Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

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Manuale di diritto amministrativo (Guido Corso, edizione 2010) Parte I L’ organizzazione Sezione I I concetti §1. Organizzazione e prospettiva giuridica Le organizzazioni sono insiemi di persone legate tra loro da uno stesso scopo (sono organizzazioni, ad es., il Ministero dell’ interno, il cui scopo è quello di mantenere l’ ordine e la sicurezza pubblica, ovvero l’ INPS, la cui finalità è quella di raccogliere contributi ed erogare prestazioni sociali). Ovviamente, all’ interno di ogni organizzazione le persone sono distribuite secondo ruoli complementari tra loro (dal Ministro dell’ interno all’ ultimo dei poliziotti), devono agire in modo congruo rispetto agli scopi da raggiungere e hanno bisogno di risorse (ad es., il denaro necessario al pagamento degli stipendi). Le strutture indicate a mo’ di esempio come organizzazioni (Ministero dell’ interno e INPS) sono, più precisamente, pubbliche amministrazioni (P.A.), vale a dire quel complesso di soggetti pubblici che svolgono un’ attività amministrativa, cioè un’ attività volta alla realizzazione di interessi pubblici, che l’ ordinamento 1

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Manuale di diritto amministrativo (Guido Corso, edizione 2010)

Parte I

L’ organizzazione

Sezione I

I concetti

§1. Organizzazione e prospettiva giuridica

Le organizzazioni sono insiemi di persone legate tra loro da uno

stesso scopo (sono organizzazioni, ad es., il Ministero dell’ interno,

il cui scopo è quello di mantenere l’ ordine e la sicurezza pubblica,

ovvero l’ INPS, la cui finalità è quella di raccogliere contributi ed

erogare prestazioni sociali). Ovviamente, all’ interno di ogni

organizzazione le persone sono distribuite secondo ruoli

complementari tra loro (dal Ministro dell’ interno all’ ultimo dei

poliziotti), devono agire in modo congruo rispetto agli scopi da

raggiungere e hanno bisogno di risorse (ad es., il denaro

necessario al pagamento degli stipendi).

Le strutture indicate a mo’ di esempio come organizzazioni

(Ministero dell’ interno e INPS) sono, più precisamente, pubbliche

amministrazioni (P.A.), vale a dire quel complesso di soggetti

pubblici che svolgono un’ attività amministrativa, cioè un’ attività

volta alla realizzazione di interessi pubblici, che l’ ordinamento

pone come fini da realizzare (negli esempi avanzati: la sicurezza

pubblica e la previdenza sociale). Tali organizzazioni, a ben

vedere, presentano molti tratti in comune con altre che pubbliche

amministrazioni non sono (si pensi, ad es., all’ IBM o alla FIAT):

anche queste perseguono un determinato scopo, sono costituite

da persone e necessitano di determinate risorse. Ora, le analogie

tra questi due tipi di organizzazioni sono tali da giustificare l’

esistenza di una disciplina scientifica che le abbraccia entrambe:

la scienza dell’ organizzazione, la quale prende in considerazione i

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rapporti tra le persone all’ interno dell’ organizzazione.

Dal punto di vista giuridico, però, l’ approccio è diverso. Infatti, le

organizzazioni (cioè, le persone giuridiche) sono, innanzitutto, una

specie del genere personae (una di quelle tre entità, insieme alle

cose e alle azioni, attraverso le quali Gaio descrive l’ ordinamento

romano). Pertanto, in quanto persona, cioè soggetto di diritto,

ogni persona giuridica è al centro di un fascio di rapporti giuridici,

di diritti e di doveri. È bene chiarire, però, che la nozione di

persona giuridica (comune sia al diritto pubblico che a quello

privato) non va confusa con quella di persona fisica: mentre,

infatti, la persona fisica, cioè l’ individuo umano, ha una sua

esistenza fuori dal mondo del diritto, la persona giuridica, che

ovviamente non può agire senza persone fisiche, esiste solo

perché c’è il diritto.

Fondamentale è, inoltre, la distinzione tra persona giuridica

privata e persona giuridica pubblica: distinzione espressa

fedelmente dal predicato (il predicato pubblico allude, infatti, ai

fini che la persona giuridica deve perseguire).

§2. Due schemi: le associazioni e le fondazioni

Le persone giuridiche, nel codice civile, vengono distinte in due

tipi fondamentali: associazioni e fondazioni (queste ultime, nel

diritto pubblico, prendono anche il nome di istituzioni); anche se

in entrambe concorrono i due elementi (uomini e mezzi), diverso

è il rapporto nei due tipi: nelle associazioni, infatti, pur essendo

necessario un patrimonio (art. 16 c.c.), gli associati sono in primo

piano e compongono l’ organo sociale (l’ assemblea); è

importante specificare, inoltre, che si tratta di organismi che

operano a vantaggio di coloro che li hanno costituiti (cioè, i soci).

Nelle fondazioni, invece, assumono maggiore importanza i beni

destinati al raggiungimento di uno scopo stabilito dal fondatore

(art. 25 c.c.); qui i beneficiari, come è facile intuire, sono persone

che si trovano all’ esterno dell’ ente (si pensi, ad es., ai poveri, ai

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quali è destinato il patrimonio dell’ istituzione di beneficenza).

Presentano una struttura a fondazione, nella maggior parte dei

casi, le persone giuridiche pubbliche (cd. enti pubblici): si pensi,

ad. es., all’ INPS, delle cui prestazioni sono beneficiari i lavoratori

subordinati.

Hanno, invece, struttura associativa le federazioni sportive,

nonché lo Stato, le regioni, le province e i comuni (cd. enti

territoriali); questi ultimi, in particolare, prendono anche il nome

di associazioni politiche, perché perseguono una pluralità di

obiettivi, hanno carattere territoriale (i loro soci sono, infatti,

stanziati in un territorio più o meno vasto) e sono parzialmente

sovrapposte [perché i soci dell’ associazione più piccola (il

comune) sono anche soci delle altre (provincia, regione e Stato)].

§3. I fini e le attribuzioni

Mentre l’ individuo umano (persona fisica) può perseguire

qualunque fine che sia compatibile con le sue capacità e con la

legge (questa gli vieta solo di coltivare alcuni fini), la persona

giuridica persegue fini ben determinati, stabiliti dallo statuto o

dall’ atto di organizzazione (che, per l’ ente pubblico, coincide di

regola con la legge); ed è naturale che sia così, dal momento che

coloro che si associano per costituire la persona giuridica lo fanno

per realizzare specifiche finalità che non riuscirebbero a realizzare

come singoli. Questo discorso vale sia per la società per azioni,

sia per la massima tra le associazioni, cioè lo Stato: quasi tutte le

costituzioni contengono, infatti, la previsione dei fini da

raggiungere, il conferimento dei relativi poteri, nonché la

limitazione degli stessi.

Uno schema del genere lo ritroviamo anche nelle leggi sulla

pubblica amministrazione: queste, infatti, stabiliscono fini da

raggiungere (o interessi pubblici da tutelare) e, al contempo,

conferiscono i poteri necessari; tali poteri sono attribuiti agli enti

(e parliamo allora di attribuzione) e sono, poi, distribuiti tra i loro

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organi (e parliamo allora di competenza); è bene precisare, però,

che le attribuzioni (che costituiscono un insieme di poteri

amministrativi) non esauriscono ciò che l’ ente può fare, ma

delimitano soltanto i poteri amministrativi dello stesso ente;

accanto a questi ci sono, infatti, i poteri di diritto privato (ad es., il

potere di autonomia privata, ex art. 1322, cpv. c.c.) che all’ ente

pubblico spettano perché, prima di essere una persona giuridica

pubblica, esso è una persona giuridica.

Le attribuzioni sono ripartite tra gli enti sulla base di diversi

criteri:

• il criterio della materia, sicché, ad es., l’ INPS si occupa di

pensioni e l’ ASL di prestazioni sanitarie;

• il criterio dei destinatari, per cui l’ INPS si occupa delle pensioni

dei lavoratori del settore privato e l’ INPDAP di quelle dei

lavoratori del settore pubblico;

• il criterio territoriale, in base al quale gli Istituti Autonomi Case

Popolari (IACP) si distinguono perché ciascuno di essi opera nel

territorio di una provincia diversa;

• il criterio della dimensione, onde la tutela ambientale compete

allo Stato o alle regioni, a seconda che il problema riguardi tutto il

territorio nazionale (si pensi, ad es., alle conseguenze di

Cernobyl) o solo una parte di esso.

Se, infine, consideriamo insieme fini e attribuzioni ne consegue

un’ ulteriore distinzione: gli enti politici o territoriali (Stato,

regioni, province e comuni) perseguono una pluralità di fini; gli

altri, invece, sono monofunzionali [istituiti, cioè, per la

soddisfazione di un unico interesse pubblico (sanitario,

previdenziale, sportivo, etc.) e per il perseguimento di un unico

fine pubblico].

§4. Le attribuzioni e le competenze

Le attribuzioni, come detto, sono un fascio di poteri amministrativi

che vengono attribuiti all’ ente; ciascun ente, a sua volta, è

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costituito da una pluralità di organi, in cui le attribuzioni sono

ripartite (vengono, in tal modo, individuate le competenze dei

singoli organi). Così, ad es., l’ ente-comune si compone dei

seguenti organi: il consiglio comunale, la giunta, il sindaco e i

dirigenti.

Va qui sottolineato che anche la competenza (degli organi) è

ripartita sulla base di criteri che, però, solo in parte coincidono

con i criteri di riparto delle attribuzioni (dell’ ente). In particolare,

la competenza può essere divisa per materia (così, ad es., mentre

il consiglio comunale delibera l’ acquisto di beni immobili, la

giunta delibera quello di beni mobili); nell’ ambito della medesima

materia, la competenza può essere, poi, divisa per funzioni (così,

ad es., mentre al consiglio comunale spettano le funzioni di

controllo politico-amministrativo, alla giunta spettano quelle di

gestione).

Detto ciò, dobbiamo adesso chiederci il motivo per il quale i

pubblici poteri sono distribuiti per sfere di attribuzione (dell’ ente)

e di competenza (degli organi); per rispondere a tale quesito è

necessario sottolineare che questa regola strutturale risponde ad

un’ indispensabile esigenza organizzativa; la stessa che sta alla

base della suddivisione del lavoro in fabbrica, così come delineata

da Taylor: è più razionale che il lavoro sia diviso tra più persone,

in modo che ciascuna faccia una parte di ciò che è richiesto. Da

ciò si intuisce, quindi, che il potere pubblico ripartito per sfere di

attribuzione (degli enti) e di competenza (degli organi) è un

potere diviso: un potere, cioè, meno pericoloso (per il cittadino

che lo subisce) di un potere concentrato (quale sarebbe quello di

una struttura pubblica che cumulasse su di sé tutti i poteri

amministrativi).

§5. L’ ente e l’ organo

L’ ente è una persona giuridica formata al suo interno da più

organi (si pensi, ad es., all’ ente-comune, che comprende i

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seguenti organi: il consiglio comunale, la giunta, il sindaco e i

dirigenti); gli organi, a loro volta, sono gli strumenti (dal greco:

organon) della capacità di agire dell’ ente. Ciò significa, quindi,

che l’ ente (persona giuridica) può agire solo attraverso i suoi

organi, i quali non hanno soggettività distinta da quella dell’ ente,

ma attuano la sua stessa capacità di agire. In altri termini, nel

rapporto organico non ci sono due soggetti giuridici: l’ organo è la

persona giuridica, sicché non solo gli effetti degli atti che l’

organo compie, ma anche gli atti stessi vengono imputati alla

persona giuridica (in particolare, questa immedesimazione

organica trova conferma nel processo: se, ad es., ritengo di

essere stato leso da un atto del consiglio comunale che mi ha

negato l’ autorizzazione a lottizzare un terreno, dovrò ricorrere

contro il comune e non contro il consiglio comunale, appunto

perché l’ atto del consiglio è un atto del comune).

a) gli organi collegiali

L’ organo, di solito, è coperto da una sola persona: il sindaco, il

prefetto, il ministro, etc.; in molti casi, però, la legge prevede che

all’ organo siano assegnate più persone: si pensi, ad es., ad un

consiglio comunale o ad una giunta regionale (in questi, come in

altri casi l’ organo è un collegio o, più precisamente, un organo

collegiale).

Sono collegiali, di solito, gli organi di consulenza (si pensi, ad es.,

al Consiglio di Stato), sul presupposto che il consigliare è dei molti

e il decidere dei pochi; sono collegiali, inoltre, gli organi di base

degli enti politici (collegiali in virtù della loro rappresentatività: si

pensi, ad es., al Parlamento, al consiglio regionale o a quello

comunale); sono collegiali, infine, gli organi chiamati ad esprimere

un giudizio (si pensi, ad es., alle commissioni mediche: in questi

casi, la collegialità si giustifica in virtù del fatto che il giudizio del

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singolo può essere opinabile).

L’ organo collegiale (a differenza di quello individuale, che è

sempre presente) ha una vita intermittente: esso, infatti, diventa

operativo solo a seguito di una convocazione della seduta (giorno,

ora, luogo) da parte del presidente del collegio, il quale deve

anche fissare l’ ordine del giorno e presiedere l’ adunanza, con il

relativo ordine dei lavori.

Perché la seduta sia valida ed il collegio sia legittimato a

deliberare non è, tuttavia, necessario che siano presenti tutti i

suoi componenti: è sufficiente, infatti, il numero legale (cd.

quorum strutturale), vale a dire, la metà più uno dei membri

assegnati al collegio (così, ad es., in un consiglio comunale di 40

consiglieri, il numero legale sussiste quando sono presenti almeno

21 di essi); il principio del numero legale non opera, però, nei cd.

collegi perfetti, come quelli giudicanti, nei quali è richiesta la

presenza di tutti i membri (si pensi, ad es., ai tribunali civili,

penali e amministrativi).

È bene precisare, comunque, che il problema fondamentale del

collegio è quello di estrapolare da una pluralità di persone con

opinioni diverse una determinazione unitaria; per superare quest’

ostacolo è stato escogitato il procedimento della votazione

(fondato sul principio di maggioranza).

Il meccanismo è il seguente: il presidente del collegio formula un

progetto di delibera (cd. proposta) sulla quale si andrà a votare, a

favore o contro; la proposta sarà approvata e diventerà delibera

del collegio se avrà conseguito la maggioranza dei voti dei

presenti, vale a dire il voto favorevole della metà più uno dei

membri del collegio presenti (cd. quorum funzionale). Più

precisamente, dopo che sia stata accertata l’ esistenza del

quorum strutturale (necessario per la validità della seduta), il

quorum funzionale (necessario per l’ approvazione della proposta)

sarà pari alla metà dei membri presenti più uno: così, ad es., se

un consiglio comunale è composto da 40 persone, il quorum

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strutturale sarà di 21 membri, mentre quello funzionale dipenderà

dal numero dei componenti presenti (se, ad es., alla seduta sono

presenti 30 componenti, il quorum funzionale sarà di 16 voti: la

metà più uno dei presenti).

Ovviamente, ad ogni componente del collegio è riconosciuta la

facoltà di emendamento: la facoltà, cioè, di proporre una modifica

della proposta, per effetto della quale membri del collegio, in

partenza contrari, possono diventare favorevoli alla proposta

stessa.

Dalla proposta al voto si passa attraverso la discussione: con essa

i membri del collegio espongono le ragioni per cui sono favorevoli

o contrari alla proposta. Qualora, al termine della discussione,

alcuni membri dovessero continuare a rimanere perplessi

potranno, in ogni caso, astenersi dal voto (occorre specificare,

però, che l’ astensione va a sommarsi ai voti contrari; sono,

tuttavia, previste specifiche deroghe: si pensi, ad es., al

regolamento del Senato della Repubblica, ove gli astenuti non

vengono computati tra i votanti e non influiscono, quindi, sulla

votazione).

§6. Gli uffici

Con riferimento al settore pubblico, si dice che l’ organizzazione è

fatta, oltre che di organi, anche di semplici uffici: strutture alle

quali sono addette persone cui non sono assegnate competenze,

ma soltanto compiti, i quali si sostanziano nello svolgimento di

determinate attività preparatorie degli atti (che costituiscono

esercizio delle competenze): così, ad es., l’ organo-sindaco è

attorniato da una serie di uffici (ufficio di gabinetto, segreteria

particolare, etc.) che permettono al sindaco di svolgere le sue

funzioni mediante attività preparatorie, istruttorie e di

comunicazione, senza le quali gli atti del sindaco non sarebbero

visibili all’ esterno o addirittura non sarebbero posti in essere.

Da quanto detto appare chiaro, quindi, che i compiti sono

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strumentali all’ esercizio delle competenze (di conseguenza, se

essi vengono svolti in modo inappropriato possono viziare l’

esercizio delle competenze ed invalidarlo).

§7. L’ amministrazione attiva, quella consultiva e quella di

controllo

Una distinzione importante è quella tra organi di amministrazione

attiva, organi di amministrazione consultiva ed organi di controllo.

Chi agisce (l’ organo di amministrazione attiva) deve essere

consigliato: o perché la materia della decisione è tecnicamente

complessa (ed è quindi richiesta la consulenza di tecnici) o perché

deve essere assicurata la legalità della decisione (e servono allora

dei tecnici del diritto).

A sua volta, però, l’ attività di amministrazione attiva deve essere

doppiata da un’ attività di controllo; il controllo, in particolare,

serve a garantire che l’ attività posta in essere sia conforme ad un

paradigma: che può essere la legge (controllo di legalità), l’

opportunità (controllo di merito), l’ efficienza, l’ efficacia, etc.

(controlli di efficacia, di gestione, etc.).

È importante specificare, però, che proprio per l’ attività richiesta

all’ organo consultivo e a quello di controllo, il reclutamento delle

persone che ne vengono investite deve essere fatto in base ad un

criterio di competenza professionale. Non solo: va anche detto

che lo status dei componenti di questi due organi è caratterizzato

dall’ indipendenza rispetto all’ organo di amministrazione attiva

(la funzione della consulenza, infatti, verrebbe stravolta se l’

organo consultivo dovesse seguire le direttive dell’ organo di

amministrazione attiva; allo stesso modo, se l’ organo di controllo

dovesse obbedire ai comandi dell’ organo di amministrazione

attiva, sarebbe il controllato a controllare il controllore e non il

contrario).

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§8. La questione dell’ investitura

Persona giuridica, organo e ufficio sono concetti astratti; per poter

effettivamente funzionare hanno bisogno di persone fisiche (cioè,

di individui) che operino come organi o svolgano i compiti propri

dell’ ufficio. In quest’ ottica, l’ operazione con la quale un

individuo è chiamato ad agire come organo (o come titolare di un

ufficio) prende il nome di investitura; questa può essere di due

specie: politica o burocratica. In particolare, l’ investitura si

definisce politica quando colui che sceglie vanta una

legittimazione, appunto, politica; a sua volta, l’ investitura politica

si fonda su due meccanismi: quello dell’ elezione (si pensi, ad es.,

ad una maggioranza elettorale che elegge il sindaco o il

presidente della regione) e quello della nomina [quest’ ultima

ricorre quando un organo ad investitura politica (ad es., il

Governo) nomina, a sua volta, il Presidente].

L’ investitura è, invece, burocratica quando una persona è

chiamata a ricoprire un organo o un ufficio in ragione della sua

competenza professionale, verificata attraverso una procedura

selettiva (ad es., il concorso), aperta ad una pluralità di aspiranti.

§9. L’ agente ed il principale

La relazione tra il dipendente (o l’ amministratore) e l’

organizzazione viene descritta come relazione di agenzia: una

relazione nella quale un individuo (agente) agisce per conto di un

altro (principale) ed è tenuto a promuovere l’ interesse di quest’

ultimo; ora, poiché gli obiettivi del primo e gli interessi del

secondo possono non coincidere, il diritto ha sempre previsto dei

meccanismi di controllo (di regole del genere è, ad es., costellato

il codice civile, quando disciplina la rappresentanza, il mandato o

la gestione di affari).

Nel diritto pubblico, però, le regole sono più numerose, perché il

principale viene a coincidere con la generalità dei cittadini

(quando l’ agente opera all’ interno dell’ organizzazione statale) o

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con il complesso dei cittadini di uno specifico ambito territoriale

(regionale, provinciale o comunale); e l’ agente non viene scelto

dal principale (tranne in caso di elezione), ma viene individuato

sulla base di particolari meccanismi, ai quali il principale è

estraneo. È per questo motivo che si è ritenuto opportuno

enucleare determinati strumenti volti ad assicurare che gli

interessi perseguiti dall’ agente non divergano da quelli del

principale.

a) le modalità di reclutamento

Le modalità di reclutamento sono essenzialmente due: l’ elezione

ed il concorso. L’ elezione (qui ci riferiamo, in particolare, a quella

politica), viene ripetuta nel tempo, a cadenza fissa, allo scopo di

garantire l’ attualità del rapporto tra rappresentanti (eletti) e

rappresentato (elettore). La scelta dell’ elettore, però, è preceduta

dalla scelta, fatta da altri (ad es., dai gruppi dirigenti di partito),

delle persone tra le quali egli può scegliere (tale scelta è molto

più importante di quella dell’ elettore, perché delimita l’ ambito

delle persone da votare); può anche capitare, tra l’ altro, che l’

elettore non possa neppure scegliere la persona, ma solo la lista,

all’ interno della quale le posizioni sono precostituite.

L’ altro meccanismo di reclutamento è, invece, il concorso: questi,

in particolare, tende a privilegiare non tanto il rapporto di fiducia

tra principale ed agente, quanto piuttosto la preparazione

professionale dell’ agente.

b) i requisiti dell’ agente

Sia la legislazione elettorale che quella sui concorsi subordinano l’

ammissione alla competizione elettorale o alle prove concorsuali

al possesso di determinati requisiti, quali: immunità da precedenti

penali, titoli di studio (nei concorsi), etc.; se questi requisiti

dovessero mancare, vi sarebbe una presunzione di esercizio

infedele del mandato (elettivo o burocratico).

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c) gli schemi organizzativi

Gli schemi organizzativi guidano la collocazione dell’ agente nell’

organizzazione (si pensi, ad es., alla gerarchia, che tende ad

assicurare un controllo del superiore sull’ inferiore; controllo che

dovrebbe garantire l’ aderenza dell’ azione dell’ agente alle

finalità del principale).

Un altro criterio funzionale che assume molta importanza nel

rapporto tra agente e principale è, poi, quello di competenza:

questa individua il complesso dei compiti alla stregua dei quali

deve essere valutata la condotta dell’ agente (occorre verificare,

ad es., se egli ha adempiuto i compiti affidatigli e, in caso

positivo, come li ha adempiuti).

d) le regole di progressione

Le organizzazioni burocratiche sono articolate in ruoli, qualifiche,

carriere, etc., nell’ ambito dei quali l’ agente non occupa una

posizione fissa, ma tende ad ascendere verso l’ alto (la

promozione, la progressione di carriera, etc.). È chiaro, però, che

quest’ ascesa è condizionata da una certa performance (per cui,

ad es., l’ infedeltà o la negligenza dell’ agente verranno

sanzionate, negando allo stesso la progressione alla quale aspira).

e) la responsabilità

Come gli amministratori delle s.p.a. rispondono verso i terzi, verso

i creditori sociali e verso la società, allo stesso modo l’

amministratore e il dipendente pubblico (agenti) rispondono verso

i terzi e verso l’ ente (principale) da cui dipendono (la relativa

azione sarà esercitata dinanzi alla Corte dei Conti, ex art. 103 cpv.

Cost.).

§10. Il rapporto d’ ufficio ed il rapporto di servizio

Quel che si è detto del rapporto tra l’ organo e l’ ente può

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ripetersi a proposito del rapporto tra la persona fisica e l’ organo

(o l’ ufficio) ovvero tra la persona fisica e l’ ente. Anche in questo

caso vi è, infatti, una immedesimazione: così, ad es., l’ ordine di

demolizione che il sindaco emette è, ovviamente, l’ espressione di

volontà di un individuo umano, ma è, allo stesso tempo,

provvedimento amministrativo (dell’ organo-sindaco), che viene

imputato all’ ente-comune.

Appare utile specificare, però, che se da un lato l’ individuo si

identifica con l’ organo (e, quindi, con l’ ente), dall’ altro se ne

distingue, come portatore di un interesse contrapposto a quello

dell’ ente. Per spiegare questa duplicità di situazioni, la dottrina

ha immaginato che la persona fisica sia legata all’ ente da due

tipi di rapporti: il rapporto d’ ufficio e quello di servizio.

Nel rapporto d’ufficio l’ individuo si identifica con l’ ente per il

quale agisce: i suoi atti sono atti dell’ organo (o dell’ ufficio) e,

quindi, atti dell’ ente. In questi casi, quindi, se l’ individuo umano

cagiona a terzi un danno ingiusto, responsabile risulterà l’ ente

(così, ad es., la chiusura illegittima di una discoteca, disposta dal

questore, esporrà il Ministero dell’ Interno ad un’ azione di

risarcimento del danno).

Il rapporto di servizio, invece, è un rapporto tra due soggetti (una

persona giuridica ed una persona fisica): l’ individuo si impegna a

mettere le sue energie a servizio dell’ ente pubblico dietro

corrispettivo, se impiegato (e in questo caso si parla di servizio

professionale, così denominato perché esso viene reso in base ad

un titolo professionale: il contratto di lavoro) ovvero ad altro titolo

(e in questo caso si parla di servizio onorario, così denominato

perché esso viene reso da persone che vanno a ricoprire non

professionalmente l’ organo: si pensi, ad es., ai consiglieri

regionali, ai sindaci, ai ministri o agli amministratori di enti

pubblici). In queste ipotesi, a differenza di quanto accade nel

rapporto d’ ufficio, se colui che agisce per conto di una pubblica

amministrazione commette un illecito a danno di un terzo

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risulterà responsabile nei riguardi dell’ ente: si tratta, in

particolare, della cd. responsabilità amministrativa, nella quale

incorre l’ amministratore o l’ impiegato pubblico che abbia

cagionato un danno all’ erario (e della quale sarà chiamata a

conoscere la Corte dei Conti).

§11. Gli uffici vacanti

Il duplice rapporto che lega la persona fisica all’ organo assume

particolare importanza nei casi in cui la persona fisica risulti

assente o temporaneamente impedita: in questi casi, infatti,

occorre comunque assicurare il funzionamento dell’ organo o dell’

ufficio.

Per superare quest’ ostacolo si fa ricorso alla supplenza: ed

invero, in molti casi, all’ organo vengono istituzionalmente

assegnati un titolare e un vice (il prefetto ed il vice-prefetto, il

sindaco ed il vice-sindaco): nell’ assenza o nell’ impedimento del

titolare il vice è legittimato (e obbligato) a sostituirlo.

Diverso è, invece, il problema che si manifesta quando il titolare

dell’ organo perde l’ investitura (ad es., per il decorso del termine

di durata della carica) e l’ autorità competente non ha ancora

provveduto a nominare il successore; in questi casi viene

mantenuto nella carica il vecchio titolare sino all’ insediamento

del nuovo. Questo congegno, grazie al quale titolari scaduti

continuavano ad esercitare le funzioni, talvolta per anni, è stato,

però, ridimensionato a seguito della sent. 208/92 della Corte

cost.: i giudici della Consulta hanno, infatti, evidenziato che un’

applicazione senza limiti temporali del principio della prorogatio

contrasta con il principio di legalità, perché abilita all’ esercizio di

funzioni amministrative persone che hanno perduto l’ investitura.

In conseguenza di tale pronuncia, oggi la proroga non può

spingersi al di là di 45 gg. dalla scadenza del termine di durata

della carica e, nel corso di essa, possono essere posti in essere

solo gli atti di ordinaria amministrazione, nonché gli atti urgenti

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(L. 444/94).

Altro istituto importante è, poi, quello della sostituzione, in virtù

del quale, quando il titolare dell’ organo omette di porre in essere

un’ attività che gli compete, la legge prevede un potere di

sostituzione da parte di un altro organo, appartenente, di regola,

ad un altro ente (ad es., lo Stato verso la regione, la regione verso

l’ ente locale); l’ autorità munita del potere sostituivo può

adottare essa stessa il provvedimento (non posto in essere dall’

organo inerte) ovvero può nominare un commissario ad acta (che

avrà il compito di sostituire l’ organo inerte).

Sezione II

I princìpi costituzionali

§1. Premessa

Uno dei maestri del diritto costituzionale, Esposito, affermava che

chi voglia sapere com’è disciplinata l’ amministrazione nella

nostra Costituzione non deve leggere due soli articoli, ma l’ intera

Costituzione.

In effetti, la nostra Carta fondamentale dedica espressamente

due soli articoli alla disciplina della pubblica amministrazione: gli

artt. 97 e 98; ma, a ben vedere, alla P.A. fanno riferimento anche

le disposizioni che assegnano alla Repubblica fini che non

possono essere perseguiti se non attraverso apparati

amministrativi (si pensi, ad es., alla salute e all’ istruzione, ex

artt. 32 e 33) o che distribuiscono il potere politico e

amministrativo secondo criteri territoriali (comuni, province,

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regioni e Stato, ex artt. 114 e 118) o che disciplinano i rapporti tra

Governo e amministrazione (art. 95) o, ancora, che stabiliscono i

controlli sull’ amministrazione (art. 100) o che garantiscono, con

riserve di legge, il cittadino contro atti della P.A. (artt. 16, 17, 23,

41 e 42).

§2. Il principio democratico

Il primo dei princìpi enunciati dalla Costituzione è il principio

democratico (art. 1); tale principio, sul piano organizzativo,

comporta, da un lato, la distinzione delle cariche elettive da

quelle burocratiche (pubblici uffici o impieghi, ai quali si accede

per concorso) e, dall’ altro, la supremazia delle prime (cioè, delle

cariche elettive) sui pubblici uffici (impiegatizi): è per questo

motivo, ad es., che, ai sensi dell’ art. 95 Cost., al Presidente del

Consiglio spetta di mantenere l’ unità di indirizzo politico e

amministrativo (ossia l’ indirizzo sull’ attività dei pubblici uffici

organizzati nei ministeri e negli enti pubblici), mentre il ministro

(titolare di una carica elettiva) risponde dell’ attività dei ministeri

(e, quindi, deve essere in grado di indirizzarla e coordinarla).

La burocrazia è, invece reclutata sulla base di un criterio diverso

da quello democratico (il cd. criterio meritocratico); ed è tenuta

ad agire in conformità a regole che non hanno nulla a che vedere

con il principio democratico (quali l’ imparzialità ed il buon

andamento). Ed è proprio per tal motivo che, nel nostro

ordinamento, la burocrazia è sottoposta alla politica (che

rappresenta, invece, l’ ambito nel quale il principio democratico

trova piena applicazione).

§3. I diritti dell’ uomo e le riserve di giurisdizione

L’ altra grande novità della Costituzione è costituita dal

riconoscimento dei diritti inviolabili dell’ uomo (art. 2), per la

maggior parte dei quali essa prevede un rapporto di reciproca

esclusione con gli apparati ed i poteri amministrativi: si pensi, ad

16

Page 17: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

es., alla libertà personale, a quella domiciliare, alla libertà e

segretezza delle comunicazioni, alla libertà religiosa (artt. 13, 14,

15 e 19), le quali sono sottoposte sia a riserva di legge che di

giurisdizione. In questi casi, alla P.A. (ed in particolare, all’ autorità

di pubblica sicurezza) è sottratto ogni potere di intervento.

Tuttavia, è bene precisare che in casi eccezionali di necessità e

urgenza (indicati tassativamente dalla legge) l’ autorità di p.s.

può adottare determinate misure amministrative, le quali, però,

dovranno essere comunicate entro 48 ore all’ autorità giudiziaria

e restano prive di effetti se questa non le convalida entro le

successive 48 ore (si tratta, quindi, di una competenza non solo

legata a presupposti eccezionali, ma anche provvisoria).

Appare utile sottolineare, in ogni caso, che non tutti i diritti

inviolabili formano oggetto di riserva di giurisdizione: non lo, ad

es., la libertà di circolazione, che può essere, infatti, limitata in via

generale per motivi di sanità e di sicurezza (art. 16); non lo è, del

pari, la libertà di riunione (art. 17), dal momento che le riunioni

possono essere vietate per motivi di sicurezza e di incolumità

pubblica. In tali situazioni l’ autorità di p.s. può intervenire senza

che sia richiesto l’ intervento dell’ autorità giudiziaria e ciò perché

la circolazione e la riunione sono attività che si svolgono in

contesti pluripersonali, composti cioè da più persone, il cui

contatto potrebbe mettere a repentaglio beni o valori

costituzionali (così, ad es., l’ incolumità dei cittadini potrebbe

essere pregiudicata da una riunione con partecipanti armati; allo

stesso modo, la sanità potrebbe subire un grave danno se

persone affette da una malattia contagiosa potessero circolare

liberamente). In questi casi, la garanzia per il cittadino è data da

una riserva di legge, rinforzata dalla previsione dei motivi che

autorizzano la limitazione: sanità e sicurezza per la libertà di

circolazione; incolumità e sicurezza per la libertà di riunione.

§4. Il principio della separazione dei poteri

17

Page 18: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Il principio della separazione dei poteri, pur se non espressamente

enunciato nella nostra Carta costituzionale, è in essa

implicitamente incorporato, dal momento che la Corte

Costituzionale, con sent. 1/77, lo ha inserito tra i princìpi supremi

dell’ ordinamento costituzionale.

È certo, comunque, che la nostra Carta fondamentale delinea in

modo molto netto i contorni del potere legislativo e del potere

giudiziario (come poteri dai quali è distinto il potere esecutivo-

amministrativo). Infatti, la P.A. non può fare le leggi, dato che la

funzione legislativa è riservata alle Camere (art. 70) e ai consigli

regionali (art. 117); e non può, ovviamente, esercitare la funzione

giurisdizionale, perché questa è riservata alla magistratura

(nonché al Consiglio di Stato e alla Corte dei Conti). Per altro

verso, però, la P.A. è soggetta alla legge, la quale stabilisce le

regole di base per l’ organizzazione dei pubblici uffici (art. 97

Cost.); ed è anche soggetta al sindacato dei giudici, ordinari e

amministrativi, perché contro i suoi atti è sempre ammessa la

tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (art. 113

Cost.).

Non altrettanto definito è, invece, lo statuto della P.A.

Innanzitutto, va detto che non è chiaro se di essa faccia parte il

Governo: a prima vista sembrerebbe di no, dal momento che la

Costituzione parla del Consiglio dei Ministri e della P.A. in due

Sezioni differenti, anche se contenute nello stesso Titolo (quello

dedicato al Governo); in realtà, è necessario sottolineare che l’

apparato amministrativo è un appartato complesso, che include al

suo interno il Consiglio dei Ministri, i singoli ministeri, le

amministrazioni territoriali e gli enti pubblici; ora, che dell’

apparato amministrativo facciano parte anche il Consiglio dei

ministri e i singoli ministeri risulta confermato non solo dalla

topografia della nostra Costituzione [infatti, sotto il Titolo III, Parte

II (del governo) sono contemplati il Consiglio dei ministri, la P.A. e

gli organi ausiliari], ma anche dal fatto che al Presidente del

18

Page 19: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Consiglio e ai singoli ministri sono affidati determinati poteri

amministrativi: ai sensi, infatti, dell’ art. 95 Cost., il Presidente del

Consiglio mantiene l’ unità di indirizzo politico e amministrativo,

promuovendo e coordinando l’ attività dei ministri; questi, dal

canto loro, sono responsabili sia collegialmente (per gli atti del

Consiglio), sia individualmente (per gli atti dei propri dicasteri).

Lo stesso schema può essere riprodotto in relazione agli enti

pubblici e alle amministrazioni territoriali: infatti, sempre ai sensi

dell’ art. 95 Cost., gli enti pubblici devono essere vigilati da un

ministero e rispondere ad un ministro che, a sua volta, è

responsabile di fronte al Parlamento (se si tratta di enti nazionali).

Quanto agli enti territoriali, infine, va detto che ciascuno di essi

riproduce al suo interno il rapporto tra politica e amministrazione

che l’ art. 95 disegna all’ interno dello Stato (nel rapporto tra

Presidente del Consiglio, Consiglio dei ministri e ministri): così,

per quanto riguarda la regione, la polarità tra politica e

amministrazione si riproduce all’ interno del rapporto tra

presidente della giunta regionale, giunta e amministrazione; in

relazione, invece, agli enti locali il rapporto è tra il consiglio

(organo di indirizzo politico-amministrativo) e la giunta.

Come visto, l’ amministrazione (dal punto di vista dei soggetti)

viene nettamente separata dal potere legislativo e dal potere

giudiziario; non altrettanto netta, invece, è la riserva dell’ attività

amministrativa in favore della pubblica amministrazione. Ora, dal

momento che sul punto la Costituzione non dice nulla, si potrebbe

addirittura sostenere che gli organi del potere legislativo e di

quello giudiziario siano abilitati ad esercitare la funzione

amministrativa; ma una tale conclusione non può essere

assolutamente accettata e va, di conseguenza, confutata sulla

base delle seguenti argomentazioni: in particolare, per quanto

riguarda il rapporto con il potere legislativo, occorre evidenziare

che, ai sensi dell’ art. 3 Cost., la legge non può operare alcuna

distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, di

19

Page 20: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

condizioni personali e sociali; pertanto, non è possibile che la

legge si faccia provvedimento, proprio perché quest’ ultimo si

fonda su quelle condizioni-distinzioni che la legge non può avere

(va anche detto, però, che la Corte Costituzionale ha ritenuto

ammissibili le leggi-provvedimento: quanto meno le leggi-

provvedimento statali).

Per quanto riguarda, invece, il rapporto con il potere giudiziario,

nella Costituzione manca un divieto per gli organi giurisdizionali di

adottare dei provvedimenti amministrativi: un limite, tuttavia, è

rinvenibile nella legislazione ordinaria, che ha sempre vietato al

giudice di sostituirsi all’ amministrazione.

§5. I rapporti tra la politica e l’ amministrazione

Da quanto detto emerge un fondamentale principio di

organizzazione: il principio, cioè, della strumentalità dell’

amministrazione (e, quindi, del relativo apparato) rispetto alla

politica generale del Governo-Parlamento (questo principio,

dettato per lo Stato dall’ art. 95 Cost., vale, come visto, anche per

la regione e per gli enti minori).

Se, infatti, il Presidente del Consiglio dirige la politica generale del

Governo e mantiene l’ unità di indirizzo politico ed

amministrativo, promuovendo e coordinando l’ attività dei

ministri, vuol dire che c’è una politica generale del Governo, la

quale è sovraordinata rispetto alle singole amministrazioni (è in

questo senso che si parla di strumentalità). Dovrebbe risultare

chiara, quindi, la distinzione tra l’ attività politica e quella

amministrativa: l’ attività politica consiste nel definire gli obiettivi

dell’ azione dello Stato (Governo-Parlamento); l’ attività

amministrativa, invece, consiste nel compiere tutti quegli atti che

permettono di realizzare, in concreto, le finalità decise in sede

politica e legislativa (facciamo un esempio: il Governo e il

Parlamento possono definire i propri orientamenti in materia di

politica scolastica e questi possono essere tradotti in leggi che

20

Page 21: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

stabiliscono quali sono i diversi tipi di scuola, i criteri per l’

ammissione degli allievi e per lo svolgimento degli esami, etc.;

ma affinché la politica scolastica venga effettivamente attuata,

occorre che venga predisposta l’ organizzazione necessaria nelle

varie zone del paese: la costruzione e l’ arredo degli edifici

scolastici, il reclutamento degli insegnanti, il concreto

svolgimento dell’ attività didattica, etc.).

Posta in questi termini la questione, risulta evidente che l’ attività

amministrativa è un’ attività subordinata alla politica, e ciò in

virtù del principio democratico: l’ amministrazione, infatti, è

subordinata alla politica, perché la prima è gestita da apparati

non rappresentativi (burocratici), il cui personale non è scelto in

base al proprio orientamento politico, ma sulla base della propria

competenza tecnico-professionale, mentre la seconda è espressa

da organi a legittimazione elettorale (diretta, come il Parlamento;

indiretta o semi-diretta, come il Governo).

§6. Il principio di legalità

Nel quadro costituzionale dell’ amministrazione, dal punto di vista

delle fonti, assume importanza fondamentale il ruolo che la legge

ricopre nella disciplina dell’ ordinamento, dell’ organizzazione e

dell’ attività amministrativa.

La P.A. è, infatti, sottoposta al principio di legalità: ciò significa, in

altri termini, che i pubblici uffici, cioè gli apparati amministrativi

(enti ed organi) devono agire secondo le norme stabilite dalla

legge, rispettando i diritti dei cittadini; tale principio non è

enunciato in modo esplicito nella nostra Costituzione, ma ad esso

fanno comunque riferimento numerose norme (artt. 23, 28, 113

Cost.). Esso è, poi, rafforzato anche da altri princìpi enunciati dalla

Carta costituzionale: primo tra tutti il principio della riserva di

legge nell’ organizzazione dei pubblici uffici.

Dal 1926, e per tutto il periodo fascista, l’ organizzazione della

P.A. è stata di esclusiva competenza del potere esecutivo;

21

Page 22: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

viceversa, con l’ entrata in vigore della Costituzione repubblicana

le cose sono cambiate; ciò risulta oggi confermato dalla

formulazione del co. 1 dell’ art. 97 Cost., il quale, infatti,

stabilendo che i pubblici uffici sono organizzati secondo

disposizioni di legge, ha disposto una riserva di legge in proposito

(ha dato, cioè, al Parlamento il compito di delineare le linee

fondamentali dell’ organizzazione amministrativa, in modo da

sottoporre questo importante aspetto al controllo democratico e

sottrarlo al potere discrezionale del Governo).

L’ art. 97 Cost. parla, come abbiamo visto, di pubblici uffici, ma

non ci dice che cosa bisogna intendere per essi; ci dice soltanto,

al co. 2, che di questi ne sono determinate le competenze, le

attribuzioni e le responsabilità dei funzionari. Ora, dal momento

che sono menzionate solo le attribuzioni (spettanti agli enti) e le

competenze (spettanti agli organi), sono, di conseguenza, esclusi

dalla preesistenza della legge gli uffici, i quali, infatti, sono

destinatari di compiti e non di competenze.

Come detto, quindi, la legge non può limitarsi a creare l’

istituzione di un apparato amministrativo, ma deve conferire allo

stesso le relative attribuzioni e competenze; ciò significa,

pertanto, che nessun apparato amministrativo può esercitare

poteri amministrativi che non siano stati disciplinati e assegnati

espressamente dalla legge. È per questo motivo che il principio di

legalità comporta un vincolo anche per il legislatore, nel senso

che la legge non può contenere una semplice autorizzazione ad

agire, ma deve contenere anche la disciplina dell’ azione

amministrativa (cd. principio di legalità sostanziale).

È importante specificare, inoltre, che la legge non può limitarsi a

prevedere l’ istituzione di un’ autorità amministrativa e a munirla

di poteri amministrativi, ma deve anche assegnarle i fini, in vista

dei quali quei poteri vanno esercitati (il principio di legalità

esclude, quindi, che l’ amministrazione possa stabilire essa stessa

i fini della sua azione).

22

Page 23: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

La riserva di legge prevista dall’ art. 97 Cost. copre, in ogni caso,

non solo l’ istituzione e la competenza dell’ organo, ma anche la

relazione tra l’ organo e le persone fisiche destinate a ricoprirlo:

relazione nella quale è fondamentale la dimensione temporale

(inizio, fine e durata del mandato). È proprio su questa base che

la Consulta, con la citata sent. 208/92, ha affermato che un’

organizzazione caratterizzata da un ricorso sistematico alla

prorogatio sine die (cioè, al mantenimento in carica del titolare

dell’ organo dopo la scadenza del mandato sino alla nomina del

successore) violerebbe il principio della riserva di legge in materia

di organizzazione amministrativa, dal momento che la durata del

mandato (prevista a termine dal legislatore ordinario) verrebbe, in

tal modo, stabilita arbitrariamente da colui che deve provvedere

alla sostituzione.

Un ultimo accenno occorre dedicarlo al co. 3 dell’ art. 97 Cost., il

quale estende, in alcuni casi, il principio della riserva di legge

anche ai meri uffici: stabilisce, infatti, la disposizione in esame

che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede

mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge: ciò significa

che, perché sia consentito derogare all’ ordinaria modalità di

reclutamento (il pubblico concorso), è necessaria una legge; e

poiché il concorso (o lo strumento alternativo previsto dalla legge)

serve per accedere ad un mero ufficio, ne consegue che gli uffici

ai quali è possibile accedere senza concorso devono essere

previsti dalla legge (una legge è comunque necessaria quando l’

accesso a tali uffici avviene con modalità diverse dal pubblico

concorso).

L’ altra implicazione che si desume dal co. 3 dell’ art. 97 Cost.

riguarda il concetto di accesso al pubblico impiego. Invero, l’

assetto odierno del rapporto di lavoro con gli enti pubblici

prevede fasce funzionali con progressione economica orizzontale

(la retribuzione aumenta, mentre la fascia rimane uguale): ciò

significa che non soltanto l’ accesso al pubblico impiego, ma

23

Page 24: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

anche il passaggio alla fascia funzionale superiore deve essere

preceduto da un concorso pubblico.

Dalla combinazione dei co. 1 e 3 dell’ art. 97 Cost., si evince,

quindi, che l’ area della riserva di legge si allarga, in quanto essa

viene a ricomprendere, in alcuni casi, non solo gli organi, ma

anche gli uffici; è pur vero, però, che questa stessa area, al

contempo, viene a restringersi in ragione di una distinzione

formulata dalla Corte costituzionale: la Consulta ha, infatti,

distinto l’ organizzazione della P.A. (affidata alla legge) ed il

rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti (affidato alla

contrattazione collettiva); ciò in considerazione del fatto che la

disciplina privatistica è considerata più idonea alla realizzazione

delle esigenze di flessibilità nella gestione del personale

(flessibilità che, ovviamente, è strumentale ad assicurare il buon

andamento dell’ amministrazione).

È importante specificare comunque che la riserva di legge, di cui

all’ art. 97 Cost., è una riserva di legge relativa; tale norma,

infatti, non vieta qualsiasi normazione diversa da quella

legislativa, né esclude che la legge consenta al potere esecutivo

di emanare norme secondarie di efficacia subordinata

(regolamenti, statuti o circolari). Alla legge, però, deve essere

affidata la disciplina degli aspetti fondamentali dell’

organizzazione dei pubblici uffici (ad es., l’ istituzione di organi, la

previsione di competenze, il livello delle retribuzioni, etc.), in

modo tale da garantire il buon andamento e l’ imparzialità dell’

amministrazione.

§7. Il principio di imparzialità

L’ art. 97 Cost. specifica, al co. 1, che i pubblici uffici sono

organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che sia

assicurata l’ imparzialità dell’ organizzazione e dell’ attività

amministrativa; ora, imparzialità dell’ amministrazione significa

una molteplicità di cose:

24

Page 25: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

• anzitutto, l’ organizzazione si definisce imparziale quando è

strutturata in modo che chi amministra (amministratore o

funzionario) non sia personalmente interessato alla materia della

decisione; in questa prospettiva, la Consulta ha dichiarato

illegittime quelle leggi regionali che, nel disciplinare la

composizione delle commissioni esaminatrici dei concorsi presso

enti locali, prevedevano che i commissari fossero, in

maggioranza, espressioni del consiglio comunale, anziché esperti

in materia (sent. 453/90);

• l’ imparzialità dell’ organizzazione richiede, in secondo luogo,

che il personale sia reclutato in modo imparziale; in questo senso,

il co. 1 dell’ art. 97 Cost. viene a collegarsi al co. 3 della

medesima disposizione, secondo il quale agli impieghi nelle

pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso: ciò

significa, in altri termini, che l’ amministrazione ha il dovere di

scegliere i propri dipendenti attraverso esami che accertino, in

modo obiettivo, le capacità professionali dei candidati e a cui tutti

i cittadini, in possesso dei requisiti richiesti, possano partecipare

in condizione di parità (si vuole, in tal modo, impedire all’

amministrazione la possibilità di effettuare assunzioni in maniera

clientelare, cioè in base a raccomandazioni, a conoscenze

personali, familiari o politiche);

• l’ organizzazione è, poi, imparziale se esulano da essa tutti quei

componenti che potrebbero essere parziali (così, ad es., per

lunghi anni i consigli di amministrazione degli enti pubblici sono

stati, in parte, composti da rappresentanti sindacali; in epoca più

recente si è capito, però, che una composizione del genere veniva

a contrastare con il principio di imparzialità, dal momento che una

quota dell’ organo di amministrazione è per definizione parziale in

tutte le materie che riguardano il personale; da qui un progressivo

esodo dei sindacati dagli organi di amministrazione degli enti

pubblici);

• il principio di imparzialità valorizza, infine, il procedimento

25

Page 26: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

amministrativo: questo, infatti, richiede che la decisione dell’

amministrazione sia preceduta da una sequenza di atti di natura

istruttoria (sul piano organizzativo, ciò si traduce nella necessità

di separare gli uffici con compiti istruttori da quelli con

competenze decisorie).

§8. Il principio del buon andamento

L’ art. 97 Cost. fa riferimento, oltre che all’ imparzialità, anche al

buon andamento della P.A., cioè all’ efficienza dell’ azione

amministrativa; in particolare, con l’ espressione in esame si

vuole far riferimento, innanzitutto, alla relazione che si viene ad

instaurare tra risorse, umane e materiali, impiegate e risultati

ottenuti (efficienza, in senso stretto): un’ amministrazione è

efficiente quando adotta i mezzi più adatti e meno costosi per

svolgere i propri compiti (ad es., un amministrazione che impiega

più personale, più denaro o più tempo di quelli necessari è un’

amministrazione che agisce in modo inefficiente).

L’ inciso buon andamento fa riferimento, però, anche alla

relazione tra risultati ottenuti e obiettivi prestabiliti (si parla, in tal

caso, di efficacia): un’ amministrazione è efficace se riesce a

conseguire risultati di buona qualità, corrispondenti agli obiettivi

stabiliti (ad es., l’ amministrazione scolastica è efficace se riesce

ad ottenere una buona preparazione degli studenti; allo stesso

modo, l’ amministrazione sanitaria è efficace se riesce

effettivamente a migliorare le condizioni di salute dei cittadini).

Detto ciò, è necessario adesso porre in evidenza alcuni degli

effetti che il principio del buon andamento esplica nell’

organizzazione della P.A.: innanzitutto, va sottolineato che il

riparto delle funzioni amministrative (tra lo Stato, le regioni e gli

enti locali), enunciato dall’ art. 118 Cost., deve tener conto della

capacità degli apparati di svolgerle in modo adeguato; è questa la

ragione per la quale, se determinate attribuzioni vengono

trasferite da un apparato ad un altro (ad es., dallo Stato alle

26

Page 27: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

regioni), anche le relative risorse, umane e finanziarie, dovranno

essere trasferite. In quest’ ottica, il nuovo art. 118 Cost. stabilisce

che le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni, salvo

che, per assicurarne l’ esercizio unitario, siano conferite a

province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base dei

princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza (un

criterio di adeguatezza può, ad es., sconsigliare l’ attribuzione di

certe funzioni ai comuni o a certi comuni, come quelli minori);

nella stessa direzione si pone anche l’ art. 119 Cost., secondo il

quale le risorse finanziarie degli enti territoriali devono consentire

di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite.

In secondo luogo, il principio del buon andamento esclude che

possano essere istituiti apparati amministrativi senza competenze

(all’ esclusivo scopo, cioè, di sistemare personale): in tal senso si

è espressa la Consulta con sent. 14/62; ciò impone, di

conseguenza, che il reclutamento nelle pubbliche amministrazioni

avvenga sulla base di piante organiche, nelle quali sia

numericamente indicato il personale occorrente e che lo stesso

sia distribuito per qualifiche e mansioni (Corte cost., sent. 1/99).

Il principio del buon andamento opera, poi, come temperamento

del principio di legalità: mentre, infatti, quest’ ultimo, non pone

alcun limite al legislatore nell’ ordinamento dei pubblici uffici (art.

97, cpv. Cost.), il principio del buon andamento esige, invece, che

una parte della disciplina sia riservata al Governo e, al di fuori

dello Stato, all’ amministrazione. In effetti, un apparato

amministrativo che fosse integralmente regolato dalla legge

risulterebbe estremamente rigido; ciò significa, quindi, che per

essere efficace ed efficiente, l’ organizzazione deve essere in

qualche modo flessibile [da qui la tendenza, a partire dagli anni

’90, a delegificare la materia dell’ organizzazione, rimettendo la

relativa disciplina alla contrattazione collettiva e ad atti normativi

(regolamenti) ed organizzativi della stessa amministrazione].

Il principio del buon andamento ha, inoltre, determinato negli anni

27

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recenti una revisione del sistema dei controlli; infatti, la

Costituzione prevedeva, inizialmente, i soli controlli, di legittimità

e di merito, sugli atti (dello Stato, delle regioni e degli enti locali);

recentemente, viceversa, si è finalmente giunti a capire che i

criteri di efficienza ed efficacia dell’ azione amministrativa

richiedono la valutazione non tanto dei singoli atti, ma dell’

attività nel suo complesso, perché solo in tal modo si è in grado di

tener conto di entità come: le risorse, i risultati e gli obiettivi (se,

ad es., un comune di piccole dimensioni assume un

programmatore, la sua efficienza verrà incrementata; al contrario,

se con 50 delibere diverse assume 50 programmatori, il buon

andamento ne soffrirà, perché un settore verrà sovradotato di

personale, con palese spreco di risorse).

È importante specificare, infine, che il principio del buon

andamento è oggi anche un criterio per la valutazione del

personale dirigente, il quale viene giudicato in base ai risultati del

controllo di gestione (così, ad es., una valutazione negativa

ripetuta da parte del dirigente può comportare la risoluzione del

rapporto di impiego).

§9. Le funzioni amministrative e le autonomie locali

Gli Stati moderni, nel corso di un processo che è stato avviato

cinque secoli fa (in Francia, in Spagna e in Gran Bretagna), hanno

assorbito compiti che, per tutto il medioevo, erano stati svolti

dalle collettività minori (i comuni); nel corso di questo processo la

funzione normativa si è staccata da quella amministrativa ed è

venuta a far capo ai parlamenti e ai governi; mentre per la cura in

concreto degli interessi pubblici sono stati creati, all’ interno dello

Stato, appositi apparati (i ministeri) incaricati ciascuno di un

particolare compito (l’ ordine pubblico, la difesa esterna, la

riscossione dei tributi, le opere pubbliche, etc.); col tempo, però,

la struttura ministeriale è apparsa inadeguata per lo svolgimento

di alcune funzioni che richiedevano un’ azione più spedita; ed è

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per questo motivo che nel secondo dopoguerra alcuni Stati

europei hanno assunto una forma federale (Germania e Austria),

mentre altri (come l’ Italia) hanno assunto una forma regionale:

cosicché, al di sotto dello Stato sono state create unità politiche

minori (come le regioni), le quali riproducono, in qualche modo, lo

schema statuale (ai ministeri corrispondono, infatti, gli assessorati

e al Parlamento i consigli regionali).

In ogni caso, occorre sottolineare che le comunità minori (comuni

e province), pur avendo perso molte funzioni (transitate, almeno a

livello normativo, allo Stato o alla regione), hanno comunque

continuato ad esprimere un’ inesauribile vitalità; tant’è vero che,

negli anni più recenti, il loro ruolo è cresciuto enormemente a

causa di una sempre più ampia domanda di prestazioni pubbliche

da parte dei cittadini (prestazioni che lo Stato non riesce più a

fronteggiare da solo e, quindi, tende a scaricare verso il basso:

verso, cioè, le istituzioni locali, in quanto più vicine ai cittadini).

In Italia, però, l’ accresciuta complessità di questo quadro

organizzativo ha richiesto un intervento costituzionale, allo scopo

di stabilire alcuni criteri di distribuzione delle funzioni.

Innanzitutto, è necessario premettere che, in ossequio al principio

di legalità, le funzioni amministrative seguono le funzioni

legislative: in altri termini, in un ordinamento come il nostro, in

cui la funzione legislativa è suddivisa tra lo Stato e le regioni, si

può dire, in linea di massima, che il titolare della potestà

legislativa è anche titolare della potestà amministrativa. Ora,

poiché l’ art. 117 Cost. (nella versione risultante dalla modifica

attuata con l. cost. 3/01) prevede tre specie di potestà legislativa

[la potestà legislativa esclusiva dello Stato nelle materie elencate

nel comma 2; la potestà legislativa concorrente dello Stato e delle

regioni nelle materie elencate nel comma 3; e la potestà residuale

(o esclusiva) delle regioni nelle materie non espressamente

riservate allo Stato (comma 4)] se ne deduce che: lo Stato

esercita funzioni amministrative nelle materie assegnate alla sua

29

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potestà legislativa esclusiva; le regioni nelle materie di

competenza residuale; ed entrambi nelle materie devolute alla

competenza legislativa concorrente.

Questa regola del parallelismo tra funzioni legislative e funzioni

amministrative, che era espressamente sancita dall’ art. 118

Cost. (nella sua versione originaria), ha subìto, con la modifica

costituzionale del 2001, temperamenti e deroghe: stabilisce,

infatti, il nuovo art. 118 Cost. che le funzioni amministrative sono

attribuite ai comuni, salvo che, per assicurarne l’ esercizio

unitario, siano conferite a province, città metropolitane, regioni e

Stato sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione e

adeguatezza.

Questa competenza amministrativa riservata agli enti locali (ed in

primis ai comuni) si giustifica soprattutto alla luce del

fondamentale principio di autonomia: autonomia che la

Repubblica (all’ art. 5 Cost.) riconosce e promuove, anche perché

essa è costituita dai comuni, dalle province, dalle città

metropolitane e dalle regioni, oltre che dallo Stato (art. 114

Cost.); in particolare, la nuova formulazione dell’ art. 114,

introdotta dalla L. cost. 3/01, intende enfatizzare due cose: la

prima è che gli enti sopra citati non sono delle semplici

articolazioni territoriali, ma elemento costitutivo della Repubblica;

la seconda è che la conta, per così dire, comincia dal basso, vale

a dire dai comuni per arrivare allo Stato.

§10. Gli organi consultivi e gli organi di controllo

La Costituzione contiene, nel Titolo III (del Governo), una Sezione

dedicata agli organi ausiliari: il Consiglio Nazionale dell’ economia

e del lavoro, il Consiglio di Stato (che è sia organo di consulenza

giuridico-amministrativa che di tutela della giustizia nell’

amministrazione) e la Corte dei Conti (che è organo di controllo).

L’ art. 100, ult. co. Cost. assicura l’ indipendenza del Consiglio di

Stato e della Corte dei Conti (e dei loro componenti) di fronte al

30

Page 31: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Governo (che è, invece, organo di amministrazione attiva).

Questa indipendenza viene ribadita anche in relazione alle

funzioni giurisdizionali attribuite ai due organi: al Consiglio di

Stato, per la tutela degli interessi legittimi e, in particolari materie

indicate dalla legge, dei diritti soggettivi (art. 103); alla Corte dei

Conti, sulle materie di contabilità pubblica e nelle altre materie

indicate dalla legge (art. 103, cpv.).

Si tratta, quindi, di organi che fanno parte dell’ amministrazione,

ma in un certo senso sono ad essa estranei: non solo, è ovvio,

perché svolgono anche funzioni giurisdizionali, ma anche perché

svolgono funzioni di consulenza e di controllo.

Queste funzioni, invero, non comportano una valutazione di

interessi (valutazione che deve essere effettuata dall’ autorità

amministrativa), ma il confronto tra una proposta o una decisione,

da un lato, e un criterio di valutazione, dall’ altro: la proposta che

viene sottoposta all’ organo consultivo, la decisione che è

assoggettata al controllo.

§11. Il sistema dei controlli

La nostra Costituzione, nella sua versione originaria, conteneva

tre specifiche disposizioni sui controlli:

• i controlli della Corte dei Conti sull’ amministrazione dello Stato

e sugli enti in cui lo Stato contribuisce in via ordinaria (art. 100);

• i controlli dello Stato sugli atti amministrativi delle regioni (art.

125, co. 1);

• i controlli delle regioni sugli atti degli enti locali (art. 130).

I controlli in esame presentano tre aspetti in comune:

innanzitutto, occorre specificare che l’ organo di controllo si

colloca all’ esterno dell’ amministrazione controllata; esso, infatti,

o fa parte di un ente diverso (ad es., lo Stato che controlla la

regione) o è collocato in una posizione di indipendenza rispetto al

Governo (è il caso della Corte dei Conti).

Il controllo, in secondo luogo, investe i singoli atti: a tale regola fa,

31

Page 32: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

però, eccezione la previsione secondo la quale la Corte dei Conti è

chiamata ad effettuare anche il controllo (successivo) sulla

gestione del bilancio dello Stato e sulla gestione finanziaria degli

enti pubblici.

In terzo luogo, occorre sottolineare che il controllo in esame

assume i caratteri del controllo di legittimità: si tratta, in

particolare, di un controllo cd. preventivo, perché viene esercitato

prima che l’ atto possa produrre i suoi effetti (nel senso che questi

ultimi non si producono se il controllo è negativo, cioè se l’ organo

di controllo, una volta controllato l’ atto, nega il visto).

È necessario sottolineare, però, che con la riforma del Titolo V

Cost. del 2001 (L. 3/01) sono state soppresse le disposizioni sui

controlli dello Stato sulle regioni e delle regioni sugli enti locali, in

virtù dell’ autonomia che è stata riconosciuta a tali enti (regioni

ed enti locali); rimane intatto, pertanto, solo l’ art. 100 Cost.

