusta e altre menate da magliari. Come quelle di ieri, nei «commenti a caldo» sulle prove granitiche esibite dal Tribunale di Milano.

Sassolini. «Di fronte a un giudice che dice “mi son tolto un sassolino dalla scarpa” spero che qualcuno intervenga... Si dovrebbe reagire indignati, è un fatto inquietante, questo significa mettersi sotto i piedi la giustizia» (Cesare Previti, Corriere della Sera). «Giudice si leva i sassi e li scaglia contro Previti» (Il Giornale). «Abbiamo un giudice che si toglie i sassolini dalle scarpe e respira di sollievo con il calzino sudato in mano» (Paolo Guzzanti, il Giornale). La presunta dichiarazione del presidente Carfì al Messaggero sui «sassolini» è un falso: ieri Carfì ha smentito di aver mai detto una cosa del genere. È singolare che, a fabbricare la bufala, sia stato il quotidiano di proprietà di Francesco Caltagirone, il suocero di Pierferdinando Casini. Il quale, purtroppo, è imputato a Perugia per corruzione giudiziaria insieme a Squillante. Ed è cugino di Francesco Bellavista Caltagirone, marito di Rita Rovelli, figlia di Nino, il grande corruttore del caso Imi-Sir. Guarda un po’, alle volte, le combinazioni.

Vera riforma. «Se non avessimo perso due anni di legislatura e avessimo fatto una vera riforma della giustizia, non saremmo a questo punto» (Previti, La Stampa). L’on. Avv. Cond. ha ragione: bisognava codificare il «modello Metta», stabilire per legge che le sentenze non le scrivono i giudici, ma gli imputati e i loro legali. Così magari ci scappava anche un premio per gli avvocati premurosi che, per sveltire i processi, facevano volontariato giudiziario, preparando le sentenze ai giudici troppo oberati.

Confusione. «La sentenza era scritta prima che iniziasse il processo» (Previti, Corsera). Qui dev’esserci un equivoco: la sentenza non l’ha scritta Vittorio Metta e i suoi suggeritori, che com’è noto si portavano avanti col lavoro. L’hanno scritta i giudici di Milano.

Sostegno. «Credo di avere il sostegno della maggioranza degli italiani, come dimostra anche l’interesse per il mio sito Internet» (Previti, ibidem). Non vorremmo disilludere l’On. Avv. Cond., ma anche il libro delle barzellette su Totti desta un certo interesse. Quando uno lo finisce, va sul sito di Previti.

Troppo presto. «Non mi aspettavo che la sentenza arrivasse così presto» (Previti, ibidem). Il 29 aprile i giudici si sono presi 90 giorni di tempo, scaduti a fine luglio. Poi hanno chiesto una proroga, e hanno depositato la motivazione il 5 agosto. Certo, Previti è abituato a Vittorio Metta, che il 14 gennaio ‘90 uscì dalla camera di consiglio sul lodo Mondadori e il 15 depositò 168 pagine di motivazione. Di giudici così, purtroppo, ne nasce uno ogni mezzo secolo.

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Il danno. «Le motivazioni dimostrano che Berlusconi è fuori da ogni cosa e la prescrizione è stata per lui un danno» (Carlo Taormina). Strano: lo stesso Taormina, non più tardi di due mesi fa, aveva saggiamente dichiarato: «Sia chiaro: se Previti è colpevole, allora anche Berlusconi lo è». Quanto alla prescrizione, perché il Cavaliere non vi ha rinunciato? Si può, volendo. Ma, per farlo, bisognerebbe essere innocenti.

Garantismo. «Di Pietro si occupi, invece, dei problemi avuti in passato» (Niccolò Ghedini). I «problemi» sono le 56 inchieste aperte su Di Pietro dall’indimenticabile Procura di Brescia. Tutte approdate regolarmente all’archiviazione. Non per prescrizione, amnistia o lodo Maccanico. Per manifesta innocenza.

Ignoranza. «La vita politica italiana resta perennemente inchiodata alle decisioni della Procura di Milano» (Sandro Bondi). Tribunale, onorevole. Si chiama Tribunale.

Manifesto. «Nella sentenza riecheggiano toni, valutazioni e analisi che paiono tratteggiare nuovamente ... il manifesto di un contropotere. Da una corte di giustizia sarebbe lecito attendersi un verdetto o una diagnosi neutra, asettica» (Federico Geremicca, La Stampa). Delle due l’una: o non ha letto la sentenza, o non ne ha mai lette altre. A fronte a casi così gravi, così unici, colpisce proprio la misura e la sobrietà dei giudici milanesi. Ma forse Geremicca sognava una motivazione che, sì, condannasse. Ma poi dicesse che erano tutte brave persone.

Platinette/1. «Se vuoi dimostrare che un certo passaggio di denaro da un avvocato a un magistrato è legato a una sentenza comprata, devi avere le prove documentali e testimoniali, non bastano le dubbie propalazioni di Stefania Ariosto» (Giuliano Ferrara, il Foglio). È comprensibile che, con questo caldo, il Platinette Barbuto non avesse voglia di leggere 500 e più pagine di morivazione. Ma sarebbe il caso di farlo, prima di sproloquiare sulla Ariosto, che nella motivazione compare soltanto in fondo (peraltro come perfettamente attendibile), dopo 400 pagine di prove documentali.

Platinette/2. «Il finanziamento illegale della politica è stato “scoperto” come reato generalizzato, e di sistema, con una quarantina d’anni di ritardo dall’inizio» (Ferrara, ibidem). Il reato di finanziamento illecito nasce da una legge approvata nel 1974 dopo lo scandalo dei petroli da una classe politica che voleva rilegittimarsi agli occhi dei cittadini. Salvo violarla appena approvata. La legge compirà 40 anni nel 2014. Di che parla Platinette? Fa caldo, dalle sue parti?

Platinette/3. «Abbiamo visto nascere e crescere fenomeni di corruzione e faziosità nella vita istituzionale come la politicizzazione della magistratura militante e la catena di reazioni che questa ha comportato nel resto della classe togata» (Ferrara ibidem). Traduzione. 1) Squillante, legato al Psi e poi a Forza Italia, consulente di Craxi e di Cossiga, aspirante candidato azzurro nel ‘96, non è un «giudice politicizzato»; Carfì, che non ha mai aperto bocca fuori dal tribunale, invece sì. 2) Se Squillante, Metta e altri si facevano comprare da Previti & C., la colpa, gira e rigira, è delle toghe rosse. Che, non rubando, costringevano per reazione il «resto della classe togata» a rubare. Qui siamo al parapendio della logica, con triplo salto mortale carpiato.

La confessione. «Che imprenditori abbiano partecipato ad aste giudiziarie, per difendere i loro interessi dal pericolo che certe sentenze venissero aggiudicate ai competitori, con gli stessi metodi usati da loro, in quel contesto storico è verosimile» (Ferrara, ibidem). Chissà che ne dirà Berlusconi, nel riconoscersi in quell’imprenditore che, temendo che De Benedetti comprasse qualche giudice (e dove sarebbero le prove, gli indizi, le testimonianze?), decise di comprarsene un paio lui per fregare la Mondadori all’ingegnere. Perché quella dell’amico Platinette, se le parole hanno un senso, è una piena confessione.

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BANANAS MARCO TRAVAGLIOl’Unità (8 agosto 2003)

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UMBERTO BOSSI

BERTINOTTI-TRAVAGLIO: POSTA E (RIS)POSTA PRIORITARIA

LA RISPOSTA DI FAUSTO BERTINOTTI

Roma, 21 giugno 2007 Egregio dottor Travaglio, ….. vedi pg precedenti

venerdì, 01 giugno 2007 GLI IMPUNITI

vedi pg precedenti

mercoledì, 23 maggio 2007 IL FORCAIOLO*

Nuvoli, voleva la forca per Borrelli. Mastella lo promuove

Il 24 novembre 1994 infuriano le polemiche per l'invito a comparire recapitato dal pool di Milano a Silvio Berlusconi per concorso nelle tangenti Fininvest alla Guardia di Finanza. Alle redazioni dei quotidiani giunge via fax una dichiarazione dell'onorevole forzista Gianpaolo Nuvoli, “membro della commissione Affari costituzionali”, su carta intestata Camera dei deputati. Testuale: «Debbo affermare che, qualora il procuratore Borrelli fosse condotto alla forca, io sarei in prima fila per assistere soddisfatto all'esecuzione». La dichiarazione prosegue denunciando un complotto politico-giudiziario ai danni di Berlusconi: un «disegno destabilizzante» ordito dal presidente Scalfaro, da Borrelli, da Bossi e dalle opposizioni di sinistra. E, a proposito delle manifestazioni di piazza che Forza Italia sta organizzando in tutt'Italia a favore del premier inquisito, conclude: «È giusto sapere fin d'ora di chi sarebbe la responsabilità morale e politica di eventuali disordini che, ovviamente, scongiuro». Un redattore di Repubblica telefona all'onorevole Nuvoli per controllare che quelle parole siano davvero sue. Risposta di Nuvoli: «Confermo tutto, anche il riferimento alla forca. Quelle cose le ho scritte e le penso». Che fine ha fatto l'uomo che voleva impiccare Borrelli? Il 27 aprile un comunicato del Guardasigilli Clemente Mastella ha annunciato la sua assunzione al ministero della Giustizia del governo Prodi: «Gianpaolo Nuvoli è stato nominato, su proposta del Guardasigilli, con decreto del presidente del Consiglio Ministri, direttore generale presso il Dipartimento degli Affari di Giustizia del ministero della Giustizia. Il ministro Mastella intende anche avvalersi della sua esperienza per tutte le problematiche relative alla Giustizia in Sardegna». Per il curriculum completo del Nuvoli rimandiamo al sito www.altravoce.net del giornalista Giorgio Melis (il quale giura che Nuvoli volesse addirittura «vedere Borrelli impiccato a un lampione stradale»; e che poi fece staccare i ritratti del presidente Scalfaro da tutti gli uffici del suo Comune). In sintesi: nato ad Ardara (Sassari) 52 anni fa, laurea in giurisprudenza, democristiano e poi forzista, per trent'anni sindaco del suo paese, già consigliere regionale, eletto deputato con

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Forza Italia nel '94 e nel 2001, nel gennaio 2005 Nuvoli ha lasciato FI per trasvolare nell'Udeur, giusto in tempo per ritrovarsi nel 2006 dalla parte dei vincitori. Ma l'anno scorso non è stato rieletto. Al ministero della Giustizia - informa una nota ripresa dalle agenzie - si occuperà del «contenzioso sui diritti umani in materia sia civile che penale, sulla responsabilità civile dei magistrati e sull'osservanza degli obblighi internazionali a proposito dei diritti dell'uomo». In quell'incarico sostituirà l'avvocato Sonia Viale, nominata dal ministro Roberto Castelli, e sarà il braccio destro di Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa, anche lei scelta da Castelli e confermata da Mastella a capo del dipartimento Affari di giustizia. Oltre a invocare la forca per Borrelli, negli anni, Nuvoli ha fornito altri preziosi contributi alla Giustizia. Nell'agosto del 1998, per esempio, intestò la piazza principale di Ardara, di cui era sindaco, all'ex procuratore presso la Pretura di Cagliari, Luigi Lombardini, che si era suicidato un mese prima nel suo ufficio dopo un interrogatorio dinanzi a Gian Carlo Caselli e ad alcuni suoi sostituti perché coinvolto nel sequestro di Silvia Melis, di cui si occupava segretamente e abusivamente non avendo alcuna competenza in materia (lavorava in Pretura). E fece scrivere sulla targa commemorativa le seguenti parole: “Piazza Luigi Lombardini - eroico magistrato vittima del Regime”. Nella relazione di proposta, fatta pubblicare dal Giornale di Berlusconi, esaltò «l'eroico comportamento del giudice Luigi Lombardini, ben al di là dei suoi doveri d'ufficio, a favore dei sardi e della Sardegna: rischiando la vita, ha determinato la liberazione di numerosi ostaggi di sequestratori di persona, assicurando, alla giustizia decine di pericolosissimi criminali responsabili di sequestri. Per questa sua meritoria e coraggiosa attività Lombardini è stato perseguito inopinatamente e con accanimento dalla Procura di Palermo. Ben cinque magistrati, guidati dal procuratore Caselli sono piombati a Cagliari, da Palermo, per torchiare per ben 6 ore il galantuomo e eroico Lombardini. Il risultato, purtroppo, è stato che Lombardini è morto, ammazzato da una pallottola partita da quell'accusa infamante di Caselli e dei suoi uomini di Palermo. Nessuno, finora, ha pagato, nè Caselli nè altri, anzi le istituzioni hanno applaudito Caselli e gettato ombre su Lombardini». Per queste infamie Nuvoli è stato denunciato dai pm di Palermo additati come assassini e condannato in primo grado per averli diffamati. Ora potrà occuparsi di loro più da vicino, dalla suo nuovo ufficio in Via Arenula. Senza contare che, da antico fautore della forca, potrà fornire un valido apporto alla materia dei “diritti umani” a cui, tra l'altro, è stato delegato. Qualche domanda, per concludere. Il ministro Mastella, peraltro alleato di Nuvoli nel '94 quando costui invocò il patibolo per Borrelli, ricordava i suoi precedenti al momento di nominarlo direttore generale del ministero? Perché, delle due, l'una: o il ministro sapeva, e allora vuol dire che condivide le battaglie di Nuvoli, o non le ritiene in contrasto col nuovo incarico; o non sapeva, e ora che lo sa ci farà sapere qualcosa.Nell'attesa, qualche esponente del centrosinistra avrà forse qualcosa da dire, e magari da ridire, sulla compatibilità di questo signore con il concetto di Giustizia. In caso contrario, temiamo che qualcosa da dire, e da ridire, l'abbiano parecchi elettori.

MARCO TRAVAGLIOl’Unità (1 maggio 2007)*Il titolo è mio.

martedì, 22 maggio 2007 C'È POSTA PER LUI: PAUL WOLFOWITZ

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Gent.mo dr. Paul Wolfowitz,

ho visto la conferenza stampa in cui lei, sudato e tremante, chiedeva scusa per aver procurato la promozione e l’aumento alla sua amante, la bella tunisina Shaha Riza, manager della Banca Mondiale da lei presieduta. I soliti moralisti protestanti han tirato fuori il codice etico e il conflitto d’interessi. Che paroloni! Lei, dr. Wolfowitz, non ha sbagliato a promuovere la sua donna: lei ha sbagliato paese. Da noi l’etica e il conflitto d’interessi sono caduti in prescrizione. Per parenti, amici e amanti si fa di tutto, di più. Alla luce del sole, con un certo vanto. Diceva Longanesi: “Nel tricolore andrebbe scritto: tengo famiglia”. Siamo un paese di mamme, babbi, figli e soprattutto nipoti. Ci scherzava su il cardinale Enea Silvio Piccolomini, appena divenne papa Pio II, nel ‘400: “Quand’ero solo Enea, nessun mi conoscea; ora che sono Pio, tutti mi chiaman zio”. Se lei visitasse la Rai, scoprirebbe decine di cognomi famosi, soprattutto politici: Andreatta, Bernabei, Berlinguer, Donat-Cattin, Leone, Letta, Mancini, Mancino, Rauti, Ruffini, Scelba, Squillante, Sottile. Non sono omonimi: sono proprio parenti. E alcuni sono pure bravi. La Rai ha assunto come dirigenti il capoautista e l’assistente di Berlusconi, e persino il figlio della segretaria di Gelli. Ma a Mediaset è lo stesso, per esempio al Tg5: Geronzi, Confalonieri, Agnes, Loiero, Buttiglione, Sterpa, Caputo, Reviglio. Poi si faccia un giro in Parlamento. Lì il seggio è ereditario. Craxi, quello che voi chiamereste latitante e noi chiamiamo esule, ha lasciato in eredità addirittura due seggi: la figlia Stefania deputata di destra, il figlio Bobo sottosegretario a sinistra. Forlani, più modestamente, ha piazzato un solo figlio, Alessandro (Udc). Anche perché non ne aveva altri. Cossiga ha portato il figlio Giuseppe (FI) e il nipote Piero Testoni (FI). Perchè i parlamentari non li eleggiamo più: li nominano i partiti, con le liste bloccate. È molto più pratico. Al Senato è arrivato il fratello di Pecoraro Scanio, Marco, che s’era fatto valere come terzino dell'Avellino. Poi c’è l’esercito delle mogli, versione all’italiana delle quote rosa. Alla Camera ora siede la prima moglie di Paolo Berlusconi, Mariella Bocciardo (FI). Al Senato c’è la signora Bassolino, Annamaria Carloni. Madama Fassino, Anna Serafini, è deputata per la quinta volta. Il regolamento Ds vietava più di 2 mandati, ma ci hanno aggiunto una parolina: “consecutivi”. Lei aveva saltato un turno, ed è rientrata. Il prof. Pasquino li chiama "ricongiungimenti familiari in Parlamento". Ma il più devoto ai sacri valori della famiglia è Clemente Mastella. La sua signora, Sandra Lonardo, è presidente del consiglio regionale Campania. Il cognato Pasquale Giuditta invece è deputato. La nuora lavora all’Authority delle Comunicazioni. Lui naturalmente è il ministro della Giustizia. Ma non è vero che piazza solo i parenti. L’altro ieri ha promosso direttore generale del ministero Gianpiero Nuvoli, un ex forzista passato all’Udeur che aveva proposto di impiccare Borrelli sulla forca in piazza. E, visto che gli piace il patibolo, gli ha dato la delega ai diritti umani. Purtroppo in Parlamento i posti sono limitati. Chi resta fuori si arrangia come può. Per esempio

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sfruttando al massimo i posti di portaborse. Leggere ‘La Casta’, il nuovo libro di Stella e Rizzo, per credere. Bossi, nemico giurato del clientelismo di Roma ladrona, sistema il fratello Franco e il figlio Riccardo al Parlamento europeo, come assistenti degli on. Salvini e Speroni. I curriculum sono di tutto rispetto: Riccardo è studente fuori corso, Franco ha un negozio di autoricambi a Fagnano Olona. Altri due leghisti si sono scambiati le mogli a Montecitorio: l’on. Ballaman assume come assistente la moglie dell’on. Balocchi, che ricambia ingaggiando come portaborse la signora Ballaman. Marco Follini si è spostato da destra a sinistra ma sua moglie Elisabetta Spitz è rimasta direttore del Demanio, nominata dal governo di centro-destra e confermata dal centro-sinistra. Giorni fa Cristiano Di Pietro, consigliere provinciale di Campobasso, è stato ricevuto per una riunione sull’energia eolica dal ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro, che è pure suo padre. E’ uscito molto soddisfatto. Poi dicono che nelle famiglie non c’è dialogo. Nel calcio, fino all’anno scorso, regnava una cupoletta chiamata Gea World, inventata da Luciano Moggi riunendo tanti figli e figlie di papà: il suo e quelli del banchiere Geronzi, del cittì Lippi, dell’on. De Mita, dei bancarottieri Tanzi e Cragnotti. Da quelle parti si faceva le ossa un giovane procuratore in erba, Pellegrino Mastella. Che non è omonimo del ministro: è proprio suo figlio, il marito di quella dell’Authority. Montanelli, contro il nepotismo, proponeva una soluzione drastica: sterilizzare i vip. Naturalmente non gli diedero retta. Perciò, dr. Wolfowitz, se le andasse male alla Banca Mondiale, si trasferisca in Italia. Come minimo, la inviterebbero al congresso Ds e a comprarsi la Telecom. E c’è il rischio che diventi premier. Da noi la famiglia viene prima di tutto. Anzi, se si spiccia con l’aereo, arriva giusto in tempo per il Family Day.

POSTA PRIORITARIAMARCO TRAVAGLIOAnnozero (3 maggio 2007)Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.

L'impegno dello Stato nella lotta alla criminalità organizzata è emotivo, episodico, fluttuante. Motivato solo dall'impressione suscitata da un dato crimine o dall'effetto che una particolare iniziativa governativa può suscitare sull'opinione pubblica.

Si muore generalmente perchè si è soli o perchè si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perchè non si dispone delle necessarie alleanze, perchè si è provi di sostegno.

In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.

Temo che la magistratura torni alla vecchia routine: i mafiosi che fanno il loro mestiere da un lato, i magistrati che fanno più o meno bene il loro dall'altro, e alla resa dei conti, palpabile, l'inefficienza dello Stato.

Un'affermazione del genere mi costa molto, ma se le istituzioni continuano nella loro politica di miopia nei confronti della mafia, temo che la loro assoluta mancanza di prestigio nelle terre in cui prospera la criminalità organizzata non farà che favorire sempre di più Cosa Nostra.

La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione.

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Lo stesso meccanismo di espulsione, praticamente, che si ritrova tra gli eschimesi e presso altri popoli che abbandonano i vecchi, i malati gravi, i feriti perché intralciano il loro cammino in una terra ostile, mettendo in pericolo la sopravvivenza di tutti. In un gruppo come la mafia, che deve difendersi dai nemici, chi è debole o malato deve essere eliminato.

Perché rievoco questo episodio? Perché dimostra ancora una volta quanto siano abili, decisi, intelligenti i mafiosi, e quanta capacità e professionalità è necessaria per contrastare la violenza mafiosa. La mia grande preoccupazione è che la mafia riesca sempre a mantenere un vantaggio su di noi.

Per vent'anni l'Italia è stata governata da un regime fascista in cui ogni dialettica democratica era stata abolita. E successivamente un unico partito, la Democrazia cristiana, ha monopolizzato, soprattutto in Sicilia, il potere, sia pure affiancato da alleati occasionali, fin dal giorno della Liberazione. Dal canto suo, l'opposizione, anche nella lotta alla mafia, non si è sempre dimostrata all'altezza del suo compito, confondendo la lotta politica contro la Democrazia cristiana con le vicende giudiziarie nei confronti degli affiliati a Cosa Nostra, o nutrendosi di pregiudizi: "Contro la mafia non si può far niente fino a quando al potere ci sarà questo governo con questi uomini".

Possiamo sempre fare qualcosa: massima che andrebbe scolpita sullo scranno di ogni magistrato e di ogni poliziotto.

Giovanni Falcone

(Palermo, 18 maggio 1939 – Capaci, 23 maggio 1992)martedì, 15 maggio 2007

FAMILIARMENTE

vedi pg precedenti

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C'ERA UNA VOLTA TANGENTOPOLI

L’ANNIVERSARIO L’ex premier accusa la Procura di Milano di una vera persecuzione politica: eppure tutti i rilievi che muove e le polemiche hanno gambe corte.Mani pulite 15 anni dopo, le bugie di chi ha combattuto l’inchiesta

Oggi ricorre il 15° anniversario dell’arresto di Mario Chiesa, che diede il via all'indagine Mani Pulite. Per l'occasione, vengono riesumate su giornali e tv tutte le bugie e i luoghi comuni inventati nell'ultimo decennio per la campagna revisionista craxian-berlusconiana, che ha trovato tante sponde anche a sinistra. Proponiamo qui un piccolo riepilogo delle falsità più smaccate, seguite dalla confutazione dei fatti e dei documenti.

1) Manette facili. «I magistrati milanesi abusavano della carcerazione preventiva per estorcere confessioni agli indagati» (Silvio Berlusconi, 30-9-2002). La frottola delle "manette facili" non sta in piedi. Nemmeno un caso concreto è stato mai dimostrato, anzi c'è la prova del contrario, fornita da una fonte insospettabile: gli ispettori sguinzagliati dal primo governo Berlusconi contro la Procura di Milano proprio per cercarvi qualche pelo nell'uovo. Nella loro relazione ispettiva finale, resa nota il 15 maggio '95, si legge: «Nessun rilievo può essere mosso ai magistrati milanesi, i quali non paiono aver esorbitato dai limiti imposti dalla legge nell'esercizio dei loro poteri... Non si è riscontrata un'apprezzabile e significativa casistica di annullamenti delle decisioni che hanno dato luogo a quelle detenzioni... I provvedimenti custodiali sono stati spesso suffragati... dall'ulteriore e decisiva prova della confessione dell'indagato. Né è risultato che tali confessioni siano state in seguito ritrattate perché rese sotto la minaccia dell'ulteriore protrarsi della detenzione.... Non è possibile ascrivere quelle confessioni alle "condizioni fisiche e psicologiche disumane" nelle quali si sarebbero venuti a trovare molti indagati, alcuni dei quali suicidatisi, condizioni cui fa riferimento l'on. Sgarbi: non è stata mai segnalata l'applicazione di regimi detentivi differenziati e inaspriti rispetto alla generalità dei casi». Del resto, ogni ordinanza di cattura viene chiesta dal pm, è deliberata da un gip, riesaminata dal Tribunale della Libertà (tre giudici) e poi rivisitata dalla Cassazione (cinque giudici). Alla bufala delle manette facili si aggancia quella dei presunti suicidi in carcere: invece nessun arrestato su richiesta del pool Mani pulite si è mai tolto la vita in cella. 2) Comunisti risparmiati. «C'è stata una guerra civile negli anni 90, quando una piccola parte della magistratura eliminò dalla scena politica i partiti che avevano governato il Paese per mezzo secolo, lasciando fuori quello comunista. Un'azione lungamente studiata dai comunisti per la presa del potere» (Berlusconi, 13-11-2001). Ma i primi due politici doc arrestati in Mani Pulite erano dell'ex Pci: Soave e Li Calzi. Il pool di Milano inquisì quasi l'intero vertice del Pci-Pds milanese. E poi le prime elezioni dopo Tangentopoli non le vinsero le sinistre: le vinse Berlusconi. Resta da capire comunque quando Berlusconi abbia maturato quelle bislacche convinzioni, visto che - come vedremo - elogiò per due anni Mani Pulite, e offrì a Di Pietro il ministero dell'Interno e a Davigo il ministero della Giustizia nel suo primo governo. Forse perché era conscio che non il pool di Milano, ma la corruzione era all'origine del

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tracollo della Prima Repubblica, come lui stesso ebbe a dire in tv nel discorso della discesa in campo: "La vecchia classe politica italiana è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. L'autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal peso del debito pubblico e del sistema del finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio a una nuova Repubblica" (26-1-94). E poco dopo: "Basta con i ladri di Stato, noi siamo per una politica nuova, diversa, pulita. Siamo l'Italia che lavora contro l'Italia che ruba (6-2-94). Ancora nel dicembre '94, dopo le dimissioni di Di Pietro, il giudizio di Berlusconi sull'uomo-simbolo di Mani Pulite era semplicemente entusiastico: "Sarebbe giusto che un uomo con le qualità di Di Pietro le facesse valere sulla scena politica. La sua discesa in campo potrebbe essere una buona cosa. La sua ansia moralizzatrice è patrimonio di tutti e potrebbe essere utile al Paese. I miei giornali, le mie tv, il mio gruppo sono sempre stati in prima fila nel sostenere i giudici di Mani Pulite (8-12-94). I giudici non hanno mai impedito ad alcun partito o candidato di presentarsi alle elezioni. Erano gli elettori che, sapendo quanto questi avevano rubato, non li avrebbero più votati. Così si presentò Berlusconi: perché nel '94 non candidò nessun politico inquisito della Prima Repubblica, visto che nessuno era stato arrestato né inibito dei diritti civili? Perché, anziché candidare Craxi in Forza Italia, permise che perdesse l'immunità parlamentare e fuggisse ad Hammamet? 3) La persecuzione politica. «Appena sono sceso in politica, hanno cominciato a fischiare i proiettili delle procure eccellenti per rovesciare il mio governo» (Berlusconi, 16-4-1998). Ma è vero il contrario: prima nascono le inchieste sulla Fininvest, poi (e forse proprio per questo) Berlusconi "scende in campo" politico. La prima indagine sul Berlusconi imprenditore, per traffico di droga, fu aperta dalla Guardia di Finanza a Milano nel lontano 1983 e poi archiviata. Nel 1989 Berlusconi viene processato a Venezia per falsa testimonianza sulla loggia P2: nel 1990 la sezione istruttoria della Corte d'Appello ritiene il reato dimostrato, ma estinto per l'amnistia appena varata dal Parlamento. Le prime indagini del pool Mani Pulite in casa Fininvest risalgono al '92, quando analoghi accertamenti investivano tutti i gruppi imprenditoriali di livello nazionale, e quando nessuno sospettava che, di lì a due anni, Berlusconi sarebbe entrato in politica. Risale ad allora, cioè ai primordi di Mani Pulite, il primo rapporto del Secit sulle irregolarità fiscali di Publitalia. Il 26 giugno '92 il pool fa arrestare Aldo Brancher, braccio destro di Confalonieri, per 300 milioni versati al ministro De Lorenzo. Vengono anche accertati finanziamenti al segretario del Psdi Antonio Cariglia. Il 23 novembre '92 viene indagato Paolo Berlusconi per tangenti sulle discariche e subito dopo, a Roma, per i "palazzi d'oro". Il 4 novembre '93 il pm romano Maria Cordova chiede l'arresto di Gianni Letta e Adriano Galliani per presunte tangenti sul piano delle frequenze tv collegato alla legge Mammì. A Milano viene arrestato un altro manager del gruppo, Sergio Roncucci. Emergono mazzette Fininvest per discariche e campi da golf, palazzi venduti a enti previdenziali e così via. Finiscono sotto inchiesta anche una dozzina di manager del Biscione, tra cui Confalonieri, Foscale, Dell'Utri. Nel settembre '93 il pm Tiziana Parenti indaga sulle strane manovre della Fininvest per impedire, nel 1986, la pubblicazione della biografia non autorizzata di Berlusconi dagli Editori Riuniti. Il 9 settembre 1993 i giornali annunciano che la Parenti sentirà presto Berlusconi. Ma non farà in tempo. Sarà Berlusconi a

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convocarla: per candidarla in Forza Italia. La realtà, dunque, è il contrario della vulgata berlusconiana: all'inizio del '94 il Cavaliere, sentendo stringersi intorno a sé il cerchio delle inchieste, si butta in politica. Lo confida lui stesso a Montanelli e Biagi: "Se non entro in politica, finisco in galera e fallisco per debiti". Le indagini sono una causa, non un effetto della discesa in campo. Lo afferma esplicitamente il gup di Brescia Carlo Bianchetti il 15 maggio 2001: «Risulta dall'esame degli atti che, contrariamente a quanto si desume dalle prospettazioni del denunciante (Berlusconi, nda), le iniziative giudiziarie... avevano preceduto e non seguito la decisione di "scendere in campo"... La Procura di Milano aveva già avviato numerosi procedimenti per fatti concernenti lui e/o le sue aziende, compiendo tra il 27 febbraio '92 e il 20 luglio '93 ben 25 accessi presso le diverse sedi Fininvest e Publitalia... si può affermare che l'impegno politico del denunciante e le indagini ai suoi danni non si pongono tra loro in rapporto di causa-effetto; la prosecuzione di indagini già iniziate, e l'avvio di ulteriori indagini collegate, in nessun modo possono connotarsi come attività giudiziaria originata dalla volontà di sanzionare il sopravvenuto impegno politico dell'indagato e a tal fine diretta». 4) L'accanimento anti-Fininvest. «C'è un accanimento spietato che si sta producendo nei confronti di un solo gruppo industriale. Un accanimento che non è casuale. I magistrati stanno facendo politica» (Berlusconi, 4-10-1994). In realtà tutti i grandi gruppi sono stati coinvolti da indagini, arresti, perquisizioni, processi negli anni di Mani Pulite: dalla Fiat alla Ferruzzi, da Ligresti a De Benedetti, da Lodigiani alle coop rosse, da Iri a Eni. Berlusconi, semmai, fa eccezione perché è uno dei pochi capitani d'industria a non esser mai stato arrestato. 5) Il golpe del '94. «Fui raggiunto a Napoli dall'invito a comparire, pubblicato dal Corriere della Sera in violazione del segreto istruttorio» (Berlusconi, 31-1-1998). «Questo potere arbitrario e di casta è stato illiberalmente esercitato nel 1994 contro un governo sgradito alla magistratura di sinistra, governo messo platealmente sotto accusa attraverso il suo leader in un procedimento iniziato a Napoli mentre presiedeva una Convenzione Onu» (Berlusconi, 29-1-2003). «Un colpo di malagiustizia privò il popolo del suo governo legittimo» (27-3-2004). Berlusconi si ostina a ripetere che il suo primo governo fu rovesciato dall'avviso di garanzia per le mazzette Fininvest alla Guardia di Finanza, a Napoli, mentre presiedeva un convegno sulla criminalità. Si trattava in realtà di un invito a comparire (una convocazione per un interrogatorio urgente), dovuto per legge, che non fu affatto notificato a Napoli, ma a Roma. Berlusconi era stato informato telefonicamente del contenuto dell'atto fin dalla sera del 21 dai carabinieri inviati da Borrelli a Roma nella convinzione che il premier fosse già rientrato, come da programma, dal vertice sulla criminalità di Napoli. Gli lessero 2 dei 3 capi d'imputazione, dopodiché il Cavaliere infuriato buttò giù la cornetta. L'indomani, quando la notizia uscì sul Corriere, non era dunque più coperta da segreto, essendo già nota all'indagato. Anzi, c'è il sospetto che fosse stata passata o almeno confermata al Corriere dall'entourage dello stesso premier, visto che il Corriere riportava solo 2 delle 3 tangenti contestate dal pool: guardacaso le stesse due che i carabinieri avevano fatto in tempo a leggergli la sera prima. In ogni caso fu Berlusconi, pur sapendo di essere accusato di corruzione, a decidere ugualmente di presiedere il convegno anche il giorno 22, da indagato, esponendo così l'Italia al ludibrio internazionale. Il

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governo Berlusconi poi cadde un mese dopo perché la Lega Nord gli tolse la fiducia sulla riforma delle pensioni.Tant’è che nel discorso di commiato dopo la sfiducia alla Camera, il 21 dicembre, Berlusconi fece molti attacchi a Bossi e nemmeno un accenno all'invito a comparire.

MARCO TRAVAGLIOl'Unità del 17 febbraio 2007

venerdì, 26 gennaio 2007 LA PECORELLA SMARRITA

Ora sì che lo riconosciamo di nuovo. È tornato lui, il Bellachioma di sempre, bello ringhioso come l’avevamo conosciuto ai bei tempi delle leggi illegali e della privatizzazione, anzi previtizzazione, dello Stato. È bastato che, in un giorno solo, l’Europa cancellasse i suoi aiuti pubblici ai decoder prodotti dal fratello condannando Mediaset e le altre tv a restituire il maltolto (400 miliardi di lire, che lo Stato riavrà grazie al ricorso di Europa7) e la Corte costituzionale radesse al suolo la legge Pecorella che aboliva il processo d’appello Sme e impediva ai pm di appellare le assoluzioni e le prescrizioni, per far cadere lifting, ceroni e trapianti e rivedere il vero Berlusconi. Quello che nel ’94 - anche se molti suoi oppositori fingono di dimenticarlo - era sceso in campo per non finire in galera e proteggere il suo monopolio televisivo incostituzionale. La doppia ragione sociale del suo impegno politico riemerge con le sue urla belluine contro la Consulta, rea di aver fatto il suo mestiere bocciando l’ennesima legge illegittima (dopo rogatorie, lodo Maccanico-Schifani, un pezzo di ex Cirielli e di Bossi-Fini), e contro la timidissima legge Gentiloni sulle tv, che pure regala ancora a Mediaset il 45% di affollamento pubblicitario (nel resto d’Europa il massimo è il 30) e le conserva tutte e tre le reti. Visto che la Consulta non prende ordini dal suo collegio difensivo, è «una cosa indegna» e «l’Italia non è una democrazia». E siccome la Gentiloni non l’han fatta scrivere a lui, è un «piano criminale contro le mie proprietà private», a difesa delle quali i suoi discepoli abbandonano come un sol uomo le commissioni parlamentari, in attesa che l’Unione si cali le brache per far tornare le pecorelle smarrite. Non bastasse tutto ciò, ci si mettono pure i titolari del Sorrento Palace, teatro dell’indimenticabile convention dei Dell’Utri Boys: anziché sentirsi onorati per aver ospitato l’Evento, questi mariuoli pretendono addirittura che Dell’Utri paghi il conto: una cosina da 700 mila euro. E poi dicono che l’Italia è una democrazia. Chissà, di questo passo, dove andremo a finire. E non basta ancora, perché il presidente d’Israele Moshè Katsav, nemmeno ancora incriminato per uno scandalo sessuale, non trova di meglio che autosospendersi e promettere le dimissioni se sarà rinviato a giudizio: lo fa apposta per mettere in cattiva luce il Cavaliere, che di rinvii a giudizio ne ha avuti una dozzina, ma non s’è mai posto il problema (anche perché il centrosinistra si guardò bene dal porglielo, anzi lo pregò di restare a Palazzo Chigi). Se questa non è giustizia a orologeria!

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Ora, grazie alla Consulta, è probabile che l’abrogato processo d’appello Sme a Berlusconi, in cui i pm chiedevano di trasformare la prescrizione in condanna revocando le attenuanti generiche generosamente concesse dal Tribunale, si riapra. Anche se è improbabile che giunga in porto prima d’esser falcidiato dall’ex Cirielli. Ma soprattutto ripartiranno gli altri appelli, per esempio quello di Palermo a carico di Dell’Utri appena assolto per il complotto ultraprovato con falsi pentiti contro quelli veri. Gli errori giudiziari più diffusi, si sa, non sono le condanne degli innocenti, ma le assoluzioni dei colpevoli. Ed era per consolidare queste ultime che era nata la bella trovata di abolire l’appello del pm (ma non del condannato). Ora l’ottimo Pecorella, che un anno fa si era visto dichiarare incostituzionale la sua legge da Ciampi, ma l’aveva ripresentata quasi uguale, ottenendo anche una proroga di 15 giorni sulla fine della legislatura per mandarla in porto, piagnucola con argomenti piuttosto miserelli. Farfuglia di «oscurantismo giudiziario», come se fino a un anno fa l’Italia avesse vissuto nel Medioevo. Afferma che, nel processo accusatorio basato sull’oralità, non ha senso l’appello sulle carte, e avrebbe ragione se solo completasse l’opera chiedendo di abolirlo per tutti, anche per i condannati. Poi vaneggia di un «regalo della Consulta ai pm», come se i pm facessero le indagini per sfizio personale, per divertirsi un po’, o per guadagnare di più, e non invece perché rappresentano il «pubblico ministero», cioè tutta la collettività, e hanno l’obbligo di scoprire la verità, facendo condannare i colpevoli e assolvere gli innocenti, contrariamente ai difensori, che sono pagati per far assolvere il cliente sempre e comunque, colpevole o innocente che sia. Ma certo, per chi era abituato a vincere i processi per legge (fatta da lui), è dura riabituarsi alla normalità. 

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIO

l'Unità 26 gennaio 2007

giovedì, 25 gennaio 2007 SILVIO, ADORATORI A CONFRONTO. UOMINI CONTRO

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Diceva Indro Montanelli che lo conosceva bene: «Berlusconi non ha idee: ha interessi». Peccato che ci abbia lasciati nel 2001, altrimenti da domani a sabato potrebbe farsi una cultura al convegno di tre giorni promosso dall’Aldrovandi Palace di Roma dalla fondazione Liberal e tutto dedicato al pensiero e all’opera di Silvio Berlusconi. Come ognuno può capire, la parte più ardua sarà quella dedicata al pensiero: per rintracciarne qualche vestigio, sono da mesi all’opera squadre di speleologi, entomologi, carabinieri del Ris ed esperti di microtracce. Poi, se resterà tempo, si passerà alle opere II programma dell'Evento è stato anticipato ieri da "Libero", che ha anche pubblicato in esclusiva la relazione di uno degli oratori più attesi, l'ex-dc Sandro Fontana, che nella Prima Repubblica si firmava Bertoldo sul "Popolo" e nella Seconda è passato felicemente da Donat-Cattin alla spalla di Apicella. «Il berlusconismo diventa una scienza», annuncia il quotidiano diretto da Feltri e vicediretto da Betulla & Pompa. Ed eccoli, gli scienziati chini sull'oggetto dei loro studi. Ferdinando Adornato aprirà i lavori con una relazione dal titolo «Una nuova storia italiana», prosecuzione naturale della prima «Storia italiana», il fotoromanzo-distribuito nella campagna elettorale 2001 che fece schiattare d'invidia Kim II Sung. Seguiranno un'omelia di Gianni Budget Bozzo («L'invenzione del centrodestra») e una prolusione del vice-Pera Gaetano Quagliariello («La Prima Repubblica: continuità e discontinuità»). Qualche minuto di svago con Renato Brunetta per l'angolo «nani & ballerine», poi di nuovo discorsi seri con Belardinelli, il già citato Fontana e Malgieri. Ma il compito più improbo l'avrà Renato Cristin, che intratterrà i fedeli su «La Berlusconomics», l'originale dottrina economica berlusconiana che è riuscita nella difficile impresa di portare l'Italia alla crescita zero e Mediaset alla

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crescita mille. Da non perdere poi la relazione di Angelo Crespi, discepolo della scuola dellutriana, che si esibirà nell'ardito ossimoro «La tv, la democrazia». Paolo Guzzanti, purtroppo sprovvisto di Scaramella, concionerà su «L'attualità dell'anticomunismo»: poi, per i più scettici, parlerà Renzo Foa, che degli orrori del comunismo è la prova vivente insieme a Ferrara, Adomato e Bondi. Il quale Bondi sarà presente in sala, ma non è previsto che parli: pregherà nella cappella attigua consacrata al Divino Amore Arcoriano, che, come il suo più noto collega, si materializzerà il terzo giorno per chiudere il convegno a Lui dedicato. Sulle prime, secondo i bene informati, il Cavaliere aveva espresso qualche perplessità sull'iniziativa, che era parsa persino a lui un tantino eccessiva. Poi però ha deciso di lasciar fare: Nando, James e gli altri ci tenevano tanto. Sono ragazzi. Di Adornato si erano perse le tracce la sera del 20 aprile 2006, quando aveva dovuto lasciare il pur inutile incarico di presidente della commissione Cultura per sprofondare in un anonimato ancor più anonimo di prima. È costui, se non andiamo errati, lo stesso Adornato che stava nel Pci, poi nel Pds, poi in Alleanza democratica, che idolatrava il pool Mani Pulite con encomi davvero imbarazzanti, che nel '94 entrò in Parlamento grazie a un collegio blindato nella rossa Umbria e giurò: «Ci siamo presentati alle elezioni in un'alleanza, nei Progressisti. Restiamo nei Progressisti: abbiamo perso, quindi staremo all'opposizione. C'è un dovere per gli eletti sotto uno stesso simbolo, quello di adeguarsi a uno stesso comportamento parlamentare». Bossi, per lui, era «un guitto», ma il più pericoloso era il Cavaliere: «Nessun partito della Provvidenza, nessun'alleanza potrà fare miracoli. Anche se ci fosse Gesù Cristo non riuscirebbe a farli e Berlusconi, più che Gesù Cristo, mi sembra Lazzaro: il miracolato dal vecchio sistema dei partiti». Poi scrisse un libro molto pensoso, «Oltre la sinistra»: così oltre, ma così oltre, che si ritrovò in Forza Italia senza passare dal via. Ora è lui ad avviare il processo imbalsamazione di Bellachioma I, con una trovata che sarebbe parsa un filo esagerata anche a Saddam. Altri particolari sul convegno di studi, purtroppo, non ne filtrano. Ma già Isoradio segnala addensamenti del traffico in direzione Roma per via delle carovane di pullman e treni speciali carichi di imbalsamatori, restauratori, mummificatori, truccatori, tricologi, donatori piliferi, chirurghi plastici, visagisti, installatori di dentiere e bandane, stallieri, pregiudicati, liberi muratori, architetti da mausoleo, veline e meteorine, botanici del ramo cactus, servi sciocchi e soprattutto furbi, psichiatri e casi psichiatrici, mezzibusti con inginocchiatoio incorporato, senza dimenticare Fabrizio Cicchitto che discetterà sulle più moderne tecniche di incappucciamento e Renato Schifani che illustrerà il valore del riporto nel Terzo Millennio. Non risultano interventi degli on. avv. Ghedini e Pecorella, che pure avrebbero tanto da raccontare sulle migliaia di nuovi posti di lavoro creati dall'illustre cliente nelle questure e nei tribunali. Previsto invece un notevole spiegamento di forze dell'ordine, addette per metà alla protezione dei convegnisti e per metà alla protezione dai convegnisti. Pare che l'Evento sarà trasmesso in diretta dalla tv di Stato del Turkmenistan, dove un mese fa è prematuramente scomparso il dittatore pazzo Serdar Turkmenbashi, al secolo Saparmurat Nyiazov, celebre per aver inaugurato uno sfrenato culto della sua personalità, facendo sparire i giornalisti nemici, accumulando enormi fortune,

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schierando il paese contemporaneamente con Bush e con Putin, progettando laghi e foreste artificiali, trasformando il Parlamento in una dependance di casa sua, tenendo i giovani nella più crassa ignoranza, raccogliendo il suo pensiero in un agile libretto divenuto obbligatorio in tutte le scuole. Da quando, alla vigilia di Natale, il tiranno è prematuramente scomparso a 65 anni, il Turkmenistan cercava affannosamente un successore degno di lui. E stava quasi per rassegnarsi. Poi la notizia della tre giorni di Roma ha riacceso le speranze. 

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità 24 gennaio 2007

martedì, 12 dicembre 2006 SE LO LASCI NON VALE

Mentre tutti si domandano se «Casini fa sul serio», a molti sfugge un particolare già assodato: Bellachioma fa sul serio. Per informazioni, rivolgersi a quanti, nel corso degli anni, hanno tentato di mollarlo, o di prendere timidamente le distanze, o di mettersi sulla sua strada. Diciamo che non sono stati fortunati. Il primo fu Umberto Bossi, che nel dicembre '94 rovesciò il suo primo governo dopo sette mesi. «Giuda, traditore, personalità doppia e tripla, ladro e ricettatore di voti», lo apostrofò in pieno Parlamento il leader del Partito dell'Amore. Era il segnale convenuto. Da quel momento i giornali e le tv della ditta si riempirono di servizi sui leghisti che abbandonavano la Lega, di interviste a presunti iscritti che stracciavano la tessera, di sondaggi immaginari che davano la Lega allo 0,001% o addirittura sottozero, di ritratti idilliaci del leader della «vera Lega» fedele a Berlusconi, cioè Bobo Maroni. Poi Bossi e il suo partito scomparvero dalla tv, a reti unificate. Nel '99, dopo 5 anni di manganellamento catodico, il Senatur tomò all'ovile. Nel luglio '95 Stefania Ariosto decise di raccontare ciò che aveva visto alla corte di Berlusconi e Previti: per Natale, ricevette un pacco dono con dentro una testa di coniglio mozzata galleggiante nel sangue. Nell'aprile '96 Chiara Beria di Argentine, sull'Espresso, pubblicò le foto della Ariosto - dipinta come una mitomane da Previti & C. - insieme a Previti & C. Poche settimane dopo, la sua villa in Toscana fu polverizzata da un misterioso attentato. Nel 2004, dopo l'ennesimo rovescio elettorale, l'allora segretario dell'Udc Marco Follini impose a Berlusconi una severa verifica di governo. In uno dei tanti vertici, Bellachioma fece capire a lui e a Casini che col fuoco non si scherza: «Voi ex democristiani mi avete rotto il cazzo, me lo hai rotto tu, Pierferdinando, e il tuo segretario Pollini. Basta con la vecchia politica. Conosco i vostri metodi da irresponsabili. Fate favori di qua e di là e poi raccogliete voti, ma io vi denuncio, non ve la caverete a buon mercato, vi faccio a pezzi. Io le tv le so usare e le userò. Chiaro? Mi avete rotto i coglioni. Non mi faccio massacrare due anni e mezzo per poi schiattare come un pollo cinese. Se

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andiamo avanti in questo modo ci stritolano, lo capite o no, affaristi che non siete altro?» (Libero, 6 febbraio 2004). A luglio, nel vertice plenario della Cdl, seconda puntata. Berlusconi: «Follini, mi hai rotto i coglioni... Parliamo della par condicio: se non abbiamo vinto le elezioni, caro Follini, è colpa tua che non l'hai voluta abolire». Follini: «Io trasecolo: credevo che dovessimo parlare dei problemi della maggioranza e del governo». Berlusconi: «Non fare finta di non capire. La par condicio è fondamentale. Capisco che tu non te ne renda conto, visto che sei già molto presente sulle reti Rai e Mediaset». Follini: «Sulle reti Mediaset ho avuto 42 secondi in un mese». Berlusconi: «Non dire sciocchezze, la verità è che su Mediaset nessuno ti attacca mai». Follini: «Ci mancherebbe pure che mi attacchino». Berlusconi: «Se continui così, te ne accorgerai. Vedrai come ti tratteranno le mie televisioni». Follini: «Voglio che sia chiaro a tutti che sono stato minacciato» (dai giornali del 12 luglio 2004). Poi Bellachioma sistemò la famiglia: »La signora Follini s'è arrabbiata perché ho detto che la politica è l'unica passione di suo marito? Mi fa piacere che, oltre a parlare di politica, facciano anche altro...» (14 dicembre 2005). Da allora Follini è disperso, rimpiazzato con l'ottimo Cesa. Quando va al ristorante, si porta dietro l'assaggiatore, essendo le scorte di polonio tutt'altto che esaurite.Ora tocca a Piercasinando. Libero lo chiama "infedele", mentre il Giornale della ditta gli dedica un'intera pagina di lettere minacciose e insultanti. Ce n'è persino qualcuna che inneggia a Carlo Giovanardi, il forzista prestato all'Udc, come nuovo segretario. Che il Fernandel della bassa emiliana avesse dei fans, non lo sospettava nemmeno il più fantasioso degli autori satirici. Ma non si butta via niente. Infatti il giornale dei vescovi ha subito dedicato a questo trascinatore di folle un'ampia e articolata intervista. Si attendono a minuti le rivelazioni di Scaramella sul ruolo decisivo di Casini nel Kgb, nel caso Moro e nell'attentato al Papa. 

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità 9 dicembre 2006  

lunedì, 04 dicembre 2006 POLONIO MONZESE

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Chi ha conosciuto Paolo Guzzanti come un allegro e spensierato giornalista amante degli scherzi e delle parodie, inimitabile imitatore di Cossiga, di Berlusconi e di tanti altri politici, ispiratore scanzonato dei suoi tre meravigliosi ragazzi, non può smettere di trasecolare dinanzi alla sua metamorfosi in un occhiuto e un po’ fanatico cacciatore di spie sovietiche nei salotti di Prodi e Pecoraro Scanio. Da comico consapevole a comico involontario, il passo è stato breve. Era meglio il primo, ma fa più ridere il secondo. Da quando gli han messo in mano il giocattolo della commissione Mitrokhin, l’uomo che telefonò a Renzo Arbore facendogli credere di essere Pertini ha fatto credere a se stesso di essere un agente del controspionaggio occidentale. E ha messo in piedi una sceneggiatura che fa impallidire i film dei fratelli Vanzina. Al posto di Boldi e De Sica, c’è la coppia Guzzanti-Scaramella che passava il suo tempo, a spese dei contribuenti, a interrogare agenti del Kgb in pensione per far loro sputare la terribile verità: e cioè che Prodi era il capocentro dell’intelligence sovietica in Italia (nome in codice «Romanoff Mortadella», la spia che venne dal gastronomo), coinvolto come minimo nel sequestro Moro, per non parlare di Pecoraro Scanio, che fra l’altro ha proprio il phisique du rhole dell’ufficiale sovietico (nome in codice Pekorovsky Skaniovsky, da Mergellina con furore). Nel film «Vacanze a Mosca», Guzzanti sta all’intelligence come l’ispettore Clouseau stava alla Sureté. Scaramella, giudice onorario a Ischia nonché consulente atomico - ora indagato per traffico d’armi e sospettato addirittura per la morte del povero Litvinenko, avvelenato col polonio nel sushi bar di Londra - svolge le funzioni che nelle avventure di Clouseau ricopre Kato, il maggiordomo giapponese esperto in arti marziali. Intercettato dai giudici, Kato Scaramella informa The Light Blue Panther delle sue clamorose scoperte. Nel gennaio 2006 la mitica commissione sta per chiudere bottega e bisogna fare in fretta. Kato non ha ancora trovato nessuno che gli confermasse che Prodi era del Kgb, ma qualcuno gli ha detto che era «coltivato», manco fosse un campo di patate. Clouseau Guzzanti è eccitatissimo: «Coltivazione è abbastanza, eh? Accidenti, questa è una bomba termonucleare!». E corre a riferire al «Capo», al secolo Bellachioma, che sverna a Villa Certosa. «La notizia ha avuto un forte impatto. Gli ho detto che il problema di questa faccenda è che, se andiamo a processo (se Prodi lo denuncia per diffamazione, ndr), dobbiamo dimostrare ciò che diciamo. E lui mi ha detto: “Un momento, intanto li costringiamo a difendersi”». Poi però il Capo lo liquida, ha ben altro da fare: aspetta Bossi per cena.

Un’altra volta Kato impapocchia un thriller a base di Bassolino, camorra, coop rosse e qualche bomba atomica in quel di Rimini. Clouseau è al settimo cielo: «Si possono usare queste informazioni? Io ne ho bisogno adesso». Stavolta quel sant’uomo di Bellachioma gli dà retta e spara la superballa in campagna elettorale. Ma viene subito smentito dai giudici. Della bomba termonucleare, invece, non si saprà più nulla: continuerà a ripeterla il solo Guzzanti. Il Capo le gaffes sa farle benissimo da solo, senza bisogno di aiuto.

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Un giorno Scaramella apprende di essere intercettato e corre ad avvertire Guzzanti. Astuto com’è, lo fa dal telefonino, così lo scoprono subito. Un genio. Poi la Mitrokhin chiude mestamente i lavori senz’aver cavato un ragno dal buco. Ma Guzzanti non si dà per vinto e piagnucola perché nessuno vuole pubblicare le sue clamorose scoperte. «A parte Libero e il Giornale», si capisce. Quando parla di Scaramella gli brillano gli occhi. Lo porta in palmo di mano. Dice che è stato decisivo nel risolvere i principali misteri d’Italia, dalla strage di Bologna al caso Moro. Poi, nel giugno 2005, magnifica la «grande operazione di polizia della squadra mobile di Rimini che ha portato all’individuazione di due componenti da cinque chili di una valigetta nucleare contenente uranio arricchito per uso bellico. Il tutto scaturisce da una segnalazione fatta da Mario Scaramella, che ha avuto un ruolo molto importante e rilevante nel segnalare il traffico». Ora, all’improvviso, lo scarica. Dice che ha «sempre sospettato di lui», che «non mi convinceva fin dall’inizio». Insomma, Guzzanti & Scaramella si separano. Questa, dopo Boldi & De Sica, proprio non ci voleva. 

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIO

FIGLI DI PUTIN

Fino a sei mesi fa, a rallegrare i vertici internazionali con le sue gaffes e le sue battute pecorecce, provvedeva Bellachioma. Poi perse le elezioni e salutò tutti. «Ma torno presto», minacciò. In attesa che l'Unione lo resusciti e restituisca come nuovo ai colleghi statisti, questi l'hanno rimpiazzato con una nuova macchietta: Vladimir Putin, che fra l'altro è uno dei suoi migliori amici («Lui mi chiama Silvio, io lo chiamo Volodia», flautò Bellachioma con un gatto soriano in testa, nel leggendario tete-à-tete nella dacia).

Nessuno, fino a pochi giorni fa, aveva mai sospettato che dietro la mutria vagamente inquietante dell'ex spione del Kgb si celasse un buontempone da osteria, o da fureria. Evidentemente Volodia, finché era in circolazione l'amico Silvio, non voleva oscurarne la stella: nell'avanspettacolo la spalla non deve mai urtare il capocomico. Ma ora che Silvio s'è preso un anno sabbatico, l'amico Vladimir ha acquisito via via coraggio, recitando gli stessi copioni che avevano reso celebre il maestro di Arcore.

Ha cominciato con una leggiadra battutina sul presidente israeliano accusato di aver violentato una decina di donne: «Eh eh, noi lo invidiamo tutti per questo, fategli le congratulazioni…». Gelo in sala. Strano, dev'essersi detto Volodia: quando questa la diceva Silvio, ridevano tutti. Proprio l'altro giorno, a Vicenza, quando Bossi ha urlato «Noi ce l'abbiamo duro, per questo sono venute tante donne», hanno sorriso tutti di gusto. Le vestali delle «quote rosa» non han trovato nulla da ridire, né i puristi del politically correct col ditino alzato. Ma le barzellette, soprattutto quando sono così eleganti, bisogna saperle raccontare. Silvio e Umberto sono dei professionisti («Noi di Forza Italia le donne dei giudici le insidiamo eccome: siamo tombeurs de femmes!», dichiarò simpaticamente il Cavaliere, e tutti giù a ridere).

L'amico Putin, invece, deve ancora farne di strada. Così il pover'uomo, attaccato sui diritti umani in Russia, s'è buttato sul classico, cioè sui luoghi comuni: spagnoli corrotti, italiani mafiosi etc. (avrebbe potuto proseguire coi tedeschi kapò e mangiapatate, gli olandesi puttanieri e drogati, i

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belgi - Bossi dixit - «tutti pedofili»…). Altre polemiche a non finire. A nostro avviso, totalmente infondate. Riflettiamo. Con quali prove si accusa Putin dell'assassinio della giornalista scomoda Anna Politkovskaja? Le cose sono andate più semplicemente: un giorno, fra i cactus di Villa la Certosa, Silvio gli raccontò di aver fatto eliminare dalla Rai un comico e due giornalisti scomodi. Lui sparse subito la voce in giro a Mosca: qualcuno deve averlo preso troppo sul serio.

E con quale faccia si continua a molestarlo per la repressione in Cecenia? Tre anni fa, a Roma, Volodia e Silvio stavano dando il consueto spettacolo, quando un giornalista (ovviamente straniero) disturbò Ric & Gian con la Cecenia. Putin stava per rispondere, ma Bellachioma gli rubò il microfono e si propose come il suo Taormina personale: «Chiedo scusa a Putin, ma ora intervengo io come suo avvocato difensore, e per questo gli invierò una parcella di un euro. La verità è che ci sono realtà che vengono distorte dalla stampa. E anche per quanto riguarda la Cecenia. Lo so per certo perché mi sono informato con fonti italiane che conoscono bene la Russia: in Cecenia c'è un'attività terroristica con molti attentati, senza una risposta corrispondente da parte della Federazione russa, che anzi ha organizzato un referendum democratico. Non diffondiamo leggende, guardiamo ai fatti». Poi aggiunse che Putin è un «sincero democratico». Volodia, che in Cecenia ha fatto sparire un milione di persone, temette che Silvio l'avesse sparata un po' grossa. Ma poi vide che nessuno obiettava, così si convinse anche lui di essere democratico.

Tre anni dopo, qualche leader mondiale si rifà vivo con la solfa della Cecenia, e non c'è neppure l'amico Silvio a difenderlo. Deve fare tutto da solo, e allora gli viene in mente una cosa che da noi non dicono più nemmeno i comunisti: in Italia c'è la mafia. Chissà che gli è saltato in mente. Forse Silvio gli ha mostrato una foto di Vittorio Mangano. O gli ha presentato Marcello Dell'Utri. E lui s'è fatto delle strane idee.

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MARCO TRAVAGLIO

l'Unità 24 ottobre 2006

lunedì, 16 ottobre 2006 AMNESY INTERNATIONALLa legge Gentiloni sulle tv rischia di ottenere la più vasta maggioranza mai totalizzata nella storia del Parlamento italiano. Da quando Bellachioma entrò in politica con tutte le sue tv e tutti i suoi giornali, infatti, alcuni fra i suoi più fedeli alleati e amici hanno avuto occasione di pronunciarsi sulla faccenda, e in termini così netti e perentori da far impallidire il brodino gentiloniano. Breve riepilogo per le memorie corte. Il presidente emerito Francesco Cossiga non ha dubbi: «II nodo della questione è l'ineleggibilità del Cavaliere a cariche politiche. Non parliamo della quantità di voti ottenuti, perché allora dovrebbero essere valutati positivamente anche Hitler e Peròn» (7-8-99). Il sen. Marcello Pera, divinamente ispirato, sentenzia: «Berlusconi è a metà strada tra un cabarettista azzimato e un venditore televisivo di stoviglie, una roba che avrebbe ispirato e angosciato il povero Fellini» (7 febbraio 1994). «Nella liberaldemocrazia nessun potere, per quanto forte - finanziario, editoriale, industriale, imprenditoriale - può vivere senza un adeguato contropotere. Onorevole Berlusconi, esiste un problema di rigidi paletti, anche nei suoi confronti; una separazione netta di interessi, di attività. Perché non

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vogliamo vivere mai in una democrazia in cui il presidente del Consiglio sia posto nella condizione, obiettivamente difficile e quindi fuori delle regole, di dover scegliere, o decidere, fra interessi privati suoi, legittimi interessi privati suoi, e interessi dei cittadini. Le chiedo un’indicazione concreta, una dichiarazione esplicita e poi, successivamente, dei fatti concreti saranno quelli sulla base dei quali lei sarà giudicato» (10-4-94). Il prof. on. Rocco Buttiglione non ha dubbi: «Se uno ha tre reti private e tre pubbliche è come se avesse comprato la piazza e messo un recinto» (29-7-94). «Le elezioni sarebbero un imbroglio se condotte con il potere televisivo nelle mani di una parte sola. Mussolini cacciava dalla piazza gli oppositori con il manganello. Oggi la piazza è la tv: si possono ottenere gli stessi risultati con la televisione» (5-1-95). «Fossi al posto suo venderei tutto per comprare Bot poliennali» (9-3-95).Giorgio La Malfa tuona sarcastico contro la videocrazia: «Noi le nostre bandiere non le abbiamo certo comprate alla Standa!» (19-4-98).Umberto Bossi è leggermente più drastico: «Forza Italia è una banda di dieci persone che controllano il partito nascoste dietro paraventi, non rispettano la Costituzione, svuotano il Parlamento, vogliono un esecutivo senza controlli e usano le televisioni, che sono strumenti politici messi insieme da Berlusconi quando era nella P2, secondo il progetto Gelli. Hanno usato le televisioni come un randello per fare e disfare. Su questa banda antidemocratica è bene che qualche magistrato indaghi per ricostituzione del partito fascista» (19-1-95). «Le tv Fininvest devono essere oscurate come strumento per la ricostituzione del Partito Fascista» (12-2-95).E Roberto Calderoli, di rincalzo: «Berlusconi dice che la par condicio in tv gli dà l'orticaria? È evidente che i princìpi della democrazia gli siano insopportabili, al punto da provocargli uno shock allergico. Sarebbe auspicabile, e lo dico da medico quale sono, che il dottor Berlusconi si facesse visitare da un buon internista. Sono a sua disposizione per consigliargliene qualcuno, anche gratuitamente» (19 febbraio 1996). «Craxi è stato un affezionato fornitore della Fininvest, pagato profumatamente per servigi che tutti ci aspettiamo di conoscere nei dettagli. Infatti la vera domanda è: che cosa ha dato Craxi a Berlusconi in cambio di 15 miliardi di lire che gli ha versato la Fininvest? Si sgretola la maschera tv di Berlusconi e appare l'inconfondibile ghigna dell'uomo di Hammamet» (31-3-96). «Mediaset è l'anima commerciale di un partito che è realtà virtuale. La Lega la denuncerà e potrà ricavare una congrua entrata che potremo usare per ricoprire i muri della Lombardia con manifesti che riproducano la prima pagina de La Padania dove ci chiedevamo se Berlusconi è un mafioso o no» (27-8-98).Pare dunque che, per la pur blanda legge Gentiloni sulle tv, i giochi siano fatti. A meno che i leader citati abbiano nel frattempo cambiato idea. Cosa che però, conoscendone l'alta statura ideale e morale, tenderemmo senz'altro a escludere. 

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MARCO TRAVAGLIOl’Unità 14 ottobre 2006

giovedì, 12 ottobre 2006 COA(LI)ZIONE A RIPETERE

Furio Colombo e Gian Carlo Caselli, dai loro osservatori privilegiati, si sono domandati fra domenica e lunedì dove porti questa ossessiva ricerca di «dialogo» sulla giustizia, quasi che le leggi in materia diventassero di per sé buone se le votano in tanti e cattive se le votano in pochi. In realtà l'esperienza degli ultimi dieci anni insegna che, quando governa Berlusconi, le leggi se le fa da solo e fanno schifo; quando invece governa l'Ulivo-Unione, le leggi si votano insieme e fanno pena lo stesso. Curzio Maltese l'ha chiamata «coalizione a ripetere». Vediamo. Nel '94, in 7 mesi di governo, Berlusconi riesce ad approvarne una sola: il decreto Biondi, duramente osteggiato dalla sinistra e poi dagli stessi Bossi e Fini, che in pochi giorni impongono il ritiro del «salvaladri». Nel '95 c'è il governo Dini (centrosinistra più Lega) e viene subito approvato un salvaladri-bis, mascherato da «riforma della custodia cautelare», che oltre a restringere il campo degli arresti per i colletti bianchi, cancella anche la legge che prevede l'arresto su due piedi dei falsi testimoni, voluta a suo tempo da Falcone per scoraggiare l'omertà nei processi di mafia. Lo votano tutti, tranne la Lega e qualche verde. Nel '96 vince Prodi con uno splendido programma elettorale che promette una giustizia più rapida e lotta dura alla corruzione e alla mafia; senonché poi la maggioranza approva una serie di leggi contro la giustizia che non sono previste dal programma dell’Ulivo, ma da quello del Polo targato Previti. Ovvio che l'opposizione le voti entusiasta.Depenalizzazione dell'abuso d'ufficio non patrimoniale: voto bipartisan. Riforma dell'art. 513 del Cpp (da un'idea di Previti e Cirami) per cestinare le dichiarazioni accusatorie rese dinanzi al pm e non ripetute in aula, con conseguenze devastanti sui processi di Tangentopoli: voto bipartisan, solo 12 contrari alla Camera. Poi la boiata viene dichiarata incostituzionale dalla Consulta, allora viene subito ricopiata, ribattezzata «giusto processo» e infilata pari pari nell'articolo 111 della Costituzione: approvata in nove mesi, con doppia lettura, voto bipartisan con soli 7 no al Senato. Legge Simeone (An)-Saraceni (Ds) che rende più difficile l'esecuzione delle condanne definitive: voto bipartisan. Patteggiamento in Cassazione, detto anche salva-Dell’Utri: voto bipartisan. Legge sulle indagini difensive, che mette sullo stesso piano quelle degli avvocati e quelle dei pm: voto bipartisan. Controriforma dei pentiti, per restringere i benefici ai mafiosi che collaborano, col risultato che non si pente più quasi nessuno. Bozza Boato sulla giustizia: voto bipartisan di tutti i partiti in Bicamerale (eccetto Rifondazione; poi, al momento di portarla in Parlamento, Berlusconi rovescia il tavolo perché pretendeva ancora di più).Nel 2001, comprensibilmente, Berlusconi torna al governo. Legge sulle rogatorie, sul falso in bilancio, sulle tasse di successione e sul patteggiamento

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allargato, lodo Maccanico (Dl)-Schifani (FI) per l'impunità alle alte cariche dello Stato (poi bocciato dalla Consulta), legge ex Cirielli per abbreviare la prescrizione, ordinamento giudiziario Castelli per mettere i giudici in riga, legge Pecorella per abolire l'appello del pm se l'imputato viene assolto. Tutte a colpi di maggioranza, fra gli strepiti dell'Unione che promette di cancellarle al più presto.Nel 2006 Prodi toma al governo. Finora, nessuna delle leggi vergogna è stata abrogata. In compenso è passato l'indulto extra-large, non previsto dal programma dell'Unione, con ampia maggioranza bipartisan (Unione senza Di Pietro, ma con Forza Italia e Udc). E l'ordinamento giudiziario Castelli, che Prodi aveva promesso di «cancellare» in tutti i suoi 10 decreti delegati, ne ha già visti entrare in vigore 9: alcuni intatti, altri leggermente emendati. Uno, quello sulle carriere, è stato solo rinviato al luglio 2007. Grande soddisfazione bipartisan per l'accordo fra sinistra e destra, che però, curiosamente, la legge non l'ha votata. Resta da capire che senso abbia calarsi le brache in nome del dialogo, se poi i presunti «dialoganti» dell'altra parte non votano. E soprattutto perché mai, quando vince Berlusconi, le leggi sulla giustizia le vota solo il Polo, mentre quando vince Prodi bisogna farle insieme, chiedendo il permesso a chi ha perso. 

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità 11 ottobre 2006

martedì, 03 ottobre 2006 SONO PAZZI QUESTI SPAGNOLI

Sono giorni meravigliosi, non c'è un attimo di tempo per annoiarsi. Ieri Francesco Pionati, già mezzobusto del Tg1 addetto ai panini e ad altri servizietti, ora deputato Udc, discettava di qualcosa su Sky con l'aria seria e compunta. Non era importante quel che diceva, ma il titolo del suo intervento: «L'autonomia della Rai dalla politica». L'altroieri, sul Magazine, Barbara Palombelli lanciava una proposta mozzafiato: «Facciamo le vacanze all'americana, in luglio. Le giornate sono più lunghe e si sta meglio». Guarda caso il marito vicepremier, Francesco Rutelli, aveva proposto la stessa cosa tre giorni prima. La primogenitura va però alla sua signora, visto che gli articoli dei rotocalchi vengono scritti una settimana prima di uscire.Resta da capire se l'idea l'abbia suggerita Francesco a Barbara, o Barbara a Francesco. In ogni caso, la coppia è affiatata: si parlano. Poi c'è Bellachioma, sempre più irresistibile. Quando pensava di aver risolto i suoi processi in Italia, fra leggi ad Bellachiomam e indulto su misura, e si dava alla pazza gioia fra il Billionaire e villa La Certosa, si ritrova imputato in Spagna, dove purtroppo la prescrizione durante il processo è un fenomeno sconosciuto. In più, ci si mette quell'improvvisa raucedine che l'ha costretto all'inglorioso forfait alla festa della Margherita.

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Rutelli, che ci teneva tanto, ha fatto buon viso a cattiva sorte, ma ci è rimasto male. Soprattutto quando ha scoperto che le corde vocali in frantumi non hanno impedito all'ex premier di ricevere Bossi, Tremonti e Brancher per allestire la grande rentrée autunnale dopo i bagordi estivi. Come avrà fatto a comunicare con loro, essendo totalmente afono? Si sarà espresso a gesti, con l'alfabeto muto. Ma pare che i tre, abituati a Calderoli, abbiano capito tutto lo stesso. Si dice che l'illustre non parlante abbia pure telefonato a Lorenzo Cesa, per le ultime disposizioni sulla Rai. Cesa ha picchiato più volte la cornetta sulla scrivania, visto che dall'altra parte del filo non arrivava che un rantolo. Ma alla fine ha capito tutto anche lui: c'è gente che obbedisce agli ordini anche se nessuno glieli dà.È comunque confermato che Bellachioma, seppur provato, resterà in politica. Certo, confrontarsi per cinque anni con Bondi, Cicchitto e Apicella, mentre Prodi parla con Bush, Blair e Putin, sarà una bella tortura. Ma i nobili ideali da sempre alla base della sua vocazione politica sono più forti di qualsiasi avversità. Uno a caso: i processi. L'altro ieri, per l'appunto, s'è riaperto quello spagnolo per Telecinco. Lui sperava che il giudice Garzòn se ne fosse scordato, ma si sa come sono questi spagnoli: hanno una memoria da elefanti. Garzòn ha atteso pazientemente che il suo imputato preferito uscisse da Palazzo Chigi e perdesse l'immunità, poi ha riaperto l'istruttoria a carico suo e di Dell'Utri. Le accuse vanno dal falso in bilancio alla frode fiscale alla violazione dell'antitrust. La Spagna, si sa, è una monarchia bolscevica e dunque considera ancora reati il falso in bilancio e l'evasione fiscale. Non contenta, possiede addirittura una legge antitrust sulle tv. Una legge «punitiva» per chi la infrange, come direbbero i leader dell'Unione, preoccupatissimi di evitare il contagio delle vere democrazie. Nel '93, in Spagna, Nel '93, in Spagna, il limite massimo per un imprenditore televisivo era il 25 per cento di un'emittente (per un privato, si capisce: nella monarchia bolscevica, chi fa politica non può possedere nemmeno l'1 per cento di una televisione, e se lo possiede lo vende). Ma il Cavaliere, credendo di essere in Italia e non potendo nemmeno concepire il concetto di antitrust, controllava almeno l'86 per cento di Telecinco, col solito sistema dei prestanomi che tanta fortuna gli aveva portato in Italia con il Giornale (girato al fratello Paolo) e con Tele+ (controllata da amici e compari). Secondo l'accusa, le sue teste di legno erano il finanziere plurinquisito Javier de la Rosa, l'amico tedesco Leo Kirch e Miguel Duran, presidente della Once, l'associazione spagnola dei non vedenti.Purtroppo, come abbiamo detto, in Spagna le leggi sono punitive: chi le viola viene sanzionato. Così Berlusconi finì sotto processo insieme ai suoi presunti complici anche se i governi amici di Madrid (prima socialisti, poi popolari) gli risparmiarono la revoca delle concessioni, prevista dalla legge, e l'amica presidente dell'Europarlamento Nicole Fontaine ostacolò in ogni modo le richieste dei giudici spagnoli in merito alla revoca della sua immunità. Ora gli resta solo quella, tutta da chiarire, di membro del Consiglio d'Europa. Ma Garzòn non ha tempo da perdere. E Zapatero non pare intenzionato a varare indulti o leggi ad personam. Non si usa, in Spagna.

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 ULIWOOD PARTY

MARCO TRAVAGLIO

l’Unità 9 settembre 2006

lunedì, 02 ottobre 2006 TANTI AUGURI, BELLACHIOMA

Non fonderò mai un partito. Se non entro in politica, vado in galera. Scendo in campo, per un nuovo miracolo italiano. Un milione di nuovi posti di lavoro. Alla Rai non sposterò nemmeno una pianta. Non capisco perché a San Siro debbano entrare anche i tifosi delle altre squadre, togliendo il posto ai nostri: San Siro deve diventare solo rossonero. I poveri sono persone diseducate al benessere. Mai avuto a che fare con Craxi. Io sono l'unto del Signore. Il mio governo è schierato con l'opera di moralizzazione della vita pubblica intrapresa da valenti magistrati. Mussolini non ha mai ucciso nessuno, anzi mandava gli oppositori in vacanza nelle isole. Le mie aziende non hanno mai corrotto nessuno. Giuro sulla testa dei miei figli. Ho dato mandato irrevocabile di vendere le mie tv. Bossi parla come un ubriaco da bar, con lui non prenderò mai più un caffé: è un giuda, traditore, ladro e ricettatore di voti. La situazione della salute del Santo Padre è di assoluta tranquillità. Sarò lieto di incontrare il papà dei fratelli Cervi. In questo luogo passò Enea in fuga col padre Anchise e diede il via alla dinastia da cui nacquero Remolo e Remolo. Paolo di Tarso, il grande filosofo greco. Il Papa è un uomo straordinario, ogni suo viaggio è come un gol: ha la stessa idea vincente del mio Milan, che poi è l'idea di Dio, la vittoria del Bene sul Male. Arafat mi ha chiesto di dargli una tv per la Striscia di Gaza: gli manderò Striscia la Notizia. Vorrei ricordare l'attacco del comunismo alle Due Torri. Ormai in Iraq c'è una vita regolare, poi certo ci sono le cose che non funzionano: ad esempio, i semafori a Baghdad non funzionano. Montanelli e Biagi erano gelosi di me. Anch'io ho scritto le tavole della legge, come Napoleone e Giustiniano; Mosè era solo un passatavole. Mai sentito parlare di All Iberian. Se perdo le elezioni lascio la politica. La nostra Costituzione è di stampo sovietico. Siamo il partito dell'amore contro il partito dell'odio. Non ho mai insultato nessuno. Coglione! Faccia da stronzo! Stalinisti! Ladri! Golpisti! Fascisti! Vaffanculo! I giudici sono matti, mentalmente disturbati, antropologicamente diversi dal resto della razza umana. Noi ai giudici insidiamo le mogli, siamo dei tombeurs de femmes. Per portare a Parma l'agenzia alimentare europea ho riesumato le mie doti di play boy e fatto la corte alla presidente finlandese. Ho trovato una cimice dietro il termosifone, sono spiato da procure deviate. Io ero contrario alla guerra in Iraq, ma Bush non mi ha dato ascolto. La proporrò per il ruolo di kapò. Gli sbarchi di clandestini, con noi, sono calati del 247%. Io non racconto barzellette: dico parabole. La sinistra ha una predilezione per i dittatori. Putin è un sincero anticomunista. Gheddafi è un leader di libertà. Bella l'Estuania! Sono alto un metro e 71. I give you the salutation of my president of the Republic. Il lifting me l'ha imposto mia moglie. Noi di Forza Italia abbiamo una moralità di livello così elevato che gli altri non possono nemmeno percepirlo. Risolverò il conflitto d'interessi in cento giorni. Le mie tv mi remano contro. Il trapianto è

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ottimo, lo consiglio a tutti. Sono sempre stato assolto. L'evasione di chi paga il 50% dei tributi è un diritto naturale che è nel cuore degli uomini e che non ti fa sentire moralmente colpevole. Questa storia delle leggi ad personam è falsa: ne ho fatte solo tre, per me. Biagi, Luttazzi e Santoro han fatto un uso criminoso della televisione pubblica. Avete capito bene: abolirò l'Ici. Galliani è la persona più onesta che ho mai conosciuto. Il mio cervello è talmente sviluppato che ha espulso i capelli. La giustizia è un cancro da estirpare. D'Alema è er mejo figo der bigoncio, di lui mi fido. La mia religione è il maggioritario. Io sono per il proporzionale. Mai fatto affari con la politica, anzi ci ho sempre perso. Gli elettori si sono sbagliati, erano giusti gli exit-poll. Sto trattando con la Russia dell'amico Putin per aprire un corridoio negli Urali e collegarci all'Oceano Pacifico. Non ci sarà alcun condono fiscale. Noi siamo per il presidenzialismo. Mai stato presidenzialista. Non sapevo che mio fratello vendesse decoder. Odio andare in tv, è una cosa che non sopporto. Nesta al Milan? Impossibile. Gilardino al Milan? Mai, sarebbe amorale. Io sono il Gesù Cristo della politica. Va bene, paragonatemi pure a Mosè. Fra me e Confalonieri c'è un patto: quello di avvisarci reciprocamente qualora uno dei due rincoglionisse. E Fedele non mi ha ancora detto niente. Prodi ha mentito: in un paese normale si sarebbe già dimesso. Happy birthday, Mister Ex President!ULIWOOD PARTY

MARCO TRAVAGLIO

l’Unità 29 settembre 2006

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MARONImartedì, 12 dicembre 2006

SE LO LASCI NON VALE

VEDI PG PREC.mercoledì, 18 ottobre 2006

SMEMORANDA

L’11 ottobre 1996 Berlusconi convoca una conferenza stampa e mostra al mondo intero una microspia trovata tre giorni prima dietro il termosifone di Palazzo Grazioli. Viste le dimensioni dell'aggeggio, molto più simile a un frigobar portatile che a una microspia, qualche giornale lo ribattezza «cimicione». Ma il Cavaliere giura che è «perfettamente funzionante», in grado di trasmettere «a 300 metri di distanza». E accusa fantomatiche «Procure eversive» di spiarlo in barba all'immunità. Da quel momento, per giorni e giorni, tutti i leader del Polo non fanno che cannoneggiare a reti ed edicole unificate sul presunto spionaggio. Per Buttiglione è uno «scandalo non inferiore al Watergate». An pretende una commissione d'inchiesta. Sgarbi coglie l'occasione per chiedere le dimissioni del ministro Di Pietro, anche se non c'entra nulla. La Maiolo parla di «rapporti occulti e illegali fra politica, magistratura e criminalità». Pisanu e Taradash additano le «Procure deviate», Vertone parla di «uno Stato di polizia peggiore dell'Inquisizione di Torquemada». «Siamo in pieno socialismo reale», osserva Feltri. Giornali e tv, sempre a rimorchio dell'agenda dettata dai politici, non parlano d'altro. E così i leader dell'Ulivo, sempre a rimorchio di giornali e tv. D'Alema assicura subito la sua solidarietà al Cavaliere: «È un fatto grave, che testimonia il clima torbido di un paese inquinato da intrighi, manovre, veleni e sospetti. Bisogna reagire con fermezza riscrivendo le regole della convivenza civile e democratica». Per Dini «sono a rischio le libertà fondamentali». Mussi invoca la «riforma dei servizi segreti». Manconi propone addirittura di licenziare «tutti i vertici di tutti i troppi servizi d'informazione, intelligence, spionaggio e controspionaggio».Il 16 ottobre il presidente Violante convoca la Camera in seduta straordinaria: Berlusconi prende la parola in un'aula gremita all'inverosimile e in un'atmosfera carica di tensione: «Onorevoli colleghi, il fatto è davvero grave. Mai, in nessun periodo della storia repubblicana, sono gravate sulla libera attività politica tante ombre e tanto minacciose... ». Le stragi e i tentati colpi di Stato erano niente, al confronto. Poi il Cavaliere sporge denuncia contro ignoti per «spionaggio politico, violazione di domicilio, intercettazione abusiva, abuso d'ufficio e attentato ai diritti costituzionali del capo dell'opposizione». Solo Maroni e Veltri, malfidati, ipotizzano che il Cavaliere la cimice se la sia piazzata da solo, subito zittiti come disturbatori della quiete pubblica. In un clima da golpe, si accelerano i tempi per la Bicamerale che deve rimettere in riga i giudici. Poi la Procura di Roma scopre che la microspia era un ferrovecchio inservibile, piazzato in casa Berlusconi non da una procura

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deviata, ma da un amico del capo della sua sicurezza incaricato di «bonificare» palazzo Grazioli. Ecco, prima di dirsi accerchiato dai giornali e dalle tv dei poteri forti, forse Prodi dovrebbe rammentare quella superbufala che sequestrò l'attenzione della politica e dei media per giorni e giorni, anche se era fondata sul nulla, o forse proprio per questo. Come tanti altri scandali creati a tavolino dal centrodestra (vedi il «supertestimone» Igor Marini su Telekom Serbia), il «caso cimicione» non fu, o non fu solo colpa dell'asservimento di gran parte dei media al sire di Arcore. Fu soprattutto frutto di una tecnica collaudata della Cdl che, quando vuole imporre un falso problema alla pubblica attenzione, impegna tutti i suoi leader a martellare 24 ore su 24 lo stesso concetto con dichiarazioni-fotocopia, che finiscono col dettare l'agenda ai giornali e alle tv. Ora Prodi è vittima di due scandali veri: il dossier-patacca confezionato contro di lui dal Sismi e rilanciato dal Riformista e da Libero dell'agente Betulla; e lo spionaggio Telecom ai suoi danni ai tempi dell'Ue. Ma, se nessun giornale o tv ne parla (a parte un articolo del Corriere e la campagna dell'Unità), è anche e soprattutto perché i suoi presunti alleati non ne fanno una questione cruciale, si guardano bene dal far quadrato intorno a lui e non hanno mai chiesto conto al Sismi e a Tronchetti Provera di quanto s'è scoperto. O parlano d'altro (per esempio, della gaffe di Rovati, infinitamente meno grave), o addirittura difendono Tronchetti e i vertici del Sismi. Il giornalismo italiano è quello che è. Ma anche gli alleati di Prodi non scherzano.

 ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità 17 ottobre 2006

mercoledì, 19 luglio 2006 PIAZZALE LORETO? MAGARI

Clemente Mastella, che come ministro della Giustizia ha uno squisito senso della legalità s‘è subito complimentato con l’amico Silvio: “E’ stato bravo, perchè l’ha messa sul piano politico. E i giudici si sono trattenuti. Magari si sono anche spaventati”. Ecco: su quattro club deferiti, tre si difendono nel processo, mentre quello del capo dell‘opposizione la butta in politica, usa spregiudicatamente il suo conflitto d’interessi per denunciare, come padrone delle tv e di mezzo Parlamento, il complotto giacobino di Rossi e Borrelli; poi ricatta come primo azionista Mediaset il sistema-calcio sospendendo i pagamenti alla Lega per i diritti tv e chiedendo due scudetti a tavolino; alla fine riesce a strappare un verdetto scandaloso che tratta il Milan - una delle due architravi del calcio marcio - meglio della Fiorentina e della Lazio: cioè di una vittima del calcio marcio (Della Valle, nemico giurato di Bellachioma in Confindustria) e di uno che contava meno del due a briscola (Lotito-Lolito). L‘altra metà del sistema Moggi-Galliani resta in serie A, conserva i miliardi dei diritti tv per campionato e coppa Uefa, trattiene tutti i suoi campioni e, per giunta, si appresta a far man bassa di quelli in fuga da Juve, Fiorentina e Lazio. E quel faro di legalità del ministro della Giustizia che fa? Elogia l’impunito Supremo per aver saputo “spaventare i giudici” al punto giusto. Ma bravo, ma che bella lezione di sportività: viva i furbi e i prepotenti, viva il conflitto d’interessi e i colpevoli che la fanno franca. Ora, si presume.

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qualunque imputato in qualsiasi processo si sentirà autorizzatoa “spaventare i giudici” come crede o può: parcheggiando un carro armato davanti al tribunale; o entrando in aula col mitra spianato; o facendo simpatiche allusioni ai figli del giudice (“Ma che bei bambini, dottore, li vedo tutte le mattine attraversare la strada per andare a scuola, ah!”).

Chi non conosce Berlusconi si attendeva forse qualche giorno di pudico silenzio. Invece tutto il contrario: continua a lacrimare, nella speranza di sgraffignare in appello qualche altro punto e magari pure i preliminari di Champions League. Montanelli, che lo conosceva bene, lo chiamava “Chiagni e fotti”. Infatti lui continua a chiagnere, e soprattutto a fottere, col suo codazzo di servi furbi. “Prima i campionati erano falsati da Moggi, ora lo saranno dall‘eccesso di giustizialismo “, tromboneggia Cicchitto, che minaccia anche Guido Rossi: “D‘ora in poi, con quel che ha fatto ai tifosi, dovrà girare con la ruota di scorta” (parole che, dette da un piduista,vanno prese molto sul serio). “Una ritorsione politica contro il Milan “, delira Maroni. E Ghedini: “E’ un’esecuzione sommaria “. Roba da far impallidire le garrule fesserie in salsa bianconera di un Buglio (“puro giustizialismo, peggio della testata di Zidane “) o di un Chiamparino (“pena fuori dall’ordinario”). Almeno, pur meritandoselo, juventini, fiorentini e laziali un motivo per piangere ce l’hanno. Ma ci vuole tutta la faccia tosta di Fedele Confalonieri per strillare alla “persecuzione” e alla “nuova Piazzale Loreto “. Ecco: secondo lui il Milan che usava l’addetto agli arbitri per avere guardalinee compiacenti e se la cava con qualche punto di penalità è come il duce fucilato e appeso per i piedi a un distributore di benzina. Perché, assicura il sempre spiritoso presidente del Biscione, “c‘è un disegno dietro, un attacco a Mediaset: dal calcio al digitale terrestre ai discorsi sui tetti pubblicitari “. Un complotto targato Fiat? O Tod’s? Chissà. In attesa di chiarirlo, lo spudorato cita “l‘avviso di garanzia di Borrelli a Berlusconi durante il G7 a Napoli” (tre balle in una frase: non era un avviso di garanzia ma un invito a comparire, non fu notificato a Napoli ma a Roma, non c‘era nessun G7 ma un convegno sulla criminalità). Poi denuncia finalmente un “conflitto d’interessi “: quello “di Guido Rossi, ex consigliere dell‘Inter “. Il massimo rappresentante di un‘azienda che finanziava illegalmente Craxi, corrompeva giudici e ufficiali della Guardia di Finanza, falsificava bilanci, frodava il fisco, accumulava fondi neri, scambiava mafiosi per stallieri, da vent‘anni commissiona o si scrive direttamente leggi su misura guadagnandoci migliaia di miliardi, da 12 anni viola due sentenze della Corte costituzionale e collaborava pure a truccare i campionati, ci si attenderebbe un pizzico di prudenza in più. O magari di pudore, per non sputarsi in faccia davanti allo specchio. Ma ormai anche la faccia è un privilegio. C’è chi, avendola perduta da un pezzo, non teme più di perderla. E chi, più fortunato ancora, non ne ha mai avuta una.  ULIWOOD PARTY

MARCO TRAVAGLIO – “l’Unità” 16 luglio 2006

mercoledì, 14 giugno 2006 IL CASO MASTOGLIA

Nel suo strepitoso dvd «Il caso Scafroglia», da ieri in libreria, Corrado Guzzanti lancia un appello alla Nazione: «C’è una tensione esagerata nel Paese, un clima di continuo scontro fra i giudici da una parte e i criminali dall’altra, una contrapposizione frontale.

Uno steccato invalicabile fra giudici e criminali. Ma perché? Vogliamo dire una parola di riappacificazione? E vero, in Italia sono morti molti giudici. Ma sono morti anche molti gangster... ». Il brano risale al 2002, quando Corrado non poteva prevedere l‘avvento di Clemente Mastella alla Giustizia. Ma parlava come se lo sapesse. I suoi paradossi satirici illuminano, meglio di qualunque

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editoriale, la deriva imboccata dal dibattito sulla giustizia da quando Bellachioma impone il suo pensiero unico a reti unificate. Anche ora che non governa più. E il berlusconismo «extra moenia», che fa breccia anche nell‘Unione.

L‘altro giorno il ministro di Clemenza ha raccolto meritati applausi a Regina Coeli quando ha detto, senza nemmeno rendersi conto di quel che diceva: «Sarò più il ministro dei detenuti che quello dei giudici».

Poi ha raccolto meritate perplessità all‘assemblea dell‘Anm, quando ha invitato i magistrati ad andare in ufficio alle nove del mattino. Quelli si aspettavano una parola chiara sull‘annunciato decreto per radere al suolo la boiata dell’ordinamento giudiziario targata Castelli. Ma non se ne fa più nulla: semplice disegno di legge, con tempi eterni, e solo per bloccare alcuni punti della controriforma, che per il resto piace un sacco a mezza Unione.

Poi il ministro di Clemenza ha rischiato di scavalcare Corrado Guzzanti: è stato quando ha invocato una «pacifìcazione fra giustizia e politica». Come se i processi a carico di alcuni politici non dipendessero dai gravi reati commessi da questi, ma da una guerra dichiarata dai giudici alla politica.

È un po‘come dire che, visto che ogni giorno vengono processati decine di mafiosi, occorre pacificare la giustizia e la mafia. Superare gli steccati, ecco.

Ma il dato più stimolante del discorso mastelliano è l’annuncio di un «patto sulla giustizia con l‘opposizione». Nella fretta, il ministro s‘è dimenticato di precisare con chi precisamente, del centrodestra, verrà stipulato il suddetto patto. Forse perché c ‘è solo i ‘imbarazzo della scelta. Berlusconi, imputato di corruzione giudiziaria e sei volte prescritto per falso in bilancio, sembra l’interlocutore ideale, anche perché considera tutti i giudici (non solo italiani) «matti, antropologicamente diversi dal resto della razza umana» e la giustizia tout court «un cancro dello Stato di diritto che dobbiamo estirpare».

Anche Previti potrebbe fare il caso nostro, ma solo per due ore al giorno, essendo per il resto della giornata detenuto a domicilio per via di una condanna per corruzione giudiziaria: bisognerà profittare dell’ora d’aria.

Dell‘Utri invece è ancora a piede libero: dall‘alto della sua condanna definitiva per frode fiscale e di quelle provvisorie per estorsione e mafia, potrebbe fornire un valido contributo. Anche An possiede una miriade di interlocutori ideali. Storace, indagato per associazione a delinquere perché faceva spiare i suoi avversari politici. Oppure Alemanno, inquisito per i fondi illeciti di Parmalat. O, se proprio si vuole andare sugli incensurati, l‘ex sottosegretario Mantovano, che paragonò la sentenza Dell‘Utri alle «rappresaglie dei nazisti in fuga dall‘Italia».

Poi c’è la Lega, che il patto sulla giustizia ce l’ha nel sangue: a parte Castelli, che alla Giustizia ha già dato tanto, c’è il leader Bossi, condannato per la maxitangente Enimont; c‘è Maroni, pregiudicato per resistenza a pubblico ufficiale; c’è Calderoli, in appello per lo stesso reato e in udienza preliminare a Verona per attentato all’unità nazionale insieme all’intero vertice leghista.

È lo stesso Calderoli che due anni fa marciava dietro una bara dedicata al procuratore Papalia, al grido di «Papalia il più terrone che ci sia». E come trascurare la parte più presentabile della Cdl, quel bocciolo dell’Udc, detta anche «Io c’entro»? C’è Piercasinando, che telefonò la sua «stima e amicizia» a Dell‘Utri alla vigilia della condanna, e lo fece pure sapere. C’è il segretario Cesa, miracolato dalla prescrizione per le mazzette che portava a Prandini. Senza dimenticare la corrente siciliana, quasi tutta ai ferri con l’eccezione di

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Totò Cuffaro, imputato solo di favoreggiamento alla mafia. Ecco, le premesse per un bel patto bipartisan sulla giustizia ci sono tutte. Quando si comincia?

venerdì, 09 giugno 2006 LISCIA LA NOTIZIA (ARCHIVIO)

VEDI PG PREC

MARCO TRAVAGLIO – “L’Unità” 14 marzo 2006

DIMENTICARE MARANOGli eventi olimpici ed elettorali hanno finora oscurato una grande novità, la prima prodotta dal nuovo Cda e dal nuovo direttore generale Meocci, destinata a rivoluzionare il presente e il futuro della Rai: il ritorno di Antonio Marano alla direzione di Rai2, al posto di Massimo Ferrario. Difficile cogliere la differenza fra i due, almeno per un occhio poco allenato, anche perché entrambi i direttori sono stati nominati dalla Lega Nord. Ma attenzione, l’apparenza non deve ingannare, perché Marano è amico di Maroni mentre Ferrario lo è di Calderoli. Due diverse scuole di pensiero, come i platonici e gli aristotelici. Il primo era sottosegretario alle Comunicazioni nel primo governo Berlusconi. Il secondo, invece, era presidente della provincia di Varese. Due curricula davvero ragguardevoli, niente a che vedere con un Carlo Freccero, per dire. Dopo aver visto all’opera il Ferrario negli ultimi due anni, qualche animuccia bella del centrosinistra nel Cda s’è fatta l’idea che, al confronto, il Marano non sia poi così male. A titolo di puro promemoria, ne ricordiamo alcune fra le imprese più imperiture. Anzitutto la decisione, a dir poco epocale, di sostituire Michele Santoro con Antonio Socci, il quale con “Excalibur” e “Lunedì Italia” riuscì in un‘impresa davvero leggendaria: portare in pochi mesi gli ascolti dal 18-20 di “Sciuscià” al 3,5 per cento, un po’ sotto la media attribuita a suo tempo dall’Auditel al monoscopio. Che è un po’ come fare zero al Totocalcio. Fu un trionfo, soprattutto per Mediaset, che sotto Marano riuscì a sorpassare Rai2 sia con Rete4 sia con Italia1. La seconda rete Rai si attestò al sesto posto su sei, perdendo un punto in due anni. E non solo per merito di Socci. Per rianimare un programma decotto, “Furore” viene chiamato il comico Francesco Paolantoni. Marano il Padano apprezza ed elogia il suo lavoro, ma appena lo sente parlare si blocca: “Scusi, lei è napoletano?”. “Si, in effetti ho questa malattia dalla nascita” “Allora, mi scusi, ma lei non può presentare un programma su Rai2. Sa, questa è la rete del Nord, e io sono qui per la Lega.. .”. Paolantoni pensa a uno scherzo. Poi gli spiegano che Marano parla sul serio e lo rimpiazzano con tale Bossari, che si chiama quasi come Bossi ed è di pura razza padana. La scena si ripete con lo scrittore Massimo Fini, scritturato da Rai2 per un programma di costume e cultura all’una e mezza di notte: “Cyrano “. Viene girata la prima puntata, ma il regista Eduardo Fiorillo, mentre porta il materiale filmato al montaggio, riceve una telefonata da Marano: “Ci sono grossi problemi su Fini, sulla persona. Tu puoi fare la trasmissione, purché Fini sparisca dal video”. Due giorni dopo, 29 settembre 2003, nel suo ufficio di corso Sempione a Milano, Marano spiega a Fini quel che è accaduto. Fini, sospettoso, s’infila in tasca un registratore acceso e immortala il regime in diretta. Marano: “C’è una persona, che non è un politico, che ha fatto lo stronzo in modo vergognoso. Prometto di dirtelo il primo gennaio“. Fini: “Allora, oltre che un veto politico, è un veto antropologico...”. Marano: “In parte sì...“. Fini: “Senza neanche vedere il merito del programma, mi si dice: no, tu non puoi lavorare... Ci sono lavori che io non posso fare”. Marano: “Ecco, okay, questo è più preciso...“. Fini: “Anche nel ‘38 c‘erano lavori che gli ebrei non potevano fare. Io mi metterò una stella gialla qui, ecco, questa è una cosa che non è accettabile”. Marano: “Io sono un attivista della Lega... un amico di Bossi, ed ero convinto che questo cazzo di partito era la libertà contro il sistema. Oggi vedo che un certo sistema... ragiona non uguale al vecchio sistema, ma peggio... C’è il principio che il potere va utilizzato per toglierlo agli altri”. Marano

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propone a Fini di salvare i suoi compensi, ritirandosi dietro le quinte, come semplice autore. Fini, hombre verticàl, rifiuta e gli dà una lezione di storia e di libertà: “Guarda, Marano, che è sui princìpi che si gioca tutto, perché se si comincia ad accettare una cosa, poi se ne accetta un’altra e poi un’altra ancora. Tutta la storia è andata così. Il fascismo non si afferma in virtù dei fascisti, ma in virtù di chi per opportunismo, per viltà per non aver capito la situazione, si adegua”. E se ne va. Ecco: i Fini (Massimo) se ne vanno. I Marano restano. Poi vengono parcheggiati a Raisport. Poi, profittando del solito calo di memoria generale, tornano sul luogo del delitto. O del relitto.  di MARCO TRAVAGLIO (da “l’Unità” del 28 febbraio 2006)

lunedì, 30 gennaio 2006 NON SE NE VA PIÙdi Marco Travaglioda l’Unità del 25 gennaio 2006 Mettiamo insieme le ultime dichiarazioni di quello che, pare incredibile, ma è da 5 anni il nostro presidente del Consiglio. Il 23 dicembre annuncia: “E’ confermata la data delle elezioni politiche il 9 aprile e lo scioglimento delle Camere per il 29 gennaio”. Intanto il suo avvocato, presidente della commissione Giustizia, mette a punto la legge che abolisce il suo processo d’appello per corruzione del giudice Squillante. Peccato che la legge sia “manifestamente incostituzionale” in più punti, e come tale Ciampi la rimandi indietro il 20 gennaio. Lui quella sera va a Matrix e promette: “Ci impegniamo a modificare il testo”. Ma l’indomani comunica ai suoi discepoli che “la riapproviamo così com’è” ( la Repubblica , 22 gennaio). E chiede una protesi di legislatura per mettersi al sicuro. Se la palla non entra in rete entro il 90° pretende i tempi supplementari e il golden gol. Ma solo se il gol lo fa lui. Se lo fanno gli altri, non vale. Il 22 si scontra per due ore con Ciampi: l’indomani il suo Giornale titola: ‘Braccio di ferro tra Berlusconi e Ciampi’. Lunedì 23 va da Bonolis a registrare “Il senso della vita” e minaccia Ciampi: se non gli allunga la legislatura, “si vota il 14 maggio”. Ieri mattina va a “Radio anch’io”e smentisce la minaccia. Poi, in serata, va in onda il Bonolis registrato, dove il premier minaccia di spostare le elezioni al 14 maggio. Chi non ha letto i giornali sente prima la smentita della minaccia, poi la minaccia non ancora smentita. Mettiamo insieme altre due dichiarazioni. L’11 settembre aveva inaugurato una litania poi ripetuta infinite volte: “Non abbiamo usato la giustizia contro i nostri avversari politici. Non abbiamo mai usato i servizi contro gli avversari. Non abbiamo usato la Guardia di Finanza. Non abbiamo mai usato le intercettazioni né fatto intercettare un avversario. Non abbiamo mai usato la tv pubblica e tantomeno privata per attaccare i nostri avversari. Noi siamo liberali, mentre l’Italia potrebbe diventare soffocante, illiberale o addirittura autoritaria se consegnata all’opposizione”. Traduzione: non ho nemmeno fatto un colpo di Stato, dunque sono un liberale, dunque votatemi. A parte il fatto che nessun premier al mondo s’è mai vantato di non aver commesso reati da ergastolo, è significativo che il nostro abbia preso in seria considerazione l’idea di commetterli. E, infatti, subito dopo, ha cominciato a commetterli, Ha usato e sta usando le televisioni, pubbliche e private (comunque sue) per attaccare gli avversari. Ha usato la giustizia contro gli avversari denunciandoli alla Procura di Roma per fatti che lui stesso, all’uscita, dice non essere reati (e la Procura di Roma, su quei non-reati, pensa bene di aprire un fascicolo e di convocare dei testimoni) e sguinzagliando l’Avvocatura dello Stato contro l’Unità. Tramite il suo Giornale, ha usato intercettazioni segrete, in possesso solo alla Guardia di Finanza, contro gli avversari. Resta l’ultima negazione minacciosa: “Non abbiamo usato i servizi”. Visto che le altre negazioni si sono avverate, si avvererà anche questa? I precedenti sono poco rassicuranti. Uno lo raccontò il 15 giugno 1995 un testimone al di sopra di ogni

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sospetto: Roberto Maroni in un’intervista mai smentita a “Panorama”, a proposito degli ultimi giorni del primo governo Berlusconi: “Di dossier ne giravano tanti, questo è certo. Se ne parlava. Mi stupisco che non ne sia saltato fuori anche uno su di me. Mi dissero che esisteva addirittura un fascicolo su Oscar Luigi Scalfaro... Era la fase in cui si parlava del reincarico a Berlusconi in alternativa alla designazione di un altro premier. Per correttezza e mio incarico istituzionale decisi di avvertire il Capo dello Stato. Lui mi rispose tranquillo: ”Che lo tirino fuori, io non ho nulla da nascondere Di quel dossier non si seppe più nulla... In attesa di sapere che fine han fatto i pompieri che da quattro anni invitano il centrosinistra ad “abbassare i toni” e “non tirare per la giacchetta Ciampi”, aggiungiamo che ancora ieri il premier ha “escluso l’ipotesi di una sconfitta” e che, anche quando ha perso le elezioni nel 1996, non ha mai ammesso di averle perse: il 26 novembre dichiarò che “i professionisti della sinistra ci hanno sottratto circa un milione e 700 mila voti”. Ce n’è abbastanza per concludere che Silvio Berlusconi non ha alcuna intenzione di andarsene.