Tuttavia, è bene precisare che, con questa modifica, i controlli

sulle regioni e sugli enti locali non sono venuti meno, ma sono

stati, per così dire, internalizzati: sono stati, cioè, trasformati in

una sorta di controllo interno (il controllo, cioè, che ciascuna

amministrazione esercita sul proprio funzionamento e che non

viene più esercitato in rapporto a parametri di stretta legalità, ma

in riferimento ai risultati raggiunti, collegati agli obiettivi

programmati).

32

Page 33: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Sezione III

Le fonti

§1. La riserva di legge

La disciplina della P.A., che trova nella Costituzione i suoi princìpi

fondamentali, è contenuta nelle leggi (sia statali che regionali) e

nei regolamenti; ed è oggi profondamente influenzata anche dal

diritto comunitario e dalle convenzioni internazionali.

Ora, in riferimento alla legge, è necessario sottolineare che il

principio di legalità, come detto in precedenza, richiede che la

legge non solo dia un fondamento al potere amministrativo, ma

che ne definisca anche i tratti essenziali (art. 97 Cost.); più

precisamente, la nostra Costituzione (che, è bene ricordare, non

enuncia espressamente il principio di legalità), utilizza la

categoria della riserva di legge [questa può essere assoluta o

relativa: quella assoluta ricorre quando una norma costituzionale

attribuisce soltanto alla legge, e non ad una fonte subordinata, il

potere di disciplinare una determinata materia (si pensi, ad es.,

alle libertà fondamentali o alla materia penale); quella relativa,

invece, ricorre quando la legge si limita a fissare la disciplina di

principio di una determinata materia, nell’ ambito della quale è

ammesso l’ intervento di regolamenti].

Secondo l’ opinione unanime, la P.A. è sottoposta ad una riserva

di legge relativa; tuttavia, l’ art. 97 Cost. non si limita

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Page 34: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

semplicemente a distribuire la competenza normativa tra legge e

regolamento, ma delinea anche il minimo che deve essere

regolato dalla legge: non a caso, l’ art. 97 cpv. stabilisce che alla

legge (e soltanto alla legge) spetta stabilire, nell’ ordinamento

degli uffici, le sfere di competenza, le attribuzioni e le

responsabilità dei funzionari (e poiché le attribuzioni e le

competenze hanno per oggetto poteri amministrativi e questi

poteri si esercitano a mezzo di atti amministrativi, ne consegue

che deve essere riservato alla legge il conferimento di potestà

amministrative).

In ogni caso, è bene precisare che la Costituzione con la locuzione

riserva di legge ha inteso far riferimento non solo alle leggi in

senso formale, ma anche ai decreti legislativi e ai decreti legge;

va chiarito, inoltre, che la riserva può anche essere soddisfatta da

una legge regionale (qualora la materia ricada nella competenza

legislativa concorrente o esclusiva della regione, ex art. 117

Cost.).

Se, però, da un lato, l’ art. 97 Cost. stabilisce il contenuto minimo

che la legge deve avere in relazione all’ organizzazione

amministrativa (attribuzioni, competenze e responsabilità), dall’

altro lato stabilisce anche due limiti a carattere finalistico (e

questo perché la legge deve assicurare l’ imparzialità ed il buon

andamento dell’ amministrazione).

Non solo: la Costituzione determina anche un contenuto massimo,

al di là del quale la legge non può spingersi; e ciò perché, in virtù

del principio della separazione dei poteri, è escluso che il

legislatore possa fare l’ amministratore (è escluso, cioè, che la

legge abbia il contenuto concreto dell’ attività amministrativa). A

sostegno di quanto detto, si è rilevato, ad es., che se contro gli

atti della P.A. è sempre ammessa la tutela giurisdizionale (art. 113

Cost.), la legge non potrebbe avere il contenuto di un atto

amministrativo, perché, se lo avesse, verrebbe negata al

destinatario la tutela giurisdizionale (il singolo, infatti, può

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Page 35: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

impugnare un atto amministrativo, non una legge).

Secondo questa persuasiva impostazione, la Costituzione

disporrebbe, quindi, anche una riserva di provvedimento

amministrativo, così vietando le cd. leggi-provvedimento: quelle

leggi, cioè, che, anziché limitarsi a prevedere i casi da regolare,

provvedono concretamente su casi e rapporti specifici, attraendo

nella propria sfera di disciplina materie e oggetti normalmente

affidati all’ autorità amministrativa (è necessario sottolineare,

però, che questa tesi non ha trovato l’ avallo della Corte

Costituzionale, la quale ha, invero, fatte salve, in numerose

occasioni, le leggi-provvedimento).

§2. I regolamenti

La riserva di legge relativa, alla quale è sottoposta la P.A.,

comporta che una quota rilevante della disciplina che la riguarda

può essere contenuta nei regolamenti governativi, la cui materia

è oggi disciplinata dalla L. 400/88. In tale legge sono elencate, in

particolare, cinque specie di regolamenti:

•i regolamenti esecutivi (che vengono adottati per l’ esecuzione

delle leggi, dei decreti legislativi e dei regolamenti comunitari);

• i regolamenti di integrazione (delle norme di principio contenute

nelle leggi e nei decreti legislativi);

• i regolamenti indipendenti (che vengono adottati nelle materie

in cui manchi la disciplina da parte di leggi o di atti aventi forza di

legge, sempre che non si tratti di materie riservate comunque alla

legge);

• i regolamenti di organizzazione (che disciplinano l’

organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni

pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge);

• i regolamenti di delegificazione (così denominati perché la

disciplina, un tempo tutta contenuta nella legge, viene

ridistribuita tra la legge, che detta le norme generali, ed il

regolamento).

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Page 36: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Accanto ai regolamenti governativi, la L. 400/88 prevede, poi, i

regolamenti ministeriali, i quali possono essere adottati nella

materia di competenza del ministro (o di autorità sott’ ordinate),

qualora la legge conferisca espressamente tale potere; è

necessario sottolineare, però, che i regolamenti ministeriali (o

interministeriali) non possono dettare norme contrarie a quelle

dei regolamenti emanati dal Governo.

Particolare importanza assumono anche i regolamenti degli enti

territoriali, sui quali hanno, però, inciso in modo rilevante le

riforme costituzionali del 1999 e del 2001. L’ art. 121 Cost., nella

sua originaria formulazione, attribuiva al consiglio regionale la

potestà legislativa e regolamentare della regione; la riforma

apportata dalla L. 1/99 ha, invece, eliminato questa riserva

attribuita al consiglio, sicché oggi spetterà alla singola regione

assegnare tale potestà al consiglio o alla giunta (attraverso il

proprio statuto). In concreto, tutte le regioni, ad eccezione dell’

Abruzzo, hanno conferito la potestà regolamentare alla giunta

regionale, prevedendo per lo più forme di partecipazione del

consiglio (per effetto di questo spostamento della competenza, la

produzione regolamentare della regione ha ricevuto un nuovo

impulso).

L’ altra importante modifica è stata, invece, apportata dalla L.

3/01: in particolare, l’ art. 117, co. 6 Cost., nella nuova

formulazione, attribuisce allo Stato la potestà regolamentare nelle

materie di legislazione esclusiva, mentre in ogni altra materia

spetta alle regioni (viene meno, così, la potestà regolamentare

dello Stato nelle materie di competenza concorrente).

Il nuovo art. 117 Cost. stabilisce, infine, che i comuni, le province

e le città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine

alla disciplina dell’ organizzazione e dello svolgimento delle

funzioni loro attribuite (si tratta, in realtà, del riconoscimento

normativo di una potestà che gli enti locali, ed in particolare i

comuni, hanno sempre avuto).

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Page 37: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

§3. Gli statuti

Tra le fonti rilevanti per l’ amministrazione vanno annoverati,

inoltre, gli statuti delle regioni e degli enti locali. Ciascuna

regione, infatti, ha un proprio statuto (espressione della sua

autonomia e che deve essere approvato a maggioranza assoluta

dei componenti del consiglio e con due deliberazioni successive a

distanza di due mesi); lo statuto, in armonia con la Costituzione,

determina la forma di governo e i princìpi fondamentali di

organizzazione e di funzionamento della regione: più

precisamente, la potestà statutaria della regione si muove tra la

Costituzione, la quale individua gli organi di governo (consiglio,

giunta e presidente) e ne disciplina le funzioni essenziali, e la

competenza legislativa residuale (della regione stessa) in materia

di organizzazione amministrativa.

Diversa è, invece, la condizione delle regioni a statuto speciale,

perché i loro statuti sono stati approvati con legge costituzionale

del Parlamento: sicché essi sono, sul piano formale, sovraordinati

agli statuti delle regioni ordinarie (perché hanno il rango delle

leggi costituzionali), ma sul piano sostanziale sono espressione di

un’ autonomia minore (proprio perché la legge votata dal

consiglio regionale deve essere, a sua volta, approvata dal

Parlamento, ex art. 138 Cost.).

Anche gli enti locali (comuni, province e città metropolitane)

hanno propri statuti: l’ art. 114, co. 2 Cost. afferma, infatti, che

essi sono enti autonomi con propri statuti [ovviamente, anche qui

la potestà statutaria incontra il limite della Costituzione, alla quale

spetta, infatti, il compito di fissare la legislazione elettorale, gli

organi di governo e le funzioni fondamentali degli enti locali, ex

art. 117, co. 2, lett. p) Cost.].

§4. Le fonti comunitarie

Il quadro costituzionale dell’ attività amministrativa non sarebbe

37

Page 38: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

completo se non venisse integrato con i princìpi dell’ Unione

europea, sanciti dal Trattato di Roma (stipulato nel 1950) e dal

diritto comunitario derivato (direttive, regolamenti e sentenze

della Corte di Giustizia CE).

In questa prospettiva, la Corte Costituzionale ha ritenuto che, con

la stipula del Trattato di Roma, la Repubblica italiana, ai sensi dell’

art. 11 Cost., abbia consentito, in condizioni di parità con gli altri

Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento

che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni; in conseguenza di

ciò, si ritiene che i regolamenti comunitari sono direttamente

applicabili, senza la necessità di norme interne di adattamento o

di ricezione (sent. 183/73); che, in caso di contrasto con il diritto

comunitario, la norma interna confliggente deve essere

disapplicata dal giudice nazionale (sent. 170/84); che lo stesso

rango va riconosciuto alle sentenze della Corte di Giustizia (sent.

379/89); che l’ obbligo di disapplicare le norme interne

incompatibili con il diritto comunitario grava anche sugli organi

amministrativi (sent. 379/89); che i princìpi richiamati vanno

estesi anche alle direttive comunitarie, qualora le stesse

contengano prescrizioni sufficientemente precise e sia decorso il

termine assegnato agli Stati membri per dare attuazione, con

proprio atto normativo, alla direttiva stessa (sent. 161/91).

Costruito in questi termini il rapporto tra i due ordinamenti

(interno e comunitario), risulta evidente che lo status delle norme

comunitarie viene equiparato a quello delle norme della

Costituzione italiana. In realtà, un contrasto potrebbe verificarsi

qualora una disposizione comunitaria venga in contrasto con i

princìpi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale;

anche questa formale riserva, però, è venuta a cadere, in seguito

alla modifica apportata dal nuovo testo dell’ art. 117 Cost., ad

avviso del quale, infatti, la potestà legislativa è esercitata dallo

Stato e dalle regioni, nel rispetto della Costituzione, nonché dei

vincoli derivanti dall’ ordinamento comunitario e dagli obblighi

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Page 39: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

internazionali (ciò significa, in altri termini, che l’ ordinamento

comunitario vincola il legislatore, statale o regionale, nella stessa

misura in cui lo vincola la Costituzione).

§5. Le norme internazionali

Le norme internazionali sono divise nelle due grandi categorie

delle norme consuetudinarie e delle norme convenzionali,

contenute nei trattati. Nella sua formulazione originaria, però, la

Costituzione, regolava in maniera distinta l’ adattamento di

queste norme al diritto interno: ed infatti, mentre per le norme

consuetudinarie prevedeva (e prevede tuttora) l’ adattamento

automatico, in quanto coincidenti con le norme di diritto

internazionale generalmente riconosciute (art. 10, co. 1 Cost.),

per i trattati di natura politica, invece, stabiliva che questi

dovessero essere autorizzati con legge del Parlamento. In altri

termini, prima dell’ entrata in vigore del nuovo art. 117 Cost., si

riteneva che le norme contenute nei trattati internazionali

stipulati dall’ Italia acquistassero il rango di legge ordinaria, che

ad esse dava esecuzione (c.d. ordine di esecuzione): si escludeva,

cioè, che l’ adattamento automatico operasse al di fuori delle

norme consuetudinarie (in tal senso era orientata la stessa Corte

Costituzionale). Di conseguenza, la collocazione dei trattati sul

livello della legge ordinaria comportava la possibilità che le norme

in essi contenute fossero abrogate da norme di legge ordinarie

successive.

Le cose sono cambiate, però, con la nuova formulazione dell’ art.

117 Cost., ai sensi del quale, infatti, la potestà legislativa è

esercitata dallo Stato e dalle regioni, nel rispetto della

Costituzione e dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.

Gli effetti di questa modifica sono stati, in particolare, esaminati

dalla Consulta nella sent. 348/07, in relazione ad un importante

Trattato: la Convenzione europea dei diritti dell’ uomo (CEDU). I

giudici costituzionali hanno precisato che le norme CEDU, pur non

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Page 40: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

obbligando il giudice italiano a disapplicare le norme nazionali in

contrasto con esse; e pur non avendo lo stesso rango delle norme

costituzionali, obbligano, comunque, il legislatore italiano a

rispettarle; da ciò ne consegue che la norma interna incompatibile

con la norma della CEDU viola la Costituzione.

Sezione IV

40

Page 41: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

L’ assetto positivo

§1. Lo Stato e i ministeri

Nel linguaggio del diritto costituzionale l’ idea di Stato rimanda

alla nozione di Governo, di Parlamento, di Capo dello Stato (organi

supremi che assumono le decisioni politiche fondamentali). Nell’

ottica del diritto amministrativo, invece, lo Stato è essenzialmente

un insieme di ministeri: sono queste le sue articolazioni

fondamentali, ognuna associata ad un complemento di

specificazione che ne indica la sfera di azione (ad es., Ministero

dell’ Interno, Ministero degli Affari Esteri, Ministero della Giustizia,

etc.). È bene precisare, però, che la parola ministero presenta un

carattere bifronte, perché essa designa, innanzitutto, una

struttura amministrativa (formata da un insieme di uffici ricoperti

da burocrati); al vertice di tale struttura, però, c’è una persona (il

ministro), che non solo è capo di amministrazione, ma è anche

componente di un collegio politico (il Consiglio dei ministri).

Nel corso di quasi un secolo e mezzo (dal 1860 ad oggi) i ministeri

sono cambiati nel numero, nella denominazione e nelle strutture:

infatti, accanto a ministeri che ci sono sempre stati, e che

continuano ad esserci (esteri, interni, giustizia), ce ne sono altri

che sono nati nel momento in cui un certo interesse collettivo è

stato ritenuto meritevole di essere tutelato con un apposito

ministero (si pensi, ad es., al Ministero della Sanità, al Ministero

dei Beni Culturali o al Ministero dell’ Ambiente).

Dopo decenni di incremento del numero dei ministeri (siamo

arrivati a contarne 25), di recente si è pervenuti ad una drastica

riduzione, ispirata anche a finalità di economia organizzativa;

tuttavia, le buone intenzioni manifestate dal d.lgs. 300/99, che

aveva ridotto a 12 il numero dei ministeri, hanno dovuto fare i

conti con le esigenze dei governi di coalizione (e con la necessità,

quindi, di un congruo numero di posti da spartire). Sicché, con il

d.l. 181/06, conv. in L. 233/06, il numero dei ministeri è stato

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Page 42: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

riportato a 18; nell’ attuale legislatura, però, vi è stata una nuova

riduzione: vi sono, infatti, 13 ministeri.

§2. I ministeri

a) i dipartimenti, le direzioni generali e gli uffici di collaborazione

Nel quadro legislativo definito dal d.lgs. 300/99, i ministeri sono

divisi in due gruppi: in quelli del primo gruppo (interni; giustizia;

economia; lavoro e politiche sociali; istruzione, università e

ricerca; salute) le strutture di primo livello sono rappresentate dai

dipartimenti (i quali abbracciano grandi aree di materie).

Nei ministeri del secondo gruppo (tutti gli altri) le strutture di

primo livello sono, invece, rappresentate dalle direzioni generali

(con ambiti più ridotti rispetto ai dipartimenti); tali direzioni

generali, in particolare, sono coordinate da un segretario generale

(figura non prevista nei ministeri a struttura dipartimentale).

Affianco ai dipartimenti e alle direzioni generali operano, poi, gli

uffici di diretta collaborazione con il ministro, i quali sono legati

all’ organo politico da un rapporto fiduciario (tra di essi

ricordiamo: l’ ufficio legislativo e l’ ufficio di gabinetto). Questi

uffici, però, si distinguono dagli uffici burocratici, perché non sono

organizzati secondo un disegno gerarchico, ma sono collocati in

posizione di staff, ossia in una posizione collaterale al vertice

politico, con il quale hanno un contatto diretto (a prescindere

dalla gerarchia).

b) l’ organizzazione periferica

Molti ministeri, accanto ad un apparato centrale, presentano

anche un apparato periferico, che fa capo ad un ufficio organo (si

pensi, ad es., al prefetto, che fa capo al Ministero dell’ Interno; al

provveditore agli studi, che fa capo al Ministero della Pubblica

Istruzione; all’ intendenza di finanza, che fa capo al Ministero

delle Finanze, etc.). A tali uffici periferici (sempre, o quasi sempre,

di dimensione provinciale) è stata riconosciuta una parziale

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Page 43: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

soggettività giuridica (negata, questa, per oltre un secolo, alle

direzioni generali dei ministeri); ciò si spiega in considerazione del

fatto che, se così non fosse stato, anche, ad es., il prefetto, il

provveditore agli studi o l’ intendente di finanza (cioè, l’ apparato

periferico) avrebbe dovuto sottoporre i suoi atti alla firma del

ministro e sarebbe, di conseguenza, venuta meno la stessa utilità

di un’ organizzazione periferica dello Stato.

È necessario sottolineare, però, che con l’ istituzione delle regioni

(1970), l’ organizzazione periferica dello Stato ha perso,

ovviamente nei settori regionalizzati (agricoltura, turismo e, in

parte, lavori pubblici) una parte dei suoi spazi; con la riforma del

1999 è stato, poi, attuato un ulteriore snellimento delle strutture

periferiche: alcune sono state fatte salve (difesa, economia e

finanze, beni culturali), mentre le altre sono state concentrate

nelle prefetture (denominate, oggi, uffici territoriali di governo).

c) la responsabilità ministeriale

L’ art. 95, co. 2 Cost., affermando che i ministri (nei confronti del

Parlamento) sono responsabili collegialmente degli atti del

Consiglio dei ministri e individualmente degli atti dei loro

dicasteri, concorre, almeno in parte, a definire il rapporto tra il

ministro e la burocrazia ministeriale (e, in primo luogo, i dirigenti).

Ora, questa formula (che afferma la responsabilità del ministro

per gli atti del suo dicastero) è stata interpretata, anche prima

della sua costituzionalizzazione, nel senso che tutti gli atti del

ministero fossero giuridicamente imputabili al ministro (anche se

non posti in essere dallo stesso); si trattava, però, di un’ evidente

esagerazione che, come già affermava il Presidente del Consiglio

Bettino Ricasoli nel 1866 (quindi, sin dalle origini dell’ Italia unita),

eliminava di fatto la responsabilità dei dirigenti (mettendo, così, in

discussione il buon andamento dell’ amministrazione stessa).

La questione del rapporto tra ministro e dirigente non si

esaurisce, però, nell’ art. 95, ma è presa in considerazione anche

43

Page 44: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

dagli artt. 28 e 97 Cost.

In particolare, l’ art. 97, come sappiamo, dopo aver enunciato i

princìpi di buon andamento e di imparzialità dell’

amministrazione, prescrive che nell’ ordinamento degli uffici

siano determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le

responsabilità proprie dei funzionari. Ora, poiché l’ inciso proprie

è riferito sia alla responsabilità che alla competenza, se ne

deduce che la competenza non può essere limitata al ministro,

ma deve essere estesa anche ai dirigenti, i quali sono chiamati a

rispondere degli atti compiuti nell’ esercizio di tale competenza,

senza che possano trincerarsi dietro la responsabilità ministeriale

(in tal senso: Merloni).

Che i funzionari (e, quindi, anche i dirigenti) rispondano

direttamente dei propri atti, compiuti in violazione dei diritti,

risulta poi confermato dall’ art. 28 Cost.: ne rispondono secondo

le leggi penali, civili e amministrative; viceversa, i ministri (ex art.

95 Cost.) rispondono politicamente degli atti dei loro dicasteri (e

quindi, anche di quelli posti in essere dai dirigenti).

In definitiva, le tre disposizioni su analizzate (artt. 95, 97 e 28

Cost.) compongono, come si può notare, un quadro in cui la

responsabilità politica del ministro (per gli atti del suo dicastero)

convive con la responsabilità diretta del dirigente (che è titolare

di una sua sfera di competenza) e forniscono anche un criterio per

distinguere il contenuto di tale responsabilità: una responsabilità

politica del ministro ed una responsabilità civile, penale e

amministrativa del dirigente (della quale, però, è bene precisarlo,

è tenuto a rispondere anche il ministro, essendo egli stesso

funzionario e, quindi, destinatario dei precetti contenuti negli artt.

28 e 97 Cost.).

d) i ministri e i dirigenti

Il D.P.R. 748/72 (cd. decreto sulla dirigenza), staccando - dalla

carriera direttiva del personale statale - la carriera dirigenziale

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Page 45: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

(articolata nelle tre qualifiche di dirigente generale, dirigente

superiore e primo dirigente) aveva attribuito ai dirigenti

competenze proprie (in tal modo, i dirigenti, dopo essere stati per

lungo tempo titolari di meri uffici, diventavano organi dell’

amministrazione).

Si trattava, in particolare, di competenze dirette ad adottare atti

che impegnavano l’ amministrazione verso l’ esterno (il cui valore

monetario era comunque inferiore ad una certa soglia e la cui

natura era vincolata); in capo al ministro veniva, invece,

mantenuta la competenza ad adottare gli atti più rilevanti e a

sindacare l’ operato dei dirigenti mediante poteri di intervento sui

loro atti (revoca, riforma, annullamento) o sulle loro competenze

(avocazione e riserva preventiva di atti).

Le cose, però, sono successivamente cambiate: infatti, con i d.lgs.

29/93 e 165/01, è stato enunciato un nuovo criterio di riparto

delle competenze tra gli organi di governo e i dirigenti (cd. riparto

funzionale). In questa prospettiva, gli organi di governo sono oggi

chiamati a definire gli obiettivi e i programmi da attuare e

verificano la rispondenza dei risultati della gestione

amministrativa alle direttive generali impartite; ai dirigenti,

invece, spetta la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa

(compresi gli atti che impegnano l’ amministrazione verso l’

esterno) mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione

delle risorse, umane e strumentali, e di controllo.

Il riparto delle competenze tra organi di governo e dirigenti è

reso, poi, ancora più netto dal divieto, per l’ organo politico (il

ministro), di revocare o avocare a sé atti di competenza dei

dirigenti: in caso di inerzia o ritardo, infatti, l’ organo politico può

fissare al dirigente un termine entro il quale provvedere e, se l’

inerzia persiste, può nominare un commissario ad acta.

Tuttavia, è necessario sottolineare che se, da un lato, l’organo

politico (il ministro) ha perso la possibilità di intervenire sugli atti

del dirigente (revoca, annullamento, modifica, avocazione etc.),

45

Page 46: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

dall’ altro lato ha mantenuto (anzi, ha rafforzato) i propri poteri

sul piano dell’ investitura: infatti, a differenza del rapporto di

lavoro privato, in cui il possesso di una qualifica lavorativa

comporta il diritto di esercitare le relative mansioni (ex art. 2103

c.c.), alla qualifica dirigenziale si accede mediante concorso; l’

incarico di funzioni dirigenziali viene, però, conferito dall’ organo

politico (sicché da tale incarico dipende lo svolgimento delle

mansioni proprie del dirigente). L’ incarico di funzioni dirigenziali

ha una durata limitata nel tempo (da un minimo di 3 anni ad un

massimo di 5) ed è rinnovabile: ovviamente, la temporaneità dell’

incarico si spiega in funzione del controllo sull’ operato del

dirigente da parte dell’ organo politico (così, ad es., se il dirigente

non ha raggiunto gli obiettivi che gli sono stati prefissati, l’

incarico non può essere rinnovato).

§3. L’ amministrazione locale

a) il principio elettivo e le modalità di elezione

L’ altro grande braccio dell’ amministrazione pubblica è costituito

dall’ amministrazione locale (comuni, province e città

metropolitane).

Le province sono state istituite subito dopo l’ unificazione italiana,

sul modello francese; le città metropolitane, invece, sono previste

dal nuovo testo dell’ art. 114 Cost.; i comuni, infine, risalgono a

secoli addietro (i più antichi addirittura al medioevo).

Gli enti locali si distinguono dagli altri enti pubblici per la modalità

di investitura degli organi di base, che non poggia su una nomina,

ma su una elezione (in tal senso si è espressa la Consulta con le

sentt. 42/61 e 96/68); in questa prospettiva, il primo e più

importante tratto caratteristico dell’ ente locale è quello della

elettività dei suoi organi di base (un principio che risale ad epoca

remota e che solo il fascismo ha cercato di negare); l’ elettività

46

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degli organi comporta, di conseguenza, la possibilità che la

maggioranza al comune ovvero alla provincia sia di colore diverso

dalla maggioranza al Parlamento nazionale o al consiglio

regionale (ed è questa l’ implicazione fondamentale dell’

autonomia dell’ amministrazione locale).

Analizziamo adesso le modalità di elezione (prima e dopo la

riforma del 1993). Prima della riforma del 1993 i cittadini

eleggevano il consiglio (comunale o provinciale) e questi, a sua

volta, eleggeva il sindaco (o il presidente della provincia) e i

componenti della giunta; tale meccanismo, però, non era

particolarmente idoneo ad assicurare stabilità all’ esecutivo dell’

ente locale, dal momento che alcuni consiglieri della

maggioranza, aspirando a far parte della giunta (o ad esserne a

capo, in qualità di sindaco o di presidente della provincia),

potevano sabotare l’ esecutivo, togliendo ad esso l’ appoggio (con

il preciso intento di determinarne la caduta e di provocare un

avvicendamento che avrebbe potuto favorirli).

In virtù di tali considerazioni, con L. 81/93, il sistema di

rappresentanza è stato radicalmente mutato: cosicché all’

elezione del consiglio è stata affiancata l’ elezione diretta del

sindaco (o del presidente della provincia) e all’ elezione della

giunta, da parte del consiglio, è subentrata la nomina del sindaco.

Pertanto, ragionando in questi termini, possiamo affermare con

certezza che il modello costituzionale al quale si ispira oggi il

sistema locale è di tipo presidenziale (sul modello statunitense):

ed infatti, i rappresentanti eletti (il consiglio) e il capo dell’

esecutivo (sindaco o presidente) hanno un’ investitura popolare

diretta; forte di questa investitura, quindi, il sindaco o il

presidente della provincia sceglie gli assessori (i componenti della

giunta) sulla base di un rapporto di natura fiduciaria, che

dovrebbe prescindere dalle appartenenze ai partiti e alle liste

collegate (anche se ciò, a ben vedere, risulta quasi inevitabile a

causa degli accordi fatti in vista delle elezioni).

47

Page 48: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Con il modello presidenziale, che presuppone (nel capo dell’

esecutivo) un’ investitura che prescinde dalla fiducia del

legislativo (il consiglio) contrasta, però, l’ istituto della mozione di

sfiducia, disciplinato dall’ art. 52 d.lgs. 267/00; è, tuttavia,

previsto un potente correttivo: se, infatti, la sfiducia viene votata

ne consegue lo scioglimento del consiglio e la nomina di un

commissario; in altri termini, i consiglieri sanno che se la loro

iniziativa (la presentazione della mozione di sfiducia) avrà

sèguito, cesseranno automaticamente di essere consiglieri,

perché l’ organo (il consiglio) verrà disciolto.

Detto questo, è necessario adesso analizzare il particolare

meccanismo elettorale degli enti locali. Tale meccanismo è

diverso a seconda che il comune abbia meno o più di 15000

abitanti: nel primo caso ciascun candidato alla carica di sindaco è

collegato ad una lista di candidati al consiglio comunale (in

questo caso, quindi, l’ elettore, votando per il candidato sindaco,

vota anche per la lista che lo sorregge, nell’ ambito della quale

può votare anche il candidato consigliere che preferisce).

Terminata la votazione, viene eletto sindaco il candidato che

ottiene il maggior numero di voti; e alla lista collegata sono

attribuiti i due terzi dei seggi assegnati al consiglio (gli altri,

ovviamente, sono assegnati in modo proporzionale alle altre

liste).

Nei comuni con più di 15000 abitanti, invece, il sindaco viene

eletto con la maggioranza assoluta dei voti validi; pertanto, se

nessun candidato supera il 50% dei voti, la domenica successiva

si procede ad un secondo turno (cd. ballottaggio), al quale sono

ammessi i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero

dei voti. È importante specificare, inoltre, che in questi casi la

candidatura a sindaco è collegata ad una o più liste, ma il

collegamento non è così stretto come nei comuni minori, perché l’

elettore può votare la lista, ma può non votare il candidato

sindaco ad essa collegato (e scegliere un candidato collegato ad

48

Page 49: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

un’ altra lista). Ciò significa, in altri termini, che pur essendo

possibile che il candidato sindaco venga eletto al primo turno, è

altrettanto possibile che la lista o le liste collegate non

raggiungano il 50% dei voti: in tal caso è previsto un premio di

maggioranza (il 60% dei seggi del consiglio), purché la lista (o il

gruppo di liste) abbia conseguito il 40% dei voti (e nessun altra

lista abbia, ovviamente, superato il 50% dei voti).

Per converso, se il sindaco viene eletto dopo il ballottaggio, e la

lista o le liste collegate non hanno conseguito il 60% dei voti,

anche in questo caso esse ottengono un premio di maggioranza

(il 60% dei seggi), sempre che nessun altra lista o gruppo di liste

abbia superato, al primo turno, il 50% dei voti.

Il procedimento dettato per l’ elezione nei comuni maggiori si

applica anche alle province.

b) le funzioni

Dagli altri apparati amministrativi (i ministeri, gli enti pubblici, le

aziende pubbliche, etc.) il comune si distingue perché svolge una

molteplicità di funzioni, di servizi e di interessi (ciò dipende dalla

storia, che ha visto per secoli il comune come la sola

organizzazione collettiva del territorio, chiamata dai suoi cittadini

ad assumersi compiti che essi, da soli, non potevano assolvere).

La polifunzionalità dei comuni è oggi riconosciuta dall’ art. 13

d.lgs. 267/00, il quale infatti stabilisce che spettano al comune

tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione e il

territorio comunale (ad es., i servizi alla persona e alla comunità;

l’ utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico), salvo

quanto non sia attribuito dalla legge (statale o regionale) ad altri

soggetti: si pensi, ad es., alle funzioni che, pur riferibili alla

popolazione e al territorio, sono attribuite dalla legge ad enti

diversi (ASL, IACP, aziende di promozione turistica, etc.).

Questa sorta di presunzione di competenza generale dei comuni è

stata, poi, ribadita dalla riforma costituzionale del 2001: non a

49

Page 50: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

caso, il nuovo art. 118, co. 1 Cost. stabilisce che le funzioni

amministrative sono attribuite ai comuni, salvo che, per

assicurarne l’ esercizio unitario, siano conferite a province, città

metropolitane, regioni e Stato, sulla base dei princìpi di

sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.

Ora, presa alla lettera, la prima parte di questa disposizione

sembra stabilire una presunzione generale di competenza dei

comuni per l’ attività amministrativa; ma in realtà, un assetto del

genere (che, tra l’ altro, riporterebbe il nostro sistema

istituzionale al medioevo, quando non esistevano altre forme di

governo al di fuori di quella municipale) deve fare i conti con un

quadro costituzionale nel quale continua a campeggiare il

principio di legalità. Ciò significa, pertanto, che sarà la legge

(regionale o statale) a distribuire le competenze amministrative

sui vari livelli territoriali in base ai criteri di sussidiarietà,

adeguatezza e differenziazione (criteri che sono stati mutuati

dalla L. 59/97: prima legge Bassanini). In particolare, in virtù del

principio di sussidiarietà le funzioni amministrative saranno

attribuite ai comuni, alle province e alle comunità montane,

secondo le rispettive dimensioni territoriali (il principio in esame,

come si può facilmente notare, privilegia il criterio dimensionale);

qualora, però, la funzione interessata sia incompatibile con la

dimensione dell’ ente, il principio in esame giustifica l’ intervento

sussidiario del livello di governo superiore.

Non diverse sono le conseguenze del principio di adeguatezza, il

quale, infatti, richiede che l’ amministrazione ricevente sia in

grado di garantire, anche in forma associata con altri enti, l’

esercizio delle relative funzioni (ciò, in realtà, già risulta implicito

nel principio di sussidiarietà).

Lo stesso discorso può essere fatto per il principio di

differenziazione, il quale impone di tener conto, nell’ allocazione

delle funzioni, anche delle diverse caratteristiche associative,

demografiche, territoriali e strutturali degli enti riceventi; richiede,

50

Page 51: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

cioè che, nell’ allocazione delle funzioni, si tenga conto non solo

della diversa idoneità dei diversi livelli territoriali, ma anche della

diversa idoneità ad esercitare le funzioni di enti situati nel

medesimo livello territoriale (se, ad es., è idoneo il comune di

Milano non lo è quello di Briga o di Floresta).

Il co. 2 dell’ art. 118 Cost. specifica, poi, che gli enti locali sono

titolari sia di funzioni amministrative proprie sia di funzioni

amministrative conferite con legge statale o regionale, secondo le

rispettive competenze.

L’ art. 118 Cost. deve, però, essere letto unitamente al

precedente art. 117, co. 2, lett. p), perché quest’ ultimo,

elencando (tra le materie di competenza legislativa esclusiva

dello Stato) gli organi di governo e le funzioni fondamentali di

comuni, province e città metropolitane, ha fatto emergere il

problema dei rapporti tra le funzioni fondamentali (art. 117) e le

funzioni di cui all’ art. 118, nonché il conseguente problema della

distinzione tra funzioni proprie, attribuite e conferite.

In realtà, una volta assodato che, stante il principio di legalità,

non possono esserci funzioni amministrative che non siano

assegnate con legge e che, quindi, l’ art. 118 Cost. non

attribuisce, di per sé, specifiche funzioni agli enti locali, dal

momento che queste sono assegnate con legge, dello Stato o

della regione, ex art. 117, risulta, di conseguenza, priva di senso

la distinzione tra funzioni proprie e funzioni conferite con legge,

proprio perché gli enti locali non hanno funzioni proprie diverse da

quelle conferite con legge (e, di conseguenza, priva di senso si

dimostra la distinzione tra funzioni attribuite e funzioni conferite).

Ha, invece, senso la distinzione tra funzioni fondamentali e

funzioni non fondamentali degli enti locali, perché le prime sono

oggetto di potestà legislativa esclusiva dello Stato (art. 117

Cost.), mentre le seconde no. In particolare, le funzioni

fondamentali possono rientrare nell’ ambito delle competenze

materiali attribuite alla potestà legislativa esclusiva dello Stato e,

51

Page 52: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

quindi, possono essere scorporate dagli apparati amministrativi

statali per essere devolute agli enti locali (ad es., in tema di

immigrazione, di cittadinanza, di stato civile, di anagrafe e di

tutela dell’ ambiente); esse, però, possono anche ricadere nell’

ambito delle materie regionali oggetto di competenza legislativa

concorrente Stato-regioni (in tal caso vi sarà un’ ingerenza della

legge statale nelle materie regionali).

Possiamo, pertanto, concludere dicendo che le funzioni agli enti

locali possono essere conferite con legge: che sarà la legge

regionale, nelle materie di competenza (concorrente o esclusiva)

della regione; mentre sarà la legge statale, nelle materie che

rientrano nella competenza legislativa esclusiva dello Stato

(concernenti gli organi di governo e le funzioni fondamentali) o

nelle materie di competenza concorrente Stato-regioni e che

determinano funzioni essenziali di comuni e province (in questi

casi, il carattere fondamentale di tali funzioni abilita la legge

statale ad ingerirsi nelle materie regionali).

c) gli organi di governo dell’ ente locale

La legge dello Stato è abilitata non solo ad assegnare funzioni agli

enti locali, ma anche a distribuirle tra i suoi organi di governo (il

consiglio, la giunta e il capo dell’ esecutivo - sindaco o presidente

della provincia). La struttura e le funzioni degli organi di governo

dell’ ente locale sono disciplinate dalle legge: ed è proprio entro

questi limiti che si muove la potestà statutaria, nell’ esercizio

della quale il singolo ente locale stabilisce non tanto le norme

fondamentali della sua organizzazione (art. 6 d.lgs. 267/00),

perché queste le stabilisce la legge, ma regola, più che altro, l’

organizzazione delle funzioni, le forme di collaborazione con gli

altri enti locali (ad es., convenzioni, consorzi e accordi di

programma), le modalità di partecipazione popolare, del

decentramento, dell’ accesso dei cittadini alle informazioni ed ai

procedimenti amministrativi.

52

Page 53: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Ora, dal momento che lo statuto rappresenta una piccola

costituzione dell’ ente locale, lo stesso deve essere approvato con

il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati; e se tale

maggioranza non viene raggiunta, sono necessarie due

successive votazioni, nelle quali lo statuto dovrà essere approvato

a maggioranza assoluta dei voti (la metà più uno dei consiglieri).

Come detto, gli organi di governo dell’ ente locale sono: il

consiglio, la giunta e il sindaco (o il presidente, nella provincia).

In particolare, il consiglio (dal punto di vista funzionale) è l’

organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo ed ha

competenza limitatamente agli atti indicati dall’ art. 42 d.lgs.

267/00: statuti, regolamenti, programmi, piani finanziari, bilanci,

rendiconti, piani territoriali, organizzazione dei pubblici servizi,

tributi, etc. (a queste funzioni lo statuto non può aggiungerne

altre, perché la competenza del consiglio è, appunto, limitata

dalla legge).

Per quanto riguarda la composizione, va detto che il numero dei

consiglieri, da eleggere a suffragio universale, varia da 12 (nei

comuni con meno di 3000 abitanti) a 60 (nei comuni con più di un

milione di abitanti); nelle province, invece, il numero dei

consiglieri oscilla tra i 25 e i 45 (sempre a seconda del numero di

abitanti).

Il sindaco e il presidente della provincia sono, invece, gli organi

responsabili dell’ amministrazione del comune e della provincia:

essi rappresentano l’ ente, convocano e presiedono la giunta ed

anche il consiglio (nei comuni con meno di 15000 abitanti, nei

quali non è previsto il presidente del consiglio) e sovrintendono al

funzionamento dei servizi e degli uffici e all’ esecuzione degli atti.

La giunta, infine, è l’ organo di governo che collabora con il

sindaco o con il presidente della provincia ed opera attraverso

deliberazioni collegiali; la sua competenza è stabilita in via

residuale, in quanto abbraccia tutti gli atti non riservati dalla

legge al consiglio, al sindaco (o al presidente) o agli organi di

53

Page 54: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

decentramento.

La giunta è composta da un numero di componenti non superiore

ad un terzo dei membri del consiglio (e comunque non superiore

a 16); gli assessori sono nominati dal sindaco (o dal presidente

della provincia) e possono essere da lui revocati (la carica di

assessore è, ovviamente, incompatibile con quella di consigliere).

d) la dirigenza negli enti locali

Accanto agli organi di governo dell’ ente locale (ai quali sono

affidati i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo) ci

sono gli organi di gestione (i dirigenti), ai quali, invece, è affidata

la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica (questa si

esprime attraverso autonomi poteri di spesa, di organizzazione

delle risorse umane, strumentali e di controllo). I dirigenti, in

particolare, adottano gli atti e i provvedimenti amministrativi che

impegnano l’ amministrazione verso l’ esterno, sempre che

questi, ovviamente, non siano, dalla legge o dallo statuto,

ricompresi tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-

amministrativo degli organi di governo.

In ogni caso, è necessario sottolineare che la distinzione tra

organi di governo ed organi di gestione non è, in realtà, così netta

come potrebbe sembrare; le incertezze sono, innanzitutto, dovute

al fatto che le funzioni di indirizzo e controllo politico-

amministrativo vengono, nella prima parte del d.lgs. 267/00,

riservate al consiglio, mentre nell’ art. 107 (sempre del d.lgs.) tali

funzioni sono riferite al complesso degli organi di governo (come

se di esse fossero partecipi anche la giunta ed il sindaco o il

presidente della provincia). La confusione è ancora maggiore, poi,

se prendiamo in considerazione i rapporti che si instaurano tra gli

organo di governo esecutivi (giunta e sindaco o presidente) e gli

organi di gestione: non è facile, ad es., distinguere tra il potere di

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Page 55: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

sovrintendere al funzionamento dei servizi e degli uffici (che è

riservato al sindaco o al presidente) e il potere di dirigere gli uffici

e i servizi (riservato, invece, ai dirigenti); così come non è facile

distinguere tra il potere di sovrintendere all’ esecuzione degli atti

(che compete al sindaco) e il potere di gestire l’ ente, sul piano

finanziario, tecnico e amministrativo (compito riservato al

dirigente).

e) il sistema dei controlli

Nel sistema originario il collegamento tra amministrazione locale

e amministrazione dello Stato veniva essenzialmente assicurato

attraverso il sistema dei controlli: di legittimità e di merito

[controlli che, prima dell’ entrata in vigore della Costituzione,

erano esercitati dal prefetto (controllo di legittimità) e dalla giunta

provinciale amministrativa (controllo di merito)].

Viceversa, con la Costituzione (art. 130), il controllo di legittimità

è stato attribuito alle regioni (in particolare, al comitato regionale

di controllo: CO.RE.CO.); si tratta, in particolare, di un controllo cd.

preventivo, perché esso condiziona l’ efficacia della delibera dell’

ente locale (impedisce, cioè, che l’ atto controllato produca i suoi

effetti prima che intervenga il visto del comitato regionale). Il

controllo di merito, invece, è oggi previsto solo come un controllo

eventuale (e subordinato ad espressa previsione legislativa).

Tuttavia, è necessario sottolineare che, con la L. 142/90, i controlli

di legittimità sulle delibere degli organi collegiali degli enti locali

sono stati alleggeriti: essi, cioè, sono stati mantenuti come

controlli necessari su alcuni atti fondamentali, ma, per il resto,

sono stati trasformati in meri controlli eventuali. I controlli di

merito sono stati, invece, soppressi.

La L. cost. 3/01 è stata ancora più radicale: soppressi gli artt. 125,

co. 1 e 130 Cost. è, infatti, venuta meno la previsione

costituzionale dei controlli statali sulle regioni e di quelli regionali

sugli enti locali. A seguito di tali modifiche normative, nel nuovo

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Page 56: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

assetto vengono, pertanto, privilegiati i cd. controlli interni, ossia i

controlli che l’ ente esercita su stesso (o, più precisamente, il

controllo che un organo o un ufficio dell’ ente esercita su altri

organi o altri uffici dello stesso ente).

f) le forme associative

La popolazione dei comuni italiani varia da poche decine a milioni

di persone: si tratta di un fenomeno comune agli altri paesi, la

maggior parte dei quali ha cercato di risolvere il problema

fondendo i comuni minori. Nel nostro paese, però, tale processo

non ha potuto aver luogo, dal momento che ogni comunità (anche

la più piccola) è gelosa della propria identità e, quindi, rifiuta di

essere assimilata ad altre (cd. municipalismo). Ne consegue,

pertanto, che in Italia sussiste un’ enorme disparità tra comuni e

ciò ha reso difficile l’ attribuzione, in loro favore, di funzioni

amministrative, perché quelli medi e grandi sono in grado di

esercitarle efficacemente, mentre i comuni più piccoli difettano

delle risorse necessarie per svolgerle. Per ovviare a questo

problema si è pensato di far ricorso ad uno speciale correttivo

(risalente agli inizi della legislazione comunale), costituito dai

consorzi: questi sono stati creati dagli enti locali per la gestione

associata di uno o più servizi o per l’ esercizio associato di

funzioni (trasporto urbano, smaltimento rifiuti e, in passato,

macellazione, servizi veterinari, etc.); è bene precisare, però, che

il consorzio è un ente diverso da quelli che lo costituiscono o lo

finanziano.

La legislazione recente prevede, invece, forme associative che

non danno luogo alla costituzione di nuovi enti: si tratta delle

convenzioni, degli accordi di programma e dell’ esercizio

associato di funzioni e servizi. In dettaglio, la convenzione, che è

la forma associativa più elementare, presuppone l’iniziativa di

enti locali e si sostanzia in un accordo con cui vengono stabiliti i

fini, la durata, le modalità di consultazione degli enti contraenti, i

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Page 57: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

rapporti finanziari, gli obblighi e le garanzie. Accanto alle

convenzioni volontarie sono previste anche quelle obbligatorie,

alla cui stipulazione lo Stato o la regione possono subordinare

l’affidamento a tempo determinato di un servizio o l’ esecuzione

di un’ opera.

Per quanto riguarda, invece, l’ esercizio associato di funzioni e

servizi da parte dei comuni, va detto che esso è sempre promosso

dalla regione; quanto, infine, all’ accordo di programma è

necessario sottolineare che ad esso possono partecipare anche

soggetti pubblici diversi dagli enti locali interessati, in quanto l’

accordo viene concluso per la definizione e l’attuazione di opere,

interventi e programmi che richiedono la partecipazione

necessaria di più amministrazioni.

§4. L’ amministrazione regionale

a) le funzioni

La Costituzione del 1948, prevedendo l’ istituzione delle regioni,

ha creato un nuovo livello territoriale di amministrazione (che,

nelle intenzioni dei padri costituenti, avrebbe dovuto avere

dimensioni molto contenute).

In questa prospettiva, la nostra Carta fondamentale (art. 118,

testo originario), dopo aver enunciato il principio del parallelismo

tra funzioni amministrative e funzioni legislative (spettano alle

regioni le funzioni amministrative per le materie elencate nel

precedente articolo), introduce due rilevanti correttivi. Il primo

riguarda le funzioni di esclusivo interesse locale: queste, infatti,

anche se rientrano nelle materie di competenza regionale,

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Page 58: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

possono essere attribuite, dalle leggi della Repubblica, alle

province, ai comuni e agli altri enti locali (art. 118, co. 1).

Il secondo correttivo concerne, invece, le modalità di esercizio

delle competenze amministrative regionali: nell’ art. 118 (testo

originario) si legge, infatti, che la regione esercita normalmente le

sue funzioni amministrative delegandole alle province, ai comuni

e agli altri enti locali o valendosi dei loro uffici. In tal modo, il

costituente ha imposto alle regioni lo schema della cd.

amministrazione indiretta: con ciò si vuole intendere, più

precisamente, che le regioni sono titolari di funzioni

amministrative nelle materie in cui hanno potestà legislativa, ma

normalmente hanno l’ obbligo di esercitarle o mediante delega

agli enti locali o mediante avvalimento dei loro uffici (in realtà,

però, va qui specificato che le regioni hanno interpretato in modo

elastico questo criterio di normalità, trattenendo presso di sé

molte funzioni che avrebbero potuto essere delegate agli enti

locali).

Con la riforma del Titolo V della Costituzione le cose sono

cambiate, perché, come sappiamo, è stato eliminato ogni

riferimento al principio del parallelismo tra competenze legislative

regionali e competenze amministrative (il nuovo art. 118 Cost.

stabilisce, infatti, che le funzioni amministrative sono attribuite ai

comuni, salvo che per assicurarne l’ esercizio unitario, siano

conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla

base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed

adeguatezza).

Ciò che accomuna il vecchio ed il nuovo assetto è, come si può

notare, il favor per gli enti locali: favor che veniva espresso dal

testo originario dell’ art. 118 attraverso le due clausole (quella

dell’ attribuzione agli enti locali di funzioni che, seppur rientranti

nelle materie di competenza delle regioni, erano di esclusivo

interesse locale; e quella dell’ amministrazione regionale

indiretta); e, dal nuovo art. 118, mediante la previsione

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Page 59: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

generalizzata di competenza amministrativa comunale.

b) la forma di governo

L’ organizzazione regionale è modellata sull’ organizzazione degli

enti locali; in particolare, gli organi della regione sono: il consiglio

regionale, la giunta ed il suo presidente (art. 121, co. 1 Cost.).

La differenza di fondo, però, consiste nel fatto che il consiglio

regionale, a differenza di quello degli enti locali, è un organo

legislativo (non amministrativo), anche se, con una certa

forzatura, si potrebbe affermare che il consiglio regionale è

organo di indirizzo politico-amministrativo, sebbene tale funzione

venga esercitata con leggi, non con provvedimenti amministrativi.

La forma di governo regionale è rimessa allo statuto di ciascuna

regione (art. 123 Cost.), ma solo in piccola parte, perché (nelle

sue linee fondamentali) è stabilita direttamente dalla

Costituzione.

Il presidente della giunta regionale viene eletto a suffragio

universale e diretto (art. 122 Cost., nel testo di cui alla L. cost.

1/99); i candidati alla presidenza della giunta sono i capilista nelle

liste regionali, sicché viene eletto presidente il candidato che ha

conseguito il maggior numero di voti in ambito regionale. Il

presidente, una volta eletto, nomina e revoca i componenti della

giunta (la giunta regionale è l’ organo esecutivo ed il presidente

ne dirige la politica e ne è responsabile, nei confronti del consiglio

e del corpo elettorale che lo ha eletto).

Da quanto detto, si può notare, quindi, che la Costituzione,

estendendo alle regioni lo schema introdotto nell’

amministrazione locale dalla L. 81/93, delinea una forma di

governo presidenziale, in cui il capo dell’ esecutivo è eletto

direttamente dal popolo e sceglie lui i componenti della giunta

(concettualmente in contraddizione con la forma di governo

presidenziale è, però, l’ istituto della mozione di sfiducia nei

confronti del presidente della giunta, da votarsi su proposta di

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Page 60: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

almeno un quinto dei componenti del consiglio (questo istituto

trova, tuttavia, un particolare disincentivo: il voto di sfiducia

travolge, infatti, la giunta ed il consiglio che lo ha espresso).

§5. Gli enti pubblici

La terza grande articolazione dell’ amministrazione italiana è

costituita dagli enti pubblici, i quali sono stati istituiti a partire dai

primi anni del ‘900, allo scopo di assicurare il decentramento di

funzioni amministrative statali ad enti pubblici diversi da quelli

territoriali. Essi, in realtà, non sono altro che servizi della P.A. ai

quali viene conferita personalità giuridica: si comincia nel 1916

con l’ INA [Istituto Nazionale per le Assicurazioni] e si prosegue

nel 1917 con gli Enti autonomi di consumo, gli Istituti di ricerca e

di sperimentazione agraria e gli Istituti di patronato e di

assistenza sociale; il numero degli enti aumenta, poi, in modo

cospicuo durante il fascismo (si pensi, ad es., all’ Opera Nazionale

Combattenti, all’ Istituto nazionale fascista per la previdenza

sociale, alle associazioni sindacali fasciste e agli IACP).

In ogni caso, è importante sottolineare che gli enti pubblici sono

stati istituiti non solo per gestire funzioni e servizi di Stato, ma

anche per gestire funzioni e servizi non di Stato (funzioni e servizi

gestititi, cioè, fino a quel momento da soggetti privati e poi

attratti nella sfera pubblica per la loro rilevanza o, più

semplicemente, per la pressione di gruppi sociali interessati ad

una statizzazione, sia pure nella forma dell’ ente pubblico: è in

questo modo che si spiega il passaggio alla sfera pubblica di

funzioni e servizi come quelli relativi alla previdenza, all’

assistenza e alla sanità).

L’ ente pubblico si distingue dall’ ente locale (territoriale),

innanzitutto, perché è monofunzionale: esso cura, cioè, un solo

interesse pubblico (l’ INPS, ad es., si occupa della sicurezza

sociale dei lavoratori subordinati del settore privato; gli IACP

hanno come clienti le famiglie meno abbienti prive di alloggio,

60

Page 61: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

etc.).

In secondo luogo, è bene ricordare che l’ ente pubblico (a

differenza dell’ ente locale, che presenta una struttura

associativa) ha, di solito, una struttura del tipo fondazione: ha,

infatti, un consiglio di amministrazione e un presidente, i quali

sono chiamati a gestire un patrimonio nell’ interesse di terzi

(manca, come si può notare, l’ assemblea e, cioè, l’ equivalente

del consiglio comunale o provinciale).

In funzione di controllo, terzo organo dell’ ente pubblico è, infine,

il collegio dei revisori, del quale fa parte, di regola, un

rappresentante del ministero vigilante (tale organo controlla l’

amministrazione, verifica l’ osservanza delle leggi e la

corrispondenza del bilancio alle risultanze delle scritture

contabili).

a) l’ ente pubblico e la responsabilità ministeriale

L’ ente pubblico pone un grave problema costituzionale in

relazione alla responsabilità ministeriale: infatti, dal momento che

gli atti vengono imputati all’ ente pubblico, in quanto munito di

personalità giuridica, e non al ministro, ci si domanda come

quest’ ultimo possa risponderne davanti al Parlamento, ex art. 95

Cost.

La legge ha risolto il problema istituendo un controllo

parlamentare sulle nomine negli enti pubblici (L. 14/78); in realtà,

occorre specificare che non si tratta di un vero e proprio controllo,

quanto piuttosto di un parere preventivo che deve essere

richiesto alle commissioni parlamentari delle due Camere,

competenti per materia, quando la nomina riguarda il presidente

o il vice-presidente di un ente pubblico nazionale (per gli

amministratori diversi dal presidente o dal vice-presidente è

prevista, invece, una semplice comunicazione alle Camere).

Il presidente ed il vice-presidente sono, poi, nominati con decreto

del presidente della Repubblica, emanato su proposta del

61

Page 62: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Presidente del Consiglio, previa deliberazione del Consiglio dei

ministri adottata su proposta del ministro competente (l’

amministratore pubblico, in ogni caso, non può essere confermato

nella carica più di due volte).

Sull’ operato degli amministratori degli enti pubblici nazionali è

previsto il controllo del ministro vigilante (e del Ministro dell’

Economia) sul bilancio, sul conto consuntivo, sulle delibere che

adottano il regolamento organico, su quelle che definiscono la

consistenza organica e il numero degli addetti; entro 90 gg. i

ministri vigilanti approvano le delibere o le restituiscono per un

riesame (in questo caso, se i rilievi attengono a vizi di legittimità o

alla consistenza degli organici, le delibere non acquistano

efficacia; diversamente diventano esecutive se confermate con

un nuovo atto).

Il raccordo con il Parlamento, comunque, dovrebbe essere

assicurato dalla relazione annua (entro il 31 luglio), che ciascun

ministro è tenuto a trasmettere al Parlamento sull’ attività svolta

(in tal modo, il ministro finisce per rispondere dell’ attività dell’

ente pubblico davanti al Parlamento).

La Costituzione ha, poi, introdotto un ulteriore elemento di

controllo sull’ operato dell’ ente pubblico: ai sensi, infatti, dell’ art.

100 Cost., la Corte dei Conti (in raccordo con il collegio sindacale

dell’ ente pubblico) partecipa al controllo sulla gestione

finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria e

riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro

eseguito. In attuazione del precetto costituzionale (art. 100), l’

art. 3, L. 20/94 attribuisce alla Corte dei Conti il controllo

successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio degli enti

pubblici, allo scopo di verificare la regolarità della relativa

gestione.

b) l’ ascesa e il declino degli enti pubblici

Il sistema degli enti pubblici è prosperato in Italia sino agli anni

62

Page 63: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

’70 (periodo nel quale esso ha raggiunto il massimo sviluppo); a

partire da quel momento sono intervenuti due fattori che ne

hanno determinato un drastico ridimensionamento.

Il primo ridimensionamento si è avuto nel 1972 con l’ entrata in

funzione delle regioni a statuto ordinario: molti enti pubblici

esistenti in quel periodo operavano, infatti, in molti settori che l’

art. 117 Cost. (testo originario) ha successivamente riservato alla

potestà legislativa regionale (beneficienza, assistenza, istruzione

professionale, turismo e agricoltura: settori nei quali le regioni

disponevano anche di potestà amministrativa ed organizzativa, ex

art. 118 Cost., testo originario); in conseguenza di ciò, pertanto,

molti enti pubblici sono stati soppressi.

Il secondo ridimensionamento si è avuto, invece, in seguito ad

una riconsiderazione dell’ interesse pubblico che, a suo tempo,

aveva giustificato l’ istituzione dell’ ente pubblico; invero, molti

enti pubblici sono stati istituiti nel tempo per prestare assistenza

a determinate categorie di persone (si pensi, ad es., all’ ENAOLI,

ente nazionale di assistenza orfani lavoratori italiani, all’ ONIG,

opera nazionali invalidi di guerra, ovvero all’ opera nazionale

combattenti); a metà degli anni ’70 ci si domanda se questi enti

necessitino assolutamente di una personalità giuridica di diritto

pubblico (se questa, infatti, era stata attribuita allo scopo di

dotare l’ ente di beni conferiti dallo Stato o di riscuotere contributi

degli associati, era, in realtà, sufficiente mantenere in vita questi

due privilegi, trasformando, però, l’ ente in persona giuridica di

diritto privato). In questa prospettiva, sono stati trasformati in

persone giuridiche di diritto privato gli enti di previdenza e

assistenza che non svolgono funzioni di rilevante interesse

pubblico (e la stessa operazione è stata fatta per gli enti pubblici

operanti in settori diversi dalla previdenza e assistenza).

Un ruolo importante, nella trasformazione degli enti pubblici in

soggetti privati, lo ha svolto, poi, anche la Corte costituzionale:

questa, infatti, con sent. 396/88, ha dichiarato l’ illegittimità

63

Page 64: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

costituzionale dell’ art. 1 L. 6972/1890 (cd. legge Crispi), nella

parte in cui qualifica come istituzioni pubbliche di assistenza e

beneficienza le opere pie. La Consulta ha sottolineato, in

particolare, che una generalizzata pubblicità contrasta con l’ art.

38, ult. co. Cost., secondo il quale l’ assistenza privata è libera;

pertanto, se il privato è libero di prestare assistenza, deve essere

libero di farlo anche a mezzo di organizzazioni impersonali

(associazioni, fondazioni, etc.); in ragione di tale pronuncia,

quindi, sono venuti meno migliaia di enti pubblici.

È necessario sottolineare, infine, che l’ ultima tappa del percorso

di ridimensionamento degli enti pubblici è oggi costituita dal

massiccio programma di trasformazione e soppressione degli

stessi, enunciato dalla legge finanziaria (L. 448/01) e proseguito

con il d.l. 78/10 (da tale programma sono, però, esclusi gli enti

pubblici che gestiscono la previdenza sociale a livello di primario

interesse nazionale e quelli che sono essenziali per esigenze della

difesa o della sicurezza pubblica.)

§6. Le amministrazioni autonome e le agenzie

La fuga dallo Stato ha avuto la sua massima espressione negli

enti pubblici (che, inizialmente, erano pezzi di apparati

ministeriali, poi resi autonomi e costituiti in persone giuridiche

pubbliche), ma si è espressa anche nelle Aziende (o

Amministrazioni autonome), create sia a livello statale che locale:

si pensi, ad es., all’ Azienda delle Ferrovie dello Stato, all’ Azienda

di Stato per i Servizi telefonici, all’ Azienda delle Poste italiane, all’

Azienda autonoma dei Monopoli di Stato, le quali sono sorte sul

ceppo di un ministero, dal quale, poi, sono state rese autonome in

quanto amministrate da un proprio consiglio di amministrazione;

al ministero, però, sono rimaste legate, perché a capo del

consiglio di amministrazione vi era istituzionalmente il ministro.

Dal punto di vista giuridico, le Aziende continuano ad essere un

organo del rispettivo ministero, ma godono di una legittimazione

64

Page 65: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

separata, in forza della quale esse stanno in giudizio come

Aziende, hanno un proprio patrimonio e svolgono un’ attività,

nelle forme del diritto privato, dalla quale ricavano le risorse

necessarie alla loro sopravvivenza (ad es., vendita di biglietti

ferroviari, dei francobolli e delle sigarette); il personale di queste

Aziende, inoltre, è distinto da quello statale, è regolato dalla

contrattazione collettiva ed ha proprie organizzazioni sindacali.

Lo stesso schema lo ritroviamo anche a livello locale con le cd.

aziende municipalizzate, istituite da comuni e province per la

gestione di uno o più servizi pubblici locali (ad es., trasporti

urbani, smaltimento rifiuti, distribuzione dell’ acqua e del gas,

etc.): anche qui si tratta di organi del comune, dotati, però, di

legittimazione separata.

È necessario sottolineare, tuttavia, che il modello organizzativo

appena analizzato è andato in crisi negli anni ’80; periodo nel

quale alcune Aziende (in particolare, Ferrovie e Poste) sono state

trasformate prima in enti pubblici economici e poi in s.p.a. in

mano pubblica; mentre le aziende municipalizzate sono state

trasformate prima in aziende speciali e poi in s.p.a.