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DANIELE FARINA

DOLCE STIL NOVO

Tre notizie alla rinfusa. 1) Il senatore Gustavo Selva, quello che usa le ambulanze come taxi per arrivare prima in tv, ritira le dimissioni da senatore perché “i cittadini mi invitano a restare”, insomma “lo faccio per rispetto vostro”. 2) Fabrizio Corona pubblica le sue prigioni, manco fosse Silvio Pellico, e molti giornali dedicano paginoni alle sue decisive “rivelazioni” (tipo quante volte si masturbava in cella). 3) Maurizio Costanzo, essendo praticamente disoccupato visto che lavora solo per Rai, Mediaset, Sky, Messaggero, Libero, Riformista, Panorama, Telecom, ministero delle Comunicazioni, una dozzina di enti locali e P2, ha assunto la direzione del teatro romano Brancaccio (in aggiunta al Parioli e alla Sala Umberto) sfrattandone Gigi Proietti: ora prepara un cartellone a base di Maria de Filippi con tronisti e squinzie al seguito, senza dimenticare Platinette, perché a lui Pirandello gli fa un baffo. Se, come dice Massimo Fini, “volgare non è chi dice parolacce, ma chi non sta al proprio posto”, allora le tre notizie hanno un comune denominatore: la irredimibile volgarità di un paese finito, dove nessuno sta più al suo posto. L’altro giorno il quotidiano che si fa chiamare “Libero” pubblicava un “racconto” di tal Francesco Borgonuovo, dal titolo “Arriva l’estate, fioriscono le stagiste”, illustrato da una pregnante foto di Monica Lewinsky. L’incipit è pura poesia: “Senti il fiato caldo dell’estate e sai che arriveranno, sarà una migrazione in grande stile. Come uccelletti leggiadri le stagiste planeranno, faranno il nido per un po’, giusto il tempo di svernare, e poi se ne torneranno via così com’ eran venute”. Il seguito è ancor più lirico: “Le uniche degne di titolo, quelle purissime e illibate, vengono direttamente dalle scuole, da dove s’attinge la linfa più dolce e saporita”. Che stia parlando di amori minorenni? Niente paura: “A fine giugno - spiega il vate ebraico-cristiano in piena tempesta ormonale - le porte delle Università si spalancano e ne esce una folla di canottiere aderenti, unghie dipinte in ciabattine infradito, shorts, minigonne, perizomi e cosce robuste pronte a riversarsi in agenzie di pubblicità, negli uffici stampa dei festival musicali, nelle case di moda e nelle redazioni dei giornali”. Dove Lui vedrà di farsi trovare pronto. Segue una citazione evangelica, per far contento Betulla, in endecasillabi sciolti e rime baciate: “Vi manderò come agnelli in mezzo ai lupi, disse il Signore, e loro si faranno mandare negli open space e dietro le finestre coi doppi vetri, dove le attendono le fauci spalancate di capi cinquantenni disillusi e famelici, di giovani leoni incravattati golosi d’avventure, di veterani che adagiano gli occhi sui glutei ben fatti e fra le camicette coi bottoni innocenti e lascivi. Le stagiste sono caramelline già sbucciate della carta che i professionisti si contenderanno col coltello fra i denti e la sigaretta da accendere ‘dopo’ già pronta sull’orecchio”. Il nuovo Balzac prosegue in dolce stilnovo fra “mani pronte a scivolare sempre più giù fino alla fine dell’esperienza formativa”, “pance retrattili che fibrillano in attesa di scattare all’indietro” e “tette che scendono inesorabilmente”. Non manca un accenno all’”idea marxiana che il lavoro le renderà donne”, così i comunisti sono sistemati; una pennellata di sociale su “quelle precarie lagnose che mugugnano perché si chiamano Roberta, hanno 40 anni e guadagnano 400 euro”; e un tocco di neorealismo, con sapide classificazioni di “culi di piombo” e “culi sodi”. Poi, pagato il dazio all’impegno,

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si torna alla vita vissuta: “I colleghi si becchettano fra di loro: ‘Questa te la trombi tu’, ‘no tu’, e va a finire che non se la tromba nessuno... Le stagiste abitano spesso insieme con altre amiche, che magari ancora preparano gli esami e succede che parti per trombarti la stagista e ti trombi pure loro”. Il finale è da pelle d’oca: “Amori da spiaggia consumati in ufficio, con i maschi a tramutarsi in dei (sic) Massimo Ciavarro qualsiasi in un Sapore di sale come un altro e le fragoline a prendersi gioco di loro”. Ora, "Libero" è lo stesso giornale che s’è schierato con il Family Day, che fucila qualunque pallida critica al Vaticano, che ospita le lenzuolate del pompo-ciellino Renato Farina e che ha pubblicato qualunque scritto dell’ultima Fallaci, anche la lista della spesa, in difesa della “civiltà ebraico- cristiana” insidiata dai vucumprà. Infatti il pregevole scampolo di prosa compariva nella sezione “Cultura”. Sarà poco poetico, ma una domanda in generale s’impone: quando arriva la Buoncostume?

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIO l’Unità (19 luglio 2007)

mercoledì, 11 luglio 2007 ABBASTANZA DISTRATTAMENTE

Al partito dei pompieri di Pompa & C. s’iscrive autorevolmente il ministro dell’Interno Giuliano Amato, con queste sorprendenti dichiarazioni. «Mi sono occupato abbastanza distrattamente di questa cosa». Anche dell’indulto varato un anno fa, il ministro dell’Interno (responsabile della pubblica sicurezza) si occupò molto distrattamente, salvo poi confessare di averlo «votato con sofferenza» e comunicare i dati del Viminale che segnalano un aumento spaventoso dei delitti predatorii. Del resto, chi è Amato per occuparsi dei servizi e dell’ordine pubblico? Mica è il ministro dell’Interno. Quanto al Sismi, «vattelapesca cosa c’è di vero e cosa c’è di non vero. E non ho capito bene la solidarietà espressa dal Csm in relazione a vicende giudiziariamente in corso, se e in quale modo potesse esprimere una valutazione» col rischio di «dare per acquisita la natura illecita di quelle attenzioni». Ecco: lui si occupa distrattamente di una cosa, cioè non la conosce, però sputa sentenze contro il Csm che quella cosa istituzionalmente l’ha esaminata per mesi, carte alla mano, e alla fine ha emesso un documento unanime avallato anche dal capo dello Stato. Poi, bontà sua, Amato concede: «C’è nel Sismi un tal Pompa, o chi per lui, che magari, raccogliendo fotocopie, raccoglie roba sui giudici italiani: be’, sulla pertinenza di quello stipendio si possono avere dei dubbi». Il fatto che quel «tal Pompa» lavori tuttora per il governo di cui lui fa parte, come reclutatore di militari al ministero della Difesa e percepisca lo stipendio a spese nostre, è un’altra cosa che Amato ha seguito abbastanza distrattamente. Un po’ come nel famoso vertice del Psi dell’estate del ‘92, quando Craxi tirò fuori il «poker d’assi» contro il pm Di Pietro: l’allora premier Amato non fece una piega, salvo poi precisare che in quel momento era alla toilette. Faceva pipì abbastanza distrattamente mentre il suo partito preparava le carte (tabulati e altra spazzatura proveniente dai servizi) per calunniare il pool di Milano. Sono

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15 anni che i migliori magistrati d’Italia vengono spiati dai servizi che dovrebbero aiutare la Giustizia anziché sabotarla. E sono 15 anni che la classe politica cade regolarmente dal pero, occupandosi abbastanza distrattamente della faccenda. Un anno fa Amato si destò momentaneamente dalla sua proverbiale distrazione e comunicò al Parlamento che la Procura di Potenza e molte altre sono solite passare le «password» dei loro sistemi informatici ai giornalisti onde aiutarli a violare il segreto. La notizia era una bufala. Ma Amato s’è distratto di nuovo e non ha mai chiesto scusa ai magistrati tirati in ballo. Casomai volesse approfondire un po’ meno distrattamente «cosa c’è di vero e cosa c’è di non vero» nel caso Sismi, gli segnaliamo l’articolo di Carlo Bonini su Repubblica di ieri, che riporta le motivazioni della sentenza con cui il giornalista-spia Renato Farina, in arte Betulla, ha patteggiato 6 mesi per favoreggiamento nel sequestro Abu Omar, avendo tentato di carpire informazioni segrete ai pm Spataro e Pomarici con una finta intervista, dopodiché fece rapporto a Pompa che ne riferì subito a Pollari. Per i suoi servizietti Farina percepì dal Sismi almeno 30 mila euro, anche se la legge istitutiva dei servizi (801/1977) vieta di «reclutare giornalisti». Tutto documentato, tutto vero. Come le schedature su magistrati, giornalisti e politici mai sospettati di alcun reato rinvenute nell’ufficio di via Nazionale gestito da Pompa, con uno spreco di denaro pubblico che potrebbe integrare il reato di peculato. Com’è vero che alcuni magistrati, come Bruti Liberati, sono stati pedinati. Ed è vero che l’ammiraglio Battelli fu cacciato dal Sismi da Berlusconi per far posto a Pompa e Pollari dopo che un apposito dossier l’aveva additato come depistatore del caso G8 e sbianchettatore del dossier Mitrokhin. Ed è vero che Pollari, imputato per il sequestro Abu Omar, ha annunciato di voler dire tutta la verità, a dimostrazione del fatto che ne sa parecchio. E, appena Pollari ha annunciato l’intenzione di parlare dei governi di centrodestra e di centrosinistra, gli entusiasmi sulla commissione d’inchiesta si sono spenti. «Pollari li ha in pugno», titolava ieri trionfante Libero, il giornale di Feltri & Betulla, dandogli del ricattatore. Quel Pollari che il governo di cui fa parte Amato ha promosso giudice del Consiglio di Stato e consulente di Palazzo Chigi (sia pure senza incarichi). Chissà, se desse un’occhiata ai fatti già accertati e ai documenti già acquisiti, forse Amato seguirà le cose un po’ meno distrattamente.

ULIWOOD PARTY MARCO TRAVAGLIO l’Unità (11 luglio 2007)

lunedì, 09 luglio 2007 ARCHIVIO: 29 APRILE 2007

Berlusconi assolto, "non fate domande e chiedetegli scusa"

Dopo la sentenza Sme si scatenano i giornalisti, da Ferrara a Battista, fra sollievo e vendette: «È finito un quindicennio di giustizialismo»

PONIAMO IL CASO, puramente teorico, che in America si scoprisse che l’avvocato di Bush, deputato al Congresso, ha pagato due giudici con soldi provenienti da una società di Bush per

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fargli vincere alcune cause in cui aveva torto. Fra l’altro, per rubare il primo gruppo editoriale del Paese a un concorrente. Nell’eventualità, piuttosto remota, che l’avvocato-imputato in questione fosse riuscito a farsi eleggere al Congresso e il suo illustre cliente a farsi eleggere Presidente, che cosa farebbero i giornali e le tv di tutta l’America, cioè del paese in cui molti chiedono la testa del governatore della banca centrale perché ha raccomandato la sua fidanzata? In ogni articolo di fondo, conferenza stampa e programma televisivo, tutti tempesterebbero Bush con una semplice domanda: Dear Mister President, sapeva che, con i suoi soldi, il suo avvocato pagava giudici e comprava sentenze per farle vincere i processi? Se non lo sapeva, come lei afferma, non ritiene di essere responsabile di una macroscopica culpa in vigilando? E perché, quando l’ha scoperto, ha finora protetto il suo avvocato, facendolo eleggere deputato, anziché allontanarlo e chiedere i danni? Se invece lo sapeva, perché ha mentito al suo Paese? E cos’aspetta a dimettersi? BUONGIORNO, ITALIA Si dà il caso che queste cose siano accadute in Italia. Dunque ieri, dopo l’assoluzione di Berlusconi per insufficienza di prove dall’accusa di corruzione per un episodio costato all'avvocato Previti e al giudice Squillante una condanna in primo e secondo grado (annullata dalla Cassazione per questioni territoriali, non di merito), la politica e la stampa al seguito festeggiavano l'evento come se il caso fosse chiuso: mentre non lo è né sul piano penale (c'è ancora la Cassazione), né su quello politico-morale (la sentenza non può cancellare il bonifico Fininvest-Previti-Squillante da 434.404 dollari del 6 marzo 1991). I CORISTI La stampa berlusconiana suona trombette e tromboni, evitando di ricordare che se Previti e Pacifico non avessero pagato giudici con soldi di Berlusconi e del suo socio Barilla, nessuno avrebbe mai processato l'allegra brigata per corruzione giudiziaria. Renato Farina, alias Betulla, dice che «qualcuno» dovrebbe «chiedere scusa» a Berlusconi. Allude a Previti? No, ai giornalisti che han raccontato quelle tangenti. Ma anche a Prodi, che voleva «svendere la Sme» a De Benedetti. Lo scrive anche il Giornale della ditta: Prodi voleva «regalare la Sme per poche centinaia di miliardi», poi arrivò il Cavaliere bianco a sventare la minaccia (naturalmente è tutto falso: il prezzo concordato tra l'Iri e De Benedetti, unico pretendente, fu fissato da due perizie indipendenti, mentre quelle della cordata Fininvest-Barilla-Ferrero stimavano un prezzo addirittura inferiore). Poi c’è Giuliano Ferrara che, essendo molto intelligente per scienza infusa, può permettersi di scrivere un sacco di fesserie. Delira di «mozzorecchi» che «dilagano in tv con il loro uso criminoso, codino, qualunquista e volgare del mezzo» (parola di uno che imperversa ogni sera su La7, peraltro all'insaputa del pubblico, e anni fa compariva in tv spuntando da una pattumiera). Afferma che il processo Sme «è stato riaperto in fretta e furia dopo che il centrosinistra aveva liquidato la più bella e sana delle riforme della scorsa legislatura»: la legge Pecorella sull’inappellabilità (ma la legge è stata cancellata dalla Consulta: il centrosinistra, di leggi ad personam, non ne ha abrogata nemmeno mezza). Infine invita anche lui a «chiedere scusa al perseguitato». Parola di uno che definì «uomo probo» il giudice corrotto Squillante. Che pubblicò su Panorama l’«elogio di Previti», noto corruttore. Che nel ‘96 chiese alla sinistra di «inginocchiarsi per chiedere scusa a Craxi», pluripregiudicato e latitante. Se uno viene condannato, bisogna scusarsi con lui. Se uno viene assolto (o prescritto), bisogna scusarsi con lui. Solo chi non ruba non merita scuse: farebbe meglio ad autodenunciarsi al Foglio. PIGI Poi c’è la cosiddetta stampa indipendente. La Stampa scrive che «la fedina penale di Berlusconi è tornata candida e immacolata: niente più reati prescritti, basta formule dubitative». Ma qui la formula è dubitativa (art.530, comma 2), e Berlusconi ha ben 7 prescrizioni, più un paio di assoluzioni perché il fatto non è più reato in quanto lui stesso l’ha depenalizzato. Il meglio, però, lo dà Pierluigi Battista, che sul Corriere riesce a collezionare tutte le bugie e i luoghi comuni partoriti negli anni su Mani Pulite e sulle Toghe Sporche. A cominciare dal titolo: «Cambio di clima». Svolgimento: l’Italia «per 15 anni non è stata un paese normale, incatenata all’idea che nei tribunali si forgiassero i destini politici della Nazione»: chi abbia mai sostenuto una simile corbelleria, non lo dice, anche perché non troverebbe una sola dichiarazione in tal senso di un solo politico o giornalista (tranne forse il Pera e il Feltri dei tempi d'oro). Ma ora - aggiunge compiaciuto Battista - «l’Italia è stata restituita a una parvenza di normalità». Perché mai? Perché «Berlusconi è stato assolto e non ha invocato rappresaglie su chi lo aveva messo alla sbarra». Bel paese normale, quello in cui il primo quotidiano si felicita perché il capo dell'opposizione non invoca rappresaglie sulla magistratura. Battista mette in guardia da «una delle più pericolose patologie italiane». La corruzione dei giudici da parte dell'avvocato di Berlusconi coi soldi di Berlusconi? No, le «schegge e cascami» dell’«oltranzismo anti-berlusconiano» che sperano ancora «che il leader dell’opposizione possa inciampare nel groviglio giudiziario». Che il capo dell’opposizione esibisse bilanci fasulli, occultasse centinaia di miliardi all'estero, ingaggiasse mafiosi come stallieri o manager che corrompevano giudici e ufficiali della Finanza, è un dettaglio trascurabile. I fatti non contano: se Berlusconi è imputato

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da anni in tribunale, è perché ogni tanto «inciampa» distrattamente in un «groviglio giudiziario». E se finora l’ha fatta franca 7 volte per prescrizione, 2 perché ha cancellato i suoi reati, 2 per insufficienza di prove, 1 per amnistia, è perché siamo finalmente «un paese normale». «Come in tutte le democrazie liberali», precisa Battista che evidentemente non ne ha mai visitata una. Poi spiega ai giudici che «la responsabilità penale è personale e non di un sistema», come se Berlusconi non fosse imputato per la destinazione illecita dei suoi soldi, ma per un fantomatico «sistema». Entusiasta per questo «cambiamento di clima», riepiloga il «quindicennio giustizialista»: un museo degli orrori con «la decapitazione della classe di governo della Prima Repubblica» (rubavano, ma lui non lo ricorda), «la guerra totale sulla giustizia» (chi l'abbia ingaggiata e chi l'abbia subita, non è ben chiaro, visto che uno insultava i giudici e quelli subivano), «lo scontro permanente tra "il caimano" e "le toghe rosse"» (cioè i processi imposti dalla legge per le innumerevoli notizie di reato a carico di Berlusconi), i «processi-spettacolo» (forse il processo di Cogne, in onda da 5 anni a reti unificate). E poi, nell'ordine: «le sfide, i girotondi, le leggi ad personam». In realtà i girotondi nacquero dopo, anzi per le leggi ad personam, contro cui il «liberale» Battista non levò mai un pigolìo per ricordare che in un paese normale e in una democrazia liberale sarebbero impensabili. Infine, dulcis in fundo, il Cerchiobattista lacrima copiosamente per il calvario patito dal sant'uomo: «Berlusconi può legittimamente lamentarsi del carattere troppo tardivo (sic!) di una sentenza che lo scagiona». In effetti il processo Sme-Ariosto è durato un po’ troppo. Ma il perché lo spiega, a pag. 5 dello stesso Corriere, Luigi Ferrarella: «L'esito finale arriva dopo 12 anni dall’indagine, dopo 6 cambi di legge (rogatorie, falso in bilancio, patteggiamento allargato, legittimo sospetto, immunità, inappellabilità), 2 Cassazioni a sezioni unite per dire no al legittimo sospetto degli imputati sui giudici milanesi, 3 pronunce della Corte costituzionale, 1 Cassazione sull'incompetenza territoriale, 3 fallite ricusazioni di giudici, 2 azioni ministeriali, 2 inchieste a Brescia e Perugia sui pm Boccassini e Colombo (poi archiviate)». Ma c’è il legittimo sospetto che Pigi Battista, vicedirettore del Corriere della sera, non legga il Corriere della sera.

MARCO TRAVAGLIO

l'Unità  (29 aprile 2007)

sabato, 07 luglio 2007 SERVIZIETTI (POCO) SEGRETI

Berlusconi fa sapere che, con le spiate del Sismi nominato dal governo Berlusconi, Berlusconi non c’entra. Del resto, se anziché spiare i terroristi islamici e nostrani, i mafiosi, i camorristi e gli ‘ndranghetisti, il duo Pompa&Pollari spiava magistrati, politici d’opposizione e giornalisti ritenuti ostili a Berlusconi, chi mai potrebbe sospettare che lo facesse per conto dì Berlusconi? È vero, i dossìer di Spio Pompa su Prodi finivano dritti e filati su Libero per la firma di Renato Farina, intervistatore di fiducia di Berlusconi, stipendiato dal Sismi. Ma Berlusconi non c’entra. I dossier su inesistenti vertici a Lugano tra magistrati Italiani e stranieri ansiosi di arrestare Berlusconi finivano su Panorama di Berlusconi, sul Foglio di Berlusconi e sul Giornale di Berlusconi per la penna di Lino Jannuzzi, senatore del partito di Berlusconi, ma Berlusconi non c’entra. Pompa e Pollari maneggiavano dossier sulla Telekom Serbia che foraggiavano l’omonima commissione creata da Berlusconi per dimostrare la corruzione degli oppositori di Berlusconi, ma Berlusconi non c’entra. Le teorie sul planetario complotto mediatico-gludiziario ai danni di Berlusconi formulate chez Pompa venivano copiate pari pari e rilanciate da Berlusconi, ma Berlusconi non c’entra. I giornalisti che scrivevano cose turpi (e dunque vere) su Berlusconi venivano pedinati da uomini del Sismi a spese dei contribuenti ma Berlusconi non c’entra. Nei dossier di via Nazionale si progettava di «disarticolare con mezzi traumatici» i magistrati che indagavano su Berlusconi e i suoi cari, ma Berlusconi non c’entra. Pompa nel 2001 scriveva a Berlusconi: «Sarò, se Lei vorrà, il Suo uomo fedele e leale... Desidero averLa come riferimento e esempio ponendomi da subito al lavoro. Un lavoro che vorrei concordare con Lei quando potrò, se lo riterrà opportuno, nuovamente incontrarla… Insieme a don Luigi (Verzè, ndr) voglio impegnarmi a fondo, com’è nella tradizione contadina della mia famiglia, nella difesa della Sua straordinaria missione che scandisce la Sua esistenza», ma Berlusconi

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non c’entra. In un paese decente, per molto meno, si parlerebbe di regime, tanto più se si associa il caso Sismi a quanto sta emergendo sulla «macelleria messicana» del G8 di Genova (uno a zero per noi!», esultava nel 2001 un poliziotto dopo la morte di Carlo Giuliani) e chi ha avuto responsabilità anche solo politiche in questi sporchi affari andrebbe ipso facto a casa, o forse in luoghi meno ospitali. Invece da noi la parola «regime» è stata per 5 anni vietata dalla stessa sinistra (dava l’orticaria», come ben ricorda Furio Colombo) e non si dimette nessuno. La classe politica, salvo rare eccezioni, guarda a questi scandali con annoiata sufficienza. Poi c’è qualche furbastro trasversale che coglie la palla al balzo per varare la tanto sospirata commissione d’inchiesta sulle intercettazioni. Naturalmente le deviazioni istituzionali del Sismi non c’entrano: le intercettazioni non le fa il Sismi, ma i magistrati, che proprio grazie alle intercettazioni hanno scoperto i dossieraggi e le complicità dei vertici del servizio militare in un sequestro di persona, prima che il governo opponesse un inesistente segreto dì Stato e bloccasse il processo. Non facciano i furbi:la commissione sulle intercettazioni non è contro i dossieraggi illegali, è contro i magistrati che applicano le leggi. Semmai, se le commissioni servissero a qualcosa, ne andrebbe creata una sulle imprese dei Sismi e degli altri apparati di spionaggio abusivi con copertura istituzionali, come quello di Telecom. Invece abbiamo indagato per 5 anni su Mitrokhin, cioè sullo spionaggio sovietico, tema senz’altro stimolante se non avessimo in casa due o tre centrali di spionaggio italiano. Ma il tema non appassiona nessuno, a parte la magistratura, ostacolata in ogni modo. Sarebbe interessante conoscere il parere degl’intellettuali “liberali” che ogni due per tre intasano le prime pagine per denunciare le «invasioni di campo» della magistratura nella politica e nella privacy dei cittadini inermi. Che ne dicono delle invasioni di campo del Sismi nella politica e nella libera informazione, spiate a spese dei contribuenti addirittura nei pubblici convegni e nelle presentazioni di libri? Come si chiamano i posti in cui avvengono queste cose, se non regimi? I Panebianchi, gli Ostellini, i Galli della Loggia e altri liberali a 24 carati staranno preparando articoli di fuoco. sull’argomento. Speriamo pure di leggerli, prima o poi.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIO l’Unità (7 luglio 2007)

LA CARICA DEGLI IPOCRITI

di Gian Antonio Stella

Per celebrare la decisione del governo di dare una sforbiciata ai costi della politica, la Regione Calabria ha avuto una bella pensata: ha appena inserito tra le comunità montane altri 19 comuni tra i quali Bova Marina, il cui municipio svetta dolomitico a 20 metri sul livello del mare. Prova provata che tra il dire e il fare, su questo tema spinosissimo, c'è di mezzo il mare. Peggio: un mare montagnoso. Tanto che il disegno di legge sui tagli agli sprechi è slittato ieri per l'ennesima volta. A quando? Boh... Che le resistenze sarebbero state molte, al progetto di smontare almeno un po' di meccanismi clientelari e riordinare almeno un po' di assurdità e rimuovere almeno un po' dei privilegi che appaiono ai cittadini ogni giorno più insopportabili, si sapeva. Bastava notare l'assoluto, imbarazzato, abissale silenzio, in questi mesi, da parte di tutte le forze politiche, intorno alla possibilità di rovesciare l'indecente leggina sui finanziamenti privati ai partiti. Quella in base alla quale chi regala soldi a una segreteria politica o a un candidato alle elezioni ha sconti fiscali fino a 51 volte più alti rispetto a chi regala gli stessi soldi alla ricerca sulla leucemia infantile o alla lotta alla fame nel mondo. Bastava ascoltare certi dibattiti televisivi dove, secondo i più accaniti guardiani del dorato status quo, il problema non era che i pranzi al ristorante della Camera costino mediamente 90 euro e vengano pagati dai deputati, ma il rischio che queste denunce «possano creare sfiducia nelle istituzioni». Bastava interpretare il piccolo gesto di sfida di Rocco Buttiglione che nel bel mezzo delle polemiche sfregiava ridacchiando i censori: «Alla buvette vogliamo pure il gelato». Oppure bastava annusare l'ostilità che emanava già a fine maggio alla Commissione Affari istituzionali presieduta da Luciano Violante. Dove il forzista Gabriele Boscetto era preoccupatissimo perfino dall'ipotesi di «un'indagine conoscitiva sulle spese attinenti al funzionamento della Repubblica» poiché già questo gli faceva venire «il timore che si tratti di un'iniziativa

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demagogica, preparatoria di interventi drastici e meramente propagandistici». Nessuna meraviglia: abituato com'è a un certo andazzo, durante l'ultima finanziaria era arrivato a proporre l'abolizione del divieto, per chi ha una carica in un ente locale di «ricoprire incarichi e assumere consulenze professionali non solo presso gli enti in cui esercitano la loro carica, ma anche presso altri enti territoriali». Una incompatibilità ovvia, varata per impedire a un sindaco di affidare incarichi a un altro sindaco ricevendo in cambio lo stesso regalino. Gli pareva troppo: «Comporta una perdita economica e un impedimento ingiusto ».

Non c'è stato giorno, in queste settimane, soprattutto dopo l'allarme lanciato sul Corriere da Massimo D'Alema («Rischiamo di essere travolti come la Prima Repubblica») in cui Romano Prodi, Linda Lanzillotta, Giulio Santagata o altri non abbiano promesso un disegno di legge del governo per contenere i costi esorbitanti della macchina politica. E non c'è stato giorno in cui non si potessero cogliere qua e là segnali, su questo percorso, di grande difficoltà. E una crescente insofferenza per le polemiche: «Uffa, ma come, basta, ancora questa storia?». Dice tutto il tormentone sulla comunità montane. All'inizio, dopo lo scandalizzato stupore popolare per l'esistenza di comunità come quella delle Murge Tarantine dove nessuno dei suoi nove comuni è «montano» e dove Palagiano sorge a 39 metri sul livello del mare (massimo dell'altezza 86 metri, 12 meno del campanile veneziano di San Marco) pareva che l'orientamento fosse ovvio: d'ora in avanti avrebbero potuto appartenere alle comunità montane solo paesi sopra i mille metri. No, meglio novecento. Forse ottocento. Ma no, non si può guardare solo l'altitudine: settecento. Non esageriamo: seicento. E mentre il taglio diventava un taglietto e poi una sforbiciatina (ultima puntata: se ne occuperà l'Osservatorio per l'applicazione della legge sulla montagna), la Calabria, infischiandosene di tutto e tutti, allargava le sue comunità a paesi appunto come Bova Marina (sul mare), Cassano allo Jonio (sul mare) o Monasterace, il cui territorio sale dalla spiaggia alla vertiginosa altezza di 177 metri, più o meno quanto la Mole Antonelliana. Una cosa che, nella convinzione che per salvare i paesi spopolati della montagna vera occorre spazzare via quella finta e clientelare, ha fatto infuriare lo stesso presidente dell'Unione comunità montane Enrico Borghi: «Ma come, a Roma stiamo lavorando per ridefinire cos'è la montagna e come aiutarla e in Calabria vanno per conto loro così?». Per non dire del taglio alla massa di consiglieri regionali, provinciali, comunali, circoscrizionali. A parte la rinuncia a priori alla soppressione delle province, che tutti considerano più o meno inutili ma nessuno ha la forza e la volontà politica di spazzar via (nel 1985 Margaret Thatcher le sue 45 Contee metropolitane le eliminò tutte in un colpo solo, compresa quella di Londra: ma era la Thatcher), si prevede che si andrà a una limatura. Ma è illuminante quanto accaduto intorno ai comuni. Il sindaco di Firenze Leonardo Domenici, presidente dell'Anci, aveva detto che, per quanto lo riguardava, poteva essere concordato («concordato, però!») un taglio del 25% dei consiglieri. Macché: ben che vada sarà (forse) del 10%. Ma sempre lì si torna, come lo stesso Domenici ha sottolineato mille volte: urgono una consapevolezza e uno sforzo di riforma corale, magari sotto il «patronato» del capo dello Stato. Sennò andrà sempre a finire come in una delle riunioni di queste settimane. Conclusa da Vasco Errani, Roberto Formigoni e altri governatori, di destra e di sinistra, con una battuta che concentrava tutto: «Dobbiamo tagliare? D'accordo, ci stiamo. Eccoci qua, pronti. Ma non sarà il caso che cominciate voi, che al governo siete in 103?».

Corriere della Sera (07 Luglio 2007)

domenica, 15 aprile 2007 SIAMO IN TONTI

A chi volesse sapere perché i quotidiani italiani vendono tante copie quante nel 1934, una risposta più che attendibile è giunta ieri dagli stessi quotidiani. Tutti titolavano, nelle pagine dedicate ai postumi del sequestro Mastrogiacomo, sul "nuovo allarme" dei servizi segreti sul "rischio attentati" per l'Italia e per le nostre truppe in missione nel Medio Oriente. In Italia - avvertono i servizi - si sono registrati "130 tentativi di attentato in sei mesi". Visto che fortunatamente nemmeno uno su 130 è andato a buon fine, vuoi dire che la situazione non è così catastrofica, ma lasciamo perdere. Quanto ai rischi per le nostre truppe, non c'era bisogno dei servizi segreti per supporli: salvo pensare che i nostri soldati siano partiti per una scampagnata di Pasquetta. Il dato interessante è che, a leggere bene gli allarmati e allarmanti articoli, il rapporto dei nostri servizi si riferisce al secondo semestre (luglio-dicembre) 2006. Cioè è vecchio di quattro mesi. Col sequestro Mastrogiacomo e tutto quel che ne è seguito, non c'entra nulla.

Ma andiamo avanti. Sulla prima pagina di Libero, sotto il consueto titolo «Son tonti o ci fanno?» (un sempreverde: è buono per la legge finanziaria e il festival di Sanremo,

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per l'aviaria e il delitto di Cogne) si dà conto del ricorso del governo Prodi alla Consulta contro il processo per il sequestro di Abu Omar. Il ricorso nel quale l'Avvocatura dello Stato, per conto dell'esecutivo, dipinge i magistrati di Milano come delinquenti e gli spioni che hanno sequestrato un cittadino egiziano per mandarlo a torturare nel suo paese come dame della carità. Sommario: «II governo smonta il processo dei giudici ai nostri 007». Didascalia: «L'Avvocatura dello Stato ha stabilito che l'inchiesta dei giudici sul presunto (sic) sequestro di Abu Omar ha provocato un danno sensibile all'Italia...». Ai giureconsulti di Libero forse sfugge che, non essendo ancora l'Italia - almeno formalmente - lo Stato libero di Bananas, i governi non hanno il potere di «smontare» alcun processo né l'Avvocatura dello Stato di «stabilire» una bella cippa. I processi li fanno i giudici, non i ministri e nemmeno gli avvocati. Ma il bello deve ancora venire, perché sotto il titolone «Son tonti o ci fanno?» - si spera senz'alcuna allusione ai tonti - campeggia il faccione di Farina, alias Betulla, il vicedirettore del giornale infeltrito che è stato appena espulso dall'Ordine dei giornalisti perché prendeva soldi dal Sismi per spiare i magistrati antiterrorismo e per rifilare balle su balle ai suoi lettori, e che ha patteggiato 6 mesi di reclusione per favoreggiamento nel sequestro di Abu Omar. «Chi lo riabilita?», chiede Feltri. Bella domanda. Ma andrebbe posta a Farina: se il sequestro è «presunto» (il fellone potrebbe essersi rapito e torturato da solo, per incastrare Betulla), che gli è saltato in mente di patteggiare 6 mesi di galera? Vogliamo forse insinuare che era innocente e non se n'era accorto? E perché nessuno in redazione l'ha avvertito in tempo, prima patteggiasse? Son tonti o ci fanno?

C'è poi il caso Potenza. L'altroieri il ministro Mastella, e Dio solo sa quanto dev'essergli costato, ha dovuto ammettere alla Camera che le intercettazioni chieste dal pm Woodcock e disposte dal gip lannuzzi erano perfettamente legittime e regolari, «disposte con provvedimento motivato dal gip a seguito di richiesta motivata del pm». Una bella scoperta, che spazza via due anni di fesserie giuridiche e polemiche inutili. I deputati Buemi e Piazza dello Sdi, che pretendevano di trascinare i magistrati dinanzi alla Corte dei conti, han dovuto ritirarsi con la coda fra le gambe. Ma non senza protestare per «l'astratta formalità» della risposta (che sarà mai il codice penale, per due socialisti) e accusare Woodcock di «mancanza di economicità» per le «troppe intercettazioni a cui non fa riscontro un risultato adeguato». I due pretendono che, quando un pm dispone un'intercettazione, abbia già la certezza matematica che gli intercettandi verranno condannati in Cassazione. Non sanno che le indagini (e dunque le intercettazioni) si fanno per vedere se uno è colpevole o innocente (se si sapesse già che è colpevole, non ci sarebbe bisogno di intercettarlo). Devono aver studiato diritto alla scuola di Feltri e Betulla.

ULIWOOD PARTY

MARCO TRAVAGLIO

l’Unità (13 aprile 2007LESA MAESTÀ

Ciascuno può pensarla come crede sulla scelta di pubblicare o meno il nome della vittima di un progetto di estorsione. Ma una cosa non è (o non dovrebbe essere) consentita a nessuno: raccontare palle. L’ultima è che la legge sulle intercettazioni in discussione in Parlamento avrebbe impedito quanto è accaduto al povero Sircana. Non è vero niente, salvo che depenalizzino il reato di estorsione. Con o senza la nuova legge, è assolutamente inevitabile che, indagando su una gang di ricattatori, il pm che li vuole arrestare formuli al giudice una richiesta con gli indizi (intercettazioni,

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testimonianze, carte ecc.) a loro carico. E che il gip che li arresta indichi nell’ordinanza di cattura i motivi che l’hanno convinto ad ammanettarli. Per un eccesso di scrupolo, peraltro non dovuto, il gip Alberto Iannuzzi ha coperto di omissis il nome di Sircana. Che poi il bersaglio del paparazzo fosse lui, era il segreto di Pulcinella, destinato a cadere in pochi giorni. Ora, i solito tromboni del diritto un tanto al chilo invocano la legge sulle intercettazioni.

Bruno Vespa, dopo aver sceneggiato con voci di attori una telefonata fra Corona e la moglie, si lancia con eccelsa coerenza nella solita filippica diffamatoria contro le Procure che passerebbero le carte segrete alla stampa (a proposito: perché i vertici della Rai non gli impongono di avvertire in anticipo i pm che intende diffamare, per consentire loro il diritto di replica?). Com’è noto, le intercettazioni di Vallettopoli sono contenute nell’ordinanza di custodia che, essendo nota ad arrestati e avvocati, non è segreta (il nome di Sircana nell’ordinanza non c’era, ma era noto agli indagati, cioè al paparazzo, a Corona e a tutta l’allegra brigata).

Che cosa prevede la legge Mastella? 1) Vietato pubblicare fino all’udienza preliminare gli atti d’indagine, anche quelli non più segreti, sia integrali sia per riassunto: non certo il loro contenuto, altrimenti non si potrebbe più dire neppure che hanno arrestato Provenzano e perché. 2) Vietato pubblicare sempre e in qualunque forma le intercettazioni telefoniche. Ora, l’altro giorno tutte le agenzie e i giornali hanno pubblicato le intercettazioni dell’ordinanza di Potenza. Compresa quella del paparazzo che pedina Sircana e ne informa Corona. Nessuno ha fatto il nome di Sircana, tranne il Giornale. Con la nuova legge, nessuno avrebbe più potuto pubblicare il testo della telefonata. Ma il contenuto, con o senza il nome di Sircana, avrebbero potuto raccontarlo tutti: perché Corona & C. sono stati arrestati anche per quel fatto. E, anche se tutti, Giornale compreso, avessero taciuto il nome, questo sarebbe emerso tra qualche mese al processo, che è pubblico: che si fa, un’altra legge per vietare ai giornalisti di assistere ai processi e di raccontarli?

Dunque la legge non impedisce né potrebbe impedire un altro caso Sircana. In compenso, prevede una catena impressionante di sanzioni intimidatorie ai cronisti: se insistono a pubblicare ciò che sanno, verranno perseguiti dai Tribunali, ma anche dal Garante della privacy (nominato dai partiti) che li condannerà per «illecito per finalità giornalistiche», li metterà alla gogna con sentenze pubblicate sui giornali a loro spese e chiederà all’Ordine di punirli disciplinarmente. Quanto ai cittadini, non saranno più compiutamente informati sugli scandali del Potere: con questa legge, nessuno saprebbe ancora cosa si dicevano il governatore Fazio, i furbetti e i loro compari di destra e di sinistra; né come funzionava Calciopoli; né cos’era diventato il Sismi del generale Pollari; né cosa combinavano Tavaroli & C. Visto che i processi non sono ancora iniziati, Fazio sarebbe ancora alla Banca d’Italia, Pollari al Sismi col contorno di Pompe e Betulle; i furbetti avrebbero sgraffignato le banche; Moggi & C. seguiterebbero a truccare campionati, alla Telecom non sarebbe cambiato nulla. «Oportet ut scandala non eveniant». Questa è l’oscena realtà.

Cavalcando l’emozione per la tragedia capitata a un galantuomo come Sircana (strepitosi i lai di Bellachioma, editore del Giornale), una classe politica ricattabile sta cercando di reintrodurre il reato di lesa maestà: limitando le intercettazioni giudiziarie e tagliando le mani ai giornalisti. Così i ricatti proseguiranno, ma dureranno molto di più, perché nessuno potrà più saperne nulla. Avremo una magistratura dimezzata, una stampa imbavagliata e una politica ancor più inquinata - se possibile - di oggi. Bene, bravi, bis.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIO

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l'Unità 16 marzo 2007

mercoledì, 14 marzo 2007 SI FA MA NON SI DICO

C’è chi i Dico dovrebbe farli con se stesso, nel senso che convive da anni con una doppia personalità e riesce a sostenere tutto e il contrario di tutto o, più frequentemente, a fare una cosa e a dire l'opposto. Ieri per esempio Il Giornale pubblicava in prima pagina un accorato appello in difesa dei sacri «valori della società cristiana» contro chi, criticando il Vaticano, Andreotti e Mastella, «usa i metodi dei nazisti contro gli ebrei». L'articolo, per un evidente refuso redazionale, risultava firmato non da un cattolico modello tutto casa e Chiesa, ma da Vittorio Sgarbi. Lo stesso Sgarbi che, in ossequio ai «valori della società cristiana», semina figli clandestini in giro per l'Italia ed è solito accompagnarsi con attricette e pornostar, mentre la sua fidanzata ufficiale che rilascia interviste strazianti per raccontare il suo rapporto platonico con un uomo che per il sesso si rivolge altrove. Lo stesso Sgarbi che un giorno svelò: «Io di figli ne ho tre ufficiali e uno dubbio: c'è anche un bambino che mi ha visto e mi è venuto incontro chiamandomi papà, ma non so bene come stanno le cose» (11-5-2003). E d'altronde - aggiunse - «se una ragazza rimane incinta mica può disfarsi di un figlio di Sgarbi: è un patrimonio» (8-9-2003). Evidente che l'autore dell'articolo non può essere lui: dev'esserci stato uno scambio di firme con don Gianni Budget Bozzo. Se invece l'autore fosse proprio lui, allora si renderebbe necessario un Pacs, o almeno un Dico, per regolarizzare l'unione civile contro natura tra lo Sgarbi libertino e lo Sgarbi bigotto.

Già che ci siamo, segnaliamo un'altra coppia di fatto piuttosto innaturale: quella tra Belpietro-1 e Belpietro-2. Ieri Belpietro-1 ha pubblicato un articolo di Giancarlo Perna che stigmatizza giustamente la presenza in Parlamento del deputato condannato del Prc Daniele Farina (detenzione, fabbricazione e porto abusivo di esplosivi, lesioni, resistenza a pubblico ufficiale, cosine così) dunque promosso vicepresidente della commissione Giustizia della Camera. «È esperto di leggi per averle violate più volte», ironizza il Perna. Ma Belpietro-2 non trova nulla da ridire sugli altri 24 onorevoli pregiudicati, quasi tutti di Forza Italia, compreso quel deputato (tale Previti) condannato a 6 anni per corruzione giudiziaria, che a differenza di Farina è stato pure ministro, sconta la pena al servizio sociale e, pur interdetto dai pubblici uffici, rimane in Parlamento a spese nostre. Un bel Pacs tra Belpietro-1 e Belpietro-2 potrebbe aiutare.

Il vicedirettore di Libero, Gianluigi Paragone, nonostante la giovane età è rimasto turbato almeno quanto Mastella per le «immagini volgari, provocatorie e disgustose» del Gay Pride 2000 ritrasmesse da Annozero, e ha alzato il ditino scandalizzato contro questo depravato di Santoro che «ha costretto i telespettatori a vedere il caravanserraglio omosessuale». Forse Paragone non ricorda, ma il suo direttore Vittorio Feltri fu per un po' radiato dall'Ordine dei giornalisti per aver sbattuto in prima pagina immagini di pedofili all’opera. E il suo giornale, non più tardi di una settimana fa, disegnò in prima pagina le terga spalancate di Prodi, affettate a mo’ di mortadella e pronte ad accogliere un tappo di champagne con la faccia di Berlusconi, sotto il titolone «E ora brindiamo», roba da far arrossire le drag queen del Gay Pride.

Un bel Pacs è auspicabile anche per le due Letizie Moratti esistenti su piazza: la prima invita i milanesi a scendere in piazza contro il governo che non militarizza a sufficienza Milano contro la microcriminalità; la seconda - come le ha rinfacciato Gerardo D'Ambrosio - non disse una parola quando Forza Italia votò l'indulto,

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aprendo le porte del carcere a quasi 30 mila delinquenti, di cui più di un decimo già tornati all'opera.

Urge un Pacs anche per Cacciari-1 e Cacciari-2. Cacciari-1 attacca i politici che vanno in piazza («Vuol dire che non sanno fare il loro mestiere, sono il segno della crisi della politica»). Cacciari-2 era in piazza a Mestre il 29 ottobre, a manifestare con commercianti e artigiani contro la finanziaria di Prodi. Ora, per carità, un politico che va in piazza sarà pure un sintomo di incapacità e un segno della crisi della politica. Ma mai come chi dice agli altri di non andarci (tra l'altro, a manifestare per una legge del loro governo), e poi ci va lui (tra l'altro, a manifestare contro una legge del suo governo).

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIO l'Unità 13 marzo 2007

lunedì, 26 febbraio 2007 T'AMO, PIO POMPA (11 LUGLIO 2006)

Non vogliamo disturbare il dibattito in corso su Foglio, Libero e Corriere intorno al caso Farina-Betulla e, molto più in generale, sul tema: «Può un giornalista arruolarsi nella Quarta Guerra Mondiale contro il terrorismo in difesa della civiltà occidentale-giudaico-cristiana? E, se sì, può chiedere il rimborso spese a pie' di lista? E, se sì, qual è il prezzo giusto?». Ma, se non è troppo incomodo, vorremmo sapere in che cosa precisamente consiste il contributo fornito alla lotta al terrorismo dal botanico inviato in multiproprietà di Libero e del Sismi. È vero che, nel giornalismo nostrano, i fatti non devono dar noia alle opinioni. Ma qui, a quanto risulta, l'infarinato Betulla fu pagato con almeno 9mila euro (evidentemente era in saldo) non per segnalare pericolosi terroristi. Bensì per pubblicare un dossier-patacca contro Prodi e per controllare le mosse della Procura di Milano che indagava sull'imam Abu Omar. Il tutto su mandato dell'agente Pio Pompa. Insomma: l'infeltrito 007 non spiava i terroristi. Spiava i magistrati che indagano sui terroristi, aiutando un presunto terrorista e i suoi rapitori a sottrarsi alla giustizia. Lasciamo stare la questione morale (un giornalista non prende soldi se non dal suo editore), penale (un giornalista non viola la legge) e deontologica (un giornalista non pubblica notizie che sa false): troppo difficili da spiegare in Italia. E limitiamoci alla logica: che cos'ha mai fatto Betulla contro il terrorismo per passare da militante, magari un po' sventato, dell'antiterrorismo? Ora, visto che Betulla molto cristianamente si autoassolve senza pentirsi perché, come i Blues Brothers, era in missione per conto di Dio (peraltro ignaro di tutto) prepariamoci alle sue prossime imprese sotto copertura, che s'annunciano quanto mai avvincenti.

-Operazione Zizou. Per rendersi meno identificabile dopo il contrattempo giudiziario, Betulla cambia nome: "Farina Doppio Zero". E si reca in territorio francese, dove si annida un sospetto terrorista algerino che si fa chiamare Zizou. Fonte della soffiata: tale Marco Materazzi. Costo della missione: 15 euro più viaggio, vitto, alloggio e indennità rischio (un buono sconto per l'acquisto di occhialini raggi X modello Intrepido). Individuato il bersaglio in un hotel di Parigi, l'agente Farina 00 prende una camera pronunciando la frase storica del maestro, l'ispettore Clouseau: «Mi dia le chiavi della mia stanza». Poi striscia al passo del leopardo fino alla suite del putribondo figuro, suona e si presenta: «Mi Farina, Renato Farina». Ma in quell'istante gli scivola dalla tasca un breviario modello don Abbondio e, mentre lo raccoglie, Zizou lo finisce con una testata nei denti.

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-Operazione Lucky. Equipaggiato con i più moderni ritrovati della tecnologia investigativa, fra i quali una walkie talkie e un impermeabile cammello, l'agente Betulla ribattezzato "Platano" e travestito da faggio si porta in quel di Monticiano (Siena), dov'è segnalato un tizio dall'aspetto poco rassicurante, alias Lucianone: capelli radi e tinti, sedici telefonini che squillano, eloquio intraducibile ma triviale, aria tipicamente levantina e casacca a strìsce bianconere (indice di una lunga permanenza a Sing-Sing), scortato da ceffi in giacchetta nera e fischietto. Il Nostro gli zompa felinamente addosso: purtroppo, sul più bello, viene tradito dalla suoneria del suo cellulare con le note dell'Ave Maria di Schubert e subito si raccoglie in preghiera, mentre il sospetto si dilegua smoccolando in lingua simil-araba.

-Operazione Sottilette. Camuffato da cespuglio, grazie ad alcune frasche di betulla che gli adornano il capo per renderlo irriconoscibile, l'agente Farina, riclassificato per l'occasione "Ippocastano", si fa paracadutare ai giardini presso la Farnesina, dove un tizio corpulento, all'evidenza musulmano, che si fa chiamare Sottile, nasconde il suo harem di ragazze, vergini o giù di lì, ottenute evidentemente in premio per le sue missioni-kamikaze. Ma, mentre attende pazientemente la preda, Ippocastano viene avvicinato da un alano alto due metri che solleva la gamba e lo inonda con una cinquantina di litri di liquido giallo. Sulle prime l'agente-cespuglio teme una nuova, micidiale arma batteriologica. Ma, quando l'alano igienista estrae una copia di "Libero" per ripulire la zona, si ricorda all'improvviso di essere pur sempre un giornalista e fa saltare la copertura, liberandosi dalle frasche e apostrofando l'animale sotto gli occhi degli attoniti pensionati sulle panchine: «No, Libero non c'entra! Piuttosto prendi me!». Santo subito.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità 11 luglio 2006Fronte del video

Il suggeritore

Maria Novella Oppo

Che tristezza, vedere un grosso giornalista come Giuliano Ferrara che si fa piccolo davanti a un ometto come Berlusconi. E, anziché intervistarlo, gli suggerisce le parole che quello non trova. Perché, diciamo la verità, Berlusconi parla sempre come se stesse vendendo la famosa automobile usata, piazzando ogni tanto un vocabolo desueto per stupire l'allocco. Ogni frase che dice nasconde un interesse ed è falso come la moquette che porta sulla fronte. Lo ha dimostrato ancora una volta attribuendo a falsificazioni giornalistiche la frase che ha detto in tv davanti a milioni di persone e cioè: «i gay stanno tutti dall'altra parte». Poi ha accusato di brogli il centrosinistra, stavolta con gli argomenti di Enrico Deaglio. E nessuno (nemmeno Ritanna Armeni!) gli ha fatto notare che, per fermare la comunicazione dei dati del Viminale ed attribuirsi le schede bianche, bisognava essere al governo. E al governo c'era lui. Così come nessuno in tv fa mai notare che, quando Previti viene condannato, è per reati che hanno arricchito Berlusconi.

l’Unità 25 luglio 2007

mercoledì, 14 febbraio 2007 UOMO MORDE CANE

Se qualcuno, fino a due giorni fa, avesse detto a Berlusconi, Feltri e Farina che Ilda Boccassini, Armando Spataro e Guido Salvini avrebbero salvato loro la vita,

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sarebbe stato cacciato a pedate come un provocatore. Invece la notizia è proprio questa: il Cavaliere, il direttore e il condirettore di Libero hanno evitato un attentato grazie alle indagini di tre magistrati che essi han sempre dipinto come «toghe rosse», «girotondini», «eversori», «golpisti al servizio delle sinistre», taroccatori di prove (la Boccassini con l'Ariosto, la bobina del bar Mandara e il fascicolo 9520/95), favoreggiatori del terrorismo (Spataro che chiede l'arresto dei sequestratori di Abu Omar) e nemici giurati dell'antiterrorismo (Spataro che fa rinviare a giudizio Pollari e gli uomini Cia, ma anche Farina alias Betulla per favoreggiamento), fans di Bin Laden e Saddam, inventori di teoremi contro la destra (Salvini autore dell'istruttoria sulle stragi nere nella Milano anni '60 e '70).