Va anche detto, però, che lo schema organizzativo in precedenza

delineato non è stato del tutto accantonato: basti pensare, invero,

che la legge delega (L. 59/97) sulla riorganizzazione dei ministeri

ha conferito al Governo il compito di istituire apposite Agenzie

(con a capo un direttore generale); in particolare, l’ Agenzia è una

struttura che svolge un’ attività a carattere tecnico-operativo di

interesse nazionale ed è sottoposta ai poteri di indirizzo e di

vigilanza del ministro competente.

Il d.lgs. 300/99 ha previsto, in particolare, l’ istituzione di 11

agenzie, tra le quali ricordiamo: l’ agenzia industrie difesa, l’

agenzia per le normative e i controlli tecnici, l’ agenzia per la

proprietà industriale e l’ agenzia per la protezione dell’ ambiente

e per i servizi tecnici.

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Page 66: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

§7. Gli enti pubblici economici

Nel 1912, con L. n. 305, veniva istituito l’ INA (Istituto Nazionale

per le Assicurazioni), avente lo scopo di gestire le assicurazioni-

vita mediante la vendita di polizze (garantite dallo Stato), il cui

gettito sarebbe stato destinato a scopi di interesse pubblico (in

particolare: al finanziamento delle infrastrutture industriali); il

nuovo ente era caratterizzato da strutture snelle, presenza di

poche regole interne, utilizzo di tecnici e rapporti con il personale

di tipo privatistico.

Con l’ istituzione dell’ INA veniva, in questo modo, creato un

prototipo che sarebbe stato replicato con grande successo

durante il fascismo (a partire dagli anni ’30) e poi nell’ età

repubblicana (a partire dagli anni ’50): l’ ente pubblico

economico, ossia l’ ente pubblico che ha per oggetto esclusivo un’

attività economica. Ciò che caratterizza questo ente è, più

precisamente, la sussistenza di un singolare connubio di attività

economica (di un’ attività, cioè, priva del tratto autoritativo che

contraddistingue gli enti pubblici) e di finalità pubblicistiche:

sicché il fine pubblico dell’ ente viene perseguito attraverso un’

attività imprenditoriale, costituita essenzialmente da contratti,

anziché da provvedimenti amministrativi (dal normale

imprenditore, però, l’ ente pubblico economico si distingue perché

non persegue fini di lucro o, più correttamente, persegue un lucro

da devolvere a fini pubblici).

L’ altra caratteristica degli enti pubblici economici è il fatto che

essi non sono muniti di poteri amministrativi; la questione, per

lungo tempo, si è posta, in particolare, in sede di delimitazione

della giurisdizione sull’ impiego presso enti pubblici economici. Il

legislatore fascista del 1938, infatti, sottraendo gli impiegati in

questione al divieto di inquadramento sindacale (stabilito per tutti

gli impiegati pubblici), li sottopose alle norme del libro del lavoro

del codice civile; e qualche anno dopo, il codice di rito attribuì la

competenza giurisdizionale sulle controversie con gli enti datori di

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Page 67: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

lavoro al giudice ordinario.

Con la caduta del regime fascista e, quindi, dell’ inquadramento

sindacale dei lavoratori presso gli enti pubblici economici, nacque,

però, un contrasto tra Consiglio di Stato e Corte di Cassazione: il

primo, infatti, sosteneva che, con la caduta dell’ inquadramento

sindacale (proprio del corporativismo fascista) fosse venuta meno

la giurisdizione del giudice ordinario e che il relativo contenzioso

fosse attratto nella giurisdizione esclusiva del giudice

amministrativo; la Cassazione, invece, riteneva che la

giurisdizione del giudice ordinario non dipendeva dall’

inquadramento sindacale degli enti economici, ma dal carattere

imprenditoriale della loro attività.

Quest’ ultima tesi, che si rivelò vincente, consentì di mettere a

fuoco anche l’ altro aspetto fondamentale dell’ ente pubblico

economico e cioè che gli atti organizzativi (ad es., i regolamenti

organici, gli atti di approvazione delle piante organiche, la

determinazione dei criteri per le promozioni) e gli atti di gestione

del rapporto di lavoro non erano provvedimenti amministrativi

(tali atti, infatti, ad avviso del Supremo Collegio, dovevano essere

assimilati ai regolamenti di impresa delle imprese private).

La disputa si è chiusa, sul piano legislativo, con la L. 533/73, che

ha attribuito al giudice ordinario la giurisdizione sulle controversie

di lavoro degli enti pubblici economici.

Detto ciò, appare utile sottolineare che della figura in esame sono

state proposte varie classificazioni; in particolare, dal punto di

vista dei fini, gli enti pubblici economici si distinguono in:

• enti di disciplina di settore, che sono chiamati a reggere e

regolare un certo settore economico (Banca d’ Italia, IRI, ENI,

EFIM);

• enti imprenditoriali, che svolgono un’ attività economica di

produzione di beni e servizi (Banco di Napoli, Banco di Sicilia,

Monte dei Paschi di Siena, ENEL).

In base al criterio degli schemi organizzativi, invece, un posto a sé

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Page 68: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

hanno occupato gli enti di gestione delle partecipazioni statali:

IRI, ENI, EFIM, GEPI.

a) la crisi del sistema degli enti pubblici economici

Il sistema degli enti pubblici economici, negli anni ’80, è entrato in

collisione con il diritto europeo; non a caso, i fondi di dotazione

con i quali il Parlamento italiano aveva costantemente alimentato

gli enti di gestione delle partecipazioni statali sono incappati nel

divieto di aiuti di Stato, sancito dall’ art. 92 (oggi 87) del Trattato

CE, ossia nel divieto per gli Stati membri di attribuire risorse che,

favorendo talune imprese, potessero falsare la concorrenza. Basti

osservare, invero, che i soldi che il contribuente italiano versava,

ad es., a favore dell’ IRI o dell’ ENI (sottoforma di capitale di

rischio) conferivano alle società partecipate un vantaggio

competitivo rispetto alle altre imprese che operavano negli stessi

settori, ma che non fruivano di finanziamento pubblico.

Per risolvere questo problema, pertanto, è stato necessario

procedere alla liberalizzazione di determinati settori, allo scopo di

concedere alle imprese non finanziate dallo Stato di accedere ai

relativi mercati, con un consequenziale ridimensionamento dell’

ente pubblico monopolista. Un’ operazione del genere è stata

realizzata in Italia, in primis, attraverso la trasformazione degli

enti pubblici economici in s.p.a. (cd. privatizzazione formale) e,

successivamente, con la vendita, da parte dell’ azionista pubblico

(lo Stato e, in particolare, il Ministero del Tesoro) del capitale della

società interessata ai privati (cd. privatizzazione sostanziale).

Si è cominciato con il settore del credito e la trasformazione degli

istituti di credito di diritto pubblico in s.p.a. (1990) e si è

continuato con gli enti di gestione delle partecipazioni statali

(1992), con l’ ENEL, l’ IMI e l’ INA (1993-1995), con le Ferrovie

(1995) e con l’ Ente Italiano Tabacchi (1998).

b) le società in mano pubblica (o a partecipazione statale)

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Page 69: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

A partire dagli anni ’20 del XX secolo, lo Stato, allo scopo di

assicurare lo svolgimento di attività economiche ritenute di

particolare rilievo, cominciò a costituire s.p.a. o ad acquisire quote

di società esistenti: si pensi, ad es., all’ Azienda generale italiana

petroli (AGIP, 1926), all’ Azienda nazionale idrogenerazione

combustibili (ANIC, 1936), alla Ricerche minerali ferrosi s.p.a.

(1939).

Il primo massiccio intervento dello Stato in questa direzione

avvenne negli anni ’30, per far fronte alla crisi economica

mondiale del 1929; tale crisi, infatti, mise in enorme difficoltà il

sistema bancario, perché le banche detenevano cospicui

pacchetti azionari delle società che gestivano imprese

manifatturiere e che erano affette da una crisi di

sovraproduzione; il dissesto di queste ultime coinvolse

inevitabilmente il sistema bancario (che veniva, così, esposto al

rischio di non recuperare i crediti erogati alle imprese). Furono,

pertanto, creati due enti pubblici, l’ Istituto Mobiliare Milano (IMI,

1931) e l’ Istituto per la ricostruzione industriale (IRI, 1933); l’ IRI,

in particolare, acquistò le azioni detenute dalle banche e

procedette al ripianamento graduale dei passivi delle società (di

cui era diventato azionista) ovvero alla loro liquidazione o fusione.

Da sottolineare, però, che l’ operazione aveva (o avrebbe dovuto

avere) carattere transitorio; e, invece, nel 1937 l’ IRI fu

trasformato in ente stabile con un proprio fondo di dotazione (l’

Istituto assunse, più precisamente, la forma di una società

finanziaria, cioè di un ente di gestione, con un potere di direzione

e di controllo su una gran quantità di imprese private, diventando,

in tal modo, una delle maggiori potenze industriali del Paese).

Ora, per ciascun gruppo di attività produttiva, l’ IRI costituì

altrettante società finanziarie: telecomunicazioni (STET),

siderurgia (Finsider), meccanica (Finmeccanica), elettricità

(Finelettrica), cantieristica (Fincantieri), trasporto aereo (Alitalia),

trasporto marittimo (Finmare), radio-televisione (Rai), etc.: si

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Page 70: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

trattava, in altri termini, di una struttura che aveva la forma dell’

ente pubblico, ma la sostanza di una società finanziaria (cioè, di

una società che non svolge direttamente attività produttiva, ma

detiene il capitale di imprese produttive).

A questo modello fu ispirata la creazione, nel 1953, dell’ ENI (Ente

Nazionale Idrocarburi), sotto il quale furono raggruppate le

società a partecipazione pubblica operanti nel settore degli

idrocarburi (AGIP, SNAM e ROMSA).

In questa prospettiva, nel 1956 venne istituito il Ministero delle

Partecipazioni statali e venne consacrato il principio che l’

azionariato di Stato non sarebbe stato più tale, perché (almeno

formalmente) tutte le azioni detenute dallo Stato venivano

trasferite agli enti di gestione (delle partecipazioni statali). La

catena di comando, però, in questo modo, si allungava, dal

momento che il Ministro delle Partecipazioni statali emanava

direttive nei confronti degli enti di gestione, i quali, a loro volta,

indirizzavano l’ azione delle società finanziarie a loro collegate;

queste ultime, a loro volta, compivano le scelte fondamentali

delle società operative del gruppo.

Se a tutto questo si aggiunge che le imprese a partecipazione

statale erano sottoposte ad una serie di vincoli politici (ad es., l’

obbligo di destinare una quota non inferiore al 40% degli

investimenti al Mezzogiorno), che erano tenute ad operare con

criteri di economicità da valutare, però, in relazione all’ intero

gruppo di società controllate (il che presupponeva che singole

società del gruppo potessero operare in perdita), che la

ricapitalizzazione delle società partecipate veniva addossata al

contribuente e che a molte di queste società venivano conferiti

monopoli legali (ad es., le società autostrade del gruppo IRI), si

capisce perché il sistema delle partecipazioni statali è andato alla

deriva. Non solo, il sistema ha messo in evidenza, negli anni,

molte deficienze, la principale delle quali è stata l’ eccessiva

influenza dei partiti sulle imprese. Trattandosi, infatti, di imprese a

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Page 71: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

partecipazione statale, i loro dirigenti venivano nominati dal

Governo e, dato il sistema politico esistente in Italia, essi finivano

per essere designati dai partiti di governo, sulla base di criteri di

fedeltà più che di competenza. Accadeva, così, che i massimi

managers dell’ IRI, dell’ ENI e delle società da loro controllate

tendessero a rispondere del loro operato ai partiti che li avevano

scelti e fossero indotti a prendere iniziative poco vantaggiose per

le loro aziende.

L’ impopolarità crescente del sistema ha trovato, poi, conferma

nel referendum popolare del 1993, che ha portato alla

soppressione del Ministero delle Partecipazioni statali; negli stessi

anni, la trasformazione degli enti di gestione in s.p.a. ha posto,

infine, le premesse per uno smantellamento del sistema e per la

privatizzazione sostanziale.

È necessario sottolineare comunque che l’ azionariato pubblico ha

avuto manifestazioni anche a livello regionale e soprattutto a

livello locale; non a caso, mentre il fenomeno veniva

ridimensionato a livello statale, nella legge di riforma delle

autonomie locali (L. 142/90) la costituzione di società a

prevalente partecipazione pubblica locale (da parte di comuni e

province) veniva indicata come uno degli strumenti ammessi per

la gestione di servizi pubblici locali (accanto all’ azienda speciale

e alla concessione); il d.lgs. 267/00 e la successiva L. 448/01

hanno, poi, accentuato il favor per questo strumento, prevedendo

la possibilità di trasformare le aziende speciali in società di

capitali.

In questa prospettiva, possiamo, quindi, affermare che, a livello

statale, oggi il quadro dell’ azionariato pubblico abbraccia

essenzialmente s.p.a. a partecipazione pubblica a livello

nazionale, nate dalla trasformazione degli enti di gestione, dei

grandi enti pubblici economici nazionali (l’ INA, le Poste e le

Ferrovie) e dell’ ente nazionalizzato (l’ ENEL): azionista unico o

prevalente è il Ministro dell’ Economia e delle Finanze. A livello

71

Page 72: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

locale, invece, sono numerose le società di capitali con scopi di

gestione dei servizi pubblici locali, partecipate dagli enti locali.

Per quanto riguarda, invece, la natura giuridica delle società in

mano pubblica, è bene specificare che l’ azionariato di Stato è

stato sempre considerato come uno degli strumenti del diritto

privato per la cura di interessi pubblici; tale conclusione è stata

fondata anche sul fatto che il codice civile, avendo dedicando al

fenomeno in esame solo tre norme (art. 2458-2460) avrebbe, con

ciò, inteso assoggettare le società in mano pubblica alla

medesima disciplina applicabile alle società in mano privata (in

tal senso Galgano).

Questa conclusione, tuttavia, non è stata accolta dalla

giurisprudenza amministrativa: ed infatti, il Consiglio di Stato,

nelle pronunce del 1998, del 2001 e del 2002, concernenti ENEL

S.p.a. e Poste italiane S.p.a., ha tenuto a precisare che queste

società conservano natura pubblicistica sia perché continuano ad

essere affidatari di rilevanti interessi pubblici, sia perché l’ unico

azionista (o l’ azionista di maggioranza), il Ministro dell’ Economia

e delle Finanze, è tenuto ad indirizzare le attività sociali a fini di

interesse pubblico.

§8. Le autorità amministrative indipendenti

A partire dagli anni ’90 si profila un nuovo schema di

organizzazione amministrativa: l’ autorità amministrativa

indipendente (o autorità di regolazione). Si tratta, in particolare,

di un’ autorità rivolta a garantire il funzionamento delle regole del

mercato (il mercato in generale ovvero specifici mercati, che

vengono aperti alla concorrenza dopo essere stati, per decenni,

strutturati in termini di monopolio pubblico).

Queste autorità sono poste al di fuori dell’ organizzazione dei

ministeri e non sono formate da funzionari dello Stato, ma da

esperti qualificati (in tal modo, si è voluto affidare il controllo in

determinati settori ad organi che diano garanzie di indipendenza

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Page 73: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

e di imparzialità sia rispetto ai vari interessi privati in gioco, sia

nei confronti dello stesso potere politico).

Tra le più importanti autorità amministrative indipendenti

ricordiamo, anzitutto, l’ AGCM (Autorità garante della concorrenza

e del mercato: L. 287/90). Essa ha il compito di vigilare sull’

osservanza, da parte delle imprese, del divieto di intese restrittive

della concorrenza, quali, ad es., la fissazione dei prezzi di acquisto

o di vendita, la ripartizione dei mercati e l’ abuso di posizioni

dominanti (a tal fine, l’ Autorità dispone di poteri di indagine, di

diffida e di poteri sanzionatori). L’ AGCM si compone di quattro

membri (nominati dai presidenti di Senato e Camera), che durano

in carica sette anni.

Lo schema appena delineato lo ritroviamo, grosso modo, per le

altre autorità poste a presidio dei singoli mercati: la CONSOB, l’

ISVAP e la Banca d’ Italia.

In particolare, alla CONSOB (Commissione nazionale per le società

e la borsa, istituita nel 1947, ma successivamente trasformata, e i

cui membri sono nominati dal Governo) è affidata la tutela degli

investitori, l’ efficienza e la trasparenza del mercato del controllo

societario e del mercato dei capitali: un mercato efficiente dei

prodotti finanziari richiede, infatti, che gli investitori siano

motivati dalla stabilità delle quotazioni e dalla produzione di utili;

e tale risultato può essere conseguito solo se agli strumenti di

controllo interno al diritto societario (azioni di responsabilità e

poteri amministrativi dei soci) vengono affiancati strumenti di

controllo esterno.

Per quanto riguarda l’ ISVAP (Istituto per la vigilanza sulle

assicurazioni private, istituito nel 1982 e il cui presidente è

nominato dal Governo), va detto che anch’ esso opera a tutela dei

risparmiatori (più precisamente, a tutela di coloro che affidano i

loro risparmi a imprese assicurative): gli interessi individuali e

collettivi che sono coinvolti nel mercato delle assicurazioni

giustificano, infatti, un controllo pubblico sia sul contratto, perché

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sia temperato lo squilibrio del potere negoziale delle parti, sia

sull’ impresa di assicurazione, perché ne siano garantite la

stabilità e la solvibilità (necessarie per il soddisfacimento degli

impegni assunti verso gli assicurati).

Il prototipo delle autorità indipendenti è, però, la Banca d’ Italia:

nata nel 1893 dalla fusione della Banca Nazionale del Regno,

della Banca Nazionale Toscana e della Banca Toscana di credito, la

Banca d’ Italia ricevette nel 1926 il potere di battere moneta in

via esclusiva; con la riforma del 1936 fu trasformata da s.p.a. in

ente di diritto pubblico con capitale le cui quote potevano

appartenere soltanto a casse di risparmio, istituti di credito e di

diritto pubblico; questo assetto pubblicistico fu completato con l’

istituzione del Comitato dei ministri, presieduto dal Capo del

Governo, e dell’ Ispettorato per la difesa del risparmio e per l’

esercizio del credito, organo del Ministero delle Finanze (il

raccordo tra le tre strutture era, poi, assicurato dal Governatore

della Banca d’ Italia, il quale presiedeva la Banca e faceva parte

sia del Comitato dei ministri che dell’ Ispettorato). Soppresso nel

1944 l’ Ispettorato (le sue funzioni furono trasferite alla Banca) e

modificata la composizione del Comitato dei ministri (ne divenne

presidente il Ministro del Tesoro), il sistema bancario è stato retto,

fino alla riforma del 1993, da una diarchia (Comitato dei ministri e

Banca d’ Italia).

Nel tempo la Banca d’ Italia ha esercitato essenzialmente due

funzioni: la funzione monetaria e la funzione di vigilanza sulle

banche e sugli intermediari finanziari in genere. Più precisamente,

la prima funzione include il potere di emettere carta moneta, di

stabilire il tasso ufficiale di sconto e di disciplinare il sistema dei

pagamenti [va detto, però, che con il Trattato di Maastricht del

1992 tali funzioni sono state trasferite alla BCE (Banca Centrale

Europea)].

La seconda funzione della Banca d’ Italia è, come detto, quella di

vigilare sulle banche e sugli altri operatori finanziari, sotto la

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Page 75: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

direzione del Comitato interministeriale per il credito ed il

risparmio (CICR), di cui fa parte lo stesso Governatore: la

vigilanza, più precisamente, è rivolta a garantire la concorrenza

tra le imprese bancarie.

Vi sono, poi, due autorità indipendenti preposte a settori

monopolistici: si tratta, in particolare, dell’ Autorità per l’ energia

elettrica ed il gas e dell’ Autorità per le comunicazioni. La prima,

creata nel 1995, ha la funzione di promuovere la concorrenza e l’

efficienza nei due settori energetici (elettricità e gas).

La seconda, istituita nel 1997, promuove, invece, la concorrenza e

l’ efficienza nei servizi delle telecomunicazioni.

Un posto a sé, nel panorama delle autorità indipendenti, occupa,

infine, il Garante per la protezione dei dati personali (1996), che si

compone di quattro membri, eletti per metà dal Senato e per

metà dalla Camera e che durano in carico quattro anni: il compito

di tale autorità è quello di verificare che il trattamento dei dati

personali si svolga nel rispetto dei diritti, delle libertà

fondamentali, della dignità delle persone fisiche, con particolare

riguardo alla riservatezza e all’ identità personale.

§9. Gli strumenti di raccordo tra le amministrazioni

L’ organizzazione amministrativa, a causa della sua complessità,

esige degli strumenti di raccordo (tra enti diversi, tra organi di

uno stesso ente, tra organi e meri uffici di uno stesso ente, tra

organi di un ente e organi di un altro ente). Tali strumenti sono: il

procedimento, gli accordi, la gerarchia, la direzione, la

sostituzione ed i controlli.

a) il procedimento

Il primo tra gli strumenti di raccordo è il procedimento, il quale

rappresenta, per un verso, il luogo in cui i portatori di interessi

pubblici diversi fanno sentire la loro voce ed esprimono le loro

istanze in relazione ad un progetto; per altro verso, esso

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rappresenta la sequenza nella quale i singoli interventi sono

ordinati sulla base di relazioni predefinite (così, ad es., la

legislazione urbanistica prevede che la giunta comunale

conferisca l’ incarico della relazione del piano regolatore generale;

che il consiglio comunale adotti il piano predisposto dal gruppo di

progettazione e prenda posizione sulle osservazioni dei privati; e

che la regione adotti il piano, previo parere di un organo di

consulenza). Come si può notare, la molteplicità di queste

relazioni può rendere vulnerabile il provvedimento conclusivo (che

può risultare, ad es., illegittimo), ma soprattutto allunga i tempi

per la conclusione del procedimento. Per rimediare a questi

inconvenienti la legge sul procedimento amministrativo (L.

241/90) ha introdotto alcuni correttivi: innanzitutto, la legge

stabilisce un termine per l’ esercizio della funzione consultiva (45

gg.); pertanto, una volta che sia decorso infruttuosamente tale

termine, l’ amministrazione che ha chiesto il parere può

procedere come se lo avesse acquisito.

In secondo luogo, è prevista la possibilità di indire una conferenza

di servizi qualora si debbano valutare contestualmente vari

interessi pubblici o quando sia in gioco la programmazione di

opere pubbliche che richieda l’ intervento di più amministrazioni

(nella conferenza di servizi gli atti, invece di essere emessi in

sequenza, sono presi in sede collegiale).

Infine, è previsto (per le autorizzazioni, le licenze, i nulla osta ed

altri atti del genere), che, decorso un certo termine, essi si

considerano rilasciati: il silenzio dell’ amministrazione (che

dovrebbe provvedere) viene, così, equiparato ad un atto di

assenso. Tale meccanismo comporta una precoce conclusione del

procedimento [questo, tuttavia, resta aperto nei casi in cui l’

attività privata sia subordinata ad un provvedimento espresso (ad

es. licenza) che tarda a venire].

b) gli accordi

76

Page 77: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Per affrontare problemi comuni le amministrazioni hanno sempre

fatto ricorso ad accordi; questi vengono, il più delle volte, conclusi

allo scopo di vincolare l’ esercizio delle rispettive competenze, di

predeterminare i tempi entro i quali le stesse devono essere

esercitate, di quantificare i rispettivi impegni finanziari e di

stabilire le conseguenze degli eventuali inadempimenti. In questo

modo, i piccoli comuni hanno realizzato servizi che da soli non

sarebbero stati in grado di rendere (si pensi, ad es., al servizio

veterinario o al servizio di trasporto urbano); allo stesso modo, gli

ospedali pubblici e le cliniche universitarie hanno razionalizzato il

complesso delle prestazioni sanitarie (ad es., fornendo, i primi, le

strutture ed il personale paramedico; le seconde, il personale

medico).

È bene precisare, però, che il problema del coordinamento dell’

azione amministrativa è particolarmente complesso quando le

attribuzioni sono, per un verso, costituzionalmente garantite

(Stato, regioni, province autonome e, indirettamente, enti locali),

ma, per altro verso, tendono a sovrapporsi (e ciò accade ogni

volta che tali attribuzioni sono distinte non in base ad un criterio

materiale, ma spaziale): si pensi, ad es., alla materia ambientale,

in cui tutti gli enti territoriali, dallo Stato al comune, sono

competenti.

In questa prospettiva, la legislazione ha dovuto affrontare il

problema dell’ asimmetria del rapporto tra un unico Stato, 20

regioni e più di 8000 enti locali. Tale problema è stato risolto con il

d.lgs. 281/97, con il quale è stata istituita la cd. Conferenza Stato-

regioni: e ciò al fine di garantire la partecipazione delle regioni e

delle province autonome di Trento e di Bolzano a tutti i processi

decisionali di interesse regionale, interregionale ed infraregionale.

La Conferenza deve essere sentita in tutti i casi in cui la

legislazione preveda un’ intesa tra Stato e regioni; qualora, però,

l’ intesa non venga raggiunta, il Consiglio dei ministri può

provvedere, in via autonoma, con deliberazione motivata (da ciò

77

Page 78: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

si intuisce che l’ intesa si configura come un parere obbligatorio,

ma non vincolante).

Diverso dall’ intesa è, invece, l’ accordo, il quale presuppone la

convergenza del Governo e di tutte le regioni e province

autonome su un unico testo (esso viene perfezionato al fine di

coordinare l’ esercizio delle rispettive competenze e svolgere

attività di interesse comune).

Infine, le relazioni tra lo Stato e gli enti locali sono intrattenute

nell’ ambito della Conferenza Stato-città ed autonomie locali: la

conferenza è presieduta dal Presidente del Consiglio dei ministri e

vi partecipano, da un lato, alcuni ministri (economia,

infrastrutture, sanità) e, dall’ altro, i presidenti dell’ ANCI

(Associazione nazionale comuni italiani), dell’ UPI (Unione delle

province d’ Italia) e dell’ UNCEM (Unione nazionale comuni,

comunità ed enti montani), 14 sindaci designati dall’ ANCI e 6

presidenti di provincia designati dall’ UPI.

c) la gerarchia

La gerarchia è una relazione che accomuna organizzazioni

pubbliche e organizzazioni private: essa designa il diritto di chi

riveste una qualifica superiore di comandare colui il quale, nell’

ambito dello stesso ufficio o di un ufficio diverso (ma collegato),

riveste una qualifica inferiore (cd. gerarchia di persone). Si parla,

però, anche di gerarchia di uffici (o di organi): in questo senso, ad

es., il Ministro dell’ Interno è sovraordinato alla prefettura.

La gerarchia è una relazione interna all’ ente (o all’ apparato

ministeriale); essa, pur presupponendo una distinzione di

competenze (tra organi) o di compiti (tra uffici o persone),

comporta una certa commistione, che si manifesta: con il potere

di sostituzione (che il superiore ha nei confronti dell’ inferiore);

con il potere di avocazione (spettante al superiore) di un certo

affare rientrante nei compiti dell’ inferiore; e con il potere (del

superiore) di annullare atti posti in essere dall’ inferiore e di

78

Page 79: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

decidere i ricorsi gerarchici proposti contro atti dell’ inferiore.

Ovviamente, la gerarchia, per definizione, è una relazione alla

quale sfuggono gli organi e gli uffici collegiali, i quali, infatti,

vengono istituiti affinché la decisione si formi al loro interno

attraverso il dialogo (prima) ed il voto (poi): ed invero, la ratio

della collegialità verrebbe meno se, alla volontà del collegio, un

superiore gerarchico potesse sostituire la sua volontà.

La gerarchia ha un limite: qualora, infatti, l’ ordine impartito dal

superiore gerarchico dovesse apparire illegittimo, l’ inferiore deve

farne rimostranza, spiegandone le ragioni; è tenuto, però, ad

obbedire se l’ ordine viene rinnovato per iscritto, a meno che l’

atto non sia vietato dalla legge penale.

d) la direzione

Diversa dalla gerarchia è la direzione: essa si esprime non in

ordini, ma in direttive o atti di indirizzo, ossia in atti che vincolano

nel fine, ma non nei mezzi per raggiungerlo (questi ultimi, infatti,

sono rimessi al soggetto che è destinatario della direttiva).

La direttiva è oggi essenzialmente una relazione interna allo

stesso apparato: più precisamente, è la relazione che intercorre

tra l’ organo politico e la dirigenza burocratica, così come si

desume dall’ art. 4 d.lgs. 165/01, il quale, infatti, stabilisce che gli

organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-

amministrativo, definendo gli obiettivi e i programmi da attuare;

ai dirigenti spetta l’ adozione degli atti e provvedimenti, nonché

la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa.

A differenza della gerarchia, inoltre, colui che è soggetto alla

direttiva ha anche un limitato potere di disattenderla, purché ne

enunci le ragioni (ciò che, appunto, non è consentito a colui che è

sottoposto ad un potere di gerarchia, tranne nei casi di ordine

illegittimo); quanto detto si desume dalla citata disciplina del

rapporto tra organo politico e dirigente: infatti, la direttiva, che l’

organo politico rivolge ai dirigenti, è anche frutto della proposta di

79

Page 80: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

questi ultimi, i quali concorrono alla formazione dell’ atto.

e) la sostituzione

Vi sono, infine, dei casi in cui l’ esercizio dei poteri amministrativi

(in genere, doveroso) è particolarmente serio, perché ad esso

corrisponde una pretesa che non è del solo cittadino, ma anche di

altri soggetti (ad es., l’ Unione europea o uno Stato estero con il

quale è stato stipulato un Trattato). In questi casi, se l’ ente

munito di attribuzioni (o l’ organo dotato di competenze)

risultasse inattivo e contro tale inattività non fosse previsto alcun

rimedio potrebbero generarsi inadempimenti ad obblighi

internazionali o inerzie pericolose per gli interessi pubblici

coinvolti.

Il meccanismo che è stato escogitato per evitare questa paralisi è

quello della sostituzione: sicché l’ inerzia di chi sarebbe tenuto a

provvedere costituisce (in certi casi, predeterminati dalla legge) il

presupposto dell’ intervento sostitutivo di un organo o di un ente

diverso (la sostituzione, ad es., è prevista dalla Costituzione per l’

ipotesi nella quale le regioni, nelle materie di loro competenza,

omettano di provvedere all’ attuazione o all’ esecuzione degli

accordi internazionali; in questi casi, lo Stato, attraverso il

Governo, può sostituirsi alla regione inadempiente).

f) i controlli

Il controllo è una tipica relazione tra figure soggettive: tra organi

di uno stesso ente, tra organi di enti diversi, tra uffici diversi di

uno stesso ente. Esso presuppone la sussistenza di un parametro

alla stregua del quale valutare l’ atto o l’ attività altrui: nella storia

delle amministrazioni, il parametro prevalentemente utilizzato è

stato la legge (cd. controllo di legittimità). Non a caso, la

Costituzione italiana (prima della modifica apportata al Titolo V

nel 2001) prevedeva un controllo preventivo di legittimità sugli

atti del Governo, affidato alla Corte dei Conti (art. 100); un

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Page 81: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

controllo di legittimità sugli atti amministrativi della regione,

affidato ad un organo dello Stato (art. 125); ed un controllo di

legittimità sugli atti delle province, dei comuni e degli altri enti

locali, affidato a un organo delle regioni (art. 130). I suddetti

controlli venivano definiti preventivi, perché il controllo veniva

esercitato prima che l’ atto controllato potesse produrre i suoi

effetti.

Negli anni ‘90, però, il numero dei controlli ha cominciato a subire

una drastica riduzione: ed infatti, mentre in passato tutti i decreti

ministeriali (qualunque ne fosse l’ oggetto) erano sottoposti al

controllo di legittimità della Corte dei Conti, dal ‘94 il controllo è

stato limitato ai provvedimenti emanati a seguito di deliberazione

del Consiglio dei Ministri, agli atti normativi a rilevanza esterna, ai

provvedimenti di disposizione del demanio e del patrimonio e ad

altri pochi atti.

Nel 1997 sono stati, poi, soppressi i controlli statali sugli atti

amministrativi delle regioni; mentre i controlli sugli enti locali

sono stati ridotti. Con la riforma del Titolo V della Costituzione

sono stati, infine, abrogati gli artt. 125, co. 1 e 130 Cost., che li

prevedevano entrambi.

Da alcuni anni l’ attenzione si è, pertanto, spostata dai controlli

sui singoli atti al controllo sull’ attività nel suo complesso: in

particolare, è stato sostenuto che se l’ attività amministrativa è

retta da criteri di efficacia e di economicità è logico che anche il

controllo si ispiri agli stessi canoni (e non più soltanto al canone

della legittimità). Un giudizio di economicità e di efficacia,

tuttavia, non può essere emesso in relazione al singolo atto, ma in

relazione ad un’ attività complessiva, considerata in un arco

temporale predefinito (un anno, sei mesi, etc.).

La svolta si è manifestata, in primo luogo, negli enti locali: la L.

241/90 ha, infatti, introdotto nei comuni e nelle province la

revisione economico-finanziaria, affidandola ad un collegio di

revisori; successivamente (nel 1995), è stato introdotto il

81

Page 82: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

controllo di gestione.

La materia dei controlli è stata, poi, disciplinata in termini

generali, per tutte le amministrazioni, dal d.lgs. 286/1999: si

precisa, innanzitutto, che il controllo in esame è interno: interno,

cioè, a ciascuna amministrazione; a sua volta, il controllo interno

viene distinto in controllo di regolarità amministrativa e contabile,

controllo di gestione (il quale investe il rapporto tra costi e

risultati) e controllo strategico (che riguarda, invece, il rapporto

tra obiettivi e risultati). Da quanto detto si evince con chiarezza

che il punto di riferimento dei controlli interni è il principio

costituzionale del buon andamento (art. 97 Cost.).

Nel sistema dei controlli interni occupa, invece, un posto a sé la

valutazione dei dirigenti (ossia dei soggetti responsabili della

gestione e dei risultati): la valutazione può sfociare in misure

correttive, come il passaggio ad altro incarico o la revoca dello

stesso incarico.

È necessario sottolineare, infine, che la Costituzione indica anche

un terzo tipo di controllo: ai sensi, infatti, dell’ art. 100, la Corte

dei Conti esercita anche il controllo successivo sulla gestione del

bilancio dello Stato e partecipa al controllo sulla gestione

finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria

(tale controllo tende, in particolare, ad impedire lo sperpero di

risorse che sono state acquisite quasi interamente attraverso il

prelievo tributario).

§10. Le risorse umane (il rapporto di lavoro con le P.A.)

Le amministrazioni pubbliche (come quelle private) funzionano

con l’ apporto di pochi amministratori e molti lavoratori

dipendenti; di conseguenza, assume particolare importanza il

rapporto che si insatura tra ciascuna pubblica amministrazione ed

il personale dipendente.

Al riguardo, va detto che la nostra legislazione si è orientata verso

un impiego pubblico con un assetto distinto da quello del rapporto

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Page 83: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

di lavoro privato: è in questa prospettiva che, nel 1957, è stato

approvato uno statuto degli impiegati civili dello Stato (D.P.R.

3/57) del tutto peculiare rispetto a quello che, nel 1970, sarebbe

stato lo statuto dei lavoratori del settore privato (L. 300/70).

In realtà, il processo di pubblicizzazione può dirsi concluso già nel

1923, quando, con r.d. 2840/23, fu attribuita al Consiglio di Stato,

in sede giurisdizionale, una competenza esclusiva in materia di

pubblico impiego (l’ impiego pubblico finì, così, per essere trattato

con le categorie proprie del diritto e del processo amministrativo).

In tal modo, il rapporto di pubblico impiego non veniva costituito

da un contratto (come il rapporto di lavoro privato), ma da un atto

unilaterale di nomina (quindi, da un provvedimento

amministrativo), rispetto al quale l’ accettazione del privato

fungeva da mera condizione di efficacia.

È necessario sottolineare, tra l’ altro, che secondo parte della

dottrina, la natura pubblicistica del rapporto di pubblico impiego

sarebbe stata rafforzata dalla Costituzione: quest’ ultima, infatti,

disponendo una riserva di legge relativa in materia di

organizzazione dei pubblici uffici, richiederebbe, per l’ impiego

pubblico, una disciplina per legge o per regolamento. Tale

assunto, però, è stato criticato da altra parte della dottrina sulla

base della distinzione tra organizzazione (in astratto) dei pubblici

uffici e (concreta) provvista degli stessi; e, più in generale, sulla

base della distinzione tra organizzazione degli uffici ed

organizzazione del lavoro (sicché solo l’ organizzazione degli uffici

formerebbe oggetto di riserva di legge, mentre l’ organizzazione

del lavoro non sarebbe diversa dall’ organizzazione del lavoro

privato e, al pari di questa, potrebbe essere sottoposta a

disciplina contrattuale).

L’ assetto vigente, quale risulta dal d.lgs. 29/93 e dalle successive

modifiche (poi confluite nel d.lgs. 165/01) è, invece, il seguente:

ciascuna P.A., in virtù dei princìpi generali fissati dalla legge,

adotta regolamenti ed atti generali con i quali vengono fissate le

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Page 84: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

linee fondamentali di organizzazione degli uffici, vengono

individuati gli uffici con maggiore rilevanza, stabilite le relative

modalità di copertura e determinate le dotazioni organiche

complessive (ossia il fabbisogno di personale). Nel quadro di tali

atti (che hanno natura di provvedimenti amministrativi), la

gestione dei rapporti di lavoro viene fatta con la capacità e i

poteri del privato datore di lavoro (vale a dire, con un atto di

diritto privato): così, ad es., è un provvedimento amministrativo

quello con il quale un ente determina il proprio organico; è,

invece, un atto di diritto privato (contratto) quello con il quale un

lavoratore è chiamato a ricoprire un posto o quello con il quale un

lavoratore è trasferito d’ ufficio o destinato ad altre mansioni.

In dipendenza della privatizzazione del rapporto di impiego

cambia, ovviamente, anche il sistema delle fonti: diritti e doveri

delle parti non sono più stabiliti da leggi e regolamenti

amministrativi, ma trovano la loro fonte nel libro del lavoro del

codice civile, nelle leggi sul rapporto di lavoro subordinato nell’

impresa e nei contratti collettivi di lavoro. Questi ultimi, in

particolare, sono stipulati, per singoli comparti (ad es., ministeri,

regioni, enti locali, etc.), dalle confederazioni sindacali e dall’

ARAN (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle P.A.); la

stipulazione, però, deve essere preceduta dal parere favorevole

del Comitato del settore interessato e dall’ attestazione della

Corte dei Conti.

Detto ciò, è necessario comunque sottolineare che l’

assimilazione dell’ impiego presso enti pubblici all’ impiego

privato conosce dei limiti. Infatti, occorre osservare, innanzitutto,

che il reclutamento del personale avviene sulla base di piante

organiche approvate, nell’ amministrazione dello Stato, con

regolamenti deliberati dal Consiglio dei ministri, su proposta del

ministro competente. Più precisamente, la pianta organica serve a

commisurare la quantità di personale al fabbisogno: ciò significa,

quindi, che l’ assunzione di dipendenti al di fuori dell’ organico è

84

Page 85: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

nulla, con conseguente applicazione dell’ art. 2126 c.c.

(prestazione di fatto con violazione di legge).

In secondo luogo, il personale viene assunto con procedure

selettive, volte ad accertare la professionalità richiesta e tali da

garantire l’ accesso dall’ esterno; come si può notare, viene qui in

rilievo il principio del pubblico concorso (principio che trova

applicazione sia per l’ accesso alle qualifiche iniziali, che per l’

inquadramento nelle qualifiche superiori).

Una terza rilevante differenza riguarda, poi, la disciplina delle

mansioni superiori: occorre evidenziare, infatti, che il lavoratore

privato assegnato a mansioni superiori a quelle della qualifica ha

diritto al mantenimento corrispondente e l’ assegnazione stessa

diventa definitiva dopo che siano trascorsi 3 mesi (a meno che la

stessa non sia disposta per sostituire un lavoratore assente). Il

d.lgs. 165/01 stabilisce, invece, un limite temporale all’

assegnazione del dipendente a mansioni superiori (6 mesi) e

individua i presupposti in presenza dei quali l’ operazione è

ammessa (vacanza di un posto in organico o sostituzione di altro

dipendente assente con diritto alla conservazione del posto); il

lavoratore adibito a mansioni superiori ha diritto al trattamento

economico corrispondente, ma non all’ inquadramento nella

qualifica superiore (e ciò perché il principio del pubblico concorso

verrebbe eluso se il dipendente potesse accedere alla qualifica

superiore in conseguenza del solo esercizio di fatto delle mansioni

corrispondenti).

In ogni caso, è bene precisare che, in determinati settori, viene

fatto salvo l’ impiego pubblico tradizionale, retto da leggi e

regolamenti; l’ impiego in esame concerne i militari, la polizia, i

diplomatici, i magistrati, i professori e ricercatori universitari (in

quest’ ambito, la giurisdizione rimane al giudice amministrativo).

Il d.lgs. 165/01 è stato, però, modificato in maniera incisiva dal

d.lgs. 150/09: attraverso tale decreto, in particolare, la materia

disciplinare, che era stata devoluta alla contrattazione collettiva

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Page 86: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

(con palese beneficio per i dipendenti pubblici) viene restituita

alla legge; vengono, poi, registrati termini e forme di

provvedimento disciplinare, i rapporti con il procedimento penale,

la rilevanza delle false attestazioni o certificazioni, i controlli sulle

assenze e viene espressamente previsto il licenziamento

disciplinare (come fattispecie diversa dal licenziamento per giusta

causa o giustificato motivo). Viene, inoltre, rafforzato il controllo

pubblico sul procedimento di formazione del contratto collettivo

nazionale di lavoro [attraverso la previsione di poteri di indirizzo

sull’ ARAN (da parte di comitati di settore) e poteri di indagine

della Corte dei Conti].

§11. Le risorse materiali (i beni pubblici)

Ogni amministrazione pubblica è, a suo modo, un’ impresa: un’

attività organizzata per la produzione di beni e servizi; è naturale,

quindi, che ciascuna amministrazione si avvalga, per lo

svolgimento dei suoi compiti, oltre che delle risorse umane

(costituite dai lavoratori dipendenti), anche delle risorse materiali

organizzate in vista di quello scopo [tali risorse, costituite da beni

propri o da beni sui quali l’ amministrazione vanta un titolo

giuridico diverso dalla proprietà (ad es., l’ edificio preso in

locazione e destinato a scuola) devono avere un tratto comune,

vale a dire: la destinazione a pubblico servizio]. Ora, ciò che

distingue i beni utilizzati dall’ amministrazione per lo svolgimento

dei suoi compiti dai beni che formano l’ azienda dell’ imprenditore

privato è il fatto che ciascuno di questi beni è sottoposto ad un

regime giuridico speciale, diverso (sotto qualche aspetto) dal

regime della proprietà, così come delineato dagli artt. 832 e ss.

c.c.

Secondo una classificazione formale, possono distinguersi, in

particolare, tre tipologie di beni pubblici: il demanio, il patrimonio

indisponibile ed il patrimonio disponibile.

I beni che fanno parte del demanio pubblico sono inalienabili e

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Page 87: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei

modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano. La tutela di

detti beni spetta all’ autorità amministrativa, la quale può anche

avvalersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso

(art. 823 c.c.).

I beni che fanno parte del patrimonio indisponibile (nella cui

categoria rientrano anche tutti i beni destinati ad un pubblico

servizio, ex art. 826 c.c.) non possono essere sottratti alla loro

destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano

(art. 828 c.c.).

I beni del patrimonio disponibile sono, invece, quelli che

appartengono allo Stato e agli altri enti pubblici come a qualsiasi

proprietario (essi sono semplicemente destinati alla produzione di

un reddito e sottoposti alle norme civilistiche sulla proprietà).

Nella prospettiva dell’ organizzazione amministrativa (fatta di

risorse umane e materiali) assumono un rilievo particolare i beni

pubblici che sono tali per destinazione della P.A.; al riguardo, è

importante sottolineare che anche se il concetto di destinazione è

contemplato in via generale per il solo patrimonio indisponibile

(ad eccezione delle foreste e dei beni archeologici), esso concerne

anche beni demaniali (ad es., i porti, le opere destinate alla difesa

nazionale, le strade, le autostrade, le strade ferrate e gli

acquedotti).

Ora, la destinazione (ad ufficio o a servizio pubblico) presuppone

un’ attività di costruzione a cura della stessa amministrazione

(attività che, invece, manca nel cd. demanio naturale, vale a dire

nei beni pubblici per natura, quali, ad es., il lido, la spiaggia, il

fiume, il torrente, etc.); alla costruzione segue l’ atto di

destinazione, che può concretarsi anche in meri fatti materiali (ad

es., l’ apertura della strada al traffico).

Il servizio pubblico, cui il bene è destinato, può essere diretto

[può, cioè, coincidere con le modalità d’ uso del bene (ad es.,

strade pubbliche, ferrovie, acquedotti, etc.)] o indiretto (in questo

87

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secondo caso, il bene è necessario affinché il servizio possa

essere esercitato, ma non costituisce l’ oggetto proprio del

servizio: ad es., l’ ufficio comunale, in cui è ubicato il servizio

anagrafe, serve al pubblico che, tuttavia, si attende una

prestazione non da quella cosa, ma dal servizio che in quell’

immobile viene prestato).

Simmetrica alla destinazione è la revoca o la cessazione della

destinazione: così, ad es., l’ immobile destinato a scuola cessa di

assolvere alla sua funzione una volta che la scuola è trasferita in

un nuovo edificio (cessata la destinazione, il bene patrimoniale

indisponibile transita nel patrimonio disponibile). Lo stesso

discorso vale per i beni demaniali a destinazione amministrativa:

si pensi, ad es., ad un tronco stradale che viene abbandonato

perché viene realizzata una variante più comoda e meno

pericolosa o ad un binario ferroviario a scartamento ridotto che

viene dismesso.

L’ altra grande categoria di beni pubblici (enucleata dagli elenchi

dei beni demaniali e patrimoniali indisponibili) è quella dei beni

riservati, ossia dei beni che non possono appartenere se non allo

Stato (e agli altri enti territoriali): il demanio marittimo (lido,

spiagge, rade), il demanio idrico (fiumi, torrenti, laghi, acque

pubbliche) e le miniere.

La riserva è volta ad impedire che del bene si approprino soggetti

privati; e, quindi, ad assicurare l’ uso della generalità delle

persone [è necessario sottolineare, però, che l’ uso generale può

trovare dei limiti per ragioni di polizia del bene, qualora diventi

impossibile il godimento simultaneo di tutti gli aspiranti (si pensi,

ad es., alla chiusura al traffico di alcune zone cittadine o all’

ingresso al museo consentito a gruppi di persone non superiori a

15)].

a) la trasformazione nel regime dei beni pubblici

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Page 89: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

A partire dagli anni ’90 sono state introdotte molte trasformazioni

nel regime dei beni pubblici. Volendo schematizzarle, possono

essere prospettate le seguenti evenienze.

• L’ art. 822 cpv. c.c. stabilisce che fanno parte del demanio

pubblico, se appartengono allo Stato, le strade, le autostrade e le

strade ferrate; tuttavia, con la trasformazione dell’ Azienda

Autonoma delle ferrovie dello Stato in ente pubblico economico e

dell’ ente pubblico economico in s.p.a. (e, quindi, con il

trasferimento dei beni al nuovo soggetto giuridico) è venuto

meno il presupposto della demanialità pubblica, cioè

l’appartenenza dei beni allo Stato. È necessario sottolineare, però,

che nonostante la fuoriuscita di molti beni dal demanio e dal

patrimonio indisponibile statale, rimane in vita il vincolo di

destinazione.

• In alcuni casi, enti pubblici sono stati, per legge, trasformati in

persone giuridiche private (associazioni e fondazioni), essendosi

ritenuto che per il loro funzionamento non fosse necessaria la

personalità di diritto pubblico; in tal modo, i beni, la cui gestione o

conservazione costituiva lo scopo fondamentale dell’ ente

pubblico, passano al nuovo soggetto privato (e, quindi, perdono la

loro natura di beni patrimoniali indisponibili), ma permangono

destinati a tale finalità.

• In altri casi, invece, oggetto della misura legislativa è proprio il

bene, che viene conferito dallo Stato ad una s.p.a., creata proprio

allo scopo di gestire, valorizzare e commercializzare i beni statali,

sia patrimoniali (disponibili ed indisponibili) che demaniali.

A questo scopo sono state create la Patrimonio s.p.a. e la

Infrastrutture s.p.a., il capitale delle quali è detenuto interamente

dal Ministero dell’ Economia e delle Finanze e dalla Cassa Depositi

e Prestiti: l’ obiettivo è quello di gestire il patrimonio con criteri

imprenditoriali e conseguire l’ utilizzazione economica delle

infrastrutture conferite all’ omonima società. I beni della

Patrimonio s.p.a. possono anche essere venduti, previa

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cartolarizzazione (in tal modo, questi beni perdono sia il vincolo di

destinazione, che la connotazione pubblicistica); la

cartolarizzazione viene effettuata a mezzo di società

intermediarie che pagano subito allo Stato il prezzo iniziale del

trasferimento per rivendere poi il bene a terzi.

• Il d.lgs. 12/08 ha, poi, autorizzato le regioni e gli enti locali a

redigere un elenco dei beni immobili di loro proprietà, non

strumentali all’ esercizio delle funzioni istituzionali, suscettibili di

valorizzazione o di dismissione (in tal modo, i beni vengono a far

parte del patrimonio disponibile).

• La legge delega in materia di federalismo fiscale (L. 42/09) ha

previsto, da ultimo, l’ attribuzione (a titolo non oneroso) ad ogni

livello di governo di distinte tipologie di beni pubblici statali.

§12. La finanza pubblica ed il bilancio dello Stato

Entrate e spese pubbliche sono considerate separatamente dalla

nostra Carta Costituzionale. In particolare, per quanto riguarda le

entrate, la Costituzione distingue le entrate patrimoniali (che lo

Stato e gli altri enti pubblici ricavano dalla loro proprietà) dalle

entrate tributarie.

Le entrate dello Stato sono ripartite in:

• titoli, distinti a seconda che abbiano natura tributaria,

extratributaria o provengano dall’ alienazione dei beni

patrimoniali, dalla riscossione di crediti o dall’ accensione di

prestiti;

• ricorrenti o non ricorrenti, a seconda che la loro acquisizione sia

prevista a regime ovvero sia limitata ad uno o più esercizi;

• tipologie: per le entrate tributarie si indicano i tributi più

importanti (IRE, IRES, IVA); per i restanti titoli è indicata, invece, la

tipologia del provento (redditi da capitale o proventi da servizi);

• categorie, a seconda che l’ entrata derivi dall’ attività ordinaria

di gestione o dall’ attività di controllo (ad es., recupero di imposte

evase);

90

Page 91: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

• capitoli, eventualmente suddivisi in articoli.

Per le spese pubbliche, invece, non esiste una disciplina

costituzionale specifica; esistono, però, numerose norme della

Costituzione che, addossando alla Repubblica (Stato, regioni ed

enti pubblici) compiti che hanno un costo (ad es., cure gratuite

agli indigenti o assistenza agli inabili al lavoro, che sono privi di

mezzi), rendono obbligate certe spese pubbliche.

Le spese dello Stato sono ripartite in:

• missioni, che stabiliscono le funzioni e gli obiettivi fondamentali;

• programmi, che sono diretti al perseguimento di questi obiettivi;

• capitoli, secondo l’ oggetto della spesa.

Il documento che tiene insieme, collegandole, entrate e spese è il

bilancio, il quale, infatti, si concreta nella previsione delle entrate

che lo Stato o l’ ente pubblico ritiene di realizzare nel corso dell’

esercizio finanziario e nella previsione delle spese da effettuare.

Il bilancio è presentato dal Governo e approvato dal Parlamento;

in particolare, il ciclo della programmazione di bilancio

(disciplinato con L. 196/09) è avviato dalla Relazione sull’

economia e la finanza pubblica (da presentare alle Camere entro

il 15 aprile di ogni anno); segue lo schema di Decisione di finanza

pubblica (da presentare alle Camere entro il 15 settembre); entro

il 15 ottobre va predisposta la manovra di finanza pubblica (quest’

ultima è formata dalla legge di stabilità, che sostituisce la vecchia

legge finanziaria, e dalla legge di bilancio); i disegni di legge

legati alla manovra vanno presentati entro il mese di febbraio

dell’ anno successivo, mentre il d.d.l. di assestamento deve

essere pronto entro il 30 giugno.

Un ultimo accenno occorre dedicarlo al procedimento di

erogazione della spesa pubblica. Questa, in particolare, si esplica

attraverso quattro fasi: l’ impegno, con il quale il dirigente (o l’

organo politico), a seguito di obbligazione giuridicamente

perfezionata, determina la somma da pagare, il soggetto

creditore, indica la ragione e costituisce il vincolo sulle previsioni

91

Page 92: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

di bilancio; la liquidazione, che consiste nel complesso di

operazioni con le quali viene determinato l’ importo della somma

da pagare e individuata l’ identità del beneficiario; l’ ordinanza,

che consiste nella emissione del titolo di spesa (cd. ordinativo di

pagamento) con il quale viene impartito al tesoriere (o cassiere

dell’ ente) l’ ordine di effettuare il pagamento, cioè la materiale

erogazione del denaro a favore del beneficiario.

Parte II

L’ attività amministrativa

Sezione I

Premesse

§1. Gli interessi

a) il fine e l’ interesse

Nel linguaggio corrente degli studiosi della P.A., il termine fine è

fungibile con il termine interesse. Si parla di fini pubblici o di

interessi pubblici: ad es., del fine, che una collettività persegue, di

avere assicurato l’ ordine pubblico o dell’ interesse di una

collettività all’ ordine pubblico.

I due termini, a ben vedere, denotano la stessa cosa, ma hanno

una diversa connotazione: il sostantivo fine, infatti, evoca

qualcosa che sta al termine di un percorso; l’ interesse, invece,

rimanda a qualcosa che è permanente, che dura, cioè, nel tempo

(è bene precisare, comunque, che nell’ ambito della politica e

dell’ amministrazione si preferisce utilizzare il termine interesse,

perché esso più si addice al carattere di permanenza proprio dello

Stato, dei pubblici poteri e delle amministrazioni).

b) l’ interesse legittimo e il diritto soggettivo

In generale, l’ interesse può essere definito come l’ aspirazione

verso un bene ritenuto idoneo a soddisfare una pretesa o un

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Page 93: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

bisogno nella vita di un soggetto; ora, quando quest’ interesse

viene considerato dalla legge meritevole di tutela in quanto tale,

nel senso che l’ interessato ha la possibilità di agire direttamente

in giudizio per la sua tutela, si parla di diritto soggettivo. Diritto

soggettivo è, ad es., il diritto di proprietà; ciò significa che il

proprietario può agire in giudizio per la tutela del diritto contro

chiunque lo abbia leso (P.A. compresa): supponiamo, ad es., che

un comune, nel realizzare un parco pubblico, invada

abusivamente una porzione di terreno di proprietà privata, senza

espropriarlo; in questo caso il comune viola un diritto soggettivo

(di proprietà) e il proprietario può rivolgersi al giudice ordinario

contro tale comportamento della P.A.

L’ interesse legittimo, invece, (secondo la definizione elaborata

dal Nigro e, poi, accolta dalla Cassazione nella importantissima

sentenza 500/99) è una posizione giuridica soggettiva

riconosciuta ai privati, grazie alla quale essi incidono sull’ attività

amministrativa allo scopo di tutelare un bene pertinente allo loro

sfera di interessi: così, ad es., l’ impresa che non ha ottenuto l’

appalto, perché è stata preferita un’ altra ditta, aveva

sicuramente interesse ad ottenerlo, ma non si può dire che essa

vanti un diritto nei confronti dell’ amministrazione, dal momento

che questa ha un potere discrezionale (cioè, un potere di scelta)

diretto ad assicurare la soddisfazione dell’ interesse pubblico (in

questo caso: massima qualità della prestazione al minimo

prezzo); all’ impresa che è risultata sconfitta viene

semplicemente riconosciuto un interesse legittimo (cioè, l’

interesse a che l’ amministrazione si comporti rispettando le

norme di legge sulle gare d’ appalto).

Da quanto detto, quindi, si può concludere dicendo che l’

interesse legittimo è una situazione soggettiva correlata al potere

discrezionale della pubblica amministrazione; ovviamente, questo

potere discrezionale viene esercitato attraverso una scelta (che

può essere anche quella di non agire: si pensi, ad es., alla

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Page 94: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

determinazione di non disporre l’ annullamento d’ ufficio di un

atto illegittimo). Tale scelta comporta un’ alternativa alla quale

soggiace la situazione soggettiva dell’ altra parte (l’ interesse

legittimo): il privato, quindi, non ha diritto a che il potere venga

esercitato nella direzione da lui voluta, ma, appunto, solo un

interesse (che viene definito legittimo, perché esso può essere

soddisfatto dall’ autorità amministrativa solo con un atto

legittimo).

c) gli interessi collettivi

Quello fin qui descritto è l’ interesse privato, vale a dire l’

interesse che concerne il singolo; ad esso viene affiancato l’

interesse collettivo, che, però, non rappresenta la semplice

somma degli interessi individuali.

Per comprendere la distinzione occorre partire ancora una volta

dall’ interesse del singolo: ci sono interessi che il singolo può

soddisfare senza la cooperazione altrui (come ad es., l’ interesse

a dissetarsi o l’ interesse a guardare le stelle); altri interessi,

invece, non sono suscettibili di soddisfazione individuale, o perché

presuppongono un gioco di squadra (il calcio, il basket, etc.) o

perché richiedono mezzi di cui la persona interessata non dispone

(l’ interesse a viaggiare per il mondo in navi di lusso) o perché l’

interesse individuale ha di fronte a sé l’ interesse antagonistico

che è proprio di altra persona e che è destinato a prevalere (ad

es., l’ interesse del lavoratore ad ottenere dal suo datore di lavoro

la retribuzione più alta possibile, le condizioni di lavoro migliori

possibili, etc.). In tutti questi casi, come si può facilmente intuire,

la soddisfazione dell’ interesse va cercata sul piano collettivo (ad

es., il lavoratore singolo è destinato a soccombere nello scontro

con colui che gli dà lavoro, ma può far valere le sue ragioni se si

riunisce in un sindacato di lavoratori, che recupera sul piano

collettivo quella forza contrattuale che al singolo lavoratore

manca).

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Page 95: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Così considerato, l’ interesse collettivo non designa tanto una

specie di interesse, quanto il mezzo per soddisfarlo (costituito,

quest’ ultimo, dalla cooperazione di tutti coloro che ne sono

portatori); in questa prospettiva l’ interesse collettivo può anche

essere definito un interesse parziale, vale a dire l’ interesse di una

collettività che, a sua volta, costituisce una parte di una comunità

maggiore.

d) gli interessi generali

L’ interesse generale è l’ interesse che riguarda l’ individuo come

membro del pubblico (si pensi, ad es., all’ interesse a che sia in

vigore una norma che vieti l’ omicidio e punisca coloro che lo

commettono).

Ora, la condizione indispensabile perché una misura possa essere

considerata di interesse generale è che essa tratti allo stesso

modo tutti quelli che ne sono toccati; e tale condizione delimita,

ovviamente, tutte le alternative possibili: così, ad es., rispetto alla

regola che vieta a tutti di commettere omicidio, la sola alternativa

munita del medesimo carattere di universalità sarebbe la regola

che consentisse a tutti di commettere omicidio.

In virtù di tali considerazioni, si può senz’ altro affermare che sono

conformi all’ interesse generale le norme contenute in un codice

civile, in un codice penale o in un codice di procedura, perché si

tratta di norme che prendono in considerazione chiunque, nonché

le situazioni in cui chiunque può venire a trovarsi (esistono,

tuttavia, in questi testi, anche delle norme specifiche che si

rivolgono a soggetti determinati, in ragione del ruolo da essi

rivestito: ad es., pubblico ufficiale, giudice, etc.).

e) gli interessi pubblici

Con l’ interesse generale viene spesso confuso l’ interesse

pubblico (nel senso che i due termini vengono usati

promiscuamente); in realtà, occorre sottolineare che l’ interesse

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Page 96: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

pubblico si distingue da tutti gli altri interessi perché è stato

incorporato in una norma, in una politica o in una misura pubblica

(dei pubblici poteri). L’ interesse generale può essere, semmai, un

criterio per valutare più proposte che abbiano per oggetto norme,

politiche o misure, prima che una di queste proposte venga

accolta e formalizzata come norma, politica o misura pubblica

(così, ad es., l’ interesse generale potrebbe essere quello ad una

riduzione delle tasse; ma se il Governo persegue una politica

opposta di incremento del carico tributario e delibera o promuove

un provvedimento legislativo che ritocca le aliquote verso l’ alto,

è questo l’ interesse pubblico che gli uffici finanziari devono

perseguire).

Assumendo, pertanto, che l’ interesse pubblico è l’ interesse che

viene reso pubblico dai pubblici poteri, diventa essenziale stabilire

chi, all’ interno dei pubblici poteri, è abilitato a convertire un certo

interesse in interesse pubblico. Ovviamente, nello stato assoluto,

arbitra dell’ operazione è la volontà del sovrano; nello stato

costituzionale l’ interesse pubblico è, invece, definito dalla legge;

nello stato liberal-democratico la legge è quella deliberata da un

Parlamento eletto a suffragio universale o da un Governo che è

espressione della maggioranza elettorale ed è munito di potestà

legislativa.

Questo semplice fatto (che, cioè, competente ad individuare l’

interesse pubblico è il legislatore, ossia la maggioranza

parlamentare) spiega, tra l’ altro, il motivo per il quale interesse

collettivi, ma non generali, siano eretti ad interessi pubblici: è

sufficiente, infatti, che un certo gruppo sociale, numericamente

maggioritario, voti compatto perché la maggioranza parlamentare

che ne risulta adotti politiche e misure conformi all’ interesse

collettivo del gruppo.