Per noi, che li abbiamo sempre considerati dei bravi e onesti servitori dello Stato, nessuna sorpresa. Ma per chi li aveva raffigurati così, lo stupore dev'essere stato tanto. Ecco per esempio Vittorio Feltri, annata 1996, prima pagina del Giornale, a proposito dei pm che avevano appena inquisito Berlusconi, Previti e Squillante per corruzione giudiziaria: «Lo strapotere che esercitano, la disinvoltura con cui interpretano e usano i codici... intimidiscono il cittadino, lo lasciano in uno stato di vaga inquietudine... Se guardo la foto di Davigo mi sento percorrere dai brividi. Egli mi ricorda il più ossessivo Poe, quello dei racconti gotici e neri... Per non parlare di Colombo, quello con le lenti spesse e i ricci da putto. E D'Ambrosio? È l'unico del pool di cui si ha la certezza che ha un cuore: perché gliene hanno trapiantato uno. Ma uno come Francesco Saverio mi paralizza anche se appare in tv; figuriamoci in un ufficio giudiziario: gli preferirei una sincope. Anche Ilda Boccassini è troppo per il mio grado di tenuta nervosa. Non giudicatemi male: con lei non salirei neppure in ascensore... Tra poco vi saranno le elezioni, difficile credere che sia soltanto una coincidenza. Comunque, dati i personaggi, più che scandalo, questo sarà archiviato come un impiastro. Alla puttanesca».

Per sapere com'è finito lo scandalo alla puttanesca, domandare a Previti, condannato definitivamente a 6 anni con i suoi compari. Quanto alla Boccassini, che Feltri si augurava di non incontrare mai in ascensore, è diventata una santa. Riecco Feltri, ieri, prima pagina di Libero: «Senza tacere i meriti della magistratura (nelle persone della dottoressa Boccassini e del dottor Salvini) che, grazie al suo intervento, permette un brindisi al posto di qualche funerale». Farina, che dopo la sospensione dall'Ordine si firma «Dreyfus», turibola elogi alla «rete tesa da Ilda Boccassini (bravissima)» contro le Br. Bravissima? Strano. L'ultima volta che se n'era occupato, Farina l'aveva dipinta come una subornatrice di testimoni prezzolati (Stefania Ariosto), addirittura come una sadica sequestratrice di bambini strappati a una povera madre somala («II Dna salva una somala dalla Boccassini», «La guerra santa del pm contro una mamma somala e il suo bimbo», «La Procura che rapisce i bambini»).

Ora, i casi sono due: o Spataro, Boccassini e Salvini erano bravi anche prima, quando scoprivano le tangenti Fininvest, le trame nere e gli intrighi Cia-Sismi; o sono dei putribondi figuri anche oggi, essendo improbabile che abbiano imparato il mestiere l'altroieri. Nel qual caso, Feltri e Betulla dovrebbero aver la decenza di scusarsi (per Bellachioma il discorso è diverso: nemmeno una parola per ringraziare i pm che hanno sventato gli attentati. Ma lui, si sa, ha i riflessi un po' lenti: a 10 mesi di distanza non ha ancora ringraziato la polizia per la cattura dì Provenzano).

P.S. II blitz anti-Br è stato illustrato alla stampa da pm e forze dell'ordine in una conferenza stampa, e i verbali delle intercettazioni con i filmati dei pedinamenti, sono stati distribuiti a giornali e tv. Meno male che gli arrestati erano presunti terroristi e le vittime erano Bellachioma, Feltri e Farina. Se, putacaso, gli arrestati fossero stati politici o imprenditori, Bellachioma, Feltri e Farina starebbero strillando da due giorni contro i giudici che violano la privacy e il segreto istruttorio. Invece, al momento, non

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si segnalano proteste. Persino James Bondi, eccezionalmente, tace. Tutto è bene quel che finisce bene.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità 14 febbraio 2007

giovedì, 25 gennaio 2007 SILVIO, ADORATORI A CONFRONTO. UOMINI CONTRO

Diceva Indro Montanelli che lo conosceva bene: «Berlusconi non ha idee: ha interessi». Peccato che ci abbia lasciati nel 2001, altrimenti da domani a sabato potrebbe farsi una cultura al convegno di tre giorni promosso dall’Aldrovandi Palace di Roma dalla fondazione Liberal e tutto dedicato al pensiero e all’opera di Silvio Berlusconi. Come ognuno può capire, la parte più ardua sarà quella dedicata al pensiero: per rintracciarne qualche vestigio, sono da mesi all’opera squadre di speleologi, entomologi, carabinieri del Ris ed esperti di microtracce. Poi, se resterà tempo, si passerà alle opere II programma dell'Evento è stato anticipato ieri da "Libero", che ha anche pubblicato in esclusiva la relazione di uno degli oratori più attesi, l'ex-dc Sandro Fontana, che nella Prima Repubblica si firmava Bertoldo sul "Popolo" e nella Seconda è passato felicemente da Donat-Cattin alla spalla di Apicella. «Il berlusconismo diventa una scienza», annuncia il quotidiano diretto da Feltri e vicediretto da Betulla & Pompa. Ed eccoli, gli scienziati chini sull'oggetto dei loro studi. Ferdinando Adornato aprirà i lavori con una relazione dal titolo «Una nuova storia italiana», prosecuzione naturale della prima «Storia italiana», il fotoromanzo-distribuito nella campagna elettorale 2001 che fece schiattare d'invidia Kim II Sung. Seguiranno un'omelia di Gianni Budget Bozzo («L'invenzione del centrodestra») e una prolusione del vice-Pera Gaetano Quagliariello («La Prima Repubblica: continuità e discontinuità»). Qualche minuto di svago con Renato Brunetta per l'angolo «nani & ballerine», poi di nuovo discorsi seri con Belardinelli, il già citato Fontana e Malgieri. Ma il compito più improbo l'avrà Renato Cristin, che intratterrà i fedeli su «La Berlusconomics», l'originale dottrina economica berlusconiana che è riuscita nella difficile impresa di portare l'Italia alla crescita zero e Mediaset alla crescita mille. Da non perdere poi la relazione di Angelo Crespi, discepolo della scuola dellutriana, che si esibirà nell'ardito ossimoro «La tv, la democrazia». Paolo Guzzanti, purtroppo sprovvisto di Scaramella, concionerà su «L'attualità dell'anticomunismo»: poi, per i più scettici, parlerà Renzo Foa, che degli orrori del comunismo è la prova vivente insieme a Ferrara, Adomato e Bondi. Il quale Bondi sarà presente in sala, ma non è previsto che parli: pregherà nella cappella attigua consacrata al Divino Amore Arcoriano, che, come il suo più noto collega, si materializzerà il terzo giorno per chiudere il convegno a Lui dedicato. Sulle prime, secondo i bene informati, il Cavaliere aveva espresso qualche perplessità sull'iniziativa, che era parsa persino a lui un tantino eccessiva. Poi

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però ha deciso di lasciar fare: Nando, James e gli altri ci tenevano tanto. Sono ragazzi. Di Adornato si erano perse le tracce la sera del 20 aprile 2006, quando aveva dovuto lasciare il pur inutile incarico di presidente della commissione Cultura per sprofondare in un anonimato ancor più anonimo di prima. È costui, se non andiamo errati, lo stesso Adornato che stava nel Pci, poi nel Pds, poi in Alleanza democratica, che idolatrava il pool Mani Pulite con encomi davvero imbarazzanti, che nel '94 entrò in Parlamento grazie a un collegio blindato nella rossa Umbria e giurò: «Ci siamo presentati alle elezioni in un'alleanza, nei Progressisti. Restiamo nei Progressisti: abbiamo perso, quindi staremo all'opposizione. C'è un dovere per gli eletti sotto uno stesso simbolo, quello di adeguarsi a uno stesso comportamento parlamentare». Bossi, per lui, era «un guitto», ma il più pericoloso era il Cavaliere: «Nessun partito della Provvidenza, nessun'alleanza potrà fare miracoli. Anche se ci fosse Gesù Cristo non riuscirebbe a farli e Berlusconi, più che Gesù Cristo, mi sembra Lazzaro: il miracolato dal vecchio sistema dei partiti». Poi scrisse un libro molto pensoso, «Oltre la sinistra»: così oltre, ma così oltre, che si ritrovò in Forza Italia senza passare dal via. Ora è lui ad avviare il processo imbalsamazione di Bellachioma I, con una trovata che sarebbe parsa un filo esagerata anche a Saddam. Altri particolari sul convegno di studi, purtroppo, non ne filtrano. Ma già Isoradio segnala addensamenti del traffico in direzione Roma per via delle carovane di pullman e treni speciali carichi di imbalsamatori, restauratori, mummificatori, truccatori, tricologi, donatori piliferi, chirurghi plastici, visagisti, installatori di dentiere e bandane, stallieri, pregiudicati, liberi muratori, architetti da mausoleo, veline e meteorine, botanici del ramo cactus, servi sciocchi e soprattutto furbi, psichiatri e casi psichiatrici, mezzibusti con inginocchiatoio incorporato, senza dimenticare Fabrizio Cicchitto che discetterà sulle più moderne tecniche di incappucciamento e Renato Schifani che illustrerà il valore del riporto nel Terzo Millennio. Non risultano interventi degli on. avv. Ghedini e Pecorella, che pure avrebbero tanto da raccontare sulle migliaia di nuovi posti di lavoro creati dall'illustre cliente nelle questure e nei tribunali. Previsto invece un notevole spiegamento di forze dell'ordine, addette per metà alla protezione dei convegnisti e per metà alla protezione dai convegnisti. Pare che l'Evento sarà trasmesso in diretta dalla tv di Stato del Turkmenistan, dove un mese fa è prematuramente scomparso il dittatore pazzo Serdar Turkmenbashi, al secolo Saparmurat Nyiazov, celebre per aver inaugurato uno sfrenato culto della sua personalità, facendo sparire i giornalisti nemici, accumulando enormi fortune, schierando il paese contemporaneamente con Bush e con Putin, progettando laghi e foreste artificiali, trasformando il Parlamento in una dependance di casa sua, tenendo i giovani nella più crassa ignoranza, raccogliendo il suo pensiero in un agile libretto divenuto obbligatorio in tutte le scuole. Da quando, alla vigilia di Natale, il tiranno è prematuramente scomparso a 65 anni, il Turkmenistan cercava affannosamente un successore degno di lui. E stava quasi per rassegnarsi. Poi la notizia della tre giorni di Roma ha riacceso le speranze. 

ULIWOOD PARTY

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MARCO TRAVAGLIOl’Unità 24 gennaio 2007

GOLPETTO ALLA PUMMAROLA

Otto mesi dopo l'uscita di Bellachioma da Palazzo Chigi, abbiamo appreso che:1) il Sismi aveva un Ufficio Disinformatija affidato a Pio Pompa per calunniare, tramite giornalisti prezzolati o servi, i nemici di Bellachioma (Prodi e altri politici, ma anche giornalisti, magistrati);2) sulle ultime elezioni gravano pesanti sospetti di brogli;3) la commissione Mitrokhin, come già la Telekom-Serbia, fingeva di indagare sulle spie russe in Italia, mentre reclutava vecchi arnesi per sputtanare Prodi e altri leader dell'Unione. Se fossimo un paese serio, chi inorridiva a sentir parlare di «regime» si cospargerebbe il capo di cenere. E parlerebbe non più di regime, termine ormai eufemistico, ma di golpe. È pur vero che, in un paese serio, la vittima più illustre di quelle manovre eviterebbe di scrivere «caro Silvio». Del resto, in un paese serio, il golpe sarebbe stato affidato a personaggi più credibili. Invece passiamo dal «supertestimone» Igor Marini, finto conte, finto polacco, finto vicepresidente dello Ior, finto mediatore fra Mortadella e Milosevic e vero truffatore internazionale, al duo Pompa-Betulla (solo ai nostri servizi poteva venire in mente di reclutare Renato Farina per avere notizie), alla premiata ditta Guzzanti senior-Mario Scaramella. Visto che anche l'onomastica ha il suo ruolo, è bene precisare che quest'ultimo non è il fratello scemo di Gargamella, il mago cattivo dei puffi, ma il sagace consulente del senatore Guzzanti: uno che si spacciava per «giudice» e «responsabile delle operazioni di reimpiego spaziale delle infrastrutture missilistiche russe per la distruzione di massa», mentre di spaziale c'erano solo le balle che sparava: come quella sui siluri atomici made in Urss dispersi nelle acque di Napoli. Ora i due si sono cacciati in una faccenda più grande di loro e temono per la propria vita, dopo la morte radioattiva di Litvinenko. Anche le tragedie più luciferine, appena varcano il confine di Chiasso, si trasformano in farse. E così, mentre fra Mosca e Londra si combatte il post scriptum dalle guerra fredda, in Italia la situazione è grave ma non seria. E tutto si risolve all'italiana, con una combriccola di peracottari che giocano al piccolo spione sgraffignando migliaia di euri al contribuente, mettendo in piedi servizi paralleli dalle sigle altisonanti, trafficando con strane finanziarie di San Marino, affittando suites di grand hotel e lussuosi appartamenti vista mare, scorrazzando a bordo di Suv coi vetri fumèe tipo Fbi e riscrivendo con la penna intinta nella pummarola le sentenze sul caso Moro e la strage di Bologna.

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Fra le imprese di Scaramella si segnalano gli stringenti interrogatori cui sottoponeva, all'ombra del Vesuvio, due pensionati del Kgb, onde strappare loro tutta la verità sui legami fra spionaggio sovietico e Pecoraro Scanio. Per non parlare del vero mandante del sequestro Moro, cioè Prodi, e della quinta colonna di Putin in Italia, ovvero D'Alema. Intanto Putin se la spassava con l'amico Silvio e famiglia fra Villa Certosa e la dacia sul Mar Nero, ma su questo aspetto dei rapporti fra l'ex Kgb e la politica italiana l'acuto Scaramella e l'occhiuto Guzzanti apparivano piuttosto distratti. Ultimamente l'agente dei Puffi e il suo mèntore si erano messi in testa. di essere nel mirino dell'ex Kgb, come Anna Politkovskaja e Litvinenko. Potevano fare uno squillo all'amico, Silvio, perché facesse uno squillo all'amico Vladimir e salvasse loro la pelle. Invece no. Scaramella compilò una lista-frittomisto di bersagli di Putin: se stesso, Guzzanti, la giornalista e l'ex 007 morto a Londra. E la attribuì all'ex spione Limarev, che naturalmente non ne sapeva nulla. Resta da capire come abbiano potuto delle persone serie come gli ex agenti del Kgb farsi bidonare da una simile compagnia di giro. Litvinenko non se ne dava pace: sperava di smascherare, tramite la Mitrokhin, il potere criminale di Putin, invece gli chiedevano sempre di Prodi, Pecoraro Scanio e Diliberto. Alla fine, deluso, Scaramella lo liquidò con 600 euro brevi manu («manco fossi un pezzente»). «Un amico esule ceceno – raccontava il pover'uomo a Repubblica nel 2005 - mi prendeva in giro: "Com'è possibile che un ex colonnello del Kgb sia così fesso da farsi fregare dagli italiani?". Ancor oggi arrossisco». Poi, nell'aprile 2006, vide che mezza Italia continuava allegramente a farsi fregare da Bellachioma & his friends, senza neppure arrossire. E si rincuorò. 

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità 28 novembre 2006

Un “Uliwood party” arretrato, di fine novembre, per completare la collezione e una gustosa voce del personale dizionario di Travaglio, in parte letta nella puntata di giovedì scorso, quella con l’incontenibile Sandro Bondi, un uomo, un mito. “La piazza”: buona o cattiva a seconda della convenienza."Quando sento le cose dette in piazza dai sindacati, capisco come nascevano le purghe staliniane". (Silvio Berlusconi dopo la manifestazione sindacale contro la riforma delle pensioni annunciata dal suo primo governo, 23 novembre 1994).

"I 700 mila - perché non erano di più - della manifestazione dell'altro giorno non sapevano che i colpi di piazza sono contro la democrazia. Certo, c'era tanta gente che faceva una scampagnata per il semplice motivo che è stato loro offerto un viaggio gratis, la colazione gratis. Oppure sono venuti a Roma per

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visitare i musei la domenica pomeriggio". (Silvio Berlusconi, dopo la manifestazione di 3 milioni di lavoratori indetta dalla Cgil di Sergio Cofferati al Circo Massimo a Roma contro la riforma dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, 26 marzo 2002). "Che volete che vi dica? Giro giro tondo, casca il mondo, casca la terra... la sinistra è tutta giù per terra" (Silvio Berlusconi dopo la manifestazione dei Girotondi con oltre un milione di persone in piazza San Giovanni a Roma contro la legge Cirami, 14 settembre 2002). "Le manifestazioni dei lavoratori? Gente portata in piazza dall'Ulivo, pensionati cammellati che vengono pagati, arrivano col cestino del pranzo e non sanno nemmeno perché sono lì" (Silvio Berlusconi dopo la manifestazione sindacale contro la finanziaria del suo governo, Corriere della Sera, 10 dicembre 2004).

"La domenica dei bamba... Oggi, nove ottobre 2005, prima domenica dei bamba in diretta televisiva. Raitre alle ore undici manda in onda la manifestazione indetta dal popolo rossiccio, capitanata da Romano Prodi, contro l'universo berlusconiano. Al raduno dei reduci del fallito comunismo partecipano tutti ma proprio tutti: progressisti alla camomilla, conformisti senza fissa dimora, sindacati di varia estrazione, pacifisti d'attacco e da sbarco, preti d'assalto, democristiani impenitenti, verdi, socialisti protetti dal vuvueffe, cani sciolti, cani perduti e senza collare, qualche porco. A questo genere di adunanze siamo da lunga pezza abituati, quindi non ci stupiscono né ci irritano più di tanto; cortei e 'piazzate' con comizi d'ordinanza hanno accompagnato la attuale ed altre legislature. Ne ricordo due a titolo esemplificativo: uno sciopero generale verso la fine del 1994 (anzi, verso la fine dell'esordiente governo di centrodestra), e una processione di fatto filosaddamhussein alla vigilia della guerra in Iraq. Le manifestazioni contrassegnate da sventolio di bandiere rosse (cui recentemente si sono aggiunte quelle iridate) sono una specialità della sinistra, in particolar modo di quella italiana. La quale a tutto rinuncia tranne ai bagni di folla, retaggio del fascismo che, peraltro, non è figlio di mater ignota bensì di mater socialista. I compagni perdono le elezioni, perdono credibilità, perdono forza ma non il vizio di far casino. Oggi si danno appuntamento in massa a Roma per due motivi distantissimi l'uno dall'altro; non importa, tutto fa brodo e quel che conta per certa gente è imbrodarsi..." (Vittorio Feltri, direttore di Libero, a proposito della manifestazione dell'Ulivo contro la finanziaria del governo Berlusconi, 9 ottobre 2005). "Grande manifestazione a Roma del centrodestra. Più di due milioni in piazza contro Prodi e il governo delle tasse. Abbiamo vinto noi. Che goduria. Dieci, cento, mille spallate. Anzi, esageriamo, un milione di spallate. La democrazia è anche forza, organizzazione, vibrazioni dell'aria. La democrazia è fatta di simboli e di stati d'animo. Noi siamo quelli che vincono. E' chiaro. La piazza San Giovanni di Roma è stata un catino effervescente di brava gente. Una folla così può permettersi di dare una spallata, tutte le spallate che vuole... La manifestazione di ieri a Roma è stata la più grande e nuova dal 1945 a oggi. Che goduria. C'era l'idea di liberazione necessaria, e per liberarsi bisogna buttare giù il portone. E farlo tutti insieme. Ora questo partitone unico che ha invaso Roma di rabbia, orgoglio e allegria deve strutturarsi seriamente. Trasformarsi da movimento in una sola, vera, grande squadra. E non ce ne sarà per nessuno" (Vittorio Feltri, direttore di Libero, a proposito della

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manifestazione del Polo contro la legge finanziaria dell'Unione, 3 dicembre 2006).

mercoledì, 06 dicembre 2006 ENZO BIAGI IN TV. SUBITO!

Le vittime della censura non sono soltanto i personaggi che vengono imbavagliati per evitare che parlino. Sono anche, e soprattutto, milioni di cittadini che non possono più sentire la loro voce per evitare che sappiano. L’ultimo libro di Enzo Biagi, scritto insieme a Loris Mazzetti, parla soprattutto di e a questi cittadini. S’intitola Quello che non si doveva dire (Rizzoli, pp. 318, 18 euro). E racconta quello che, nei cinque anni di esilio bulgaro, il grande giornalista avrebbe raccontato alla sua gente se un dittatorello tracotante e una Rai servile non gliel’avessero impedito. La storia non si fa con i se. Ma quante volte, nel quinquennio orribile del regime berlusconiano, verso le 20.30 della sera, mentre spegnevamo di corsa la tv all’apparire dei Berti, dei Giannino, dei Mimun, ci siamo domandati cos’avrebbe detto Biagi se fosse stato ancora in onda Il fatto. Cioè se l’Italia fosse rimasta la democrazia che, con tutti i difetti, era stata per55 anni. «Sono incazzato», dice Biagi all’inizio de1 libro. Ed è una parola bellissima, «incazzato», in bocca a un tranquillo e biancheggiante signore di 86 anni. «Sono incazzato perché non posso più andare in giro con la mia troupe per raccontare quel che succede e incontrare i protagonisti dei nostri giorni. Così, in questi anni, non ho smesso in qualche modo di farlo. Ogni volta che. accadeva qualcosa, immaginavo che insieme a Loris avremmo costruito la nostra trasmissione: discutevamo, prendevamo appunti, facevamo la scaletta del programma, proprio come quando eravamo in corso Sempione. Anche perché, come due ingenui, per tutto questo tempo abbiamo pensato:. chissà, un giorno o l’altro l’esilio finirà». Non è ancora finito, nemmeno dopo l’ascesa di due ex comunisti alla presidenza della Rai, prima Lucia Annunziata, poi Claudio Petruccioli. Quest’ultimo, annota Biagi malinconico; «deve aver pensato che, se il mondo ha fatto a meno di Michelangelo e Leonardo, la Rai poteva fare a meno di Biagi. Io sarei stato disponibile anche da subito; ma non è successo niente. Sin dall’inizio ho avuto la consapevolezza che, anche con il centrosinistra al governo, io rimango fuori dai giochi». Cos’avrebbe fatto Enzo

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Biagi, se certi cose si potessero di nuovo dire? «Un viaggio in Italia», nella «cara porca Italia» di Giorgio Amendola. La versione stampata del Il fatto comincia con una puntata sulla Calabria, dal delitto Fortugno ai ragazzi di Locri, che non sono nati con quell’assassinio: Biagi ne aveva conosciuti alcuni qualche anno fa, sul posto, durante un reportage per il Corriere. Li ha risentiti, più cresciuti e maturi, al telefono dopo che il delitto politico li aveva trasformati nei Ragazzi di Locri con la R maiuscola. Avrebbe parlato di mafia e politica, come aveva fatto nella famosa intervista a Buscetta. Ma sa bene che non gliel’avrebbero lasciato fare, nella Rai dove Agostino Saccà. («una nostra vecchia conoscenza»). a maggio, bloccò la fiction su Giovanni Falcone invocando la par condicio elettorale: «Si parla anche di Paolo Borsellino, e sua sorella Rita è candidata in Sicilia». Sembrava brutto, visto che l’altro candidato era (ed è) imputato di mafia. Par condicio fra mafia e antimafia. Che cosa non avrebbe fatto invece, Biagi? La «televisione violenta e impudica» della telenovela di Cogne, dell’intervista di Bonolis a Donato Bilancia, dell’ospitata prezzolata di Scattone e Ferraro chez Vespa, perché «non sempre all’alto ascolto corrisponde l’alto gradimento». Biagi, che peraltro conduceva il programma più visto e più gradito della tv italiana (con medie vicine al 30 per cento), ricorda che dai dati Auditel resta fuori «il 50% della popolazione che non accende la televisione» e ci sarà pure un perché. Avrebbe parlato invece del revisionismo storico, celebrando nel 2005 il 60° anniversario della Liberazione, e nel 2006 quello della Costituzione, mentre la cosiddetta Casa delle libertà la faceva a pezzi con la controriforma della baita. Avrebbe fotografato l’ultima campagna elettorale, «quando politici come Berlusconi e Letizia Moratti, che si definiscono “liberali”, non esitavano a mettersi con neofascisti e neonazisti». Avrebbe ricordato che Tangentopoli è lo scandalo delle tangenti, non delle toghe rosse. Avrebbe denunciato l’uso, da parte dell’avvocato Taormina, di una commissione parlamentare per liquidare Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, assassinati in Somalia, come due turisti avventati. Avrebbe preteso verità e giustizia per Enzo Baldoni, l’altro giornalista italiano trucidato sul fronte iracheno e vilipeso da Renato Farina, in arte Betulla, come un «pirlacchione». Avrebbe chiamato «guerra» la guerra in Iraq, non «missione di pace», seguitando a mostrarne gli orrori e le stragi a un paese, l’Italia, «abituato alla morte, dove la notizia di un attentato non fa più effetto, è parte della quotidianità, come dire che ogni giorno sulle strade ci sono incidenti d’auto». Avrebbe raccontato di che lacrime e sangue grondi la Russia di Putin, l’«amico Vladimir» dell’«amico Silvio»: dai morti di Beslan allo sterminio di Cecenia. Avrebbe ricordato le stragi ancora impunite di casa nostra, e anche le poche punite come quella della sua Bologna, con i depistaggi della P2 del venerabile Licio e del premier tessera numero 1816. Avrebbe seguito giorno per giorno i processi a Berlusconi, Previti & C. e le leggi vergogna per mandarli in prescrizione. Sul Cavaliere, avrebbe proposto una biografia a puntate, «una specie di Beautiful, trovando persone, anche inaspettate, disposte a raccontare: non so se tornerò mai a fare la televisione, ma una cosa è certa: questa trasmissione non me la faranno fare mai». E avrebbe narrato gli altri scandali, da Bancopoli a Calciopoli, da Spiopoli a Vallettopoli, con le telefonate di Sua Bassezza V.E. di Savoia, ma anche dell’insetto di Porta a Porta che «usava la sua trasmissione per fare un “vestitino su misura” a un

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importante politico»: quel signore che da tempo immemorabile imperversa per quattro sere a settimana sulla rete «pubblica» che ha bandito, su commissione, Enzo Biagi. Insomma, se l’avessero fatto parlare, Biagi avrebbe smontato pezzo per pezzo il regime della disinformatija che quotidianamente andava costruendosi. Il libro, delicato ma tagliente com’è lo stile del vecchio Enzo, si apre con una confessione: «La televisione mi è mancata e mi manca tuttora». E si chiude con un amaro presagio: «Sono convinto che nessuno mi farà più fare Il Fatto. C’è un grande alibi, la mia età, ma non è che 86 anni vogliano per forza dire che uno è rincoglionito». Un programma intitolato Il Fatto, nella tv delle opinioni e delle risse, sarebbe quasi una bestemmia. E poi, dopo «quello che non si doveva dire», oggi c’è «quello che non si deve dire». Leggendo quel che avrebbe detto Biagi, si capisce fin troppo bene perché non gliel’hanno lasciato, e non glielo lasciano dire.  

MARCO TRAVAGLIOl’Unità 2 dicembre 2006 IL LIBRO. Enzo Biagi racconta di quali argomenti si sarebbe occupato nella sua trasmissione se non fosse stato “bandito” da Berlusconi.Tutte le puntate del «Fatto» che non abbiamo potuto vedere.

Il titolo del post è mio, questo sopra è l’originale. L’articolo che ha scritto Travaglio ne sottolinea la completezza di giornalista che, smessi i panni della satira pungente e dell’accuratezza nei documentati racconti, ha la piena capacità di rendere omaggio, usando toni giusti e appropriati, a uno degli ultimi grandi giornalisti viventi. In tal modo smentisce, ma non solo in tale circostanza, anche coloro che, superficialmente, lo liquidano come “giustizialista”.Il mancato ritorno in Rai di Enzo Biagi e di quelli “banditi” dal “bandito” per antonomasia, rappresenta un vulnus alla democrazia e alla libertà, quella vera e non quella contraffatta dagli abitanti della cosiddetta casa omonima. Pretendere il ripristino della trasmissione “Il Fatto” è un diritto dei cittadini normali (e incazzati come Biagi) di questo Paese alla rovescia.

martedì, 28 novembre 2006 SPIO POMPA

Tutto potevamo immaginare fuorché di dover un giorno manifestare la nostra sincera solidarietà a Filippo Facci, minacciato dal direttore di Libero Littorio Feltri per aver dedicato una pagina del Giornale alle avventure dell'agente Betulla, al secolo Renato Farina. Facci ha messo insieme uno strepitoso collage di intercettazioni e verbali di Farina Doppio Zero, l'uomo che per combattere meglio il terrorismo, nella sua personalissima «quarta guerra mondiale», spiava i magistrati e i giornalisti che indagavano sui terroristi. L'uomo che, interrogato a Milano sul suo doppio lavoro di giornalista e spione

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con rimborso a pie' di lista, s'inventò di aver mediato nel '99 tra Milosevic e il governo D'Alema. Poi si convinse che qualcuno volesse assassinarlo («non voglio paragonarmi a Falcone, però...») e fuggì dalla Serbia adducendo un certificato medico di sua zia. Chi lo avvertì nottetempo dell'imminente pericolo di vita? L'Arcangelo Gabriele? Nossignori: «Uno dei servizi, un infiltrato dei servizi serbi o uno dei servizi segreti del Pci» (il pm gli chiede il nome, ma lui: «Glielo dico in un orecchio». E il pm: «No, in un orecchio no», meglio a verbale). Poi, «con una mia esasperazione», annunciò: «Formigoni e Tettamanzi nel mirino del terrorismo». Una balla fra le tante, come quelle su Telekom Serbia, su Prodi che avalla il sequestro Abu Omar, cose così.Poi apprese, in esclusiva mondiale, l'esistenza di una Cia parallela da un tizio incontrato in hotel, tale «ammiraglio Capra» («ho controllato su Internet, l'ammiraglio Capra esiste»). Poi s'inventò un'altra missione per conto di Minniti e Manconi, ovviamente all'insaputa dei medesimi. Poi «mi innamorai di Pollari» e anche un po' di Pio Pompa, che «sembrava Renato Rascel». Poi spiegò che, in cambio dei servigi resi all'Occidente e alla Cristianità, lui non chiedeva nulla: s'accontentava della nomina a commendatore. Non arrivò. Invece arrivarono i soldi, 30 mila euro: per le spese («non volevo creare problemi rifiutandoli»), anzi no, per «le mie liberalità nei santuari». Così Betulla parlò di Betulla. Testualmente. Facci s'è limitato a riportare il tutto. Testualmente. Ma Littorio Feltri non ha gradito. E dopo averlo definito, nell'ordine, «giornalista piccolo piccolo», «scorretto», «omino» e «grande vigliacco», l'ha leggiadramente ammonito: «Chi tocca Farina sappia che deve fare i conti anche con me, prima o poi. Sul piano della iettatura avverto il dilettante del Giornale: ho la patente. Ne ho già stecchiti per molto meno».Testualmente. Dev'esser per questo che il Comune di Milano, fallito il tentativo di dare l'Ambrogino d'oro a Farina, l'ha assegnato a Feltri. Il quale però s'è spinto ben oltre, e con l'aria di tessere le lodi del suo multiforme vicedirettore, l'ha letteralmente devastato. «Grande giornalista», l'ha definito per cominciare. «Straordinario», anche. E «persona sensibile e scrupolosa», pure. «Generosa», senza dubbio. Però... Però Farina Doppio Zero è affetto da «una dose di avventatezza». È «imprudente». E «verboso», troppo verboso. Al telefono, diventa una via di mezzo tra Luciano Moggi e un call center: «II Nostro è affetto da sindrome di Meucci. Se vede un telefono, non si trattiene, lo abbranca e non lo molla più. Parla, parla. Parla con rutti e a rutti chiede affetto, comprensione, appoggio, conforto. Ignora il concetto di riservatezza». Il che, diciamolo, non è bello. «Non gli basta la solidarietà. Vorrebbe che lo si considerasse un salvatore della patria. Bravo Renato, eri culo e camicia con Pompa, ti spetta una medaglia l'oro. Hai contribuito a liberare la Sgrena, eccoti un attestato», il che, diciamolo, è un po' patologico. Di complimento in complemento, il diretùr arriva a dire che il suo ex vicediretùr «ha la mania, questa sì un po' idiota, di essere diverso da come è». Dopo avergli dato dell'idiota, del millantatore e del molestatore della quiete pubblica, completa il ritrattino affibbiandogli un altro «difetto orrendo: la ricerca del consenso, gli piacerebbe da matti essere applaudito anche da chi tenta di incatenarlo». E lo invita a «scendere dalla pianta, anzi dalla betulla». Come difesa, non è niente male. Ecco, tutto potevamo immaginare fuorché di dover

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un giorno manifestare la nostra sincera solidarietà all'agente Betulla per come l'ha difeso Littorio Feltri. A questo punto, piuttosto, uno chiede una mano all'avvocato Taormina. 

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità 22 novembre 2006

lunedì, 27 novembre 2006 SPECCHIO DELLE MIE BRAME

L'idea di combattere la mafia con Vito e Pomicino, condannati per corruzione, ha destato un certo scandalo nell'opinione pubblica. Ma non ha minimamente turbato il neopresidente della commissione Antimafia Francesco Forgione. Il quale anzi, in un'intervista al Corriere, difende l'illustre consesso così ben composto. E se la prende pure con i pochissimi che hanno osato sollevare obiezioni, tra i quali Nando Dalla Chiesa sull'«Unità», accusandoli di spargere «veleni» per «delegittimare l'istituzione» e tirando addirittura in ballo gli attacchi a Falcone e Borsellino. Chi ha conosciuto Forgione fino a 8 mesi fa, quando all'assemblea siciliana chiedeva le dimissioni del governatore Cuffaro «soltanto» indagato e poi «soltanto» rinviato a giudizio per favoreggiamento alla mafia, non può non ipotizzare un caso di omonimia, o di amnesia, o di possessione.1. «Nella scorsa legislatura -dice Forgione- Dalla Chiesa fu parte di un'Antimafia in cui tre membri avevano vicende giudiziarie in corso o già risolte, eppure non ricordo di aver sentito sollevare questo argomento». Ma intanto la precedente Antimafia non ospitava alcun pregiudicato: questa ne ha due. Dalla Chiesa era uno dei tanti membri della commissione, non il presidente. E, soprattutto, l'altra volta la maggioranza e la presidenza erano della Cdl: ora sono dell'Unione, i cui elettori forse si attendevano qualcosa di diverso sulla questione morale, o penale. O no?2. «Il Parlamento è lo specchio del Paese«. Una vecchia solfa che poteva reggere quando i parlamentari li eleggevano gli elettori. Stavolta - complice il "porcellum" di Calderoli, biecamente sfruttato anche dai partiti dell'Unione con le liste bloccate senza primarie sui candidati - i parlamentari li hanno nominati dieci segretari riuniti a Roma. Il problema non sono più gli elettori che votano condannati e inquisiti: sono i partiti che li candidano nei posti sicuri. Forgione sostiene che Rifondazione non l'ha fatto. Ma non è vero: a parte Francesco Caruso, c'è Daniele Farina, condannato per fabbricazione e porto abusivo di esplosivi, resistenza a pubblico ufficiale, lesioni gravi, nominato addirittura vicepresidente della commissione Giustizia. L'uomo giusto al posto giusto. E poi dove sta scritto che il Parlamento dev'essere lo specchio del paese, con i delegati delle categorie criminali? Siccome abbiamo molti

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spacciatori, rapinatori e pedofili, si prevederà una quota di rappresentanza anche per costoro?3. Forgione è angosciato dal «clima pericoloso che si respira in vari settori dell'informazione e dei cosiddetti movimenti, per cui destra e sinistra sono uguali, la politica è tutto scambio e inciucio». Giusto. Se però evitasse di giustificare chi manda in Antimafia pregiudicati per corruzione, aiuterebbe a smentire quelle orrende dicerie. Perché, se dice che «è sempre stato così anche in passato», qualcuno si domanderà che senso abbia andare a votare per un futuro migliore. Chi voleva conservare il passato il 9-10 aprile ha votato Berlusconi o è rimasto a casa.4. «Dopo che un candidato è stato eletto al Parlamento, non si possono mettere confini alla sua attività. Gli unici sono quelli posti dalla Costituzione». Oh bella: e allora perché Forgione chiedeva le dimissioni di Cuffaro, visto che nessuna legge o articolo della Costituzione impone agli inquisiti e agli imputati di dimettersi? «Per ragioni politiche», risponde. Perfetto: e allora perché le stesse ragioni politiche non valgono per Pomicino e Vito? Angela Napoli (An) e Orazio Licandro (Pdci) avevano proposto di escludere imputati e condannati dall'Antimafia: perché tutti gli altri, Forgione incluso, hanno votato contro? Qualcuno dirà: anche se glielo si chiede, Vito e Pomicino non si dimettono. Già. Ma, se non gradisce la compagnia, potrebbe sempre dimettersi il presidente. Non gliel'ha mica prescritto il medico, di presiedere «questa» Antimafia. Paolo Sylos Labini, quand'era consulente del ministero del Bilancio, si vide arrivare come sottosegretario Salvo Lima. Protestò subito: "O Lima o io". Andreotti rispose: «Lima non si tocca». E Sylos Labini se ne andò, su due piedi. Era il 1974. Altri tempi. Altri uomini. 

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità 24 novembre 2006 

giovedì, 16 novembre 2006 SENZA VERGOGNA

Oltre alle tante riforme inutili, di cui si parla in continuazione, ce ne sarebbe una utilissima, di cui non si parla mai: il ripristino della vergogna. Basterebbe reintrodurre nella società questo sentimento semplice ed elementare, per risparmiarci tanti spettacoli inverecondi. Se esistesse la vergogna, Adriano Galliani, condannato dalla giustizia sportiva per i traffici del Milan intorno ad arbitri e guardalinee, eviterebbe di paragonare a Beria il capo dell'ufficio indagini della Figc Borrelli, che si era permesso di eccepire sulla sua partecipazione, da squalificato, a una riunione di dirigenti del calcio.

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Se esistesse la vergogna, Luciano Moggi, l'uomo che è riuscito nell'impresa di trascinare in serie B la Juventus dopo 109 anni di storia, eviterebbe di pontificare su Antenna3 e su Libero (due giorni fa, dall'alto della sua esperienza, spiegava la filosofia del conflitto d'interessi a Guido Rossi). Se esistesse la vergogna, Silvia Toffanin - fidanzata di Piersilvio Berlusconi, dunque conduttrice di Verissimo - eviterebbe di attaccare le eccessive scollature delle veline di Buona Domenica, visto che nella sua precedente vita la Toffanin compariva in tv in qualità di «letterina», abbigliata (si fa per dire) con un paio di francobolli.

Se esistesse la vergogna, il ministro della Giustizia Clemente Mastella eviterebbe di festeggiare l'insediamento del nuovo procuratore generale di Catania Giovanni Tinebra portandosi dietro il collega di partito Nuccio Cusumano, che proprio a Catania è imputato per turbativa d'asta nello scandalo per gli appalti truccati dell'ospedale etneo. Se esistesse la vergogna, chi ha dato dei «coglioni» a milioni di elettori eviterebbe di eccepire sul «paese impazzito» descritto da Prodi. Se esistesse la vergogna, la Casa delle Libertà eviterebbe di alzare barricate sui tagli alla ricerca, dopo aver tagliato selvaggiamente per cinque anni i fondi alla ricerca, cacciando pure dall'Enea il premio Nobel Carlo Rubbia per sostituirlo con un elettricista leghista che si fingeva laureato. Se esistesse la vergogna, Sergio Segio e la Rizzoli avrebbero evitato di intitolare le memorie dell'ex terrorista rosso col civettuolo giochino di parole «Una vita in Prima Linea». Se esistesse la vergogna, la figlia di un uomo politico - fuggito in Tunisia per sottrarsi alla giustizia del paese che aveva sgovernato per vent'anni - eviterebbe di spiegare al capo dello Stato che gli anni di Mani Pulite «furono anni di violenza e prevaricazione, di prepotenze e soprusi, di decadenza politica e morale, di menzogne e di ingiustizie» (salvo - si capisce - che si riferisca ai delitti commessi da papà). Se esistesse la vergogna, il cosiddetto presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga eviterebbe di aizzare, su Libero, Berlusconi ad allestire «una piazza che faccia paura» e l'Udc a «portare in piazza la mafia» per «far tremare il governo con un fatto politico potente» (anche perché non c'è bisogno di invitare).Se esistesse la vergogna, Giovanni Consorte, appena condannato in primo grado per insider trading col degno socio Chicco Gnutti e indagato per 50 milioni di fondi neri col dioscuro Sacchetti, eviterebbe di fondare una merchant bank rossa. Se esistesse la vergogna, l'avvocato Taormina eviterebbe di chiedere il trasferimento del processo per il delitto di Cogne da Torino a Milano, visto che era stato lui a chiederne il trasloco da Aosta a Torino, ed era stato lui a chiedere l'arresto dei giudici di Milano.

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Se esistesse la vergogna, chi ha usato 80 milioni dell'8 per mille versato dai contribuenti per l'arte e la cultura, per finanziare una guerra criminale e incostituzionale, andrebbe a nascondersi per sempre. Se esistesse la vergogna, chi votò l'indulto eviterebbe di svelare sei mesi dopo di averlo fatto «con sofferenza», ma chiederebbe scusa agli elettori e alle vittime. Se esistesse la vergogna, i buontemponi che han redatto una petizione pro Renato Farina, alias agente Betulla al soldo del Sismi, non avrebbero raccolto nemmeno una firma, invece hanno avuto quelle di un ex capo dello Stato (il solito Cossiga), di due ex premier (Berlusconi e Andreotti), di due vescovi (Negri e Maggiolini) e di alcune preclare figure del Parlamento (come Gasparri, Buttiglione, James Bondi e la solita Stefania Craxi). Se esistesse la vergogna, non saremmo in Italia. Che, per gli ottimisti, è un paese impazzito. Per i realisti, è un paese finito.  

 ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIO l’Unità 14 novembre 2006

MONSIEUR DE POMPADOUR

A dieci anni dalla chiusura di Cuore, c’è ancora qualcuno che si domanda perché non ci sia più spazio, in Italia, per un giornale satirico. Ma, dico io, l’hanno mai letto Libero? Che cosa potrebbe inventarsi di più divertente un foglio di satira? Ieri, tanto per dirne una, il titolo a tutta prima pagina era il seguente: «Scusa, Moratti, ma sei scema?». Littorio Feltri ce l’aveva con la neosindaca di Milano perché, non contenta di voler imporre il pedaggio a chi entra in città con l’auto, ha addirittura «snobbato nelle visite ai morti quelli della Repubblica sociale di Salò». Il che, agli occhi di Feltri, è veramente intollerabile. Ora, che cos’è satira se non ribaltare la realtà per sottolinearla meglio? Feltri - anche se non lo sa - è satira pura. Ve l’immaginate il sindaco di Parigi che rende omaggio ai collaborazionisti filonazisti di Vichy, mettendoli alla pari del generale Charles De Gaulle? Ve lo vedete il sindaco di Madrid che piange sulla tomba del generalissimo Franco e dei suoi sgherri? Viene da ridere soltanto a pensarci. Invece, in Italia, la Moratti viene chiamata a discolparsi per aver ignorato i repubblichini che, oltre a sparare su suo padre partigiano, mandavano gli ebrei nei lager e sognavano per l’Italia un radioso futuro al passo dell’oca. E questa è solo la prima pagina di Libero.

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Avventurandosi oltre, ci si imbatte nella tradizionale rubrica di Carlo Taormina da Cogne, che è sempre un bel leggere. E, new entry dell’ultim’ora, in quella di Pietro Lunardi, strepitosamente intitolata «Alta Velocità». L’ex ministro Gruviera deplora i ritardi nelle grandi opere, «da addebitare solo all’ostruzionismo dei Verdi». E, se lo dice l’uomo che doveva raddoppiare la Grande Muraglia cinese e la piramide di Cheope, mentre in cinque anni non è riuscito a ultimare neppure un canile per chiuaua, c’è da crederci. Negli Spettacoli, un’intera pagina è dedicata allo straziante appello di Cristiano Malgioglio a Silvio Berlusconi: «Ti prego, riportami in tv». Il noto intellettuale con la cresta gialla ha addirittura composto una canzone, «Caro Silvio», con testi da pelle d’oca («Lei potente/ io un niente/ eroe di mamma mia solamente/ cosa fare/ dove andare/ per essere una star da sognare?»), endecasillabi sciolti («Caro Berlusconi/ vorrei una soluzione/ che sia quella finale/ che mi dia una svolta./ Caro Berlusconi/ se solo mi notasse/ sarei il più bel nome/ internazionale…») e rime baciate («Finti divi, spazzatura/ e io mi faccio suora/… Caro Berlusconi/ che popola i miei sogni/ mi spinga giù dal letto/ o dal parapetto./ Mi conceda un’occhiata/ di sfuggita, di traverso/ ma non gelata»). Nello Sport chiude in bellezza «Caro Luciano», nel senso di Moggi che risponde alle lettere dei fans bianconeri, sempre più grati all’uomo che, dopo oltre un secolo di storia, è riuscito nell’impresa di a mandare la Juventus in serie B. E tutto questo è niente, se si pensa che fino a un mese fa la prima pagina di Libero era impreziosita dagli scoop della joint venture Renato Farina-Pio Pompa. Poi purtroppo calò la mannaia dell’Ordine dei Giornalisti, che ha «punito» l’agente Betulla sospendendolo per 12 mesi dalla professione (solo quella di giornalista, non quella di spia, che può continuare in incognito). Ora la Procura generale di Milano ha impugnato la delibera, chiedendo la radiazione di Farina: in effetti,se prendere soldi dal Sismi, pubblicare bufale su ordinazione, spiare colleghi e pedinare magistrati è roba da semplice sospensione, che deve fare chi vuole a tutti i costi farsi espellere?Intanto, su proposta di due consiglieri forzisti, il Comune di Milano sta lavorando alla pena accessoria: insignire Farina dell’Ambrogino d’Oro, l’alta onorificenza riservata alle personalità che han fatto grande il nome della città. Due anni fa alcuni temerari proposero Francesco Saverio Borrelli, ma poi si scoprì che è incensurato e fu subito scartato. Farina Doppio Zero invece, come sottolinea lo stesso Feltri, è il candidato ideale. Resta da capire che ne direbbe, se potesse, sant’Ambrogio. Ecco, forse è meglio scherzare coi fanti e lasciar stare i santi. Cioè cambiar nome all’Ambrogino. Intitolandolo a Farina diventerebbe il Betullino d’Oro. Intitolandolo a Pollari, il Pollarino d’Oro. Ma, volendo essere filologici, bisognerebbe proprio intitolarlo a Pompa: così, per assegnarlo a Farina, non occorrerebbe neppure la motivazione. Più che un premio, sarebbe un diritto acquisito.

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MARCO TRAVAGLIO

l'Unità 4 novembre 2006

domenica, 29 ottobre 2006 POMPA O NON POMPA

Siamo «in mano a imbecilli», avverte l'autorevole Libero: «L'Islam ci vuole tutti morti e la sinistra scarcera i terroristi, fa italiani i clandestini, arresta chi ferma i kamikaze, smantella gli 007». Intanto il prestigioso Foglio dell'intelligentissimo Giuliano Ferrara informa che l'Italia è nuda e indifesa dinanzi al terrorismo a causa di «un'inchiesta della magistratura, propalata a mezzo stampa»: «l'Italia non è più considerata affidabile dai servizi internazionali anti-terrorismo», ed è ormai «abbandonata a se stessa». Insomma, se siamo esposti agli attentati di Al Qaeda, è, colpa di Prodi e della Procura di Milano, nonché dei giornali che informano, sul caso Sismi. Senza di loro, il Sismi sarebbe ancora il nonplusultra dell'intelligence. Invece è completamente sputtanato. La tesi è interessante, oltreché intelligente. Se non fosse per alcuni minuscoli dettagli che è il caso di riassumere.1) II Sismi pagava riscatti ai terroristi per liberare gli ostaggi italiani in Iraq, tant'è che quando gli americani se ne sono accorti hanno eliminato un agente del Sismi, il povero Calipari.2) II Sismi girò agli americani un dossier sull'uranio che Saddam avrebbe acquistato in Niger, poi rivelatesi una bufala.3) Mentre la Digos e la Procura di Milano tenevano d'occhio l'imam Abu Omar per scoprire eventuali legami col terrorismo, il Sismi aiutò la Cia a sequestrarlo e deportarlo in Egitto, dove fu torturato per 7 mesi di seguito senza cavare un ragno dal buco e rovinando definitivamente l’indagine antiterrorismo.4) Dalle indagini risulta che la Cia in Medio Oriente informò due anni fa il Sismi che l'Italia non correva pericoli, perché Al Qaeda nel nostro paese non disponeva di cellule capaci di offendere. Ma il Sismi continuò a propalare falsi allarmi su falsi progetti di attentato (chi non ricorda l'attacco al Vaticano e quelli ai metrò di Roma e Milano, sussurrati da Berlusconi a Renato Farina di Libero, in arte Betulla?), disinformando l’opinione pubblica e seminandovi paure ingiustificate. 5) II Sismi, tramite l'addetto alla disinformatjia Pio Pompa, spiava pm e giornalisti sgraditi, preparava dossier farlocchi (persino contro Prodi e il capo della Polizia De Gennaro), distribuiva ai giornali veline e lettere anonime con notizie false. Ancora l'8 giugno 2006 il Pompa telefonava a giornali e tv per convincerli che l'arresto di Al Zarqawi in Iraq da parte degli americani era tutto merito del Sismi: «L'hanno beccato sulla base di un video che ho trovato io!». La Cia smentì subito la maxiballa, pregando il Sismi di piantarla, ma Pompa continuò a raccontare ai cronisti amici che «sono risaliti ad Al Zarqawi proprio attraverso il nostro video!». Per la verità, i nostri sagaci 007 faticavano addirittura a distinguere fra Al Zarqawi e Al Zawahiri. Il 29 aprile il

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superagente Marco Mancini chiamava Pompa: «Pio, ho sentito per radio che c’è il nuovo video di Al Zarqawi?». Pio: «No, di Al Zawahiri». Marco: «Ah, è Al Zawahiri, non Al Zarqawi?». In fondo cominciano tutti e due con Al e con la Zeta,e poi questi arabi sono tutti uguali. Pare uno sketch dei fratelli De Rege, è la nostra intelligence al lavoro. 6) Pio invia Betulla, ovvero l'agente Farina Doppio Zero, in missione per conto di Dio: deve spiare i magistrati che indagano sul Sismi, fingendo di intervistarli. I magistrati, che intercettano tutto, lo aspettano al varco e gli vendono un po' di fumo. Poi gli chiedono perché sia tanto interessato al ruolo di Pollari nel sequestro Abu Omar. Il vice-Feltri se ne esce con questa scusa: «Io sono cattolico, Pollari è cattolico, mi spiacerebbe se un cattolico facesse cose brutte». Manca poco che i pm finiscano sotto il tavolo per le risate. Appena uscito dal palagiustizia, Betulla fa subito rapporto: «Un'ora di confronto durissimo, ma alla fine li ho messi nell'angolo e ho avuto quel che cercavo». Balle, ancora balle. Poi Farina parte per la Germania, in missione sulle tracce di Italia-Ghana. Solo che non trova i biglietti. Chiede aiuto a Pompa, che glieli trova. Betulla lo ringrazia su Libero, ovviamente in codice: «Come procurarsi i biglietti, pagando s'intende? Ho usato amici che la sanno lunga. Fatta!. Grazie a Pio e a Dio». Ora purtroppo le toghe islamiche hanno delegittimato agli occhi del mondo questi impavidi servitori dello Stato e difensori dell' Occidente, Ma i cittadini onesti conoscono la verità, come pure il governo, l'opposizione e il Copaco, che ogni giorno assicurano al Sismi «piena fiducia». Siamo in buone mani.

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MARCO TRAVAGLIO

l’Unità 12 agosto 2006

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MARIO BORGHEZIO

SILVIO, FACCI SOGNARE

E se avesse ragione Daniele Luttazzi? Sostiene, quel bandito criminoso, che quella che sta montando nel Paese non è "antipolitica". È invece una gran voglia di politica, quella vera. L’antipolitica è lo spettacolo che ogni giorno ci squadernano i cosiddetti politici. A sinistra ci sono politici che si occupano di banche, seminando sconcerto fra gli elettori che li avevano eletti per occuparsi di politica. A destra c’è un presunto politico che si occupa anche lui di banche, ma nessuno lo dice perché, intanto, lui si occupa pure di giornali, di televisioni, di radio, di portali internet, di assicurazioni, di Telecom, di Endemol, di cinema, di calcio, di lifting, di trapianti e, alla sua età, anche di ragazze. Poi ci sono suoi alleati indagati per aver preso soldi dalle banche medesime, ma nessuno ne parla perché lui, appunto, si occupa di tv e di giornali. Poi c’è il capo dello Stato che, solitario, parla di politica. Per esempio, sollecita la riforma della giustizia che dovrebbe cancellare la controriforma Castelli sulla separazione delle carriere. Ma inevitabilmente, visto che si occupa di politica, Napolitano viene accusato di «invasione di campo»: infatti nessuno sa più che cosa sia il «campo». Come sia fatto, quanto misuri, quali ne siano i confini. A furia di ripetere lo slogan del «primato della politica», i politici hanno perduto il senso dell’orientamento. Non hanno più la minima idea di che cosa sia, la politica. Infatti si occupano di tutto, fuorché di quella. Sulla mattanza messicana del G8 di Genova, per esempio, silenzio di tomba. In compenso, nei prossimi giorni, il capo dello Stato riceverà la visita del cavalier Bellachioma, che però non ha ancora deciso che cosa dirgli. Nell’attesa, ha preso appuntamento, come si fa alla mutua. Tre giorni fa pareva intenzionato a chiedere nuove elezioni, col decisivo argomento che ha vinto le elezioni a Parma e a Palermo. Poi gli hanno spiegato che lui, quando governava, ha perso tutte le elezioni possibili, dalle circoscrizionali alle comunali, dalle provinciali alle regionali, dalle europee a quelle per il rinnovo delle comunità montane, ma nessuno si è mai sognato di sciogliere le Camere. Allora ha deciso di chiedere un governo istituzionale. Ma l’hanno guardato strano, allora ha cambiato idea e ha optato per un governo di larghe intese. Ma nemmeno questo ha suscitato entusiasmi. E lui ha pensato bene di lanciare una bella protesta fiscale: nel senso che continuerà ad accumulare fondi neri nei paradisi fiscali, come fa da una trentina d’anni, ma

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consentirà di farlo anche a qualcun altro. Poi i suoi onorevoli avvocati gli hanno fatto notare che, essendo lui imputato di frode fiscale, appropriazione indebita, falso in bilancio e corruzione del testimone Mills, la cosa sarebbe apparsa come una piena confessione e l’hanno vivamente sconsigliato. Allora è tornato a chiedere lo scioglimento delle Camere: qualcuno, con calma e tatto, gli ha spiegato che, prima di scioglierle, deve cadere il governo e la maggioranza. Allora lui ha dichiarato che il capo dello Stato effettivamente non può sciogliere le Camere, ma glielo chiederà lo stesso perché ormai ha preso appuntamento e che figura fa se non va più. Ha anche pensato di parlare a Napolitano delle sue prossime vacanze, ma non ha ancora deciso in quale villa andare, e ha lasciato perdere. Magari, ha detto tra sé e sé, vado dal capo dello Stato e gli leggo una poesia di James Bondi, l’inno alla bellezza di Michela Brambilla, che vende il pesce surgelato e i mangimi per gatti e che diventerà la leader del Partito delle Libertà, del Giornale delle Libertà e della Tv delle Libertà. Ma dallo staff del Quirinale si son detti poco interessati. Girava anche l’idea di portare sul Colle qualche amico leghista armato della Padania col titolo «Fuori dalle balle» e di occupare simpaticamente l’ufficio del Presidente della Repubblica, ma è parso eccessivo persino a Borghezio. Qualcosa da dire si troverà, prima o poi. Alla peggio, Bellachioma lascerà in garage la Berlusmobile, si darà malato e si farà portare da un’ambulanza, magari quella che il confratello Gustavo Selva usa come taxi. Passerà inosservato, farà un giro nei giardini del Quirinale, o in infermeria, poi tornerà a casa contento con la camicia di forza.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIO l’Unità (15 Giugno 2007)“Nei giorni in cui si pagano Ici, Iva e Irpef, qualcuno, l'Agenzia delle Entrate, ci fa sapere che nel 2004, ma molto probabilmente anche negli anni successivi, sono stati evasi al fisco 270 miliardi di euro, quasi il venti per cento del prodotto interno lordo. Una delle conseguenze e' che i contribuenti onesti pagano il dieci per cento in piu'. 270 miliardi sono una cifra, e' quasi banale osservarlo, colossale, pari a oltre 500 mila miliardi di vecchie lire, altro che tesoruccio, equivalente all'incirca, miliardo in piu' miliardo in meno, a otto pesanti finanziarie.Pensate, se tutti i cittadini fossero stati onesti - ovviamente e' soltanto un'ipotesi astratta - per otto anni avremmo evitato il supplizio del varo delle manovre con il corollario delle polemiche tra i partiti. E invece no, la dura realta' spinge perfino Montezemolo ad ammonire: e' una vergogna che soltanto lo 0,8 degli italiani denunci un reddito superiore ai centomila euro. Tutto questo, ripetiamo, proprio nei giorni in cui i contribuenti onesti pagano le tasse mentre altri si fanno furbi. Concludiamo con una provocazione: alla fine perfino i contribuenti onesti si convinceranno, ascoltando queste cifre, che in Italia sia piu' conveniente evadere. Purtroppo”. Copertina TG La7 (14 giugno 2007)

venerdì, 25 agosto 2006 LA TORTURA LIBERALEEdito nuovamente il pezzo di Travaglio del 15 agosto, perché il suo inserimento nell’estemporanea rassegna stampa non lo evidenzia a sufficienza.

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E così, ridendo a scherzando, siamo arrivati all'elogio della tortura e del sequestro di persona (purché, si capisce, i destinatari siano islamici) sulla prima pagina del Corriere della Sera. Il merito va tutto al professor Angelo Panebianco, il quale sostiene che la lotta al terrorismo non è roba da signorine e quindi bisogna piantarla con «l'apologia della legalità» delle mammolette convinte che «cose come la legalità, i diritti umani e lo stato di diritto debbano sempre avere la precedenza su tutto». Basta con il «feticcio» dello stato di diritto: «dalla guerra non ci si può difendere con mezzi legali ordinari». Dunque bisogna legalizzare quella «zona grigia a cavallo tra legalità e illegalità, ove gli operatori della sicurezza possano agire per sventare le minacce più gravi»: un «nuovo compromesso tra stato di diritto e sicurezza nazionale» che nasca dal «confronto tra politici, magistrati, avvocati e operatori della sicurezza». Solo così salveremo «lo Stato di diritto e la stessa democrazia».

Che razza di democrazia e di stato di diritto siano quelli che, per salvarsi, rinunciano ai loro fondamenti per adottare quelli del nemico che dicono di combattere, e che senso abbia cancellare la democrazia e lo stato di diritto per difenderli meglio, non è ben chiaro. Ma il professor Panebianco va capito. Da anni è afflitto da due gravi problemi esistenziali. Primo (più noto come «sindrome da Ostellino»): quando si parla di liberalismo, in Italia, tutti pensano a Einaudi, a Montanelli, a Sartori. Mai a Panebianco. C'è una sola persona convinta che Panebianco sia un liberale: Panebianco. Egli infatti ripete ogni tre per due di essere un liberale: per convincere gli altri,e fors'anche se stesso. Secondo: nel disperato tentativo di farsi notare da qualcuno, Panebianco è costretto a spararle sempre più grosse, anche a costo di abrogare la logica, il principio di non contraddizione, la decenza e il senso del ridicolo. Nel paese che ospita già Feltri, Borghezio e Calderoli, non è impresa da poco. Ma l'altro giorno Panebianco ha surclassato agilmente l'intera concorrenza, inneggiando alla tortura e alla deportazione, e riuscendo anche a evocare -a suffragio dei suoi delirii- imprecisati «liberali di antica data» (ma senza nominarli, forse per evitare querele dagli eredi).

Si potrebbe ricordare che il professor Panebianco è lo stesso che, appena un giudice intercetta o inquisisce o arresta o rinvia a giudizio un ladrone di Stato con tutte le prove e i crismi di legge, vien colto da convulsioni, strilla al giustizialismo e invoca Amnesty International. Ma la contraddizione è solo apparente: per i garantisti a targhe alterne, le garanzie valgono solo per i signori, non per i baluba islamici. I signori sono innocenti anche dopo condanna definitiva. I baluba sono colpevoli anche senza essere indagati, per definizione. Torturateli e deportateli pure.

Ora, per quanto sia difficile, proviamo a prendere sul serio il Panebianco: è la peggior punizione che gli si possa infliggere. E immaginiamo i dettagli del «compromesso fra sicurezza e legalità» da lui auspicato per consentire anche alle democrazie occidentali di torturare e deportare i nemici o presunti tali.

1) Se tua figlia ti porta a casa un fidanzato marocchino, o peggio ancora nero, è la prova che i due preparano un attentato. Dunque fai come i pakistani di Brescia: ammazzala e sotterrala nell'orto. Poi, visto che non sei razzista, fai lo stesso con lui. Basta con questo tabù della pena di morte: anzi, privatizziamola.

2) Se il tuo vicino di casa cucina il cuscus o - Dio non voglia - il kebab, leggigli la posta e infìltrati in casa sua travestito da colf, oppure avverti subito il Sismi e l'agente Farina Doppio Zero, per poterlo spiare, intercettare e pedinare. Non si sa mai. Dal cuscus al plastico, si sa, il passo è breve.

3) Se incontri un tizio con una faccia che non ti piace, massacralo di botte. Tu non sai perché, ma lui potrebbe saperlo. Chi ti dice che non stia per saltarti addosso col gilet imbottito di tritolo? È la guerra preventiva. Se quello obietta, spiegagli che stai percorrendo «la zona grigia a cavallo tra legalità e illegalità».

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4) Se, una volta menato a sangue, quello non confessa la sua appartenenza ad Al Qaeda, strappagli le unghie dei piedi. E, se insiste nel suo silenzio, procedi con quelle delle mani, poi con gli elettrodi ai testicoli. È vero che potrebbe tacere perché non ha niente da dire, o magari è muto, ma non lasciarti ricattare da questi feticci buonisti: al suo paese le mani, i piedi e i testicoli li tagliano direttamente. Dunque è già fortunato a trovarsi in Italia.

5) Mentre lui rantola agonizzante, spiegagli che stai difendendo dal terrorismo la democrazia liberale e lo stato di diritto. E se lui obietta che ti comporti come i terroristi, spiegagli che c'è una bella differenza: tu torturi col permesso del professor Panebianco, i terroristi invece senza.

6) Se, dopo il gatto a nove code, il bagno nelle ortiche, l'impalamento, il tubo che collega il suo esofago e lo scarico della vasca da bagno e i due giorni passati a penzolare da un albero a testa in giù cosparso di miele, ti venisse la tentazione di fiaccare la sua resistenza leggendogli un editoriale del professor Panebianco, quello è il momento di fermarti: nemmeno la lotta al terrorismo può giustificare una forma così efferata di sevizie.

 

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MARCO TRAVAGLIO “l'Unità” 15 agosto 2006

giovedì, 24 agosto 2006 SPECIALE: LA TORTURA DI ANGELO PANEBIANCO

Nella foto: il primo a sinistra

Angelo Panegrigio

È finita ingloriosamente la campagna d'estate del professor Angelo Panebianco a sostegno di una «zona grigia» e soprattutto franca per i servizi segreti dell'Occidente, onde consentire loro di sequestrare o torturare i sospetti nella lotta al terrorismo che lui chiama «jahadista» (e che invece, semmai, è «jihadista»). Nessuno, a parte uno svogliato Platinette Barbuto sul "Foglio", l'ha ripresa. In compenso, sullo stesso "Corriere della sera" che l'aveva ospitata, Claudio Magris l'ha letteralmente polverizzata. In casi simili, sarebbero subito corsi al salvamento Galli della Loggia e Ostellino. Stavolta, invece, niente. Silenzio financo da Feltri e Borghezio, che devono averla trovata un po' eccessiva. Così, rimasto solo al mondo, il professor Panebianco ha dovuto precipitosamente rinculare.

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Ha fatto come i bambini: ha detto che lui scherzava. Non diceva sul serio. La sparava un po' grossa per provocare la discussione, ecco tutto: «II mio vero argomento non riguardava la liceità o meno della tortura per sventare stragi. Era solo un'ipotesi di scuola per fare scandalo». In futuro, il Corriere della sera pubblicherà in neretto le frasi che quel mattacchione del professor Panebianco scrive per burla, onde aiutare i lettori a distinguerle da quelle scritte sul serio.Va anche riconosciuto che il professor Panebianco è molto sfortunato. Proprio mentre lamentava che l'Italia, unica fra le democrazie occidentali, dà retta ai «neofiti della legalità» su quel «feticcio» che sarebbe lo Stato di diritto (inventato da Bin Laden per scannarci meglio), la Corte suprema americana ha condannato le intercettazioni indiscriminate disposte da Bush in funzione anti-terrorismo. È la stessa Corte che ha appena dichiarato illegali i metodi di Guantanamo.Figurarsi le risate dei supremi giudici Usa se sapessero dell'ultima «provocazione» del professor Panebianco sulla tortura buona e la zona grigia. Ma, si sa, questi americani han la vocazione a farsi del male. Masochismo puro. Allora prendiamo Israele, l'unica democrazia al mondo a essere in guerra (convenzionale e non) fin dal giorno della sua nascita. Sarà ammessa, almeno lì, una zona grigia a base di torture e sequestri di persona a fin di bene? Niente da fare. Sarà senz'altro una toga rossa come i colleghi americani, ma sentite che cosa dice il presidente della Corte Suprema di Israele, Aharon Barak, nella «lectio doctoralis» tenuta nel 2002 all'Università di Tor Vergata: «La lotta al terrorismo non può esser condotta al di fuori della Legge, e deve necessariamente avvenire nel rispetto della Legge... È così che ci distinguiamo da coloro che consideriamo terroristi. La lotta al terrorismo è la guerra di una nazione che osserva la Legge e dei cittadini che la rispettano contro chi la infrange. Non è semplicemente una guerra dello Stato contro i suoi nemici; è anche una guerradella Legge contro i suoi nemici... Molti dicono che i tribunali non dovrebbero occuparsi di controllare la legalità degli interventi antiterrorismo. Ma è inaccettabile: il controllo giuridico rispetto alla legalità della lotta al terrorismo può rendere più difficile tale lotta nel breve termine. Tuttavia fortifica e rende più solido il popolo nel lungo termine. Lo Stato di diritto è un elemento centrale della sicurezza nazionale. In ultima analisi, non indebolisce la democrazia, ma la rende più forte. E giova alla lotta al terrorismo... Il ruolo dei tribunali è quello di garantire la costituzionalità e la legalità della lotta al terrorismo». Questo Barak, giudice costituzionale d'Israele da 27 anni, sarà per caso un amico di Bin Laden o un «neofita della legalità»? Parrebbe di no. Eppure lo stesso Barak, parlando nel 2003 alla Brandeis University americana, aggiunse: «I detti romani per cui "in guerra le leggi tacciono" e "quando parlano le armi le Muse tacciono" sono sbagliati. Ogni guerra - al terrorismo o a qualsiasi altro nemico - viene condotta in base a regole e leggi. Lo Stato deve sempre agire in base a una legge. Non ci sono buchi neri. E la legge ha bisogno delle Muse, in modo ancor più urgente quando sono le armi a parlare. Abbiamo bisogno delle leggi e dei diritti umani soprattutto in tempi di guerra. Quando una democrazia combatte contro il terrore, non tutti i metodi impiegati dai suoi nemici le sono consentiti. Talvolta una democrazia deve combattere con una mano legata

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dietro la schiena... Così negli Usa dopo l'11 settembre e così nel mio Israele, da molto tempo bersaglio del terrorismo».Concetti analoghi esprimeva un intellettuale italiano qualche anno fa: «Uno Stato è garantista quando non usa alcuna forma di tortura». E ancora: «Se sceglie di abbandonare, almeno in parte, i princìpi della società aperta, diventando più chiuso e autoritario, l'Occidente può accrescere la sua sicurezza, ma corre il rischio di regalare ai nuovi barbari la vittoria su un altro terreno: accettando di diventare un po' come loro, perdendo quella superiorità morale che, pur con i suoi mille difetti, possiede in quanto terra delle libertà, rispetto a ogni altro sistema socio-politico esistente, per non parlare delle spaventose utopie totalitarie che i nuovi barbari propongono». Un «neofita della legalità»? No, Angelo Panebianco, Corriere della Sera, addì 30 agosto 1999 e 18 settembre 2001. ULIWOOD PARTY

MARCO TRAVAGLIO “l’Unità”19 agosto 2006

Grazie al prezioso lavoro, non solo nella circostanza, di harmonia (una delle blogger di eccellenza e un'amica da me molto stimata) ho la possibilità di inserire un' esauriente rassegna stampa sull’argomento.

Sicurezza e fondamentalisti della legalità

Il compromesso necessario

di Angelo Panebianco

Corriere della Sera 13 agosto 2006

Facciamo un'ipotesi, di fantasia ma non proprio del tutto implausibile. Immaginiamo che tra qualche mese venga fuori che l'Apocalisse dei cieli, il grande attentato destinato a oscurare persino gli attacchi dell'undici settembre, con migliaia e migliaia di vittime innocenti, sia stato sventato solo grazie alla confessione, estorta dai servizi segreti anglo-americani tramite tortura, di un jahadista coinvolto nel complotto, magari anche arrestato (sequestrato) illegalmente. Chi se la sentirebbe in Occidente di condannare quei torturatori? La risposta è: un gran numero di persone. In Italia più che altrove.

La cosa interessante è che a emettere sentenze di condanna senza nemmeno riconoscere l'esistenza di un «dilemma etico» nella vicenda in questione non ci sarebbero solo quelli che Giuliano Ferrara sul Foglio ha definito gli appartenenti al «nemico interno» (il quale esiste, eccome), alleato di fatto del terrorismo jahadista. No, fra coloro che condannerebbero i torturatori senza dubbi né tentennamenti ci sarebbero anche tante brave persone in buona fede che hanno orrore del terrorismo ma che credono che cose come la legalità, i diritti umani e quello che chiamano (in genere, senza sapere bene cosa sia) lo «stato di diritto» debbano sempre avere la precedenza su tutto: anche sulla salvezza di migliaia di vite umane.

Come si spiega che in Italia più che altrove sia venuta totalmente meno l'idea (che però resiste in altri Paesi occidentali, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, alla Francia) che la convivenza democratica possa poggiare solo su un compromesso, precario quanto si vuole, ma pur sempre un compromesso, fra stato di diritto e sicurezza nazionale? La spiegazione deve mettere in gioco vari elementi.

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- C'è in primo luogo il lunghissimo periodo di pace che abbiamo alle spalle. Quella fortunata età dell'oro che è stata la lunga pace post '45 ha reso un gran numero di persone, soprattutto quelle nate dopo la Seconda guerra mondiale, incapace persino di mettere a fuoco l'idea di «nemico», il nemico vero, assoluto, quello che ti ucciderà se non riuscirai a neutralizzarlo. Per queste persone, la guerra è un fenomeno letteralmente incomprensibile. Ciò le rende disponibili a credere che la guerra dichiarata all'Occidente dal terrorismo jahadista possa essere affrontata con gli stessi strumenti con cui ci si difende dai ladri di polli o dai rapinatori di banche.

- La seconda ragione ha a che fare con la vicenda italiana recente. La caduta dell'Urss e la successiva vicenda di Mani pulite determinarono in molte persone, all'inizio degli anni 90, una singolare metamorfosi: esse passarono, senza soluzione di continuità, dagli ammiccamenti per la Rivoluzione (fra tutti gli eventi, il più «illegale» che si possa immaginare) alla apologia della «legalità». Da bravi neofiti costoro hanno trasformato lo «stato di diritto» in una specie di feticcio davanti a cui ci si dovrebbe solo inchinare acriticamente.

Nessuno ha spiegato loro che lo stato di diritto è solo uno strumento, altamente imperfetto, che serve a regolare i rapporti entro la comunità democratica in condizioni di normalità. Uno strumento che fallisce quando scatta l'emergenza, quando qualcuno ti dichiara guerra. Sono questi neofiti che, se uno osa dire che dalla guerra, anche quella asimmetrica, non ci si può difendere con mezzi legali ordinari, gli spiegano subito con sussiego che se la democrazia non rispetta rigorosamente la «legalità» diventa come i terroristi la vogliono. Dimenticando che i principi vanno sempre adattati alle situazioni e che servono solo se si resta vivi.

A differenza dei neofiti della legalità, i liberali di antica data hanno sempre saputo che lo stato di diritto deve convivere, se si vuole sopravvivere, con le esigenze della sicurezza nazionale. Il che significa che si deve accettare per forza un compromesso, riconoscere che, quando è in gioco la sopravvivenza della comunità (a cominciare dalla vita dei suoi membri), deve essere ammessa l'esistenza di una «zona grigia», a cavallo tra legalità e illegalità, dove gli operatori della sicurezza possano agire per sventare le minacce più gravi.

I neofiti della legalità non lo capiranno mai ma questo compromesso è anche l'unica cosa che, in condizioni di emergenza, possa salvare lo stato di diritto e la stessa democrazia. Perché quando arrivano le bombe, quando le strade si tingono di sangue, o ci affida a quel tacito compromesso oppure si deve scontare l'inevitabile reazione che porterà, prima o poi, dritto filato verso soluzioni autoritarie.

Le democrazie più salde e consolidate ne sono consapevoli e per questo difendono quel compromesso. Il rischio è che una malintesa, fondamentalista, visione della legalità ci porti ad abbassare drammaticamente le difese, per esempio a isolare i nostri addetti alla sicurezza dal resto dei servizi segreti occidentali, perdendo così l'input più prezioso nella guerra simmetrica contro il terrorismo: le informazioni.

Una classe dirigente degna di questo nome non può fare finta di nulla.

È assolutamente necessario, come dimostrano anche i contraccolpi dell'inchiesta giudiziaria sul sequestro di Abu Omar, che un confronto tra politica, operatori del diritto (magistrati, avvocati) e operatori della sicurezza abbia luogo. Per ricostituire quel compromesso tra stato di diritto e sicurezza nazionale che in Italia, proprio in uno dei momenti più cupi e pericolosi della storia recente dell'Occidente, è venuto meno. È un'esigenza vitale. Letteralmente.

Il Peso dei Principi

di Claudio Magris

In un suo articolo pubblicato sul Corriere di ieri, Angelo Panebianco, sostenendo la liceità e l' opportunità di ricorrere alla tortura di prigionieri quando ciò giovi a sventare stragi e a salvare vite umane e contestando eventuali obiezioni in nome dei princìpi dello Stato di diritto, scrive che «i princìpi servono solo se si resta vivi».

Indubbiamente non è trascurabile salvare la pelle, propria e altrui, e non è il caso di professare esaltati culti eroici, purissimi ideali indifferenti alle sorti umane e magari inclini alla gloria del monumento funebre.

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Tuttavia, talvolta accade di restare vivi perché qualcuno, in nome di quei princìpi, muore per difendere chi è minacciato. Anche in questo caso quei princìpi non servono, sono una zavorra retorica e astratta?

Se fosse così, quando ci si preparava a impedire che Hitler s' impadronisse di Danzica ossia diventasse il mostruoso padrone d' Europa e forse del mondo - ovvero si preparava una guerra, in cui molti non sarebbero restati vivi - avrebbero avuto ragione coloro che irridevano chi voleva «morire per Danzica».

Molti soldati americani sono morti per liberare l' Europa, ma dubito che la loro morte tolga valore ai princìpi che li hanno mandati a morire. L' insurrezione del ghetto di Varsavia perde senso per il fatto che pochissimi degli insorti sono rimasti vivi? Naturalmente si può e si deve dire che in ogni circostanza, a esempio pure nella Seconda guerra mondiale, si è agito e si agisce non solo per nobili princìpi ma anche, o soprattutto, per concreti e corposi interessi; quei soldati americani sono morti non solo per liberare il mondo dal nazismo, bensì per la potenza e gli interessi degli Stati Uniti. Ma in quel caso, come in molti altri, il perseguimento di quegli interessi era indissolubilmente legato alla difesa e all' affermazione dei princìpi di libertà e democrazia, così come pure l' opposizione al comunismo staliniano implicava la difesa di tanti interessi occidentali, ma anche, inestricabilmente, di basilari princìpi etico-politici.

Questi ultimi non sono chimere astratte o idealità vaporose, ma forze concretamente operanti nella storia; disconoscerne il ruolo e il peso è altrettanto ingenuo quanto disconoscere il ruolo e il peso degli interessi. La vita è certo un valore, ma non è detto sia il valore supremo; gli antichi ammonivano a non perdere, per amore della vita, per sopravvivere a ogni costo, le sue ragioni e il suo significato (propter vitam vivendi perdere causas); vivere torturando forse non è vivere. Chi vuol salvare la propria vita la perderà e chi è disposto a perderla la salverà, sta scritto nel Vangelo, testo non certo incline alle trombonate. Una corretta relazione tra princìpi morali e sopravvivenza presuppone da una parte equilibrio e dall' altra coraggio. Per ragioni generazionali, sono stato risparmiato dalla prova del fuoco e ignoro la portata del mio coraggio; temo e suppongo sia quella media di un professore universitario, poco propenso a tornare sugli scudi come gli eroi di Sparta. Certo, sarebbe meglio essere come l' avvocato Cornelio Brosio, che al processo del tribunale fascista a Torino, nell' aprile 1944, esamina con pignoleria e poi rifiuta di firmare la domanda di grazia perché contiene alcune espressioni contrarie ai suoi principi. Credo che, a essere così, si vive meglio, si è e si resta più vivi.  (Corriere della Sera, 14 agosto 2006)

Panebianco e le armi della morale. Flessibile

di Alessandro Robecchi  (il manifesto 15 agosto 2006)

Dev'essere un'estate ben debilitante se oltre alle insurrezioni di miliardari al Billionaire e i cortei infervorati di avvocati ci dobbiamo pure beccare le polemiche sulla tortura innestate da Angelo Panebianco sul Corriere. Ma si sa, siamo nati per soffrire, e dunque, tant'è.

In soldoni la tesi di Panebianco è di una semplicità disarmante: è lecito torturare qualcuno per avere informazioni che possano salvare molte vite? Si, no, non lo so, mettere la crocetta sulla risposta che interessa.

Panebianco, la mette sul sì, naturalmente. Accoglie con favore un «compromesso tra stato di diritto e sicurezza nazionale» e teorizza una «zona grigia a cavallo tra legalità e illegalità». A fin di bene, s'intende. E a proposito dei famosi principi (come quello di non torturare la gente, per esempio), Panebianco appare decisamente disponibile alla flessibilità: «I principi servono solo se si resta vivi». Spiritoso, eh!

Ottimamente gli risponde Claudio Magris (pure lui sul Corriere), volando molto alto, ma centrando due obiettivi dialettici decisamente acuminati.

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Primo: è una fesseria dire che la morte tolga valore ai principi, tanto che (aggiungo io) sugli eroi che sono morti per i principi non si smette di dire quanto sono stati in gamba. Direi piuttosto che i morti, in certi casi, rafforzano i principi, e non li cambiano lì per lì come la biancheria.

Secondo (qui c'è il Magris filosofo), sarà pure vero che la vita è il bene supremo, ma che razza di vita è se per restare vivo devi torturare la gente? Buona domanda.

Fin qui il dibattito, non entusiasmante, direi, e nemmeno nuovo.

Ma ecco che nel «compromesso necessario» reclamato da Panebianco (modica quantità di tortura per evitare vittime), compare un virus infido e pericoloso. Già nell'argomentare, già nell'esporre la sua tesi, già nel delineare i suoi principi ad assetto variabile («che vanno adattati alle situazioni»), Panebianco si sposta più avanti: nelle nebbie del suo ragionamento già si delinea l'ombra minacciosa del nemico.

Già alla decima riga, bontà sua, Panebianco individua i nemici della sua teoria. Chi sono questi mollaccioni che non vogliono torturare la gente? Già, chi siamo? Piccolo identikit e tre profili possibili forniti direttamente da Panebianco.

Prima specie di rammolliti: il nemico interno indicato da Giuliano Ferrara (è uno scoppiettìo di intelligenze, come vedete), cioè quei politici italiani che sono alleati del terrorismo jihadista (tra i quali, secondo Ferarra, Rutelli e Repubblica, per dire che razza di jihadisti).

Seconda categoria: come scrive Panebianco «tante brave persone in buonafede», che però sono tutte un po' sceme dato che non concepiscono la guerra e dunque, cosa diavolo volete che ne sappiano (mentre forse Panebianco, chissà, ha fatto a schioppettate sul Carso).

C'è una terza categoria di rammolliti che non vogliono torturare la gente, e sarebbero i «neofiti» dello Stato di diritto. Sarebbe a dire gente che un tempo voleva fare la rivoluzione e poi (forse perché non torturata in tempo) si è innamorata di tangentopoli, di mani pulite e della legalità e ora crede che lo stato di diritto sia «un feticcio».

Insomma, per tirare le somme la faccenda è semplice: chi non sta con Panebianco o è complice, o è fesso. E' un'impostazione che lascia un po' perplessi e che diventa inquietante se colui che la formula teorizza pure una certa mobilità dei sacri principi, un astuto barbatrucco per legittimare la tortura.

Ma se diventano variabili i principi, mi chiedo, che ne sarà dei testi sacri? Urge correzione del Vangelo, forse basta una asterisco dopo i comandamenti. Non uccidere*. E sotto a caratteri più piccoli: *leggere attentamente il prospetto illustrativo, in caso di dubbi contattare Panebianco.

Chi gioca con la tortura

Gian Carlo Caselli

l’Unità 16 agosto 2006

 

Sono un nano, lo so. E da sempre mi intimidiscono i giganti del pensiero come il professor Angelo Panebianco. Ma ancor più mi sconvolge la loro disinvoltura quanto discettano di Stato di diritto. La sanno sempre più lunga. Sia quando criticano (giustizialismo! vade retro satana!) chi vorrebbe applicare le regole anche a coloro che possono e contano e non soltanto ai poveracci. Sia quando discettano sulla tortura, anche in questo caso ammettendo la liceità di strappi alle regole per meglio tutelare la «sicurezza». Saranno giganti, saranno campioni di democrazia liberale, ma forse non si accorgono che le loro brillanti riflessioni sugli «aspetti più spiacevoli dell´esistenza» rischiano di innescare un circolo vizioso pericoloso. Perché si

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legittimano nuovi poteri, così assoluti da costituire essi stessi un problema per le libertà e per la democrazia, nel momento stesso in cui si sostengono azioni finalizzate - si dice - proprio alla tutela e all´esportazione di questi valori.

È il caso di chi - appunto - teorizza l´ineluttabilità, se non la necessità, di «zone grigie», di «compromessi», di «scelte di riduzione del danno» a fronte della minaccia terroristica. Le denunzie, sempre più frequenti e documentate, secondo cui maltrattamenti e torture sono ormai praticati con sistematica protervia non preoccupano per nulla. Il problema non è l´incivile diffusione della tortura. Interessa di più provare a giustificarla, la tortura: sostenendo che potrebbe esservi una tortura "buona" e quindi tollerabile. Una tesi che dovrebbe fare rizzare i capelli in testa. A tutti. Invece c´è chi vi si esercita (Panebianco non è il solo; c´è persino chi auspica la previsione in certi casi di un mandato del giudice... a torturare), perché la lotta al terrorismo non ammetterebbe cedimenti o indulgenze. Sono bestemmie. Aberrazioni che invece di aggredire le ingiustizie (come la tortura) capaci di generare nuova rabbia e nuova violenza, creano ingiustizie sempre più gravi.

Vero è che la sicurezza è un bene fondamentale (da sempre obiettivo delle migliori intelligenze e dell´impegno più intenso), ma è altrettanto vero che non può essere un tema esclusivo. Altrimenti, c´è il rischio che i diritti e le garanzie diventino ostaggio della sicurezza. Che un sistema politico debba ispirarsi a logiche di sicurezza è ovvio. Ma attenzione a non avvitarsi dentro logiche contorte ed inefficaci. A non fare come Penelope: gridando pace di giorno, ma preparando ingiustizie (e violenze) di notte.

Se poi volessimo essere cinici anche noi (nani), considerando i princìpi alla stregua di un taxi e trattando le regole come fossero chewing-gum, potremmo aggiungere che impegnarsi seriamente sul versante delle garanzie e dei diritti, non accantonandone la pratica effettiva a tempi migliori (non più di "stato d´eccezione"), non solo è buono e giusto: è anche conveniente, è un antidoto contro possibili trappole. Un antidoto che ai tempi del terrorismo brigatista degli anni 80 (stellarmente diverso dal terrorismo internazionale di matrice islamica e tuttavia ancora utile per alcune indicazioni di massima) abbiamo sperimentato in concreto. Qual era la teoria dei brigatisti? Era che la rivoluzione non si processa, che la lotta armata non può essere fermata da un codice penale.

Ma insieme a queste "riflessioni" c´era quella, fondamentale nella logica brigatista, che lo Stato democratico non esiste, è puramente e semplicemente una finzione, un paravento, una maschera. Noi brigatisti - dicevano - un colpo dopo l´altro, cioè un omicidio dopo l´altro, una gambizzazione dopo l´altra, un sequestro dopo l´altro, faremo cadere questa maschera, disveleremo il volto autentico dello Stato: volto autentico che non è democratico ma reazionario e fascista, di negazione dei diritti, di ogni possibilità di progresso, in particolare di crescita del proletariato, delle classi sociali più bisognose.

E quando questo vero volto dello Stato sarà disvelato, ecco che le masse - avendo finalmente capito, grazie a noi brigatisti, come stanno davvero le cose - si ribelleranno e ribellandosi si riuniranno automaticamente intorno all´avanguardia organizzata già esistente che siamo noi delle Br, innescando la palingenesi rivoluzionaria.

È evidente che semplifico molto, che brutalizzo concetti che persino i brigatisti esponevano a volte in maniera più sofisticata. Ma è per intenderci, per capire che siamo riusciti a non cadere nella trappola tesa dai brigatisti. Perché la risposta al terrorismo brigatista, dal punto di vista legislativo, ha raschiato - lo ha detto più volte la Corte Costituzionale - il fondo del barile della corrispondenza ai precetti costituzionali, ai principi portanti dello stato di diritto, ma non è mai andata oltre. Abbiamo elaborato una legislazione "specialistica" mirata sulla realtà specifica dei fenomeni da affrontare, ma non abbiamo creato tribunali speciali o procure speciali, a differenza di altri Paesi di democrazia occidentale che lo hanno fatto.

Abbiamo cercato risposte anche utilizzando in pieno gli strumenti della democrazia: la libertà di riunione, il confronto, il dibattito, il dialogo e via seguitando (penso alle migliaia di assemblee sul terrorismo che han consentito di spazzar via gli equivoci mefitici dei «compagni che sbagliano» o l´assurdità paralizzante del «né con lo Stato né con le Br»). Ciò che alla fine ha creato un forte, decisivo isolamento politico intorno ai terroristi, che - a partire da questo momento - invece di continuare ad illudersi di essere le avanguardie di

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qualcuno, hanno capito di essere le avanguardie soltanto di sé stessi e hanno cominciato ad afflosciarsi dal punto di vista politico (e psicologico), entrando in una crisi irreversibile.

Ecco, non siamo caduti nella trappola di tirare fuori, ammesso che davvero fosse nascosto da qualche parte, il volto fascista, reazionario, repressivo, spietato senza se e senza ma, dello Stato che loro - i brigatisti - pretendevano di evocare in tutti i modi. E questo indubbiamente ci ha aiutati a risolvere meglio i problemi posti dal terrorismo.

Oggi, chi filosofeggia teorizzando la legittimità della tortura e quindi accettandone la pratica, ci fa correre il rischio concreto di cadere in una trappola del tipo che per fortuna al tempo del brigatismo rosso non scattò. Una trappola che potrebbe pure farci perdere punti di orientamento molto importanti, invece di aiutarci a veder chiaro anche nella scelta delle risposte più opportune a livello repressivo. Non ci conviene.

E le «ipotesi di scuola» utilizzate dal professor Panebianco per «fare scandalo» (?) non sono soltanto inaccettabili. Sono anche un boomerang.

La tortura liberale

E così, ridendo a scherzando, siamo arrivati all'elogio della tortura e del sequestro di persona (purché, si capisce, i destinatari siano islamici) sulla prima pagina del Corriere della sera. Il merito va tutto al professor Angelo Panebianco, il quale sostiene che la lotta al terrorismo non è roba da signorine e quindi bisogna piantarla con «l'apologia della legalità» delle mammolette convinte che «cose come la legalità, i diritti umani e lo stato di diritto debbano sempre avere la precedenza su tutto». Basta con il «feticcio» dello stato di diritto: «dalla guerra non ci si può difendere con mezzi legali ordinari». Dunque bisogna legalizzare quella «zona grigia a cavallo tra legalità e illegalità, ove gli operatori della sicurezza possano agire per sventare le minacce più gravi»: un «nuovo compromesso tra stato di diritto e sicurezza nazionale» che nasca dal «confronto tra politici, magistrati, avvocati e operatori della sicurezza». Solo così salveremo «lo Stato di diritto e la stessa democrazia».

Che razza di democrazia e di stato di diritto siano quelli che, per salvarsi, rinunciano ai loro fondamenti per adottare quelli del nemico che dicono di combattere, e che senso abbia cancellare la democrazia e lo stato di diritto per difenderli meglio, non è ben chiaro. Ma il professor Panebianco va capito. Da anni è afflitto da due gravi problemi esistenziali. Primo (più noto come «sindrome da Ostellino»): quando si parla di liberalismo, in Italia, tutti pensano a Einaudi, a Montanelli, a Sartori. Mai a Panebianco. C'è una sola persona convinta che Panebianco sia un liberale: Panebianco. Egli infatti ripete ogni tre per due di essere un liberale: per convincere gli altri,e fors'anche se stesso. Secondo: nel disperato tentativo di farsi notare da qualcuno, Panebianco è costretto a spararle sempre più grosse, anche a costo di abrogare la logica, il principio di non contraddizione, la decenza e il senso del ridicolo. Nel paese che ospita già Feltri, Borghezio e Calderoli, non è impresa da poco. Ma l'altro giorno Panebianco ha surclassato agilmente l'intera concorrenza, inneggiando alla tortura e alla deportazione, e riuscendo anche a evocare -a suffragio dei suoi delirii- imprecisati «liberali di antica data» (ma senza nominarli, forse per evitare querele dagli eredi).

Si potrebbe ricordare che il professor Panebianco è lo stesso che, appena un giudice intercetta o inquisisce o arresta o rinvia a giudizio un ladrone di Stato con tutte le prove e i crismi di legge, vien colto da convulsioni, strilla al giustizialismo e invoca Amnesty International. Ma la contraddizione è solo apparente: per i garantisti a targhe alterne, le garanzie valgono solo per i signori, non per i baluba islamici. I signori sono innocenti anche dopo condanna definitiva. I baluba sono colpevoli anche senza essere indagati, per definizione. Torturateli e deportateli pure.

Ora, per quanto sia difficile, proviamo a prendere sul serio il Panebianco: è la peggior punizione che

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gli si possa infliggere. E immaginiamo i dettagli del «compromesso fra sicurezza e legalità» da lui auspicato per consentire anche alle democrazie occidentali di torturare e deportare i nemici o presunti tali.

1) Se tua figlia ti porta a casa un fidanzato marocchino, o peggio ancora nero, è la prova che i due preparano un attentato. Dunque fai come i pakistani di Brescia: ammazzala e sotterrala nell'orto. Poi, visto che non sei razzista, fai lo stesso con lui. Basta con questo tabù della pena di morte: anzi, privatizziamola.

2) Se il tuo vicino di casa cucina il cuscus o - Dio non voglia - il kebab, leggigli la posta e infìltrati in casa sua travestito da colf, oppure avverti subito il Sismi e l'agente Farina Doppio Zero, per poterlo spiare, intercettare e pedinare. Non si sa mai. Dal cuscus al plastico, si sa, il passo è breve.

3) Se incontri un tizio con una faccia che non ti piace, massacralo di botte. Tu non sai perché, ma lui potrebbe saperlo. Chi ti dice che non stia per saltarti addosso col gilet imbottito di tritolo? È la guerra preventiva. Se quello obietta, spiegagli che stai percorrendo «la zona grigia a cavallo tra legalità e illegalità».

4) Se, una volta menato a sangue, quello non confessa la sua appartenenza ad Al Qaeda, strappagli le unghie dei piedi. E, se insiste nel suo silenzio, procedi con quelle delle mani, poi con gli elettrodi ai testicoli. È vero che potrebbe tacere perché non ha niente da dire, o magari è muto, ma non lasciarti ricattare da questi feticci buonisti: al suo paese le mani, i piedi e i testicoli li tagliano direttamente. Dunque è già fortunato a trovarsi in Italia.

5) Mentre lui rantola agonizzante, spiegagli che stai difendendo dal terrorismo la democrazia liberale e lo stato di diritto. E se lui obietta che ti comporti come i terroristi, spiegagli che c'è una bella differenza: tu torturi col permesso del professor Panebianco, i terroristi invece senza.

6) Se, dopo il gatto a nove code, il bagno nelle ortiche, l'impalamento, il tubo che collega il suo esofago e lo scarico della vasca da bagno e i due giorni passati a penzolare da un albero a testa in giù cosparso di miele, ti venisse la tentazione di fiaccare la sua resistenza leggendogli un editoriale del professor Panebianco, quello è il momento di fermarti: nemmeno la lotta al terrorismo può giustificare una forma così efferata di sevizie.

ULIWOOD PARTY

MARCO TRAVAGLIO “l'Unità” 15 agosto 2006

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GIANNI DE MICHELIS

ASSOLVETECI TUTTI

Dunque, ricapitolando. Flavio Briatore, già condannato perché spennava i polli nelle bische clandestine, firma il referendum per bonificare la politica. Fabrizio Corona, reduce dalle patrie galere per varie estorsioni, fonderà un partito, forse con Lele Mora, suo coindagato per associazione a delinquere, sicuramente nel centrodestra, visto che ha scucito migliaia di euro a Berlusconi per certe foto della figlia Barbara: il partito, noblesse oblige, si chiamerà “Rifondazione Socialista”. Incerta la sede, fra Hammamet e San Vittore. Gianpiero Fiorani, invece, indagato per una mezza dozzina di reati, passato anche lui da San Vittore e reo confesso di sistematiche rapine dai conti dei clienti vivi e morti della Bpl, preferisce la carriera televisiva e si autopropone per un programma a difesa dei consumatori: «Con l’esperienza e le competenze che ho, mi vedo in una trasmissione che spieghi agl’italiani come non farsi fregare dalle banche». Già contattati Renato Vallanzasca per una rubrica sui serramenti a prova di effrazione e Donato Bilancia per una serie di lezioni sulla sicurezza nei treni. A Roma, dopo il varo di Via Craxi, si commemora degnamente Lorenzo Necci, indimenticabile presidente di Enimont e poi delle Fs, che prendeva 20 milioni al mese da Pacini Battaglia e fu condannato per le mazzette sugli appalti dello scalo milanese Fiorenza. Essendo morto, stanno santificando pure lui: l’altro giorno, sotto la presidenza onoraria dell’emerito Cossiga, è nata la Fondazione Necci, per «dare continuità al suo pensiero lungimirante» (Corriere della sera); il Messaggero gli dedica un’intera pagina, manco fosse Talleyrand, e lo definisce falsamente «sempre assolto». La figlia Alessandra, quella intercettata con Pacini Battaglia che le cercava un posto da attaché in un’ambasciata degli Emirati per non costringerla a lavorare, sottolinea «le idee futuribili e strategiche di papà per la politica italiana». Oltre a De Michelis - in lacrime per «la furia iconoclasta» di Mani Pulite che «ha spazzato via i nostri uomini migliori» (lui infatti è ancora lì) - erano presenti anche alcuni incensurati, tra i quali Casini e Letta. Intanto il Ragioniere generale dello Stato Mario Canzio informa che non c’è più un euro per risarcire le vittime della mafia. In compenso i soldi per la mafia si trovano sempre: l’altroieri in Calabria i magistrati han sequestrato 5 aziende, arrestato 15 persone e indagato altre 50 per le mazzette del 3% alla ’ndrangheta su ogni appalto della Salerno-Reggio Calabria. Il pizzo era messo regolarmente a bilancio, alla voce «tassa di sicurezza cantieri». Sempre in Calabria è indagato per voto di scambio e concorso esterno in ’ndrangheta Franco La Rupa, già condannato per corruzione e concussione e dunque capogruppo regionale dell’Udeur, il partito del ministro della Giustizia Mastella. Secondo l’accusa, corroborata dalle confessioni del pentito Adamo Bruno, già killer della cosca Forastefano, La Rupa fu fatto eleggere dalla cosca di Sibari guidata da tali Coccobello, U’Patanaru, U’Commissario e U’Mpicciuso, perché «ci serviva per comandare». Eletto nel 2005 al consiglio regionale, La Rupa avrebbe rimborsato il clan con 15 mila euro per le spese elettorali. Ma, almeno per il voto di scambio, non ha nulla da temere: l’indulto del 2006 copre anche quel reato, visto che solo i dipietristi e il Pdci ne chiesero, invano, l’esclusione. Sale così a 33 su 50, secondo La Stampa, il numero dei consiglieri regionali calabresi indagati o

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imputati o condannati per reati che variano dall’omicidio al concorso esterno, dall’estorsione alla truffa alle tangenti. Il 66 per cento: un record nazionale che fa impallidire persino quello del Parlamento, fermo al 10%. Gustosi i commenti dei politici calabresi interpellati dalla Stampa sull’invidiabile primato. Il governatore Loiero, pure lui indagato, dice che gl’inquisiti non sono proprio 33, ma forse un po’ meno, dunque c’è da star tranquilli, perché «qui se non ti sei preso almeno un avviso di garanzia vuol dire che conti zero». Il capogruppo Ds Giuseppe Bova, ovviamente indagato, sostiene che «non esiste nessun consigliere indagato per fatti avvenuti in questa legislatura», dunque c’è da stare allegri. Il capogruppo della Margherita Giuseppe Scurco invece non è indagato: lui è già condannato definitivamente per falso e frode. Ma per tutti gli altri c’è buona speranza di uscirne indenni: il procuratore aggiunto Spagnuolo dice che «in Procura manca la carta per scrivere le richieste di rinvio a giudizio».