Da quanto detto, quindi, possiamo concludere dicendo che gli

interessi pubblici includono non solo gli interessi generali (gli

interessi che ogni individuo avverte in quanto cittadino), ma

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Page 97: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

anche gli interessi collettivi, che sono riqualificati come interessi

pubblici con la loro assunzione nell’ ambito pubblico.

f) i modi per soddisfare gli interessi

Da quanto detto risulta evidente che la distinzione tra gli interessi

appena delineata non è fondata sul valore o sul pregio

comparativo, ma sulle modalità di soddisfazione degli stessi

interessi: è, infatti, in virtù di questo parametro che determinati

interessi rimangono nella sfera privata, mentre altri vengono

trasferiti sul piano collettivo (o pubblico). Per comprendere quanto

detto, facciamo un esempio: è difficile trovare un interesse più

essenziale del cibo, necessario per soddisfare un bisogno

elementare; eppure, in quasi tutte le civiltà, l’ agricoltura è stata

praticata dai privati nella forma dell’ autoproduzione (prima) e del

mercato (poi); allo stesso modo, l’ interesse a circolare

corrisponde anch’ esso ad un bisogno essenziale, ma certamente

meno essenziale del bisogno del cibo (si può sopravvivere stando

sempre nello stesso posto, non si può sopravvivere senza

mangiare); eppure dappertutto la libertà di circolazione viene

esercitata a mezzo di infrastrutture e di servizi pubblici. Dagli

esempi avanzati si capisce, pertanto, che gli interessi generali e

gli interessi pubblici, nella prospettiva del singolo, non sono

interessi più elevati di tanti altri interessi che rimangono privati; si

tratta soltanto di interessi che non possono essere soddisfatti se

non con l’ intervento pubblico.

g) gli interessi non pubblicizzabili

Non bisogna, però, credere che il processo di moltiplicazione degli

interessi sia inarrestabile. Un primo vincolo, infatti, discende dalle

costituzioni; ogni costituzione indica (al legislatore) interessi

(pubblici) da perseguire, ma nello stesso tempo esclude o vieta

che altri interessi siano assunti nella sfera pubblica e qualificati

come interessi pubblici: ad es., la Costituzione italiana, mentre,

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Page 98: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

da un lato, impone di organizzare un sistema di sicurezza sociale,

una scuola pubblica per tutti gli ordini e gradi, un sistema di

assistenza per i cittadini inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi

necessari per vivere, dall’ altro, ci dice anche che determinati

interessi non possono essere qualificati come interessi pubblici:

così, ad es., l’ affermazione della libertà sindacale esclude che i

sindacati possano essere qualificati come enti pubblici; così come

non possono essere enti pubblici i partiti politici [infatti, la libertà

sindacale e partitica, che include anche l’ opzione negativa (cioè,

la libertà di non iscriversi ad alcun sindacato o ad alcun partito),

comporta che gli interessi tutelati da organismi del genere non

possono essere, per definizione, interessi pubblici].

Il secondo limite a carico del legislatore ordinario deriva, invece,

dai vincoli europei: il diritto europeo vincola, infatti, il legislatore

italiano nella determinazione degli interessi pubblici da soddisfare

attraverso la disciplina della politica economica e monetaria.

§2. I mezzi: il diritto ed il denaro

Le amministrazioni pubbliche sono chiamate a svolgere attività

volte a soddisfare interessi pubblici; per far ciò esse si avvalgono

di due strumenti (individuati dal sociologo tedesco Luhmann): il

diritto ed il denaro.

Il diritto può essere costituito anche soltanto da regole: ad es.,

uno Stato che miri a riequilibrare i rapporti tra datori di lavoro e

lavoratori, correggendo lo squilibrio a favore dei secondi (soggetti

deboli del rapporto), può impiegare mezzi esclusivamente

normativi (come una disciplina differenziata del recesso dal

rapporto di lavoro, che è ammesso senza limiti per il lavoratore,

mentre è subordinato a giusta causa o a giustificato motivo per il

datore di lavoro).

Nella stragrande maggioranza dei casi, però, il diritto che viene

usato per la soddisfazione degli interessi pubblici non è composto

solo da regole, ma è fatto anche di apparati amministrativi

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Page 99: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

(istituiti in base alla legge); apparati che vengono, a loro volta,

muniti di poteri e risorse per la realizzazione di quegli interessi:

così, ad es., l’ interesse all’ ordine pubblico è affidato alle norme

del codice penale, che prevedono i reati e stabiliscono le pene per

la loro violazione (pene che verranno applicate, poi, dal giudice);

ma sul presupposto che questa linea difensiva risulti vulnerabile,

il legislatore istituisce apparati di polizia (in Italia: polizia di Stato,

carabinieri e guardia di finanza), munendoli di poteri di ordinanza,

di identificazione, di controllo, di investigazione e di repressione.

Sotto questo profilo, come si può notare, non è più solo il diritto il

medium utilizzato per soddisfare l’ interesse, ma anche il denaro,

vale a dire quella parte rilevante delle risorse nazionali necessaria

a sostenere i costi di un servizio, che per colui che ne fruisce è

gratuito.

§3. L’ amministrazione che prende e l’ amministrazione che dà

Un giurista tedesco, negli anni ’30 del XX secolo, ha formalizzato

la distinzione tra amministrazione che prende (che aggredisce,

cioè, la sfera giuridica del privato) e amministrazione che dà

(cioè, che al privato rende prestazioni).

L’ amministrazione che prende si esprime in provvedimenti

amministrativi (ad es., ordini, espropriazioni, occupazioni,

autorizzazioni, concessioni o licenze): si tratta di misure che

comportano una restrizione della sfera giuridica del privato, al

quale viene tolto un bene o un diritto o imposto un obbligo;

ovvero di misure che, pur avendo l’ aria di estendere la sfera

giuridica del destinatario (autorizzazione e concessione), in realtà

presuppongono una previa restrizione delle sfere giuridiche dei

privati (ad es., il fatto stesso che un’ attività debba essere

autorizzata per poter essere svolta equivale ad una restrizione se

paragonato alla situazione di chi la stessa attività potrebbe

svolgere con una propria decisione, senza necessità di una previa

autorizzazione).

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Page 100: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

L’ amministrazione che dà (o attività di prestazione) è, invece,

quella con la quale il cittadino viene continuamente a contatto in

qualità di utente o di consumatore (consumatore, ad es., di

prestazioni sanitarie, di prestazioni di energia elettrica, di

trasporto, etc.).

Quanto detto, ovviamente, non giustifica l’ opinione secondo la

quale l’ amministrazione che prende (o autoritativa) si traduce in

provvedimenti, mentre l’ amministrazione che dà (o di

prestazione) si concreta in attività materiali: basti pensare, invero,

che il provvedimento che costituisce esercizio di un potere

autoritativo richiede una successiva attività materiale di

esecuzione (del soggetto destinatario o della stessa

amministrazione); reciprocamente, l’ attività materiale di

prestazione deve essere sorretta da un titolo giuridico (ad es., un

contratto di somministrazione in base al quale il mio

appartamento è rifornito di acqua, luce e gas).

§4. Il potere amministrativo come potere unilaterale

Nei rapporti tra P.A. e cittadino, l’ amministrazione dispone di

poteri che non hanno un fondamento contrattuale, ma che

derivano dalla legge che la istituisce e che entrano in azione

quando si verifica il fatto previsto dalla relativa norma (ad es., la

legge prevede che il sindaco, accertata l’ esecuzione di opere in

assenza di concessione, ingiunga la demolizione).

Il potere amministrativo è, quindi, un potere unilaterale non solo

nel senso che il suo esercizio incide unilateralmente nella sfera

giuridica altrui, ma anche nel senso che la sua fonte non è

contrattuale (anche il datore di lavoro privato ha un potere

direttivo verso il lavoratore, ma tale potere ha una fonte

contrattuale). È necessario sottolineare, però, che

amministrazione e privato possono comunque stringere un

accordo che non solo può predeterminare il contenuto del

provvedimento, ma può anche sostituirlo; tale accordo, in ogni

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Page 101: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

caso, non mette in discussione l’ unilateralità del potere

amministrativo [infatti, poiché l’ accordo è un’ evenienza precaria,

dipendente dall’ incontro di due volontà, gli interessi pubblici che

richiedono una protezione continua sarebbero pregiudicati se alla

singola amministrazione non fosse attribuito il potere unilaterale

di influire sulla sfera giuridica di colui che all’ accordo non vuole

addivenire (come accadrebbe, ad es., nel caso in cui l’

amministrazione tributaria dovesse aspettare il consenso del

contribuente ovvero l’ amministrazione militare il consenso della

recluta).

Proprio perché è un potere unilaterale, il potere amministrativo (in

un ordinamento democratico, come il nostro) deve essere istituito

ed attribuito dalla legge: e ciò perché la capacità di incidere sulla

sfera giuridica di un altro (il privato interessato), senza il suo

consenso, costituisce una eccezione ad una regola fondamentale

del diritto privato (ecco il motivo per il quale solo il popolo,

attraverso la sua rappresentanza e con una votazione a

maggioranza, può introdurre questa eccezione).

§5. Il potere amministrativo e gli interessi pubblici

Il potere amministrativo è attribuito a tutela di un interesse

pubblico (a tutela, cioè, del complesso dei cittadini); di

conseguenza, risulta evidente che la persona soggetta al potere

amministrativo può anche ottenere (soprattutto dal giudice

amministrativo) l’ invalidazione dell’ atto di esercizio del potere se

quell’ atto non soddisfa l’ interesse pubblico specifico (che la

legge ha affidato alle cure di quell’ autorità). Da qui l’ idea, errata,

che il privato possa soddisfare le sue pretese solo se il suo

interesse coincide con l’ interesse pubblico; o, peggio, che il

giudice amministrativo sia stato istituito per soddisfare l’

interesse pubblico (mentre, invece, la giurisdizione

amministrativa serve alla difesa del privato e non dell’ interesse

pubblico).

101

Page 102: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

L’ interesse pubblico che stiamo analizzando è un interesse

specifico, ossia un interesse che si qualifica in ragione dell’

ambito materiale di riferimento (interesse sanitario, ambientale,

culturale, etc.). Ciò comporta almeno due conseguenze:

innanzitutto, l’ interesse pubblico affidato alla cura dell’ autorità

può confliggere non soltanto con un interesse privato antagonista,

ma anche con un altro interesse pubblico affidato alla cura di un’

altra autorità [ad es., l’ interesse che ha il comune a realizzare

una certa opera pubblica (un nuovo palazzo comunale) può

entrare in conflitto con l’ interesse pubblico curato dall’

amministrazione dei beni culturali alla conservazione dei caratteri

del centro storico, che verrebbero alterati dalla realizzazione dell’

opera].

L’ altra conseguenza riguarda la competenza: poiché ciascuna

autorità deve farsi carico dell’ interesse pubblico specifico che è

implicito nella sua competenza, sarebbe illegittimo il

provvedimento che, pur rivolto a tutelare l’ interesse pubblico,

pretendesse di soddisfare un interesse pubblico diverso da quello

rientrante nella propria competenza (si pensi, ad es., al caso in

cui il sindaco limiti a poche ore di sera l’ apertura di una sala

cinematografica, allo scopo di impedire che gli scolari siano

distolti dallo studio; la competenza a regolare gli orari dei pubblici

servizi non può essere esercitata per soddisfare l’ interesse alla

pubblica istruzione).

§6. Il potere amministrativo come potere tipico

Il potere amministrativo è un potere tipico: in altri termini, ciò

significa che, al di fuori dei casi di urgenza e di grave necessità

pubblica, il contenuto del provvedimento deve essere sempre

predeterminato dalla legge (sicché il provvedimento si

qualificherà, di volta in volta, come autorizzazione, concessione,

ordine, divieto, espropriazione, etc.). Ed è in questo che si

esprime il vincolo della tipicità: nell’ esigenza, cioè, che il potere

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Page 103: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

si esprima attraverso un provvedimento tipico, indicato dalla

legge (art. 97, co. 1 e 2 Cost.).

La predeterminazione legislativa del tipo di provvedimento da

adottare esclude, inoltre, che l’ amministrazione possa

aggiungere all’ atto clausole o condizioni che esulano dallo

schema (sarebbe, ad es., illegittimo, perché in contrasto con la

tipicità dell’ atto, un permesso di costruire che fosse condizionato

all’ impegno da parte del proprietario di assicurare la

manutenzione della strada pubblica antistante). Tali clausole o

condizioni, però, possono essere inserite in un accordo che l’

amministrazione può concludere con il privato (tale accordo,

ovviamente, non costituisce un’ obiezione contro il principio di

tipicità).

§7. Il potere amministrativo e la doverosità del suo esercizio

Come detto, il potere amministrativo è attribuito per soddisfare l’

interesse pubblico. Ciò può significare due cose: o che il potere,

quando viene esercitato, è vincolato alla soddisfazione dell’

interesse pubblico o che il potere, in presenza di determinati

presupposti, deve essere esercitato, perché sia soddisfatto l’

interesse pubblico.

Questa seconda accezione trova un fondamento normativo nell’

art. 2 L. 241/90, il quale, infatti, afferma che, ove il procedimento

consegua obbligatoriamente ad un’ istanza (ad es., domanda di

autorizzazione, di concessione, di abilitazione, di iscrizione, etc.)

ovvero debba essere iniziato d’ ufficio, la pubblica

amministrazione ha il dovere di concluderlo mediante l’ adozione

di un provvedimento espresso. In questi casi, quindi, come si può

notare, l’ esercizio del potere è doveroso (in realtà, sono pochi i

casi in cui l’ esercizio della potestà amministrativa non è dovuto:

non è dovuto, ad es., nei riguardi di chi chieda l’ annullamento d’

ufficio o la revoca di un provvedimento preesistente ovvero

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Page 104: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

qualora una persona chieda che sia inflitta una sanzione

amministrativa ad un’ altra).

§8. Il potere amministrativo come potere discrezionale

Un’ altra caratteristica del potere amministrativo è la

discrezionalità, le cui premesse teoriche sono state individuate sin

dall’ antichità: scriveva, infatti, Platone (nel Politico) che una

legge non potrà mai ordinare con precisione, e per tutti, la cosa

più buona e più giusta, indicando contemporaneamente anche ciò

che è assolutamente valido.

Ancora più preciso Aristotele quando parlava della convivenza

come di una forma particolare di giustizia: la legge è sempre una

norma universale, mentre di alcuni casi singoli non è possibile

trattare correttamente. […] Quando la legge parla in universale,

allora è legittimo, laddove il legislatore ha trascurato qualcosa,

correggere l’ omissione.

Oggi, quest’ opera di completamento della legge è affidata, nel

nostro ordinamento, all’ amministrazione e ai giudici; ovviamente

tale operazione conosce determinati confini, fissati dalla

Costituzione, la quale, con riferimento alla P.A., stabilisce che il

Parlamento non può fare della P.A. un legislatore delegato, perché

tale delega è ammessa solo nei riguardi del Governo; la

Costituzione, però, presuppone comunque questa operazione,

perché se la legge pretendesse di regolare in anticipo tutto

verrebbe pregiudicata quell’ esigenza di flessibilità e di aderenza

alle circostanze concrete (esigenza che risulta incorporata nel

principio del buon andamento dell’ amministrazione, ex art. 97

Cost.).

Detto ciò, le norme che conferiscono poteri all’ amministrazione

hanno la seguente struttura: se si verifica A (che può essere un

fatto da accertare o un fatto da valutare), allora l’ autorità può e

deve fare B (che può essere un atto vincolato o discrezionale).

Facciamo qualche esempio: se una cosa immobile ha cospicui

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Page 105: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

caratteri di bellezza naturale, la regione emette la dichiarazione

di notevole pubblico interesse (in questo caso, il fatto è da

valutare: è richiesto, cioè, un giudizio, non solo di fatto, ma anche

di valore); se un pubblico esercizio viene chiuso per più di otto

giorni, senza che sia dato avviso all’ autorità locale di p.s., la

licenza viene revocata (in questo secondo caso, il fatto è da

accertare: occorre, cioè, accertare se l’ esercizio è stato chiuso

per più di otto giorni).

In entrambi gli esempi avanzati la decisione della P.A. parrebbe

obbligata: al riconoscimento di bellezza naturale consegue la

dichiarazione di notevole pubblico interesse; accertata la chiusura

del pubblico esercizio per più di otto giorni, senza che il titolare ne

abbia dato comunicazione all’ autorità di p.s., la licenza va

revocata.

In realtà, però, le cose stanno in modo diverso: nel primo caso,

potrebbe, infatti, accadere che l’ area dichiarata di notevole

interesse pubblico sia più ristretta di quella proposta per il vincolo

(sicché, per una parte la proposta non viene accolta); può anche

accadere che la proposta venga rigettata del tutto (perché sull’

immobile grava un altro vincolo, ad es. a parco, idoneo a

garantire comunque la salvaguardia dei caratteri di bellezza

naturale).

Neppure nel secondo caso la decisione è obbligata: sarebbe,

infatti, illegittima la revoca della licenza di esercizio, motivata con

la chiusura dei locali per più di otto giorni, senza darne

comunicazione all’ autorità di p.s., se il titolare dimostrasse di

essere stato nell’ impossibilità di comunicare, perché trattenuto

da uno sciopero in un’ isola lontana, non collegata da alcun

mezzo di comunicazione alla città in cui l’ esercizio era ubicato.

a) l’ accertamento dei presupposti e la discrezionalità

Dagli esempi fatti, si intuisce, quindi, che l’ accertamento dei

presupposti consiste quasi sempre in un fatto da valutare e non in

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Page 106: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

un fatto puramente da accertare, e che la stessa complessità

presenta la conseguenza, ossia la decisione da prendere. Per

comprendere quanto detto facciamo un altro esempio: le opere

eseguite in parziale difformità dalla concessione sono demolite a

cura e spese del responsabile dell’ abuso e, in difetto, dal comune

(a spese del responsabile); se la difformità è totale, e il

responsabile non demolisce, il comune adotta la diversa misura

dell’ acquisizione dell’ immobile al patrimonio del comune. Ora,

accertare che una difformità è parziale può essere un’ operazione

complicata, perché occorre anche accertare che la demolizione

della parte di costruzione difforme dalla concessione non

pregiudichi la parte conforme: se, infatti, c’è tale pregiudizio, in

alternativa alla demolizione va applicata una sanzione pecuniaria.

Ciò non solo conferma la funzione cruciale dell’ accertamento dei

presupposti di fatto, ma spiega anche perché il discorso sulla

discrezionalità investa entrambi i momenti (della premessa

normativa e della conseguenza decisionale).

b) la discrezionalità come potere di scelta

All’ accertamento dei presupposti indicati dalla legge segue la

decisione dell’ amministrazione, cioè, la scelta. Questa,

ovviamente, non può esserci nei casi in cui le risultanze dell’

istruttoria conducano ad una soluzione obbligata (si pensi, ad es.,

all’ ipotesi dell’ autorizzazione, il cui rilascio dipende

esclusivamente dall’ accertamento dei presupposti e dei requisiti

di legge).

Nella maggioranza dei casi, però, l’ istruttoria conclusa lascia

aperta una scelta ed è questa scelta che qualifica la

discrezionalità (discrezionalità amministrativa significa, appunto,

facoltà di scelta nell’ esercizio di un potere amministrativo). La

scelta, secondo la dottrina dominante in Italia, è collegata alla

pluralità degli interessi in gioco, pubblici e privati, di cui l’

amministrazione è tenuta a tener conto; proprio per tal motivo la

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Page 107: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

discrezionalità viene identificata con una valutazione comparativa

di interessi (ad es., il piano regolatore comunale tocca tutti gli

interessi che hanno un rapporto con il territorio: interessi

dominicali, interessi produttivi, interessi culturali, interessi

turistici; pertanto, il consiglio comunale articolerà la sua scelta a

seconda che voglia tutelare l’ uno più dell’ altro interesse).

La dottrina, concordando sostanzialmente sull’ idea della

discrezionalità come scelta, ha individuato l’ oggetto di questa

scelta nei seguenti elementi: l’ an (se adottare o no il

provvedimento), il quando (quando adottarlo), il quomodo (con

quali modalità, condizioni o clausole accessorie) e il quid (con

quale contenuto). Tale costruzione presenta, però, determinati

limiti.

Per quanto riguarda l’ an, infatti, occorre sottolineare che non è

frequente che l’ amministrazione sia libera di scegliere se

adottare o non il provvedimento (no lo è quando il procedimento

sia ad iniziativa di parte e l’ amministrazione abbia l’ obbligo di

avviarlo: si pensi, ad es., alla richiesta di autorizzazione); l’

alternativa è, invece, prospettabile nei procedimenti sanzionatori

o in quelli di annullamento d’ ufficio (ma si tratta di casi

sporadici).

Anche la discrezionalità sul quando non riveste molta rilevanza,

dal momento che la legge, di norma, impone all’ autorità di

concludere il procedimento entro un termine prefissato [tra l’

altro, occorre considerare che anche i giorni che precedono il

termine finale, tra i quali l’ amministrazione potrebbe scegliere

per provvedere (esercitando, quindi, una discrezionalità sul

quando), servono, in realtà, per l’ istruttoria, ossia per l’

accertamento dei presupposti dell’ atto].

Per quanto riguarda, invece, il quid (con quale contenuto adottare

il provvedimento), va detto che l’ autorità incontra, innanzitutto, il

limite della tipicità del provvedimento (ad es., essa non può

revocare la licenza di pubblico esercizio per sanzionare il rifiuto

107

Page 108: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

del titolare di dare informazioni alla polizia). La discrezionalità

consente, però, l’ alternativa tra il rifiuto o il rilascio (quando è il

privato a chiedere il provvedimento); in realtà, è bene precisare

che il margine di scelta è molto più ampio, perché in questi casi l’

autorità può rilasciare il provvedimento, ma a determinate

condizioni (si pensi, ad es., all’ eliminazione di un’ elevazione dal

progetto di costruzione, per il quale il proprietario abbia chiesto il

permesso di costruire).

Giungiamo così, infine, alla discrezionalità nel quomodo (cioè, con

quali modalità, condizioni o clausole accessorie adottare il

provvedimento): infatti, come già detto in precedenza, il

provvedimento è suscettibile di clausole accessorie, purché,

ovviamente, non ne venga intaccata la tipicità (si pensi, ad es., ad

una concessione edilizia che venga rilasciata a condizione che il

proprietario provveda alla manutenzione ordinaria e straordinaria

della strada pubblica antistante).

c) la questione della discrezionalità tecnica

Soltanto se si accetta l’ idea che la discrezionalità attiene non

soltanto al momento della decisione, ma anche a quello della

valutazione del fatto, ha un senso la categoria della

discrezionalità tecnica: questa ricorre quando il giudizio che è

richiesto all’ autorità amministrativa deve essere espresso sulla

base di conoscenze specialistiche non giuridiche, ma scientifiche,

proprie della fisica, della chimica, dell’ estetica, dell’ archeologia,

etc. (si pensi, ad es., all’ individuazione dei giacimenti di gas a

marginalità economica ovvero all’ individuazione degli spartiti

musicali di pregio artistico o storico da sottoporre alla disciplina

dei beni culturali).

Ciò che unifica le ipotesi su citate non è solo la natura del criterio

che informa il giudizio (criterio mutuato da una disciplina

scientifica), ma è anche il margine di opinabilità che qualifica il

giudizio; ed è proprio in virtù di tale opinabilità che parte della

108

Page 109: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

dottrina ritiene che il giudice (ordinario e amministrativo) non

possa sindacare l’ atto di esercizio della discrezionalità tecnica: si

dice, cioè, che il giudice non può sostituire il suo giudizio a quello

che l’ amministrazione ha espresso sulla base di una scienza o di

una tecnica diversa dal diritto.

In realtà, i due criteri su menzionati non valgono ad inibire il

controllo del giudice: non l’ opinabilità, che può, tutt’ al più,

obbligare il giudice a far salva la valutazione dell’

amministrazione che si mantenga nei limiti di quel margine (di

opinabilità); non il carattere scientifico del giudizio, dal momento

che il giudice, grazie alla consulenza tecnica, è in grado di

controllare quel giudizio.

d) il sindacato sulla discrezionalità

Secondo la concezione originaria (risalente alla dottrina francese

della prima metà del XIX sec.), atto discrezionale era sinonimo di

atto insindacabile da parte del giudice. Oggi, invece, le cose

stanno in modo diverso, perché contro gli atti della P.A. è sempre

ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi

legittimi (art. 113 Cost.): ciò significa non solo che l’ atto

discrezionale è sindacabile, ma che esso è comunque suscettibile

di ledere un diritto o un interesse legittimo.

Ora, poiché la discrezionalità si risolve in una scelta dell’

amministrazione, occorre stabilire come possa conciliarsi questa

(relativa) libertà di scelta con la tutela di una situazione giuridica

soggettiva (diritto o interesse), che il titolare pretende lesa. In

realtà, partendo dal presupposto che il provvedimento è quello

concretamente adottato, ma avrebbe potuto essere diverso, il

giudice (amministrativo) ha focalizzato la sua attenzione non sul

contenuto dell’ atto, ma sul modo in cui l’ autorità è pervenuta

alla sua adozione: da qui è stata enucleata una serie di regole e di

princìpi sull’ elaborazione dei provvedimenti discrezionali (che

hanno finito per condizionare l’ intera attività amministrativa).

109

Page 110: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

In questa prospettiva, va detto che l’ esigenza di

contemperamento tra la libertà di azione dell’ amministrazione e

la tutela del privato viene soddisfatta, innanzitutto, con il

procedimento amministrativo e con la partecipazione del privato

al procedimento.

L’ accertamento dei fatti e dei presupposti (che la legge richiede

per l’ esercizio del potere amministrativo) è rimesso all’

istruttoria, che rappresenta una fase necessaria del procedimento

amministrativo e le cui risultanze orientano la decisione dell’

autorità. Quest’ ultima deve essere preceduta da una valutazione

comparativa degli interessi in gioco; e l’ esame di questi interessi

è formalizzato nell’ istituto della conferenza di servizi.

Trova, poi, applicazione un principio di particolare importanza,

vale a dire: il principio di ragionevolezza. Ragionevole deve essere

non solo la disposizione di legge, ma anche il provvedimento che

vi dà attuazione; e la ragionevolezza di questo va valutata in

relazione alle circostanze di fatto, ai precedenti e al contesto

complessivo: ad es., che un maresciallo dei carabinieri si appropri

del cellulare di una persona coinvolta in un incidente stradale e

trasportata in ospedale è certamente grave; tuttavia, che per

quest’ unico episodio il maresciallo venga privato del grado,

senza che vi sia a suo carico un solo precedente disciplinare in

una carriera che dura da decenni, è certamente irragionevole.

§9. I poteri amministrativi

a) le tipologie

I poteri amministrativi possono essere classificati, innanzitutto, in

base al criterio dell’ interesse pubblico che ciascuno di essi è

chiamato a soddisfare: possiamo così distinguere un potere

urbanistico, un potere edilizio, un potere sanitario, un potere di

polizia, un potere di tutela ambientale, etc.

Ciascuno di questi poteri, a sua volta, si esplica in forme diverse:

110

Page 111: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

ad es., il potere urbanistico viene svolto attraverso piani

urbanistici regionali, piani intercomunali, piani regolatori

comunali; il potere edilizio si esprime mediante permessi di

costruire, autorizzazioni edilizie, ordini di sospensione dei lavori; il

potere di polizia si esercita mediante ordinanze, licenze,

autorizzazioni, revoche, divieti, etc. Ora, poiché le forme, con le

quali vengono esercitati questi poteri, ricorrono più volte (ad es.,

l’ autorizzazione la ritroviamo sia nella materia sanitaria, sia nella

materia edilizia, che in quella di polizia) i poteri amministrativi

possono essere classificati anche in ragione di queste forme:

avremo così un potere autorizzativo, un potere di concessione, un

potere sanzionatorio, etc.

I poteri amministrativi possono essere classificati anche in

relazione al tipo di interesse contrapposto (l’ interesse del

soggetto privato): ci sono poteri che restringono la sfera del

privato (cd. poteri ablativi) e poteri che garantiscono al privato un

beneficio (cd. poteri ampliativi). In rapporto ai primi, il privato ha

un interesse oppositivo (cioè, l’ interesse a che il potere non

venga esercitato); rispetto ai secondi, invece, il privato ha un

interesse pretensivo [cioè, l’ interesse a che il potere venga

esercitato; in questa seconda ipotesi può accadere, però, che il

potere venga esercitato dall’ amministrazione in modo difforme

dall’ interesse del privato (si pensi, ad es., al caso in cui un’

autorizzazione venga negata, anziché concessa); e allora il

privato ne riceverà un danno, come se l’ amministrazione avesse

esercitato un potere ablativo].

I poteri amministrativi possono essere ancora qualificati in base al

tipo di precetto contenente gli atti che ne costituiscono esercizio:

precetti di portata generale (regolamenti, programmi, piani) o

precetti concreti.

I poteri amministrativi possono essere, infine, distinti in poteri

strumentali e poteri finali (i primi, ovviamente, sono attribuiti per

l’ esercizio dei secondi): tipico potere strumentale è il potere

111

Page 112: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

organizzativo, del quale l’ amministrazione si serve per dotarsi di

strutture idonee allo svolgimento di poteri finali (ad es., un

comune istituisce una ripartizione urbanistica, assegnandovi un

dirigente e altro personale, reclutato per concorso, per poter

esercitare i compiti di pianificazione del territorio e di controllo

sull’ attività edilizia dei privati).

b) gli schemi di azione

L’ azione amministrativa si manifesta secondo alcuni schemi

fondamentali, il primo dei quali è l’ autorizzazione (denominata

anche licenza o nulla osta): essa presuppone un divieto, posto

dalla legge, di svolgere una determinata attività; ma il divieto può

essere rimosso dall’ autorizzazione, che viene rilasciata da un’

autorità amministrativa (è in questo senso che parte della

dottrina, in relazione all’ autorizzazione, parla anche di divieto

con riserva di permesso).

L’ autorizzazione si presenta, più precisamente, come un atto

(successivo), attraverso il quale l’ amministrazione rimuove un

limite all’ esercizio di un diritto (preesistente). Affermare, però,

che prima dell’ autorizzazione c’è un diritto, comporta un forte

vincolo a carico dell’ autorità amministrativa, la quale, infatti, può

negare l’ autorizzazione solo qualora ricorrano i presupposti che la

legge indica ai fini del diniego: ad es., il permesso di costruire può

essere negato solo qualora il richiedente non sia proprietario del

terreno o non ne abbia comunque la disponibilità ovvero se il

progetto non sia conforme alla normativa urbanistica.

Un secondo schema di azione è, poi, quello della dichiarazione di

inizio dell’ attività (D.I.A.): tale istituto, introdotto in materia

edilizia, è stato generalizzato dalla L. 241/90, come tecnica di

intervento pubblico alternativa all’ autorizzazione (occorre qui

specificare che, insieme al silenzio-assenso, la D.I.A. costituisce

una delle forme della liberalizzazione amministrativa, cioè della

eliminazione o riduzione degli ostacoli di ordine amministrativo

112

Page 113: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

che si frappongono allo svolgimento di attività private). In tal

modo, il privato interessato, invece di chiedere l’ autorizzazione,

attenderne il rilascio e avviare l’ attività, può comunicare all’

autorità competente l’ intenzione di intraprendere l’ attività

subordinata all’ atto di consenso; decorsi 30 gg. da tale

comunicazione, egli può avviare l’ attività, dandone notizia all’

autorità. Questa, entro 30 gg. dalla seconda comunicazione,

verifica l’ esistenza dei presupposti e dei requisiti che legittimano

l’ attività e, in caso di accertamento negativo, può vietare al

privato di proseguire l’ attività ovvero ordinare la rimozione dei

suoi effetti [in altri termini, al controllo preventivo

(autorizzazione), viene sostituito un controllo successivo ed

eventuale, che può sfociare in un divieto].

Con una recente legge (d.l. 78/10, conv. in L. 122/10) la D.I.A. è

stata sostituita dalla SCIA (Segnalazione certificata di inizio di

attività). In particolare, secondo la formulazione dell’ art. 19 L.

241/90 (così come modificato dalla L. 122/10), l’ interessato,

anziché attendere 30 gg. dalla dichiarazione per avviare l’ attività,

può farlo subito; purché la segnalazione sia corredata dalle

dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dall’ atto di notorietà

necessari, nonché dalle attestazioni e asseverazioni di tecnici

abilitati.

Nel caso in cui accerti la carenza dei requisiti e presupposti

richiesti per avviare l’ attività (imprenditoriale, commerciale,

artigianale, etc.), l’ amministrazione competente può vietare la

prosecuzione dell’ attività stessa entro 60 gg. [ovvero, a

prescindere da tale termine, può esercitare i suoi poteri di

autotutela (annullamento e revoca), qualora ne ricorrano i

presupposti].

Un altro schema di azione è costituito dagli ordini e dai divieti

disposti dall’ amministrazione; questi, a differenza di quelli posti

dalla legge (ad es., divieto di uccidere o di invadere la proprietà

altrui) sono legati a circostanze di fatto, il cui accertamento è

113

Page 114: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

devoluto all’ autorità amministrativa (gli ordini o i divieti

interferiscono sul comportamento dei destinatari, limitandone la

libertà di azione).

Un altro schema di azione è costituito, poi, dall’ abilitazione, la

quale produce lo stesso effetto dell’ autorizzazione: consentire,

cioè, al privato di fare ciò che, in assenza di una determinazione

positiva dell’ autorità, sarebbe vietato. Il presupposto dei due

istituti è, però, diverso, dal momento che l’ oggetto dell’

abilitazione non è (come accade per l’ autorizzazione) l’ esercizio

di una libertà o di un diritto, che astrattamente compete a tutti,

ma è lo svolgimento di un’ attività che richiede una qualificazione

tecnica che il privato acquista con lo studio e con l’ esperienza e

che viene verificata attraverso prove ed esami: in tal senso, l’

abilitazione è un atto di qualificazione giuridica (ad es., non basta

la laurea in legge, ma occorre superare l’ esame di abilitazione ad

avvocato per esercitare la relativa professione; ed una volta

conseguita l’ abilitazione è necessaria l’ iscrizione all’ albo

professionale).

Un altro schema di azione è dato dalla concessione, la quale

rappresenta un beneficio che l’ amministrazione attribuisce al

privato, il quale, ricevendolo, assume la posizione di privilegiato

(rispetto ad altri), perché il beneficio non può essere conferito a

tutti.

È bene precisare che la concessione si distingue dall’

autorizzazione, perché mentre la seconda rimuove un limite all’

esercizio di un diritto (preesistente), la prima conferisce un diritto

(nuovo).

Oggetto di concessione sono, tradizionalmente, i beni demaniali,

nel momento in cui una porzione di essi viene sottratta all’ uso

pubblico per essere destinata all’ uso esclusivo di un soggetto, sul

presupposto che quest’ uso valorizzi il bene (si pensi, ad es., alla

spiaggia, porzione del demanio marittimo, che viene valorizzata

dalla concessione al privato, che vi realizza uno stabilimento

114

Page 115: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

balneare).

L’ ambito della concessione è oggi stato esteso anche ai servizi e

alle attività, delle quali il legislatore limita la possibilità di

svolgimento ad un numero predeterminato di soggetti: abbiamo

così, concessioni di servizi pubblici, concessioni di costruzione e

gestione di opere pubbliche.

Rientrano, infine, tra le concessioni: le sovvenzioni, ossia i

contributi pecuniari previsti a favore dei privati e soprattutto di

imprese.

Un altro schema di azione è costituito dai vincoli. I beni privati

possono essere tolti al proprietario con l’ espropriazione o ne può

essere sottratto il possesso con l’ occupazione o la requisizione;

tali beni, però, possono anche essere lasciati nella disponibilità

del titolare ed essere sottoposti a vincoli. Tali vincoli possono

essere preordinati ad un futuro trasferimento del bene ai pubblici

poteri (si pensi, ad es., ai vincoli espropriativi stabiliti dal piano

regolatore comunale, in vista dell’ espropriazione per realizzare

impianti pubblici); i vincoli, però, possono essere stabiliti anche

per assicurare la conservazione dei caratteri del bene (tali sono,

ad es., i vincoli paesaggistici): in questo secondo caso, i vincoli

comportano l’ assoggettamento del bene ad un determinato

regime giuridico: ad es., la dichiarazione di interesse storico o

artistico comporta limitazioni sia al potere di godimento del bene

(divieto di modificare il bene senza autorizzazione), sia al potere

di disposizione dello stesso (divieto di esportazione senza

autorizzazione). Sotto questo profilo, anche i vincoli sono una

specie del genere atti di qualificazione giuridica.

Altro schema di azione è costituito dai certificati rilasciati dalle

amministrazioni: si tratta, in particolare, di documenti che hanno

una funzione di ricognizione e riproduzione di stati, qualità

personali e fatti contenuti in albi, elenchi o registri pubblici in

possesso dell’ amministrazione (si pensi, ad es., al certificato di

nascita, che riproduce il contenuto degli atti di stato civile). In

115

Page 116: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

passato, la certificazione è stata ritenuta una funzione propria dei

pubblici poteri; la L. 241/90 ha introdotto, invece, il principio dell’

autocertificazione, in virtù del quale, qualora l’ interessato dichiari

che fatti, qualità e stati sono attestati in documenti già in

possesso dell’ amministrazione, il responsabile del procedimento

provvede d’ ufficio alla loro acquisizione o alla copia degli stessi.

All’ autocertificazione, la legislazione ha, poi, affiancato la

certificazione privata: vi sono oggi, infatti, certificatori qualificati e

accreditati, ossia soggetti privati abilitati a svolgere attività di

certificazione, in grado di dimostrare l’ affidabilità organizzativa,

tecnica e finanziaria necessaria [si pensi, ad es., alle Società

organismi di attestazione (SOA), le quali sono chiamate a

certificare la qualità delle imprese che concorrono all’

aggiudicazione di appalti pubblici].

Ulteriore schema di azione è costituito dai piani e programmi. In

particolare, il piano prefigura azioni future, cercando di orientarle

o vincolarle secondo un criterio di razionalità [ad es., il piano

regolatore comunale disciplina gli usi del territorio, destinando

quest’ ultimo in parte alla conservazione (centro storico), in parte

alla trasformazione (zone produttive), in parte ad usi privati e in

parte ad impianti pubblici].

Un’ ultima categoria di atti è costituita dalle sanzioni

amministrative. Invero, l’ ordinamento, al fine di assicurare l’

osservanza dei suoi precetti fondamentali (volti, cioè, a garantire

la convivenza tra le persone) li munisce di sanzioni penali:

configura la violazione del precetto come reato, sanzionato da

una pena (inflitta dal giudice). Quando, però, il precetto è meno

essenziale (si pensi, ad es., alle regole del traffico), l’ ordinamento

configura la trasgressione come illecito amministrativo e, come

tale, punito con una sanzione amministrativa, applicata da un’

autorità amministrativa (ad es., il prefetto, il sindaco, etc.).

116

Page 117: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Sezione II

Il procedimento ed il provvedimento

§1. Premessa

I poteri pubblici si esplicano a mezzo di procedimenti; e ciò per

varie ragioni. Innanzitutto, è necessario sottolineare che nei

riguardi del potere amministrativo ricorrono particolari esigenze di

tutela del privato: esigenze presenti sia quando il potere

amministrativo è destinato a svolgersi mediante provvedimenti

restrittivi (espropriazioni, occupazioni, sanzioni, etc.), nei

confronti dei quali il privato ha interesse a limitare il danno o ad

escluderlo del tutto, sia quando il potere dovrebbe sfociare in

provvedimenti ampliativi (autorizzazione, concessione,

sovvenzione, etc.), nei confronti dei quali il privato ha interesse

ad ottenere il beneficio.

Ma vi è anche un’ altra ragione che consiglia di strutturare l’

azione amministrativa nella forma del procedimento: come

sappiamo, il provvedimento richiede quasi sempre una

comparazione di interessi (pubblici e privati) e, quindi,

presuppone che, ove i singoli interessi pubblici siano affidati alle

cure di uffici diversi, questi ultimi siano posti nella condizione di

far sentire la loro voce prima che la decisione venga presa.

Detto ciò, occorre adesso identificare la forma che deve assumere

il procedimento. Al riguardo, è la nostra Costituzione a proporci

un’ interessante lettura: si ritiene, infatti, che l’ art. 97 Cost.,

qualificando l’ amministrazione come apparato imparziale,

suggerisca un’ assonanza tra i criteri che ispirano l’ azione

amministrativa e i criteri che presiedono all’ amministrazione

della giustizia; in altri termini, si vuol dire che se il giudice, terzo

ed imparziale, esercita il suo potere attraverso il giusto processo

(art. 111 Cost.), anche l’ amministrazione, per essere imparziale,

deve agire nella forma del procedimento, ossia attraverso una

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Page 118: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

sequenza di atti che evoca, in qualche modo, la sequenza degli

atti del processo.

§2. La legge sul procedimento amministrativo (L. 241/90)

Sino al 1990 non c’è stata in Italia una legge generale sul

procedimento amministrativo (c’erano soltanto leggi su singoli

procedimenti, quali, ad es., il procedimento di espropriazione per

pubblica utilità del 1865; il procedimento di pianificazione

urbanistica del 1942; il procedimento per l’ individuazione delle

cd. bellezze d’ insieme del 1939, etc.).

Da tali leggi di settore la dottrina e la giurisprudenza

(costituzionale e amministrativa) hanno ricavato dei princìpi

comuni, quali, ad es.: l’ obbligo di contestazione degli addebiti nei

procedimenti disciplinari e sanzionatori; l’ obbligo di motivazione

dei provvedimenti restrittivi della sfera giuridica del destinatario;

il principio della necessaria precedenza del parere rispetto al

provvedimento di amministrazione attiva, etc.).

Con la L. 241/90 sono state, poi, fatte due operazioni: da un lato,

sono stati generalizzati alcuni princìpi elaborati dalla

giurisprudenza; dall’ altro, il legislatore si è fatto carico di alcuni

problemi insorti con la stessa evoluzione del diritto

amministrativo. È necessario sottolineare, infatti, che la

legislazione amministrativa, a partire dall’ inizio del XX secolo, è

stata caratterizzata da una crescita costante del numero degli

interessi pubblici (dovuta al riconoscimento normativo di interessi

collettivi); e a tale crescita ha corrisposto l’ istituzione di un

centro di interessi amministrativi. Il coordinamento tra questi

interessi pubblici con gli interessi collettivi e privati sono stati

affidati al procedimento, il quale, in tal modo, è diventato il luogo

nel quale tutti questi interessi fanno oggi sentire la loro voce.

§3. Il responsabile del procedimento

118

Page 119: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Allo scopo di cucire le varie fasi del procedimento, la L. 241/90 ha

istituito la figura del responsabile del procedimento (che viene

individuato dal dirigente dell’ unità organizzativa cui il

procedimento fa capo; e, fino a quando non compie tale

operazione, è lui il responsabile).

Il primo atto che il responsabile deve porre in essere è

comunicare agli interessati l’ avvio del procedimento; tale atto

deve essere accompagnato dall’ indicazione del proprio

nominativo, in modo che l’ interessato conosca l’ identità della

persona alla quale rivolgersi per ricevere informazioni o per

sollecitare la conclusione del procedimento.

Il responsabile del procedimento dirige la fase istruttoria,

ponendo in essere gli atti di sua competenza o sollecitando l’

adozione degli accertamenti o delle ispezioni degli organi tecnici;

indìce le conferenze di servizi o ne propone l’ indizione; adotta,

ove abbia competenza, il provvedimento finale ovvero trasmette

gli atti all’ organo competente perché questi provveda; cura le

comunicazioni, le pubblicazioni e le notificazioni previste dalla

legge; è responsabile dell’ osservanza del termine stabilito per la

conclusione del procedimento (non può, però, rispondere delle

omissioni altrui: ad es., della mancata adozione del

provvedimento da parte dell’ organo competente).

§4. Le fasi del procedimento

a) l’ iniziativa

La prima fase del procedimento amministrativo è la fase di

iniziativa: questa può essere di parte, come nel processo (nel

processo civile, ad es., è l’ attore che la esercita; nel processo

penale è il pubblico ministero; nel processo amministrativo il

ricorrente; nel procedimento amministrativo è colui che fa una

richiesta di autorizzazione o di sovvenzione, etc.).

L’ iniziativa, però, può anche essere d’ ufficio, ossia può partire

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Page 120: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

dalla stessa amministrazione che dovrà provvedere (si pensi, ad

es., alle pianificazioni urbanistiche e ambientali, ai procedimenti

sanzionatori, ai procedimenti espropriativi, etc.).

Un atto fondamentale della fase di iniziativa è costituito dalla

comunicazione di avvio del procedimento; questa va fatta: ai

futuri destinatari del provvedimento finale, a coloro che, per

legge, devono intervenire nel procedimento e a coloro i quali

potrebbero ricevere un pregiudizio dall’ adozione del

provvedimento.

La comunicazione (dalla quale si può prescindere nei casi di

urgenza: ad es., nel caso in cui il responsabile dell’ ufficio tecnico

comunale ordini l’ abbattimento di una costruzione pericolante)

deve indicare: l’ amministrazione competente, l’ oggetto del

procedimento, l’ ufficio responsabile, la persona del responsabile

e la data prestabilita per la conclusione del procedimento.

b) l’ istruttoria

La decisione (cioè, il provvedimento amministrativo) deve essere

preceduta da una fase istruttoria, nella quale vanno accertati i

presupposti di fatto che, insieme alle concorrenti ragioni

giuridiche, giustificano la decisione: ad es., l’ ordine emesso dal

comune di demolire opere edilizie realizzate in parziale difformità

del permesso di costruire richiede un confronto tra la situazione di

fatto, posta in essere dal costruttore, ed il progetto che è stato

rilasciato (una verifica del genere potrebbe approdare alla

conclusione che nessuna difformità esiste o, all’ opposto, che la

difformità è totale, sicché l’ intero manufatto va rimosso, e non

soltanto parte di esso).

L’ istruttoria amministrativa, a differenza dell’ istruttoria del

processo civile o del processo penale, è retta dal principio

inquisitorio: ciò significa che non è sulle parti private che grava l’

onere della prova, ma è l’ amministrazione che deve verificare, d’

ufficio, l’ esistenza dei presupposti del provvedimento (anche se,

120

Page 121: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

a tal fine, può giovarsi dell’ apporto degli interessati).

Il protagonista dell’ istruttoria è il responsabile del procedimento:

è lui, infatti, che valuta le condizioni di ammissibilità della

domanda, i requisiti di legittimazione e i presupposti rilevanti per

l’ emanazione del provvedimento; è lui che deve accertare, d’

ufficio, i fatti, adottando le misure necessarie (collaborando con

gli interessati, ai quali, ad es., può chiedere il rilascio di

dichiarazioni), disponendo accertamenti tecnici e ispezioni ed

ordinando l’ esibizione di documenti.

c) i pareri e le valutazioni tecniche

Tra gli atti tipici della fase istruttoria ci sono i pareri e le

valutazioni tecniche. Nella maggior parte dei casi, infatti, la legge

ritiene opportuno che la decisione amministrativa sia preceduta

da un parere di un organo tecnico, volto ad orientare l’ autorità

chiamata a provvedere (ad es., la domanda di permesso di

costruire è sottoposta al parare giuridico-tecnico della

commissione edilizia comunale).

Quando il contenuto è esclusivamente tecnico (ad es., sanitario,

chimico, etc.) si parla, invece, di valutazioni tecniche, le quali

hanno la stessa funzione dei pareri, ma in questo caso la capacità

di giudicare da parte dell’ organo di amministrazione attiva è

nulla.

Il parere e la valutazione tecnica devono essere resi,

rispettivamente, entro 45 e 90 gg. dal ricevimento della richiesta

(i termini possono essere interrotti una sola volta, attraverso una

richiesta istruttoria); scaduto il termine, senza che il parere sia

stato comunicato (45 gg.), l’ organo di amministrazione attiva può

procedere, prescindendo dal parere stesso: viene meno, cioè, l’

obbligo di attendere il parere ai fini della decisione.

121

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Se, invece, è scaduto infruttuosamente il termine assegnato all’

ufficio chiamato ad esprimere la valutazione tecnica (90 gg.), l’

autorità procedente dovrà rivolgersi ad un altro organo (o ufficio),

allo scopo di acquisire tale valutazione.

d) la distribuzione degli incombenti istruttori

Il responsabile del procedimento (che in questa fase rappresenta

l’ amministrazione) accerta, d’ ufficio, i fatti, disponendo il

compimento degli atti all’ uopo necessari; ma a questo

accertamento può concorrere anche il privato, rendendo, ad es.,

le dichiarazioni che il responsabile del procedimento gli chiede di

rilasciare o presentando memorie scritte e documenti (ciò accade

nei procedimenti ad iniziativa di parte: così, ad es., la domanda di

permesso di costruire deve essere corredata da un progetto, da

un certificato di destinazione urbanistica e dai documenti

comprovanti la proprietà).

È necessario sottolineare, però, che la normativa sul

procedimento amministrativo ha trasferito sull’ amministrazione

una parte degli oneri di documentazione che prima gravavano sul

privato (si tratta, in particolare, di documenti che attestano atti,

fatti, qualità e stati soggettivi, quali, ad es., la residenza, la

condizione di invalido civile, la qualifica di coltivatore diretto, che

possono essere acquisiti d’ ufficio, se necessari a fini istruttori, e

se sono già in possesso dell’ amministrazione).

I fatti rilevanti nel procedimento amministrativo corrispondono ai

fatti rilevanti nel processo civile, ex art. 2697 c.c.: chi vuol far

valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne

costituiscono il fondamento.

A differenza del processo civile, però, nel procedimento

amministrativo non vige una regola così rigorosa circa l’ onere

della prova, perché, come detto, è l’ amministrazione che, di

regola, deve accertare, d’ ufficio, i fatti.

Inoltre, mentre nel processo (civile, penale e amministrativo) i

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Page 123: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

mezzi istruttori sono soltanto quelli previsti dalle leggi processuali

(cd. principio di tipicità), nel procedimento amministrativo il

responsabile può adottare ogni misura per l’ adeguato

svolgimento dell’ istruttoria.

A questo punto, dobbiamo chiederci fino a che punto può

spingersi l’ istruttoria; per rispondere a tale quesito può essere

utilizzato il metodo suggerito dal Herbert Simon, in virtù del quale

si afferma che l’ autorità amministrativa deve cercare di

raggiungere un equilibrio tra la quantità di informazioni (cd.

completezza dell’ istruttoria) e le esigenze di una decisione

(esigenze consacrate a livello costituzionale nel principio del buon

andamento dell’ amministrazione): espressione di questo canone

è la regola enunciata nell’ art. 1, co. 2 L. 241/90, ai sensi del

quale la pubblica amministrazione non può aggravare il

procedimento (ad es., ripetendo indagini già fatte o acquisendo

pareri non obbligatori), se non per motivate esigenze.

e) la conferenza di servizi

Il procedimento amministrativo può coinvolgere non solo un

interesse privato e un interesse pubblico, ma anche una pluralità

di interessi pubblici (si pensi, ad es., al procedimento di

pianificazione urbanistica, che tocca tutti gli interessi pubblici che

gravitano sul territorio: ambientali, produttivi, culturali, etc.). In

questi casi, l’ amministrazione competente a decidere è tenuta ad

acquisire intese, concerti, nulla osta o altri atti di assenso di altre

amministrazioni pubbliche (in altri termini, essa non può decidere

autonomamente).

Proprio a tale scopo, la legge sul procedimento ha introdotto uno

strumento di semplificazione: la conferenza di servizi (L. 241/90;

d.l. 78/2010, conv. in L. 122/2010). La legge, in particolare,

123

Page 124: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

distingue i casi in cui la conferenza è facoltativa (può essere

indetta) da quelli nei quali è, invece, obbligatoria (deve essere

indetta); individua, inoltre, chi è competente a convocarla (di

solito l’ amministrazione procedente e, per essa, il responsabile

del procedimento); e attribuisce al privato interessato la facoltà di

chiederne la convocazione.

Le regole comuni possono essere così sintetizzate:

• una volta indetta la conferenza, la prima riunione deve essere

tenuta nei 15 gg. successivi (o nei 30 gg. successivi, qualora il

procedimento sia particolarmente complesso);

• i lavori della conferenza non possono durare più di 90 gg.

(prorogabili fino a 90 gg., nel caso in cui venga richiesta la

valutazione di impatto ambientale);

• alla conferenza sono convocati coloro che propongono il

progetto dedotto in conferenza;

• conclusa la conferenza (o scaduto il termine), l’ amministrazione

procedente adotta la determinazione motivata di conclusione del

procedimento;

• il provvedimento finale (che deve conformarsi alla

determinazione di cui sopra) sostituisce, a tutti gli effetti, le

autorizzazioni, le concessioni, i nulla osta o gli altri atti di assenso

di competenza delle amministrazioni coinvolte nella conferenza;

• anche se i lavori della conferenza sono retti dal principio

maggioritario, i partecipanti non possono limitarsi ad esprimere

un voto (un sì o un no); infatti, il dissenso (ma anche il consenso)

di una o più amministrazioni coinvolte, deve essere motivato e

manifestato nella conferenza di servizi (non al di fuori di essa) e

deve recare anche le specifiche indicazioni delle modifiche

progettuali che l’ organo partecipante alla conferenza ritiene

necessarie affinché possa rilasciare il suo assenso;

• una deroga al principio maggioritario è prevista, però, qualora il

motivato dissenso provenga da un’ amministrazione preposta alla

tutela ambientale, paesaggistico-territoriale ovvero alla tutela del

124

Page 125: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

patrimonio storico-artistico, della salute e della pubblica

incolumità; in questi casi, in ragione della rilevanza degli interessi

in gioco, la competenza viene trasferita all’ organo politico: e,

cioè, al Consiglio dei ministri, se il dissenso è tra amministrazioni

dello Stato; alla conferenza Stato-regioni, se il dissenso è tra Stato

e regione; alla conferenza unificata, se il dissenso è tra regione ed

ente locale (l’ organo incaricato di risolvere il conflitto è chiamato

a decidere entro 30 gg., prorogabili fino a 60 gg. quando l’

istruttoria è particolarmente complessa).

f) la partecipazione del privato

Il procedimento è il luogo nel quale il privato fa sentire la sua

voce non solo a tutela del suo interesse ad impedire una misura

amministrativa a lui sfavorevole ovvero del suo interesse a

conseguire un provvedimento favorevole, ma anche in funzione di

una decisione amministrativa giusta (che tenga conto, cioè, dell’

interesse del privato).

La prima esigenza che deve essere soddisfatta è quella di

informare il privato interessato del fatto che è stato avviato un

procedimento che lo riguarda [e ciò avviene mediante la

comunicazione dell’ avvio del procedimento (questa esigenza

risulta particolarmente avvertita nei procedimenti ad iniziativa d’

ufficio: si pensi, ad es., ad un provvedimento espropriativo o

sanzionatorio)]. Ma, in realtà, anche nei procedimenti ad iniziativa

di parte (ad es., richiesta di autorizzazione, concessione, etc.) può

prospettarsi la necessità di una informazione nei riguardi di coloro

che potrebbero ricevere un danno (diversi dal privato

interessato). Grazie alla comunicazione dell’ avvio del

procedimento l’ interessato può intervenire nel procedimento,

prendere visione degli atti e presentare memorie e documenti; è

necessario sottolineare, però, che possono intervenire nel

procedimento anche: l’ interessato che non abbia avuto

comunicazione dell’ avvio del procedimento (ma ne abbia

125

Page 126: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

appurato l’ esistenza aliunde), i soggetti che dal provvedimento

potrebbero ricevere un danno ed infine i portatori di interessi

diffusi, costituiti in associazioni (ad es., le associazioni

ambientalistiche).

Le memorie e i documenti depositati obbligano l’ amministrazione

a valutarli e a prendere posizione su di essi; fatto ciò, qualora

essa ritenga di rigettare le argomentazioni e le richieste

contenute nelle memorie e di non tener conto dei documenti

presentati, deve enunciare le ragioni del suo convincimento.

Prima che venga adottato un provvedimento che rigetta un’

istanza di parte, il responsabile del procedimento comunica all’

interessato i motivi che ostano all’ accoglimento dell’ istanza; in

questo caso, l’ interessato, nei 10 gg. successivi, può presentare

per iscritto le sue osservazioni e depositare eventuali documenti.

Se non accoglie le osservazioni dell’ interessato l’

amministrazione ne deve dar ragione nella motivazione del

provvedimento finale.

g) l’ accesso ai documenti

Perché possa far valere le sue ragioni nel procedimento

amministrativo, il privato non solo deve essere informato della

pendenza del procedimento e del suo oggetto, ma deve anche

conoscere i documenti sulla base dei quali l’ amministrazione

agisce. Questa conoscenza, in passato, era resa difficile a causa

della sussistenza del segreto d’ ufficio, al quale era tenuto il

pubblico impiegato, in virtù dell’ art. 15 D.P.R. 3/57 (statuto degli

impiegati civili dello Stato); il principio di segretezza, però, è stato

sostituito oggi dal principio di trasparenza, enunciato dall’ art. 1 L.

241/90.

In questa prospettiva, legittimati all’ accesso sono i privati, inclusi

i portatori di interessi pubblici o diffusi (ad es., le organizzazioni

sindacali) che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale,

corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e

126

Page 127: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

collegata al documento.

Oggetto dell’ accesso sono i documenti amministrativi (anche

interni e non relativi ad uno specifico provvedimento),

indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della

disciplina sostanziale: in altri termini, chi ha un interesse può

accedere anche ad una lettera di intenti, ad una proposta

contrattuale fatta dalla P.A. o ad un contratto di lavoro.

Tra i documenti ai quali si può accedere vi sono, poi, anche quelli

che non riguardano uno specifico procedimento: l’ interessato,

infatti, potrebbe avere interesse ad acquisire copia di un

provvedimento, in relazione ad un processo civile, penale o

amministrativo (ad es., la certificazione di una missione in un

certo luogo, compiuta da un impiegato, da utilizzare come alibi in

un processo penale a suo carico).

Il diritto di accesso può essere esercitato mediante il semplice

esame del documento ovvero con l’ estrazione di copia (copia può

anche essere la riproduzione di un filmato o di una registrazione

fonografica).

È necessario sottolineare, però, che il diritto di accesso è escluso

in determinati casi stabiliti dalla legge (art. 24, co. 1 L. 241/90): si

tratta, in particolare, dei documenti coperti dal segreto di Stato e

di quelli che contengono informazioni di carattere psico-

attitudinale relative ai terzi.

È poi prevista la facoltà del Governo di sottrarre all’ accesso,

mediante regolamento, alcune specie di documenti (art. 24, co. 6

L. 241/90): si tratta di documenti, la cui divulgazione possa

produrre una lesione alla sicurezza e alla difesa nazionale ovvero

possa pregiudicare la formazione e l’ attuazione della politica

monetaria e valutaria ovvero, ancora, nuocere alle ragioni di

ordine pubblico, ostacolare la lotta alla criminalità o pregiudicare

l’ attività di polizia giudiziaria.

Il diritto di accesso può anche confliggere con la tutela e la

riservatezza altrui: sono, pertanto, esclusi dall’ accesso i

127

Page 128: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

documenti che riguardano la vita privata o la riservatezza di

persone (fisiche e giuridiche), gruppi, imprese e associazioni; ciò

significa, quindi, che il diritto alla riservatezza del terzo prevale

sul diritto di accesso (quando, però, l’ accesso ai documenti è

necessario al privato per curare o per difendere i propri interessi

giuridici, è il diritto di accesso che deve essere tutelato ed avere

preminenza).

L’ amministrazione può, in ogni caso, rifiutare l’ accesso ai

documenti quando l’ istante non è legittimato o la sua domanda

non è motivata ovvero ancora quando il documento rientra tra

quelli esclusi dall’ accesso; contro il rifiuto dell’ amministrazione,

tuttavia, l’ interessato può proporre ricorso al Tribunale

amministrativo regionale (Tar) entro 30 gg. (se accoglie il ricorso,

che deve essere deciso in camera di consiglio entro 30 gg. dalla

scadenza del termine per il deposito della richiesta, il Tar ordina

all’ amministrazione l’ esibizione dei documenti richiesti).

Per quel che riguarda, infine, la natura che il diritto di accesso

assume, parte della giurisprudenza nega che si tratti di un diritto

soggettivo, qualificando l’ istituto come interesse legittimo; altra

parte della giurisprudenza, invece, ritiene che ci si trovi in

presenza di un vero e proprio diritto soggettivo (e ciò troverebbe

conferma nel dato letterale, ex art. 22 L. 241/90, che qualifica,

infatti, l’ accesso come diritto).

§5. La conclusione del procedimento

a) il termine

In virtù del principio costituzionale del buon andamento dell’

amministrazione, una volta esaurita l’ istruttoria, l’

amministrazione ha l’ obbligo di provvedere con un

provvedimento espresso, entro un termine prestabilito.

Analizziamo le implicazioni di questo enunciato.

Innanzitutto, va detto che l’ obbligo di provvedere sussiste ogni

128

Page 129: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

qual volta l’ amministrazione ha l’ obbligo di procedere; non

sempre, però, l’ obbligo di procedere (e, quindi, di provvedere)

sussiste: sussiste, ad es., quando è il privato a chiedere il rilascio

di un provvedimento tipico (un’ autorizzazione, una concessione,

una dispensa, etc.); non sussiste, invece, quando il privato

chiede, ad es., l’ annullamento di un provvedimento.