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità (14 Luglio 2007)SFORBICIATINE VOLONTEROSE

di Gian Antonio Stella

Trecentoventitré metri pro capite, ai nostri deputati, non bastavano. Stavano strettini. E così la Camera, per far fronte alla crescita smisurata dei gruppi parlamentari, è stata costretta ad affittare, 6 mesi fa, un appartamento di 600 metri in piazza San Lorenzo in Lucina, due passi da Montecitorio. Al modico affitto di 356.400 euro l'anno: 29.700 al mese. Un dato che, da solo, dimostra la sproporzione tra l'enormità dei costi di una politica impazzita e la volonterosa sforbiciatina decisa dal governo. Il cui disegno di legge, se riuscisse davvero a far risparmiare 1.300 milioni di euro, rivelerebbe in modo lampante come si possa tagliare molto di più. «La montagna ha partorito un topolino », commenta il nazional-alleato Adolfo Urso. «Per qualunque cosa a loro interessi propongono un decreto di immediata esecutività, quando devono soltanto fare degli annunci, come stavolta col taglio dei costi della politica, propongono invece disegni di legge che verranno approvati nel mese del poi e nell'anno del mai», ridacchia il leghista Roberto Calderoli. «Dopo innumerevoli annunci ci si aspettava qualcosa di serio e invece il governo Prodi, al posto di annunciare il taglio immediato del numero di ministri e sottosegretari del governo più numeroso d'Europa e della storia italiana, annuncia un ddl per tagliare qualche telefonino e qualche auto blu...», accusa il forzista Gregorio Fontana. Pulpiti sbagliati, per le prediche: i bilanci ufficiali dicono che negli anni 2001-2006 in cui governavano loro, con una maggioranza larghissima, le spese per gli organi costituzionali (dal Quirinale alla Camera, dal Senato alla Corte Costituzionale) si impennarono del 23% oltre l'inflazione. Né si ha memoria, su questo fronte, di qualche riforma significativa. Per tacere del numero di ministri e sottosegretari: prima che a Romano Prodi, che svetta oggi solitario in cima alla oscena classifica, il record di poltrone apparteneva a Giulio Andreotti (101) seguito con 98 dal terzo governo guidato da Silvio Berlusconi: 56 in più del primo governo De Gasperi. Insomma: chi è senza peccato scagli la prima pietra. Detto questo, è fuori discussione che sul versante della lotta alla crescita abnorme dei costi della politica era lecito aspettarsi molto, molto, molto di più. Confida il ministro Giulio Santagata agli amici che lui ce l'ha messa tutta, che avrebbe voluto incidere il bisturi più in profondità, che si rende conto perfettamente che dopo tanta attesa il disegno di legge varato ieri dal Consiglio dei ministri (e destinato a un cammino ricco di insidie e lungo lungo, al punto che non si entrerà probabilmente nel vivo prima di gennaio) può apparire insufficiente. Sospira che il governo non può mettere mano a certi capitoli che sono di esclusiva competenza altrui. E sbuffa lasciando capire che sui giornali tutti si riempiono la bocca ma poi, nelle segrete stanze, da sinistra e da destra,

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arricciano il naso davanti a questo e a quello. Come Francesco Rutelli che, davanti al taglio dei consigli circoscrizionali, avrebbe mostrato di essere assai riottoso. Fatto sta che su questo punto il documento governativo, stando alla relazione illustrativa, è per lo meno ambiguo. Dice infatti che sì, certo, bisogna «eliminare i consigli circoscrizionali nei comuni con popolazione inferiore a 250.000 abitanti (attualmente, la soglia minima è di 100.000)» ma aggiunge che va prevista «la possibilità di istituire circoscrizioni per i comuni aventi popolazione tra i 100.000 e i 250.000 abitanti ». Una subordinata che, potete scommetterci, sarà interpretata, in un Paese ricco di furbetti, col tentativo di riproporre esattamente il quadro di prima: basterà cambiare il nome. Per carità, qualche sforzo di buona volontà si vede: l'impegno a una maggiore trasparenza, un giro di vite sulle società miste e sui consigli di amministrazione (dei consiglieri della Società autostradale Brescia-Verona-Vicenza- Padova i politici riciclati e non sono 11 su 15), una stretta alla distribuzione di cellulari ai dipendenti regionali, una razionalizzazione delle spese telefoniche con l'uso delle chiamate via Internet, una serie di nuove norme sui contratti flessibili per arginare la discrezionalità con cui certe amministrazioni locali vanno ad «aggirare i divieti esistenti di procedere a nuove assunzioni», una omogeneizzazione di compensi degli amministratori che oggi per fare lo stesso lavoro in luoghi diversi prendono buste paga diversissime, un limite al cumulo di incarichi, una disposizione perché i compensi dati ai consulenti non solo siano pubblici ma diventino operativi solo «dopo» la loro pubblicazione on line. E infine una riduzione del 20% (anche se la strada per arrivare al traguardo sarà assai accidentata) dei consiglieri e degli assessori regionali, comunali e provinciali. Nonché delle loro indennità e dei rimborsi. Evviva. Ma è davvero poco. Manca ogni accenno alla proposta avanzata da più parti di sopprimere le province. Manca ogni accenno all'accorpamento di un po' di comuni, anche se ce n'è uno come Monterone, in provincia di Lecco, con 33 abitanti. Manca ogni accenno alla necessità non solo di rendere i bilanci trasparenti ma leggibili: a cosa serve che vadano su Internet se poi l'«acquisto di giornali e libri» per una somma enorme (128 mila euro) può essere nascosta dalla Regione Sicilia sotto 7 voci esattamente uguali ma sparpagliate in capitoli diversi? Manca un impegno a ridurre, ora e non domani o dopodomani, i membri di un governo troppo obeso. Manca perfino l'incompatibilità, che era stata chiesta dalle stesse comunità montane, tra l'essere comune di mare e comune di montagna. Per non dire del silenzio, accanto alla timida voce del governo, degli altri organi costituzionali chiamati a far la loro parte. Come il Quirinale, che non ha ancora detto se quest'anno renderà finalmente pubblico il suo bilancio. Come la Camera e il Senato, dove anche gli uomini di buona volontà (e ce ne sono) magari aboliranno la barberia ma non riescono a metter freno all'aumento «automatico» delle spese dovuto a un sistema impazzito, come nel caso citato del dilagare di edifici parlamentari che con la targhetta «Montecitorio» occupano complessivamente ormai 204.212 metri quadri pari alla superficie di 14 basiliche di San Pietro, 31 campi da calcio internazionali o 420 campi da basket. Ce lo possiamo permettere? Questo è il nodo. Anche a dispetto di Massimo D'Alema. Il quale, durante una recente cena in Sudafrica, ha sbuffato davanti a un bel po' di testimoni che uffa, tutte queste polemiche sui costi della politica sono solo farina del sacco di «giornalisti sfaccendati»... Mica male, per uno che aveva detto: «Rischiamo di essere travolti...».

Corriere della Sera (14 Luglio 2007)

mercoledì, 04 aprile 2007 NON C'È PIÙ RELIGIONE

È falso che la classe politica italiana sia succube del Vaticano. C'è almeno un settore nel quale essa oppone una tetragona resistenza agl'insegnamenti della Chiesa: la questione morale. Nel novembre '91 la Cei emanò la nota pastorale «Educare alla legalità», in cui lanciava l’allarme sul malaffare dilagante e denunciava «la nuova criminalità dei colletti bianchi che impone tangenti a chi chiede anche ciò che è dovuto». I politici, forse per dimostrare il loro laicismo, continuarono imperterriti a rubare, e tre mesi dopo arrivò Di Pietro. Papa Wojtyla, dalla valle dei templi di Agrigento, lanciò un anatema contro la mafia. Ma, se Dio vuole, i politici italiani continuarono a convivere con la mafia, e arrivò Caselli. Ora papa Ratzinger, la Domenica delle Palme, informa che «non può salire al monte di Dio chi ha mani

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sporche di corruzione e tangenti». Anche stavolta la classe politica fa orecchi da mercante: non sia mai che qualcuno possa sospettarla di farsi influenzare dal Papa (ben altro atteggiamento si registrò l'anno scorso, quando il Parlamentò ripescò il vecchio appello di Giovanni Paolo II alla clemenza per i carcerati, per varare il più enorme indulto della storia repubblicana, ovviamente allargato a chi ha "mani sporche di corruzione e tangenti" e non stava in carcere, ma in Parlamento).

Fa eccezione, nel silenzio generale, Paolo Cirino Pomicino, che sull'omelia di Benedetto XVI ha rilasciato una strepitosa intervista ad Angela Prenda del Corriere. Dall'alto delle due condanne e delle numerose prescrizioni per mazzette assortite, Cirino deplora il malcostume dilagante: «S'è persa l'etica della responsabilità, sia sotto il profilo religioso, sia sotto quello laico. La politica si è rovinata». Se lo dice lui c'è da crederci, perché parla uno dei massimi esperti mondiali del settore. Pomicino precisa che «il problema, per noi politici e per tutti coloro che amministrano la cosa pubblica, è gestire il proprio percorso verso Dio cercando una mediazione». Con che cosa? Con il codice penale, ovviamente. «Quando cercavo contributi per le mie campagne elettorali (costavano 1 miliardo e mezzo) - ricorda l'onorevole pregiudicato, membro della commissione Antimafia - mi sono sempre chiesto, anche da cattolico, se il fatto di non dichiararli fosse giusto». Gli sarebbe bastato consultare il codice penale, per scoprire che non solo non era giusto, ma era un reato: il «finanziamento illecito» istituito nel 1974 e ribadito anche col suo voto nel 1981. Ma lui dal codice penale si è sempre tenuto a debita distanza, per poterlo violare più serenamente. Così si rispose nei seguenti termini: «Poiché quei soldi non deviavano il mio progetto politico, era lecito». Ecco, in base alle leggi votate anche da lui, era illecito: ma le leggi valgono solo per gli altri. Se poi qualche giudice ha letto che tutti i cittadini, compresi i pomicini, sono uguali dinanzi alla legge, e lo condanna, provvede poi lui ad autoassolversi, con l'aiuto di ben due padri spirituali («un gesuita e un cappuccino»).

Non sappiamo se per merito loro o per merito suo, ma Pomicino crede più nel Dio Quattrino che nel Trino: «La corruzione è da sempre compagna di strada dell'uomo. La cultura cattolica ci insegna: senza soldi non si cantano messe». Veramente i 10 comandamenti insegnerebbero che i soldi bisogna guadagnarli, non rubarli, ma sono dettagli veterotestamentari. Volendo sottilizzare, la cultura cristiana insegnerebbe pure a non raccontare bugie. Ma Pomicino preferisce definirle «ambiguità costruttive». E ne fornisce un esempio fresco fresco: «Non sono mai stato condannato per corruzione». Forse dimentica di aver patteggiato a Milano una condanna per corruzione a 2 mesi, per 600 milioni di lire di fondi neri sottratti all'Eni, in continuazione con quella a 1 anno e 8 mesi per i 5,5 miliardi di finanziamenti illeciti dalla Ferruzzi-Montedison.

Alla fine, meglio i vecchi tangentisti socialisti, che almeno non tirano in ballo il Padreterno per giustificarsi. L'altro giorno al consiglio nazionale del «Nuovo Psi» di De Michelis, che ha più dirigenti che elettori, se le son date di santa ragione: schiaffi, pugni, calci, fino all'arrivo della polizia. Questo Psi sarà anche Nuovo, ma resta ligio alla sua migliore tradizione: appare il garofano e subito, in lontananza, si sentono le sirene.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità (3 aprile 2007)ROMA - Il 9 maggio. Sempre. Ogni anno. Per ricordare, capire, insegnarlo a chi non c'era: cosa è stato il terrorismo, cos'è adesso, chi sono le sue vittime, perchè dal 1967 a oggi in Italia sono morte circa duecento persone e più del doppio sono state ferite per colpa e per mano del

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terrorismo. La I Commissione Affari costituzionali del Senato ha approvato oggi in sede deliberante, senza cioè passare dall'aula, e a grande maggioranza di voti il disegno di legge che istituisce il 9 maggio, il giorno in cui fu ucciso il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, come "Giorno della memoria" dedicato alle vittime del terrorismo e della stragi di tale matrice (...) Il ddl porta la firma, tra gli altri, dei senatori Sabina Rossa, figlia del sindacalista Guido Rossa, e di Rosa Villecco vedova Calipari. "Attendevamo da anni l'istituzione di questa giornata. Penso soprattutto all'importanza che potrà avere nelle scuole per far riflettere chi non sa, chi non ricorda, chi non ha memoria" (...). http://www.repubblica.it (3 aprile 2007)

venerdì, 02 febbraio 2007 VERONICO POLITO

Fra le più gravi e recenti patologie che affliggono i politici italiani, dai lider maximi ai peones, c'è il delirium esternationis. Si sono convinti, costoro, che l'intera Nazione sia massimamente interessata al loro pregiato parere su qualunque cosa accada nell'orbe terracqueo. Ciò accade perché passano le loro giornate con selve di microfoni sotto il naso, intervistati da mezzibusti da riporto che li interpellano sui più vari temi della storia e della cronaca. Le rare volte in cui i microfoni non si materializzano, i politici si premurano di chiamare le agenzie per comunicare il loro pensiero e i giornali e le tv per esigere che esso venga debitamente riportato con massima evidenza. La sindrome ha colto, fra gli altri, anche Antonio Polito, già corrispondente di Repubblica da Londra, dove fu iniziato al blairismo e all'uso della pipa, poi direttore de II Riformista all'insaputa dei più, infine deputato della Margherita, eletto peraltro da elettori del tutto ignari della cosa. L'altro giorno, non appena s'è accorto della lettera di Veronica Berlusconi al marito sulla prima pagina di Repubblica, Polito è stato colto dai primi spasimi, arrovellandosi intomo al dilemma: come fare a infilarsi in una questione politico-familiare che, all'apparenza, non lo riguardava né poco né punto ma che prevedibilmente avrebbe monopolizzato le prime 10 pagine dei maggiori quotidiani dell'indomani?

Tra moglie e marito, dice il proverbio, non mettere il dito. E neppure il Polito. Lui però non s'è dato per vinto e ha deciso di emettere ugualmente la sua brava dichiarazione. Già, ma per dire cosa? Prendere le parti di Veronica? Lo faranno in troppi. Prendere la parti di Bellachioma? Lui lo fa sempre, non è una notizia. Ecco dunque l'idea geniale, una terza via tipicamente blairiana e molto riformista: inventarsi protagonista in prima persona della storia, raccontando un'esperienza personale. E chiedere scusa lui, per primo, bruciando sul tempo lo stesso Cavaliere, ancora in ambasce. «In attesa che lo faccia Berlusconi - ha scandito l'omino Bialetti al telefono con l'allibito redattore dell'Ansa, perché non si perdesse una sola sillaba - porgo le mie scuse alla signora Lario. Mi scuso di aver sorriso alle battute machiste del marito, invece di indignarmene».

Per alcuni minuti, in attesa di essere sommersa dalla profluvie degli esternatori ritardatari, la sua è rimasta l'unica dichiarazione sul tema. Momento di gloria memorabile, durante il quale peraltro erano in molti a domandarsi chi mai

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avesse notato che Polito aveva sorriso alle battute machiste di Bellachioma e qualcuno giungeva a interrogarsi su questo strano personaggio che non s'è mai indignato per il conflitto d'interessi e per le leggi ad personam di Berlusconi, ma ci ha fatto sapere di aver fremuto di sdegno per quel dialogo pecoreccio con il duo Carfagna & Yespica. Ma queste sono sottigliezze: l'importante era riuscire a infilarsi, almeno come comparsa, almeno per qualche nanosecondo nel nuovo reality «Casa Bellachioma», detto anche «II Grande Porcello», in onda su tutte le reti e in tutte le edicole, in rappresentanza del fronte riformista e del partito dei Volonterosi (memorabile la risposta del forzista Crosetto: «Chiediamo scusa all'umanità per la dichiarazione di Polito»). Mentre scriviamo, non si conosce ancora la posizione sul tema del professor Nicola Rossi, ma se dovesse arrivare vogliamo assicurare ai lettori che non gliela faremo mancare.

L'altro giorno, in fondo, i nostri due eroi erano a Milano alla prima conventìon dei Volonterosi, dove avevano attirato in trappola persino una persona seria come il professor Giavazzi. Rallegrati dalla spalla Capezzone, hanno intrattenuto il folto pubblico sulle riforme che bisognerebbe fare, ma che non si fanno perché purtroppo siamo un paese poco blairiano e poco riformista, ma soprattutto poco volonteroso. In prima fila annuivano compiaciuti alcuni padri nobili della nuova formazione: Paolo Cirino Pomicino, Gianni De Michelis e Paolo Pillitteri, una decina di anni di galera in tre.

ULIWOOD PARTY

MARCO TRAVAGLIO

l’Unità 2 febbraio 2007

mercoledì, 20 settembre 2006 SIGNORINI GRANDI FIRME

La giornata di ieri è da segnare sul calendario della storia del giornalismo. Nello stesso giorno Luciano Moggi ha iniziato la sua collaborazione con "Libero" e il senatore Dl Antonio Polito al "Foglio". Temiamo che il primo evento oscurerà il secondo, purtroppo confinato da Ferrara a pagina 2, senza nemmeno lo straccio di una foto dell'omino Bialetti. Ma l'apporto di entrambi i pensatori non potrà che giovare al giornalismo e alla Nazione. Per il Polito Margherito, "Il Foglio" è l'ultima tappa di un lungo pellegrinaggio dal Pci a Berlusconi, sulle orme di Ferrara, Bondi, Foa junior e Adornato. Il quale, anni fa, sorprese tutti con un libro intitolato "Oltre la sinistra", che faceva pensare a una svolta radicale: invece, oltre la sinistra, Nando aveva trovato il Cavaliere.Così il Polito delle Libertà, che da comunista divenne blairiano (soprattutto per la pipa), fondò "Il Riformista" purtroppo boicottato dai lettori, poi lo lasciò per

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fare il senatore della Margherita all'insaputa dei suoi elettori, poi litigò col successore Paolo Franchi, poi lasciò "Il Riformista" senza che i lettori se ne accorgessero, poi traslocò a "Europa" senza che i lettori se ne accorgessero, e ora approda finalmente al giornale di Largo Corsia dei Servi, che sembra proprio il posto suo.Lucianone invece è appena agli inizi. La sua conversione al giornalismo televisivo (su Antenna3) e stampato (su Libero) alla giovine età di 70 anni è dovuta a indubbi meriti penali, che potrebbero pure spalancargli un radioso futuro in politica: infatti è stato squalificato dalla giustizia sportiva perché si sceglieva gli arbitri e truccava i campionati e, per le stesse ragioni, è indagato per associazione a delinquere dalla Procura di Napoli.Più che naturale che, con un simile pedigree, trovasse un posto in prima pagina su "Libero", che vanta anche un vicedirettore indagato per favoreggiamento in sequestro di persona (il leggendario Renato Farina) e una serie di collaboratori con un discreto curriculum (dall'avv. Taormina, indagato per le false impronte a Cogne, a Gianni De Michelis, pluripregiudicato per Tangentopoli). Più che un quotidiano, pare una comunità di recupero. Dev'essere per questo che, pur non rappresentando alcun gruppo parlamentare, incassa ogni anno svariati miliardi di finanziamento per l'editoria di partito: è un servizio sociale che aiuta i devianti a reinserirsi.E scopre pure nuovi talenti, perché Moggi, con la penna in mano, è anche meglio di quando maneggiava fischietti e orologi. «Mi corre l'obbligo di ringraziare Feltri», «le mie non saranno sentenze ma soltanto un'attenta disamina dei valori che già ci sono», «Pizarro è la ciliegina sulla torta», «Berlusconi, Galliani e Braida non si discutono», «il Milan è l'avversario principe», mentre Lazio e Fiorentina devono darsi un «obiettivo principe: quello di non retrocedere», nel qual caso «avranno possibilità di salvezza». Chi l'avrebbe mai detto? Guarda un po', alle volte, cosa t'inventa un genio del pallone: per salvarsi bisogna porsi l'obiettivo (principe) di non retrocedere. Poi dicono che il calcio non ha più bisogno di Moggi.Per ulteriori delucidazioni - informa Feltri - «i lettori di "Libero" potranno interagire con Moggi inviando direttamente domande all'indirizzo mail [email protected]». Un'opportunità da non sprecare, anche per i lettori dell'Unità: scrivetegli tutto quel che pensate di lui e della sua abitudine, purtroppo interrotta sul più bello, di pilotare gli arbitraggi e taroccare le partite. Di arbitri comunque parla lui stesso, in coda al suo articolo: «Gli arbitri lasciateli lavorare, andare sereni sul terreno di gioco. Sono semplici uomini e possono sbagliare: questo è il bello e il brutto del calcio».Ecco, questo è importante. Se, Dio non voglia, foste tentati di prendere un arbitro che non vi ha dato un rigore inesistente e di chiuderlo nello spogliatoio, vergognatevi e arrossite: ma chi vi credete di essere?PS. Avvertenza per gli arbitri rimasti eventualmente chiusi nello spogliatoio: scrivete a [email protected], le chiavi le ha sempre lui.

 

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MARCO TRAVAGLIO“l’Unità” 20 settembre 2006

lunedì, 11 settembre 2006 IL SENATORE A TARGHE ALTERNE

Separati alla nascita?

Papalla

Nasce nel 1966 per reclamizzare gli elettrodomestici Philco. E’ il pianeta del progresso e delle scoperte scientifiche, popolato dai papallesi, tra cui il luminare della scienza professor Von Krapfen: le sue interviste rilasciate ad un inviato terrestre terminano sempre con la battuta: "Mia moglie aspetta un Philco!"  Per i più giovani: si parla di "Carosello", la trasmissione nata il 3 febbraio 1957, l'appuntamento storico imperdibile per i bambini di un tempo che tale fu fino al 1° gennaio 1976.

Ci sono personaggi, nella Storia, che travalicano i confini della loro persona e diventano archetipi sempiterni, categorie dello spirito, garantendosi l’immortalità nei dizionari e nelle enciclopedie. L’Anfitrione, il Cireneo, il Mecenate, il Casanova, l’Otello, il Quisling. Ora, per non farci mancare nulla, abbiamo pure “il De Gregorio”, nel senso di Sergio, il corpulento senatore napoletano dell’Italia dei Valori che è sempre d’accordo con Berlusconi, però s’è candidato con Di Pietro nel centrosinistra. Però s'è fatto eleggere presidente della commissione Difesa dal centrodestra. Però ieri è uscito dall'Italia dei Valori. Però non è uscito dal centrosinistra. Però preferirebbe la grande coalizione e si porta avanti col lavoro. Insomma, è all'asta. A disposizione del miglior offerente.

Il fatto che i suoi elettori dipietristi pretendano il ritiro delle truppe italiane dall'Iraq, una legge seria sul conflitto d'interessi, la cancellazione delle leggi vergogna e soprattutto il sostegno leale al governo Prodi e alla maggioranza che ha vinto le elezioni non lo tange minimamente. Lui è contro il ritiro dall'Iraq e la legge sul conflitto d'interessi, mentre è favorevolissimo alle leggi vergogna e a una maggioranza diversa, anzi opposta. Ma s'è guardato bene dal dirlo in campagna elettorale: l'ha fatto subito dopo il voto, precisamente dopo aver scoperto che non sarebbe diventato ministro per gli Italiani all'estero. Altrimenti, magari, oggi chiederebbe le cose che osteggia e osteggerebbe le cose che chiede. Un politico di nobili ideali, l'ultimo della nutrita collezione messa insieme in questi anni da Antonio Di Pietro, che raramente sbaglia una scelta politica e altrettanto raramente azzecca un collaboratore.

Uomo dalle molte vite, De Gregorio nasce giornalista scoopista al seguito del mitico Giò Marrazzo e poi a "L'Istruttoria" di Giuliano Ferrara. Leggendario lo scoop sulla crociera di Tommaso

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Buscetta nel Mediterraneo. Il pentito viaggia in incognito, o almeno così crede finché non gli si presenta De Gregorio, con moglie e due amici (un consigliere provinciale forzista di Napoli e un altro tizio vicino al Polo). Il giornalista dice di essere lì per caso e di averlo riconosciuto per caso. In realtà ha avuto una soffiata. In quel periodo lavora a "Ideazione", la rivista fondata insieme a Domenico Mennitti, ascoltatissimo consigliere di Berlusconi. Don Masino si lascia andare sulle "origini mafiose" del patrimonio del Cavaliere, nonché sui rapporti di Dell'Utri con Cosa Nostra. Intervista e foto escono su "Oggi" nell'estate del '95, ma senza le frasi su Berlusconi e Dell'Utri, che però De Gregorio racconta ai quotidiani quando esplode il caso.

Buscetta tenta di smentire, invano. Il risultato è che il pentito viene delegittimato dallo scandalo e, ai giudici di Palermo, non dirà più una parola su Berlusconi e Dell'Utri. Per la Procura di Palermo la "trappola" è stata organizzata a tavolino. De Gregorio rompe con Mennitti che- ricorda- "non gradì le rivelazioni di Buscetta: credo fosse amico di Dell'Utri". Ma ciò non gli impedisce di candidarsi, nel 2005, alle regionali in Campania con Forza Italia, forte anche della sua nuova veste di leader dell'associazione Italiani nel Mondo che dichiara, solo in Campania, "20 mila fra iscritti e simpatizzanti", senza contare "le sedi già operative a Roma, Nizza, Sofia, Londra, Zurigo, Mosca, New York, Buenos Aires, Teheran e Tunisi", e che negli anni ha intrecciato affettuosi rapporti col camerata ministro Mirko Tremaglia.

Ma, al momento del deposito delle liste, De Gregorio, che ha investito un capitale in mega-manifesti azzurri col suo bel faccione al centro, viene scaricato in zona Cesarini. Il tempo di tuonare contro "l'arroganza di Forza Italia", ed eccolo nella Nuova Dc di Gianfranco Rotondi, che alle elezioni del 2006 presenta due facce pulite e soprattutto nuove: Cirino Pomicino e De Michelis. Del secondo, De Gregorio è un fervido estimatore, avendo diretto pure "l'Avanti!": anche qui scoop a gogò, come una leggendaria inchiesta del 2002 sulle magagne dell'Alitalia, misteriosamente interrotta alla quarta puntata in coincidenza -insinua un maligno senatore di An - con l'uscita di una mezza pagina di pubblicità della compagnia aerea. Che cos'abbia in comune con Di Pietro questo ex forzista amico del condannato De Michelis, lo sanno solo Dio e De Gregorio, che infatti si candida con l'Italia dei Valori.

L'elezione a senatore è una passeggiata, anche se le migliaia di voti che asserisce di portare non si notano granché: non fosse per Tonino, per Orlando e per Franca Rame, che fanno scattare il quorum, resterebbe a casa. Invece ce la fa. Ma il seggio gli va stretto: lui punta a un ministero. E, quando glielo negano, briga con la Cdl per la presidenza della commissione Difesa, dove si distinguerà per una tirata contro Israele ("stermina i civili"), una contro l'Onu ("inaccettabile la risoluzione che ci impegna a disarmare Hezbollah") e tanti bacini e bacetti al capo del Sismi Niccolò Pollari, indagato per il sequestro di Abu Omar ("insostituibile").

Giorni fa l'Espresso sorprende i due amorosamente attovagliati al ristorante San Teodoro, in Campidoglio. È l'ultimo atto di De Gregorio da senatore dell’Udv. Ieri l'addio. Alla poltrona? Macchè: al partito, e forse al centrosinistra. Ma non sempre: "Deciderò volta per volta". Così il nostro eroe esce dalle sue polpose carni per trasfigurarsi in un archetipo. "Il De Gregorio" è l'ultimo esemplare della fauna politichese: il parlamentare intermittente, il senatore a targhe alterne. È stato decisivo il conflitto d'interessi: "Non voterò mai una legge punitiva contro Berlusconi". Un caso di coscienza.ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIO “l’Unità” 8 settembre 2006

MANI PULITE SUL PALLONE

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Il ritorno di Borrelli

Non basterebbe un plotone di neuropsichiatri, né un manipolo di criminologi, per spiegare le reazioni della Casa della Libertà Provvisoria alla nomina di Francesco Saverio Borrelli a capo dell'Ufficio indagini della Federcalcio. Reazioni decisamente più dure di quelle che avrebbero accolto la nomina di Al Capone. Il fatto è che, per la prima volta nella sua storia, il calcio italiano scivola via dalle mani della politica, che fin dai tempi del Duce l'aveva sempre usato come “instrumentum regni” e gestito come il cortile di casa. Scivola via, il calcio, e si dà un vertice totalmente sganciato dai partiti. Il commissario Guido Rossi e il procuratore Borrelli sono due marziani: hanno un'età, una storia, un prestigio, un peso specifico e un orgoglio financo un po' snobistico della propria autonomia, da garantire assoluta libertà di movimento, al riparo da ogni condizionamento, ammiccamento, accomodamento.

Con due così, l'italica arte della strizzatina d'occhio, del darsi di gomito, dell' “aumma aumma”, del ricattuccio non attacca. E tanto basta a spiegare lo sgomento di chi quell'italica arte ha elevato a programma di vita e poi di governo. Quelli che tuonano contro Borrelli sono gli stessi che 12 anni fa volevano Previti ministro della Giustizia e 10 anni fa avevano pronto un collegio sicuro per Dell'Utri e uno per Squillante (il primo fu eletto, il secondo fu arrestato appena in tempo). Pretendere da questa gente un giudizio sereno su Borrelli è come stupirsi se la Banda Bassotti detesta il commissario Basettoni. L'idea, poi, che a guidare le indagini sul calcio sia uno che sa guidare le indagini, getta gli intoccabili nel più cupo smarrimento: all'ex procuratore di Milano avrebbero preferito di gran lunga un procuratore della Gea.

In fondo, bisogna capirli. Già duramente provati dalle indagini sui furbetti, dalle elezioni politiche, dalla cattura di Provenzano, dall'arresto di Previti e dalla condanna di Vanna Marchi, stanno vivendo come un incubo questa strana aria di legalità che si respira da qualche settimana. Il centrosinistra non c'entra, anzi: Prodi aveva pensato bene di offrire la Federcalcio a Gianni Letta, il quale ci aveva fatto la grazia di declinare, e solo a quel punto era saltato fuori Guido Rossi. Quel che si dice, per la politica politicante, un marziano. Un odioso e odiato “moralista” che parla di «etica negli affari» e «conflitto d'interessi», e che con la sinistra ufficiale c'entra poco o nulla (basti pensare alla sua fiera opposizione alla scalata Unipol a Bnl e all'immortale battuta sulla «merchant bank» di Palazzo Chigi ai tempi di D'Alema). Esattamente come Borrelli, protagonista di epici scontri con il centrosinistra ai tempi della famigerata Bicamerale e delle leggi-vergogna della legislatura dell'Ulivo. Per questo Berlusconi li detesta: sa benissimo che la sua litania sulla «sinistra che ha messo le mani sul calcio» è una balla sesquipedale, visto che né Rossi né Borrelli rispondono ad alcuno se non alle proprie coscienze e alle leggi penali e sportive. Ed è proprio questo che lo preoccupa. È più forte di lui. Quando sente parlare di legge, e peggio ancora di coscienza, mette mano alla fondina. O allo stalliere.

Come diceva Bossi quand'era lucido, «se Berlusconi piange, state allegri: vuol dire che non ha ancora messo le mani sulla cassaforte». Dunque stiamo allegri. Godiamoci questa boccata d'ossigeno, ovviamente passeggera, finché dura: due uomini di legge di specchiata fama ai vertici del calcio. E ringraziamo l'ingorgo istituzionale, il vuoto di potere a Roma, le intercettazioni di Torino e di Napoli e le congiunzioni astrali che han consentito ad alcune pericolose schegge di legalità di insinuarsi proditoriamente nel corpo marcio del Paese, rischiando fra l'altro di creare un pericoloso precedente. Se non si provvede per tempo, queste tracce di Stato potrebbero contaminare irrimediabilmente l'Antistato e disorientare l'opinione pubblica non più avvezza a emozioni così choccanti.

È bello leggere, mentre le acque del Mar Rosso restano ancora miracolosamente aperte, i commenti di Cicchitto, Rotondi, Mantovano e altri giureconsulti di fama mondiale sul ritorno di Borrelli. Non potendo tirar fuori la solita menata

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delle toghe rosse, anche perché il Comintern non ha squadre nel campionato di serie A, sono a corto di argomenti. Detestano Borrelli, ma non riescono a trovare un solo motivo (confessabile, s'intende) per cui non dovrebbe diventare procuratore della Figc. E per di più sanno che i tifosi di tutt'Italia non capiscono a quale titolo i politici continuino a pontificare sul pallone e, auspicando una giustizia rapida e inflessibile, non comprendono perché mai Borrelli non va bene. È forse un dirigente di qualche squadra? Lo manda forse l'Inter, o la Juve, o il Peretola? Non sanno che dire, e allora delirano, dicendo cose che una persona normale si vergognerebbe di pensare.

Berlusconi seguita a blaterare di «mani della sinistra sul calcio», ma solo perchè vorrebbe tenercele ancora lui («Ho detto a Galliani di non dimettersi»: come se la Lega Calcio la nominasse il capo dell'opposizione o il padrone del Milan). Intanto Fabrizio Cicchitto, con grave sprezzo del ridicolo, intravede «una manina che vuole recuperare il giustizialismo» e parla di «nomina incredibile e tutt'altro che innocente»: e lui, venendo dalla P2, di colpevoli se ne intende. La manovra, prosegue il boccoluto muratorino, punta a «riprendere a sparare a raffica in molteplici direzioni, e aumentare il potere di ricatto e di interdizione di alcuni ben precisi ambienti milanesi collocati a cavallo fra alcuni grandi studi legali, alcune banche, qualche potere editoriale».

Parole incomprensibili, da cifrario esoterico. «È un'altra prova del regime dell'Unione», tuona Isabella Bertolini, farfugliando di «uso politico della giustizia sportiva contro Berlusconi». Anche Alfredo Mantovano di An, magistrato-deputato («toga nera»?), sostiene che questa è «la risposta più adeguata all'intenzione di Berlusconi di tornare presidente del Milan». Capìta l'antifona? Borrelli potrebbe disturbare il conflitto d'interessi politico-sportivo di Berlusconi, dunque è meglio che si faccia da parte (a proposito: ma perchè Mantovano e Bertolini, a proposito del nuovo capoufficio indagini, pensano subito al Milan? Sanno qualcosa che noi non sappiamo?). Sempre acuto l'ex ministro Gasparri: «Io non ho problemi perché sono romanista, ma se fossi milanista sarei preoccupato. Perché gli ex procuratori di Milano non vanno in pensione a fare i nonni?». Parola del responsabile di un partito che, all'Authority della Privacy, ha nominato un condannato definitivo per violazione della privacy. Il meglio lo dà l'on. avv. prof. Gaetano Pecorella: «Se Borrelli farà al calcio italiano quello che ha fatto alla politica, sarà la fine del calcio italiano». Tre cazzate in una: il calcio italiano è finito a causa degli scandali, ben prima che arrivasse Borrelli; la politica non è mai finita, anche se la presenza di Pecorella in Parlamento potrebbe farlo supporre; Borrelli non s'è mai occupato di politica e ora non si occuperà i calcio: s'è sempre occupato di reati, e se questi hanno attinenza con la politica e con il calcio, è colpa della politica e del calcio, non di Borrelli.

Un certo Ciocchetti dell'Udc vaneggia di «ferite che si riaprono» e di nomina che «spacca ulteriormente il Paese». Evidentemente ha notizia di moti di piazza fra borrelliani e antiborrelliani che, per il momento, non abbiamo notato. Per il segretario, con rispetto parlando, della Nuova Dc, Gianfranco Rotondi, la nomina di Borrelli è «un'operazione politica contro Berlusconi», addirittura «un ghigno mafioso»: parola di uno che ha portato in Parlamento due pregiudicati, De Michelis e Cirino Pomicino (ieri molto critico anche lui). Ora Rotondi minaccia di «lasciare il Paese», per la gioia dei più. E pare che si lamenti anche Mario Pescante di An, quello che dovette dimettersi da presidente del Coni perché nel laboratorio dell'Acquacetosa era vietato cercare il doping, onde evitare il rischio di trovarlo.

Politici a parte, gli unici commenti normali arrivano da due calciatori azzurri. Alberto Gilardino: «Borrelli è uomo di grande competenza, mai come ora ci aspettiamo molto dalla giustizia sportiva perchè il calcio torni pulito» (Gilardino è, o almeno era fino a ieri, l'attaccante del Milan). E Simone Perrotta: «Se Borrelli è riuscito a fare pulizia nel mondo politico, ci riuscirà anche nel calcio. Speriamo che ci riesca come ha fatto a suo tempo con il pool di Mani pulite». Ecco: quel che sperano gli sportivi è proprio quel che temono lorsignori.

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MARCO TRAVAGLIO – “l’Unità” 24 maggio 2006sabato, 13 maggio 2006

COGLION DAY

13 aprile 2006Prima di sciogliersi nell’acido, questa rubrica intende tributare tutta la solidarietà di cui è capace a Bellachioma. Troppo impegnato a cercare coglioni e complotti nel campo avversario, non s‘è accorto dei coglioni e dei complotti tutt’intorno a lui. Un autentico complotto dei coglioni che gli è costato la sconfitta e ora lo costringe a mendicare un governissimo per salvare un‘altra volta la sua roba dalle mire dei terribili comunisti. Il fattore C. Che la legge elettorale fosse una porcata l’aveva riconosciuto, col giusto orgoglio, il suo autore Roberto Calderoli. Solo che l’odontoiatra di Bergamo, l’uomo che ha riattizzato i fuochi di guerra fra l’Italia e la Libia a 96 anni dalla campagna di Tripoli, pensava di aver fatto una porcata contro la sinistra. Non poteva immaginare di averla fatta contro la destra, cioè contro se stesso. Un’autotrappola degna del Wile Coyote. Grazie al Wile Coyone padano, l’Unione perde dell’1,3 per cento al Senato, ma pareggia i senatori e, quel che è peggio, con lo 0,07 per cento di vantaggio alla Camera (25 mila voti: poco meno dei pazienti di Calderoli) incassa un favoloso premio di maggioranza di 70 deputati (uno ogni 350 voti). Un vero genio. Vista la sua passione per le t-shirt, un gruppo di giovani ulivisti gliene ha preparata una nuova, rigorosamente verde: al posto di Maometto c’è la sua faccia, con la scritta: «Sono un coglione». Il fattore T. Chissà quanto ha speso di aerei, negli ultimi dieci anni, il camerata Mirko Tremaglia. Svolazzava leggiadro fra Little ltaly e la Terra del Fuoco, da Broccolino alle foreste aborigene, senza dimenticare il decisivo collegio dell’Antartide, a coccolarsi gl’italiani all’estero. E quando finalmente ottenne la legge per farli votare, si sciolse in lacrime come un bambino. Sembravano tutti con lui gl’italiani all’estero. Lo baciavano, lo festeggiavano, lo pavesavano di bandiere tricolori, gli offrivano gli spaghetti al sugo e le torte della mamma. Poi però, appena ripartiva, leggevano i giornali stranieri, non avevano la fortuna di vedere “Porta a Porta” e “Otto e mezzo “, e venivano spesso presi in giro nei rispettivi paesi per il fatto di essere rappresentati da quella barzelletta vivente di Bellachioma. insomma, si vergognavano. Così, appena ricevuta la scheda per posta, han provveduto a liberarsene votando in massa Unione. Intanto il vecchio ragazzo di Salò, ignaro di tutto, candidava financo Rita Pavone e giurava al Caimòna: «Su 6 seggi al Senato degl’italiani all’estero, 4 ce li prendiamo noi» (La Stampa, 9-4 -2006). Si sa poi com‘è andata: 5 a Prodi, 1 alla Cdl. Grazie di cuore, camerata. Il fattore Psdi. Bellachioma batteva gli studi televisivi di tutt’Italia, palmo a palmo, giorno e notte, senza un attimo di respiro. Ma chi gli stava intorno dormiva. Compresi gli splendidi Legionari Azzurri di Previti e i Dell’Utri Boys. Nessuno s’è accorto dell’esistenza di un redivivo Partito socialdemocratico. E dire che Lui si era tanto raccomandato: «Non si butta via niente». Tant’è che aveva reclutato la nuova Dc di Gianfranco Rotondi, il nuovo Psi di Stefania Craxi, da non confondere con il nuovo Psi di Gianni De Michelis, il nuovo Pli di Altissimo, il nuovo Pri di La Malfa, il nuovo Psdi di Luigi Preti. Aveva messo in piedi un Pentapartito Bonsai, una specie di Minitalia dei Caf allargato per l’occasione ai neo- fascisti e ai neonazisti. Purtroppo il ricordo dei bei tempi di Tangentopoli non ha granché appassionato gli elettori, sventuratamente insensibili anche al richiamo dei saluti romani, delle svastiche e delle croci runiche. Intanto, zitto zitto, s’avanzava il secondo Psdi-bis, con il suo segretario nazionale, l’ottuagenario Giorgio Carta, già al fianco dei mitici Tanassi e Nicolazzi. Il quale, ingiustamente ignorato dalla Casa delle Libertà, s’è schierato col centrosinistra e gli ha portato in dote qualche migliaio di preziosi voti. Fortebraccio, se fosse qui, sarebbe orgoglioso dei compagni socialdemocratici.

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Il fattore P. Si chiama Giorgio Panto, è di Treviso, porta gli occhiali con le alette ai lati e la dolcevita come “il Perego “ immortale personaggio di Antonio Albanese. Ma, diversamente dal Perego, non produce Eternit: Costruisce infissi per porte e finestre e possiede tre televisioni. Quelli della Cdl, spiritosi, han tentato di oscurarlo per conflitto d’interessi. Lui ha resistito. Ha presentato la sua lista, Progetto NordEst, contro destra e sinistra: 90 mila voti. Ne bastava un terzo, al Caimona. Pazienza. Fattore M. In Sicilia, almeno lì, non s’è perso un voto. Nell’ultimo casolare di Binnu Provenzano, la polizia ha trovato i volantini elettorali di Totò Cuffaro. Ecco perché hanno atteso martedì, per arrestarlo: per dargli il tempo di votare.MARCO TRAVAGLIO – “l’Unità”

giovedì, 27 aprile 2006 AMNESY INTERNATIONALA leggere le cronache parlamentari della primavera 1993 viene la labirintite, Si perde il senso dell‘orientamento. Il 27 marzo di 12 anni fa la Procura di Palermo chiedeva l’autorizzazione a procedere contro Giulio Andreotti per mafia. E chi era, oltre agli andreottiani, il deputato Dc più ostile a concederla? Franco Marini. «Le accuse della Procura di Palermo -- dichiarava Marini il 16 aprile ’93 - - sono incredibili. La gente è sconvolta, no all‘autorizzazione a procedere». Poi fu scavalcato dallo stesso Andreotti che chiese lui stesso il via libera all’indagine sul suo conto. Oggi il senatore prescritto si schiera col centrodestra contro Marini per la poltrona più alta del Senato. Lo voterà tutta la Cdl , eccezion fatta per la Lega Nord : uno dei pochi partiti coerenti con quel che sostenevano allora. Al Consiglio federale della Lega, al Lido di Venezia, andavano a ruba le magliette con disegnati Andreotti, Craxi e De Michelis in fuga, inseguiti da un drago leghista con lo spadone di Alberto da Giussano che urlava «Banzai! Alle elezioni vi bruciamo!». Gianfranco Fini, la sera fatidica del 27 marzo, comiziava a Verona. Gli portarono la notizia e lui la diede in diretta. Applausi scroscianti. «L‘avviso di garanzia ad Andreotti per mafia - tuonò - è la fine del regime: lo dimostra l‘autentico boato che ha salutato la notizia da me data alle migliaia di veronesi che affollavano il mio comizio. I giudici si muovono su indicazioni convergenti di alcuni pentiti, come dimostrano anche i casi analoghi di Gava, Misasi e Cirino Pomicino. Pare proprio che il sistema si reggesse sulle tangenti e sulle organizzazioni criminali». L’indomani rincara: «Ormai mi sento a disagio nel frequentare questo Parlamento: chiederò ai gruppi missini di valutare l’opportunità di non partecipare più ai lavori della Camera e del Senato». Poi, citando anche Alfredo Vito, «Mister 100 mila preferenze» indagato a Napoli definì «di una gravità inaudita il tentativo di questi personaggi di sottrarsi alle indagini ora che non possono più condizionare la magistratura. Bisogna fare piazza pulita a Roma. Chiediamo verità su tutto, a cominciare dalle stragi. Chi ha trescato con i mafiosi e i camorristi da posizione di assoluto rilievo politico-istituzionale l’ha fatto per mantenere il potere e le stragi di Stato hanno stabilizzato il potere: è ora che venga fuori tutta la verità, dopo decenni di vile e canagliesca strumentalizzazione» (15-4 -1993). Ora Fini & C. si apprestano a votare Andreotti, insieme ai neoeletti Cirino Pomici- no (Nuova Dc) e Vito (FI). Ne sarà felice anche il ministro uscente Altero Matteoli, che 12 anni fa era membro dell‘Antimafia presieduta da Violante: «Il sistema - esultava - non ha più difese: perfino Andreotti, passato indenne da una miriade di scandali compreso quello Sindona, è indagato per mafia. Finalmente la magistratura può acclarare il livello di collusione mafia-politica!» (27-3-1993). Poi insinuò addirittura che l’appoggio del Pds al governo Ciampi celasse un accordo con la Dc per «salvare Andreotti dal processo». Tant‘è che votò contro la relazione Violante, che citava Lima e Andreotti: troppo morbida, per lui, «all‘acqua fresca», perché «scarica tutte le responsabilità su Lima, ovattando la parte su Andreotti» (9-4-93). Infine chiese le dimissioni di Violante «per evitare il sospetto che la sua relazione su mafia e politica, votata dalla Dc, sia servita a traghettare il Pds nell’area di governo» (29-4 -93). Particolarmente commovente il caso di Marcello Pera, che si appresta a votare Andreotti alla propria successione: nel ‘93 lo definiva «un presidente del

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Consiglio dell‘era Gromyko», emblema del “trasformismo “, del «vino vecchio in otri vecchi», del «tirare a campare qualunque cosa succeda)), del «principio che le politiche non contano, possono cambiare a ogni stormir di fronde purché gli uomini che le fanno restino al proprio posto... Per queste figure logorate dall‘uso, è venuta l’ora di inaugurare la serie “visti da lontano”... di pagare il conto per ciò che si è fatto o omesso di fare», insomma basta con i «traffici» e l‘«impunità» dei «vecchi marpioni della Dc abituati nell’arte sopraffina del riciclaggio» (16-4-92). Anche Giorgio La Malfa , insieme alla Voce Repubblicana, difendeva i giudici e i pentiti denunciando i rapporti fra Andreotti, la mafia e Sindona (combattuti dal padre Ugo). Qualcuno l’ha per caso sentito, oggi? Poi c’è Ferdinando Adornato, che 12 anni fa tonitruava: «Non siamo disposti a fare alleanze con chi applaude Andreotti al Meeting di Rimini!»(8-9-93). Ora sta anche lui in Forza Italia, che Andreotti non si limita ad applaudirlo: lo vota. Che pezzo d’uomo. MARCO TRAVAGLIO – l’Unità del 25 aprile 2006

mercoledì, 08 febbraio 2006 SI PREGA DI NON DISTURBAREdi Marco Travaglioda l’Unità del 5 febbraio 2006 Il Cavalier Bellachioma non gradisce che i Ds candidino Gerardo D’Ambrosio, e si può capirlo. Uno scappa per dieci anni dai giudici di Milano, e poi se ne ritrova uno in Parlamento, sia pure in pensione. Sono cose seccanti. Lui poi i giudici li preferiva corrotti: prima ancora di candidarli, li faceva pagare da Previti estero su estero. E D’Ambrosio, fra i vari difetti, ha anche questo: pare che sia sprovvisto di conti in Svizzera. Ma il suo probabile arrivo a Montecitorio disturba pure Piercasinando (“candidatura inopportuna”), lo stesso che dieci anni fa voleva candidare Antonio Di Pietro, all’epoca ancora magistrato: e non come deputato semplice, ma come leader del Polo. “Per Di Pietro - diceva il 14 aprile 1995 - ci vuole un ruolo di primo piano nell’alleanza di centro-destra, la sua collocazione più naturale. Dovrebbe essere uno dei leader della coalizione”. Purtroppo Di Pietro rifiutò, e Piercasinando dovette ripiegare su magistrati come l’ex pretore Melchiorre Cirami, che ha ben meritato con la legge omonima. Ultimamente, però, il presidente della Camera ha una spiccata predilezione per gli imputati. Da Cuffaro in giù. Queste sì che son candidature “opportune”.E poi c’è Enrico Boselli, che al congresso dello Sdi tuona contro D’Ambrosio tra i fischi del pubblico (a D’Ambrosio, si capisce, non a lui). Farfuglia di “giustizialismo”, contrappone D’Ambrosio ai “princìpi della cultura liberale”, mentre il prode Ottaviano Del Turco parla di “fatto allucinante”. Resta da capire se Boselli e Del Turco siano gli stessi che il 19 gennaio 1999 accolsero a braccia aperte nello Sdi Tiziana Parenti, ovvero la ex pm di Mani Pulite che nel ‘94 si era candidata (senza dimettersi da magistrato) con Forza Italia mentre indagava, col successo che tutti conoscono, sulle tangenti rosse, e che poi di transumanza in transumanza era approdata prima all’Udr con Cossiga e Mastella, poi al gruppo misto e infine nel partito dei nostalgici di Craxi. Quel giorno Boselli volle solennizzare l’epocale evento con una conferenza stampa, in cui si rallegrò perché “arriva fra noi una voce libera, una parlamentare che ha sempre sostenuto battaglie di libertà. Con lei abbracciamo idealmente quei tre milioni di elettori socialisti che nel ‘94 e nel ‘96 hanno traslocato nel non-voto o nel centrodestra, quegli elettori che non si riconoscono nella sinistra di Bertinotti, Cossutta, Veltroni e D’Alema”. Sia Boselli sia la Parenti giurarono che quella era una “scelta definitiva”. Tant’è che nel 2001 lo Sdi le offrì una candidatura in Toscana. Lei però, che nel frattempo era stata indagata a Genova per una brutta storia di carabinieri e malavita, rjfiutò. E poco dopo ricominciò a transumare (ultimamente era sull’uscio della Margherita, insieme a Enrico Manca e Agata Alma Cappiello, e chiedeva di entrare). Scelta “definitiva”anche quella, si capisce. Ecco, piacerebbe sapere perché mai candidare il pensionato D’Ambrosio è un grave sintomo di “giustizialismo “e una negazione dei “princìpi della cultura liberale”, mentre candidare la Parenti no. Salvo che un giudice, per potersi candidare, non debba prima dimostrare di avere

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un’inchiesta in corso e di aver combinato poco o nulla. Nel qual caso, in effetti, D’Ambrosio sarebbe privo dei requisiti. Resta il fatto, piuttosto curioso, che Boselli tenta da una vita di ingaggiare Gianni De Michelis, titolare di due condanne definitive, una per finanziamento illecito e l’altra per corruzione. E se Gianni avesse accettato? E se un domani accettasse? In base a quale principio liberale Boselli e Del Turco potrebbero spiegare il loro no a un magistrato integerrimo (e financo incensurato) e il loro sì a un pregiudicato? Un altro insigne esponente dello Sdi, Ugo Intini, l’altro giorno era alla convention dei socialisti di Bobo che, appena alleatisi con lo Sdi, ne sono subito fuggiti e ora navigano verso Mastella. Al suo fianco sedevano Carmelo Conte, imputato di camorra, e Giulio Di Donato, pluricondannato per le mazzette napoletane. Una bella rimpatriata. Fortuna che non è entrato D’Ambrosio, altrimenti scappavano tutti. O almeno fischiavano. Strano paese, l’Italia. Come dice Davigo, “nei paesi seri i diritti politici li tolgono ai delinquenti, in Italia ai magistrati” O, per dirla con Ellekappa, “non sta bene candidare i magistrati in pensione. Disturbano gli imputati in attività”.

venerdì, 02 dicembre 2005 LA CARICA DEI NOVANTENNIdi Marco Travaglioda l’Unità dell’ 1 dicembre 2005 Il mondo del cabaret è in subbuglio: sta per arrivare il nuovo Contratto con gli Italiani. L‘insetto s’è già prenotato per ospitare il bis della celebre gag e ha fatto spolverare dagli scantinati Rai la leggendaria scrivania in ciliegio, che ora fa bella mostra di sé negli studi vespasiani accanto al plastico di casa Cogne. Stavolta, però, Bellachioma non sarà solo. Accanto all’anziano clown ristrutturato dovrebbero sedere gli alleati vecchi e nuovi. O almeno di seconda mano. Chi pensava che il record dei partitini spettasse di diritto all’Unione (nove, secondo gli ultimi calcoli) non ha ancora visto la Casa delle Libertà nella nuova versione ampliata, verandata e mansardata con soppalchi e ammezzati per far posto alle new entry. Tutte da non perdere. Oltre al classico trio Forza Italia-An-Udc, che diventa quartetto con l’aggiunta della Lega e quintetto con il Nuovo Psi di Gianni De Michelis, Chiara Moroni e Stefano Caldoro ormai orfani di Bobo Craxi ma non di Stefania, c’è il vecchio caro Pri di Giorgio La Malfa e del segretario Nucara. E fanno sei. Sembra una filastrocca tipo «Alligalli» o «Bomba o non bomba». Ci sono i «Rjformatori Liberali» di Marco Taradash e Benedetto Della Vedova, nati da una scissione dei Radicali peraltro sfuggita ai più. Così, se prima erano in sei a ballare l’alligalli, adesso sono in sette a ballare l’alligalli. Poi c’è la Dc di Gianfranco Rotondi, Cirino Pomicino (ex centro, ex destra, ex sinistra, ora di nuovo a destra) e Publio Fiori (ex P2, Dc, e An). E otto. C’è il Movimento idea sociale di Pino Rauti, reduce dalla scissione della Fiamma Tricolore, antiberlusconiano fino all’altroieri quando l’ha chiamato Bellachioma e l’ha imbarcato sull’arca e lui non ha saputo dir di no in nome degli antichi ideali («un posto sicuro in lista nel Lazio»). E nove. Da non confondere con Alternativa sociale di Alessandra Mussolini, che fino a ieri insultava Fini e Storace, dunque ora si allea con Fini e Storace; è della partita quel che resta della Fiamma, il cui segretario Luca Romagnoli è solo fascista, mentre Rauti è pure filonazista. E dieci. C’è il Pli del redivivo Altissimo, ricostituito nel ‘97 all’insaputa delle masse. E undici. C’è perfino un Psdi guidato da Luigi Preti, che non è un omonimo del padre politico di Saragat, è proprio lui, ancora gagliardo a dispetto dei 91 anni (da non confondere con l’omonimo Psdi di tal Crema, che sta a sinistra). E dodici. Senza dimenticare l’Mpa di Raffaele Lombardo, che è sempre all’asta, ma pare che si affratellerà con la Dc di Rotondi, anche perché sarebbe il tredicesimo a tavola, e porta male. Ora però Rotondi, che è un tipo sveglio (a 15 anni, per dire, era già iscritto alla Dc di Avellino), sta sfiorando l’ernia al cervello in un titanico sforzo federativo. Annusa l’aria che tira, parla con la gente e avverte in giro «una gran voglia di pentapartito». Una pulsione irresistibile, un solo grido dall’Alpi a Scilla: ridateci il Caf. Resta da capire che gente frequenti questo Rotondi, o in alternativa quali sostanze usi. Ma tant’è. S’è messo subito all’opera per rispondere alla chiamata: «Non ci limiteremo a rifare la Dc », ha minacciato: «Potremmo rifare pure il Caf. Ne ho già parlato con il ministro Caldoro». Mica con un pirla qualsiasi: con Caldoro. Un Psi di qua, un Pri di là, un Psdi di su, un Pii di giù, lui porta la Dc e il pentapartito è fatto. Mancano solo i voti, ma verranno: «Il nuovo che avanza ha stufato. Meglio noi: il

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vecchio che torna. Allarghiamo il target: dai nostalgici della Dc a quelli del pentapartito». Per la bisogna «abbiamo già reclutato Vito Lattanzio», quello che dovette dimettersi da ministro dell’Interno perché gli era scappato Kappler dal Celio nascosto in una valigia. Ma non basta: «Darida è già dei nostri, come pure Fiori. Gava lo vedo con regolarità. Forlani è il mio sogno, purtroppo ha il figlio nell’Udc». Un festival sferragliante della dentiera e del girello, la fiera della cinta erniaria e del pannolone. Altri sogni radiosi. Cossiga e Andreotti. Insomma, i più bei nomi. Peccato per Lima e i cugini Salvo, prematuramente scomparsi. Rotondi, che è irpino, ma è eletto a Rho («salgo sempre le mozzarelle di bufala»), si candida a sindaco di Napoli, dove peraltro s’è appena candidato Pomicino, ma è pronto a cedere il passo a un altro maestro del pensiero: Peppino di Capri. Per Milano invece «corteggio Dolce e Gabbana, per la precisione Stefano Gabbana», che è proprio il democristiano-tipo: «Il suo stile di vita non rientra nei nostri canoni, ma ha detto che non vota da quando non c‘è più la Dc » e a lui è subito piaciuto. La strategia - confessa Rotondi al Corriere - è «di tempo lungo: alle politiche facciamo 5 senatori, alle europee saliamo al 5%. Fra dieci anni Berlusconi si sarà stancato e allora i democristiani saranno pronti. Possiamo aspettare». L’obiettivo immediato è una «balenottera bianca», che presto si unirà in un «pentapartito bonsai», e via in marcia verso la Terza Repubblica. Che tenterà di riprodurre la Prima in formato mignon. Tascabile. Tutto come una volta, ma in scala, tipo Minitalia: i governini e i sottogovernini, le verfìchine, le pausine di riflessione, gli appaltini, le mazzettine, gli avvisini di garanzia, le manettine... C’è un solo problema: la concorrenza. La stessa idea è venuta a tanti e ora - denuncia Rotondi - l’Italia è piena di «Dc apocrife». Una l’ha fondata un tal Angelo Sandri, un‘altra un certo Bruno Pizza, e il povero Rotondi è «sempre in tribunale» a difendere il copyright. Stesso destino per il Nuovo Psi, dove Bobo e De Michelis si contendono il Garofano a suon di denunce. La Prima Repubblica in tribunale ci morì. La Terza , modestamente, ci nasce. Il titolo originale del pezzo, pubblicato a pagina 2 de "l'Unità", era: "Da Darida a Gava, la carica dei novantenni". Lo precedeva l'occhiello: "IL CASO Il Polo, con le new entry, si fa in dodici partiti. In speranzosa attesa degli autonomisti siciliani di Lombrado

FACCIAMOCI SEMPRE RICONOSCERE (ARCHIVIO)di Marco Travaglioda l’Unità del 18 giugno 2004E' col cuore spezzato che annunciamo la dipartita dal proscenio europeo di Jas Gawronski, sconfitto dalla prestigiosa Iva Zanicchi. Gli è stato fatale l'appello al voto di Giuliano Ferrara e Carlo Rossella, noti trascinatori di folle, che invitavano a eleggere il gagà subalpino in quanto "è bello, simpatico, intelligente, colto, alla mano e poco snob, coraggioso il primo e unico ad avere davvero intervistato il Papa (falso: l'ha fatto anche Vittorio Messori, ndr), coraggioso"; e poi "è nipote del Beato Piergiorgio Frassati, è nipote di Alfredo Frassati fondatore della Stampa, è amico fedele della famiglia Agnelli, è un berlusconiano della prima ora, è anche un nostro amico... Grazie per un eventuale riscontro". Riscontro non pervenuto. Appena letto l'appello, gli elettori sono corsi a votare la Zanicchi , che almeno non è amica nè di Ferrara ne di Rossella, il che non guasta. Fra l'altro l'appello dimenticava un particolare: furono gli Agnelli a scippare La Stampa a Frassati per ordine di Mussolini, della qual cosa Gawronski pare essersi dimenticato.Altri incolmabili vuoti lasciano, al Parlamento europeo, le mancate elezioni di Marcella Bella, della bionda Peroni, di Emanuela Di Centa e di Clarissa Burt (tutte scoperte da An, per la sezione "giovani promesse"), del noto intellettuale Cecchi Pavone (FI-Mediaset) e di Pietro Mennea, passato nel giro di un anno da Di Pietro a FI al Partito dei belli Sgarbi-La Malfa. Ma, più che gli assenti, vanno segnalati i presenti. Perchè la delegazione italiana a Bruxelles, formata da 76 eletti, contiene una cospicua rappresentanza di pregiudicati, imputati e indagati. Ne abbiamo contati nove, ma il calcolo è per difetto (alcuni altri potrebbero essere ripescati fra i non eletti dopo la rinuncia, obbligata, di Berlusconi e quelle di altri vincitori in più collegi). Nove su 76 equivale all'11.84 per cento. Un record mondiale, superiore anche al 10 per cento di condannati e imputati presenti nel Parlamento italiano (una novantina su 945). La pattuglia più nutrita è quella imbarcata dalI'Udc, nell'ambito dello slogan "Io c'entro". Più che uno slogan, una confessione. Eletto a pieni voti Totò Cuffaro "vasa vasa" (bacia-bacia), che negli ultimi due anni ha collezionato tre avvisi di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa, rivelazione di segreti d'ufficio, corruzione e altre quisquilie. Segue a ruota Vito Bonsignore, siciliano trapiantato a Torino, già ras degli andreottiani sotto la Mole , ora ras delle autostrade: il dirigente dell'Italastat Mario Alberto Zamorani raccontò di averli consegnato una tangente da 200 milioni nascosta in una scatola di cioccolatini in piazza Montecitorio; inoltre, per le mazzette sugli appalti del nuovo ospedale di Asti, è stato condannato a 2 anni definitivi per tentata corruzione: lo presero prima di incassare i soldi. Lui fa notare che "la corruzione era solo tentata": ora gli elettori gli concedono un'altra chance.Sempre nell'Udc è eletto Lorenzo Cesa, già consigliere comunale della Dc a Roma, già consigliere dell'Anas vicino al ministro Gianni Prandini, per gli amici "Prendini". Nel marzo `93 i giudici romani tentarono d'arrestarlo per una

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presunta mazzetta autostradale di 600 milioni in Sardegna, ma lui si diede alla latitanza per qualche giorno, poi si consegnò e finì a Regina Coeli. Cesa - riferì l'Ansa - ammise i fatti, sostenendo però che i soldi non erano per lui. Il 21 giugno 2001 fu condannato, insieme a Prandini e altri, a 3 anni e 8 mesi per concussione: in tutto, le mazzette contestate al processo ammontavano a 35 miliardi (finiti ai partiti di governo) per opere Anas da 750 miliardi. Ma nel 2002 la Corte d'Appello annullò la sentenza per una nuova interpretazione dell'incompatibilità del Gup. Ottime speranze che, prima del nuovo processo, scatti la prescrizione. Degnamente rappresentata anche la Lega Nord. Umberto Bossi ha una condanna definitiva a 8 mesi per il finanziamento illecito di 200 milioni da Carlo Sama. Mario Borghezio vanta una condanna a 5 mesi dal tribunale di Torino per aver incendiato dolosamente, durante una "ronda padana", alcune baracche sotto il ponte della Dora dove dormivano alcuni extracomunitari.Di Silvio Berlusconi si sa, ma si sa pure che a Bruxelles non potrà metter piede. In mancanza del premier, di Dell'Utri e di altri galantuomini inopinatamente esclusi dalle liste forziste, tiene alto l'onore degli imputati azzurri Giuseppe Castiglione, vicepresidente della Regione Sicilia, arrestato e poi condannato dal tribunale a 10 mesi di reclusione per gli appalti truccati dell'ospedale di Catania (turbativa d'asta).Scontato lo sbarco del pregiudicato Paolo Cirino Pomicino, ultimo acquisto dell'Udeur, al quale l'incensurato Mastella cederà volentieri il seggio. Il Cirino non è stato soltanto molte volte assolto, come va ripetendo a reti unificate: è stato pure condannato a 1 anno e 8 mesi per finanziamento illecito (5.5 miliardi dal gruppo Ferruzzi), ha patteggiato una pena per corruzione (600 milioni dai fondi neri dell'Eni) e s'è salvato grazie alla prescrizione da una serie di altri processi. Altra new entry all'insegna della legalità: Gianni De Michelis, condannato a 1 anno e 6 mesi per corruzione (mazzette autostradali in Veneto) e finanziamento illecito (maxitangente Enimont). Tangenti - scrivono i giudici veneziani - impiegate "per alimentare il suo principesco tenore di vita". Ora lo esportiamo in Europa. Come diceva Alberto Sordi, "facciamoci sempre riconoscere".

martedì, 25 ottobre 2005 GLI AUTOSOSPESIdi Marco Travaglioda “l’Unità” del 25 ottobre 2005  L’esempio di Fabrizio Del Noce, uomo dal cognome francamente eccessivo, fa scuola in Italia e nel mondo. Da quando il sagace direttore di Rai1 s’è autosospeso per le tre ore di «Rockpolitik», le cronache nazionali e internazionali segnalano continui casi di «autosospensione». Il cosiddetto presidente iracheno Jalal Talabani annuncia che, quando Saddam verrà condannato alla forca (lì le sentenze le fanno prima dei processi: è la democrazia da esportazione), «mi prenderò un giorno di ferie per non firmare la sua impiccagione: la firmerà il mio vicepresidente». Il suo collega italiano Silvio Bellachioma ha fatto lo stesso l’altro giorno, uscendo dal Consiglio dei ministri insieme alla sua badante Gianni Letta, per non interferire sulle decisioni del suo governo (cioè sue) in materia di tfr e assicurazioni. Se dà gli ordini e poi sta dentro, è conflitto d’interessi. Se dà gli ordini e poi esce, è tutto regolare. Anche i treni, per non esser da meno, ogni tanto si autosospendono. Alcuni vanno all’autolavaggio per cimici e zecche, altri - più scrupolosi - restano sospesi per aria in bilico sui fiumi: per la serie «Grandi Opere». Il viceministro allo Sport Mario Pescante, anzichè autosospendersi per sempre come decenza vorrebbe dopo lo scandalo del laboratorio antidoping (si fa per dire) del Coni, ha pensato bene di autosospendere la legge antidoping per consentire agli atleti dopati di partecipare serenamente alle Olimpiadi invernali di Torino 2006. Ieri la parte civile della Presidenza del Consiglio ha chiesto alla Corte d’appello di Milano di condannare Cesare Previti sia per la corruzione di Squillante, sia per le presunte mazzette del caso Sme; intanto la stessa Presidenza del Consiglio si appresta a varare la legge salva-Previti per assicurare la prescrizione al noto galantuomo. Evidentemente esistono due Presidenze del Consiglio, una delle quali autosospesa. In attesa di chiarimenti, come informa «Dagospia», Previti ha autosospeso la sua festa di compleanno (il 21 ottobre compiva 71 anni: auguri di cuore), in vista della legge e della sentenza, o viceversa. I socialisti fanno un congresso dal titolo ossimorico «La forza delle idee» a base di poltrone, insulti e sputi. Poi De Michelis capisce di esser in minoranza, allora fa come i bambini dell’oratorio che portano via il pallone quando perdono: autosospende il congresso, sostenendo che «non era mai stato aperto». L’altro giorno il Consiglio di Stato doveva decidere su richiesta dell’Authority delle Comunicazioni sull’incompatibilità del direttore generale della Rai Alfredo Meocci (prima membro dell’Authority che vigilava, poi capo dell’ente vigilato). Ma all’ultimo momento s’è autosospeso, girando la pratica a chi? Alla Presidenza del Consiglio: cioè a chi aveva nominato

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il direttore in odor di incompatibilità. Anche Petruccioli, che su Meocci s’era astenuto, e Curzi, che gli aveva addirittura votato contro, si autosospendono dalla memoria ed elogiano Meocci, che ha il merito di non aver ancora chiuso «Rockpolitik». Il neoprocuratore antimafia Grasso annuncia che Provenzano è protetto da politici e poliziotti: peccato, a pensarci prima poteva prenderli quand’era a Palermo. Che fosse pure lui autosospeso? Sicuramente autosospeso Carlo Rossella, dandydirettore del Tg5: se è vero - e se lo dice Bellachioma è vero per forza - che «il Tg5 dà più spazio all’opposizione che a noi», vuol dire che il dandydirettore è fuori stanza. Perché, quando c’è di solito si nota: è grazie a lui se Bellachioma si vide ricrescere la criniera sulla copertina di Panorama, senza nemmeno passare dal tricologo. Maurizio Gasparri, che ha il cervello autosospeso dalla lingua, sostiene che Bellachioma sbaglia a prendersela con i comici, peraltro già eliminati: «In cima alla lista metterei Maria De Filippi». Ora la signora Costanzo, dopo l’incontro al vertice tra Fassino e la sua tata, ha una grande occasione per ripristinare la par condicio: una puntatona di «C’è posta per te» sull’incontro fra Gasparri e il suo cervello, casomai lo ritrovasse. Cesare Salvi è terrorizzato da «Satyricon»: «Riduce l’informazione a discutibili finestre nei programmi di intrattenimento». Lui dev’essere autosospeso dal 2001: infatti non sa che «Satyricon» è stato cancellato nel 2002 su richiesta del premier italo-bulgaro. L‘unico che, onore al merito, non si autosospende mai è il cavalier Bellachioma. Lui, tendenzialmente, sospende gli altri.

martedì, 04 ottobre 2005 PRENDETELO. È INCENSURATOdi Marco Travaglioda "l'Unità" del 4 ottobre 2005

Lo sciopero dei giornalisti ha impedito ai quotidiani di celebrare tempestivamente una grande serata d’informazione del «servizio pubblico», cioè di Bellachioma: quella di giovedì su Rai1 eRai2, grazie a Bruno Vespa e Anna La Rosa. E una vera fortuna vivere in un paese così pluralista. Se a uno non piace La Garofana , può cambiare canale e trova l’insetto. Viceversa, casomai qualcuno non gradisse l’insetto, può cambiare canale e trova La Garofana. Quest ’ultima è stata ribattezzata da Norma Rangeri «biconduttrice», essendo l’unica mezzabusta d’Italia a condurre due programmi: «Alice» su Rai2 e «Telecamere» su Rai3, senza contare l’appetitoso supplemento Telecamere Salute. In realtà Anna dei Miracoli è triconduttrice: dirige le tribune parlamentari e conduce «Conferenza stampa» su Rai1, l’unica rete che le mancava. Privilegi che spettano soltanto ai mezzibusti indagati: e lei, modestamente, è sotto inchiesta a Perugia per istigazione alla corruzione. L‘altra sera, avendole qualcuno spiegato che bisogna buttarsi sul sociale, La Garofana ha spedito una signorina in casa di due «nuovi poveri». Casa, si fa per dire: un tugurio di 38 metri quadri alla periferia di Roma. Lì moglie e marito, quest’ultimo impiombato su una sedia per una grave malattia, han raccontato i fasti di quest’Italia sempre più prospera e agiata. Senonchè l’inviata, non adusa ad ambienti così poco confortevoli, ha dato vita a pezzi di umorismo involontario davvero irresistibili intervistando i due poveretti con lo stesso tono che si usa a «La cronaca in diretta» o a «Verissimo» alle feste di Dolce e Gabbana o Roberto Cavalli. Quando il pover’uomo ha finito di raccontare la sua terribile malattia, lei s’è accomiatata con queste parole: «In bocca al lupo per la salute. A te Anna!». La Garofana , impermeabile a tutto, riprende a cazzeggiare in studio come se nulla fosse, l’occhio fisso al monitor per controllare l’ultima acconciatura. Gli sventurati ospiti – il forzista Lupi, la finiana Santanché, il margherito Franceschini e Lilli Gruber - tentano invano di scomparire. L’orchestrina dal vivo riprende a schitarrare, unica presenza pertinente in un programma che in due ore è passato, nell’ordine: da Cecchi Paone che descrive il nuovo fidanzato («ha gli occhi da gatto, è bellissimo») e dà della «grassa tettona» alla conduttrice a un filmato su Papa Wojtyla; da un collegamento con l’America’s Cup di vela a una squisita analisi del Lupi: «L’omosessualità è contro natura». Più per coprire che peraltro, qualcuno dal pubblico tenta un applauso, ma essendo rivolto a Franceschini viene prontamente spento dalla Garofana tutta scarmigliata: «Niente applausi, capito? Se no andate fuori!». Pubblicità.Intanto, chez Vespa, si processa Luciano Violante. Pubblici ministeri Stefania Craxi, figlia del più noto Bettino (due condanne definitive: corruzione e finanziamento illecito), Paolo Cirino Pomicino (due condanne definitive: corruzione e finanziamento illecito) e Gianni de Michelis (due condanne definitive: corruzione e finanziamento illecito). Il capogruppo Ds, essendo incensurato, deve difendersi dall’accusa di aver sostenuto i magistrati antimafia e

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anticorruzione, anziché schierarsi come le persone perbene con la mafia e la corruzione. Alla fine, mentre stanno per arrestarlo, lo salva l’insetto suonando il gong e facendo entrare una nuova ospite: la giornalista Mirella Serri, autrice di un bel libro sugli intellettuali sotto il fascismo. Lei non lo sa, ma è lì per un altro processo: non più a Violante, ma ai voltagabbana. Chi? Per caso De Michelis, che ha un ministro nel governo Berlusconi ma aderisce allo Sdi? O Pomicino, che in 10 anni ha cambiato 10 partiti e attualmente, come si dice, è sul mercato? Nemmeno per sogno. L‘imputato, ovviamente contumace, era Giorgio Bocca, reo di aver scritto a vent’anni un paio di articoli su un giornale fascista. La giornalista continua a ripetere «non voglio fare nomi non siamo qui per giudicare nessuno». Gli altri annuiscono ma certo, lungi da noi. Però, compreso Vespa, continuano a prendersela con Bocca, «prima fascista poi antifascista» Ecco, per l’informazione del servizio pubblico chi è cresciuto nel fascismo e poi l’ha combattuto armi in pugno nella Resistenza, rischiando la pelle per la nostra libertà, è un voltagabbana. Fosse rimasto fascista, o fosse andato a rubare, ora sarebbe al governo. E i processi li farebbe lui agli altri.

venerdì, 02 settembre 2005 QUELLA CENA DI DE MICHELIS...

Non solo Marco Travaglio, perché è curiosa la storia di questo articolo. Quando venne pubblicato su “ la Repubblica ” mi sfuggì, tuttavia ebbi modo di sentirlo spesso citato in varie conversazioni. La curiosità di leggerlo integralmente per poi conservarlo, a futura memoria, mi tormentò al punto che scrissi alla redazione romana, per riceverlo, citando l’autore e indicando solo approssimativamente il periodo. Ne ottenni la seguente risposta: “Gentile sig., in allegato le inviamo l’articolo da lei richiesto che il dott. Augias ha provveduto a rintracciare”. Firmato: la segreteria di redazione. Alcuni anni dopo il quotidiano, già diretto da Ezio Mauro, ebbe la felicissima idea di trasferire su cd-rom, da allegare al giornale, tutte le annate a partire dal 1985 fino al 2000. Peccato non aver poi proseguito negli anni successivi con l’iniziativa e doppio rammarico per le annate precedenti, vale a dire dal 1976 al 1984, mai digitalizzate. Nonostante ciò, quei 16 cd-rom rappresentano un formidabile strumento di consultazione di tutti gli articoli pubblicati, un materiale indispensabile all’archivio e che, soprattutto, occupa pochissimo spazio. Alcuni post fa avevo scritto dei “recuperati del Garofano”, questo è invece un “come eravamo” paradigmatico che sarà bene non dimenticare, perché quel De Michelis lì è ancora a piede libero.Corrado Augias da "la Repubblica" del 29 giugno 1991Ha senso raccontare quello che sto per raccontare? O attribuisco importanza simbolica a un episodio che in realtà non la possiede? Lascio al lettore il giudizio. Domenica sera verso le 22,15, nel solito ristorante alle spalle della direzione socialista, i camerieri sono entrati in agitazione, e i clienti con loro. Trattandosi di un locale frequentato da habitués d’alto rango, tutti avevano capito quello che stava per succedere. L’unica incognita era chi esattamente fosse la personalità che stava per scendere. Questione di pochi minuti. Si trattava del ministro degli Esteri, Gianni De Michelis, accompagnato da alcuni amici e amiche, una decina di persone in tutto, che entra per cenare col suo passo svelto, ravviandosi i lunghi capelli, lo sguardo saettante dietro gli occhiali. Il ministro e i suoi commensali hanno preso posto e poiché la serata era molto calda, il ministro s’è subito messo in maniche di camicia. A un tavolo della saletta antistante si sono piazzati quattro uomini della scorta. Altri due si sono seduti dietro l’ingresso. I primi hanno cenato, questi ultimi no. Il pasto è cominciato in un’atmosfera gaia fatta di risate femminili, di commenti maschili. Il ministro contrariamente al suo solito parlava tutto sommato poco. Forse era solo stanco, sembrava più che altro concentrato sul cibo e attento alle chiacchiere che, come in ogni tavolata del mondo, s’intrecciavano fitte intorno al commensale più importante in un discreto acciottolio di stoviglie, nel solito andirivieni di cibi e di bottiglie. Attorno al tavolo più donne che uomini, alcune di loro carine. Un paio in minigonna, una tutta in rosso, abito molto mini, molto aderente, quasi strizzato addosso. Sul tavolo, tocco finale, un telefonino. Ho riferito questa scena tutto sommato semplice, perché nonostante 1’assoluta innocenza dell’insieme, da quella tavolata si sprigionava un’atmosfera sgradevole, anzi decisamente irritante. Sedevo in vista della tavolata del ministro e tuttavia separato dalla vetrata che taglia in due il ristorante. Nel relativo silenzio della mia parte sala, non pienissima, ho colto due brevi commenti, niente più che due battute, che sono poi all’origine di questo articolo. La prima frase, secca e feroce, è stata: “I nuovi fascisti”. La seconda: “Quindici persone in tutto compresa la scorta, chissà chi paga il conto”. Risposta: “Lo paghi tu, scemo”.

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Personalmente sono convinto della sostanziale ingiustizia e improprietà di quei due commenti pronunciati a mezza voce in un misto di divertimento mondano e di rabbia. Vale la pena di riferirli solo perché, qualche domenica fa, c’è stato un *referendum che ha dimostrato fino a che punto è arrivata l’intolleranza della gente comune verso scene di quel tipo. Un’intolleranza, una sazietà, che chiunque di noi aveva sentito e continuamente avverte nell’aria, e che invece ai leader del partito socialista, a cominciare dal suo segretario, era completamente sfuggita. Se il ministro Gianni De Michelis leggerà questa nota, probabilmente si chiederà: ma insomma che cosa vogliono da me? Forse che uno, solo perché è ministro, non può andare al ristorante con alcuni collaboratori e collaboratrici? E cenare insieme a loro? Come può fare chiunque altro? A cominciare dai giornalisti? E’ sempre molto difficile, per chi agisce in buona fede, capire perché un proprio comportamento risulta agli altri, magari a torto, fastidioso o scandaloso. Sicuramente il ministro De Michelis non ha minimamente pensato che lo spettacolo della sua tavolata sembrava un set del film: ” Il portaborse” pronto ad essere girato, compresa una controfigura dai capelli molto disordinati, il viso segnato dalla barba e dalla stanchezza, al suo posto. Le ragazze del tavolo sicuramente non erano consapevoli di apparire, nei loro attillati abitucci estivi, nell’evidente smania di mettersi in mostra, persone di pasta inferiore a quella che sicuramente darà forma alla realtà delle loro vite. I signori del tavolo, certamente impegnati per l’intera giornata su questioni della più grande importanza, rifiuterebbero con ogni ragione la spregiativa qualifica di portaborse. Eppure quella era l’impressione. Lo sconosciuto cliente del ristorante che ha borbottato:” I nuovi fascisti”, ha sbagliato il giudizio politico ma ha colto l’apparenza delle cose. Giudicando in base alla sola apparenza, nulla distingueva quel tavolo da quello di un gerarca del ventennio. Dicono che Galeazzo Ciano tenesse quasi quotidianamente una mensa di quel tipo, formata proprio allo stesso modo più donne che uomini al ristorante dell’ Hotel Ambasciatori di via Veneto. E’ accaduto che il degrado del sistema e delle istituzioni politiche, l’universale disistima che circonda coloro che lo incarnano, hanno fatto prevalere l’apparenza sulla sostanza delle cose e, tra le apparenze, quelle peggiori. Poiché la professione della politica, come ogni mestiere svolto davanti al pubblico, vive anche di apparenza, i commenti salaci dei clienti di quel ristorante, per ingiusti e sbagliati che fossero, devono essere presi e riferiti per ciò che sono: un minimo campione statistico di uno stato d’ animo generalizzato, come i risultati dell’ultimo referendum dimostrano. Dal che si può ricavare la moralità conclusiva che, stando così le cose, è meglio che il ministro De Michelis le sue cene le consumi in luoghi più discreti e protetti. Sarà un’ingiustizia ma se i tempi sono quello che sono è anche colpa sua, quindi si adegui.*Riduzione preferenze Camera dei Deputati 9 giugno 1991

martedì, 30 agosto 2005 I RECUPERATI DEL GAROFANOdi Marco Travaglioda "l'Unità" del 2 luglio 2005Se risorgessero Cavour e Giolitti, Turati e Matteotti, De Gasperi ed Einaudi, Nenni e Berlinguer, difficilmente sarebbero corteggiati dai partiti di destra e di sinistra quanto lo sono in questi giorni i figli d’arte Stefania e Bobo Craxi, per non parlare di Gianni De Michelis. Mentre il nostro spensierato manicomio che sprofonda nei debiti e nel ridicolo, il presidente del Consiglio e vari leader dell’opposizione sono impegnati in una titanica campagna acquisti per contendersi a colpi di collegi sicuri un vecchio e unto ministro pluripregiudicato, nonché i rampolli di un premier latitante, dei quali si ignorano i pensieri, le opere e i voti, ma non le sostanze. Umberto Cicconi, già fotografo personale di Craxi, racconta in “Segreti e misfatti” che nel 1985 voleva acquistare la Scalera Film. Ma il premier Bettino lo bloccò: “Che ti sei messo in testa? Di fare cinema? Ricordati che in Italia per questo ci sono solo la Rai , Berlusconi e mia figlia” La dolce Stefania ora ce la ritroveremo in Parlamento. L’ha annunciato Bellachioma in persona, al raduno dei reduci garofanati: dopo aver finto per anni di non conoscerlo, ora si ricorda dell’amico Bettino, che nel ‘94 sbraitava con Cicconi: “Io Berlusconi lo distruggo! Non può fare ministro proprio Di Pietro! Se non c’ero io, chi si sarebbe preso la briga di salvarlo quando i pretori gli spensero le tv? Megalomane! Bugiardo!”.De Michelis - che di anni di carcere ne ha totalizzati due - detta addirittura condizioni (”lo Sdi prenda le distanze da Prodi”, pericoloso incensurato). Ma, come Craxi jr., è terrorizzato da una legislatura all’opposizione: finisce questa al governo con la destra, poi la prossima la fa al governo con la sinistra, ma prima vuole la certezza che la sinistra vinca, altrimenti resta dov’è. E’ il solito idealista. Nel ‘93, alla caduta dell’impero, lasciò in sospeso un conto da 490 milioni

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per gli ultimi 29 mesi trascorsi all’hotel Plaza di Roma, dove viveva in una sobria suite: una media 373 mila lire al giorno di “extra “. Il suo staff venne cosi descritto da Nadia Bolgan, la bella segretaria: “Una cinquantina di persone, molte delle quali donne incontrate di passaggio e senza alcuna preparazione professionale; erano lì solo perché gli piacevano, e ciascuna pensava di essere la favorita dell’harem”. Un giorno, per festeggiare il compleanno, l’Illustre Forforato affittò l’Ippodromo di Tordivalle. Un’altra volta la stazione Marittima di Venezia: 2 mila invitati. I giudici di Venezia, nella sentenza sulle mazzette autostradali, spiegano che De Michelis usava le tangenti “per alimentare il suo principesco stile di vita”. Bobo Craxi invece era troppo giovane: nel ‘92 era segretario cittadino del Psi a 29 anni. Ma lo teneva in gran conto Mario Chiesa nella speranza di diventare sindaco di Milano. Purtroppo l’arrestarono prima. “Non ho mai lesinato una lira “, raccontò il Mariuolo al pool: “Craxi mi aveva chiesto di aiutare il figlio, il suo successo mi sarebbe servito a dimostrare la mia capacità di trasferire 7000 voti... Dal ‘90, siccome ero riuscito a instaurare un rapporto diretto con Craxi e la sua famiglia per la sponsorizzazione del figlio Bobo, non avevo più necessità di sovvenzionare altri politici del Psi”. Poi ci pensò Maurizia Raggio, il barista incaricato da Bettino di svuotare i conti svizzeri e portare il bottino (50 miliardi) in Messico. Il 23 maggio ‘94 bonificò 80 milioni di lire (in franchi e in dollari) alla Bank of Kuwait per affittare una villa a Saint-Tropez per Bobo. Il ragazzo - spiega Raggio - “voleva sottrarsi al clima poco favorevole creatosi a Milano”. Anche lui, in fondo, era in esilio

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CIRINO POMICINO

TOTÒ ANTIMAFIA

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BERTINOTTI-TRAVAGLIO: POSTA E (RIS)POSTA PRIORITARIA

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venerdì, 13 aprile 2007 I DILETTANTI DELL'ANTIMAFIA

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mercoledì, 04 aprile 2007 NON C'È PIÙ RELIGIONE

È falso che la classe politica italiana sia succube del Vaticano. C'è almeno un settore nel quale essa oppone una tetragona resistenza agl'insegnamenti della Chiesa: la questione morale. Nel novembre '91 la Cei emanò la nota pastorale «Educare alla legalità», in cui lanciava l’allarme sul malaffare dilagante e denunciava «la nuova criminalità dei colletti bianchi che impone tangenti a chi chiede anche ciò che è dovuto». I politici, forse per dimostrare il loro laicismo, continuarono imperterriti a rubare, e tre mesi dopo arrivò Di Pietro. Papa Wojtyla, dalla valle dei templi di Agrigento, lanciò un anatema contro la mafia. Ma, se Dio vuole, i politici italiani continuarono a convivere con la mafia, e arrivò Caselli. Ora papa Ratzinger, la Domenica delle Palme, informa che «non può salire al monte di Dio chi ha mani sporche di corruzione e tangenti». Anche stavolta la classe politica fa orecchi da mercante: non sia mai che qualcuno possa sospettarla di farsi influenzare dal Papa (ben altro atteggiamento si registrò l'anno scorso, quando il Parlamentò ripescò il vecchio appello di Giovanni Paolo II alla clemenza per i carcerati, per varare il più enorme indulto della storia repubblicana, ovviamente allargato a chi ha "mani sporche di corruzione e tangenti" e non stava in carcere, ma in Parlamento).

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Fa eccezione, nel silenzio generale, Paolo Cirino Pomicino, che sull'omelia di Benedetto XVI ha rilasciato una strepitosa intervista ad Angela Prenda del Corriere. Dall'alto delle due condanne e delle numerose prescrizioni per mazzette assortite, Cirino deplora il malcostume dilagante: «S'è persa l'etica della responsabilità, sia sotto il profilo religioso, sia sotto quello laico. La politica si è rovinata». Se lo dice lui c'è da crederci, perché parla uno dei massimi esperti mondiali del settore. Pomicino precisa che «il problema, per noi politici e per tutti coloro che amministrano la cosa pubblica, è gestire il proprio percorso verso Dio cercando una mediazione». Con che cosa? Con il codice penale, ovviamente. «Quando cercavo contributi per le mie campagne elettorali (costavano 1 miliardo e mezzo) - ricorda l'onorevole pregiudicato, membro della commissione Antimafia - mi sono sempre chiesto, anche da cattolico, se il fatto di non dichiararli fosse giusto». Gli sarebbe bastato consultare il codice penale, per scoprire che non solo non era giusto, ma era un reato: il «finanziamento illecito» istituito nel 1974 e ribadito anche col suo voto nel 1981. Ma lui dal codice penale si è sempre tenuto a debita distanza, per poterlo violare più serenamente. Così si rispose nei seguenti termini: «Poiché quei soldi non deviavano il mio progetto politico, era lecito». Ecco, in base alle leggi votate anche da lui, era illecito: ma le leggi valgono solo per gli altri. Se poi qualche giudice ha letto che tutti i cittadini, compresi i pomicini, sono uguali dinanzi alla legge, e lo condanna, provvede poi lui ad autoassolversi, con l'aiuto di ben due padri spirituali («un gesuita e un cappuccino»).

Non sappiamo se per merito loro o per merito suo, ma Pomicino crede più nel Dio Quattrino che nel Trino: «La corruzione è da sempre compagna di strada dell'uomo. La cultura cattolica ci insegna: senza soldi non si cantano messe». Veramente i 10 comandamenti insegnerebbero che i soldi bisogna guadagnarli, non rubarli, ma sono dettagli veterotestamentari. Volendo sottilizzare, la cultura cristiana insegnerebbe pure a non raccontare bugie. Ma Pomicino preferisce definirle «ambiguità costruttive». E ne fornisce un esempio fresco fresco: «Non sono mai stato condannato per corruzione». Forse dimentica di aver patteggiato a Milano una condanna per corruzione a 2 mesi, per 600 milioni di lire di fondi neri sottratti all'Eni, in continuazione con quella a 1 anno e 8 mesi per i 5,5 miliardi di finanziamenti illeciti dalla Ferruzzi-Montedison.

Alla fine, meglio i vecchi tangentisti socialisti, che almeno non tirano in ballo il Padreterno per giustificarsi. L'altro giorno al consiglio nazionale del «Nuovo Psi» di De Michelis, che ha più dirigenti che elettori, se le son date di santa ragione: schiaffi, pugni, calci, fino all'arrivo della polizia. Questo Psi sarà anche Nuovo, ma resta ligio alla sua migliore tradizione: appare il garofano e subito, in lontananza, si sentono le sirene.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità (3 aprile 2007)

sabato, 03 febbraio 2007 STRATEGIA DELLA PENSIONE

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VERONICO POLITO

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CORROTTI E RIMBORSATI

Un disegno di legge appena varato dal governo Prodi e firmato dal ministro della Funzione Pubblica Luigi Nicolais stabilisce il licenziamento automatico dei dipendenti pubblici condannati per corruzione, o concussione o peculato a pene superiori ai 3 anni. Anche se la pena è arrivata in seguito al patteggiamento. Oggi quell’automatismo non c’è: per licenziare un condannato bisogna aspettare il procedimento disciplinare della sua amministrazione, con tempi lunghissimi che si aggiungono a quelli biblici del processo penale. E oggi, soprattutto, il patteggiamento non vale una condanna: profittando dell’ambiguità della legge, c’è sempre qualche furbacchione che dice «è vero, ho patteggiato, ma non perché fossi colpevole: solo perché volevo levarmi dai piedi il processo e stare tranquillo».Siamo pieni di sedicenti innocenti che, a sentir loro, concordano col giudice anni di galera pur non avendo fatto nulla. La furbata serve ovviamente a mantenere un simulacro di rispettabilità sociale e, soprattutto, a scansare le sanzioni disciplinari. Con la legge Nicolais patteggiamento e condanna vengono finalmente equiparati: almeno per i pubblici dipendenti che superano i 3 anni. Ma fatta la legge, trovato l’inganno: secondo un’inchiesta di Gian Antonio Stella sul Corriere, i condannati per corruzione a più di 3 anni sono il 2% del totale. Tutti gli altri, grazie allo sconto di un terzo previsto dai riti alternativi (abbreviato e patteggiamento), si fermano sotto la fatidica soglia. Quindi il 98% dei condannati per corruzione resterebbero tranquillamente al loro posto, stipendiati coi nostri soldi. A meno che il governo non corregga la legge, prevedendo semplicemente il licenziamento di tutti i condannati, a un mese o a 10 anni non importa. Se ne potrebbe parlare a Caserta, se Mastella non se ne ha a male: chi ruba denaro pubblico, pochi euro o molti milioni fa lo stesso, deve sapere che sarà cacciato. Punto e basta. Anzi, non basta ancora. Una seria bonifica della Pubblica amministrazione, oggi infestata dai pregiudicati, esige un altro intervento urgente: la cancellazione della legge ex Cirielli, che dimezza i termini di prescrizione anche per la corruzione. Fino a due anni fa il corrotto che veniva scoperto era quasi certo di esser condannato in tempo utile, visto che il reato si prescriveva in 15 anni: quanto bastava per celebrare i tre gradi di giudizio. Dal 2005, grazie all’ex Cirielli, la prescrizione scatta al massimo dopo 7 anni e mezzo dalla commissione del reato: basta avere un mediocre avvocato armato di cavilli, o un avvocato parlamentare che fa slittare le udienze perché impegnato alla Camera, per essere sicuri di farla franca. Perché mai uno dovrebbe accettare uno sconto di pena col patteggiamento o con l’abbreviato, se resistendo in giudizio ha la certezza di non avere alcuna pena? Ultima questione: il presidente dell’Eni Paolo Scaroni, per dirne uno, ha patteggiato 1 anno e 4 mesi perché, quand’era alla Techint, pagava mazzette al Psi in cambio di appalti dall’Enel. Berlusconi lo promosse presidente dell’Enel e poi dell’ Eni. L’incensuratezza è richiesta solo ai dipendenti, o anche

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ai dirigenti pubblici? Come lo si spiega a un impiegato che lui dev’essere incensurato, mentre il suo capo può essere pregiudicato? E la regola Nicolais vale solo per il pubblico impiego o si estende al Parlamento e al governo? Difficile immaginare qualcosa di più «pubblico» di Montecitorio, Palazzo Madama e Palazzo Chigi. Eppure in Parlamento siedono 25 condannati definitivi (più una sessantina di imputati o indagati). Soprattutto per corruzione (18 casi). Tutta gente che, in base a una legge dello Stato, non può sedere in un consiglio comunale, provinciale o regionale, dove i pregiudicati sono ineleggibili. In Parlamento invece sono eleggibilissimi. L’altroieri il presidente dell’Antimafia Francesco Forgione invocava sull’Unità «una bonifica della politica» con «un censimento dei funzionari pubblici con processi in corso o sentenze in giudicato che seguitano a operare dove han commesso il reato». Fantastico. Ma si dà il caso che, nella sua Antimafia, i presidenti delle Camere abbiano appena nominato due condannati per corruzione, Vito e Pomicino, e che Forgione li abbia difesi. Ora sarà divertente spiegare a un impiegato delle Poste condannato per corruzione che deve lasciare il suo ufficio, ma, se vuole, può diventare deputato. E, se fa il bravo, pure commissario antimafia. 

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità del 12 dicembre 2007

ANNO ZERO

FUDA PER LA VITTORIA

SPECCHIO DELLE MIE BRAME

SI FA PRESTO A DIRE ANTIMAFIA

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TELEFONO GIALLO

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Scrive su Repubblica Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Consulta, che il caso delle intercettazioni illegali della Telecom parallela, con la complicità di pezzi dei servizi segreti, forze di polizia e forse alcuni politici, «incute spavento». E «c'è da trasecolare a leggere il modo di presentare questi dati da parte di molta stampa: la riduzione o a un'intrigante spy story o a un episodio degli interessi turbolenti intorno a Telecom e al suo ex presidente. C'è ben altro: una vicenda che solleva interrogativi sulla nostra democrazia e sullo Stato di diritto». Uno scenario dinanzi al quale la politica e una parte dell'informazione dimostrano, ancor più del solito, una impressionante inadeguatezza (nella speranza che non sia anche complicità).Fra le tante stravaganze che si leggono dopo i 21 arresti di Milano, c'è quella del ministro dell'Interno Giuliano Amato, che si vanta di aver anticipato lo scandalo: «Lo dissi alcune settimane fa che ero esterrefatto davanti al debordare delle intercettazioni in Italia: quello che sta avvenendo in questi giorni mi sta dando ragione ed è motivo di riflessione». C'è da trasecolare. Quando si disse «esterrefatto» per le intercettazioni, Amato non si riferiva a quelle abusive e illegali alla Tavaroli & C. Si riferiva a quelle legittime e legali della Procura di Potenza che avevano scoperchiato gli scandali intorno a Vittorio Emanuele, all'entourage di Fini e alla Vallettopoli Rai. Era l'11 luglio, quando il ministro dell'Interno pronunciò in Parlamento queste gravi parole: «Sono esterrefatto per quanto accade in Italia. Mi dicono che esistono contratti di fatto tra giornalisti e chi fornisce notizie e collegamenti fra Procure e giornalisti, per cui, al momento in cui un atto viene comunicato agli indagati, viene fornita ai giornalisti la password per entrare». Sono trascorsi due mesi e mezzo, e la sua denuncia ha raccolto solo smentite, senza uno straccio di conferma. Forse sarebbe il caso che il ministro la dettagliasse meglio, oppure chiedesse scusa alla Procura di Potenza e alle «altre» genericamente tirate in ballo. Anche perché il suo allarme, fino a prova contraria del tutto infondato, è servito a creare il clima per accelerare il ddl Mastella che limita l'uso delle intercettazioni da parte dei magistrati e vieta la loro pubblicazione sui giornali.

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Ma, detto ciò, che diavolo c'entra il discorso di Amato con il caso Tavaroli (sulle intercettazioni e schedature illegali, disposte da una struttura occulta nata in seno alla Telecom a carico di cittadini incensurati, operai, finanzieri, politici, giornalisti?). Assolutamente nulla. Ma la confusione fra intercettazioni legali e abusive fa molto comodo, in questi giorni di caos. Tant'è che l'altroieri Silvio Berlusconi si è subito dichiarato favorevole a trasformare in un decreto legge da approvare con la massima urgenza il ddl Mastella, ricordando che ci aveva già provato lui a limitare le intercettazioni giudiziarie (quelle legali) e a imbavagliare la stampa, nella scorsa legislatura, ma non gliel'avevano lasciato fare. Un bel complimento, non c'è che dire, per l'iniziativa del governo. Sulle intercettazioni illegali, invece, nemmeno una parola. Anche perché pare che la banda Tavaroli spiasse i maggiori imprenditori e finanzieri, tranne uno: lui. Qualche ingenuo si sarebbe aspettato le puntute invettive delle vestali della privacy a corrente alternata, cioè dei Panebianchi, degli Ostellini, dei Platinetti, che quando una procura intercetta un vip delinquente chiamano Amnesty International perché non se ne può più di queste intrusioni nella vita privata, signora mia. Invece i primi due, per ora, tacciono. E il Platinette Barbuto scrive che bisogna «fissare bene il discrimine tra abusi da punire, associazioni a delinquere da reprimere e fini istituzionali da perseguire con modalità anomale»: insomma, se c'è di mezzo il Sismi per qualche sporca operazione tipo Abu Omar, allora va tutto bene. Sul "Giornale", Cirino Pomicino alias Geronimo non trova di meglio che prendersela con i cronisti che hanno svelato lo scandalo e ipotizza, a pera, che la banda di intercettatori agisse per conto di «alcune procure» fantomatiche. "Libero", invece, parla di «arresti a orologeria» della Procura di Milano per aiutare Prodi contro Tronchetti Provera. Ma questo è comprensibile. Il suo vicedirettore è l'agente Farina: la più grossa cimice mai lanciata sul mercato.

ULIWOOD PARTY

MARCO TRAVAGLIO

IL SENATORE A TARGHE ALTERNE

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VITO BONSIGNORE

IL TELEFONO LA TUA VOCE

A due anni esatti dallo scandalo di Bancopoli, si completa il quadro degli interventi politici nelle scalate di Bpl ad Antonveneta, di Unipol a Bnl e di Ricucci alla Rcs. Il gup Clementina Forleo ha esaminato le 73 telefonate intercettate sulle utenze di Fiorani, Ricucci e Consorte con sei uomini politici (D’Alema, Fassino e Latorre dei Ds e Grillo, Comincioli e Cicu di FI), che la Procura chiede di usare nel processo che va a incominciare. E ha deciso di trasmetterne al Parlamento, per la necessaria autorizzazione, 68 che, a suo avviso, hanno rilevanza penale, certamente per i tre furbetti, ma forse per alcuni parlamentari. Per capire qualcosa in questa jungla di procedure, occorre fare un passo indietro all’estate del 2003, quando il Parlamento varò all’unanimita’ la legge Boato. Da allora, per usare l’intercettazione di un inquisito che parla con un parlamentare, il giudice deve chiedere il permesso al Parlamento. Anche se il processo riguarda l’inquisito, non il parlamentare. Se le Camere rispondono picche o non rispondono affatto, il giudice deve distruggere la bobina e la trascrizione, cioè la prova del reato. Perciò la gip Forleo ha fatto trascrivere le telefonate da un perito, ha depositato la perizia a disposizione delle parti perchè i pm e gli indagati e i loro avvocati ne avessero contezza (così come i giornali e l’opinione pubblica, non essendo più gli atti coperti da segreto), ha valutato la rilevanza penale delle conversazioni e ieri ha chiesto alle Camere il permesso di usarle. Ora la palla passa alla giunta per le autorizzazioni a procedere che dovrà proporre all’aula di concedere o negare l’ok, poi l’aula voterà. Finora si era pensato che le telefonate avessero rilevanza penale solo a carico dei furbetti, già da tempo imputati per vari reati finanziari (per esempio, le informazioni sul controllo occulto del 51 per cento di Bnl comunicate da Consorte a Fassino configurano un presunto insider trading a carico di Consorte). Ora la Forleo sostiene che potrebbero averne anche a carico di alcuni parlamentari. A proposito dei pacchetti azionari della Bnl controllati da Bonsignore e Caltagirone, dei quali s’interessarono D’Alema e Latorre. E - scrive la Forleo - a proposito dei berlusconiani (Cicu e Comincioli, ma anche - come ha rivelato Ricucci a verbale - Gianni Letta) che nella scalata Rcs fungevano da "supporter interessati alla buona riuscita della stessa per finalità altrettanto evidentemente comprensibili in quanto legate alla tipologia del gruppo oggetto della scalata in questione". Si dirà: ma perchè i parlamentari non sono stati indagati? Semplice: perchè l’unica eventuale prova a loro carico è proprio nelle telefonate, attualmente non utilizzabili. Potranno essere indagati soltanto se il Parlamento autorizzerà i magistrati a usarle. Altrimenti finiranno al macero, e l’indagine non potrà neppure iniziare. I parlamentari già raggiunti da elementi di prova autonomi dalle intercettazioni, invece, sono indagati da tempo: il leghista Calderoli, i forzisti Brancher e Grillo, l’Udc Tarolli, tutti accusati di aver ricevuto denaro da Fiorani. "Sarà proprio il placet del Parlamento - scrive la Forleo - a rendere possibile la procedibilità penale nei confronti di suoi membri, inquietanti interlocutori di numerose di dette conversazioni soprattutto intervenute sull'utenza in uso al Consorte - i quali all'evidenza appaiono non passivi ricettori di informazioni pur penalmente rilevanti né personaggi animati da sana tifoseria per opposte forze in campo, ma consapevoli complici di un disegno criminoso di ampia portata".