Il procedimento, come detto, deve concludersi entro un termine

prestabilito (e in ciò il procedimento amministrativo si distingue

dal processo, nel quale manca, invece, un termine prestabilito per

la sua conclusione).

In particolare, per ciascun procedimento gestito dalle

amministrazioni statali il termine è stabilito da un regolamento

governativo; per quel che riguarda, invece, gli enti pubblici

nazionali, ciascuno di essi adotta regolamenti o atti amministrativi

generali, in conformità ai rispettivi ordinamenti; per quanto

riguarda, infine, le regioni e gli enti locali, questi regolano la

materia (anche quella dei termini) nel rispetto delle garanzie del

cittadino nei riguardi dell’ azione amministrativa.

Qualora, però, l’ amministrazione procedente abbia omesso di

provvedere a fissare il termine, il procedimento deve concludersi

entro 90 gg. dal suo avvio.

Il procedimento deve essere concluso con un provvedimento

espresso: ciò significa, da un lato, che l’ amministrazione non può

trincerarsi dietro il silenzio e, dall’ altro lato, che il provvedimento

amministrativo (dal momento che deve essere motivato) deve

avere una forma scritta.

b) il decorso infruttuoso del termine

Anche se è obbligata a provvedere, non sempre l’

amministrazione porta a termine il procedimento nel modo

prescritto: spesso, infatti, il termine scade senza che nessun

provvedimento venga adottato. Allo scopo di evitare ciò, la

giurisprudenza e la legislazione hanno introdotto determinate

129

Page 130: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

misure volte a contrastare l’ inerzia dell’ amministrazione; tali

misure possono essere così classificate:

• quando l’ atto omesso è fortemente restrittivo della sfera

giuridica del privato (ad es., un’ espropriazione o una sanzione

disciplinare), la legge fa discendere, dal decorso infruttuoso del

termine per la conclusione del procedimento, l’ esaurimento del

potere dell’ amministrazione di provvedere (ad es., il decreto di

esproprio emesso dopo la scadenza del termine stabilito nella

dichiarazione di pubblica utilità è nullo);

• nei procedimenti ad istanza di parte il silenzio dell’

amministrazione (protratto oltre il termine stabilito per la

conclusione del procedimento) equivale, invece, ad accoglimento

della domanda; tale regola, però, conosce molte eccezioni: il

silenzio-assenso, ad es., non si applica agli atti e ai procedimenti

riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l’ ambiente, la

difesa nazionale, la pubblica sicurezza e la salute pubblica.

È bene precisare, comunque, che anche se è decorso il termine

(e, quindi, si è formato il silenzio-assenso) l’ amministrazione

competente, in funzione di autotutela, può annullare o revocare l’

atto di assenso tacito, negando, con ritardo, quel provvedimento

che il privato aveva ottenuto;

• nei procedimenti ad istanza del privato, in cui l’

amministrazione rimane inerte oltre il termine per la conclusione

del procedimento e in cui non trova applicazione l’ istituto del

silenzio-assenso, opera il principio civilistico, in base al quale chi

tace non dice né si né no: in tal caso, il silenzio dell’

amministrazione viene equiparato ad un provvedimento di rifiuto

(o di diniego), avverso il quale l’ interessato, entro 1 anno, può

proporre impugnazione dinanzi al giudice amministrativo.

§6. Il provvedimento amministrativo

a) la nozione

130

Page 131: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Il procedimento confluisce verso un atto conclusivo che la L.

241/90 qualifica come provvedimento amministrativo (o

provvedimento finale); è bene precisare, però, che la nozione di

provvedimento amministrativo non va confusa con quella di atto

amministrativo: mentre, infatti, gli atti amministrativi sono quelli

che precedono o seguono il provvedimento (in funzione

preparatoria o servente), il provvedimento coincide, invece, con la

decisione (cioè, con la scelta dell’ amministrazione competente).

In passato, il provvedimento amministrativo è stato definito come

la dichiarazione di volontà, di conoscenza, di giudizio o di

desiderio espressa da un’ autorità amministrativa; questa

nozione, però, da un lato, risultava troppo ampia (perché finiva

per ricomprendere anche atti amministrativi che non erano

provvedimenti) e, dall’ altro, enfatizzava un profilo (quello

psicologico) che veniva in scarso rilievo sia ai fini del regime

giuridico, sia ai fini della validità-invalidità del provvedimento.

L’ aspetto importante da prendere in considerazione, invece, è

che quel provvedimento proviene da un’ autorità amministrativa,

anzi costituisce esercizio di una potestà amministrativa: in tal

senso, appare appropriata la definizione proposta dal Giannini,

secondo il quale il provvedimento amministrativo è l’ atto con cui

l’ autorità amministrativa dispone in un caso concreto, in ordine

all’ interesse pubblico che è affidato alla sua tutela, esercitando

una potestà amministrativa e incidendo su situazioni giuridiche di

privati.

b) gli elementi del provvedimento

Analizziamo i singoli elementi della definizione:

• il provvedimento amministrativo proviene da un’ autorità

amministrativa; ciò significa che il provvedimento viene

qualificato, innanzitutto, dal soggetto [sicché un atto di identico

contenuto, ma adottato da un privato o da un soggetto pubblico

che non fa parte dell’ amministrazione (ad es., una commissione

131

Page 132: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

parlamentare) non è un provvedimento amministrativo (in questa

prospettiva, provvedimento amministrativo è, ad es., l’ ordinanza

con la quale il sindaco vieta la circolazione delle auto in una

strada comunale durante certe ore della giornata; non lo è,

invece, la disposizione con la quale il proprietario di una riserva di

caccia limita la circolazione degli autoveicoli)];

• perché un atto sia qualificato come provvedimento

amministrativo non basta che esso provenga da un’ autorità

amministrativa, ma occorre anche che sia emanato nell’ esercizio

di una potestà amministrativa [nell’ ambito, cioè, del diritto

pubblico: in quest’ ottica, non sono, ad es., provvedimenti

amministrativi i contratti delle P.A., ovvero gli atti precontrattuali

(offerta, accettazione, controproposta) ovvero ancora gli atti di

esecuzione di un contratto; è, invece, un provvedimento

amministrativo la deliberazione a contrattare, ossia l’ atto con il

quale l’ ente pubblico individua il fine del contratto, ne fissa il

contenuto fondamentale (oggetto, forma e clausole essenziali) e

stabilisce le modalità di scelta del contraente];

• il provvedimento si concreta in un disporre (o provvedere) in un

caso concreto in ordine ad un interesse pubblico.

Più precisamente, l’ autorità amministrativa può provvedere con

una disposizione (ad es., quando ordina la demolizione di una

costruzione abusiva), con una decisione (ad es., quando assegna

ad una delle ditte richiedenti, escludendo le altre, una

concessione di autolinea), con una dichiarazione (ad es., quando

dichiara un immobile di interesse paesaggistico) ovvero con un

giudizio (si pensi, ad es., alla commissione di laurea che assegna

il voto);

• il provvedere dell’ atto amministrativo si contrappone al

prevedere che è proprio della legge: la legge, ad es., prevede che,

per costruire un edificio, il proprietario dell’ area deve essere

autorizzato dal sindaco; il sindaco del comune x, in presenza di

una domanda del proprietario y, provvede ad autorizzarlo (o a

132

Page 133: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

negargli l’ autorizzazione). Questa contrapposizione mette in luce

un aspetto fondamentale del provvedimento amministrativo, vale

a dire: il suo legame con un interesse pubblico, che la legge

individua in astratto, ma che l’ autorità amministrativa tutela in

concreto (nell’ esempio precedente va notato, infatti, che il

sindaco non stabilisce una regola, ma la applica nel caso

specifico);

• un altro aspetto della definizione di provvedimento

amministrativo riguarda, poi, la sua efficacia verso l’ esterno:

questo tratto vale a distinguere i provvedimenti amministrativi

dagli atti amministrativi che non sono provvedimenti (ad es., la

proposta del sindaco di localizzare un edificio scolastico in una

certa area spiega effetti nei confronti del proprietario solo quando

la stessa viene fatta propria dalla giunta o dal consiglio comunale,

mediante una delibera che ha natura di provvedimento); quindi,

dal provvedimento si distinguono (perché privi di efficacia

esterna) gli atti interni e quelli endoprocedimentali, che esplicano

i loro effetti all’ interno del procedimento;

• un’ ulteriore caratteristica del provvedimento amministrativo è,

infine, la discrezionalità; in particolare, il problema della

discrezionalità amministrativa (ossia della scelta che l’

amministrazione è chiamata ad effettuare) va inquadrato nel

rapporto che sussiste tra provvedimento e decisione: ai sensi,

infatti, dell’ art. 3 L. 241/90 la decisione è legata alle risultanze

dell’ istruttoria e costituisce, di solito, il prodotto dell’ esame

contestuale di vari interessi pubblici. Si tratta, pertanto, di una

scelta che non è del tutto libera: in primo luogo, perché essa è

compiuta dall’ autorità a tutela di un interesse che non è proprio;

in secondo luogo, perché è legata alle risultanze dell’ istruttoria

[infatti, l’autorità amministrativa provvede sulla base di fatti che

vanno accertati d’ ufficio, cioè sulla base di un’ istruttoria, le cui

risultanze confluiscono nella motivazione del provvedimento (se,

ad es., dall’ istruttoria emerge che la costruzione è stata

133

Page 134: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

realizzata in totale difformità della concessione edilizia, il

dirigente comunale non può fare a meno di ordinare la

demolizione); in terzo luogo, la scelta non è libera perché essa è

spesso espressione di una valutazione comparativa di interessi

(pubblici e privati): si pensi, ad es., ad un piano regolatore

urbanistico, il quale andrà ad incidere non solo sull’ interesse dei

proprietari delle aree ricomprese nel territorio comunale, ma

anche sugli interessi di privati che non sono proprietari, nonché

sugli interessi pubblici.

c) la motivazione

L’ art. 3 L. 241/90 stabilisce che ogni provvedimento

amministrativo deve essere motivato; con la motivazione, in

particolare, l’ autorità amministrativa (ad es., il sindaco), in

relazione alle risultanze dell’ istruttoria, deve indicare i

presupposti di fatto (ad es., che l’ edificio di proprietà di Tizio è

pericolante) e le ragioni giuridiche che giustificano la decisione

(nel nostro esempio, la norma che attribuisce al sindaco il potere

di ordinare a Tizio di effettuare lavori di consolidamento).

Dalla formulazione dell’ art. 3 su citato si evince che la

motivazione è obbligatoria; ma, a questo punto ci si chiede il

perché. Per rispondere a tale quesito, è necessario precisare,

innanzitutto, che il provvedimento amministrativo, al pari della

legge del Parlamento o della sentenza del giudice, è un’

espressione del pubblico potere (e, in quanto tale, idoneo ad

incidere unilateralmente nella sfera giuridica del cittadino).

Tuttavia, mentre non v’è motivo di motivare la legge, perché essa

è espressione della volontà popolare (è votata, cioè, da un

collegio, i cui componenti sono eletti dal popolo), i giudici e la P.A.

non sono eletti dal popolo; è bene precisare, però, che solo per i

provvedimenti giurisdizionali è stato costituzionalizzato, in modo

puntuale, l’ obbligo di motivazione (art. 111, co. 6), mentre per

quelli amministrativi, almeno fino al 1990, un simile obbligo

134

Page 135: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

generalizzato non era previsto neppure nella legge ordinaria.

Secondo una teoria formulata negli ultimi anni, però, l’ obbligo di

motivare i provvedimenti amministrativi troverebbe, in realtà, il

proprio fondamento nel principio democratico, dal momento che

quest’ ultimo implica sia trasparenza nelle decisioni dell’ autorità

amministrativa, che esplicitazione delle ragioni (in funzione del

controllo popolare); ne consegue, pertanto, che ogni

provvedimento amministrativo deve essere motivato, allo scopo

di consentire al cittadino di avere le informazioni necessarie per

esercitare quel controllo.

Più risalente nel tempo è, invece, la teoria che riconduce l’

obbligo di motivazione ai princìpi costituzionali di imparzialità dell’

attività amministrativa (art. 97) e di giustiziabilità degli atti

amministrativi, contro i quali è sempre ammessa la tutela

giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (art. 113); in

altri termini, secondo tale teoria si ritiene che se l’

amministrazione deve agire in modo imparziale, il privato ha il

diritto di conoscere le ragioni per le quali la decisione viene presa.

In linea con questa impostazione, l’ atto privo di motivazione è

illegittimo, proprio perché impedisce al cittadino di conoscere le

ragioni poste a fondamento del provvedimento.

d) le suggestioni della dottrina del contratto e la questione del

silenzio

Parte della dottrina, nella costruzione dogmatica del

provvedimento amministrativo, si è ispirata alla teoria del negozio

giuridico e del contratto: da qui, il frequente richiamo alle

categorie civilistiche della volontà, della forma e della causa.

Analizziamo tali elementi.

La volontà non può mancare nel provvedimento amministrativo,

perché esso deve essere necessariamente voluto (anche qualora

il suo contenuto si risolva in un giudizio); rispetto al contratto,

però, diversa è la rilevanza della volontà: mentre, infatti, l’

135

Page 136: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

assenza o il vizio della volontà rende nullo o annullabile il

contratto, l’ invalidità del provvedimento non è mai diretta

conseguenza di un vizio della volontà (ad es., l’ ordine di

demolizione di un immobile che il dirigente comunale ritiene

abusivo, mentre è stato autorizzato con regolare permesso di

costruire, è annullabile non perché l’ atto è affetto da un errore-

vizio, ma perché difetta il presupposto richiesto dalla legge, vale a

dire il carattere abusivo della costruzione).

Più complesso, invece, è il discorso relativo alla forma: in passato

si era soliti ripetere che, in assenza di specifiche prescrizioni, la

forma del provvedimento era libera; oggi, invece, l’ art. 3 L.

241/90, prescrivendo la motivazione per ciascun provvedimento

amministrativo, presuppone la necessità della forma scritta,

perché questa è la sola che consente all’ amministrazione di

indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno

determinato la decisione, in relazione alle risultanze dell’

istruttoria.

Identica soluzione è indicata dall’ art. 2, co. 1, L. 241/90, in virtù

del quale, una volta avviato il procedimento, l’ amministrazione

ha il dovere di concluderlo mediante l’ adozione di un

provvedimento espresso (cioè, scritto).

In passato, però, si è a lungo discusso se il provvedimento

amministrativo potesse assumere forma tacita (se potesse

esserci, cioè, un provvedimento tacito); se, tuttavia, la questione

poteva apparire giustificabile in passato, oggi, invece, il quadro

normativo contiene una risposta ben precisa (si legga l’ art. 2 su

citato, che parla di provvedimento espresso e, quindi, scritto).

È bene precisare, però, che l’ art. 20 L. 241/90 (nell’ ottica della

semplificazione amministrativa) stabilisce che, nei procedimenti

ad istanza di parte, il silenzio dell’ amministrazione, protratto

oltre il termine per la conclusione del procedimento, equivale ad

accoglimento della domanda (si parla in questi casi di cd. silenzio-

assenso); in altri termini, ciò significa che una volta scaduto il

136

Page 137: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

termine per la conclusione del procedimento, senza che l’

amministrazione abbia provveduto sulla domanda del privato,

questi potrà avviare l’ attività, il cui svolgimento è subordinato al

rilascio di un determinato provvedimento amministrativo (il

privato, cioè, potrà avviare quell’ attività come se, una volta

scaduto il termine, la stessa fosse libera); da quanto abbiamo

detto si intuisce, pertanto, che la legge non autorizza affatto una

sorta di provvedimento silenzioso; solo che, per ragioni di tutela

del privato, l’ inerzia viene equiparata ad un atto di assenso.

È bene precisare, comunque, che l’ amministrazione conserva

sempre il potere di adottare i provvedimenti di annullamento e di

revoca (può, cioè, annullare o revocare il silenzio-assenso che si

era formato in precedenza); ma ciò soltanto nei casi in cui

ricorrano i presupposti indicati dalla legge, quali: l’ esistenza di

uno specifico interesse pubblico alla cessazione dell’ attività

ovvero una delle sopravvenienze che autorizzano la revoca.

Al di fuori dei casi di silenzio-assenso, la legge equipara, invece, l’

inerzia dell’ amministrazione, mantenuta oltre un certo termine, a

rifiuto di provvedimento (cd. silenzio-rifiuto).

Rimane da analizzare, infine, la questione della causa del

provvedimento; al riguardo, è necessario premettere che nel

periodo successivo all’ entrata in vigore del codice civile, la causa

(del provvedimento amministrativo) veniva identificata con la

funzione economico-sociale tipica del contratto (in questa

prospettiva, ad es., la causa dell’ autorizzazione amministrativa

veniva a coincidere con la rimozione di un limite all’ esercizio di

un diritto e la causa della espropriazione con il trasferimento

coattivo dell’ immobile dietro un indennizzo); una tale concezione

della causa comportava, però, problemi tecnici di non facile

soluzione: come quello della causa illecita nei contratti tipici.

Per risolvere il problema, si è pensato allora di spostare il concetto

di causa dall’ atto al potere amministrativo, qualificato in ragione

del suo contenuto (sanitario, ambientale, urbanistico, etc.);

137

Page 138: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

pertanto, in virtù di tale spostamento, la causa si identifica, oggi,

con l’ interesse pubblico specifico (sanitario, ambientale,

urbanistico, etc.) che, a mezzo di quel potere, viene tutelato.

§7. Gli accordi tra l’ amministrazione ed il privato

a) il rapporto tra l’ art. 11 L. 241/90 e i princìpi civilistici

L’ art. 11 L. 241/90 prevede anche la possibilità di un esito

negoziato del procedimento amministrativo: prevede, cioè, che il

procedimento si concluda con un accordo, anziché con un

provvedimento. Più precisamente, l’ accordo con gli interessati è

consentito sia allo scopo di determinare il contenuto discrezionale

del provvedimento finale, sia in sostituzione di questo: cioè, come

accordo preliminare al provvedimento o come accordo sostitutivo

dello stesso.

Gli accordi in questione rappresentano una species del genus

contratti, che l’ amministrazione è abilitata a concludere nella sua

capacità di soggetto giuridico; e ciò è confermato dallo stesso art.

11 L. 241/90, il quale, infatti, stabilisce che agli accordi si

applicano, ove non diversamente stabilito, i princìpi del codice

civile in materia di obbligazioni e contratti.

Sono, però, previste determinate deroghe:

• innanzitutto, va detto che l’ accordo deve essere concluso nel

perseguimento di un pubblico interesse;

• in secondo luogo, la stipulazione dell’ accordo deve essere

preceduta da una determinazione dell’ organo competente ad

adottare il provvedimento (e non del dirigente che, poi, stipulerà

l’ accordo per conto dell’ amministrazione);

• l’ accordo deve essere, poi, concluso senza pregiudizio dei diritti

dei terzi: se, infatti, l’ accordo sostituisce il provvedimento o ne

predetermina il contenuto e se il provvedimento può ledere il

terzo (ad es., il permesso di costruire rilasciato a Tizio può

danneggiare Caio) è ragionevole che il terzo venga tutelato con

questa clausola;

138

Page 139: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

• è necessario sottolineare, infine, che l’ amministrazione, per

sopravvenuti motivi di pubblico interesse può recedere

unilateralmente dall’ accordo, salvo l’ obbligo di provvedere alla

liquidazione di un indennizzo, in relazione agli eventuali pregiudizi

verificatisi in danno del privato (è questa un’ ulteriore

applicazione del principio secondo il quale l’ accordo deve essere

perseguito nel pubblico interesse).

b) gli accordi ex art. 11 L. 241/90

Gli accordi previsti dall’ art. 11 sono di due tipi: quelli che

determinano il contenuto discrezionale del provvedimento finale

(che viene comunque adottato) e quelli che lo sostituiscono.

Per quanto riguarda gli accordi del primo tipo, l’ amministrazione

concorre a determinare il contenuto dell’ accordo, accettando la

proposta del privato (previa una sua valutazione) o formulando

essa stessa la proposta. Ovviamente, una volta sottoscritto l’

accordo, il contenuto del provvedimento diventa vincolato, perché

esso deve essere conforme all’ accordo (se è difforme, il

provvedimento è illegittimo).

Gli accordi del secondo tipo, invece, sostituiscono il

provvedimento: nella versione originaria dell’ art. 11 ciò era

possibile soltanto nei casi previsti dalla legge (quali l’ accordo

amichevole in materia di espropriazione e la convenzione in

materia urbanistica). La novella del 2005 ha soppresso, però, tale

inciso: sicché l’ accordo sostitutivo del provvedimento è oggi

ammesso senza limitazioni.

A questo punto ci si pone un quesito fondamentale: per quale

motivo l’ amministrazione, che dispone di un potere unilaterale

(che si estrinseca nel provvedimento), dovrebbe optare per un

accordo, ossia per una risoluzione che implica il consenso del

privato?

Per rispondere a questa domanda, è necessario sottolineare che

oggi il privato è sempre più riluttante a sottostare all’ autorità

139

Page 140: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

amministrativa e, invece, sempre più propenso a contestarne le

determinazioni e i comandi (sia nel procedimento, sia in via di

fatto); vi è, quindi, un interesse dell’ autorità ad ottenere il

consenso preventivo della parte se vuole raggiungere il suo

obiettivo; dal canto suo, invece, il privato può avere interesse a

venire a patti con un’ autorità ostile se vuole realizzare il suo

interesse. In quest’ ottica, le due parti, pubblica e privata, si fanno

reciproche concessioni, che consentono di raggiungere un’ intesa:

così, ad es., sostituendo al provvedimento l’ accordo, l’ autorità

può ottenere dal privato, che richiede un permesso di costruire,

una prestazione supplementare (ad es., la manutenzione del

tratto di strada antistante) che non potrebbe formare oggetto di

condizione apposta al provvedimento (perché ne snaturerebbe la

tipicità e sarebbe, quindi, illegittima); la proposta può anche

venire dal privato che, in questo modo, ottiene ciò che avrebbe

incontrato resistenza.

Il sistema degli accordi, ex art. 11 L. 241/90, viene chiuso da una

clausola che riguarda la giurisdizione: le controversie in materia di

formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi sono

riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In

particolare, la controversia può insorgere tra le due parti dell’

accordo (ad es., perché l’ autorità si rifiuta di emettere il

provvedimento, il cui contenuto è stato determinato con l’

accordo, o perché una delle parti non adempie alle obbligazioni

nascenti dall’ accordo sostitutivo), ma può anche insorgere con un

terzo che ricorre contro l’ accordo (o contro il provvedimento

sostitutivo dell’ accordo), assumendo di aver subìto il pregiudizio

che l’ accordo non dovrebbe comportare.

In ogni caso, è necessario sottolineare che gli accordi, ex art. 11,

ricorrono raramente nella prassi: le amministrazioni, infatti, da un

lato, non sono, di norma, disposte a rinunciare all’ esercizio

unilaterale del potere; dall’ altro, gli amministratori temono di

venire a patti con i privati per timore che dietro l’ operazione il

140

Page 141: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

giudice penale possa ravvisare le fattispecie di corruzione,

concussione e abuso.

Sezione III

L’ efficacia del provvedimento

§1. L’ efficacia del provvedimento amministrativo

a) l’ efficacia del genus provvedimento

In dottrina ci si chiede se accanto agli effetti peculiari del singolo

provvedimento amministrativo (autorizzazione, concessione, etc.)

possa essere configurata un’ efficacia del genere provvedimento,

che sia capace di accomunare le singole specie di provvedimento.

Per rispondere a tale quesito, occorre procedere analiticamente,

partendo dai singoli provvedimenti amministrativi; in tal modo,

infatti, ci si potrà rendere conto che gli effetti di questi

provvedimenti hanno perfetti equivalenti in altri rami del diritto: si

pensi, ad es., all’ espropriazione per pubblica utilità, che

rappresenta il provvedimento amministrativo per eccellenza;

eppure la sua efficacia non è diversa dalla pronuncia del giudice

dell’ esecuzione, che trasferisce all’ aggiudicatario il bene

immobile espropriato (art. 586 c.c.).

Si pensi, ancora, all’ autorizzazione amministrativa: anch’ essa, a

prima vista, sembra un unicum; ma, in realtà, è sufficiente

guardare ai rapporti di vicinato nella proprietà immobiliare (art.

141

Page 142: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

873 c.c.) per rendersi conto che quasi tutti i divieti e i limiti che

gravano sul proprietario a tutela del fondo vicino possono essere

rimossi con il consenso del proprietario di quest’ ultimo (che può,

ad es., tollerare la comunione forzosa del muro sul confine o

consentire una deroga alle distanze, ex art. 878 c.c.).

Il discorso non cambia se dalla singola specie di provvedimento si

passa al provvedimento in genere, dal momento che sussiste una

forte analogia tra l’ atto posto in essere dall’ autorità

amministrativa ed il contratto: anche il provvedimento

amministrativo, infatti, in virtù della definizione contenuta nell’

art. 1321 c.c., è capace, come il contratto, di costituire, regolare o

estinguere un rapporto giuridico (con la differenza, però, che l’

effetto del provvedimento amministrativo viene prodotto

unilateralmente e non da un accordo).

b) l’ autoritarietà e l’ imperatività del provvedimento

Un aspetto interessante dell’ efficacia del provvedimento

amministrativo è la sua autoritarietà (o autorità). In relazione a

tale aspetto, la dottrina italiana, sulla scorta di quella francese, ha

messo in rilievo che questa efficacia si produce

indipendentemente dal consenso del terzo o anche in presenza di

un suo dissenso: in ciò il potere amministrativo si distinguerebbe

dal potere privato, proprio perché l’ atto di esercizio di quest’

ultimo non produce conseguenze giuridiche in capo al terzo.

Di recente, però, questo aspetto dell’ incidenza unilaterale del

provvedimento amministrativo sulla sfera giuridica altrui è stato

messo in discussione con riferimento ad alcune categorie di

provvedimenti favorevoli, come l’ autorizzazione o la concessione:

in tali casi, si è osservato che non si può prescindere dal consenso

del privato, perché la richiesta da parte di questi (che implica,

ovviamente, un consenso anticipato) costituisce una condizione di

legittimità del provvedimento e coincide con l’ avvio del relativo

procedimento. Ciò, però, non significa che il consenso, ove

richiesto, faccia venir meno il carattere unilaterale del

142

Page 143: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

provvedimento: ad es., il consenso manifestato con la richiesta di

concessione non si fonde con la volontà dell’ autorità

amministrativa (come accadrebbe se si trattasse di un contratto),

ma rimane ad essa esterna. Ragionando a contrario, quindi, se ne

deduce che l’ efficacia unilaterale sulla sfera giuridica del terzo è

esclusiva dei provvedimenti amministrativi sfavorevoli (che

prescindono dal consenso del terzo). Ciò, però, non è del tutto

vero: ed infatti, con riferimento, quantomeno, alle concessioni

(provvedimento amministrativo favorevole) si è detto che esse

non si esauriscono nell’ attribuzione di un vantaggio al

beneficiario, ma possono anche dar luogo ad un diniego nei

riguardi di altri aspiranti allo stesso bene o servizio (tant’è vero

che questi sono legittimati a ricorrere dinanzi al giudice

amministrativo contro la concessione rilasciata ad altra persona).

Sempre con riferimento all’ aspetto dell’ incidenza unilaterale

nella sfera giuridica del terzo si pone, poi, la questione della cd.

imperatività del provvedimento, la cui nozione è stata proposta

per la prima volta dallo studioso Giannini: questi, in particolare,

ha identificato l’ imperatività con l’ autorità del provvedimento,

che si articola in tre effetti tra loro collegati: la degradazione dei

diritti, l’ esecutività e l’ inoppugnabilità.

Viceversa, nella ricostruzione più recente della dottrina (in

particolare: Scoca) l’ imperatività (concepita come una particolare

qualità dell’ atto amministrativo) viene a costituire, insieme all’

autotutela, uno dei due elementi dell’ autorità; secondo quest’

impostazione, l’ imperatività perde la sua autonomia e viene ad

identificarsi con l’ idoneità del provvedimento a produrre eventi di

nascita, modificazione ed estinzione di situazioni soggettive nella

sfera giuridica altrui, indipendentemente dalla collaborazione del

soggetto che lo subisce.

c) la questione della forza tipica

Un diverso modo di affrontare il tema dell’ efficacia giuridica del

143

Page 144: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

provvedimento amministrativo è quello di chi parte dallo schema

evocato, a proposito del contratto, dall’ art. 1372 c.c., il quale

stabilisce che il contratto ha forza di legge tra le parti. Partendo

da questo assunto, ci si domanda, pertanto, se il provvedimento

amministrativo possieda un’ analoga forza.

A differenza della dottrina tedesca, che ha dato al quesito risposa

positiva, quella italiana non ha mai accettato l’ equiparazione dell’

efficacia del provvedimento amministrativo con la forza di legge

tra le parti, propria del contratto, perché essa non si concilierebbe

con categorie fondamentali di provvedimenti amministrativi come

le concessioni, le autorizzazioni e gli atti ablativi (così, ad es., se

si parte dal presupposto che l’ autorizzazione rimuove un limite

all’ esercizio di un diritto, la determinazione del diritto del

soggetto autorizzato non nasce dall’ autorizzazione, ma dalla

norma che tutela la libertà, la quale, per effetto dell’

autorizzazione, può essere pienamente dispiegata).

Di conseguenza, allo scopo di cercare di attribuire al

provvedimento amministrativo una sua forza tipica, in dottrina l’

attenzione si è spostata sul vincolo che il provvedimento pone a

carico dell’ amministrazione; in virtù di tale vincolo, infatti, il

provvedimento amministrativo instaura una situazione che non

può essere modificata fino a quando l’ amministrazione non adotti

un atto ulteriore, di annullamento o di revoca del precedente, in

presenza dei presupposti che autorizzano il contrarius actus (così,

ad es., se il sindaco autorizza chi ne ha fatto richiesta ad

esercitare il commercio non può poi disporre la chiusura della

bottega, come se l’ autorizzazione mancasse; allo stesso modo,

se la provincia ha espropriato un immobile per farvi un impianto

sportivo non può poi destinare il bene acquisito ad altro uso).

§2. L’ esecuzione del provvedimento (l’ esecutorietà)

Con il provvedimento amministrativo l’ autorità dispone qualcosa;

un qualcosa che, di solito, richiede un’ attività materiale ulteriore

144

Page 145: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

(o del privato o della stessa autorità).

Volendo esemplificare, in relazione ad una prima serie di ipotesi

possiamo dire che il privato, in seguito all’ emanazione del

provvedimento, ha la possibilità di porre in essere una

determinata attività: così, ad es., una volta rilasciata l’

autorizzazione, il privato può svolgere un’ attività che prima gli

era vietata (costruire una casa, trasmettere programmi televisivi,

etc.).

In altri casi, invece, egli non ha la facoltà, ma l’ obbligo di porre in

essere un’ attività: ad es., quando gli viene notificato un ordine di

demolizione o un ordine di messa in sicurezza di un immobile o un

ordine di sgombero. In questi casi, se il privato non ottempera, l’

amministrazione può imporre l’ esecuzione coattiva dell’ obbligo

inadempiuto, senza necessità di rivolgersi al giudice; e ciò in forza

di un principio generale di esecutorietà degli atti amministrativi (è

necessario sottolineare, però, che il legislatore del 2005,

modificando l’ art. 21 ter L. 241/90, ha stabilito espressamente

che l’ esecuzione coattiva da parte dell’ amministrazione può

essere imposta soltanto nelle ipotesi e con le modalità previste

dalla legge).

In una terza serie di ipotesi, infine, è l’ amministrazione che deve

attuare il provvedimento: così, ad es., il decreto di espropriazione

viene eseguito dall’ espropriante (l’ autorità amministrativa)

mediante l’ immissione in possesso, la descrizione dell’ immobile

e la trascrizione del decreto stesso.

In relazione a quest’ ultima serie di ipotesi, è importante

specificare, però, che la giurisprudenza della Cassazione, con

sent. 1463/83, ha stabilito che l’ attività materiale posta in essere

dall’ autorità amministrativa può anche essere esplicata in

esecuzione di un provvedimento tacito: si è ritenuto, ad es., che l’

occupazione senza titolo (cd. occupazione acquisitiva) di un

immobile da parte di un soggetto pubblico, seguita dalla

trasformazione irreversibile del bene, facesse perdere al privato la

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Page 146: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

proprietà, come se l’ immobile fosse stato espropriato con un

regolare decreto. Questa invenzione giurisprudenziale, tuttavia,

non solo è stata giudicata incompatibile con la tutela del diritto di

proprietà (assicurata dalla Convenzione europea dei diritti dell’

uomo), ma è risultata in contrasto anche con il principio di

legalità, ex art. 42 Cost., ai sensi del quale la proprietà privata

può essere espropriata solo nei casi previsti dalla legge.

Per risolvere il problema si è deciso allora di inserire nel T.U. sull’

espropriazione per pubblica utilità (D.P.R. 327/01) una

disposizione che abilita l’ autorità, che utilizza un bene immobile

per scopi di interesse pubblico (dopo averlo modificato in assenza

di un valido provvedimento di esproprio), ad acquisirlo con un

provvedimento espresso al suo patrimonio indisponibile (in tal

modo, l’ effetto traslativo della proprietà viene ascritto non in

base ad un comportamento di fatto, bensì in presenza di un atto

giuridico, emesso a sanatoria, ma che è previsto dalla legge).

§3. L’ efficacia del provvedimento nello spazio

Di efficacia del provvedimento amministrativo nello spazio si

parla in relazione alla distribuzione della competenza

amministrativa per territorio, nel senso che l’ autorità competente

può emanare atti che possono avere efficacia solo nell’ ambito

territoriale di propria competenza: ad es., l’ ordine di demolizione

di costruzione abusiva, emanato dal sindaco, non può colpire un

manufatto che sorge al di fuori del territorio comunale.

La violazione di questa regola comporta la nullità dell’ atto (e non

la semplice annullabilità): così, ad es., se l’ ordine di demolizione

dell’ immobile è stato adottato dal sindaco sull’ erroneo

presupposto che il terreno interessato ricada nell’ ambito della

sua circoscrizione, il proprietario può legittimamente rifiutarsi di

dare esecuzione al provvedimento, proprio perché questo è nullo.

A questa regola generale, però, la legge prevede diverse

eccezioni: si pensi agli atti di qualificazione giuridica (come l’

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Page 147: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

iscrizione ad un albo professionale), i quali, infatti, spiegano

effetti anche al di fuori del territorio di competenza: ad es., l’

architetto iscritto all’ ordine degli architetti di Milano può

esercitare la sua professione in tutto il territorio italiano.

§4. L’ efficacia del provvedimento nel tempo

Il provvedimento amministrativo comincia a produrre i suoi effetti

nei confronti dei destinatari al momento della comunicazione

(questa regola, nonostante sia enunciata espressamente solo per

i provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati, ex art.

21 bis L. 241/90, ha, in realtà, una sfera di applicazione più

ampia; e ciò lo si ricava dal regime del ricorso al giudice

amministrativo, che va proposto entro 60 gg. dalla comunicazione

o dalla piena conoscenza, indipendentemente dal contenuto dell’

atto, favorevole o sfavorevole). Si può, quindi, affermare che i

provvedimenti amministrativi sono recettizi, ossia esplicano la

loro efficacia a partire dal momento in cui sono entrati nella sfera

di conoscibilità degli interessati.

È necessario sottolineare, però, che nell’ ambito dei

provvedimenti limitativi della sfera giuridica del privato

(provvedimenti sfavorevoli), sono previste due eccezioni alla

regola dell’ efficacia che coincide con la comunicazione:

• la prima, a carattere automatico, riguarda i provvedimenti

cautelari ed urgenti, i quali sono immediatamente efficaci anche

prima che il destinatario ne abbia ricevuto comunicazione (si

pensi, ad es., all’ ordine di demolizione di un muro pericolante);

• la seconda eccezione è rimessa, invece, ad una scelta dell’

amministrazione, la quale può inserire nel provvedimento una

clausola motivata di immediata efficacia (purché il provvedimento

non abbia carattere sanzionatorio).

Gli effetti del provvedimento amministrativo possono essere,

inoltre, anticipati (cd. retroattività: ma si tratta di un’ ipotesi

eccezionale) o, più frequentemente, ritardati: ad es., la nomina di

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Page 148: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

un docente spiega effetti dal momento dell’ inizio dell’ anno

scolastico o accademico, anche se adottata prima.

Il provvedimento amministrativo può, altresì, produrre un’

efficacia istantanea o un’ efficacia prolungata nel tempo: ad es., il

decreto di espropriazione produce l’ effetto istantaneo del

trasferimento della proprietà dell’ immobile in capo all’

espropriante; il decreto di occupazione, invece, produce effetti

che si protraggono nel tempo, perché abilita l’ occupante ad

acquisire e mantenere il possesso del bene per tutta la durata

prevista (in genere non superiore a 5 anni).

Il provvedimento ad efficacia prolungata ha, di solito, un termine

finale, che può essere prestabilito dalla legge (si pensi, ad es., alle

nomine a cariche, che hanno un termine legato alla durata della

carica); negli altri casi, invece, il termine può essere stabilito dall’

organo amministrativo (ad es., in relazione alla concessione di un

bene demaniale).

Vi sono, però, provvedimenti ai quali nessun termine può essere

apposto: si pensi, ad es., alle abilitazioni professionali, che durano

tutta la vita.

Un’ ultima considerazione occorre riservarla, infine, all’ ultrattività

di alcuni provvedimenti amministrativi: ultrattiva è, ad es., la

nomina di una carica pubblica nel periodo successivo alla

scadenza (il periodo di prorogatio), nel senso che una parte dei

suoi effetti continuano a prodursi al di là del termine finale.

§5. Gli atti di secondo grado (o di riesame)

a) l’ annullamento d’ ufficio e la revoca

La P.A., come sappiamo, deve perseguire l’ interesse pubblico

affidato alla sua cura e, nel far ciò, deve agire legittimamente; da

quanto detto si intuisce, quindi, che (nel momento in cui la P.A.

provvede) i due vincoli sono strettamente connessi, nel senso che

l’ autorità non può perseguire l’ interesse pubblico adottando un

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provvedimento illegittimo (non può, ad es., negare una

concessione edilizia perché il nuovo piano regolatore, in fase di

elaborazione, ma non ancora adottato dal consiglio, destina la

zona a servizi pubblici), né può prendere una decisione legittima

(conforme alla legge), ma in contrasto con l’ interesse pubblico.

Se, viceversa, la vicenda amministrativa viene presa in

considerazione in maniera retrospettiva i due aspetti possono

anche essere scissi: a distanza di tempo, infatti, il provvedimento

può apparire legittimo, ma in contrasto con l’ interesse pubblico

attuale o, al contrario, apparire illegittimo, ma non in contrasto

con l’ interesse pubblico attuale.

In questi casi, per risolvere il problema, la giurisprudenza ha

adottato una soluzione fondata sul criterio dell’ attualità dell’

interesse pubblico: in virtù di tale principio, l’ atto illegittimo potrà

essere eliminato quando l’ interesse pubblico attuale lo consigli

(cd. annullamento d’ ufficio); e l’ atto a suo tempo legittimo potrà

(anzi: dovrà) essere eliminato qualora la sua permanenza

contrasti con l’ interesse pubblico (cd. revoca).

Per spiegare questa vicenda, dottrina e giurisprudenza hanno

fatto ricorso alla categoria giuridica dell’ autotutela; più

precisamente, in base a questa teoria l’ amministrazione può farsi

ragione da sé: può, cioè, ottenere, con una nuova determinazione

(sua propria), quel risultato di rimozione, modifica o sostituzione

dell’ atto precedente (che il privato, invece, ai sensi dell’ art. 1372

c.c., può conseguire soltanto dal giudice, a meno che l’ altra parte

del rapporto non sia d’ accordo).

Detto ciò, però, è necessario sottolineare che la nozione di

autotutela non appare oggi convincente: in primo luogo, perché la

possibilità di rimuovere o modificare un proprio atto non è

esclusiva della P.A.; tale possibilità, infatti, dipende dal fatto che l’

atto amministrativo è unilaterale e non dal fatto che è un atto

amministrativo.

In secondo luogo, l’ autorità amministrativa, quando annulla o

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revoca un proprio atto, non tutela se stessa, né si fa giustizia da

sé; ma tutela, o dovrebbe tutelare, l’ interesse pubblico (così

come era tenuta a curarlo). Ora, dal momento che l’ interesse

pubblico è caratterizzato dall’ attualità, la P.A. ha il potere ed il

dovere di rimuovere l’ atto adottato in precedenza, qualora lo

stesso sia in contrasto con l’ interesse pubblico attuale; e questo

potere-dovere non può avere altro fondamento se non nella legge

(come, infatti, la legge conferisce all’ autorità amministrativa la

possibilità di provvedere in una certa direzione, adottando un

determinato atto, allo stesso modo deve essere la stessa legge, in

un momento successivo, ad attribuire all’ autorità la possibilità di

provvedere in direzione diversa). Ovviamente, perché tale

meccanismo possa operare è necessario che il potere

amministrativo sia esercitabile in tempi diversi e in direzioni

diverse (cd. inesauribilità del potere amministrativo); da tale

inesauribilità deriva, come logica conseguenza, la prevalenza dell’

atto successivo su quello precedente (cioè, l’ annullamento o la

revoca del provvedimento amministrativo precedente).

Questo potere amministrativo che ritorna sui suoi passi deve,

però, fare i conti con il rapporto giuridico che il provvedimento

amministrativo ha costituito con i privati interessati, i quali

vantano determinati diritti ed interessi (creati dal provvedimento

stesso): in questa prospettiva, la giurisprudenza ha escluso, ad

es., che il sindaco possa revocare un’ autorizzazione all’ esercizio

del commercio in base ad una nuova valutazione dell’ interesse

pubblico, perché in questo caso il sacrificio dell’ interesse privato

si concretizzerebbe, in realtà, in un sacrificio dell’ interesse

pubblico attuale.

b) gli aspetti comuni

Gli istituti dell’ annullamento e della revoca (che inizialmente

erano disciplinati in virtù di una prassi giurisprudenziale) hanno

trovato una conferma normativa con la modifica apportata dalla L.

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15/05 alla legge sul procedimento amministrativo (L. 241/90): ciò

significa, quindi, che, d’ ora in poi, il regime dell’ annullamento e

della revoca è quello che risulta dalla legge.

È necessario sottolineare, inoltre, che, accanto all’ annullamento

e alla revoca, la L. 15/05 (sempre rifacendosi alla prassi

giurisprudenziale) ha introdotto altre due figure riguardanti il

provvedimento amministrativo: è stabilito, infatti, che l’ autorità

amministrativa può ritornare sui suoi atti per annullarli, revocarli,

sospenderli o convalidarli.

Il presupposto comune di tutti questi atti è che il potere

amministrativo, una volta esercitato, non si esaurisce; pertanto,

in presenza di determinate circostanze, esso può essere

nuovamente esercitato in senso contrario (annullamento e

revoca) o per paralizzare temporaneamente gli effetti dell’ atto

precedente (sospensione) o per depurare l’ atto precedente da un

vizio che lo inficia (convalida). Soltanto quando ricorre tale

presupposto comune l’ atto di secondo grado (o di riesame) potrà

essere adottato.

c) l’ annullamento d’ ufficio

Affinché l’ autorità amministrativa possa disporre l’ annullamento

d’ ufficio devono ricorrere quattro importanti condizioni:

• innanzitutto, il provvedimento originario deve essere illegittimo

(deve essere, cioè, viziato da una violazione di legge o di

incompetenza o di eccesso di potere);

• in secondo luogo, affinché il provvedimento possa essere

annullato, debbono sussistere particolari ragioni di pubblico

interesse (il pubblico interesse che qui viene in rilievo è,

ovviamente, lo specifico interesse pubblico che è affidato alla

cura dell’ organo amministrativo: ad es., sanitario, ambientale,

etc.);

• questo interesse, a sua volta (e arriviamo alla terza condizione)

va contemperato e bilanciato con gli interessi privati dei

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destinatari e dei controinteressati (ossia di coloro che sono

interessati alla conservazione dell’ atto originario o alla sua

rimozione); in particolare, se il provvedimento che si intende

annullare favorisce il destinatario questi avrà interesse a

conservarlo in vita; se, invece, lo danneggia egli avrà interesse a

che sia eliminato. Opposta è la posizione dei controinteressati,

ossia di coloro che hanno un interesse antagonistico a quello del

destinatario (interesse a che l’ atto sia annullato, nel primo caso;

interesse a che l’ atto sia conservato, nel secondo caso).

Nella comparazione di tutti questi interessi, l’ amministrazione è

tenuta ad accertare quale sia l’ interesse prevalente; tra l’ altro, è

importante specificare che è proprio questa valutazione

comparativa di interessi che ci permette di qualificare l’

annullamento d’ ufficio come un provvedimento amministrativo

discrezionale (a differenza dell’ annullamento giurisdizionale).

Sempre con riferimento al bilanciamento degli interessi in gioco,

prima della riforma del 2005 si è sempre ritenuto che l’

annullamento d’ ufficio avesse efficacia retroattiva e che, per tal

motivo, eliminasse tutti gli effetti prodotti medio tempore dall’

atto annullato (efficacia ex tunc). Una tale convinzione, però, è

stata messa in discussione di recente e, in particolare, dopo l’

entrata in vigore della L. 15/05: si è osservato, infatti, che il

contemperamento degli interessi in gioco può richiedere all’

amministrazione di graduare quegli effetti e di farli decorrere dal

momento in cui l’ atto viene annullato (efficacia ex nunc);

• la quarta condizione (richiesta perché il provvedimento possa

essere annullato) riguarda la distanza temporale tra l’ atto che si

intende annullare e la determinazione di annullarlo: tale

determinazione, infatti, deve essere presa entro un termine

ragionevole (da ciò si intuisce, quindi, che il termine non è

prestabilito); è bene precisare, comunque, che la ragionevolezza

del termine dipenderà dalle circostanze concrete e dalla

valutazione degli interessi in gioco.

152

Page 153: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

d) la revoca

A differenza dell’ annullamento d’ ufficio (che viene disposto per

ragioni di legittimità), la revoca viene disposta per ragioni di

opportunità; ciò lo si desume dalla formulazione dell’ art. 21

quinquies L. 241/90 (così come modificato dalla riforma del 2005),

il quale, infatti, stabilisce che per sopravvenuti motivi di pubblico

interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o

di una nuova valutazione dell’ interesse pubblico originario, il

provvedimento amministrativo può essere revocato da parte dell’

organo che lo ha emanato.

Come si può notare, ai fini della revoca, la legge distingue i

sopravvenuti motivi di interesse pubblico dal mutamento della

situazione di fatto: la prima ipotesi ricorre, ad es., quando una

destinazione urbanistica a verde agricolo viene modificata a

seguito della prospettiva di un grosso insediamento industriale,

per il quale non v’è disponibilità di un’ altra area.

Il mutamento della situazione di fatto, invece, ricorre, ad es.,

quando il beneficiario di un finanziamento pubblico, finalizzato

alla realizzazione di un certo investimento per una determinata

produzione, distoglie le somme dalla destinazione prevista.

In terzo luogo, come detto, la revoca può essere disposta in

conseguenza di una nuova valutazione dell’ interesse pubblico

originario; questa ipotesi, in realtà, sembra ridare vigore ad una

tesi che appariva screditata: la tesi, cioè che, con la revoca, l’

amministrazione eserciti uno ius poenitendi (cd. diritto di

pentirsi). È bene precisare, però, che il pentimento dell’

amministrazione (che conduce alla revoca) non deve contrastare,

in maniera assoluta, con l’ interesse del destinatario del

provvedimento (o del controinteressato), ma deve trovare il suo

fondamento in un nuovo accertamento che consigli quella nuova

valutazione dell’ interesse pubblico originario: così, ad es., un

permesso di costruire può essere revocato se un’ indagine

153

Page 154: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

successiva al rilascio accerti una condizione di instabilità

geologica dell’ area interessata.

Una remora contro il mero pentimento dell’ amministrazione è

costituita, in ogni caso, dall’ obbligo (sempre previsto dall’ art. 21

quinquies L. 241/90) di indennizzare i soggetti interessati per il

danno subìto per effetto della revoca.

È necessario sottolineare, infine, che (come per l’ annullamento)

anche per la revoca la L. 15/05 stabilisce che il provvedimento

revocato non può produrre effetti ulteriori (efficacia ex nunc).

e) la sospensione

Con la sospensione, l’ amministrazione non elimina l’ atto

esistente (come nell’ annullamento o nella revoca), ma ne

paralizza temporaneamente gli effetti:

• in vista del suo riesame (si pensi, ad es., alla sospensione del

permesso di costruire e al contemporaneo avvio di un

procedimento di annullamento d’ ufficio);

• ovvero sul presupposto di un abuso da parte del beneficiario

dell’ atto, in attesa di un accertamento più approfondito [si pensi,

ad es., alla sospensione dei lavori qualora gli uffici comunali

competenti constatino l’ inosservanza delle modalità esecutive

fissate nel permesso di costruire, in attesa che nei 45 gg.

successivi venga adottato il provvedimento definitivo (che può

consistere in una sanzione edilizia ovvero nel ripristino degli

effetti del provvedimento sospeso)];

• ovvero in funzione sanzionatoria (si pensi, ad es., alla

sospensione della patente di guida prevista dal codice della

strada).

È bene precisare, in ogni caso, che con la L. 15/05, che ha

introdotto, nella L. 241/90, l’ art. 21 quater, la sospensione è

divenuta un istituto di carattere generale: stabilisce, infatti,

questa disposizione che l’ esecuzione del provvedimento

amministrativo può essere sospesa, per gravi ragioni e per il

154

Page 155: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha

emanato.

f) la convalida

L’ art. 21 nonies L. 241/90 prevede la possibilità che il

provvedimento amministrativo annullabile possa essere

convalidato entro un termine ragionevole e sempre che

sussistano ragioni di pubblico interesse.

Da ciò si intuisce che la convalida è un’ alternativa all’

annullamento d’ ufficio; in altri termini, anziché eliminare l’ atto, l’

autorità elimina il vizio che lo inficia e in questo modo ne

stabilizza gli effetti: così, ad es., se la delibera collegiale è stata

adottata senza che l’ argomento fosse all’ ordine del giorno, la

convalida viene realizzata con una nuova delibera che sia

preceduta da un avviso di convocazione che faccia menzione dell’

argomento.

Tutto questo, però, è possibile soltanto se contro l’ atto originario

non sia pendente un ricorso giurisdizionale: se, infatti, c’è un

giudizio in corso dinanzi al giudice amministrativo la convalida

non è ammessa (salvo il caso del vizio di incompetenza, il quale

può essere rimosso dall’ organo competente che si appropria del

contenuto dell’ atto impugnato).

g) le altre forme di conservazione dell’ atto viziato

La prassi e la giurisprudenza conoscono altre forme di

conservazione dell’ atto viziato; esse sono: la conferma, la ratifica

e la sanatoria.

La conferma si sostanzia nel rifiuto dell’ amministrazione di

procedere all’ annullamento d’ ufficio richiesto da chi vi abbia

interesse (rifiuto che viene formalizzato con la predisposizione di

un nuovo atto).

155

Page 156: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

La ratifica opera, invece, in presenza di provvedimenti

amministrativi d’ urgenza presi eccezionalmente da un organo

diverso da quello competente (questo schema ricorre, in

particolare, negli enti pubblici, il cui statuto prevede una

competenza in via d’ urgenza del presidente, il cui atto va

ratificato dal consiglio di amministrazione nella prima riunione

successiva).

La sanatoria, infine, è un istituto che opera nell’ ipotesi in cui il

provvedimento amministrativo sia viziato dall’ omissione di un

atto intermedio del procedimento (ad es., un’ autorizzazione o un

nulla osta); è bene precisare, però, che la sanatoria non è

ammessa qualora tra l’ atto omesso ed il provvedimento

conclusivo del procedimento vi sia una relazione giuridico-

temporale: è il caso, ad es., del parere che deve, infatti,

necessariamente precedere l’ atto di amministrazione attiva.

Sezione IV

L’ invalidità

§1. L’ illiceità e l’ illegittimità

Rispetto alla norma giuridica è possibile individuare una duplice

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Page 157: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

devianza: quando la norma impone un dovere (cioè, un obbligo), il

comportamento difforme è illecito: si pensi, ad es., al

comportamento di chi commette un delitto.

Quando, invece, la norma attribuisce un potere, il comportamento

difforme è invalido (o, più precisamente, illegittimo).

Nel primo caso la sanzione colpisce l’ autore dell’ atto (nell’

esempio fatto: la sanzione della pena); nel secondo caso la

sanzione giuridica colpisce, viceversa, proprio l’ atto che, a causa

della sua difformità, è nullo o annullabile (le due forme

fondamentali dell’ invalidità): si pensi, ad es., a chi venda un

immobile in forma verbale (atto nullo) o a chi stipula un contratto

inducendo la controparte in un errore, senza il quale non avrebbe

stipulato (atto annullabile).

Si tratta, ovviamente di concetti differenti: la nullità, infatti, rende

l’ atto improduttivo di effetti, mentre l’ annullabilità lo vizia senza,

però, privarlo di effetti sino a quando il soggetto legittimato a

farla valere non otterrà una pronuncia giudiziale di annullamento.

Detto ciò, è necessario osservare che la devianza nella quale

incorre la P.A. è della specie invalidità: infatti, nell’ esercitare il

potere che la legge le attribuisce, l’ autorità amministrativa

spesso viola qualcuna delle prescrizioni che disciplinano tale

esercizio, ponendo così in essere un atto invalido (e, nella

maggior parte dei casi, invalido-annullabile).

§2. Il regime dell’ invalidità degli atti amministrativi

a) l’ annullabilità come regime prevalente

In relazione all’ atto amministrativo sono previsti tre vizi, ossia tre

forme di invalidità: incompetenza, violazione di legge ed eccesso

157

Page 158: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

di potere (ma unico è il regime che le accomuna: quello dell’

annullabilità).

L’ atto annullabile è l’ atto che, pur essendo invalido, produce i

suoi effetti sino a quando non venga annullato (dal giudice

amministrativo); ciò significa, quindi, che l’ atto invalido (o

illegittimo) produce i suoi effetti come se fosse valido (o legittimo)

sino a quando non viene eliminato. È in tal senso che si parla del

cd. modo di equiparazione degli effetti dell’ atto invalido agli

effetti dell’ atto valido; in tal modo, il legislatore (optando per l’

annullabilità) ha inteso contemperare le ragioni del cittadino con

quelle dell’ amministrazione: conferendo al primo (il cittadino) il

potere di impugnare l’ atto illegittimo, ma mantenendo nel

contempo l’ efficacia di quest’ ultimo sino a quando il giudice

(eventualmente adìto) non abbia accertato l’ invalidità e disposto

l’ annullamento.

Se, invece, il legislatore avesse optato per il regime della nullità

(atto privo di effetti), il soggetto privato avrebbe potuto sottrarsi

ai comandi derivanti dall’ atto o avrebbe potuto disapplicarlo o

considerarlo inesistente (come accade oggi, ad es., nell’

ordinamento americano, ove, infatti, esistono atti amministrativi

nulli).

In realtà, è bene precisare che anche nel nostro ordinamento

esistono provvedimenti amministrativi nulli; lo ha stabilito la Corte

di Cassazione alcuni decenni fa: il Supremo Collegio ha stabilito,

in particolare, che la nullità si manifesta quando l’ atto è stato

emesso in carenza di potere, ossia quando l’ autorità

amministrativa non si è limitata ad esercitare malamente un

potere che la legge le attribuisce (atto annullabile), ma ha preteso

di esercitare un potere di cui essa è carente (atto nullo).

Come è stato detto, i vizi che rendono il provvedimento

amministrativo annullabile sono: l’ incompetenza, la violazione di

legge e l’ eccesso di potere. Si potrebbe dire, tuttavia, che le

cause di annullabilità sono riconducibili ad una sola, che è la

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Page 159: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

violazione di legge, essendo le altre due (incompetenza ed

eccesso di potere) delle semplici specificazioni della prima: l’

attività amministrativa, infatti, è sottoposta alla legge (principio di

legalità) e la legge disciplina la competenza, i presupposti, le

forme, il procedimento, il tipo di misura, gli effetti e il fine dell’

attività; sicché ogni deviazione dalla legge (cioè, ogni violazione

di legge) si traduce nell’ invalidità dell’ atto finale.

b) l’ invalidità parziale, derivata e successiva

Due forme specifiche di invalidità-illegittimità sono l’ invalidità

parziale e l’ invalidità derivata.

L’ invalidità parziale colpisce soltanto una parte dell’ atto e non l’

atto nella sua integrità; tale fenomeno ricorre, in particolare, negli

atti che hanno una pluralità di contenuti e di destinatari [così, ad

es., un piano regolatore comunale può essere illegittimo, e per

questo può essere annullato dal giudice amministrativo,

limitatamente alle previsioni che riguardano la zona di espansione

dell’ abitato; allo stesso modo, una graduatoria di concorso può

essere illegittima nella parte in cui in essa risulta inserito un

candidato anziché un altro (il ricorrente), mentre rimane valida

per gli altri dieci concorrenti in essa inclusi].

L’ invalidità derivata è, invece, una conseguenza del

collegamento tra più atti o del fatto che il provvedimento

amministrativo è preceduto da un procedimento: in tal modo, può

accadere che il vizio di un atto preparatorio del procedimento si

ripercuota sul provvedimento (così, ad es., anche se in sé

ineccepibile, il provvedimento può essere viziato dal fatto che il

parare obbligatorio che lo ha preceduto è stato reso da un organo

in composizione irregolare, perché qualcuno dei suoi membri non

era stato debitamente convocato).

Più controverso è, infine, il concetto di invalidità successiva:

controverso, perché la legittimità o l’ illegittimità di un atto deve

essere valutata in relazione al quadro normativo in vigore nel

159

Page 160: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

momento in cui l’ atto viene adottato; se così non fosse, l’ autore

dell’ atto sarebbe tenuto, infatti, a tener conto delle modifiche

che quel quadro potrà subire in un momento successivo.

Nonostante ciò, dottrina e giurisprudenza hanno individuato

alcune ipotesi nelle quali una invalidazione successiva di un atto,

originariamente valido, è possibile (si pensi, ad es., alla legge

retroattiva che modifica i presupposti o i requisiti dell’ atto;

ovvero alla declaratoria di illegittimità costituzionale della norma

in base alla quale l’ atto era stato posto in essere).

c) l’ incompetenza

L’ incompetenza è una forma di invalidità tipica del regime

giuridico delle organizzazioni impersonali, nelle quali il potere di

agire è diviso tra una pluralità di organi: in questa prospettiva, l’

incompetenza si verifica qualora un organo usurpi le competenze

dell’ organo preposto.

Sotto un certo profilo, l’ incompetenza, come detto in precedenza,

è solo una specie di violazione di legge: quest’ ultima, prima di

stabilire i presupposti, le forme e gli effetti dell’ azione

amministrativa, individua l’ autorità competente e le assegna un

fine, che spesso è desumibile proprio dalla competenza (ad es., il

Ministro della Sanità deve perseguire il fine della salute pubblica,

il Ministro delle Attività produttive quello della promozione dello

sviluppo industriale, etc.).

Sotto altro profilo, invece, l’ incompetenza ha una sua autonomia

rispetto agli altri vizi dell’ azione amministrativa; partendo, infatti,

dal presupposto che l’ autorità, prima di agire (e, quindi, prima di

porre in essere l’ atto) deve accertare la sua competenza, l’ atto

posto in essere può essere perfetto dal punto di vista del

contenuto, della forma e dei fini, ma se è stato adottato da un

organo incompetente è illegittimo e per tal motivo va annullato

dal giudice, qualora il ricorrente ne faccia richiesta (in altri

termini, non è illegittimo ciò che l’ autorità ha disposto, ma lo è il

160

Page 161: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

fatto che sia stata essa a disporlo).

Una volta annullato l’ atto, il giudice deve rimettere l’ affare all’

autorità competente (e quest’ ultima deciderà se non agire

ovvero se agire diversamente da come ha agito l’ organo

incompetente o se agire allo stesso modo); da ciò si intuisce che il

giudice non può decidere di non annullare l’ atto, ritenendo che l’

autorità competente non possa agire diversamente da come ha

agito l’ organo incompetente, perché così facendo egli finirebbe

con il sostituirsi all’ autorità competente.

In ogni caso, è necessario sottolineare che, perché vi sia

incompetenza, il potere esercitato indebitamente deve essere

previsto dalla legge come potere di altro organo dello stesso ente

(si pensi, ad es., al sindaco che si sostituisce al consiglio

comunale) o di altro ente (si pensi, ad es., al sindaco che adotta

un provvedimento di competenza del prefetto).

Esorbita, invece, dall’ area dell’ incompetenza l’ esercizio di un

potere che la legge non attribuisce ad alcuna autorità

amministrativa (in questo caso, infatti, vi è carenza di potere, che

dà luogo alla nullità dell’ atto).

d) la violazione di legge

La violazione di legge è il vizio tipico dell’ azione amministrativa.

L’ accertamento di tale violazione è molto semplice: il giudice (o l’

organo di controllo di legittimità o la stessa autorità

amministrativa in sede di riesame) confronta la fattispecie

concreta del provvedimento con la fattispecie normativa; in

conseguenza di tale confronto, ogni difformità (dalla fattispecie

legale) darà luogo ad un vizio di legittimità.