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A questo punto, per dissipare qualunque sospetto di pretese impunitarie, sarà bene che le Camere autorizzino l’uso di tutte le telefonate. Tantopiù se gli interessati ritengono di non aver nulla da nascondere. Anche perchè molto presto le Camere dovranno pronunciarsi su altre intercettazioni per fatti ancor più gravi: quelle tra il faccendiere Mario Scaramella e il presidente della Mitrokhin Paolo Guzzanti; quelle tra l’ex ministro dell’Interno Beppe Pisanu e Luciano Moggi per salvare la Torres dalla retrocessione; quelle tra Berlusconi e Cuffaro sulle notizie riservate che l’allora premier apprendeva - non si sa da chi nè a quale titolo - "dall’ufficio che si occupa di queste cose", cioè dai pm di Palermo che indagavano sul governatore per i suoi rapporti con la mafia. Se, negandone l’uso ai giudici, il Parlamento bloccasse indagini anche sulle deviazioni della Mitrokhin, sulle fughe di notizie dalla Procura di Palermo e sui complici di Calciopoli, sospetto si aggiungerebbe a sospetto. ULIWOOD PARTY

MARCO TRAVAGLIO

l’Unità (21 Luglio 2007)mercoledì, 13 giugno 2007

CLEMENTINA FACCI SOGNARE

L’attento e fedele lettore meulen mi segnala l’eccellente pezzo di Marco Travaglio, uscito sul sito www.marcotravaglio.it per il motivo che lo stesso giornalista indica nell’articolo. Ringrazio doppiamente meulen, non soltanto per la cortese comunicazione, ma anche perchè si tratta di un ottimo scritto in cui trasuda tutta l’indignazione civile di Travaglio. Considerata la sua rilevanza lo posto in entrambi i miei blog certo di far cosa gradita a molti. Sperando che il faro di Marco Travaglio resti ancora acceso. Se, infatti, gli editori del glorioso giornale dell’altrettanto glorioso Partito Comunista Italiano (un tempo) stanno accanendosi contro il precedente e l’attuale direttore dell’Unità, penso che a maggior ragione possano avere campo libero nei confronti di un collaboratore. Ma qui vorrei tanto sbagliare ed eccedere in pessimismo, per quanto giustificato.Oggi l’Unità non sarà in edicola per uno sciopero sacrosanto (gli editori stanno cercando di far fuori il direttore Antonio Padellaro e di rimetter mano al contratto di collaborazione di Furio Colombo). Dunque non uscirà nemmeno la rubrica “Uliwood Party”. Chiedo ospitalità al sito per dire quel che penso delle intercettazioni del caso Unipol.

Se in Italia non esistesse Berlusconi con la fairy band dei Previti e dei Dell’Utri, ce ne sarebbe a sufficienza per chiedere le dimissioni di Massimo D’Alema da vicepremier, di Piero Fassino da segretario dei Ds e di Nicola Latorre da vicecapogruppo dell’Ulivo al Senato. Quello che emerge dalle loro telefonate con Giovanni Consorte (e, nel caso di Latorre, anche con il preclaro “compagno” Stefano Ricucci) ha un solo nome: conflitto d’interessi, e dei più gravi. Naturalmente tutto il dibattito è falsato dalla presenza in Parlamento di Berlusconi e della fairy band, al cui confronto il gravissimo conflitto d’interessi Ds-Unipol-coop rosse impallidisce. Ma in un

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paese normale (espressione cara a D’Alema), nel quale dunque Berlusconi & C. fossero già stati sbattuti fuori dalla vita pubblica, i telefonisti rossi se ne dovrebbero andare su due piedi. Fassino doveva incontrare il banchiere Luigi Abete (chissà perché, poi) e non sapeva cosa dirgli: perciò chiedeva a Consorte di scrivergli i testi. Poi si lamentava perché Chicco Gnutti era andato a una cena elettorale di Berlusconi: credeva che anche lui fosse un “compagno”, solo perché aveva partecipato all’orrenda scalata Telecom insieme a Consorte e Colaninno, e osservava che Gnutti stava puntando sul cavallo sbagliato, il Cavaliere, che prevedibilmente di lì a un anno avrebbe perso le elezioni.

Intanto Latorre amoreggiava con Ricucci, un tipo che Enrico Berlinguer non avrebbe sfiorato nemmeno con una canna da pesca. Ci scherzava, lo trattava da pari a pari, faceva il tifo per lui. D’Alema, che com’è noto è molto intelligente, avvertiva Consorte delle possibili intercettazioni telefoniche (“attenzione alle comunicazioni”) parlandogli al telefono: una mossa davvero geniale, machiavellica, volpina. Poi lo esortava ad “andare avanti” nella scalata alla banca romana, abbandonandosi a un tifo da stadio (“facci sognare!”). E si occupava personalmente della quota detenuta in Bnl da Vito Bonsignore, pregiudicato per corruzione nonché europarlamentare dell’Udc.

Stiamo parlando dei tre massimi dirigenti de Ds che, due estati fa, negavano spudoratamente di essersi occupati dell’Opa di Unipol alla Bnl, affermando di essersi limitati a rivendicare il buon diritto dell’assicurazione delle coop rosse a partecipare alla contesa bancaria. Latorre negava addirittura di aver passato il suo telefono a D’Alema perché parlasse con Consorte. I cavalli sui quali questi insigni statisti puntavano sono poi finiti tutti sotto inchiesta per gravissimi reati finanziari. Ricucci addirittura in galera e in bancarotta. Consorte e Gnutti hanno condanne non definitive per insider trading. Se questa non è una gigantesca “questione morale”, come solo Parisi, Di Pietro e pochi altri politici dissero fin dall’estate 2005, non si sa proprio che cosa lo sia. Ma, nelle reazioni del Botteghino alla divulgazione di brani di intercettazioni, non c’è un’ombra di autocritica, di ripensamento, di riflessione. Anzi si sentono e si leggono frasi copiate pari pari dalla propaganda berlusconiana e craxiana: “veleni”, “attacco”, “operazione scandalistica”, fughe di notizie”, “circuito mediatico-giudiziario”. Condite con attacchi vergognosi alla giudice Clementina Forleo, che ha fatto semplicemente il suo dovere, applicando una legge demenziale - la Boato - varata da destra e sinistra amorevolmente a braccetto nell’estate 2003. Se ieri, per tutta la giornata, sono usciti brandelli di intercettazioni, è soltanto perché, con una decisione giuridicamente inedita quanto discutibile, il vertice del Tribunale di Milano ha stabilito che gli avvocati difensori degli 83 indagati del caso Antonveneta potessero soltanto prendere appunti dalle centinaia di pagine di trascrizioni, ma non prelevarne copia. Se, come dovrebbe avvenire in un paese civile, e come infatti avviene in America e in Inghilterra, gli atti giudiziari non più segreti venissero messi integralmente a disposizione delle parti e anche della stampa, si saprebbe tutto subito, e si eviterebbe di costringere i

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giornalisti a pendere dalle labbra di questo o quell’avvocato, a fidarsi dei loro appunti non certo completi né disinteressati. Chi è causa del suo mal, pianga se stesso. Ma qui non c’è alcun “attacco”, nessuna “operazione”, nessun “circuito mediatico-giudiziario”. Si chiama, molto più semplicemente, “informazione”. I cittadini da oggi sanno qualcosa in più delle scalate bancarie illegali all’Antonveneta, alla Bnl e alla Rcs avviate dai furbetti del quartierino sotto l’alta protezione dello sgovernatore Fazio, dell’allora premier Berlusconi, dei vertici dei Ds, della Lega Nord e di Forza Italia (ci sono anche i berlusconiani Cicu, Grillo e Comincioli, al telefono con Fiorani). Ed è doveroso che sappiano, visto che su quelle telefonate il Parlamento sarà chiamato molto presto a votare pro o contro l’autorizzazione a usarle nei processi ai furbetti. Invece il senatore-avvocato Guido Calvi, già difensore di Ricucci e di D’Alema, nonché attuale difensore dell’ottimo Geronzi, dunque in pieno conflitto d’interessi anche lui, dice cose assurde contro i giudici di Milano e contro i giornalisti. Invoca interventi della Procura per “bloccare” le notizie che doverosamente la libera stampa fornisce ai cittadini. E chiede l’immediata approvazione al Senato della legge-bavaglio-Mastella, già varata dalla Camera con maggioranza bulgara: tutti i partiti affratellati, nessuno escluso. I voti del centrodestra all’ennesima porcata non mancheranno: Berlusconi ha già solidarizzato con D’Alema e D’Alema ha già solidarizzato con Berlusconi per la splendida contestazione (uova a parte) subìta da Bellachioma a Sestri Ponente. E la Cdl ha già annunciato con non userà politicamente quelle telefonate, onde evitare che a qualcuno, a sinistra, salti in mente di usare i gravissimi reati della fairy band berlusconiana per rinfacciare finalmente la questione morale alla destra.

Persino Veltroni perde la testa e vaneggia di “crisi del sistema democratico”: ma non per il contagio del conflitto d’interessi che infetta il maggior partito della sinistra, bensì perché è finalmente affiorato alla luce del sole. Come se il problema non fosse ciò che i suoi compagni dicevano al telefono con personaggi ben poco raccomandabili, nel pieno di un’Opa e di una contro-Opa, in spregio alle più elementari regole del libero mercato; ma il fatto che finalmente tutto ciò stia venendo fuori. Hai la faccia sporca? Invece di andarti a lavare, dai la colpa allo specchio che la riflette. E tenti di romperlo, lo specchio, per non vedere mai più la faccia sporca. Che schifo.

Marco Travaglio

12 giugno 2007

mercoledì, 06 settembre 2006 MARE MONSTRUM

Chi ha la fortuna di trovarsi in vacanza in Liguria farà bene a munirsi di macchina fotografica per immortalarne i paesaggi marini (ce ne sono ancora tanti, bellissimi). Perché potrebbe essere l'ultimo anno che li può ammirare.

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Come scrivono Marco Preve e Ferruccio Sansa in un'inquietante inchiesta sul numero 5 di MicroMega, è alle viste un’impressionante colata di cemento armato che, per dimensioni, fa temere una «rapallizzazione-bis». E pone un problema serio sulla sensibilità ambientalista del centrosinistra, al governo in Liguria come nella stragrande maggioranza delle regioni (è dell'altroieri la denuncia di Asor Rosa contro un ecomostro in Val d’Orcia). Si parla, in Liguria, di ben 15 progetti in via di approvazione o di realizzazione per altrettanti porticcioli turistici da 9.807 posti-barca che, oltre a occupare buona parte di quel che resta della costa, porteranno con sé 37.882 mq. di edilizia residenziale, 51.601 di uffici e negozi, 19.122 di alberghi, 33.918 di artigianato e 11.007 posti auto. Comuni interessati, fra gli altri: Ventimiglia, Bordighera, Diano Marina, Alassio, Loano, Savona, Albissola, Varazze, Arenzano, Santa Margherita, Portovenere. Poi c'è Imperia, piccola patria di Claudio Scajola, detto «Sciaboletta». Qui - scrivono Sansa e Preve - il governatore Claudio Burlando e l'allora ministro Scajola hanno festosamente posato la prima pietra del nuovo porto: un'opera faraonica da 90 milioni di euro, con 1.392 posti barca, 1.887 posti auto, 40 mila metri cubi di edifici con 100 appartamenti, e poi garage, commercio, officine e si parla persino di un campo da golf vista mare. Insieme ai due Claudii, c'erano i rappresentanti della società costruttrice: l'Acquamare di Gaetano, Francesco e Ignazio Bellavista Caltagirone. Quest'ultimo è indagato nell'inchiesta Antonveneta, in cui si parla anche dell'immobiliarista Luigi Zunino, uno dei furbetti al seguito di Ricucci. Zunino è impegnato nella costruzione di case extralusso sulla costa di Alassio. Gianpiero Fiorani s'era interessato alla mega-speculazione sull'ex Italcementi di Imperia, tanto da sorvolarla sul suo elicottero con Scajola e Caltagirone: ha poi raccontato ai giudici i suoi rapporti intimi col costruttore pluriindagato Marcellino Gavio, re delle autostrade; col senatore forzista ligure Luigi Grillo; e con la banca Carige, nel cui Cda siedono il fratello di Scajola e il figlio dell'eurodeputato Udc Vito Bonsignore. Grillo e Bonsignore sono anch'essi indagati per Antonveneta. Gavio, attivissimo in Liguria, ha rilevato dal fallimento lo stabilimento chimico della Ferrania in Valbormida, dove ora dovrebbe sorgere una bella centrale a carbone. Poi c'è il caso di Savona, che sarà presto ingentilita da tre grattacieli: una torre e un «crescent» progettati dall'architetto catalano Ricardo Botili e il «faro ricurvo» ideato da Massimiliano Fuksas. Una banana luminosa alta 120 metri a strapiombo sul mare, che sta dilaniando i Ds, favorevoli, e Rifondazione, fieramente contraria col suo assessore regionale all'Ambiente Franco Zunino.Ce n'è abbastanza per prevedere che, alla fine dei lavori, il paesaggio ligure ne uscirà, se non sfigurato, ampiamente modificato. E c'era da immaginare che l'inchiesta di Micromega, uscita tre mesi fa, suscitasse dibattiti, polemiche e smentite dalla giunta regionale Niente di tutto questo. Silenzio di tomba. Nessuna smentita nemmeno sulla presunta «pax burlandiana», cioè sul ruolo decisivo di molti esponenti del sinistra ligure e sugli strani trasversalismi fra comuni di destra e di sinistra interessati ai progetti. Basti pensare al caso di Rapallo, che rischia di essere «ri-rapallizzata» con operazioni immobiliari nello splendido borgo di San Michele di Pagana, tra i pochi scampati alla cementificazione selvaggia del dopoguerra. Secondo Massimo Calandri e Giulia Guerri di Repubblica, che parlano anche di un'inchiesta della Procura di

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Chiavari, il sindaco di destra Ezio Armando Capurro, detto «il Berlusconi del Tigullio», ha entrambi i figli nell'immobiliare che ha acquistato le aree su cui sta per sorgere un hotel a 4 stelle (ma lui minimizza: «È solo una villetta»), sebbene lo stesso Comune le consideri inedificabili. Forse gli amministratori regionali erano troppo impegnati per leggere la lunga inchiesta e per rispondere. Per questo l'abbiamo riassunta: nella speranza che qualcuno ci dica che è stato tutto un brutto sogno, e che non è vero niente. ULIWOOD PARTY

MARCO TRAVAGLIO

“l’Unità” 30 agosto 2006

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Giorgio la malfaSTRATEGIA DELLA PENSIONE

Anche oggi trascureremo le questioni planetarie, come l’epocale distinzione tra sinistra riformista e sinistra radicale, per occuparci di un problemuccio che, ce ne rendiamo ben conto, è del tutto marginale: la corruzione. La Corte dei conti la indica anche quest’anno come il cancro che divora la politica e la pubblica amministrazione, ma l’allarme dei giudici contabili ha avuto, sui media italioti, la stessa audience che riscuote l’annuale allarme dell’Onu sull’imminente morte del pianeta terra con la tracimazione, fra l’altro, del Mediterraneo (alla peggio ci giochiamo mezza dozzina di regioni, che sarà mai). La corruzione c’entra con l’evasione fiscale, di cui è compagna inseparabile. C’entra persino con le pensioni, visto che l’economia sommersa provoca evasione contributiva e alimenta il buco dell’Inps costringendo i governi a tagliare continuamente la previdenza a chi ne ha diritto. Guarda caso proprio oggi l’Espresso pubblica l’elenco degli ex onorevoli che percepiscono dallo Stato, cioè da noi, pensioni da favola anche se son rimasti in Parlamento mezza legislatura: a lorsignori bastano due anni e mezzo per intascare più di un normale cittadino dopo 40 anni di lavoro. E la loro pensione è cumulabile con qualunque altro emolumento, visto che non c’è ex parlamentare che non si accomodi subito su almeno un‘altra poltrona, perlopiù a spese nostre. Ma il bello deve ancora venire: nella lista delle onorevoli pensioni d’oro spiccano quelle dei disonorevoli protagonisti di Tangentopoli. Limitandoci ai condannati, abbiamo Altissimo, Di Donato, Pillitteri, La Malfa, La Ganga, De Lorenzo, Pomicino, Martelli, Tognoli. Senza dimenticare i falsi testimoni Carra e Formica, e gli avanzi delle Tangentopoli primigenie: Pietro Longo, Franco Nicolazzi e Mario Tanassi. Completano il quadro Vittorio Sgarbi, pregiudicato per truffa allo Stato, e Toni Negri, che lo Stato non lo derubava, ma lo voleva addirittura sovvertire con la violenza: oggi, da quello stesso Stato, non disdegna una pensioncina, nella migliore tradizione nazionale. Se non fossimo in Italia e questi discorsi non venissero immediatamente silenziati con la parolina magica del “giustizialismo”, si potrebbe domandare che razza di Stato è quello che paga profumate pensioni a quanti l’han depredato per anni e decenni. La domanda è tutt’altro che peregrina se si dà un’occhiata alla stampa estera. La Washington Post informa che prima il Senato degli Stati Uniti, e subito dopo la Camera dei rappresentanti, all’unanimità, hanno deciso di negare la pensione ai parlamentari condannati per corruzione, spergiuro e altri reati contro la pubblica amministrazione. Avete capito bene: all’unanimità. Anzi, qualcuno ha protestato perché non è stata inclusa la frode fiscale. «I politici corrotti - ha spiegato il promotore della legge, Nancy Boyda - meritano condanne alla prigione, non pensioni pagate dal contribuente». L’unanimità è agevolata dal fatto che, negli Usa, chiunque sia sospettato di corruzione viene cacciato dal Parlamento: per questo, in tema di corruzione, non passano mai leggi salva-ladri, ma sempre anti-ladri. La solidarietà di partito non fa mai premio sul principio di legalità e sulla questione morale: il partito repubblicano, infatti, ha votato in massa per questa legge sebbene alcuni (ormai ex) deputati repubblicani siano stati condannati per

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corruzione. Anzi, proprio per questo: per prenderne le distanze e riacquistare credibilità agli occhi dei cittadini. In Italia, com’è noto, una mano (sporca) lava l’altra (ancora tre giorni fa il Senato ha votato a gran maggioranza l’insindacabilità del senatore-diffamatore Jannuzzi, mandando a monte una denuncia di Gian Carlo Caselli e del pool di Palermo, mentre Jannuzzi veniva condannato a 1 anno e 4 mesi definitivi dalla Cassazione per aver scritto un sacco di balle sul caso Andreotti nel libro «Il processo del secolo»). Così la corruzione diventa il passepartout per la carriera politica: se in America chi ruba perde il seggio, dunque lo stipendio, ma pure la reputazione, e infine la pensione, in Italia si guadagna un posto in prima fila nelle liste bloccate, con garanzia di essere eletto e riconfermato la volta successiva. Poi, che lo scoprano o che la faccia franca, che resti in Parlamento o che ne esca, ha il vitalizio assicurato. Anche se momentaneamente è agli arresti. Se poi muore, lascia il seggio in eredità ai figli. E, se tutto va bene, gli fanno il monumento. Se va male, gli intestano una via.

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIO l'Unità 3 febbraio 2007

mercoledì, 10 gennaio 2007 QUELLE CINQUE LEGGI DA CANCELLAREQuesto lungo pezzo, un classico da archiviare, è stato pubblicato a puntate sull’Unità. Ho preferito postarlo nella sua interezza, piuttosto che dividerlo in due parti. Si gusta meglio. E ci si incazza di più. Civilmente, intendiamoci.Il contatore ha sfondato oggi il muro dei 200mila contatti complessivi, mentre quelli quotidiani viaggiano, da alcuni giorni, attorno a 700. Come non mai queste cifre, oltre ad essere eloquenti, costituiscono un ulteriore stimolo a proseguire nell’opera di diffusione del “verbo” travagliesco. E, naturalmente, ringrazio tutti coloro che mi seguono e che hanno reso possibile il raggiungimento di questo traguardo.

 

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In attesa di conoscere i piani di battaglia unionisti e riformisti sulla "fase 2", o "1 bis" che dir si voglia, ci permettiamo di rammentare, in vista del conclave di Caserta, le promesse che la maggioranza si era impegnata a mantenere subito, cioè nella "fase 1": abrogare le leggi vergogna sulla giustizia che Romano Prodi, il 17 marzo 2006, annunciò di voler «cancellare, anzi buttare completamente perché non sono giuste proprio in toto». Fra le tante varate nel quinquennio berlusconiano, le più devastanti sono cinque: falso in bilancio, Cirami, ex Cirielli, Pecorella e ordinamento giudiziario Castelli. Leggi che qualcuno definisce ad personam, ma che continuano a miracolare migliaia di "personas", perlopiù colpevoli, con danni incalcolabili per la Giustizia, lo Stato, le vittime dei reati, oltre all'etica pubblica e all'immagine internazionale dell'Italia. FALSO IN BILANCIO. La prima legge vergogna viene varata in tutta fretta tra il settembre 2001 (legge delega) e il febbraio 2002 (decreti delegati). Relatori i forzisti Giorgio La Malfa (pregiudicato) e l'on. avv. Gaetano Pecorella (difensore del premier imputato di falso in bilancio e presidente della commissione Giustizia). L'altro on. avv., Niccolò Ghedini, dà una mano. In poche settimane viene riscritto l'articolo 2621 del Codice civile sui reati societari, garantendo l'impunità a chi li commette. Per l'Economist è "una legge di cui si vergognerebbero persino gli elettori di una repubblica delle banane". Tre le novità: a) Il falso in bilancio, da reato "di pericolo" (per i soci, ma soprattutto per il mercato, i creditori, i fornitori, gli investitori e i concorrenti), diventa un reato "di danno" (se non lede i soci o i creditori, non è più reato: ma chi falsifica i bilanci per pagare tangenti lo fa per avvantaggiarli, i soci, conquistando illegalmente nuove fette di mercato). E le pene massime, già lievi, scendono ancora: per le società quotate, da 5 a 4 anni, e per le non quotate addirittura a 3. Niente più intercettazioni né custodia cautelare. Prescrizione ancor più rapida di prima (da 15 a 7 anni e mezzo per le quotate e 4 e mezzo per le non quotate). b) Per le società non quotate il falso in bilancio sarà perseguibile solo a querela di parte (azionisti o creditori). Per le quotate, invece, anche d'ufficio. Così paradossalmente, se il reato danneggia i soci (ipotesi più grave), sarà perseguibile soltanto se qualcuno lo denuncia (il che non avviene mai); se invece non cagiona danni (ipotesi meno grave), la magistratura se ne potrà occupare sempre, anche se nessuno l'ha investita (sia pur con pene irrisorie e prescrizione fulminea). In ogni caso, fra sconti e attenuanti varie, ogni pena detentiva sarà sostituibile con una piccola multa. "Stabilire la perseguibilità del falso in bilancio a querela dell'azionista - ironizza Davigo - è come stabilire la perseguibilità del furto a querela del ladro". c) Il falso non è più punibile se non supera certe "soglie quantitative". Chi occulta fino al 5% del risultato d'esercizio (calcolato sull'utile prima delle imposte), al 10% delle valutazioni e all'1% del patrimonio netto non rischia più nulla. Così, per dire, l'Enel potrà stornare ogni anno 191 milioni di euro, Pirelli 241, Eni 408, San Paolo-Imi 105, Fiat 79, Fininvest 41, senza render conto a nessuno.

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«È la modica quantità di falso - scherza il pm Francesco Greco - per uso personale, come per la droga…». Grazie alla riforma che porta il suo nome, Berlusconi ottiene la prescrizione nel processo per i fondi neri nel passaggio di Lentini al Milan (10 miliardi di lire versati in nero al Torino) e in quello per la maximazzetta di 23 miliardi a Craxi. In fumo anche il dibattimento per il falso bilancio consolidato Fininvest, mentre presto potrebbe fare la stessa fine anche quello sui diritti Mediaset. Quanto al processo All Iberian-2, per 1500 miliardi di lire di fondi neri accantonati all'estero, il Cavaliere viene assolto "perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato": cioè perché l'imputato lo ha, nel frattempo, depenalizzato. Anche le condanne definitive già pronunciate vengono annullate: come quella di Romiti per i fondi neri Fiat e quella patteggiata da De Benedetti per un piccolo falso in bilancio Olivetti. Altri big della finanza vengono miracolati fra i tanti, l'ex finanziere rampante Giancarlo Parretti, l'ex presidente della Popolare di Milano Piero Schlesinger, il re delle carni Luigi Cremonini. Il risultato è che da quattro anni procure e tribunali, per il falso in bilancio, non fanno che archiviare le denunce per prescrizione ancor prima di chiudere indagini e processi. L'Italia è l'unico paese occidentale dove i trucchi contabili (puniti negli Usa fino a 25 anni di carcere) sono prassi comune, con le gravi conseguenze per la credibilità dell'economia italiana e per i mancati investimenti stranieri che un grande economista come Paolo Sylos Labini denunciò fino all'ultimo giorno di vita. Inascoltato. LEGGE CIRAMI. Fallite le ricusazioni dei loro giudici nei processi Imi-Sir/Mondadori e Sme-Ariosto, nel 2002 Berlusconi e Previti chiedono di traslocare a Brescia perchè, a Milano, tutte 400 i magistrati sarebbero prevenuti. Per agevolare la rimessione dei processi, l'apposito senatore Melchiorre Cirami (Udc) presenta un ddl che reintroduce la formula vaghissima del "legittimo sospetto", che dopo un'estate di girotondi viene approvato definitivamente il 5 novembre. Ma il 29 gennaio 2003 la Cassazione stabilisce che a Milano il clima è sereno e i giudici sono imparziali: i processi a Berlusconi & C. non traslocano. Intanto però la Cirami continua a far danni incalcolabili in centinaia di processi: basta infatti che si alzi un imputato a chiedere la rimessione ad altra sede, perché il dibattimento si blocchi fino a quando (mesi dopo) la Cassazione non avrà esaminato il ricorso. Finora, su decine di casi, nessuna istanza è mai stata accolta: ma è l'ennesimo marchingegno per allungare i tempi, agevolando la prescrizione. Fra gl'imputati che si sono appellati alla Cirami oltre a decine di mafiosi, camorristi, 'ndranghetisti, omicidi, e a un narcotrafficante internazionale convinto di essere perseguitato dai giudici di Palermo perché "troppo veloci", ci sono i 26 no global alla sbarra a Genova per le devastazioni e i saccheggi del G8; la commercialista milanese Goccini accusata di avere sottratto 70 miliardi; il serial killer Donato Bilancia; e, last but not least, Annamaria Franzoni, che alla vigilia della sentenza d'appello a Torino per il delitto di Cogne ha scoperto di preferire i giudici di Milano, amati anche dal suo avvocato Taormina. Processo sospeso in attesa della Suprema Corte. O di una riforma che blocchi questi trucchetti da Azzeccagarbugli. LEGGE EX CIRIELLI. Sistemati, almeno per sé, i processi "toghe sporche", Berlusconi deve accontentare Previti. E, per giunta, gli tocca pure badare a un

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altro processo che lo riguarda personalmente: quello sui diritti tv acquistati da Mediaset col contorno - secondo l'accusa - di fondi neri (falso in bilancio, appropriazione indebita, frode fiscale, corruzione in atti giudiziari del testimone David Mills). A risolvere questi intoppi provvede la legge taglia-prescrizione, detta prima Cirielli e poi ex Cirielli, perché sconfessata dal suo stesso proponente di An, e approvata il 29 novembre 2005. Nata in origine per inasprire le pene contro i recidivi, la legge è stata stravolta da Forza Italia per falcidiare i termini di prescrizione agli incensurati e mandare così in fumo le condanne di Previti alla vigilia delle sentenze definitive. In extremis è stata emendata su richiesta dell'Udc (e del Quirinale) per evitarne gli effetti più devastanti: la Cassazione prevede la morte dell'81% dei processi per corruzione, del 73% di quelli per truffe all'Ue, del 68% di quelli per il falso e calunnia, del 64% di quelli per usura. Così la prescrizione abbreviata viene limitata ai processi non ancora giunti al dibattimento. Compresa dunque l'inchiesta sui diritti Mediaset. Ma esclusi i processi Imi-Sir e Sme-Ariosto (che vedono Previti & C. condannati due volte in appello). Previti se ne giova in un altro processo per corruzione giudiziaria, aperto a Roma per una presunta mazzetta a un perito del Tribunale: tutto prescritto prim'ancora di entrare in aula. Sempre grazie all'ex Cirielli, Previti eviterà il carcere (dopo soli 5 giorni a Rebibbia) per la condanna definitiva di Imi-Sir: un codicillo concede gli arresti domiciliari agli ultrasettantenni. E Cesare, guarda un po', ha appena compiuto 70 anni. Un bel regalo di compleanno. L'emendamento "migliorativo" non basta a evitare l'"amnistia mascherata", come la definisce il presidente della Cassazione Nicola Marvulli. Lo stesso ministro Castelli è costretto ad ammettere nel gennaio 2006, dopo che è stata approvata, che essa manderà in prescrizione 35 mila procedimenti in più dei 100 mila del 2005. Non può ancora sapere che, un anno dopo, la Corte costituzionale, con una sentenza molto controversa votata a maggioranza, estenderà la prescrizione-lampo ai processi di primo grado, aprendo il varco a ulteriori ricorsi per allargarla a quelli in appello e in Cassazione. Intanto gli effetti dell'ennesimo salvaladri si fanno subito sentire. Sia per i destinatari principali (Berlusconi ha visto cadere per prescrizione, al processo Mediaset, gran parte delle appropriazioni indebite, delle frodi fiscali e dei falsi in bilancio contestati; e il nuovo processo a Previti e Squillante per l'affaire Sme-Ariosto, disposto dalla Cassazione a Perugia dopo l'annullamento delle condanne a 5 anni per la presunta "incompetenza" milanese, nasce morto). Sia per migliaia di altri imputati. Fra gli altri: 37 esattori della Cassa di Risparmio di Bologna, accusati di falsi verbali, di irreperibilità e di pignoramento; 8 islamici, tra cui l'imam di viale Jenner a Milano Abu Imad, sospettati di associazione per delinquere per attività terroristiche; un palermitano indiziato per atti di libidine violenta sulla figlia di 10 anni; i responsabili del crollo della scuola elementare di San Giuliano di Puglia (27 bambini e una maestra morti); 50 fra imprenditori, funzionari e dirigenti di Asl e circoscrizioni del Lazio accusati di tangenti in cambio di licenze; una decina di presunti complici di Sergio Cragnotti nello scandalo Cirio; un carabiniere del Ros accusato di traffico di droga a Milano; il presidente della Lazio Claudio Lotito e un'altra ventina tra imprenditori, amministratori di società e commercialisti imputati a Roma di associazione a delinquere e false fatture; l'ex segretario di Totò Cuffaro, accusato a Palermo

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di corruzione; alcuni medici e fornitori di ospedali torinesi coinvolti nello scandalo della valvole cardiache difettose; 56 imputati nel processo Napoletano per centinaia di pensioni di invalidità a persone sane; l'ex ministro Girolamo Sirchia per alcune delle accuse contestategli a Milano; 21 politici e funzionari imputati di tangenti alla Regione Sicilia per l'acquisto di apparecchiature fotovoltaiche per l'agricoltura; 37 protagonisti della truffa riminese da 83 miliardi ai danni di centinaia di risparmiatori, fra cui vip come Baggio e Costacurta, con azioni di una fantomatica miniera di marmo in Perù; gli accusati di tangenti da 40 miliardi ai vertici dell'autostrada Messina-Catania; molti dei 56 sospettati a Palermo di una mega-truffa alle assicurazioni. Ma la bomba a orologeria della prescrizione-lampo sta decimando anche le denunce per usura (meno 40% l'anno) e per le violenze sessuali subìte da migliaia di donne da bambine: troppo brevi i termini di prescrizione per sperare che i colpevoli vengano puniti. LEGGE PECORELLA. Salvatosi in primo grado, grazie alla prescrizione, dall'accusa di aver corrotto il giudice Squillante, Berlusconi deve affrontare il giudizio di appello: lì i giudici potrebbero accogliere il ricorso dei pm, negandogli le attenuanti generiche e condannandolo. Per scongiurare il pericolo, scende di nuovo in campo l'on. avv. Pecorella con una legge semplice semplice: l'appello, in caso di assoluzione o prescrizione in primo grado, è abolito. Il pm non potrà più ricorrere contro le sentenze di proscioglimento. Potranno invece continuare a farlo gli avvocati difensori contro le condanne. Con tanti saluti al principio di parità delle parti (art. 111 della Costituzione) e ai diritti delle parti lese. Senza contare che la Cassazione si trasforma da giudice di legittimità a giudice di merito. La legge è approvata il 12 gennaio 2006, a venti giorni dallo scioglimento delle Camere. Ma Ciampi la respinge perchè incostituzionale. Allora Berlusconi proroga la legislatura di quel tanto che basta a ripresentare la legge del suo avvocato pressoché identica, così il capo dello Stato non la può più bocciare. Marvulli parla di "legge devastante che distrugge la funzione della Cassazione". L'Anm prevede "effetti sconvolgenti" sul giudizio di Cassazione, con un aumento dei ricorsi "strumentali e dilatori" che "inciderà sulla durata dei procedimenti". Primo risultato della legge: l'appello Sme a carico del premier evapora. Così come un'infinità di altri processi di secondo grado, nati dai ricorsi delle Procure o delle parti civili contro assoluzioni o prescrizioni ritenute ingiuste. Si salvano così da possibili sorprese negative, fra gli altri: Marcello Dell'Utri, assolto in primo grado nel processo palermitano per calunnia ai danni di alcuni pentiti (per prendere tempo in attesa della Pecorella, Dell'Utri aveva anche profittato della Cirami chiedendo la rimessione del processo lontano da Palermo); Calogero Mannino dell'Udc, imputato di mafia a Palermo; 3 ex dirigenti della Breda imputati a Firenze di omicidio colposo per la morte di 17 lavoratori esposti all'amianto; 5 islamici accusati a Milano di terrorismo internazionale; 4 agenti penitenziari imputati per aver picchiato un detenuto; 39 fra controllori di volo e altri dipendenti dell'aeroporto di Linate accusati di truffa, perché facevano shopping o giocavano a pallone nelle ore di servizio; 25 dirigenti della Bipop Carire coinvolti nel crac della banca e imputati a Brescia; 17 politici e imprenditori coinvolti nella Tangentopoli di Varese, due brigatisti rossi coinvolti

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nel delitto D'Antona; Roberto Formigoni nel processo sulla discarica di Cerro; 36 albanesi sospettati a Genova di sfruttamento della prostituzione e tentato omicidio; un tunisino arrestato per legami con Al Qaeda; e così via. ORDINAMENTO GIUDIZIARIO. Nel dicembre 2004 il presidente Ciampi rinvia alle Camere, perché "palesemente incostituzionale" in quattro punti, la riforma dell'ordinamento giudiziario voluta dalla Cdl e firmata dal ministro Castelli. Le norme, ripresentate con qualche ritocco, vengono riapprovate definitivamente nel luglio 2005. La Castelli rispolvera vecchie ricette degli anni più bui della giustizia italiana: una piramide giudiziaria egemonizzata dalla Cassazione che domina la selezione dei magistrati; carriera selettiva che imbriglia i giudici in un'intricata rete di concorsi formalistici; svilimento delle competenze del Csm, garante per Costituzione dell'indipendenza della magistratura; ristrutturazione verticistica e gerarchica delle Procure con il capo dominus assoluto dell'azione penale e il "potere diffuso" dei sostituti ridotto al nulla; separazione surrettizia delle carriere di pm e giudici ed "esami psico-attitudinali" per i neomagistrati, come da "Piano di rinascita democratica" della P2; divieto per i pm di spiegare le loro inchieste alla stampa; obbligatorietà dell'azione disciplinare su qualunque esposto, anche il più infondato. Trattandosi di una legge delega, i cui decreti attuativi entrano in vigore dal luglio 2006, l'Unione ha tutto il tempo di smantellarla, come aveva promesso prima del voto. Invece il ministro Mastella, previa trattativa con la Cdl, si accorda per qualche ritocco qua e là, poi la maggioranza approva 9 dei 10 decreti delegati (senza i voti del centrodestra che, dopo aver imposto condizioni giugulatorie, alla fine si tira indietro). Il decimo - separazione delle carriere - è sospeso e rinviato al luglio 2007. Prodi s'era pure impegnato a cancellare il famigerato emendamento Bobbio del 2005 che, per impedire a Gian Carlo Caselli di concorrere alla Procura nazionale antimafia, vieta ai magistrati con più di 66 anni di candidarsi a un incarico direttivo. Così 600 toghe esperte, comprese fra i 66 e i 75 anni (l'età da pensione), non possono più avanzare in carriera. Una follia che diventa beffa, se si pensa che un'altra legge ad personam consente a Corrado Carnevale, a 76 anni, di recuperare gli anni perduti durante il processo per mafia, e lo reintegra in Cassazione fino a 83 anni. Un capolavoro.  

MARCO TRAVAGLIO

l'Unità 7 e 8 gennaio 2007  

lunedì, 16 ottobre 2006 AMNESY INTERNATIONAL

La legge Gentiloni sulle tv rischia di ottenere la più vasta maggioranza mai totalizzata nella storia del Parlamento italiano. Da quando Bellachioma entrò in politica con tutte le sue tv e tutti i suoi giornali, infatti, alcuni fra i suoi più

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fedeli alleati e amici hanno avuto occasione di pronunciarsi sulla faccenda, e in termini così netti e perentori da far impallidire il brodino gentiloniano. Breve riepilogo per le memorie corte. Il presidente emerito Francesco Cossiga non ha dubbi: «II nodo della questione è l'ineleggibilità del Cavaliere a cariche politiche. Non parliamo della quantità di voti ottenuti, perché allora dovrebbero essere valutati positivamente anche Hitler e Peròn» (7-8-99). Il sen. Marcello Pera, divinamente ispirato, sentenzia: «Berlusconi è a metà strada tra un cabarettista azzimato e un venditore televisivo di stoviglie, una roba che avrebbe ispirato e angosciato il povero Fellini» (7 febbraio 1994). «Nella liberaldemocrazia nessun potere, per quanto forte - finanziario, editoriale, industriale, imprenditoriale - può vivere senza un adeguato contropotere. Onorevole Berlusconi, esiste un problema di rigidi paletti, anche nei suoi confronti; una separazione netta di interessi, di attività. Perché non vogliamo vivere mai in una democrazia in cui il presidente del Consiglio sia posto nella condizione, obiettivamente difficile e quindi fuori delle regole, di dover scegliere, o decidere, fra interessi privati suoi, legittimi interessi privati suoi, e interessi dei cittadini. Le chiedo un’indicazione concreta, una dichiarazione esplicita e poi, successivamente, dei fatti concreti saranno quelli sulla base dei quali lei sarà giudicato» (10-4-94). Il prof. on. Rocco Buttiglione non ha dubbi: «Se uno ha tre reti private e tre pubbliche è come se avesse comprato la piazza e messo un recinto» (29-7-94). «Le elezioni sarebbero un imbroglio se condotte con il potere televisivo nelle mani di una parte sola. Mussolini cacciava dalla piazza gli oppositori con il manganello. Oggi la piazza è la tv: si possono ottenere gli stessi risultati con la televisione» (5-1-95). «Fossi al posto suo venderei tutto per comprare Bot poliennali» (9-3-95).Giorgio La Malfa tuona sarcastico contro la videocrazia: «Noi le nostre bandiere non le abbiamo certo comprate alla Standa!» (19-4-98).Umberto Bossi è leggermente più drastico: «Forza Italia è una banda di dieci persone che controllano il partito nascoste dietro paraventi, non rispettano la Costituzione, svuotano il Parlamento, vogliono un esecutivo senza controlli e usano le televisioni, che sono strumenti politici messi insieme da Berlusconi quando era nella P2, secondo il progetto Gelli. Hanno usato le televisioni come un randello per fare e disfare. Su questa banda antidemocratica è bene che qualche magistrato indaghi per ricostituzione del partito fascista» (19-1-95). «Le tv Fininvest devono essere oscurate come strumento per la ricostituzione del Partito Fascista» (12-2-95).E Roberto Calderoli, di rincalzo: «Berlusconi dice che la par condicio in tv gli dà l'orticaria? È evidente che i princìpi della democrazia gli siano insopportabili, al punto da provocargli uno shock allergico. Sarebbe auspicabile, e lo dico da medico quale sono, che il dottor Berlusconi si facesse visitare da un buon internista. Sono a sua disposizione per consigliargliene qualcuno, anche gratuitamente» (19 febbraio 1996). «Craxi è stato un affezionato fornitore della Fininvest, pagato profumatamente per servigi che tutti ci aspettiamo di conoscere nei dettagli. Infatti la vera domanda è: che cosa ha dato Craxi a Berlusconi in cambio di 15 miliardi di lire che gli ha versato la Fininvest? Si

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sgretola la maschera tv di Berlusconi e appare l'inconfondibile ghigna dell'uomo di Hammamet» (31-3-96). «Mediaset è l'anima commerciale di un partito che è realtà virtuale. La Lega la denuncerà e potrà ricavare una congrua entrata che potremo usare per ricoprire i muri della Lombardia con manifesti che riproducano la prima pagina de La Padania dove ci chiedevamo se Berlusconi è un mafioso o no» (27-8-98).Pare dunque che, per la pur blanda legge Gentiloni sulle tv, i giochi siano fatti. A meno che i leader citati abbiano nel frattempo cambiato idea. Cosa che però, conoscendone l'alta statura ideale e morale, tenderemmo senz'altro a escludere. 

ULIWOOD PARTYMARCO TRAVAGLIOl’Unità 14 ottobre 2006

sabato, 13 maggio 2006 COGLION DAY

13 aprile 2006Prima di sciogliersi nell’acido, questa rubrica intende tributare tutta la solidarietà di cui è capace a Bellachioma. Troppo impegnato a cercare coglioni e complotti nel campo avversario, non s‘è accorto dei coglioni e dei complotti tutt’intorno a lui. Un autentico complotto dei coglioni che gli è costato la sconfitta e ora lo costringe a mendicare un governissimo per salvare un‘altra volta la sua roba dalle mire dei terribili comunisti. Il fattore C. Che la legge elettorale fosse una porcata l’aveva riconosciuto, col giusto orgoglio, il suo autore Roberto Calderoli. Solo che l’odontoiatra di Bergamo, l’uomo che ha riattizzato i fuochi di guerra fra l’Italia e la Libia a 96 anni dalla campagna di Tripoli, pensava di aver fatto una porcata contro la sinistra. Non poteva immaginare di averla fatta contro la destra, cioè contro se stesso. Un’autotrappola degna del Wile Coyote. Grazie al Wile Coyone padano, l’Unione perde dell’1,3 per cento al Senato, ma pareggia i senatori e, quel che è peggio, con lo 0,07 per cento di vantaggio alla Camera (25 mila voti: poco meno dei pazienti di Calderoli) incassa un favoloso premio di maggioranza di 70 deputati (uno ogni 350 voti). Un vero genio. Vista la sua passione per le t-shirt, un gruppo di giovani ulivisti gliene ha preparata una nuova, rigorosamente verde: al posto di Maometto c’è la sua faccia, con la scritta: «Sono un coglione». Il fattore T. Chissà quanto ha speso di aerei, negli ultimi dieci anni, il camerata Mirko Tremaglia. Svolazzava leggiadro fra Little ltaly e la Terra del Fuoco, da Broccolino alle foreste aborigene, senza dimenticare il decisivo collegio dell’Antartide, a coccolarsi gl’italiani all’estero. E quando finalmente ottenne la legge per farli votare, si sciolse in lacrime come un bambino. Sembravano tutti con lui gl’italiani all’estero. Lo baciavano, lo festeggiavano, lo pavesavano di bandiere tricolori, gli offrivano gli spaghetti al sugo e le torte della mamma. Poi però, appena ripartiva, leggevano i giornali stranieri, non avevano la fortuna di vedere “Porta a Porta” e “Otto e mezzo “, e venivano spesso presi in giro nei rispettivi paesi per il fatto di essere rappresentati da quella barzelletta vivente di Bellachioma. insomma, si vergognavano. Così, appena ricevuta la scheda per posta, han provveduto a liberarsene votando in massa Unione. Intanto il vecchio ragazzo di Salò, ignaro di tutto, candidava

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financo Rita Pavone e giurava al Caimòna: «Su 6 seggi al Senato degl’italiani all’estero, 4 ce li prendiamo noi» (La Stampa, 9-4 -2006). Si sa poi com‘è andata: 5 a Prodi, 1 alla Cdl. Grazie di cuore, camerata. Il fattore Psdi. Bellachioma batteva gli studi televisivi di tutt’Italia, palmo a palmo, giorno e notte, senza un attimo di respiro. Ma chi gli stava intorno dormiva. Compresi gli splendidi Legionari Azzurri di Previti e i Dell’Utri Boys. Nessuno s’è accorto dell’esistenza di un redivivo Partito socialdemocratico. E dire che Lui si era tanto raccomandato: «Non si butta via niente». Tant’è che aveva reclutato la nuova Dc di Gianfranco Rotondi, il nuovo Psi di Stefania Craxi, da non confondere con il nuovo Psi di Gianni De Michelis, il nuovo Pli di Altissimo, il nuovo Pri di La Malfa, il nuovo Psdi di Luigi Preti. Aveva messo in piedi un Pentapartito Bonsai, una specie di Minitalia dei Caf allargato per l’occasione ai neo- fascisti e ai neonazisti. Purtroppo il ricordo dei bei tempi di Tangentopoli non ha granché appassionato gli elettori, sventuratamente insensibili anche al richiamo dei saluti romani, delle svastiche e delle croci runiche. Intanto, zitto zitto, s’avanzava il secondo Psdi-bis, con il suo segretario nazionale, l’ottuagenario Giorgio Carta, già al fianco dei mitici Tanassi e Nicolazzi. Il quale, ingiustamente ignorato dalla Casa delle Libertà, s’è schierato col centrosinistra e gli ha portato in dote qualche migliaio di preziosi voti. Fortebraccio, se fosse qui, sarebbe orgoglioso dei compagni socialdemocratici. Il fattore P. Si chiama Giorgio Panto, è di Treviso, porta gli occhiali con le alette ai lati e la dolcevita come “il Perego “ immortale personaggio di Antonio Albanese. Ma, diversamente dal Perego, non produce Eternit: Costruisce infissi per porte e finestre e possiede tre televisioni. Quelli della Cdl, spiritosi, han tentato di oscurarlo per conflitto d’interessi. Lui ha resistito. Ha presentato la sua lista, Progetto NordEst, contro destra e sinistra: 90 mila voti. Ne bastava un terzo, al Caimona. Pazienza. Fattore M. In Sicilia, almeno lì, non s’è perso un voto. Nell’ultimo casolare di Binnu Provenzano, la polizia ha trovato i volantini elettorali di Totò Cuffaro. Ecco perché hanno atteso martedì, per arrestarlo: per dargli il tempo di votare.MARCO TRAVAGLIO – “l’Unità” 

giovedì, 27 aprile 2006 AMNESY INTERNATIONALA leggere le cronache parlamentari della primavera 1993 viene la labirintite, Si perde il senso dell‘orientamento. Il 27 marzo di 12 anni fa la Procura di Palermo chiedeva l’autorizzazione a procedere contro Giulio Andreotti per mafia. E chi era, oltre agli andreottiani, il deputato Dc più ostile a concederla? Franco Marini. «Le accuse della Procura di Palermo -- dichiarava Marini il 16 aprile ’93 - - sono incredibili. La gente è sconvolta, no all‘autorizzazione a procedere». Poi fu scavalcato dallo stesso Andreotti che chiese lui stesso il via libera all’indagine sul suo conto. Oggi il senatore prescritto si schiera col centrodestra contro Marini per la poltrona più alta del Senato. Lo voterà tutta la Cdl , eccezion fatta per la Lega Nord : uno dei pochi partiti coerenti con quel che sostenevano allora. Al Consiglio federale della Lega, al Lido di Venezia, andavano a ruba le magliette con disegnati Andreotti, Craxi e De Michelis in fuga, inseguiti da un drago leghista con lo spadone di Alberto da Giussano che urlava «Banzai! Alle elezioni vi bruciamo!». Gianfranco Fini, la sera fatidica del 27 marzo, comiziava a Verona. Gli portarono la notizia e lui la diede in diretta. Applausi scroscianti. «L‘avviso di garanzia ad Andreotti per mafia - tuonò - è la fine del regime: lo dimostra l‘autentico boato che ha salutato la notizia da me data alle migliaia di veronesi che affollavano il mio comizio. I giudici si muovono su indicazioni convergenti di alcuni pentiti, come dimostrano anche i casi analoghi di Gava, Misasi e Cirino Pomicino. Pare proprio che il sistema si reggesse sulle tangenti e sulle organizzazioni criminali». L’indomani rincara: «Ormai mi sento a disagio nel frequentare questo Parlamento: chiederò ai gruppi missini di valutare l’opportunità di non partecipare più ai lavori della Camera e del Senato». Poi, citando anche Alfredo Vito, «Mister 100 mila preferenze» indagato a Napoli definì «di una gravità inaudita il tentativo di questi personaggi di sottrarsi alle indagini ora che non possono più condizionare la magistratura. Bisogna fare

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piazza pulita a Roma. Chiediamo verità su tutto, a cominciare dalle stragi. Chi ha trescato con i mafiosi e i camorristi da posizione di assoluto rilievo politico-istituzionale l’ha fatto per mantenere il potere e le stragi di Stato hanno stabilizzato il potere: è ora che venga fuori tutta la verità, dopo decenni di vile e canagliesca strumentalizzazione» (15-4 -1993). Ora Fini & C. si apprestano a votare Andreotti, insieme ai neoeletti Cirino Pomici- no (Nuova Dc) e Vito (FI). Ne sarà felice anche il ministro uscente Altero Matteoli, che 12 anni fa era membro dell‘Antimafia presieduta da Violante: «Il sistema - esultava - non ha più difese: perfino Andreotti, passato indenne da una miriade di scandali compreso quello Sindona, è indagato per mafia. Finalmente la magistratura può acclarare il livello di collusione mafia-politica!» (27-3-1993). Poi insinuò addirittura che l’appoggio del Pds al governo Ciampi celasse un accordo con la Dc per «salvare Andreotti dal processo». Tant‘è che votò contro la relazione Violante, che citava Lima e Andreotti: troppo morbida, per lui, «all‘acqua fresca», perché «scarica tutte le responsabilità su Lima, ovattando la parte su Andreotti» (9-4-93). Infine chiese le dimissioni di Violante «per evitare il sospetto che la sua relazione su mafia e politica, votata dalla Dc, sia servita a traghettare il Pds nell’area di governo» (29-4 -93). Particolarmente commovente il caso di Marcello Pera, che si appresta a votare Andreotti alla propria successione: nel ‘93 lo definiva «un presidente del Consiglio dell‘era Gromyko», emblema del “trasformismo “, del «vino vecchio in otri vecchi», del «tirare a campare qualunque cosa succeda)), del «principio che le politiche non contano, possono cambiare a ogni stormir di fronde purché gli uomini che le fanno restino al proprio posto... Per queste figure logorate dall‘uso, è venuta l’ora di inaugurare la serie “visti da lontano”... di pagare il conto per ciò che si è fatto o omesso di fare», insomma basta con i «traffici» e l‘«impunità» dei «vecchi marpioni della Dc abituati nell’arte sopraffina del riciclaggio» (16-4-92). Anche Giorgio La Malfa , insieme alla Voce Repubblicana, difendeva i giudici e i pentiti denunciando i rapporti fra Andreotti, la mafia e Sindona (combattuti dal padre Ugo). Qualcuno l’ha per caso sentito, oggi? Poi c’è Ferdinando Adornato, che 12 anni fa tonitruava: «Non siamo disposti a fare alleanze con chi applaude Andreotti al Meeting di Rimini!»(8-9-93). Ora sta anche lui in Forza Italia, che Andreotti non si limita ad applaudirlo: lo vota. Che pezzo d’uomo. MARCO TRAVAGLIO – l’Unità del 25 aprile 2006

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