Appare utile sottolineare comunque che, nella prassi del

procedimento amministrativo, il ricorrente suole dedurre, insieme

al vizio di violazione di legge, anche il vizio di falsa applicazione

della legge: questa consiste nell’ applicazione della norma ad un

destinatario diverso da quello che essa contempla [si pensi, ad

161

Page 162: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

es., all’ applicazione ad ex combattenti, dipendenti da imprese

private, di una legge (L. 336/70) che, invece, è rivolta a beneficio

dei soli ex combattenti che sono impiegati pubblici].

e) l’ eccesso di potere

Il terzo dei tre vizi di legittimità del provvedimento amministrativo

è l’ eccesso di potere. Esso equivale allo sviamento di potere, cioè

all’ uso del potere amministrativo per una finalità diversa da

quella stabilita dalla legge (incorre, ad es., in eccesso di potere il

sindaco che ordina la demolizione di un manufatto edilizio vicino

alla propria abitazione, non perché sia stato realizzato in

violazione della normativa edilizia, ma semplicemente per godere,

dal proprio appartamento, di una veduta più ampia: in questo

caso, il potere amministrativo affidato dalla legge al sindaco viene

utilizzato a fini privati).

Ma lo sviamento di potere ricorre anche quando la finalità

perseguita dall’ autorità sia anch’ essa una finalità pubblica, ma

diversa da quella per la quale il potere le è stato attribuito

(riproponendo l’ esempio avanzato in precedenza, l’ ordine di

demolizione è illegittimo anche nel caso in cui il sindaco intenda,

con esso, dare attuazione alla disciplina posta dal nuovo piano

regolatore, che prevede in quella zona l’ inedificabilità totale; in

questo modo, infatti, il sindaco cerca di ottenere con l’ ordine di

demolizione un risultato che può essere perseguito solo mediante

un provvedimento espropriativo e relativo indennizzo).

Impostata così la questione, si capisce che l’ eccesso di potere è

un vizio tipico dei poteri vincolati nel fine; di conseguenza, l’

accertamento di tale vizio implica un confronto tra il fine

concretamente perseguito e il fine che la legge ha imposto all’

autorità di perseguire, attribuendole quel potere. Questo

162

Page 163: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

confronto, tuttavia, non è agevole, perché esso comporta un’

indagine sulle intenzioni dell’ agente; indagine che, tra l’ altro, è

ammessa soltanto quando il vero scopo dell’ agente risulti con

chiarezza dall’ atto impugnato o da qualcuno degli atti preparatori

ovvero da dichiarazioni rese in altra sede. È proprio per questo

motivo, allora, che (in presenza di tali difficoltà) il Consiglio di

Stato ha formulato la figura sintomatica dell’ eccesso di potere, in

virtù della quale è stato affermato che, anche se l’ eccesso non

risulta con chiarezza dalla documentazione, è comunque possibile

che da quest’ ultima emergano sintomi del vizio, che lasciano

presumere la sua esistenza (a meno che l’ amministrazione non

dimostri il contrario). Sintomi dell’ eccesso di potere sono oggi

considerati: la disparità di trattamento, la manifesta ingiustizia, la

contraddizione con precedenti provvedimenti, nonché il difetto, l’

insufficienza e la contraddittorietà della motivazione.

Analizziamoli singolarmente.

L’ amministrazione incorre nella disparità di trattamento quando

applica misure diverse in situazioni uguali, senza alcuna

giustificazione: ad es., due impiegati incorrono nella stessa

infrazione (furto di francobolli): ad uno viene inflitta la sanzione

disciplinare della censura (la più lieve), mentre all’ altro la

destituzione (la più grave).

Allo stesso genere appartiene l’ ingiustizia manifesta, che però (a

differenza della disparità di trattamento), non richiede un

confronto tra due fattispecie ed i rispettivi trattamenti:

riproponendo l’ esempio di prima, sarebbe manifestamente

ingiusta la destituzione di un impiegato sorpreso mentre si

appropria di alcuni francobolli (vi è sproporzione, cioè, tra il fatto

e la misura applicata).

Si ha, invece, contraddittorietà con precedenti provvedimenti

quando l’ autorità, discostandosi da una prassi, senza alcun

motivo, applica in un caso una misura diversa da quelle in

precedenza applicate: ad es., un sindaco rifiuta l’ autorizzazione

163

Page 164: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

ad un mutamento di destinazione d’ uso (poniamo: da residenza

ad ufficio), quando, nella stessa zona, richieste di identico

contenuto erano state, in precedenza, tutte accolte.

Il travisamento dei fatti ricorre quando l’ autorità suppone l’

esistenza di un fatto inesistente o, viceversa, suppone l’

inesistenza di un fatto esistente: ad es., il sindaco rifiuta un’

autorizzazione all’ esercizio del commercio perché convinto

erroneamente che la zona sia satura di esercizi del genere.

Si ha omesso o insufficiente accertamento o omessa o

insufficiente istruttoria quando i presupposti richiesti dalla legge

per l’ adozione del provvedimento non sono stati acclarati

(comprovati) o lo sono stati in modo insufficiente: ad es., il

sindaco emette un provvedimento di urgenza, intimando la

demolizione di un edificio pericolante, avvalendosi del suo potere

di ordinanza in materia di edilizia, sanità ed incolumità pubblica,

sulla sola scorta della denuncia di un vicino (senza che l’ ufficio

tecnico comunale o i vigili urbani abbiano proceduto alla

necessaria verifica).

Si ha illogicità manifesta quando vi è incongruenza tra la

motivazione ed il dispositivo ovvero quando vi sono due

motivazioni in conflitto tra di loro ovvero ancora quando risulta

violata una regola logica: è illogica, ad es., la previsione di un

piano regolatore che, sulla premessa di un forte incremento

demografico del comune, riduca il perimetro dell’ area destinata a

residenze.

L’ eccesso di potere può anche consistere nella omessa

valutazione comparativa degli interessi in gioco: ad es., l’

amministrazione dei beni culturali e ambientali nega l’

autorizzazione ad aprire una cava, sul presupposto che la zona

contenga beni archeologici non ancora portati alla luce,

impedendo in tal modo la realizzazione di una diga capace di

portare acqua potabile ad una zona che ne ha bisogno (in questo

caso, un interesse pubblico ipotetico viene privilegiato rispetto ad

164

Page 165: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

un interesse collettivo di immediata evidenza).

Una classica ipotesi di eccesso di potere è, poi, il vizio di

motivazione (omessa o insufficiente motivazione): si pensi, ad es.,

ad un atto di annullamento d’ ufficio di un precedente atto che

non faccia menzione dell’ interesse pubblico che giustifica il ritiro.

Di recente introduzione è, infine, il vizio derivante dalla violazione

del principio di proporzionalità (si tratta di una figura mutuata

dalla giurisprudenza amministrativa tedesca): esempio classico è

quello di una dichiarazione di pubblica utilità che investa un’ area

di gran lunga più vasta di quella necessaria per la realizzazione

dell’ opera pubblica (vi è, cioè, una sproporzione tra il sacrificio

inflitto al privato e le richieste dell’ interesse pubblico).

f) i vizi formali e i vizi sostanziali

L’ invalidità, determinata da violazione di legge, incompetenza o

eccesso di potere, espone l’ atto all’ annullamento da parte del

giudice amministrativo (art. 21 octies, co. 1 L. 241/90, come

modificato dalla L. 15/05), sempre che l’ atto venga impugnato

entro i termini stabiliti dalla legge. È importante specificare, però,

che se ricorrono anche i presupposti per l’ annullamento d’ ufficio

(se, cioè, oltre all’ invalidità, concorrono anche ragioni di pubblico

interesse, da contemperare con gli interessi dei destinatari e dei

controinteressati) il provvedimento invalido può essere annullato

anche dall’ amministrazione.

L’ art. 21 octies, co. 2 prevede, invece, due casi nei quali il

provvedimento, ancorché invalido (perché posto in essere in

violazione di legge), non può essere annullato né dal giudice

amministrativo, né dall’ amministrazione.

Il primo caso si verifica quando, pur essendo stato l’ atto adottato

in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti,

sia palese che il suo contenuto, a causa della sua natura

vincolata, non avrebbe potuto essere diverso.

Il secondo caso, invece, è quello del provvedimento (vincolato o

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Page 166: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

discrezionale) che l’ amministrazione ha posto in essere,

omettendo di comunicare all’ interessato l’ avvio del

procedimento: in una simile ipotesi il giudice non può annullare l’

atto, qualora l’ amministrazione dimostri in giudizio che il

contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso

da quello adottato in concreto.

Le due ipotesi si distinguono, oltre che per la diversa natura del

provvedimento, anche per la diversa modalità con la quale l’

annullabilità va negata: nel primo caso, infatti, deve essere

palese che il contenuto dell’ atto non avrebbe potuto essere

diverso da quello adottato; nel secondo caso, invece, deve essere

l’ amministrazione a dimostrare in giudizio che il contenuto del

provvedimento non poteva essere diverso da quello effettivo (a

ben vedere, però, l’ onere della prova a carico dell’

amministrazione è soltanto apparente, perché questa, nella

maggior parte dei casi si limiterà ad affermare che, anche se

fosse stato preceduto dalla comunicazione di avvio del

procedimento, il provvedimento avrebbe avuto identico

contenuto; ciò vuol dire, quindi, che l’ onere della prova ricade

quasi sempre sul ricorrente).

§3. La nullità degli atti amministrativi

a) la carenza di potere

Come detto, la Corte di Cassazione, da alcuni decenni, ha

individuato uno spazio, non ampio, per la nullità del

provvedimento amministrativo.

Ad avviso del Supremo collegio, infatti, il principio di legalità

richiede che il potere esercitato dall’ autorità amministrativa

venga attribuito dalla legge, non solo in termini astratti, ma anche

166

Page 167: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

in concreto: per fare un esempio, il potere di espropriare un

immobile di proprietà privata può essere esercitato soltanto

qualora detto immobile sia stato in precedenza dichiarato di

pubblica utilità (in base alla legge fondamentale del 1865); ne

consegue, pertanto, che se la dichiarazione di pubblica utilità

manca, manca l’ attribuzione in concreto del potere espropriativo;

ed il decreto di espropriazione è nullo per carenza di potere (Cass.

S.u. 36/01).

Ma carenza di potere, nel nostro caso, può esservi anche per un’

altra ragione: in virtù di una regola antichissima (che risale alla

citata legge del 1865), l’ atto che contiene la dichiarazione di

pubblica utilità deve stabilire i termini entro i quali le

espropriazioni ed i lavori devono essere compiuti: sicché un

decreto di espropriazione che sopravvenga dopo la scadenza del

termine finale previsto per l’ espropriazione (stabilito in sede di

dichiarazione di pubblica utilità) è nullo per carenza di potere

(Cass. S.u. 355/99).

È bene precisare, però, che le decisioni giurisprudenziali, in

questo campo, non sono state, nel tempo, uniformi; volendo

essere più chiari: in base all’ esempio citato (dell’ espropriazione

disposta dopo la scadenza del termine stabilito nella dichiarazione

di pubblica utilità) si potrebbe essere indotti a credere che, ogni

qual volta l’ esercizio del potere amministrativo sia sottoposto ad

un termine, il provvedimento adottato a termine scaduto sia nullo

per carenza di potere. Senonché, in tanti casi del genere, la

giurisprudenza ha ritenuto l’ atto annullabile (e non nullo): si

pensi, ad es., al caso dell’ annullamento, da parte del comitato

regionale di controllo, di una delibera di un consiglio comunale

dopo il termine di 20 gg. dal ricevimento di quest’ ultima; o al

caso dell’ autorizzazione amministrativa, sottoposta al regime del

silenzio-assenso, negata dopo la scadenza del termine previsto

per la formazione del silenzio.

Dagli esempi avanzati si capisce, pertanto, che la nozione di

167

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carenza di potere non consente di stabilire in modo certo i confini

della nullità del provvedimento amministrativo, perché le

soluzioni escogitate dalla giurisprudenza sono specifiche

(applicabili caso per caso e non suscettibili di generalizzazione).

È bene precisare, infine, che (a differenza dell’ atto illegittimo-

annullabile, che può essere annullato dal giudice amministrativo o

dalla stessa autorità che lo ha posto in essere), la dichiarazione di

nullità spetta, invece, al giudice ordinario.

b) la nullità nella legge 15/2005

Degli sviluppi della giurisprudenza ha preso di recente atto il

legislatore, il quale ha introdotto nella L. 241/90 una disposizione

generale sulla nullità del provvedimento. L’ art. 21 septies

(introdotto con L. 15/05) stabilisce, infatti, che è nullo il

provvedimento amministrativo che manca degli elementi

essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è

stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli

altri casi espressamente previsti dalla legge.

Come si può notare, la disposizione in esame disciplina quattro

casi di nullità. Analizziamoli.

1° caso: la mancanza degli elementi essenziali corrisponde alla

mancanza dei requisiti che rende nullo il contratto (artt. 1418 e

1325 c.c.); a differenza del contratto, però, per il provvedimento

amministrativo non v’è alcuna norma che preveda i suoi requisiti

o i suoi elementi; e non è, quindi, agevole stabilire quando l’ atto

è nullo per mancanza di un elemento essenziale. Ciò non toglie,

però, che il provvedimento amministrativo possa essere

scomposto in elementi più semplici (oggetto, forma, etc.); sicché

l’ attenzione deve spostarsi sulla identificazione di questi ultimi

[per intenderci: il provvedimento amministrativo ha un oggetto (l’

oggetto del decreto di espropriazione è un bene altrui, dell’

autorizzazione un’ attività altrui, della sovvenzione una somma di

denaro, etc.); sicché è nullo, ad es., il decreto di espropriazione

168

Page 169: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

emesso tardivamente dopo che l’ amministrazione ha acquistato

la proprietà del bene per effetto di occupazione acquisitiva (nullo

perché avrebbe ad oggetto un proprio bene)].

Allo stesso modo, un difetto radicale di forma (ad es., la

mancanza della sottoscrizione) dà luogo sicuramente a nullità

(per l’ impossibilità di imputare il provvedimento al suo autore).

2° caso: il difetto assoluto di attribuzione viene ricondotto dalla

dottrina (Cerulli Irelli) alla categoria della carenza di potere in

astratto, di cui parla la Cassazione (si tratta delle ipotesi nelle

quali non sussiste il potere in capo all’ amministrazione che lo ha

esercitato). Di conseguenza, verrebbe a ricadere nell’ ambito dell’

annullabilità la carenza di potere in concreto: quella cioè che

deriva dalla mancanza di un presupposto essenziale per la

fondazione del potere (ad es., la dichiarazione di pubblica utilità

rispetto all’ espropriazione). Al riguardo, tuttavia, è necessario

sottolineare che la nuova disciplina della fattispecie (art. 43 D.P.R.

327/01: per diventare proprietario di un bene espropriato, in

assenza di dichiarazione di pubblica utilità, l’ amministrazione

deve adottare un nuovo atto di acquisizione) sembra, in realtà,

confermare l’ orientamento della Cassazione: ciò vuol dire, quindi,

che (almeno in questo caso) il provvedimento emesso in carenza

di potere in concreto (il decreto di espropriazione) continua ad

essere nullo.

3° caso: la nullità dell’ atto posto in essere in violazione o

elusione del giudicato è stata riconosciuta dal giudice

amministrativo da oltre un decennio; la nullità, in tal caso,

consiste nel fatto che l’ attività di esecuzione del giudicato non è

solo attività amministrativa (e, in quanto tale, rivolta alla cura di

un interesse pubblico), ma è anche attività di adempimento degli

obblighi, che nascono dal giudicato, a carico dell’

amministrazione.

4° caso: l’ ultima categoria di atti nulli abbraccia, infine, i casi

espressamente previsti dalla legge (si pensi, ad es., alla nullità

169

Page 170: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

delle assunzioni agli impieghi senza concorso, ex art. 3 D.P.R.

3/57, ovvero agli atti posti in essere dopo la scadenza del periodo

di prorogatio della carica, di cui alla L. 444/94).

§4. Le misure a carico degli atti invalidi

A ciascuna forma di invalidità-illegittimità corrisponde una misura

specifica: l’ annullamento per gli atti annullabili e la dichiarazione

di nullità per gli atti nulli.

Il potere di annullamento è dato al giudice amministrativo, all’

autorità competente a decidere i ricorsi amministrativi e all’

autorità che ha emanato l’ atto in sede di riesame; la declaratoria

di nullità, invece, compete al giudice ordinario. Questa singolare

ripartizione si spiega con il fatto che gli stati patologici del

provvedimento amministrativo sono legati a differenti situazioni

soggettive del privato (situazioni che, a loro volta, condizionano la

giurisdizione); sicché, l’ atto nullo è correlato ad un diritto

soggettivo, mentre quello annullabile ad un interesse legittimo.

Occorre specificare, però, che il quadro sopra illustrato è stato in

parte modificato dalla disposizione contenuta nell’ art. 21 septies

L. 241/90, il quale, infatti, stabilisce che nel caso in cui ci si trovi

di fronte a questioni concernenti la nullità di provvedimenti

amministrativi, in violazione o elusione del giudicato, queste

saranno di competenza del giudice amministrativo: la

giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in tal caso, si

giustifica in considerazione del fatto che, in presenza di una

violazione o elusione del giudicato, persiste l’ inadempimento

dell’ amministrazione; e la relativa controversia rientra tra le

competenze del giudice dell’ ottemperanza (che è il giudice

amministrativo).

Tuttavia, al di fuori del caso sopraindicato, non è neppure certo

che nelle altre ipotesi di nullità la giurisdizione spetti sempre al

giudice ordinario: lo sarà quando il privato interessato vanta un

diritto soggettivo, che il provvedimento amministrativo nullo pone

170

Page 171: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

in contestazione. Viceversa, quando di fronte all’ atto nullo il

privato vanta solo un interesse legittimo (l’ interesse, ad es., ad

ottenere una sovvenzione), la competenza a decidere spetterà al

giudice amministrativo.

Quanto detto trova oggi conferma nel fatto che il criterio utilizzato

per individuare il giudice competente, che un tempo si fondava

sul tipo di invalidità che si intendeva denunciare (annullabilità o

nullità), è stato sostituito dal criterio che si basa sulla situazione

soggettiva in gioco: in altri termini, nel caso in cui si tratti di un

diritto soggettivo si farà ricorso al giudice ordinario, mentre nel

caso in cui in gioco ci sia un interesse legittimo, la competenza

ricadrà sul giudice amministrativo.

§5. I vizi di merito dell’ atto amministrativo

Al vizio di legittimità il nostro ordinamento affianca il vizio di

merito dell’ atto amministrativo; più precisamente, si può dire che

l’ atto è viziato nel merito quando è inopportuno, ingiusto o

comunque difforme da un criterio di buona amministrazione.

In ogni caso, è necessario sottolineare che, a differenza del vizio

di legittimità (che ha una portata generale), il vizio di merito

rileva solo nei casi in cui la legge lo prevede; e lo ha previsto sia

quando ha attribuito al giudice amministrativo una competenza

speciale di merito (che si è affiancata a quella di legittimità), sia

quando ha previsto un controllo di merito (ad es., sulle delibere

dei consigli comunali o provinciali che approvano il bilancio o i

regolamenti).

Va anche detto, però, che oggi la giurisdizione di merito ha più

che altro un valore antiquario, dal momento che nessuna delle

materie previste dalla legge istitutiva della IV sezione del

Consiglio di Stato (1889) conserva alcuna attualità; del resto, la

sola materia che conserva un valore attuale (ricorso per

esecuzione del giudicato) non comporta un sindacato di merito

sull’ atto, perché il giudice valuta soltanto se l’ amministrazione

171

Page 172: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

ha ottemperato o meno al giudicato amministrativo.

Lo stesso discorso può essere fatto in relazione al controllo di

merito, vista sia l’ eliminazione (nel 1990) del controllo di merito

sugli atti degli enti locali (comuni e province), che la

soppressione, con l. cost. 3/01, dell’ art. 130 Cost., che ha

eliminato il controllo regionale sulle delibere degli enti locali.

Il controllo di merito persiste, invece, nei riguardi di certi atti degli

enti pubblici nazionali sottoposti a vigilanza ministeriale e degli

enti pubblici pararegionali sottoposti a vigilanza regionale.

Sezione V

I servizi pubblici

§1. Le funzioni pubbliche e i servizi pubblici

La dottrina amministrativistica (italiana e francese) ha sempre

distinto l’ attività giuridica (o autoritativa) da quella sociale (o di

prestazione). Nei riguardi della prima il privato si pone come

cittadino (si pensi, ad es., all’ attività che lo Stato esplica per

assicurare l’ ordine pubblico o l’ amministrazione della giustizia),

mentre nei confronti della seconda egli si atteggia come utente

(utente, ad es., di servizi di trasporto, di servizi postali, di energia

elettrica, di telecomunicazioni, etc.).

Le due specie di attività su descritte si differenziano, innanzitutto,

per il regime giuridico; tale differenza è efficacemente espressa

dal nostro codice penale, il cui art. 357 stabilisce, infatti, che la

pubblica funzione amministrativa è disciplinata da norme di diritto

pubblico o da atti autoritativi ed è caratterizzata dalla formazione

e dalla manifestazione della volontà della pubblica

amministrazione. L’ art. 358 c.p. stabilisce, invece, che il pubblico

servizio, pur essendo disciplinato nelle stesse forme (norme di

diritto pubblico e atti autoritativi), è caratterizzato dalla

mancanza dei poteri tipici della pubblica funzione.

172

Page 173: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Per comprendere meglio la differenza tra l’ attività autoritativa e

quella sociale proponiamo un esempio: una cosa è ordinare un

comportamento (come quello di presentarsi alla leva militare

obbligatoria, esistita sino a poco tempo fa) o vietarne un altro

(come quello di superare un determinato limite di velocità); altra

cosa è, invece, rendere una prestazione sanitaria in un ospedale

pubblico o consentire a chi ha pagato il biglietto di salire su un

treno. Solo nel primo caso l’ amministrazione si presenta come

autorità (ossia come un soggetto munito di poteri autoritativi); nel

secondo caso, invece, il pubblico rende un servizio che non

costituisce esplicazione di un potere autoritativo (perché all’

ospedale o sul treno il privato ci va solo se vuole).

§2. Pubblico e privato nel servizio

A questo punto dobbiamo porci i seguenti questi: quando un

servizio può essere definito pubblico? Perché è pubblico il servizio

reso nell’ ambulatorio di un ospedale pubblico e non lo è quello

reso in uno studio medico privato? Nel cercare di rispondere a

queste domande, la dottrina francese, che ha dedicato al tema in

esame un’ attenta analisi, ha identificato il servizio pubblico come

quell’ attività la cui esplicazione deve essere assicurata, regolata

e controllata dai governanti, in quanto indispensabile alla

realizzazione e allo sviluppo dell’ interdipendenza sociale e che è

di natura tale da non poter essere completamente realizzata se

non con l’ intervento della forza di governo (Duguit).

Questa definizione mette in luce due elementi:

• il dovere di esplicare l’ attività; un dovere che, a sua volta, si

fonda sul fatto che le prestazioni in cui l’ attività si concreta sono

indispensabili allo sviluppo della società (indispensabili, cioè, alla

realizzazione del pubblico interesse);

• l’ impossibilità che l’ attività possa essere svolta da un soggetto

diverso dal pubblico potere (i governanti).

Questa simbiosi tra natura pubblica dell’ interesse da soddisfare e

173

Page 174: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

natura pubblica del soggetto abilitato ed obbligato a soddisfarlo

ha rappresentato la base per lo sviluppo dei servizi pubblici in

Europa (si pensi, ad es., alle poste, alle ferrovie o alla telefonia).

§3. Il quadro costituzionale

La nostra Costituzione non contiene una disciplina dei pubblici

servizi; menziona soltanto i servizi pubblici essenziali (servizi

economici) all’ art. 43: questa disposizione stabilisce, infatti, che

la legge può riservare o trasferire, mediante espropriazione e

salvo indennizzo, allo Stato determinate imprese, qualora queste

si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a

situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente

interesse generale.

All’ interno della nostra Carta fondamentale vengono, poi, indicati

anche singoli servizi: questi, però, non sono qualificati come

servizi pubblici, ma come servizi sociali: l’ assistenza (artt. 31 e

38), la sanità (art. 32), la previdenza sociale (art. 38, co. 2), l’

istruzione (artt. 33 e 34) e i trasporti regionali e locali (art. 117).

Da quest’ elenco, tuttavia, possiamo estrarre delle regole ben

precise.

1° regola: innanzitutto, va detto che, alla stregua dell’ art. 43

Cost., ci sono servizi pubblici (quelli essenziali) che vengono

prodotti nella forma dell’ impresa: come impresa pubblica è stato

strutturato, ad es., l’ ENEL (Ente Nazionale per l’ energia

elettrica), istituito nel 1962 per la produzione e la distribuzione

dell’ energia elettrica in regime di monopolio legale; e come

impresa pubblica è tuttora organizzata la RAI-TV, chiamata (a suo

tempo: 1975) a gestire il servizio pubblico della diffusione

radiofonica e televisiva.

2° regola: il servizio pubblico può essere erogato da un soggetto

privato; ciò lo si desume, a contrario, dalla stessa formulazione

dell’ art. 43 Cost., ai sensi del quale, infatti, le imprese che

producono servizi pubblici essenziali possono essere riservate o

174

Page 175: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

trasferite (mediante espropriazione) allo Stato e ad enti pubblici

solo quando hanno carattere di preminente interesse generale.

Da quanto detto si può dedurre, pertanto, che se il servizio è

pubblico anche quando è gestito da un imprenditore privato viene

meno il nesso indissolubile tra la natura pubblica del servizio e la

natura pubblica del soggetto abilitato a soddisfarlo.

3° regola: come abbiamo visto in precedenza, la Costituzione

propone una bipartizione dei servizi pubblici: i servizi pubblici

essenziali, ex art. 43 (che vengono prodotti da un’ impresa,

pubblica o privata), e i servizi previsti dagli artt. 31, 32, 33, 34 e

38 (assistenza, sanità, previdenza e istruzione), per i quali,

invece, valgono formule e criteri diversi rispetto ai primi (quelli

essenziali).

• Innanzitutto, è necessario sottolineare che, a differenza dei

servizi pubblici essenziali, i singoli servizi previsti dalla

Costituzione non sono suscettibili di nazionalizzazione; e ciò lo si

desume dalla prospettiva normativa: l’ art. 38, ult. co. stabilisce,

infatti, che l’ assistenza privata è libera; l’ art. 33, co. 2 afferma

che enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di

educazione; lo stesso dicasi in relazione alla previdenza sociale,

dal momento che l’ art. 38, co. 4 prevede che ai compiti ad essa

relativi provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo

Stato (e l’ integrazione da parte dello Stato presuppone,

ovviamente, un’ iniziativa originaria del privato); analogo discorso

può essere fatto per la sanità, perché l’ obbligo di tutelare la

salute (art. 32) non implica necessariamente l’ istituzione di un

Servizio sanitario nazionale (avvenuto in concreto nel 1978), né

comporta un monopolio pubblico delle prestazioni sanitarie.

Da quanto detto emerge chiaramente, quindi, che accanto al

dovere delle istituzioni (cioè, dello Stato) di assicurare assistenza,

salute, previdenza sociale e istruzione, la Costituzione prevede un

diritto (o una libertà) del soggetto privato di rendere questi

servizi: in altri termini, a differenza di quanto accade per i servizi

175

Page 176: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

pubblici essenziali (in relazione ai quali vi è una successione di

pubblico e privato), per i singoli servizi previsti dalla Costituzione

vi è una sorta di coesistenza di pubblico e privato.

• L’ altra differenza tra i due tipi di servizi (quelli economici

previsti dall’ art. 43 e quelli sociali contemplati dagli artt. 31 ss.)

consiste nel modello organizzativo, perché non sempre ai servizi

sociali è applicabile il modello dell’ impresa: per alcuni di essi (si

pensi, ad es., all’ istruzione obbligatoria o alle cure gratuite agli

indigenti) vi è, infatti, la necessità di coprire dei costi elevati con

somme che, non potendo essere addossate agli utenti, vanno

ricercate altrove (ciò significa, quindi, che non si possono coprire i

costi di produzione con i ricavi, come farebbe, per definizione, un’

impresa).

• Quanto detto fa emergere una terza differenza tra i servizi

pubblici essenziali, ex art. 43, e quelli sociali, ex artt. 31 ss.: i

primi, in quanto erogati da un’ impresa (pubblica o privata)

vengono corrisposti dietro un prezzo a carico dell’ utente (si

pensi, ad es., al prezzo del francobollo per il servizio postale o al

prezzo del biglietto per il servizio di trasporto).

I servizi sociali, invece, sono prestati anche se, in alcuni casi, gli

utenti non pagano alcun prezzo: si pensi, ad es., agli indigenti

ovvero ai cittadini inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari

per vivere.

§4. I modelli organizzativi

Dall’ entrata in vigore della Costituzione fino agli anni ’90

abbiamo avuto una diversa organizzazione dei servizi pubblici tra

il centro e la periferia; al centro facevano capo i grandi servizi

nazionali: poste, ferrovie, telefonia, radiotelevisione, trasporti

marittimi, trasporti aerei, etc. (si trattava, cioè, di servizi la cui

erogazione era riservata allo Stato).

176

Page 177: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

In seguito, il modello organizzativo ha conosciuto due diverse

forme:

• la gestione diretta mediante azienda di Stato (Poste e Ferrovie)

o ente pubblico economico (ENEL);

• la gestione mediante concessionario, costituito, il più delle

volte, da società a partecipazione statale (sicché lo Stato era, ad

un tempo, concedente e concessionario o comunque titolare della

maggioranza del capitale sociale della società concessionaria): è

questo il sistema che è stato prescelto, ad es., per la telefonia

(concessionaria la SIP) e per il trasporto aereo (Alitalia).

A livello locale sono state, invece, sperimentate due forme di

gestione del servizio:

• la gestione diretta a mezzo di appalto (l’ appaltatore rende alla

cittadinanza il servizio, ad es., di nettezza urbana, per conto del

comune, dal quale riceve un prezzo);

• la gestione a mezzo di azienda municipalizzata.

§5. I princìpi di diritto europeo

I principi giuridici sui quali si reggono i servizi pubblici hanno

subìto un radicale mutamento a seguito dell’ intervento del diritto

comunitario. Le linee essenziali di questo sistema sono le

seguenti.

• Nel Trattato di Roma non si fa menzione del servizio pubblico, se

non all’ art. 73, ove si fa rifermento al settore dei trasporti, e all’

art. 86, ove si parla di servizi di interesse economico generale

(nozione corrispondente a quella di servizio pubblico economico,

ex art. 43 Cost.). Come si può notare, restano fuori dalla

previsione i servizi sociali, riguardo ai quali ogni Stato ha

mantenuto le proprie competenze (va detto, però, che i princìpi in

tema di servizi economici tendono oggi ad estendere la loro

efficacia anche nell’ ambito dei servizi sociali).

• L’ art. 86 del Trattato stabilisce che i servizi di interesse

economico generale devono essere prestati da imprese; da

177

Page 178: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

questo punto di vista, il dettato comunitario ricalca il regime

delineato dall’ art. 43 Cost.; ma a differenza del regime che è

prevalso in Italia sino ad una decina di anni addietro, le imprese

che forniscono servizi di interesse economico generale sono

soggette alle regole della concorrenza, come qualunque altra

impresa che produce servizi.

• Le regole della concorrenza, tuttavia, non sono applicabili

qualora sussista il pericolo che la loro osservanza possa

pregiudicare la missione affidata alle imprese che gestiscono

servizi di interesse economico generale. Ciascun servizio, infatti,

ha una missione sua propria: ad es., distribuire la corrispondenza,

trasportare i viaggiatori da un luogo all’ altro, consentire alla

gente di comunicare a distanza, etc.; vi è, però, anche una

missione comune a tutti: la missione, cioè, di assicurare un

minimo di servizi di una qualità determinata, accessibili a tutti gli

utenti (a prescindere dalla loro ubicazione geografica) ed offerti

ad un prezzo abbordabile. È in tal senso che si parla del cd.

principio di eguaglianza nella fruizione del pubblico servizio

(principio elaborato dalla dottrina francese e penetrato, poi, nel

diritto comunitario). Ovviamente, si tratta di un principio che non

sempre si concilia con la logica del mercato e della concorrenza:

nessun imprenditore, ad es., sarebbe disposto a distribuire la

posta nei paesini di alta montagna, difficilmente accessibili e con

popolazione rada (o lo farebbe facendo pagare il servizio a prezzi

esorbitanti, allo scopo di coprire i costi elevati, e a condizioni

disagevoli per l’ utenza). È per tal motivo che in questi casi si

rende necessario l’ intervento dei pubblici poteri: i soli che, infatti,

possono obbligare le imprese che gestiscono il servizio a

raggiungere anche quel tipo di utenti ad un prezzo per loro

accessibile.

• L’ accesso degli utenti al servizio in condizioni di eguaglianza

costituisce uno degli elementi fondamentali per il miglioramento

del tenore e della qualità di vita, nonché per la coesione

178

Page 179: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

economica e sociale (si tratta di due degli obiettivi principali che l’

art. 2 del Trattato assegna alla Comunità). Esso, però, pone due

problemi.

Il primo riguarda la misura del servizio da rendere accessibile a

tutti; a tal riguardo, il diritto europeo ha isolato, all’interno di ogni

servizio di interesse economico generale, un ambito più ristretto:

il cd. servizio universale. Ora, che cosa debba intendersi per

servizio universale ce lo dice la Corte di Giustizia CE (causa

Corbeau, 1993), la quale, con riferimento al servizio postale, ha

stabilito che coincide con il servizio universale la raccolta, il

trasporto e la distribuzione della corrispondenza ordinaria, a

favore di tutti gli utenti, su tutto il territorio dello Stato, a tariffe

uniformi e a condizioni di qualità simili. Esula, viceversa, dal

servizio universale un servizio di posta espressa, con raccolta a

domicilio, possibilità di modificare la destinazione durante l’

inoltro e recapito in giornata. Ne consegue, pertanto, che il

monopolio legale si giustifica soltanto per il servizio universale,

ossia per quel complesso elementare che va assicurato a tutti, ma

non per il valore aggiunto (ossia per quei servizi che esulano da

quel complesso elementare).

Il secondo problema è quello dei costi: se, infatti, il servizio

universale deve essere garantito ad un prezzo abbordabile per

tutti, esso finisce, almeno in parte, per essere fornito sotto costo

(da qui l’ esigenza di coprire la differenza tra costi e ricavi). A tal

riguardo, va detto comunque che il diritto europeo lascia liberi gli

Stati membri dell’ Unione di decidere come finanziare i servizi di

interesse economico generale; le principali soluzioni adottate

sono le seguenti: il sostegno finanziario diretto (attraverso le

risorse del bilancio), la riserva del diritto di svolgere il servizio a

due o più imprese (diritto speciale) o ad una sola (diritto

esclusivo), i contributi degli operatori di mercato e il

finanziamento basato su princìpi di solidarietà.

• La libertà degli Stati nella scelta delle modalità di finanziamento

179

Page 180: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

del servizio universale trova, però, un limite nel divieto di aiuti di

Stato, ex art. 87 Trattato CE, il quale, infatti, stabilisce che sono

incompatibili con il mercato comune gli aiuti concessi dagli Stati

che, favorendo talune imprese o produzioni, falsino la

concorrenza. È bene precisare, tuttavia, che l’ aiuto di Stato

(vietato dal Trattato) non deve essere confuso con la

compensazione finanziaria, che rappresenta soltanto la

contropartita di obblighi di servizio pubblico imposti dagli Stati

membri (e che è ammessa dal diritto europeo). In questa

prospettiva, la Corte di Giustizia, in una pronuncia del 2003

(causa Altmark), ha indicato le quattro condizioni affinché la

compensazione non si trasformi in aiuto di Stato:

• in primo luogo, l’ impresa beneficiaria deve essere

effettivamente incaricata dell’ assolvimento degli obblighi di

servizio pubblico;

• in secondo luogo, i parametri in base ai quali verrà calcolata la

compensazione devono essere predeterminati in modo obiettivo;

• in terzo luogo, la compensazione deve essere idonea a coprire

tutti o parte dei costi originati dall’ adempimento dell’ obbligo di

servizio pubblico;

• infine, l’ impresa incaricata dell’ assolvimento degli obblighi di

servizio deve essere scelta con una gara di appalti pubblici.

• La dottrina francese ha sempre indicato (tra le regole del

servizio pubblico) il cd. principio di continuità, in virtù del quale il

servizio pubblico non tollera interruzioni; del resto, occorre

osservare che nel nostro ordinamento l’ interruzione di un servizio

pubblico è considerato un delitto (art. 331 c.p.). Il principio in

esame (e lo stesso fatto che il nostro codice penale qualifichi

come delitto l’ interruzione di un pubblico servizio) ha un solido

fondamento e un’ importanza particolare. Infatti, è necessario

sottolineare che, poiché la libertà di impresa include anche la

libertà di cessazione dell’ attività imprenditoriale (e comporta,

quindi, il rischio che un servizio di interesse generale cessi dall’

180

Page 181: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

oggi al domani), occorrono degli strumenti per impedire che ciò

avvenga; il principale di questi, nel diritto comunitario, è costituito

dagli obblighi di servizio: l’ incarico della gestione di un servizio di

interesse generale viene, cioè, conferito dai pubblici poteri ad una

o più imprese, le quali si obbligano a rendere il servizio ad un

determinato prezzo e per una durata prestabilita, ricevendo, a

loro volta, una compensazione degli obblighi di servizio.

• La soggezione alle regole della concorrenza presuppone che per

ogni servizio di interesse economico generale vi siano più imprese

in lizza (e, ovviamente, che la loro non sia una cerchia chiusa); in

realtà, è sufficiente questa osservazione per accorgersi di quanto

sia distante da questo quadro la situazione dei servizi pubblici in

Italia. Di recente, però, in seguito ad alcune direttive emanate

dalla Commissione europea, riguardanti settori fondamentali

(poste, ferrovie, telecomunicazioni, trasporto aereo e marittimo),

il nostro Paese è stato costretto ad aprire alla concorrenza la

gestione dei servizi pubblici (cd. liberalizzazione).

§6. L’ attuazione delle direttive comunitarie

L’ attuazione delle direttive comunitarie ha portato (a partire dalla

metà degli anni ’90) a profonde trasformazioni nell’ assetto dei

servizi pubblici italiani (nazionali e locali). A tal fine, si

prenderanno in considerazione i settori dell’ energia elettrica, dei

trasporti di linea e delle poste.

a) Energia

Nel 1962 (con L. 1643/62) la produzione, il trasporto e la

distribuzione dell’ energia elettrica sono state riservate allo Stato

(e il relativo servizio è stato affidato, in regime di monopolio, all’

ENEL, in virtù del principio contenuto nell’ art. 43 Cost.).

In attuazione, però, della direttiva 92/96/CE, il d.lgs. 79/99 ha

separato le varie fasi del ciclo, dichiarando libere le attività di

produzione, importazione, acquisto e vendita e mantenendo la

181

Page 182: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

riserva (allo Stato) soltanto per la trasmissione, il dispacciamento

e la distribuzione dell’ energia (sul presupposto che, in queste fasi

persiste una sorta di monopolio naturale). La riserva è realizzata a

mezzo di concessione, che il Ministro delle Attività produttive

rilascia al gestore della rete nazionale (una s.p.a. costituita dall’

ENEL). Il gestore, a sua volta, ha l’ obbligo di connettere alla rete

di trasmissione nazionale tutti coloro che ne facciano richiesta

(alle condizioni stabilite dall’ Autorità per l’ energia elettrica e il

gas, che garantisce l’ imparzialità e la neutralità del servizio,

stabilendo, tra l’ altro, anche la tariffa base).

La distribuzione viene articolata per ambiti comunali: in ciascun

territorio comunale viene rilasciata un’ unica concessione, il cui

titolare (imprese elettriche comunali o rami di azienda dell’ ENEL

trasferiti ai comuni) è tenuto a connettere alla propria rete coloro

che ne facciano richiesta.

Gli utenti finali sono distinti in due categorie: i clienti idonei (cioè,

le imprese industriali) e i piccoli consumatori.

Il quadro esposto ha, tuttavia, subìto delle modifiche a seguito

della riforma costituzionale del 2001, la quale, con un’ improvvida

previsione, ha attribuito alla competenza delle regioni la

produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’ energia

(il Parlamento, però, ha posto riparo al problema con L. 239/04).

b) Trasporti di linea

Le Ferrovie in Italia (come negli altri paesi europei) sono state

gestite dallo Stato in forma monopolistica dalla fine del XIX sec.;

con il passare del tempo, tuttavia, la crescente concorrenza delle

altre forme di trasporto e l’ obsolescenza delle infrastrutture e del

materiale (legata alla stessa gestione monopolistica) hanno

generato paurosi deficit che, nei singoli paesi, sono stati colmati

con gli aiuti di Stato (aiuti che, in materia di trasporti, sono

consentiti dal Trattato).

La direttiva 91/440/CE ha, però, introdotto una nuova regola, vale

182

Page 183: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

a dire: la separazione tra la gestione dell’ infrastruttura (che è

stata mantenuta in regime di monopolio) e la gestione del servizio

di trasporto ferroviario (che è stata, invece, liberalizzata, ossia

aperta ad una pluralità di imprese).

Occorre specificare, in ogni caso, che la separazione tra l’ attività

di gestione dell’ infrastruttura e quella di trasporto ferroviario è

stata attuata in Italia già nel 1988 (D.P.R. 277/88) attraverso la

costituzione di imprese separate per la gestione della rete, da un

lato, e l’ esercizio dell’ attività di trasporto, dall’ altro. Con un

successivo decreto ministeriale, la gestione dell’ infrastruttura è

stata rilasciata a FS (Ferrovie dello Stato) per la durata di 60 anni;

il gruppo FS si è, poi, scisso in una s.p.a. RFI (Rete ferroviaria

italiana) e in una s.p.a. Trenitalia (quest’ ultima è destinata a

concorrere con le altre imprese ferroviarie che abbiano ottenuto la

licenza dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti).

c) Poste

Nel nostro paese il servizio postale (raccolta, trasporto e

distribuzione della corrispondenza) è stato esercitato in regime di

monopolio dello Stato (dal 1973), che lo ha gestito a mezzo dell’

apposita azienda di Stato. Questo assetto è stato, però,

modificato con il d.lgs. 261/99 (in attuazione della direttiva

96/97/CE); in virtù di tale modifica, nell’ ambito del servizio, viene

oggi distinto il servizio universale dai servizi che esulano da

questo: il servizio universale comprende la raccolta, il trasporto e

lo smistamento di invii postali fino a 2 kg.; la raccolta, il trasporto,

lo smistamento e la distribuzione di invii postali fino a 20 kg.; i

servizi relativi agli invii raccomandati e agli invii assicurati.

Il servizio universale deve essere continuo (cioè, per tutta la

durata dell’ anno), diffuso in tutti i punti del territorio nazionale e

accessibile a tutti.

Dal punto di vista dei soggetti abbiamo, da un lato, un fornitore

del servizio universale (Poste s.p.a., nata dalla vecchia Azienda

delle Poste), affiancato da titolari di licenza individuale; e, dall’

183

Page 184: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

altro, determinate imprese che, sulla base di un’ autorizzazione

rilasciata dal Ministro delle Comunicazioni, offrono al pubblico

servizi non rientranti nel servizio universale (cd. servizi a valore

aggiunto).

Sezione VI

L’ attività di diritto di privato

§1. Gli interessi pubblici e gli strumenti di diritto privato

Come sappiamo le pubbliche amministrazioni sono tenute a

soddisfare interessi pubblici; non sono, però, obbligate a farlo

sempre mediante l’ utilizzo di poteri pubblicistici e con l’ adozione

di provvedimenti amministrativi. Ciò significa, quindi, che gli

interessi pubblici possono essere soddisfatti anche con strumenti

di diritto privato (così, ad es., il terreno necessario per realizzare

un’ opera pubblica, oltre ad essere espropriato, può anche essere

comprato dall’ ente pubblico; allo stesso modo, il Servizio

sanitario nazionale può erogare le sue prestazioni non solo

attraverso gli ospedali pubblici, ma anche attraverso le cliniche

private).

Quanto detto trova conferma anche nella Costituzione, la quale,

184

Page 185: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

infatti, indica come doverosi determinati compiti pubblici

(qualificandoli come interessi pubblici: sanità, previdenza,

assistenza, istruzione, etc.), ma riconosce, allo stesso tempo, ai

privati la libertà o il diritto di perseguirli. In questo modo, la

nostra Carta fondamentale ammette che interessi pubblici

possano essere soddisfatti da soggetti privati (e, quindi, con

strumenti di diritto privato). Ovviamente, se interessi pubblici

possono essere soddisfatti da soggetti privati è evidente che gli

stessi interessi possono essere egualmente soddisfatti da soggetti

pubblici mediante strumenti di diritto privato (si può, ad es.,

immaginare un sistema scolastico, le cui prestazioni formino il

contenuto di contratti identici a quelli conclusi da una scuola

privata con i suoi allievi).

A questa considerazione di fondo ne va aggiunta un’ altra, che

riguarda, da un lato, il regime giuridico dell’ ente pubblico e, dall’

altro, la sua struttura di azienda. È necessario sottolineare, infatti,

che la persona giuridica pubblica è, innanzitutto, una persona

giuridica, munita della stessa capacità di agire di cui dispone la

persona fisica (con l’ esclusione, beninteso, di quei poteri, diritti e

facoltà che postulano necessariamente la fisicità della persona):

così, ad es., che il comune o l’ INPS possano concludere un

contratto non dipende dall’ espresso conferimento legislativo di

una competenza a contrarre, ma dipende dalla loro qualità di

persona giuridica.

Per quanto riguarda l’ altro aspetto (l’ ente pubblico come

azienda), va specificato che l’ apparato pubblico è un’

organizzazione che ha bisogno di risorse (inputs) necessarie per

raggiungere i fini che le sono assegnati e conseguire, così, i

risultati voluti (outputs); tali risorse sono, come sappiamo, quelle

umane (impiegati), quelle finanziarie (denaro) e quelle materiali

(ad es., i locali dove ospitare gli uffici, il materiale di cancelleria, i

computers per l’ amministrazione della giustizia, etc.). Ora,

qualcuna di queste risorse viene acquisita mediante strumenti

185

Page 186: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

pubblicistici (si pensi al denaro che proviene dal prelievo

tributario); altre, invece, sono ottenute mediante contratto, vale a

dire attraverso lo strumento principale che consente all’

amministrazione di acquisire le risorse necessarie per lo

svolgimento delle sue attività (quali, ad es., l’ attività di

certificazione e di realizzazione di opere pubbliche o l’ attività di

tutela dell’ ordine pubblico).

§2. I contratti delle pubbliche amministrazioni

L’ autonomia contrattuale dell’ amministrazione si manifesta in

modi diversi, tre dei quali sono essenziali:

• la libertà di contrarre (e, quindi, anche di non contrarre, ossia di

non concludere il contratto);

• la libertà di scegliere la controparte (ad es., vendo a Tizio, ma

non a Caio);

• la libertà di convenire le condizioni contrattuali (ad es., vendo a

Tizio per 10, ma pretendo da Caio 100, se vuole comprare).

Su tutti e tre i piani, però, l’ autonomia dell’ amministrazione è

limitata, dal momento che, se l’ autorità o il funzionario che per

essa agisce fossero liberi di scegliere il contraente, la scelta

potrebbe ricadere su di una determinata persona, dando luogo,

così, a dei favoritismi inaccettabili (cd. accordi collusivi).

Da quanto detto discendono, pertanto, due fondamentali regole:

• la prima regola sottrae all’ amministrazione e ai suoi agenti la

scelta del contraente, affidandola, invece, a dei meccanismi

oggettivi (l’ asta pubblica e la licitazione privata);

• la seconda regola prevede, da un lato, che le clausole

fondamentali del contratto devono essere determinate prima

della stipulazione e a mezzo di un atto diverso dal contratto

stesso (ad es., capitolato, disciplinare, etc.) e, dall’ altro, che il

contenuto di quest’ atto ulteriore deve essere approvato da un

organo diverso da quello competente a scegliere il contraente e a

sottoscrivere il contratto (ad es., nell’ ente locale competente ad

186

Page 187: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

approvare il contenuto dell’ atto è l’ organo consiliare).

§3. L’ influenza del diritto europeo

La materia dei contratti delle pubbliche amministrazioni ha subìto

la profonda influenza del diritto europeo. La considerazione dalla

quale gli organi della Comunità hanno preso le mosse più di trent’

anni fa è la seguente: il Trattato vuole garantire la libera

circolazione delle merci e dei servizi e la libertà di stabilimento

delle imprese; tuttavia, queste libertà incontrano forti ostacoli al

loro esercizio nelle normative degli Stati membri, perché questi,

nel disciplinare i contratti delle pubbliche amministrazioni,

dettano regole che limitano la legittimazione a contrarre alle

imprese nazionali (e i cui effetti si manifestano soprattutto nel

mercato degli appalti di lavori, di servizi e di forniture).

Al fine di aggirare quest’ ostacolo, pertanto, la Commissione e il

Consiglio europeo hanno adottato determinate direttive volte al

riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e

amministrative degli Stati membri per assicurare l’ instaurazione

e il funzionamento del mercato interno. Va anche detto che

queste direttive, in una prima fase, hanno regolato

separatamente gli appalti di lavori pubblici, gli appalti di servizi e

quelli di forniture; mentre più di recente è stata emanata una

direttiva unica (18/04); è bene precisare, però, che in virtù di una

precedente direttiva (17/04), restano disciplinati separatamente

gli appalti nei settori che in passato venivano definiti settori

esclusi e che oggi sono, invece, qualificati come settori separati:

gas, energia elettrica, acqua, trasporti, servizi postali e

sfruttamento di area geografica.

La legge comunitaria (L. 62/05) ha, poi, delegato il Governo a

recepire le due direttive (d.lgs. 163/06), raccogliendo in un unico

testo sia la disciplina degli appalti di rilevanza comunitaria sia

quella degli appalti sotto soglia comunitaria [vale a dire: sia le

direttive che stabiliscono una soglia di valori (cioè, un importo), al

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Page 188: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

di sopra della quale esse vincolano gli Stati membri, sia quelle

che stabiliscono una soglia, al di sotto della quale gli stessi Stati

conservano un certo margine di autonomia].

§4. Il procedimento contrattuale

Il contratto che viene concluso da una pubblica amministrazione è

collocato a chiusura di un procedimento, composto dai seguenti

atti:

• la deliberazione a contrattare;

• il bando di gara;

• la presentazione delle offerte;

• l’ apertura delle buste contenenti le offerte e l’ aggiudicazione;

• l’ approvazione dell’ aggiudicazione;

• la stipulazione del contratto.

a) la deliberazione a contrattare

La separazione tra il momento della determinazione dei contenuti

fondamentali del contratto e il momento della contrattazione vera

e propria (scelta del contraente e stipulazione) è formulata

chiaramente nell’ ordinamento degli enti locali: ai sensi, infatti,

dell’ art. 192 d.lgs. 267/00 la stipulazione dei contratti deve

essere preceduta da un’ apposita determinazione del

responsabile del procedimento di spesa, indicante:

• il fine che con il contratto si intende perseguire;

• l’ oggetto del contratto, la sua forma e le clausole essenziali;

• le modalità di scelta del contraente e le ragioni che ne sono alla

base.

La sequenza sopra descritta, anche se enunciata esplicitamente

per gli enti locali, è valida per tutte le amministrazioni, ad

eccezione dei ministeri (in questi ultimi, infatti, vi è una sorta di

inversione, perché il contratto concluso deve essere, a sua volta,

approvato con decreto dirigenziale e successivamente sottoposto

al controllo della Corte dei Conti, qualora superi l’ importo

188

Page 189: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

previsto dalla normativa comunitaria).

b) il bando di gara

La determinazione di contrarre (che è assunta con la delibera)

viene esternata e pubblicizzata con il bando di gara, che

rappresenta l’ atto attraverso il quale l’ amministrazione rende

pubblica la volontà di addivenire ad un contratto. Al riguardo, è

necessario sottolineare che una parte della dottrina assimila il

bando all’ offerta al pubblico, ex art. 1336 c.c. (che vale come

proposta contrattuale), mentre un’ altra parte della dottrina lo

assimila ad una invitatio ad offerendum, ossia ad un invito a fare

un’ offerta (in questo modo, però, le parti si invertono, perché la

proposta non viene più dall’ amministrazione, ma dalla

controparte; sicché, l’ amministrazione, accettando, dà luogo alla

conclusione del contratto).

La normativa europea richiede che al bando sia data la massima

pubblicità: anche con la pubblicazione nella G.U. delle Comunità

europee (per gli appalti sopra soglia), in modo che dell’ appalto,

indetto con il bando, vengano a conoscenza le imprese europee

interessate, permettendo alle stesse di concorrere (d.lgs. 163/06).

Il bando deve fornire alle imprese le informazioni essenziali per la

formulazione dell’ offerta: importo, durata, criteri di

aggiudicazione, documentazione da presentare, termini e requisiti

di partecipazione; nonostante, però, le linee generali siano

regolate dalla legge, ciascuna amministrazione può introdurre nel

bando clausole specifiche, le quali vincolano la stessa

amministrazione, il seggio di gara e le imprese partecipanti (in tal

senso, si dice che il bando di gara costituisce la lex specialis del

procedimento). Tali clausole (ad avviso della giurisprudenza)

possono essere di due tipi: quelle che comportano l’ impossibilità

di partecipare (cioè, che precludono ad una determinata impresa

la possibilità di partecipare alla gara o rendono nulla l’ offerta da

questa presentata) e quelle che producono un effetto lesivo

189

Page 190: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

durante la gara (cioè, l’ esclusione di un’ impresa e l’

aggiudicazione della gara ad un’ altra impresa).

Le clausole del primo tipo devono essere immediatamente

impugnate (se l’ impresa vuole ottenere l’ ammissione alla gara);

in quelle del secondo tipo, invece, l’ impresa può limitarsi ad

impugnare l’ esito della gara congiuntamente al bando.

c) la legittimazione ad offrire

In Italia vigeva la regola, dal 1962, che limitava la partecipazione

alle gare d’ appalto indette dalle pubbliche amministrazioni

(superiori ad una certa soglia di valore) alle ditte iscritte nell’ Albo

nazionale costruttori; iscritte, però, per un certo importo (sicché

non potevano partecipare a gare d’ appalto di importo più

elevato) e per una determinata specializzazione (ad es., gasdotti,

strade, dighe, etc.). Tutto ciò comportava non solo l’ esclusione

delle imprese straniere dalla partecipazione alla gara, ma se si

considera la presenza di norme a favore di certi territori (ad es., il

Mezzogiorno) o di certe categorie di imprese (ad es., le imprese

cooperative) ne risultava anche una vera e propria

predeterminazione dell’ offerta.

Quest’ assetto è stato, però, modificato dal diritto comunitario, il

quale ha fatto leva sui princìpi di libertà di circolazione delle merci

e dei servizi, di libertà di stabilimento e di libertà di movimento di

capitali (si tratta di princìpi che, come detto in precedenza,

risultano violati da normative interne, nel momento in cui queste

riservano gli appalti alle imprese nazionali). In questa prospettiva,

pertanto, è necessario che oggi gli appalti vengano aggiudicati

con procedure concorsuali e siano pubblicizzati in modo adeguato

(bandi europei); diventa essenziale, altresì, che i bandi non

contengano clausole discriminatorie e che la partecipazione delle

imprese non sia subordinata all’ iscrizione in albi gestiti a livello

nazionale.

Ovviamente, non può essere ignorata l’ esigenza che l’ impresa

190

Page 191: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

partecipante (alla gara per l’ appalto di lavori, di servizi o di

forniture) sia qualificata (che fornisca, cioè, garanzie di buona

esecuzione); pertanto, in luogo dell’ iscrizione nei relativi albi, il

diritto europeo richiede che l’ impresa partecipante abbia una

capacità economica, finanziaria e tecnica adeguata alla natura e

al contenuto dell’ appalto (in particolare, la capacità economico-

finanziaria viene comprovata dalle dichiarazioni bancarie, dai

bilanci e dal fatturato; la capacità tecnica, invece, è comprovata

dall’ elenco delle principali commesse nel triennio precedente,

dall’ elenco delle indicazioni dei tecnici, dei titoli di studio da loro

posseduti, delle attrezzature tecniche a disposizione, etc.).

Per allargare, poi, la platea delle imprese ammesse a partecipare

alle gare, la normativa europea ha introdotto un particolare

istituto: l’ associazione temporanea di imprese. Tali associazioni

possono essere di tipo orizzontale, nel qual caso imprese che

forniscono lo stesso bene o rendono lo stesso servizio o realizzano

la stessa specie di lavoro mettono insieme le proprie forze per

moltiplicare la capacità economica, finanziaria e tecnica, in modo

da poter partecipare alle gare per l’ aggiudicazione di appalti (ai

quali, in dipendenza della loro limitata dimensione, non

potrebbero aspirare).

Le associazioni temporanee possono anche essere di tipo

verticale: in particolare, nell’ appalto di lavori (ma il criterio si

applica anche per gli appalti di servizi e forniture), per

raggruppamento temporaneo di imprese di tipo verticale si

intende una riunione di concorrenti, in cui uno di essi realizza i

lavori della categoria prevalente, mentre gli altri realizzano i

lavori scorporabili (ad es., gli impianti di riscaldamento).

Infine, sempre allo scopo di allargare il novero delle imprese

abilitate a lavorare per le pubbliche amministrazioni, la normativa

europea prevede e disciplina anche il subappalto: ossia lo

scorporo di una quota delle prestazioni richieste all’ appaltatore e

il loro affidamento (da parte dello stesso appaltatore) ad altra

191

Page 192: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

impresa minore (cd. ausiliaria).

d) le amministrazioni aggiudicatrici

Lo Stato, le regioni e gli enti locali, allo scopo di aggirare la

normativa comunitaria, hanno spesso concluso i contratti di

appalto a mezzo di soggetti giuridici diversi da sé, ma che ne

costituiscono, in ogni caso, una sorta di longa manus (ad es., un’

azienda di Stato, una s.p.a., un’ associazione, etc.). Per arginare il

problema, allora, la direttiva comunitaria 18/04, recepita dall’

Italia con d.lgs. 163/06, ha incluso, tra le amministrazioni

aggiudicatrici, oltre allo Stato e agli enti pubblici, anche gli

organismi di diritto pubblico, intendendosi per tali qualsiasi

organismo:

• istituito per soddisfare bisogni di interesse generale (e non

avente carattere commerciale o industriale);

• avente personalità giuridica;

• e la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato

o dagli enti locali o la cui gestione sia soggetta al controllo di

questi ultimi.

Al riguardo, va precisato che la Corte di Giustizia CE ritiene che le

tre condizioni richieste debbano sussistere congiuntamente,

affinché la struttura possa essere qualificata come organismo di

diritto pubblico.

e) la scelta del contraente

Per quanto riguarda la scelta del contraente, il diritto europeo

(direttiva 18/04) prevede quattro modalità: la procedura aperta, la

procedura ristretta, la procedura negoziata e il dialogo

competitivo.

La procedura aperta è quella in cui ogni operatore economico può

presentare un’ offerta (si tratta, in altri termini, dell’ asta

pubblica).

La procedura ristretta, invece, è quella in cui ogni operatore

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Page 193: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

economico può chiedere di partecipare; ma soltanto gli operatori

economici invitati dalle stazioni appaltanti (cioè, dalle

amministrazioni) potranno presentare un’ offerta (la figura in

esame corrisponde all’ antica licitazione privata, alla quale

partecipavano le imprese invitate dall’ amministrazione con la cd.

lettera-invito, contente l’ indicazione dell’ oggetto del contratto,

del luogo, del giorno e dell’ ora stabiliti per la presentazione delle

offerte).

È chiaro che la limitazione della partecipazione alle sole ditte

prescelte dall’ amministrazione ha la funzione di escludere dal

confronto concorrenziale imprese che potrebbero non essere

idonee; presenta, però, l’ inconveniente di rimettere all’

amministrazione una scelta che potrebbe essere ispirata da

ragioni di favoritismo. Per ovviare a questo problema, il legislatore

ha modificato l’ istituto, introducendo una fase di preselezione: in

tal modo, l’ amministrazione, invece di diramare direttamente le

lettere-invito, pubblica un avviso di gara contenente l’ indicazione

dell’ oggetto, dell’ importo del contratto e dei requisiti di

partecipazione; una volta pubblicato l’ avviso di gara, le imprese

che intendono partecipare e posseggono i requisiti richiesti

possono chiedere di essere invitate entro il termine stabilito nell’

avviso; a questo punto, la stazione appaltante dirama l’ invito a

tutti coloro che hanno chiesto di partecipare (previa verifica del

possesso dei requisiti).

La procedura negoziata, invece, è quella nella quale le stazioni

appaltanti consultano gli operatori economici da esse scelti e

negoziano con uno o più di essi le condizioni dell’ appalto (la

figura in esame corrisponde alla nostra vecchia trattativa privata).

La normativa comunitaria distingue due diverse modalità di

procedura negoziata:

• la procedura negoziata preceduta da un bando, qualora si sia

rivelata infruttuosa una procedura aperta o ristretta;

• la procedura negoziata non preceduta da un bando nei casi di

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Page 194: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

estrema urgenza (non imputabile all’ amministrazione appaltante)

ovvero nel caso in cui il contratto debba essere affidato ad un

operatore economico determinato (ad es., perché titolare di diritti

esclusivi).

Il dialogo competitivo, infine, è una procedura nella quale la

stazione appaltante, tenuto conto della complessità dell’ appalto,

avvia un dialogo con i candidati ammessi a tale procedura, al fine

di elaborare delle soluzioni atte a soddisfare le sue necessità; in

relazione a tali soluzioni, i candidati selezionati presenteranno le

proprie offerte.

Per quanto riguarda il rapporto che intercorre tra le procedure

analizzate, è bene precisare che la stazione appaltante deve

attenersi, di regola, alla procedura aperta o a quella ristretta

(quest’ ultima, però, deve essere preferita qualora il contratto

abbia ad oggetto non solo l’ esecuzione, ma anche la

progettazione ovvero qualora il criterio di aggiudicazione sia

quello dell’ offerta economicamente più vantaggiosa); viceversa,

il ricorso alla procedura negoziata e al dialogo competitivo è

ammesso soltanto nei casi espressamente previsti.

Infine, è necessario sottolineare che nelle procedure ristrette e

negoziate e nel dialogo competitivo l’ amministrazione deve

stabilire il numero massimo delle imprese da invitare (la cd.

forcella), qualora lo richieda la difficoltà dell’ opera, della fornitura

o del servizio (vi è comunque un numero minimo di imprese da

invitare, che è di dieci nelle procedure ristrette e di sei in quelle

negoziate).

f) il criterio di aggiudicazione

Il criterio di aggiudicazione è sicuramente uno degli aspetti più

tormentati della disciplina dei pubblici appalti. Nonostante ciò, il

diritto europeo è comunque assestato su due criteri: il criterio del

prezzo più basso ed il criterio dell’ offerta economicamente più

vantaggiosa.

194

Page 195: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Il prezzo più basso è quello che corrisponde alla percentuale di

ribasso più elevata sul prezzo posto a base d’ asta (ad es., base d’

asta: 1 milione di euro; ribasso più elevato: 10%; prezzo

contrattuale: 900 mila euro); è bene precisare che si parla di

percentuale di ribasso perché la base d’ asta costituisce il tetto

che le imprese partecipanti non devono superare, chiedendo un

prezzo più elevato. La commissione o il seggio di gara, aperte le

buste (contenenti l’ offerta economica) aggiudica l’ appalto all’

impresa che ha offerto il prezzo più basso.

Quando, invece, il criterio prescelto è quello dell’ offerta

economicamente più vantaggiosa, il bando di gara stabilisce gli

elementi di valutazione (ad es., il prezzo, la qualità, il pregio

tecnico, le caratteristiche estetiche e funzionali, le caratteristiche

ambientali, il costo di utilizzazione e di manutenzione, la

redditività, la data di consegna, etc.) e il peso da attribuire a

ciascuno di essi (ad es., al prezzo compete il 40% del punteggio a

disposizione della commissione di gara).

g) la verifica dell’ anomalia

Una questione di rilievo, in tema di appalti, è quella relativa alla

presentazione di offerte anomale (di quelle offerte, cioè, che

presentano un ribasso talmente eccessivo rispetto all’ oggetto del

contratto da far dubitare dell’ affidabilità delle stesse); in

presenza di un’ offerta anomala, il legislatore non distingue più

tra appalti sopra soglia e sotto soglia (per i quali sanciva l’

esclusione automatica) ed il procedimento di verifica in

contraddittorio si applica ad entrambe le tipologie di appalti.

L’ ipotesi dell’ esclusione automatica negli appalti sotto soglia non

è, però, del tutto scomparsa: essa, infatti, è ancora prevista nel

settore dei lavori pubblici, dei servizi e delle forniture.

195

Page 196: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

h) la stipulazione del contratto

Le parti sottoscrivono il testo (cioè, il contratto in senso stretto),

nel quale sono riprodotte alcune clausole del bando ed è indicato

il prezzo risultante dall’ offerta. In alcuni casi la stipulazione ha

carattere meramente riproduttivo di un accordo che si è

perfezionato al momento dell’ aggiudicazione; in altri casi, invece,

la stipulazione coincide con la conclusione del contratto (ciò

accade, ad es., nella procedura negoziata, ove manca una fase di

aggiudicazione, distinta dalla fase di stipulazione; e si verifica,

talvolta, anche quando trova applicazione il criterio dell’ offerta

economicamente più vantaggiosa).

i) schemi particolari

La prassi e la legislazione di settore hanno introdotto alcune

varianti allo schema contrattuale descritto. Analizziamole

singolarmente.

1° variante: le stazioni appaltanti possono acquistare lavori,

servizi e forniture facendo ricorso a centrali di committenza da

esse istituite, anche associandosi o consorziandosi (la

contrattazione viene, così, accentrata in poche amministrazioni).

2° variante: una pluralità di appalti può essere aggiudicata ad uno

o più operatori economici sulla base di un accordo quadro, nel

quale vengono stabilite le clausole dei futuri appalti (in

particolare, per quanto riguarda i prezzi e le quantità previste).

3° variante: il sistema dinamico di acquisizione è un processo

interamente elettronico per acquisti di uso corrente, limitato nel

tempo (4 anni) e aperto a tutti gli operatori economici (che

presentino un’ offerta adeguata ai criteri di aggiudicazione

enunciati nel bando); l’ impresa inclusa nel sistema ha il diritto di

essere invitata in occasione di ogni appalto specifico che abbia ad

oggetto i beni, in funzione dei quali il sistema è stato creato.

4° variante: una variante dell’ appalto di lavori è costituita dalla

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Page 197: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

concessione dei lavori pubblici, che ha ad oggetto la

progettazione e l’ esecuzione di opere pubbliche o di pubblica

utilità; e si caratterizza in funzione del corrispettivo che, di regola,

consiste nel diritto di gestire o di sfruttare economicamente le

opere realizzate. La concessione, tranne rare eccezioni, non può

avere durata superiore ai 30 anni.

5° variante: i lavori possono essere realizzati anche con capitale

privato qualora alla realizzazione segua una gestione lucrativa: in

tal caso, quindi, vi è una partecipazione del privato alla spesa

(partecipazione che è disciplinata nella cd. finanza di progetto). In

questa prospettiva, l’ amministrazione, nell’ ambito dei

programmi di opere pubbliche che intende realizzare negli anni

successivi, indica quelli suscettibili di attuazione a mezzo di

capitali privati (in quanto suscettibili di gestione economica); fatto

ciò, i soggetti in possesso dei requisiti tecnici, organizzativi,

finanziari e gestionali (i cd. promotori) presentano una proposta; e

se questa viene giudicata di pubblico interesse, l’

amministrazione indìce una gara, a seguito della quale viene

scelto il concessionario.

Sezione VII

La responsabilità della pubblica amministrazione

§1. Le premesse storiche

Il tema della responsabilità dello Stato (e, quindi, dell’

amministrazione pubblica) per i danni cagionati a terzi ha sempre

costituito un punto molto importante e, allo stesso tempo,

controverso del nostro sistema giuridico; ciò risulta confermato

197

Page 198: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

dal processo e dall’ evoluzione storica degli orientamenti della

dottrina e della giurisprudenza. Invero, nella seconda metà del

XIX sec. la situazione nel nostro Paese si presentava molto

articolata: ai fini della responsabilità dell’ amministrazione per

danni cagionati a terzi, la nostra giurisprudenza, infatti,

distingueva tra atti di imperio (contro i quali non era prevista

nessuna responsabilità dello Stato e degli enti pubblici) e atti di

gestione (per i quali, invece, veniva riconosciuta la responsabilità

dello Stato e degli enti pubblici secondo le regole comuni). La

distinzione tra atti di imperio e atti di gestione veniva fedelmente

espressa in una sentenza della Corte di Cassazione del 1897: in

questa pronuncia, infatti, il Supremo Collegio stabilì che il comune

di Roma non poteva essere chiamato a rispondere del furto di

animali, avvenuto nella stalla comunale, ai danni di chi aveva

depositato gli animali in vista della successiva macellazione nel

mattatoio pubblico; e ciò perché, essendo la custodia temporanea

delle bestie strumentale alla successiva macellazione (che era

funzione di governo e non mera gestione patrimoniale), non

potevano trovare applicazione i princìpi contrattuali sulla

responsabilità del depositario.

La sentenza in esame, tuttavia, fu aspramente criticata dalla

dottrina, la quale negava che la distinzione tra atti di imperio e

atti di gestione potesse essere posta a base del regime della

responsabilità civile della pubblica amministrazione; e questo

perché anche un atto di imperio (un atto amministrativo

illegittimo) poteva essere illecito, in presenza di un concorso di

colpa del funzionario (anche in tal caso si cagionava, cioè, un

danno verso terzi; un danno che dava diritto al risarcimento del

danno); non poteva, quindi, escludersi una responsabilità civile

della pubblica amministrazione nell’ esercizio di un potere

amministrativo (o di imperio).

In virtù di queste considerazioni, nel XX sec. la distinzione tra atti

di imperio e atti di gestione, come criterio utilizzato per

198

Page 199: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

determinare il regime della responsabilità, venne abbandonata e

si affermò, pertanto, il principio dell’ ammissibilità della

responsabilità della pubblica amministrazione in ogni caso,

indipendentemente dalla natura del potere esercitato (di imperio

o di gestione).

Tutto ciò in teoria, perché nella pratica, almeno fino alla pronuncia

della Cassazione 500/99, la giurisprudenza ha ragionato in questi

termini: poiché il danno ingiusto presuppone la lesione di un

diritto soggettivo (ma non di un interesse legittimo), perché

contra jus, e all’ atto amministrativo viene attribuito l’ effetto di

degradare il diritto soggettivo a interesse legittimo, il danno

prodotto dall’ atto amministrativo (e, quindi, nell’ esercizio di un

potere di imperio) non è risarcibile (a meno che il giudice

amministrativo non annulli l’ atto, facendo rivivere il diritto

soggettivo).

§2. L’ articolo 28 della Costituzione

Il discorso sulla responsabilità della pubblica amministrazione è

stato ripreso dall’ art. 28 Cost., il quale, infatti, stabilisce che i

funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono

direttamente responsabili, secondo le leggi civili, penali e

amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti.

In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti

pubblici.

Da questa disposizione si possono ricavare diverse indicazioni.

1° indicazione: la responsabilità civile degli agenti (cioè, dei

funzionari e dei dipendenti) e la responsabilità dello Stato o dell’

ente pubblico sono coestese; nel senso che laddove c’è la

responsabilità dell’ agente c’è anche la responsabilità della

pubblica amministrazione; e, viceversa, non dovrebbe esserci

responsabilità della pubblica amministrazione senza

responsabilità dell’ agente.

Sia l’ amministrazione che il suo agente, quindi, rispondono

199

Page 200: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

civilmente dei danni cagionati a terzi; qualora, però, sia stato

cagionato un danno erariale (che può consistere anche nella

somma di denaro che l’ amministrazione è obbligata a pagare ai

terzi danneggiati), l’ amministrazione ha il diritto di rivalersi sull’

agente, che sarà chiamato dinanzi al giudice della responsabilità

amministrativa (la Corte dei Conti).

2° indicazione: la responsabilità civile degli agenti e la

responsabilità civile dell’ amministrazione sono disciplinate dalle

stesse regole che valgono nei rapporti tra privati; è in questo

senso che va letto l’ art. 28 Cost., nella parte in cui prevede il

rinvio alle leggi civili, cioè al codice civile (oltre che alle leggi

penali e amministrative).

3° indicazione: il terzo presupposto della responsabilità prevista

dall’ art. 28 Cost. è il compimento, da parte degli agenti, di atti in

violazione di diritti; ciò significa, quindi, che quel che conta non è

il fatto che la violazione sia conseguenza di un mero

comportamento posto in essere dal dipendente pubblico (ossia

nell’ esercizio di un attività di gestione) ovvero di un

provvedimento amministrativo (che costituisce esercizio di un

potere di imperio), ma conta il fatto che, operando, l’ agente

abbia violato un diritto del privato.

Una parte della dottrina ritiene, poi, che il riferimento

costituzionale all’ inciso violazione di diritti negherebbe la

risarcibilità degli interessi legittimi; sul punto, in realtà, l’

Assemblea Costituente, non essendosi pronunciata all’ epoca,

sembra aver lasciato aperta la strada a qualsiasi tipo di

conclusione (non bisogna dimenticare, però, che la formula

violazione di diritti rappresenta il frutto dell’ estensione della

formula originariamente proposta dalla Costituente: violazione dei

diritti di libertà sanciti dagli artt. 13 ss., senza alcun riferimento

alla contrapposizione tra diritto ed interesse).

4° indicazione: mentre gli agenti rispondono direttamente degli

atti compiuti in violazione di diritti, alla pubblica amministrazione

200

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la responsabilità civile è estesa.

Ora, posta la questione in questi termini, si potrebbe pensare che

la responsabilità dell’ amministrazione diventi indiretta o

sussidiaria (in tal senso si espresse l’ Onorevole Nobile all’

Assemblea Costituente); in realtà (come affermò l’ Onorevole

Pisanelli) non è così, perché, al contrario, è il principio della

responsabilità dell’ amministrazione che viene esteso alle persone

fisiche (dipendenti) che agiscono per essa.

Con ciò si vuol dire, quindi, che con l’ art. 28 Cost. non si è inteso

trasformare la responsabilità civile della pubblica amministrazione

da diretta in indiretta (se così fosse stato ne sarebbe risultata

indebolita la garanzia del cittadino leso, dal momento che il

patrimonio dell’ amministrazione è molto più capiente); viceversa,

lo scopo perseguito è stato quello di creare una sorta di

parallelismo tra la responsabilità diretta dell’ amministrazione e la

responsabilità (sempre diretta) degli agenti (in tal modo, del fatto

dannoso ne rispondono solidalmente sia l’ amministrazione che

gli agenti).

La legislazione ordinaria, tuttavia, ha alterato questo parallelismo:

l’ art. 23, D.P.R. 3/57 ha stabilito, infatti, che l’ impiegato statale

risponde solo quando abbia agito con dolo o colpa grave; occorre

precisare, tra l’ altro, che questa limitazione (al dolo o alla colpa

grave) è stata estesa a tutti gli agenti della pubblica

amministrazione, siano essi funzionari onorari o professionali o

impiegati (L. 639/96). A differenza di questi, invece, l’

amministrazione risponde, secondo i princìpi civilistici, anche per

colpa lieve (questa esonera l’ agente, ma non la pubblica

amministrazione).

Viceversa, qualora il dipendente abbia agito allo scopo di

perseguire un fine privato ed egoistico (estraneo, quindi, all’

amministrazione), lui solo risulterà responsabile, perché manca in

questo caso un collegamento tra le finalità dell’ amministrazione

e le finalità dell’ agente.

201

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§3. La responsabilità aquiliana (o extracontrattuale)

a) i criteri di imputazione della responsabilità

L’ art. 28 Cost., sottoponendo la responsabilità degli agenti (e,

quindi, anche quella della pubblica amministrazione) alle leggi

civili, enuncia il principio della piena soggezione della pubblica

amministrazione alle forme di responsabilità civile previste dal

codice civile.

Ora, come sappiamo, il codice prevede diverse forme di

responsabilità civile, quali: la responsabilità fondata sulla colpa

(dolo o colpa, ex art. 2043), la responsabilità, per i danni

cagionati dall’ incapace, di chi è tenuto alla sorveglianza (art.

2047), la responsabilità dei genitori, tutori, precettori e maestri d’

arte (art. 2048), la responsabilità dei padroni e committenti (art.

2049), la responsabilità per l’ esercizio di attività pericolose (art.

2050), la responsabilità per il danno cagionato da cose in

custodia, da animali, da rovina di edificio o da circolazione di

veicoli (artt. 2051-2054).

Ora, per la vastità dei suoi compiti e per l’ ampiezza dei suoi beni,

è chiaro che la pubblica amministrazione (fatta eccezione per la

responsabilità dei genitori) è suscettibile di incorrere in ciascuna

di dette forme di responsabilità: essa gestisce, ad es., i reparti

neurologici degli ospedali pubblici e, quindi, deve sopportare i

danni prodotti a terzi da parte di persone incapaci di intendere e

di volere; amministra scuole e, quindi, risponde (come gli

insegnanti) dei danni cagionati dagli allievi; esercita attività

pericolose, come il servizio ferroviario, e pertanto deve rispondere

degli eventuali danni cagionati; è titolare di beni e, quindi, è

tenuta alla loro custodia (si pensi, ad es., ai danni cagionati dalla

cattiva manutenzione delle strade).

Ovviamente, la forma più frequente di responsabilità della

pubblica amministrazione è quella prevista dall’ art. 2043 c.c. (cd.

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responsabilità aquiliana o extracontrattuale), ai sensi del quale il

fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto,

obbliga colui che lo ha commesso a risarcire il danno (è bene

precisare che la questione più controversa, nell’ applicazione di

questo principio alla pubblica amministrazione, è se per danno

ingiusto debba intendersi solo quello conseguente alla lesione di

un diritto soggettivo o anche quello derivante dalla lesione di un

interesse legittimo).

b) la responsabilità nell’ esercizio di una potestà amministrativa

In applicazione dei princìpi civilistici, un illustre studioso del diritto

amministrativo (Guicciardi) ha affermato che, affinché si possa

parlare di una responsabilità della pubblica amministrazione,

debbono ricorrere le seguenti condizioni:

• l’ esistenza del fatto o dell’ atto, delle cui conseguenze

giuridiche si disputa;

• l’ imputabilità dell’ atto o del fatto all’ amministrazione

(piuttosto che alla persona del funzionario che lo ha posto in

essere);

• l’ illiceità dell’ atto o del fatto;

• l’ esistenza di un danno giuridico, consistente nella privazione,

diminuzione o alterazione di un diritto soggettivo del cittadino;

• l’ esistenza di un rapporto di causalità tra l’ atto illecito e il

danno prodotto (con esclusione, quindi, dei casi in cui il danno sia

derivato da cause di forza maggiore o dal fatto stesso del

danneggiato).

Questo schema, elaborato in applicazione dell’ art. 2043 c.c.,

subisce, tuttavia, delle alterazioni nei casi in cui la responsabilità

non dipenda più dalla colpa (qualunque fatto doloso o colposo),

ma da altri fattori: basti osservare, infatti, che in alcuni di questi

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casi la colpa diventa del tutto irrilevante (si pensi, ad es., alla

responsabilità dei padroni e committenti per il fatto dei commessi,

ex art. 2049 c.c., che dà luogo ad una vera e propria

responsabilità oggettiva); in altri casi, invece, viene in rilievo il

solo rapporto di causalità (artt. 2051-2052 c.c.: si pensi, ad es., ai

danni cagionati da cose in custodia o da animali; a ben vedere, in

queste ipotesi, la colpa non è più una qualificazione del fatto, ma

del soggetto che è legato da un rapporto di custodia o di

proprietà con la cosa o con l’ animale dannoso); in altri casi,

infine, la colpa che conta non è quella dell’ autore del fatto

dannoso (ad es., del minore, dell’ incapace o dell’ alunno), ma

quella di chi ha il dovere di vigilarlo (artt. 2047-2048 c.c.).

Lo stesso discorso può essere fatto in relazione all’ ente pubblico

(amministrazione), perché non v’è nulla di peculiare che lo

riguardi nel sistema degli artt. 2047 ss. c.c. Invero, l’ unica vera

particolarità, a proposito della responsabilità della pubblica

amministrazione, è ravvisabile quando il fatto dannoso, di cui all’

art. 2043 c.c., consiste in un provvedimento amministrativo; in

questi casi, infatti, ci si pone il seguente quesito: se il fatto doloso

o colposo coincide con l’ esercizio di una potestà amministrativa,

l’ amministrazione è tenuta a risarcire il danno ingiusto?

La domanda proposta non trova una semplice risposta, anche

perché il problema è reso ancor più complesso a causa della

costruzione dell’ efficacia del provvedimento amministrativo e

dell’ assetto della tutela giurisdizionale che è connesso a tale

costruzione. Alcuni esempi potranno rendere bene l’ idea: una

espropriazione illegittima danneggia il proprietario; così come il

diniego di un’ autorizzazione danneggia il soggetto che ne ha

fatto richiesta.

Nel primo caso il privato danneggiato non potrà rivolgersi al

giudice civile per il risarcimento dei danni, ex art. 2043 c.c., ma

dovrà adire il giudice amministrativo per ottenere l’ annullamento

del decreto di espropriazione illegittimo; solo dopo aver

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conseguito questo risultato potrà rivolgersi al giudice civile per

ottenere la restituzione dell’ immobile (se questo non è stato

irreversibilmente trasformato) o il risarcimento danni. Il transito

per due giurisdizioni è reso obbligatorio dal fatto che, poiché il

decreto di espropriazione degrada il diritto di proprietà (diritto

soggettivo), il privato potrà azionare solo l’ interesse legittimo

dinanzi al giudice amministrativo; una volta che questi,

annullando l’ atto, avrà ricostituito l’ originaria situazione di diritto

soggettivo, di tale diritto potrà essere chiesto il risarcimento

danni dinanzi al giudice civile.

Diverso, invece, è il caso del diniego di autorizzazione

amministrativa, perché, secondo l’ opinione dominante, il privato

vanta un interesse, non un diritto all’ autorizzazione; sicché il

rifiuto di questa non dà titolo ad un’ azione risarcitoria dinanzi al

giudice civile. Anche in questa ipotesi, quindi, il privato si

rivolgerà al giudice amministrativo; solo che l’ eventuale

annullamento del diniego di autorizzazione non aprirà l’ accesso

alla giurisdizione civile per un’ azione di danni (a differenza del

proprietario espropriato, infatti, il privato, in questo caso,

continua a vantare un interesse legittimo).

c) il danno da lesione di un interesse legittimo

Dalle considerazioni precedenti emerge, quindi, l’ importanza che

per il tema in esame riveste la questione degli interessi legittimi;

interessi nei confronti dei quali, prima della fondamentale sent.

500/99 della Corte di Cassazione, era disconosciuto qualsiasi tipo

di risarcibilità.

La situazione, più precisamente, era posta in questi termini:

• è risarcibile il diritto soggettivo che viene leso da un fatto

illecito che l’ amministrazione ha posto in essere nella sua

capacità di diritto privato o comunque al di fuori dell’ esercizio di

una potestà amministrativa;

• non è risarcibile il diritto soggettivo che viene degradato ad

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interesse legittimo dal provvedimento amministrativo (lo diventa

solo quando il provvedimento viene annullato dal giudice

amministrativo con una sentenza che restituisce alla situazione

soggettiva del privato consistenza di diritto soggettivo).

Da queste considerazioni si deduceva, pertanto, che non era

risarcibile, di per sé, l’ interesse legittimo: sia che esso fosse nato

dalla compressione del diritto soggettivo, sia che esso ab origine

si fosse configurato come interesse legittimo (soprattutto come

interesse all’ adozione di un provvedimento favorevole).

Questo dogma della irrisarcibilità degli interessi legittimi ha,

tuttavia, cominciato ad essere riconsiderato con il d.lgs. 80/98;

difatti, la legge delega (art. 11, co. 4, L. 59/97) aveva stabilito

che, nelle materie dell’ edilizia, dell’ urbanistica e dei servizi

pubblici, al giudice amministrativo venivano devolute le

controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali consequenziali,

ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno.

Interpretando in modo estensivo la delega, il Governo attribuì alla

giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le materie dell’

edilizia, dell’ urbanistica e dei servizi pubblici (artt. 33 e 34 d.lgs.

80/98), stabilendo, all’ art. 35, che in queste (materie) il giudice

dispone il risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso la

reintegrazione in forma specifica (questa lettura, però, come

spiegherà la Consulta nella sent. 292/00, si risolve in un eccesso

di delega).

In ogni caso, nel solco di questa indicazione (fornita dalla

legislazione del 1997/98), la Corte di Cassazione, attraverso una

sentenza divenuta celeberrima (sent. 500/99), ha optato per una

completa rivisitazione della posizione tradizionale della

irrisarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi. La Corte,

in particolare, muovendo dalla premessa che l’ art. 2043 c.c.

collega l’ obbligo di risarcimento al fatto di aver colpevolmente

cagionato un danno ingiusto, senza far menzione della situazione

soggettiva incisa (diritto soggettivo o interesse legittimo), è

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Page 207: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

giunta alla conclusione che qualunque pregiudizio (danno),

arrecato alla sfera altrui senza giustificazione, obbliga colui che lo

ha cagionato a risarcirlo, anche quando soggetto danneggiante è

una pubblica amministrazione e il danno è arrecato ad un

interesse legittimo.

Dopo aver enunciato quest’ importante principio, però, la

Suprema Corte ha ritenuto opportuno fissare dei paletti, perché

consapevole delle difficoltà alle quali sarebbe stata esposta la

finanza pubblica (e, in ultimo, il contribuente) nel caso di un

risarcimento generalizzato.

Il primo limite posto dalla Corte riguarda l’ elemento soggettivo

dell’ illecito posto in essere dall’ amministrazione, che sia lesivo di

un interesse legittimo: con la sentenza 500/99, la Corte (a

differenza dei precedenti orientamenti giurisprudenziali) segnala

che non basta la sola illegittimità dell’ atto per desumere la

colpevolezza dell’ agente, ma è necessaria la sussistenza di altri

due presupposti e cioè:

• che siano violati i princìpi costituzionali di imparzialità e buon

andamento (art. 97 Cost.);

• e che tali violazioni siano imputabili non alla persona fisica che

ha posto in essere l’ atto, ma all’ amministrazione, cui essa

appartiene.

È bene precisare, però, che la giurisprudenza amministrativa (in

particolare, il Consiglio di Stato), consapevole della fragilità dell’

argomentazione del Supremo Collegio in tema di elemento

soggettivo, tende oggi a valorizzare una nozione oggettiva di

colpa (molto vicina a quella tradizionale, che fa della colpevolezza

un elemento della illegittimità dell’ atto).

Il secondo limite posto dalla Corte di Cassazione riguarda, invece,

la nozione di danno ingiusto, in quanto conseguenza dell’

esercizio del potere amministrativo: tale nozione, ad avviso del

Supremo Collegio, ha una diversa consistenza, a seconda che la

lesione concerna un interesse oppositivo o pretensivo. Nel primo

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Page 208: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

caso il danno è prospettabile, perché l’ interesse oppositivo (l’

interesse, cioè, a che non venga adottato un provvedimento

restrittivo: si pensi, ad es., all’ interesse del proprietario a fronte

del potere espropriativo) presuppone l’ esistenza di un bene che

già rientra nella sfera giuridica del titolare (nel nostro esempio: la

proprietà); sicché il provvedimento lesivo (l’ esproprio) toglie quel

bene.

Nel secondo caso (interesse pretensivo) il bene, invece, non

appartiene ancora al privato, ma costituisce l’ oggetto del suo

desiderio (desiderio che può essere appagato con l’ adozione del

provvedimento: si pensi, ad es., al caso in cui il privato chieda il

rilascio di un’ autorizzazione); in tale ipotesi, l’ atto lesivo (ad es.,

l’ atto che nega l’ autorizzazione) impedisce all’ interessato di

conseguire quel bene desiderato (cosa che è ben diversa dal

togliergli un bene già suo).

A giustificazione di quest’ orientamento, la Cassazione ha tenuto

a precisare che ciò che risulta decisivo, ai fini del risarcimento del

danno, è che l’ interessato possa far valere un bene della vita,

ossia un bene che forma oggetto di un interesse materiale,

rispetto al quale l’ interesse legittimo svolge una funzione

strumentale; in tale logica, pertanto (prosegue la Corte) l’

interesse pretensivo non è risarcibile, perché la sua soddisfazione

dipende da una scelta discrezionale dell’ amministrazione (che

deve decidere, ad es., se concedere o meno l’ autorizzazione);

nella stessa direzione il Consiglio di Stato, il quale ha affermato

che, qualora accordasse il risarcimento, il giudice si sostituirebbe

all’ amministrazione con una indebita ingerenza nella sua

discrezionalità.

Sempre in relazione all’ interesse pretensivo, lo stesso Consiglio

di Stato ha, però, sottolineato che, qualora la soddisfazione della

pretesa dell’ interessato sia collegata ad un’ attività vincolata

della pubblica amministrazione, il risarcimento è dovuto nel caso

in cui il giudice, attraverso un giudizio prognostico, accerti che, in

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Page 209: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

assenza dell’ illecito, il provvedimento richiesto avrebbe dovuto

essere rilasciato.

Proprio in questa alternativa (risarcibilità-irrisarcibilità dell’

interesse pretensivo) si colloca il discorso sulla cd. perdita di

chance: infatti, il Consiglio di Stato, partendo dal presupposto che

la chance rappresenta la concreta possibilità di conseguire un

risultato utile, di cui non è, però, dimostrabile la futura

realizzazione, per via di un fatto che ha interrotto una serie di

eventi idonei ad assicurare un vantaggio, ha stabilito che tale

perdita di chance è risarcibile qualora, in assenza dell’ illecito, vi

era una possibilità superiore al 50% che l’ evento favorevole si

verificasse: così, per fare un esempio, se il concorrente secondo

classificato in una gara d’ appalto di lavori pubblici aveva la

concreta possibilità di aggiudicarsi l’ appalto (ove, ad es., non

fosse stato ammesso il primo classificato, sfornito dei requisiti

prescritti dal bando), la sua perdita di chance deve essere

risarcita.

Detto questo, è importante sottolineare, in conclusione, che il

disegno volto ad introdurre nel nostro ordinamento la risarcibilità

degli interessi legittimi è stato completato con la L. 205/00, la

quale invero ha ripreso le disposizioni contenute nel citato d.lgs.

80/98: tali norme, che (come sappiamo) avevano attribuito al

giudice amministrativo il potere di risarcire il danno ingiusto

cagionato dall’ amministrazione nelle materie dell’ edilizia, dell’

urbanistica e dei servizi pubblici, sono state travolte per eccesso

di delega dalla sent. 292/00 della Corte cost.

Nonostante ciò, il Parlamento pochi giorni dopo questa pronuncia

ha convalidato le disposizioni di quel decreto: ed infatti, l’ art. 7 L.

205/00 stabilisce espressamente che il giudice amministrativo,

nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva,

dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il

risarcimento del danno ingiusto.

Ma la vera rivoluzione è realizzata attraverso un’ altra

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disposizione della stessa legge, nella quale si legge che il

Tribunale amministrativo regionale, nell’ ambito della sua

giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’

eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la

reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali

consequenziali [ciò significa, in altri termini, che la previsione del

risarcimento, accordato dal giudice amministrativo, non è più

limitata alle materie di giurisdizione esclusiva (vale a dire, ai

diritti soggettivi che, in quelle materie, sono sottoposti alla

cognizione del giudice amministrativo), ma viene estesa all’ intera

giurisdizione amministrativa (e, quindi, alla giurisdizione di

legittimità, che è istituita a protezione degli interessi legittimi)].

In tal modo, il legislatore del 2000 ha compiuto una duplice

operazione: da un lato, ha riconosciuto espressamente la

risarcibilità degli interessi legittimi; dall’ altro, ha attribuito al

giudice amministrativo sia la tutela di annullamento che quella

risarcitoria (sottraendo quest’ ultima al giudice ordinario).

d) il danno da ritardo

Il cd. danno da ritardo è il danno che l’ amministrazione causa al

privato interessato quando rimane inerte di fronte ad una

richiesta di provvedimento favorevole ovvero quando la stessa

protrae, al di là dei termini previsti, un procedimento iniziato d’

ufficio, il cui esito è potenzialmente lesivo per il privato.

Come si può notare, a differenza delle ipotesi in precedenza

esaminate, in questo caso la fonte del pregiudizio non è l’

esercizio del potere amministrativo, ma il suo mancato esercizio,

che lascia il cittadino in uno stato di incertezza sulle sorti del bene

della vita che mira ad ottenere (attraverso l’ emanazione del

provvedimento favorevole) o a conservare (e la cui esistenza è

minacciata dal procedimento in corso).

Ora, questo stato di incertezza, causato dal comportamento dell’

amministrazione (che omette di provvedere nel termine di 90

210

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giorni previsti dall’ art. 2, L. 241/90), può, ovviamente cagionare

al privato gravi pregiudizi economici, a prescindere dall’ esito del

procedimento: così, ad es., l’ amministrazione che

illegittimamente ritarda nel provvedere sulla richiesta di

autorizzazione all’ apertura di un esercizio commerciale causa un

danno al privato, sia nel caso in cui, alla fine, l’ autorizzazione

venga rilasciata, sia nel caso in cui venga negata.

Nel primo caso, il danno deriva dal non aver potuto

tempestivamente intraprendere l’ attività (e, quindi, nel mancato

guadagno nel periodo in cui l’ amministrazione è rimasta inerte);

nel secondo caso, invece, il danno deriva dal fatto che, in attesa

di sapere se poteva intraprendere l’ attività soggetta ad

autorizzazione, il richiedente ha sostenuto dei costi (ha dovuto,

ad es., tenere libri contabili, disporre della liquidità necessaria all’

avviamento dell’ attività, etc.).

In entrambi i casi, com’è facilmente intuibile, la causa del danno è

l’ illegittima inerzia dell’ amministrazione.

§4. La responsabilità da atto lecito (l’ articolo 42 della

Costituzione)

Un tema particolarmente interessante e sul quale si discute da

decenni in dottrina è quello della responsabilità dell’

amministrazione da atto lecito. In particolare, l’ interrogativo che

gli studiosi si pongono è il seguente: se il privato subisce un

danno dall’ operato della pubblica amministrazione è necessario

che esso derivi da un atto illecito (cioè, che si tratti di un danno

ingiusto) affinché il danneggiato abbia titolo al risarcimento?

L’ argomento in esame è tra i più controversi nella dottrina

civilistica (non solo italiana), una parte della quale tende

comunque a sganciare il diritto al risarcimento dall’ illecito,

desumendo l’ antigiuridicità da una valutazione comparativa degli

interessi in gioco.

In realtà, se si osserva bene, il codice civile prevede specifiche

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ipotesi di indennità; indennità che consiste in un rimborso al

quale un soggetto ha diritto qualora subisca un pregiudizio che un

altro soggetto gli arrechi nell’ esercizio di un potere riconosciuto

(e, quindi, per definizione, nello svolgimento di un’ attività lecita):

si tratta delle ipotesi del proprietario di animali mansuefatti, il

quale può inseguirli anche nel fondo altrui, salvo il diritto del

proprietario del fondo a indennità per il danno (art. 925 c.c.) e del

proprietario di sciami d’ api in identica situazione (art. 924 c.c.).

La questione si pone con particolare frequenza anche nei rapporti

con la pubblica amministrazione, la quale, infatti, può arrecare

pregiudizio ai privati non soltanto quando commette un illecito,

ma anche quando esercita legittimamente i suoi poteri; ciò lo si

può dedurre, ad es., dalla formulazione dell’ art. 42 Cost., il quale,

infatti, stabilendo che la proprietà privata può, nei casi previsti

dalla legge, e salvo indennizzo, essere espropriata per motivi di

interesse generale, ci dice, in realtà, che non è sufficiente il

richiamo all’ interesse generale per autorizzare l’ appropriazione

della proprietà privata da parte dei pubblici poteri, ma occorre

anche un indennizzo, in assenza del quale l’ espropriazione

sarebbe illecita.

A questo punto, però, sorge il problema di stabilire se l’

indennizzo debba essere equiparato al risarcimento o se debba

essere inferiore allo stesso. Ora, nella formulazione originaria

della legge fondamentale sull’ espropriazione (del 1865), l’

indennizzo equivaleva al risarcimento, perché veniva

commisurato al valore di mercato dell’ immobile (cd. valore

venale). La disciplina attuale, invece, ai fini dell’ indennizzo, ha

distinto (almeno fino alla sent. 348/07 Corte cost.) i fondi agricoli

(per i quali l’ espropriato riceve una somma pari al valore agricolo

medio dei terreni nei quali sia praticato lo stesso tipo di coltura)

dalle aree edificabili (per le quali l’ espropriato riceve un

indennizzo pari a 1/3 del valore venale).

Questo regime, che la Consulta in un primo tempo aveva fatto

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salvo (giudicando non irrisorio il ristoro assicurato all’

espropriato), è stato travolto dalla citata sentenza 348/07, sulla

base non più del solo art. 42 Cost., ma soprattutto in applicazione

dell’ art. 1 del primo Protocollo CEDU, così come interpretato dalla

Corte di Giustizia CE: secondo questo Giudice, infatti, la

disposizione europea invocata, stabilendo che nessuno può

essere privato della sua proprietà, se non per causa di pubblica

utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai princìpi generali

del diritto internazionale, impone un rimborso non inferiore al

valore venale.

§5. La responsabilità contrattuale

Parte della dottrina ritiene che l’ art. 28 Cost. riguarderebbe

soltanto la responsabilità contrattuale; in realtà, una tesi del

genere potrebbe essere accettata soltanto facendo leva sul fatto

che l’ amministrazione, avvalendosi del suo potere di autonomia

privata (che le compete in quanto persona giuridica), può essere

assoggettata, sul piano della responsabilità contrattuale, allo

stesso regime giuridico previsto per i soggetti privati.

In ogni caso, sia che si faccia riferimento all’ art. 28 Cost., sia che

si faccia leva sulla personalità giuridica dell’ ente pubblico si

perverrà alla medesima conclusione, ossia che la responsabilità

contrattuale dell’ amministrazione è identica a quella di

qualunque altro contraente: sottoposta, cioè, alle regole

contenute negli artt. 1218 ss. c.c. Ciò significa, quindi, che l’

amministrazione, in conseguenza dell’ inadempimento di un’

obbligazione contrattuale, è tenuta al risarcimento del danno

provocato al creditore. È bene precisare, però, che la

responsabilità dell’ amministrazione per inadempimento delle

obbligazioni contrattuali presuppone che tali obbligazioni siano

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state assunte nel rispetto dei vincoli di contabilità: in particolare,

la legge di contabilità (del 1923) prescrive che ogni spesa debba

essere imputata al pertinente capitolo di bilancio e che questo

contenga i fondi necessari. Con maggiori e più puntuali dettagli

tecnici, poi, il T.U. delle leggi sull’ ordinamento degli enti locali

(d.lgs. 267/00) stabilisce, all’ art. 183, che l’ impegno costituisce

la prima fase del procedimento di spesa, con la quale, a seguito di

obbligazione giuridicamente perfezionata, è determinata la

somma da pagare, determinato il soggetto creditore, indicata la

ragione e viene costituito il vincolo sulle previsioni di bilancio. Ciò

significa che la spesa (acquisto di un bene o di un servizio) potrà

essere effettuata solo se sussiste l’ impegno contabile assunto

dall’ amministratore, dal funzionario o dal dipendente, per conto

dell’ ente locale; e solo se tale impegno sia stato registrato sul

competente capitolo di bilancio. Diversamente (vale a dire, se il

bene o servizio viene acquisito in violazione di queste regole), il

rapporto obbligatorio intercorre solo tra il fornitore e l’

amministratore, funzionario o dipendente che ha consentito la

fornitura; si tratta, a ben vedere, di una misura energica, idonea

ad operare come deterrente per l’ amministratore o il dipendente

superficiale o approssimativo, ma assai meno soddisfacente per il

privato fornitore: questi, infatti, nella maggior parte dei casi ha

ricevuto l’ incarico dal sindaco o dall’ assessore, con lettera o in

forma verbale, in attesa dell’ adozione della delibera di incarico

ed ha espletato l’ incarico (o ha reso la prestazione) senza che la

delibera sia stata adottata; in questi casi, egli può rivalersi

(secondo le disposizioni contenute nel d.lgs. 267/00) solo sull’

amministratore o sul funzionario; non può, invece, rivalersi sull’

amministrazione, neppure con l’ azione di indebito arricchimento

(ammessa contro chi, senza giusta causa, si è arricchito ai danni

di altra persona, ex art. 2041 c.c.), perché l’ azione in questione

ha carattere sussidiario e non può, quindi, essere esercitata, dal

momento che il danneggiato può rivalersi contro il funzionario o l’

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amministratore (è bene precisare, però, che l’ azione di

arricchimento potrà essere esercitata qualora l’ amministrazione,

cui il privato ha reso la prestazione, sia diversa dall’ ente locale:

in tal caso, infatti, anche se l’ obbligazione è stata contratta

irregolarmente, l’ amministrazione, avendo fruito della

prestazione, sarà tenuta ad indennizzare il fornitore della

correlativa diminuzione patrimoniale, nei limiti dell’

arricchimento).

§6. La responsabilità patrimoniale

L’ art. 2740 c.c. stabilisce che il debitore risponde dell’

adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e

futuri, fatte salve alcune limitazioni previste dalla legge.

In particolare, tra i beni sottratti alla soddisfazione dei creditori,

qualora debitrice sia una pubblica amministrazione, vi sono i beni

demaniali (che sono inalienabili e non possono formare oggetto di

diritti in favore di terzi) ed i beni patrimoniali indisponibili (che

sono destinati ad un pubblico servizio e non possono essere

sottratti alla loro destinazione).

Ne consegue, pertanto, che alla soddisfazione dei creditori è

assoggettato soltanto il patrimonio disponibile dello Stato e degli

enti pubblici, nonché il denaro della pubblica amministrazione (in

ragione della sua natura fungibile).

§7. La responsabilità amministrativa

a) la responsabilità degli amministratori e dei dipendenti

Un’ ultima considerazione occorre dedicarla all’ importante tema

della responsabilità amministrativa, vale a dire della

responsabilità degli amministratori, dei funzionari e dei dipendenti

per aver posto in essere determinate condotte che hanno

provocato ai terzi un danno ingiusto (che l’ amministrazione è

tenuta a risarcire), nonché per aver arrecato all’ amministrazione

un danno ingiusto nell’ esercizio dei loro compiti.

215

Page 216: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

I tratti essenziali del regime giuridico che concerne questo tipo di

responsabilità, contenuti nella L. 20/94 (modificata nel 1996),

sono i seguenti:

• nella responsabilità amministrativa possono incorrere non solo

gli amministratori e i pubblici dipendenti, ma anche tutti coloro

che, a qualunque titolo (ad es., contratto d’ opera), svolgono

compiti per conto di un’ amministrazione pubblica (si pensi, ad

es., al direttore dei lavori nel contratto d’ appalto di opera

pubblica);

• la responsabilità amministrativa è stata sempre considerata una

responsabilità contrattuale, trovando essa fondamento in un

contratto;

• mentre, però, nella responsabilità contrattuale il debitore è

tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’

inadempimento è stato determinato da impossibilità della

prestazione a lui non imputabile (art. 1218 c.c.), nella

responsabilità amministrativa, invece, è l’ ente (in particolare, la

procura regionale della Corte dei Conti) che deve fornire la prova

della responsabilità, non l’ amministratore o il dipendente;

• la responsabilità amministrativa è limitata ai fatti e alle

omissioni commesse con dolo o colpa grave (anche questa, come

la precedente, rappresenta una deroga al regime della

responsabilità contrattuale: a questa, infatti, soggiace il debitore

se non ha eseguito esattamente la prestazione dovuta; e, quindi,

anche in caso di colpa lieve);

• un altro temperamento del rigore della responsabilità

amministrativa è costituito dal fatto che le scelte discrezionali non

possono essere sindacate nel merito; e ciò allo scopo di evitare

che l’ amministratore (o il dirigente) possa essere chiamato a

rispondere per una scelta che attiene al merito (ad es., per avere

il consiglio comunale optato per una forma di gestione di un

servizio pubblico locale, anziché per un’ altra);

• quando gli atti rientrano nella competenza degli uffici tecnici o

216

Page 217: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

amministrativi la responsabilità è limitata ai dipendenti (essa,

quindi, non si estende agli amministratori, perché si presume che

questi abbiano agito in buona fede, facendo affidamento sulla

competenza degli uffici tecnici);

• nel regime della responsabilità amministrativa è centrale l’

elemento del danno (danno ingiusto): non è sufficiente, cioè, la

violazione del dovere d’ ufficio (o l’ adozione di un atto

illegittimo), ma occorre che da tale violazione (o da tale atto) sia

derivato un danno ingiusto;

• per quanto riguarda la quantificazione del danno, il giudice deve

tener conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’

amministrazione o dalla comunità amministrata, in relazione al

comportamento degli amministratori o dei dipendenti soggetti al

giudizio di responsabilità [si pensi, ad es., al caso in cui degli

amministratori comunali assumano dipendenti a titolo precario in

assenza dei relativi posti di organico: in questo caso, le casse del

comune subiscono un danno (pari alle retribuzioni che sono state

corrisposte e non potevano esserlo); ma l’ amministrazione ne ha

ricevuto un vantaggio (commisurato alla utilitas fornita dalle

prestazioni di lavoro); e un vantaggio ne ha ricevuto anche la

comunità, dal momento che è stata lenita la disoccupazione];

• la Corte dei Conti, valutate le singole responsabilità, può porre a

carico dei responsabili tutto o anche solo parte del danno

accertato o del valore perduto (cd. potere riduttivo dell’

addebito); simile (per quanto riguarda gli effetti) al potere

riduttivo è l’ esercizio della facoltà, riconosciuta al dipendente o

amministratore condannato in primo grado, di chiedere alla

sezione di appello, in sede di impugnazione, che il procedimento

venga definito mediante il pagamento di una somma non inferiore

al 10% e non superiore al 20% del danno quantificato nella

sentenza (cd. patteggiamento nel processo contabile);

• la responsabilità amministrativa è una responsabilità

individuale: ciò significa, quindi, che qualora il fatto dannoso sia

217

Page 218: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

stato causato da più persone, la Corte dei Conti, valutate le

singole responsabilità, condanna ciascuno per la parte che vi ha

preso (a meno che i concorrenti non abbiano conseguito un

illecito arricchimento o abbiano agito con dolo, perché, in questo

caso, la responsabilità sarà solidale, nel senso che ciascun

condebitore può essere costretto all’ adempimento per la totalità

e l’ adempimento di uno libera gli altri);

• un’ altra deroga al regime civilistico è, poi, prevista per la

successione mortis causa dell’ obbligazione risarcitoria: infatti,

secondo i princìpi civilistici, l’ erede subentra sempre nelle

obbligazioni del defunto; viceversa, il debito derivante da

responsabilità amministrativa viene trasmesso soltanto se il

defunto (dipendente o amministratore) si è illecitamente

arricchito (e, di conseguenza, anche l’ erede si è arricchito in

modo illecito per aver ricevuto, illecitamente, un bene dal de

cuius);

• sul presupposto che la responsabilità amministrativa avesse

natura contrattuale, la Corte dei Conti aveva sempre ritenuto che

il termine di prescrizione per l’ azione fosse quello ordinario di 10

anni (art. 2946 c.c.) e non quello quinquennale previsto per il

diritto al risarcimento del danno da illecito extracontrattuale (art.

2947 c.c.); la novella del ’96 ha ridotto, invece, a 5 anni il termine

di prescrizione: questa decorre dalla data in cui si è verificato il

fatto dannoso ovvero, in caso di occultamento doloso del danno,

dalla data della sua scoperta;

• il soggetto danneggiato è l’ amministrazione o l’ ente dei quali

la persona responsabile sia dipendente o amministratore; la

novella del ’96 ha, però, esteso la giurisdizione della Corte dei

Conti (e, quindi, la responsabilità dell’ agente) anche all’ ipotesi

che il danno sia stato cagionato ad amministrazioni o ad enti

diversi da quelli di appartenenza (ciò significa, pertanto, che nella

prospettiva del danno, viene presa in considerazione l’ intera area

pubblica);

218

Page 219: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

• è necessario sottolineare, infine, che il titolare dell’ azione di

danni non è l’ amministrazione danneggiata, ma (come detto) la

procura regionale della Corte dei Conti (ciò si spiega in virtù del

fatto che sussiste una seria presunzione che l’ amministrazione

danneggiata, invece di far valere le sue ragioni contro l’

amministratore o il dipendente, sia portata a coprirne la

responsabilità, ossia a colludere con lui).

b) la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche

L’ art. 27 Cost. stabilisce che la responsabilità penale è personale:

ciò significa che del reato rispondono solo i suoi autori che, a

seguito di un giusto processo (art. 111 Cost.), vengono

condannati ad una pena (detentiva o pecuniaria); tale

responsabilità non si estende, invece, né ai loro eredi e aventi

causa, né alle persone giuridiche (enti pubblici, s.p.a.,

associazioni, etc.), delle quali facciano parte i rei. La persona

giuridica, infatti, si risolve in una fictio iuris: è un centro di

imputazione di rapporti giuridici attivi e passivi, ma perché possa

concretamente agire deve avvalersi di persone munite del potere

di compiere atti, giuridici e materiali, i cui effetti civili vengono

imputati direttamente nella sfera giuridica e materiale dell’ ente

rappresentato [ad es., l’ ordinanza sottoscritta dal sindaco è un

atto che si imputa alla sfera dell’ ente (il comune); e chi vuole

contestarla deve agire contro l’ ente (facendo ricorso al TAR

contro il comune)]; gli effetti penali, invece, in virtù dell’ antico

brocardo societas delinquere non potest, si imputano alla persona

fisica (al sindaco, nel nostro esempio, dal momento che il comune

non può essere corrotto, ma il suo amministratore sì).

Nonostante la validità del brocardo citato, il legislatore ha ritenuto

comunque opportuno introdurre una nuova forma di

responsabilità: la cd. responsabilità amministrativa delle persone

giuridiche (d.lgs. 231/01): si tratta, in particolare, di una

responsabilità che il pubblico ministero (p.m.) fa valere nei

219

Page 220: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

confronti dell’ ente come conseguenza dei reati commessi dai

suoi dipendenti e amministratori, dinanzi al giudice penale

competente a conoscere il reato; qualora il giudice accerti che il

dipendente o l’ amministratore ha commesso un reato nell’

interesse o a vantaggio dell’ ente del quale fa parte, su richiesta

del p.m., applica all’ ente una sanzione amministrativa, che può

essere di natura pecuniaria o interdittiva (ad es., la sospensione

delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla

commissione dell’ illecito) o può consistere nella confisca o nella

pubblicazione della sentenza.

È bene precisare, in ogni caso, che le norme sulla responsabilità

amministrativa dell’ ente si applicano soltanto nei confronti degli

enti pubblici non economici e delle s.p.a. in mano pubblica (non si

applicano, invece, allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri

enti pubblici non economici e agli enti che svolgono funzioni di

rilievo costituzionale).

220

Page 221: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Parte III

La giustizia amministrativa

Sezione I

Le premesse storiche

§1. I lineamenti storici della giustizia amministrativa in Italia

Prima dell’ unità d’ Italia, la maggior parte degli Stati della

penisola (in primis, il Regno di Sardegna) aveva strutturato il

sistema della giustizia amministrativa sul modello adottato in

Francia: in virtù di tale modello, le liti tra privati e P.A. erano

affidate alla cognizione di tribunali speciali composti da funzionari

amministrativi (sistema del contenzioso amministrativo); in altri

Stati, invece, esistevano solo rimedi di carattere amministrativo

davanti alla stessa autorità.

Pertanto, dopo l’ unificazione, il nuovo Stato si trovò a dover

risolvere il problema della giustizia amministrativa (diversamente

configurato tra i diversi Stati preunitari); in questa prospettiva, il

Parlamento italiano, chiamato a scegliere tra il mantenimento del

sistema del contenzioso amministrativo e la devoluzione al

giudice ordinario delle controversie nelle quali fosse parte una

pubblica amministrazione, decise di adottare la seconda soluzione

(sia pure con determinati temperamenti). Infatti, nel 1865, con L.

n. 2248, allegato E (cd. legge abolitiva del contenzioso

amministrativo) vennero aboliti i tribunali speciali del contenzioso

amministrativo (ad eccezione della Corte dei Conti e del Consiglio

221

Page 222: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

di Stato) e devolute alla giurisdizione ordinaria tutte le cause nelle

quali si facesse questione di un diritto civile o politico (cioè, di un

diritto soggettivo) leso da un atto dell’ autorità amministrativa. È

bene precisare, però, che i poteri del giudice ordinario vennero

limitati, dal momento che egli poteva conoscere degli effetti dell’

atto amministrativo senza poterlo modificare o revocare, ma solo

disapplicare nel caso concreto sottoposto al suo esame (se

contrario alla legge). Venne, pertanto, introdotto l’ obbligo, per le

autorità amministrative, di conformarsi al giudicato dei tribunali

ordinari che avevano incidentalmente riconosciuto l’ illegittimità

dell’ atto.

La tutela degli interessi legittimi venne, invece, attribuita alle

stesse amministrazioni (nell’ ambito del procedimento

amministrativo) ovvero attraverso i ricorsi amministrativi

gerarchici. Nel 1889, però, con L. n. 5992 (cd. legge Crispi), venne

prevista e disciplinata la giurisdizione generale di legittimità sugli

atti amministrativi lesivi di interessi legittimi attraverso l’

istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato (organo che, sino

ad allora, aveva svolto funzioni solo consultive).

Successivamente, nel 1890, con L. n. 6837, venne attribuita alla

Giunta provinciale amministrativa (organo periferico dell’

amministrazione dell’ Interno, presieduto dal prefetto e deputato

ad esercitare il controllo di merito sugli atti degli enti locali) una

competenza ricalcata su quella della IV sezione, ma limitata all’

impugnazione di una serie di atti in prevalenza delle

amministrazioni locali (da sottolineare che le pronunce della

Giunta potevano essere appellate dinanzi alla IV sezione del

Consiglio di Stato).

Nel 1907, con L. n. 62 (cd. legge Giolitti) venne istituita la V

sezione del Consiglio di Stato con giurisdizione di merito su

determinate materie (nel contempo, venne riconosciuta la natura

giurisdizionale delle sezioni IV e V).

Infine, nel 1923 (con regio decreto n. 2840) venne abolita la

222

Page 223: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

distinzione di competenza tra la IV e la V sezione del Consiglio di

Stato e venne istituita la giurisdizione amministrativa esclusiva

(del Consiglio di Stato) su determinate materie, la principale delle

quali era sicuramente quella relativa al rapporto di impiego con lo

Stato e gli enti pubblici: in questi casi, la giurisdizione del giudice

amministrativo era determinata dalla materia e non dalla

situazione soggettiva di interesse legittimo (tutta la materia, cioè,

era attribuita al giudice amministrativo, sia che il privato avesse

fatto valere un interesse legittimo, sia che avesse chiesto la tutela

di un diritto soggettivo).

§2. La giustizia amministrativa in Italia, oggi. Il riparto di

giurisdizione

In Italia, in virtù dell’ applicazione del sistema dualistico, non

esiste un giudice competente per ogni controversia

amministrativa, ma occorre individuare, di volta in volta, il giudice

dinanzi al quale la causa deve essere proposta; con tale sistema,

ovviamente, i problemi di giurisdizione sono ricorrenti, perché non

è sempre agevole applicare i criteri di ripartizione stabiliti dall’

ordinamento.

L’ attuale sistema di riparto giurisdizionale trova fondamento nell’

art. 103, co. 1 Cost., il quale stabilisce che il Consiglio di Stato e

gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per

la tutela, nei confronti della pubblica amministrazione, degli

interessi legittimi e, in particolari materie, anche dei diritti

soggettivi. Il criterio ordinario, quindi, è quello della posizione

soggettiva fatta valere in giudizio: se si tratta di un diritto

soggettivo la giurisdizione è del giudice ordinario, mentre se è di

interesse legittimo la giurisdizione è del giudice amministrativo

[come sappiamo, sussiste interesse legittimo quando l’

ordinamento, allo scopo di tutelare interessi pubblici, conferisce

alla pubblica amministrazione il potere di incidere

unilateralmente, con un proprio atto o provvedimento, nella sfera

223

Page 224: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

giuridica altrui, sacrificandola o espandendola: nel primo caso, il

soggetto terzo è titolare di una posizione di interesse legittimo

oppositivo (volto a salvaguardare l’ integrità della propria sfera

giuridica lesa dall’ azione amministrativa); nel secondo caso,

invece, il terzo vanta una posizione di interesse legittimo

pretensivo (volto ad ampliare la propria sfera giuridica per opera

della pubblica amministrazione)].

La coesistenza di due diversi ordini di giurisdizioni ha posto

notevoli problemi in ordine all’ identificazione dei criteri idonei ad

operare il necessario riparto; in questa prospettiva, la Cassazione,

con sent. 1657/49 ha stabilito con chiarezza il criterio discretivo

tra i due ordini di giurisdizioni, osservando che: tutte le volte che

si lamenta il cattivo uso del potere dell’ amministrazione si fa

valere un interesse legittimo e la giurisdizione è del giudice

amministrativo, mentre si ha questione di diritto soggettivo e

giurisdizione del giudice ordinario quando si contesta la stessa

esistenza del potere (in tal modo, si è posto il collegamento

seguente: carenza di potere-diritto soggettivo, cattivo uso del

potere-interesse legittimo). La soluzione adottata dalla

giurisprudenza si spiega in virtù del fatto che il provvedimento

amministrativo, per quanto illegittimo (cioè, adottato con cattivo

uso del potere), è pur sempre efficace, ossia dotato di

autoritatività ed esecutività (comportando, laddove incida su di

un diritto soggettivo, la degradazione del diritto ad interesse

legittimo, con conseguente competenza del giudice

amministrativo).

Il tradizionale riparto di giurisdizione per posizioni soggettive,

però, non trova applicazione laddove il legislatore disponga il cd.

riparto per blocchi di materie: qualora, cioè, attribuisca alla

giurisdizione esclusiva del giudice ordinario o del giudice

amministrativo una determinata materia, indipendentemente dal

fatto che si faccia valere una posizione di diritto soggettivo o di

interesse legittimo.

224

Page 225: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

È bene precisare, infine, che il nostro ordinamento (accanto ai

rimedi giurisdizionali) prevede e disciplina anche strumenti di

tutela di carattere amministrativo, azionabili di fronte alla stessa

autorità amministrativa attraverso procedimenti interni, senza l’

intervento del giudice.

Sezione II

La tutela giurisdizionale ordinaria

§1. L’ ambito della giurisdizione del giudice ordinario

L’ ambito della giurisdizione del giudice ordinario, nei confronti

della pubblica amministrazione, è ancora oggi definito dall’ art. 2

della legge abolitiva del contenzioso amministrativo. In base a

225

Page 226: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

tale articolo, infatti, sono devolute alla giurisdizione ordinaria

tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie nelle quali si

faccia questione di un diritto civile o politico, comunque vi possa

essere interessata la P.A., e ancorché siano emanati

provvedimenti del potere esecutivo o dell’ autorità

amministrativa. Da questa disposizione si evince, pertanto, che

nella giurisdizione del giudice ordinario rientrano:

• le cause per contravvenzioni, ossia tutte le violazioni della legge

penale;

• tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile

o politico (al riguardo, va detto che l’ espressione diritto civile o

politico deve essere intesa nel senso di diritto soggettivo: di

conseguenza, la cognizione del giudice ordinario si estende a tutti

i diritti soggettivi, ad eccezione delle materie attribuite alla

giurisdizione esclusiva dei Tar);

• comunque vi possa essere interessata la P.A. (ciò significa che il

giudice ordinario è competente non solo nell’ ipotesi in cui la

pubblica amministrazione sia parte attrice, ma anche qualora la

stessa sia convenuta in giudizio);

• ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o

dell’ autorità amministrativa (questo vuol dire che la giurisdizione

del giudice ordinario non è preclusa dal fatto che la pubblica

amministrazione abbia emanato un atto autoritativo; ciò trova

conferma, tra l’ altro, negli artt. 4 e 5 della legge abolitiva, i quali

disciplinano i poteri del giudice ordinario in presenza di un atto

amministrativo, nonché nell’ art. 113 Cost., che espressamente

prevede la cognizione del giudice ordinario per gli atti

amministrativi lesivi di diritti).

§2. I poteri del giudice ordinario in ordine all’ atto amministrativo

Il giudice ordinario può conoscere di tutti i comportamenti della

226

Page 227: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

P.A. lesivi di diritti soggettivi: sia che si tratti di meri

comportamenti (si pensi, ad es., al mancato compimento di lavori

di restauro ad una strada pubblica, con conseguenti danni per la

circolazione e per le autovetture private), sia che si tratti di atti

compiuti in esecuzione di provvedimenti amministrativi.

Gli artt. 4 e 5 della legge abolitiva stabiliscono, però, i limiti

interni alla giurisdizione del giudice ordinario in ordine agli atti

amministrativi; queste due disposizioni enunciano, in particolare, i

seguenti princìpi:

• il giudice ordinario può conoscere degli effetti dell’ atto in

relazione all’ oggetto dedotto in giudizio (ciò significa che

eventuali vizi dell’ atto, accertati dal giudice, potranno essere fatti

valere solo nella controversia sottoposta al suo esame);

• il sindacato del giudice sull’ atto amministrativo è limitato ai soli

vizi di legittimità, non anche a quelli di merito (il giudice ordinario,

cioè, può solo dichiarare l’ illegittimità dell’ atto, ma non può

sindacare i criteri di opportunità e di convenienza ai quali l’

amministrazione si è ispirata); quanto al profilo di legittimità, si

ritiene che il giudice ordinario dispone degli stessi poteri cognitori

riconosciuti al giudice amministrativo (egli può, cioè, esaminare l’

atto sotto il profilo dell’ incompetenza, dell’ eccesso di potere e

della violazione di legge);

• il giudice ordinario, anche qualora dovesse accertare l’

illegittimità dell’ atto, non dispone del potere di annullarlo,

revocarlo o modificarlo (se così fosse, infatti, il giudice, in

contrasto con il principio della separazione dei poteri,

sostituirebbe la sua volontà a quella dell’ amministrazione);

questo limite, recepito dall’ art. 113, co. 3 Cost., conosce tuttavia

determinate deroghe, tra le quali ricordiamo: il potere di annullare

le ordinanze-ingiunzioni in materia di sanzioni amministrative; il

potere di annullare la trascrizione del matrimonio e la possibilità

di rettificare i certificati di stato civile;

• l’ accertamento dell’ illegittimità dell’ atto compiuto dal giudice

227

Page 228: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

non è, però, privo di conseguenze giuridiche: in primis, infatti, il

giudice ordinario è abilitato a disapplicare l’ atto ai fini della

soluzione della controversia sottoposta al suo esame; in secondo

luogo, la pubblica amministrazione interessata ha l’ obbligo di

conformarsi alla pronuncia [in altri termini, l’ autorità

amministrativa è tenuta a conformarsi al giudicato del giudice

ordinario e ad adottare successivi provvedimenti con esso

coerenti, a seguito di istanza dell’ interessato (va sottolineato che

il mancato adempimento di quest’ obbligo è tutelato, in sede

giurisdizionale, attraverso il giudizio di ottemperanza davanti al

giudice amministrativo, che può, in questa sede, conoscere anche

dei vizi di merito)].

§3. Le azioni ammissibili davanti al giudice ordinario

Esaminati i poteri ed i limiti posti al sindacato del giudice

ordinario nei confronti della pubblica amministrazione, è

importante, a questo punto, determinare le azioni ammissibili

contro la pubblica amministrazione; a tal fine, occorre richiamare

la classificazione delle azioni della dottrina processualcivilistica e,

in base ad essa, applicare le regole di cui agli artt. 4 e 5 della

legge abolitiva.

La dottrina del processo civile (a partire dal Chiovenda) ha

classificato le azioni in tre categorie fondamentali: le azioni

dichiarative (o di mero accertamento), le azioni di condanna e le

azioni costitutive.

Le azioni dichiarative sono quelle attraverso le quali l’ attore mira

ad acquisire una certezza giuridica (messa in discussione dalla

pretesa o dalla contestazione del convenuto); queste azioni sono

sempre consentite contro la P.A., perché l’ accoglimento della

domanda non modifica l’ assetto esistente [non incide, cioè, sull’

atto emesso dall’ autorità, ma si limita ad accertare una

situazione giuridica o di fatto (ad es., il giudice accerta che una

determinata area, che secondo l’ autorità fa parte del demanio, in

228

Page 229: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

realtà è di proprietà privata)].

Le azioni costitutive tendono, invece, ad ottenere dal giudice una

sentenza che costituisca, modifichi o estingua un determinato

rapporto giuridico, una volta effettuati determinati accertamenti;

al riguardo è necessario sottolineare che la dottrina,

argomentando dal divieto per il giudice ordinario di intervenire

direttamente sull’ atto amministrativo (art. 4 della legge

abolitiva), ritiene che sia impossibile proporre davanti al giudice

ordinario qualsiasi domanda rivolta ad ottenere una sentenza

costitutiva nei confronti della P.A., in quanto ciò comporterebbe la

sostituzione della volontà del giudice a quella dell’

amministrazione.

Le azioni di condanna, infine, sono quelle in seguito alle quali il

giudice, accertato l’ obbligo di una delle parti, ordina alla

medesima una prestazione positiva, idonea a ristabilire l’

equilibrio giuridico violato [tale prestazione può consistere nel

pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento

ovvero in un determinato comportamento positivo (facere, non

facere o dare)]. Ora, prendendo in considerazione i rapporti che

intercorrono tra l’ azione di condanna e l’ atto amministrativo, è

necessario sottolineare che il giudice non modifica o annulla l’

atto amministrativo, ma impone all’ amministrazione di

modificarlo o annullarlo; sicché è l’ amministrazione che agisce,

non il giudice. A ben vedere, però, il nuovo atto dell’

amministrazione è pur sempre imposto dal giudice (la decisione,

cioè, è del giudice e non dell’ amministrazione): è per tal motivo,

quindi, che la giurisprudenza si è orientata nel senso di

ammettere le condanne pecuniarie e di escludere tutte le altre (a

un facere, a un non facere o a un dare che abbia un oggetto

diverso da una somma di denaro).

§4. La giurisdizione del giudice ordinario in tema di pubblico

impiego

229

Page 230: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Una delle principali innovazioni introdotte dal d.lgs. 29/93 (poi

confluite nel d.lgs. 165/01) è sicuramente costituita dalla

devoluzione al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro,

del contenzioso relativo al rapporto di lavoro tra P.A. e dipendenti

pubblici, in precedenza riservato alla giurisdizione esclusiva del

giudice amministrativo.

Al giudice ordinario sono devolute (dal 1998) tutte le controversie

relative ai rapporti di lavoro, incluse quelle relative all’

assunzione, alle indennità di fine rapporto, al conferimento e alla

revoca di incarichi dirigenziali e alla responsabilità dirigenziale.

Restano, invece, devolute al giudice amministrativo le

controversie in materia di procedure concorsuali per l’ assunzione

dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, nonché le

controversie relative ai dipendenti esclusi dalla privatizzazione

(indicati nell’ art. 3 d.lgs. 165/01).

Sezione III

La tutela giurisdizionale amministrativa

§1. Le fonti normative del processo amministrativo

Le fonti normative del processo amministrativo sono:

• il regio decreto 642/1907 (regolamento di procedura) e il regio

decreto 1054/1924 (T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato);

• la L. 1034/1971, istitutiva dei Tar (che ha integrato il testo unico

del 1924 e il regolamento del 1907);

• il d.lgs. 80/98 e la L. 205/00 (che ha assorbito il primo

provvedimento, colpito, con sent. 292/00, da una parziale

declaratoria di illegittimità costituzionale per eccesso di delega);

• la L. 15/05 e la L. 80/05 (riguardanti la disciplina del

provvedimento amministrativo), con le quali sono stati ritoccati

alcuni aspetti del processo amministrativo);

• i princìpi contenuti nella Costituzione, nei trattati europei e nella

CEDU;

• il d.lgs. 104/10 (che, in attuazione della delega contenuta nell’

230

Page 231: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

art. 44 L. 69/09, ha approvato il codice del processo

amministrativo: c.p.a.)

§2. La giurisdizione amministrativa

La giurisdizione del giudice amministrativo viene distinta in

giurisdizione di legittimità, giurisdizione di merito e giurisdizione

esclusiva (art. 7 c.p.a.).

La giurisdizione di legittimità (la più importante) comprende le

controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni dell’

amministrazione interessata, comprese quelle relative al

risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi e agli altri

diritti patrimoniali consequenziali. Va precisato, però, che in tale

ambito giurisdizionale il giudice amministrativo può soltanto

pronunciare l’ annullamento dell’ atto impugnato (sentenza

costituiva), qualora sia viziato da incompetenza, violazione di

legge o eccesso di potere (cd. vizi di legittimità), nonché disporre

il risarcimento del danno (sentenza di condanna) attraverso la

reintegrazione in forma specifica ovvero il risarcimento per

equivalente e pronunciare le statuizioni in ordine agli altri diritti

patrimoniali consequenziali.

La giurisdizione di merito opera, invece, soltanto nelle materie

indicate nell’ art. 134 c.p.a. (tra queste ricordiamo: il giudizio di

ottemperanza, gli atti e le operazioni in materia elettorale, e le

contestazioni sui confini degli enti territoriali); in quest’ ambito, il

giudice, oltre a valutare la legittimità dell’ atto impugnato

(annullamento dell’ atto e risarcimento), può anche valutarne l’

opportunità o la convenienza (in questi ultimi due casi, il giudice,

una volta accolto il ricorso, può sostituirsi all’ amministrazione).

Un ultimo accenno occorre, infine, dedicarlo alla giurisdizione

esclusiva, la quale deve essere tenuta distinta dalla giurisdizione

di legittimità, perché diverso è il criterio delle situazioni

soggettive tutelate: interessi legittimi nella giurisdizione di

legittimità; anche diritti soggettivi in quella esclusiva (ma soltanto

231

Page 232: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

nelle particolari materie indicate dalla legge).

Dobbiamo ricordare, al riguardo, che la previsione della

giurisdizione esclusiva è frutto della riforma amministrativa

attuata nel 1923: infatti, con il r.d. 2840/23 (concernente l’

ordinamento del Consiglio di Stato) sono state elencate, per la

prima volta, le materie devolute al giudice amministrativo

riguardanti la tutela dei diritti soggettivi (tali materie sono state,

poi, trasfuse negli artt. 29 e 30 r.d. 1054/24); ciò significa,

pertanto, che la giurisdizione esclusiva è antecedente alla

Costituzione, sebbene quest’ ultima l’ abbia poi disciplinata all’

art. 103, il quale, infatti, stabilisce che il Consiglio di Stato e gli

altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la

tutela degli interessi legittimi nei confronti della P.A. e, in

particolari materie, anche dei diritti soggettivi.

In dottrina, però, è stato osservato che la giurisdizione esclusiva

pone due problematiche di fondo: da un lato, infatti, vi è la

genericità dell’ espressione particolari materie; dall’ altro, vi è la

necessità di predeterminare i criteri in base ai quali operare una

delimitazione delle materie indicate dal legislatore.

In realtà, circoscrivere le materie devolute alla giurisdizione

esclusiva del giudice amministrativo è un’ operazione molto

difficoltosa, soprattutto alla luce del progressivo incremento delle

materie in questione. Ad una simile problematica ha fornito una

parziale risposta l’ art. 133 c.p.a., il quale contiene un elenco di

particolari materie devolute alla giurisdizione esclusiva del

giudice amministrativo; tra le più importanti ricordiamo:

• il risarcimento del danno provocato dall’ inosservanza del

termine di conclusione del procedimento (cd. danno da ritardo);

• gli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento e gli

accordi tra pubbliche amministrazioni;

• la dichiarazione di inizio attività;

• il diritto di accesso ai documenti amministrativi;

• le concessioni di beni pubblici, fatta eccezione per le

232

Page 233: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

controversie riguardanti indennità, canoni ed altri corrispettivi e

per quelle attribuite al Tribunale Superiore delle Acque;

• i pubblici servizi, fatta eccezione per le questioni concernenti

indennità, canoni ed altri corrispettivi;

• le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture;

• gli atti ed i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in

materia di urbanistica e di edilizia;

• i rapporti di lavoro del personale in regime di diritto pubblico.

Tuttavia, è stato osservato che questa elencazione di materie non

può ritenersi esaustiva, dal momento che lo stesso legislatore ha

fatto salva la possibilità di ulteriori previsioni di materie indicate

dalla legge.

Della questione relativa alla giurisdizione esclusiva del giudice

amministrativo, prima del c.p.a., si è occupata, in ogni caso, la

Consulta (con sent. 204/2004): in particolare, la Corte ha chiarito

che l’ art. 103, co. 1 Cost. non ha conferito al legislatore un’

incondizionata discrezionalità nell’ attribuzione al giudice

amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione

esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare particolari

materie nelle quali la tutela nei confronti della pubblica

amministrazione investe anche diritti soggettivi: un potere,

quindi, che non è né assoluto né incondizionato e del quale va

detto che deve considerare la natura delle situazioni soggettive

coinvolte e non fondarsi esclusivamente sul dato oggettivo delle

materie.

In altri termini, l’ art. 103, co. 1 Cost. autorizza il legislatore ad

attribuire una determinata materia alla giurisdizione esclusiva del

giudice amministrativo alla duplice condizione che si tratti di

materia particolare rispetto alla giurisdizione generale di

legittimità e che la giurisdizione esclusiva abbracci anche diritti

soggettivi (i quali vanno ad aggiungersi all’ interesse legittimo, di

cui il privato è portatore, perché si confronta con un’

amministrazione-autorità): è per questa ragione, quindi, che la

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Page 234: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

giurisdizione esclusiva in tema di servizi pubblici è stata

dichiarata costituzionalmente illegittima: le relative controversie,

infatti, non vedono, di regola, coinvolta la P.A. in veste di autorità

[volendo essere più precisi, la giurisdizione esclusiva sui pubblici

servizi è ammessa alla sola condizione che venga esercitato un

potere pubblicistico (concessione o affidamento del servizio,

vigilanza e controllo sul gestore); mentre essa contrasta con l’ art.

103 Cost. qualora l’ amministrazione o il gestore figuri come parte

di un contratto (è il caso, ad es., delle prestazioni rese nell’

espletamento di pubblici servizi)].

Per la stessa ragione è da ritenere egualmente illegittima la

previsione di una giurisdizione esclusiva del giudice

amministrativo sui comportamenti tenuti dall’ amministrazione in

materia di urbanistica e di edilizia, perché essa concerne

controversie nelle quali la P.A. non esercita alcun pubblico potere.

§3. Il doppio grado di giurisdizione amministrativa

La giurisdizione amministrativa è ordinata in base al principio del

doppio grado di giurisdizione. Ciò lo si desume dalla nostra

Costituzione: l’ art. 125 prevede, infatti, l’ istituzione (in ciascuna

regione) di organi di giustizia amministrativa di primo grado;

mentre l’ art. 103 fa riferimento al Consiglio di Stato e agli altri

organi di giustizia amministrativa. Dalla combinazione di queste

disposizioni si evince, quindi, che il Consiglio di Stato è giudice d’

appello rispetto agli organi di giustizia amministrativa regionale

(che sono organi di primo grado).

In questa prospettiva, il Parlamento, con la legge del 1971

(istitutiva dei Tribunali amministrativi regionali) ha attribuito ai

Tar:

• una giurisdizione generale di legittimità (cioè, la cognizione in

primo grado di tutte le controversie in tema di interessi legittimi);

• una giurisdizione estesa al merito, nelle materie individuate dal

legislatore;

234

Page 235: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

• una giurisdizione esclusiva (comprendente sia interessi legittimi

che diritti soggettivi), anch’ essa nelle materie determinate dal

legislatore (e attribuite, a suo tempo, alla cognizione, in unico

grado, del Consiglio di Stato).

Nello stesso tempo, il Parlamento ha previsto una competenza

generale del Consiglio di Stato sia come giudice d’ appello, sia

come giudice ultimo. Infatti, avverso le sue sentenze (così come

avverso le sentenze della Corte dei Conti) non è ammesso il

ricorso in cassazione, se non per motivi inerenti alla giurisdizione:

ciò significa che la parte che ha motivo di dolersi di una sentenza

del Consiglio di Stato può ricorrere in cassazione solo se denuncia

un difetto di giurisdizione (ad es., il Consiglio di Stato ha

conosciuto di diritti soggettivi in una materia nella quale il giudice

amministrativo non è munito di giurisdizione esclusiva) o se

lamenta il mancato esercizio della giurisdizione (ad es., il

Consiglio di Stato ha negato la giurisdizione amministrativa,

sostenendo che si tratti di diritti soggettivi, in una controversia

che il ricorrente ritiene riguardare interessi legittimi).

§4. La competenza territoriale e la competenza funzionale dei Tar

La giurisdizione amministrativa, come detto, è esercitata dai Tar e

dal Consiglio di Stato [un assetto particolare è previsto, invece,

nel Trentino Alto Adige (ove il Tar ha una composizione speciale) e

in Sicilia (in cui l’ appello avverso le sentenze del Tar va proposto

dinanzi al Consiglio di giustizia amministrativa per la regione

siciliana)].

Ogni Tar, uno per regione (con sezioni distaccate nelle regioni più

popolose), decide con l’ intervento di tre magistrati (compreso il

presidente). Ora, poiché i Tar hanno una distribuzione regionale,

gli artt. 13 e ss. c.p.a. hanno individuato alcuni criteri per

determinare la loro competenza territoriale. In virtù di questi

criteri, il Tar periferico è competente per le controversie

riguardanti:

235

Page 236: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

• i provvedimenti, gli atti, gli accordi ed i comportamenti di

autorità amministrative, nella cui circoscrizione territoriale esse

hanno sede;

• i provvedimenti, gli atti, gli accordi e i comportamenti di autorità

amministrative, i cui effetti sono limitati all’ ambito territoriale

della regione in cui il Tribunale ha sede;

• le controversie in materia di pubblico impiego (in tal caso, la

competenza è del Tribunale nella cui circoscrizione il dipendente

presta servizio).

Quando, invece, l’ autorità ha competenza su tutto il territorio

nazionale (si pensi, ad es., ad un ministero o ad un ente pubblico

nazionale) e gli effetti dell’ atto interessano tutto il territorio dello

Stato (o più regioni) competente sarà il Tar Lazio.

Esistono, poi, dei casi di competenza funzionale, previste da leggi

di settore: ad es., il Tar Lombardia, sede di Milano, è competente

per i giudizi instaurati contro l’ Autorità dell’ energia elettrica ed il

gas; mentre il Tar Lazio è competente sulle controversie in cui è

parte il C.S.M. e per tutte le controversie elencate nell’ art. 135

c.p.a.

È bene precisare, tuttavia, che la distinzione tra competenza per

territorio e competenza funzionale aveva una sua ragion d’ essere

nel regime precedente alla riforma del 2010 (d.lgs. n. 104): prima

di quest’ intervento legislativo, infatti, la competenza funzionale

era inderogabile (sicché il Tar erroneamente adìto era tenuto a

declinare, anche d’ ufficio, la sua competenza), mentre la

competenza per territorio era derogabile [di conseguenza, l’

incompetenza doveva essere eccepita dalla parte interessata e

non poteva essere rilevata d’ ufficio (in difetto di questa

eccezione, quindi, la competenza veniva radicata in capo al Tar

incompetente)]. Nel nuovo regime, invece, anche la competenza

per territorio (non solo quella funzionale) è inderogabile.

Finché la causa non è decisa in primo grado, ciascuna parte può

chiedere al Consiglio di Stato di regolare la competenza; il

236

Page 237: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Consiglio, a sua volta, decide in camera di consiglio con

ordinanza, che è vincolante per i Tar [sia per il Tar ab origine

adìto, sia per quello indicato come competente (si parla, al

riguardo, del cd. regolamento di competenza)].

Occorre aggiungere, infine, che nel caso in cui nessuna delle parti

sollevi la questione di competenza ma, ciononostante, il Tar adìto

ritiene di non essere territorialmente competente, lo dichiara con

sentenza.

§5. Le azioni ammissibili nel processo amministrativo

a) premessa

Rispetto alla giurisdizione ordinaria, nel processo amministrativo,

nella sua configurazione originaria, erano ammesse solo le azioni

(e, quindi, le sentenze) costitutive (in particolare: sentenze di

annullamento dell’ atto impugnato), mentre erano escluse le

azioni di accertamento e quelle di condanna.

Invero, l’ art. 45 r.d. 1054/24 (T.U. delle leggi sul Consiglio di

Stato) stabiliva che il Consiglio, qualora avesse accolto il ricorso,

avrebbe dovuto annullare l’ atto o il provvedimento impugnato

[ne conseguiva, quindi, che il giudice amministrativo non avrebbe

potuto né condannare l’ amministrazione a fare o non fare o a

dare alcunché, né avrebbe potuto emettere una sentenza di

accertamento (di illegittimità dell’ atto o della pretesa del

ricorrente ovvero dell’ obbligo dell’ amministrazione); difatti, l’

unico accertamento che era consentito al giudice amministrativo

era l’ accertamento della fondatezza dei motivi di ricorso].

Questo quadro, però, non appariva in sintonia con gli artt. 29 e 30

dello stesso regio decreto, attraverso i quali era stata prevista e

disciplinata la giurisdizione esclusiva del Consiglio di Stato in una

serie di materie, la più importante delle quali riguardava il

rapporto di pubblico impiego: in questa materia, parte della

dottrina riteneva che, qualora l’ impiegato pubblico avesse

chiesto al giudice amministrativo il riconoscimento di un

237

Page 238: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

trattamento economico superiore o il pagamento delle ferie, la

sentenza costitutiva (cioè, l’ annullamento dell’ atto impugnato)

non si presentava come uno strumento adeguato. Occorreva,

pertanto, in questi casi, una sentenza di accertamento (ad es.,

accertamento del diritto ad una differenza retributiva) o ancor

meglio una sentenza di condanna.

Di qui, l’ emanazione, da parte del Consiglio di Stato (nelle

materie di giurisdizione esclusiva), di sentenze di condanna (a

partire dagli anni ’30 del 1900); quest’ orientamento, però,

incontrò l’ opposizione della Corte di Cassazione. Fu, pertanto,

soltanto con la legge del 1971 (istitutiva dei Tar) che venne

chiarito, all’ art. 26, co. 3, che il giudice amministrativo, nelle

materie relative a diritti attribuiti alla sua competenza esclusiva e

di merito, avrebbe potuto condannare l’ amministrazione al

pagamento delle somme di cui fosse risultata debitrice. Come

abbiamo visto, la condanna pecuniaria, ex art. 26 della legge del

‘71, riguardava solo la giurisdizione esclusiva; sarà soltanto con l’

art. 7 L. 205/00 che il Tar conoscerà di tutte le questioni relative

all’ eventuale risarcimento del danno, nell’ ambito della sua

giurisdizione (e, quindi, non solo nell’ ambito della sua

giurisdizione esclusiva, ma anche in quella di legittimità).

Questo mutamento del quadro normativo è stato, da ultimo, preso

in considerazione dal d.lgs. 104/10, che infatti ha previsto la

possibilità di esperire, dinanzi al giudice amministrativo, tre

specie di azioni: azioni di annullamento, azioni di condanna e

azioni di accertamento.

L’ azione di annullamento è riproposta nella sua formulazione

originaria: per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di

potere (il ricorso, in questo caso, va proposto nel termine di

decadenza di 60 gg.).

Con l’ azione di condanna, invece, il ricorrente chiede il

risarcimento del danno ingiusto derivante dall’ illegittimo

esercizio dell’ attività amministrativa o dal mancato esercizio di

238

Page 239: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

quella obbligatoria (in entrambi i casi, egli agisce a tutela di un

interesse legittimo). È bene precisare, però, che nelle controversie

devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo il

ricorrente può anche chiedere il risarcimento del danno da lesioni

di diritti soggettivi.

Va chiarito, infine, che il ricorrente può, in alternativa al

risarcimento del danno, richiedere anche la reintegrazione in

forma specifica [sempre che, però, la stessa non risulti troppo

onerosa: è questo, ad es., il caso del proprietario di un palazzo

che sia stato illegittimamente abbattuto dall’ amministrazione

comunale; in tale ipotesi, la sua richiesta di ricostruzione dell’

edificio a carico del comune (reintegrazione in forma specifica),

può essere convertita dal giudice in domanda di risarcimento del

danno].

b) i rapporti tra l’ azione di annullamento e l’ azione di condanna

Il d.lgs. 104/10 ha definito i rapporti tra l’ azione di annullamento

e l’ azione di condanna, chiudendo una disputa che aveva visto

contrapposti per anni il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione.

Il contrasto si palesava nei seguenti termini: premesso che il

danno cagionato al privato dall’ illegittimo esercizio dell’ attività

amministrativa presuppone l’ esistenza di un provvedimento

illegittimo, che è suscettibile di impugnazione con l’ azione di

annullamento, il Consiglio di Stato ha sostenuto (per anni) che la

domanda di risarcimento del danno (azione di condanna) dovesse

essere preceduta da una domanda di annullamento (cd.

pregiudizialità dell’ azione di annullamento rispetto all’ azione di

condanna); l’ interessato, pertanto, qualora avesse voluto

ottenere il risarcimento danni avrebbe dovuto prima agire (nel

termine di decadenza di 60 gg.) con la domanda di annullamento.

Della tesi della cd. pregiudizialità amministrativa, però, le Sezioni

unite della Cassazione hanno fatto giustizia nel 2006 con

ordinanza n. 13659: il Supremo Collegio, infatti, ha innanzitutto

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Page 240: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

affermato l’ autonomia delle due azioni (sicché, oggi, l’ azione di

condanna può essere proposta in via autonoma); ed ha, poi,

precisato che il giudice amministrativo, rifiutando di esaminare

nel merito la domanda di risarcimento del danno (perché non è

stata richiesta la previa rimozione dell’ atto e dei suoi effetti nel

termine di 60 gg.), incorre in un indebito rifiuto di esercitare la

giurisdizione.

La nuova normativa (d.lgs. 104/10) si è, così, adeguata all’

orientamento della Cassazione, con qualche correttivo: è stato

stabilito, infatti, che l’ azione di condanna (che è legata all’

illegittimo esercizio dell’ attività amministrativa o al mancato

esercizio di quella obbligatoria) può essere esercitata anche in via

autonoma (a prescindere, quindi, dall’ azione di annullamento);

tale azione di condanna, tuttavia, è sottoposta ad un termine di

decadenza di 120 gg., che cominciano a decorrere dal giorno in

cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del

provvedimento.

Nel determinare il risarcimento, il giudice valuta tutte le

circostanze di fatto, nonché il comportamento complessivo delle

parti [egli, in ogni caso, esclude il risarcimento dei danni che si

sarebbero potuti evitare attraverso l’ esperimento degli strumenti

di tutela giurisdizionale previsti: l’ esempio che di solito viene

proposto è quello del proprietario di una costruzione destinataria

di un ordine di demolizione; alla sua domanda di risarcimento (per

il danno cagionato dalla demolizione) proposta nel termine di 120

gg. dalla notifica del provvedimento, ad esecuzione avvenuta,

potrebbe essere opposto che se egli si fosse attivato

tempestivamente con l’ azione di annullamento e con una

domanda di sospensione del provvedimento impugnato, e questa

fosse stata accolta, la costruzione sarebbe ancora in piedi].

c) le azioni di accertamento

Nel processo amministrativo possono essere esperite anche azioni

240

Page 241: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

di accertamento (così come stabilito dall’ art. 31 c.p.a.).

Si tratta, innanzitutto, dell’ azione avverso il silenzio, ossia dell’

azione con la quale, chi vi ha interesse, può chiedere l’

accertamento dell’ obbligo dell’ amministrazione di provvedere,

una volta che siano decorsi i termini per la conclusione del

procedimento. Tale azione può essere proposta sino ad 1 anno

dalla scadenza dei termini; è bene precisare, tuttavia, qualora l’

interessato decada dall’ azione (per il decorso del termine di 1

anno), può rivolgersi nuovamente all’ amministrazione e far

scattare, così, i nuovi termini (il termine per la conclusione del

procedimento e, in caso di ulteriore inerzia, il termine per l’

esercizio dell’ azione).

Una volta proposta l’ azione di accertamento, il giudice è

chiamato ad accertare:

• che sia scaduto il termine per provvedere;

• che l’ amministrazione abbia l’ obbligo di provvedere;

• che l’ amministrazione abbia omesso di provvedere.

Va sottolineato, infine, che qualora si tratti di attività vincolata, il

giudice può anche accertare che l’ interessato ha diritto al rilascio

del provvedimento richiesto.

Una seconda azione di accertamento è prevista per far valere le

nullità previste dalla legge: in questo caso, è necessario

sottolineare che, dal momento che l’ atto nullo non produce

effetti, il giudice è chiamato semplicemente ad accertare che la

situazione giuridica (che l’ atto nullo pretendeva di modificare) è

rimasta immutata. È il caso di chiarire, al riguardo, che la

domanda volta all’ accertamento della nullità dell’ atto

amministrativo deve essere proposta entro il termine di

decadenza di 180 gg.: ciò, di conseguenza, comporta l’

inattaccabilità dell’ atto, una volta decorso il termine su indicato

(in tal modo, l’ atto nullo produrrebbe i suoi effetti e verrebbe,

quindi, ad identificarsi con l’ atto annullabile).

È necessario sottolineare, infine, che accanto alle azioni di

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Page 242: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

accertamento previste e disciplinate dall’ art. 31 c.p.a., nel

processo amministrativo sono ammesse azioni di accertamento

anche nella giurisdizione esclusiva: la controversia, in questi casi,

cade su diritti soggettivi (si pensi, ad es., al caso in cui l’

interessato chieda al giudice l’ accertamento del persistente

vigore di un contratto con la P.A., che questa, invece, sostiene

essere scaduto).

Sezione IV

Il processo amministrativo

§1. Il ricorrente

L’ art. 2, co. 1 d.lgs. 104/10 stabilisce che il processo

amministrativo attua i principi della parità delle parti, del

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Page 243: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

contraddittorio e del giusto processo (trova, quindi, applicazione l’

art. 111 Cost.).

Il soggetto che propone la domanda è, nel processo

amministrativo, il ricorrente (così denominato perché questo è un

processo, appunto, da ricorso); egli, in particolare, ricorre contro

un atto che ritiene lesivo di un suo interesse legittimo (e, nella

giurisdizione esclusiva, anche di un suo diritto soggettivo). Il

ricorrente, pertanto, si duole di un atto o di un comportamento

della pubblica amministrazione che lo ha pregiudicato; non è

sufficiente, però, che da quest’ atto o da questo comportamento

sia derivato un danno, ma occorre anche che tale danno sia stato

cagionato in modo illegittimo: così, ad es., chi impugnasse un

decreto di espropriazione che, togliendogli un immobile, ha inciso

sul suo patrimonio, ma non denunciasse alcuna illegittimità del

decreto, vedrebbe respinta la sua domanda, perché verrebbe a

mancare la lesione (cioè, la sussistenza di un pregiudizio arrecato

illegittimamente).

Per converso, chi denunciasse l’ illegittimità del decreto, ma non

fosse proprietario del bene, vedrebbe dichiarato il suo ricorso

inammissibile per carenza di interesse [in tal caso, infatti,

verrebbe a mancare l’ interesse ad invocare la tutela

giurisdizionale: il cd. interesse a ricorrere (si tratta di un interesse

personale)].

È bene precisare, però, che vi sono dei casi in cui il

provvedimento o il comportamento lesivo posto in essere dall’

autorità amministrativa tocca una pluralità di interessati (ad es.,

un decreto di espropriazione che colpisce un immobile

appartenente a più persone; ovvero un’ ordinanza sindacale che

chiude al traffico veicolare il centro storico): in questi casi, gli

interessati possono proporre un unico ricorso (cd. ricorso

collettivo). I ricorrenti, però, devono avere uno stesso interesse,

perché se tra di loro vi è conflitto il ricorso è inammissibile (così,

ad es., se più candidati non vincitori impugnano le operazioni di

243

Page 244: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

un concorso a pubblico impiego, denunciando l’ irregolare

composizione della commissione giudicatrice, il ricorso collettivo

è ammissibile perché i ricorrenti hanno il comune interesse alla

ripetizione del concorso; se, invece, ciascuno di loro pretende di

aver titolo all’ unico posto messo a concorso e deduce vizi nell’

attribuzione dei punteggi, il ricorso è inammissibile perché i

concorrenti sono in conflitto tra loro; e, di conseguenza, ognuno di

loro dovrà presentare un distinto ricorso).

È necessario sottolineare infine che, al requisito della personalità

dell’ interesse, l’ ordinamento deroga nei casi in cui è ammessa la

cd. azione popolare: si pensi all’ art. 9 del d.lgs. 267/00, ove si

afferma che ciascun elettore può far valere in giudizio le azioni e i

ricorsi che spettano al comune e alla provincia [così, ad es., se il

comune omette di ricorrere contro un provvedimento della

regione ritenuto lesivo della sua autonomia (come potrebbe

essere un atto che riduce l’ importo di un finanziamento che il

comune attende), il cittadino elettore può ricorrere in sostituzione

del comune, perché in questo caso, l’ interesse dell’ ente è anche

interesse del cittadino].

§2. La legittimazione ad agire e l’ interesse a ricorrere

Perché il ricorrente abbia diritto ad una sentenza di merito (ad

una sentenza, cioè, che valuti il merito della sua domanda)

occorre che il ricorso sia sorretto dalla legittimazione ad agire (cd.

legitimatio ad causam) e dall’ interesse a ricorrere.

La legittimazione ad agire dipende da una particolare relazione

che si instaura tra il ricorrente e l’ atto impugnato; ad essa fa

riferimento l’ art. 81 c.p.c., ai sensi del quale, infatti, nessuno può

far valere nel processo, in nome proprio, un diritto altrui (così, ad

es., legittimato a ricorrere contro il permesso di costruire

rilasciato a Tizio è il proprietario del fondo vicino, non il

proprietario di un bene ubicato in un altro comune).

Detto ciò, è importante specificare che il problema della

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Page 245: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

legittimazione si pone spesso quando il ricorrente è un soggetto

collettivo (un’ associazione ovvero un ordine professionale): in

questi casi, la legittimazione è riconosciuta quando il ricorrente

agisce a tutela di un interesse che è di tutti gli associati (si pensi,

ad es., al Consiglio nazionale dei geometri che ricorre contro il

provvedimento che disciplina l’ attività di mediazione immobiliare

in modo ritenuto pregiudizievole per i geometri).

Diversa dalla legittimazione ad agire è, invece, l’ interesse a

ricorrere: quest’ ultimo consiste, infatti, nell’ utilità che il

ricorrente è in grado di trarre dal processo. È necessario

sottolineare, tra l’ altro, che l’ interesse a ricorrere deve essere

tenuto distinto anche dall’ interesse legittimo: si può, invero,

essere titolari di un interesse legittimo senza che vi sia un

interesse a ricorrere (così, ad es., se partecipo, come candidato,

ad un’ elezione a sindaco e vengo superato dal candidato

concorrente, ho un interesse legittimo a reclamare l’ attribuzione,

in mio favore, di 15 preferenze che il seggio mi ha negato

indebitamente, a mio giudizio; ma non ho un interesse a ricorrere

se la differenza tra i due candidati è di 30 voti sicché, anche con il

recupero di quei 15 voti, rimarrei in ogni caso in seconda

posizione e dal ricorso non otterrei nessun vantaggio, anche se

venisse accolto).

Come detto in precedenza, l’ interesse a ricorrere deve essere

tenuto distinto dalla legittimazione ad agire: riproponendo l’

esempio di cui sopra, io sarei legittimato a ricorrere (mentre non

lo sarebbe l’ elettore di un comune diverso), ma sono privo di

interesse ad agire.

§3. L’ amministrazione resistente

L’ amministrazione resistente è l’ amministrazione che ha posto in

essere l’ atto impugnato dal ricorrente [più precisamente: l’

amministrazione alla quale appartiene l’ organo che ha adottato l’

atto (così, ad es., se l’ atto proviene dal sindaco, l’

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Page 246: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

amministrazione resistente sarà il comune)].

È bene precisare, però, che vi sono atti che possono essere

imputati a più di un’ amministrazione (si pensi, ad es., ad un

decreto interministeriale o ad un accordo tra enti pubblici): in

questi casi, amministrazione resistente sarà quella alla quale è

imputabile l’ atto conclusivo del procedimento. Se, tuttavia, il

ricorrente denuncia il vizio di un atto intermedio che si ripercuote

sul provvedimento conclusivo e quest’ atto intermedio è stato

posto in essere da un’ amministrazione diversa da quella che ha

adottato l’ atto conclusivo, anche tale amministrazione dovrà

essere chiamata in giudizio.

Ovviamente, a differenza del ricorrente (il quale ha interesse all’

annullamento dell’ atto impugnato), l’ amministrazione resistente

ha, invece, interesse alla sua conservazione (in tal caso, quindi, l’

amministrazione non agisce più in veste di apparato volto alla

cura di un interesse pubblico, ma agisce allo scopo di tutelare un

proprio diritto).

Va detto, infine, che l’ amministrazione resistente ha un diritto di

difesa (art. 24 Cost.): ovviamente, affinché questo diritto possa

essere esercitato, il ricorso deve essere notificato all’ autorità che

ha adottato l’ atto impugnato.

§4. Il controinteressato

A differenza del ricorrente e dell’ amministrazione resistente (che

sono parti essenziali del processo amministrativo), il

controinteressato è, invece, soltanto una parte eventuale. Più

precisamente, il controinteressato è il soggetto che ha un

interesse contrario all’ interesse del ricorrente: infatti, mentre

quest’ ultimo tende alla rimozione dell’ atto (perché lesivo), il

controinteressato, invece, tende alla conservazione dell’ atto, in

quanto a lui favorevole (così, ad es., se Caio impugna il permesso

di costruire, che approva il progetto di un edificio che ostruirà la

visuale di cui gode il suo appartamento, il titolare del permesso

246

Page 247: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

sarà controinteressato alla sua iniziativa; allo stesso modo, se

Tizio impugna l’ autorizzazione all’ apertura di una farmacia a

breve distanza da quella di cui è titolare, il nuovo farmacista sarà

controinteressato al ricorso).

Con riferimento al controinteressato, occorre sottolineare che la

legge del 1971 (istitutiva dei Tar) identifica tale soggetto con la

persona cui l’ atto direttamente si riferisce, mentre il recente

d.lgs. 104/10 lo identifica con la persona individuata nell’ atto

stesso. Nonostante quest’ identificazione operata dalla legge, va

detto, però, che in alcuni casi l’ individuazione del

controinteressato può risultare alquanto complessa: così, ad es.,

se impugno la graduatoria di un concorso perché della

commissione giudicatrice ha fatto parte un componente non

legittimato, questi sarà controinteressato; ma lo saranno anche i

candidati giudicati idonei dalla commissione, perché l’

annullamento di questa travolgerebbe tutte le operazioni

concorsuali [da quest’ esempio, si intuisce, quindi, che per

stabilire chi è controinteressato non è sufficiente accertare che la

persona è menzionata nell’ atto impugnato, ma occorre tener

conto del pregiudizio che una persona, anche se non menzionata

nell’ atto, riceverebbe dall’ annullamento giurisdizionale dello

stesso; dallo stesso esempio, inoltre, si evince che, in relazione

all’ atto impugnato, vi possono essere uno o più controinteressati

(in tal caso, il ricorso deve essere notificato almeno ad uno di

loro)].

§5. L’ interveniente

L’ art. 105 c.p.c. afferma che ciascuno può intervenire in un

processo tra altre persone per far valere, nei confronti di tutte le

parti o di alcune di esse, un diritto relativo all’ oggetto o

dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo.

Può anche intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle

parti quando vi ha un proprio interesse.

247

Page 248: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

La prima specie di intervento (cd. intervento principale) non è

ammessa nel processo amministrativo: anche perché è difficile

ipotizzare che un soggetto si contrapponga sia al ricorrente che

all’ amministrazione.

Se ne deduce, pertanto, che l’ unico intervento ammesso nel

processo amministrativo è il cd. intervento adesivo: l’ intervento,

cioè, di chi ha interesse a sostenere le ragioni di una delle due

parti contro l’ altra (ricorrente o amministrazione). In particolare,

l’ interesse ad intervenire a sostegno del ricorrente prende il

nome di intervento ad adiuvandum: esso è ammesso a tutela di

un interesse diverso, ma collegato all’ interesse del ricorrente (si

pensi, ad es., all’ affittuario del fondo espropriato, che è abilitato

ad intervenire nel ricorso proposto dal proprietario contro il

decreto di espropriazione).

Viceversa, l’ interesse ad intervenire a sostegno dell’

amministrazione prende il nome di intervento ad opponendum. Al

riguardo, occorre sottolineare che tale tipo di intervento può

essere di due specie, perché esso o viene posto in essere dal

controinteressato non intimato (cioè, dal beneficiario del

provvedimento impugnato, al quale il ricorso non è stato

notificato) ovvero viene posto in essere da un terzo che, anche se

non assume la veste di controinteressato in senso tecnico,

potrebbe subire comunque un pregiudizio dall’ accoglimento del

ricorso: così, ad es., il candidato che ha partecipato ad un

concorso a pubblico impiego ed è risultato idoneo, può intervenire

ad opponendum nel ricorso proposto dal soggetto che, pur

avendo presentato domanda di partecipazione, era stato escluso

dal concorso; invero, se il ricorso venisse accolto, ed il candidato

escluso vedrebbe così riconosciuta la sua pretesa di essere

ammesso, la graduatoria del concorso verrebbe travolta, perché è

stata adottata sulla base di un atto illegittimo (l’ esclusione del

ricorrente dal concorso); in questo caso, chi interviene non è un

controinteressato in senso tecnico (perché in relazione ai

248

Page 249: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

provvedimenti di esclusione da un concorso non ci sono

controinteressati), ma subirebbe, ad ogni modo, un danno dall’

accoglimento del ricorso (si parla in tale ipotesi del cd.

controinteressato successivo).

È bene precisare, infine, che l’ interveniente (visto che assume

una posizione subordinata rispetto alle parti) non può ampliare il

thema decidendi: non può, cioè, proporre motivi di ricorso diversi

da quelli del ricorrente (se interviene ad adiuvandum); se, invece,

interviene ad opponendum, egli può opporre, ai motivi di ricorso,

argomenti propri, non utilizzati dall’ amministrazione resistente.

§6. Il contraddittorio

Come è stato detto in precedenza, anche nel processo

amministrativo trova applicazione l’ art. 111 Cost., ad avviso del

quale il processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in

condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. Ciò

significa, quindi, che tra le parti sopra indicate (vale a dire:

ricorrente, amministrazione resistente e controinteressato)

occorre instaurare un contraddittorio; a tal fine, però, è

necessario che il ricorrente notifichi il ricorso alle altre parti,

perché solo la notifica, che deve essere effettuata a mezzo di

ufficiale giudiziario, consente alle parti, contro le quali il ricorso è

diretto, di conoscere l’ esistenza del processo e, quindi, di

difendersi.

§7. L’ atto impugnato

Il ricorso giurisdizionale, nella maggior parte dei casi è diretto

contro atti o provvedimenti di un’ autorità amministrativa (vi

sono, tuttavia, delle eccezioni: si pensi, ad es., al ricorso contro il

silenzio, ove l’ atto, in effetti, manca del tutto). Ora, premesso che

il ricorso è diretto contro un atto o contro un provvedimento

amministrativo, dobbiamo porci due quesiti fondamentali: di che

atto si tratta? E soprattutto, come si distingue l’ atto

249

Page 250: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

amministrativo impugnabile da quello non impugnabile? Alla

ricerca di una risposta a questa domanda, la giurisprudenza

amministrativa, elaborando la distinzione tra mero atto

amministrativo e provvedimento amministrativo, ha ritenuto

suscettibile di impugnazione soltanto il provvedimento: ciò

significa, in altri termini, che è impugnabile l’ atto conclusivo di un

procedimento, perché è questo che produce la lesione di una

situazione giuridica soggettiva; non sono impugnabili, invece, gli

atti preparatori del procedimento (vale a dire, gli atti che

precedono il provvedimento conclusivo); in relazione a questi

ultimi, infatti, manca l’ interesse a ricorrere perché il

procedimento potrebbe anche avere una conclusione diversa da

quella che essi sembrano preannunciare.

Va anche detto, però, che la regola su esposta conosce

determinate eccezioni, dal momento che l’ atto

endoprocedimentale è impugnabile:

• qualora si tratti di atti di natura vincolata (idonei, come tali, ad

imprimere un indirizzo obbligato alla determinazione finale);

• qualora si tratti di atti interlocutori che arrestano il

procedimento (in tal caso, l’ istante non vede soddisfatto il suo

interesse);

• qualora si tratti di atti soprassessori, che rinviano, cioè, ad un

evento futuro ed incerto il soddisfacimento dell’ interesse e,

quindi, bloccano il procedimento a tempo indeterminato.

Diversa dalla questione dell’ atto impugnabile è, invece, la

questione dell’ atto del procedimento viziato, la cui invalidità si

ripercuote sul provvedimento finale, viziandolo a sua volta: si

pensi, ad es., al parere espresso da un collegio in composizione

irregolare, la cui illegittimità si ripercuote sul provvedimento che

lo fa proprio (in tal caso, è sufficiente impugnare l’ atto

conclusivo, denunciando l’ illegittimità derivata dall’ atto

preparatorio).

Un ultimo accenno occorre dedicarlo al cd. ricorso cumulativo:

250

Page 251: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

cioè, al ricorso diretto contro più provvedimenti (si pensi, ad es.,

al regolamento che viene impugnato insieme all’ atto che ne fa

applicazione).

§8. Il contenuto del ricorso

Il ricorso è diretto al Tribunale amministrativo regionale e deve

contenere:

• le generalità del ricorrente, del difensore e delle parti

avversarie;

• l’ indicazione dell’ oggetto della domanda e dell’ atto

impugnato;

• l’ esposizione sommaria dei fatti;

• i motivi sui quali si fonda il ricorso, con l’ indicazione dei mezzi

di prova e delle misure chieste al giudice;

• la sottoscrizione della parte e dell’ avvocato che la rappresenta.

Ovviamente, il ricorso è inammissibile nel caso in cui manchi l’

indicazione dei motivi ovvero qualora, dall’ esposizione dei fatti, l’

atto impugnato non risulti lesivo dell’ interesse legittimo del

ricorrente (o di un suo diritto soggettivo, nel caso della

giurisdizione esclusiva).

Diverso, invece (ad avviso della giurisprudenza), è il caso nel

quale manchi l’ indicazione degli articoli di legge che si ritengono

violati: è sufficiente, infatti, che il contenuto del motivo sia, in

qualche misura, identificabile così che il giudice possa individuare

la disposizione pertinente (iura novit curia: il giudice è padrone

del diritto). Ovviamente, gli articoli di legge (ovvero di

regolamento) vengono in rilievo quando la censura è di violazione

di legge (o di incompetenza); non rilevano, invece, quando la

censura è di eccesso di potere, perché in tal caso viene attaccato

l’ uso che del potere ha fatto l’ autorità amministrativa (uso che è

ritenuto illegittimo dal ricorrente).

Va sottolineato, infine, che il ricorso è nullo se manca la

sottoscrizione o se vi è assoluta incertezza sulle persone o sull’

251

Page 252: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

oggetto della domanda.

§9. La notifica del ricorso

Il giudizio davanti al giudice amministrativo passa attraverso le

seguenti fasi:

• la notifica e il deposito del ricorso;

• l’ istanza di fissazione d’ udienza;

• la costituzione delle altre parti;

• la fissazione dell’ udienza da parte del presidente del Tribunale;

• il deposito dei documenti e delle memorie;

• l’ udienza di trattazione.

Da quanto detto, quindi, si evince che il processo ha inizio con la

notifica del ricorso all’ amministrazione o alle amministrazioni

resistenti e ad almeno uno dei controinteressati.

È bene specificare che il ricorso deve essere notificato entro 60

gg. dalla notifica dell’ atto impugnato; tuttavia, se questo non è

stato notificato, ma la legge prevede la sua pubblicazione, il

termine decorre dall’ ultimo giorno di pubblicazione (o, qualora

dovesse mancare la pubblicazione, dalla piena conoscenza che

dell’ atto abbia avuto l’ interessato).

Il termine di 60 gg. è previsto a pena di decadenza; ciò significa,

quindi, che il ricorso notificato dopo tale termine è irricevibile (da

parte del Tribunale). Ovviamente, il regime della decadenza è

posto a presidio della stabilità degli atti e dei rapporti

amministrativi: nel senso che l’ attività dell’ amministrazione

deve svolgersi in un clima di certezza giuridica (certezza che

verrebbe pregiudicata se l’ attività stessa fosse esposta per anni

al rischio dell’ impugnazione).

§10. Il deposito del ricorso e la costituzione del ricorrente

Una volta notificato, il ricorso deve essere depositato nella

segreteria del giudice nel termine perentorio di 30 gg., che

cominciano a decorrere dal momento in cui l’ ultima notificazione

252

Page 253: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

dell’ atto si è perfezionata anche per il destinatario. Il documento

depositato deve offrire la prova delle avvenute notifiche e deve

essere accompagnato da copia dell’ atto impugnato, nonché dai

documenti sui quali il ricorso si fonda.

Può accadere, però, che il ricorrente non sia in possesso di questi

atti (o perché non gli sono stati comunicati o perché la sua

richiesta di accesso non ha avuto esito); in questi casi, allora, l’

onere di depositare tali atti si trasferisce sull’ amministrazione

resistente, perché è proprio quest’ ultima che dispone dei

documenti e non il ricorrente (la regola in esame rientra, più

precisamente, tra quelle dirette a garantire la parità delle parti,

così come stabilito dall’ art. 111 Cost.).

Con il deposito dell’ originale del ricorso nella segreteria del Tar, il

rapporto processuale viene costituito (con la notifica, infatti, il

ricorrente chiama in giudizio l’ amministrazione resistente e l’

eventuale controinteressato; con il deposito, invece, viene tirato

in ballo il giudice).

§11. L’ istanza di fissazione d’ udienza

Nel processo amministrativo è il giudice che deve fissare l’

udienza per la discussione della causa, su istanza del ricorrente o

delle altre parti (di regola, tale istanza viene depositata dal

ricorrente insieme all’ originale del ricorso, al momento della

costituzione in giudizio).

In mancanza di un’ istanza del genere, l’ udienza, ovviamente,

non può essere fissata; e, ove il ricorrente indugi per un periodo

superiore ad 1 anno (dal giorno della costituzione in giudizio), il

ricorso è perento.

Occorre sottolineare, inoltre, che l’ impulso delle parti è richiesto

anche qualora si sia tenuta l’ udienza, ma il processo non si sia

chiuso: anche in tal caso, è necessaria una nuova istanza, che va

presentata entro 1 anno dalla cancellazione della causa dal ruolo,

affinché gli atti ulteriori del processo vengano posti in essere.

253

Page 254: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

§12. La costituzione delle altre parti

Come il ricorrente ha l’ onere di costituirsi in giudizio mediante il

deposito del ricorso, così le altre parti (amministrazione resistente

e controinteressati intimati (cioè, quelli ai quali il ricorso è stato

notificato) hanno l’ onere (non l’ obbligo) di costituirsi in giudizio,

nel termine ordinatorio di 60 gg. dalla notifica del ricorso, se

intendono difendersi (art. 24 Cost.).

In realtà, è bene precisare che le parti possono costituirsi in

giudizio sino a 40 gg. prima dell’ udienza: termine entro il quale

esse possono depositare documenti. Il termine per presentare

memorie, invece, è di 30 gg. prima dell’ udienza, mentre le

eventuali repliche possono essere presentate sino a 20 gg. prima.

Va sottolineato, comunque, che la costituzione può avvenire

anche in udienza, ma in tal caso la parte (amministrazione o

controinteressato) può solo partecipare alla discussione.

§13. Le varianti allo schema

a) il ricorso contro il silenzio

Lo schema sopra descritto conosce numerose varianti. La prima

riguarda l’ oggetto dell’ impugnazione: infatti, la legge fa

riferimento ad atti o provvedimenti dell’ autorità amministrativa;

e, tuttavia, l’ interessato può essere danneggiato non da un atto,

ma da una omissione (ad es., l’ amministrazione che rimane

inerte su una richiesta di autorizzazione o di concessione

impedisce al privato di ottenere ciò a cui aspira).

Al fine di risolvere il problema, pertanto, il d.l. 35/05, conv. in L.

80/05, ha conferito all’ inerzia dell’ amministrazione il valore di

assenso. È stato stabilito, infatti, che nei procedimenti ad istanza

254

Page 255: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

di parte, per il rilascio di provvedimenti amministrativi, il silenzio

dell’ amministrazione equivale ad accoglimento della domanda,

se l’ amministrazione, entro il termine per la conclusione del

procedimento, non comunica il diniego o non indice una

conferenza di servizi.

È necessario sottolineare, però, che questa regola non trova

applicazione per gli atti e per i procedimenti che riguardano il

patrimonio culturale o paesaggistico, l’ ambiente, la difesa

nazionale, la pubblica sicurezza o l’ immigrazione, la salute e l’

incolumità pubblica: in tutti questi casi, una volta scaduto il

termine per la conclusione del procedimento, l’ inerzia dell’

amministrazione equivale a silenzio-rifiuto. Questo silenzio,

tuttavia (così come disposto dalla novella introdotta dal d.l.

35/05), può essere impugnato immediatamente davanti al giudice

amministrativo senza necessità di notificare all’ amministrazione

inadempiente un atto di diffida. Il ricorso, in questo caso, può

essere proposto dopo che è decorso il termine entro il quale deve

concludersi il procedimento (di regola 90 gg.) e comunque non

oltre 1 anno dalla scadenza di detto termine.

La principale novità consiste, però, nel fatto che il giudice

amministrativo può conoscere della fondatezza dell’ istanza:

mentre, infatti, fino ad ora il Tar, adìto con il ricorso contro il

silenzio, si limitava ad accertare che l’ amministrazione avesse

realmente un obbligo di provvedere (e che, quindi, a tale obbligo

non avesse adempiuto), oggi invece può valutare se il

provvedimento richiesto spetti effettivamente al ricorrente o

meno. In tal modo, il giudice può sostituirsi all’ amministrazione o,

comunque, vincolarla strettamente, accertando la fondatezza

della pretesa del privato (da tale accertamento positivo deriva,

infatti, l’ obbligo dell’ amministrazione di rilasciare il

provvedimento).

Da quanto detto, si evince chiaramente che la legge ha

predisposto una tutela rafforzata contro il silenzio dell’

255

Page 256: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

amministrazione. A questo punto, però, è necessario porsi un

quesito fondamentale: come si giustifica una tutela così efficiente

contro il silenzio quando contro il provvedimento negativo

esplicito il ricorrente deve ricorrere al procedimento ordinario e

subire i suoi tempi lunghi senza poter ottenere dal giudice una

pronuncia che accerti la fondatezza della sua pretesa? Partendo

da questa domanda, il Consiglio di Stato ha ridimensionato la

portata dei poteri del giudice, stabilendo che l’ accertamento

della fondatezza dell’ istanza sulla quale l’ amministrazione ha

mantenuto il silenzio è ammesso in soli due casi:

• quando l’ atto richiesto è dovuto o vincolato (e non c’è da

compiere alcuna scelta discrezionale);

• quando l’ istanza è del tutto infondata, sicché sarebbe

irragionevole obbligare l’ amministrazione a provvedere, dal

momento che l’ atto espresso non potrebbe che essere di rigetto.

Quando, invece, l’ atto richiesto è discrezionale, il giudice non può

compiere la valutazione di fondatezza dell’ istanza, perché

facendolo si sostituirebbe all’ amministrazione (e compirebbe,

così, un’ operazione in contrasto con il principio della separazione

dei poteri, che è eccezionalmente ammessa quando la legge

attribuisce anche una giurisdizione nel merito: ma non è questo il

caso).

b) i motivi aggiunti

Dal momento che i provvedimenti amministrativi sono, in

numerosi casi, concatenati tra di loro, è facile che un primo

ricorso ne generi altri: così, ad es., una volta annullata la nomina

del presidente di un’ azienda speciale comunale, il sindaco

procede, con separato atto, alla nomina di un’ altra persona; in tal

caso, colui che ha proposto ricorso contro l’ annullamento della

sua nomina ha l’ onere di ricorrere contro la nomina di chi è

chiamato a sostituirlo, perché se non lo fa rischia di vedere

dichiarato inammissibile il suo ricorso per carenza sopravvenuta

256

Page 257: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

di interesse.

In ogni caso, è bene precisare che, in presenza di una molteplicità

di ricorsi, la L. 205/00, allo scopo di evitare una dispersione di

giudizi ed una pluralità di sentenze, ha stabilito che tutti i

provvedimenti adottati in pendenza del ricorso devono essere

impugnati con la proposizione dei motivi aggiunti (in questi casi,

cioè, il ricorrente aggiunge nuovi motivi al ricorso originario,

anziché proporre un nuovo ricorso).

I motivi aggiunti sono ammessi anche (ed è questa la nozione

originaria) quando, attraverso la documentazione prodotta in

giudizio dalle altre parti, il ricorrente venga a conoscenza di nuovi

vizi del provvedimento impugnato (così, ad es., una volta che l’

amministrazione ha depositato il testo del parere che ha

preceduto l’ atto impugnato, il ricorrente si accorge che questo è

difforme dal parere, senza che il dissenso sia motivato; la

difformità viene rilevata soltanto in questo momento perché il

contenuto del parere era sconosciuto al ricorrente).

I motivi aggiunti vanno proposti entro il termine di 60 gg., a meno

che non ricorra l’ ipotesi (sopra considerata) della conoscenza

postuma di un vizio dell’ atto impugnato: in tal caso, infatti, il

termine decorre dal momento in cui il ricorrente abbia acquisito la

piena conoscenza del documento dal quale risulta il vizio.

È necessario sottolineare, infine, che il d.lgs. 104/10 ha affiancato

ai motivi aggiunti anche le domande nuove, purché siano

connesse a quelle già proposte: si pensi, ad es., alle nuove voci di

danno risarcibile, che emergono dalla documentazione prodotta

dall’ amministrazione.

§14. Il ricorso incidentale e la domanda riconvenzionale

Attraverso il ricorso incidentale il controinteressato (o l’

interveniente ad opponendum) attacca il provvedimento

impugnato dal ricorrente principale in una parte diversa da quella

che viene investita dal ricorso principale, allo scopo di evitare o

257

Page 258: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

mitigare il danno che deriverebbe dall’ accoglimento di quest’

ultimo (si pensi, ad es., al caso in cui il vincitore di un concorso a

pubblico impiego, che è controinteressato al ricorso del candidato

soccombente, impugni le operazioni concorsuali nella parte in cui

il ricorrente principale è stato ammesso al concorso: se il ricorso

incidentale venisse accolto, il ricorso principale sarebbe dichiarato

irricevibile per carenza di interesse, perché proposto da un

soggetto che non doveva essere ammesso al concorso).

Il ricorso incidentale deve essere proposto entro 60 gg. dalla

notifica del ricorso principale (a meno che a ricorrere in via

incidentale non sia l’ interveniente ad opponendum: in tal caso,

infatti, il termine decorre dall’ effettiva conoscenza della

pendenza del ricorso principale).

La domanda riconvenzionale, invece, ha un suo specifico ambito

di applicazione nei giudizi di accertamento e di condanna (e,

quindi, essenzialmente, nelle controversie devolute alla

giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo); al riguardo, è

necessario sottolineare che, a differenza del ricorso incidentale, la

domanda riconvenzionale può essere proposta anche dall’

amministrazione resistente (si pensi, ad es., all’ ipotesi in cui il

concessionario di un bene pubblico chieda la condanna dell’

amministrazione marittima al rilascio di una parte del bene

demaniale dato in concessione; in tal caso, l’ amministrazione

può presentare una domanda di risarcimento a causa del danno

cagionato dal concessionario nell’ uso indebito del bene

concesso).

Il giudice competente a decidere sul ricorso incidentale e sulle

domande riconvenzionali è il giudice competente sul ricorso

principale, a meno che la domanda introdotta con il ricorso

incidentale non sia devoluta alla competenza del Tar Lazio o

qualora ricorra un’ ipotesi di competenza funzionale (si pensi, ad

es., al caso in cui il ricorrente principale impugni un atto che

spiega i suoi effetti in Calabria, mentre il controinteressato ricorra

258

Page 259: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

in via incidentale contro un regolamento governativo che spiega

efficacia su tutto il territorio nazionale: in tal caso, la competenza

sull’ intero giudizio spetta al Tar Lazio).

§15. L’ istruttoria

Nel processo amministrativo l’ istruttoria ha un ruolo meno

importante di quello che essa ricopre nel processo civile: ciò si

spiega in considerazione del fatto che la maggior parte delle

cause dinanzi al Tar può essere decisa senza che il giudice debba

assumere prove (ad es., se denuncio un vizio di incompetenza del

provvedimento impugnato, è sufficiente che il giudice metta a

confronto questo provvedimento con la norma o le norme che

stabiliscono la competenza dell’ organo).

Tutto ciò in linea generale, perché possono comunque esserci

ipotesi in cui un’ istruttoria è necessaria: si pensi, ad es., al

provvedimento con cui il comune ordina la demolizione di una

parte di un manufatto edilizio, perché ritiene sia stato realizzato

dal proprietario dopo che era stata intimata la sospensione dei

lavori; l’ interessato, invece, impugna il provvedimento

sostenendo che quella parte era stata realizzata prima che

intervenisse la sospensione (e che, di conseguenza, la norma

invocata dall’ amministrazione non è applicabile al caso

concreto). In tale ipotesi, il contrasto tra le due posizioni può

essere risolto soltanto attraverso un accertamento che si avvale

di documentazione fotografica, di perizia e di prova testimoniale

(ad es., la testimonianza degli operai che hanno lavorato alla

costruzione).

Detto ciò, è necessario sottolineare che, nel processo

amministrativo, la questione della prova sorge in relazione ad un

fatto; pertanto, quando il fatto non viene in rilievo, come accade,

di regola, nel giudizio di legittimità [in cui non viene contestato il

fatto (ad es., il provvedimento impugnato) ma la sua legittimità],

non è richiesta nessuna prova (questo ragionamento si giustifica

259

Page 260: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

in virtù del fatto che la prova non può avere ad oggetto giudizi di

valore; e la qualificazione di legittimità-illegittimità è un giudizio

di valore: in tal senso Ruffo).

A questo punto, dobbiamo chiederci quando il fatto viene in

rilievo. Il fatto viene in rilievo quando il provvedimento impugnato

(ad es., una sanzione disciplinare) è fondata su un fatto (un

illecito disciplinare), la cui esistenza è contestata dal ricorrente: in

tal caso, può essere necessario acquisire una prova.

In questa prospettiva, l’ art. 63 c.p.a., parzialmente innovando

rispetto al regime precedente, prevede e disciplina i seguenti

mezzi di prova:

• la richiesta di chiarimenti alle parti;

• l’ ordine di esibire (in giudizio) documenti o quant’ altro il

giudice ritenga necessario;

• l’ ispezione, che consiste in un sopralluogo su cose o indagini su

persone (avente finalità soprattutto descrittiva);

• la prova testimoniale, che è ammessa soltanto su istanza di

parte e che deve essere sempre assunta in forma scritta (ciò

costituisce una rilevante differenza rispetto al processo civile e al

processo penale);

• l’ ordine di verificazione [verificazione che deve essere

effettuata da un organismo verificatore (di norma, un organo

pubblico non appartenente all’ amministrazione resistente)]; in

particolare, questo mezzo di prova trova applicazione qualora il

giudice reputi necessario l’ accertamento di un fatto ovvero l’

acquisizione di valutazioni che richiedono particolari competenze

tecniche (ad es., per accertare se un determinato elemento

chimico immesso nell’ atmosfera dall’ impresa ricorrente è

inquinante o meno);

• la consulenza tecnica, che è ammessa negli stessi casi previsti

per la verificazione e sempre che il giudice la ritenga

indispensabile; è bene precisare, però, che l’ art. 63 c.p.a., pur

accomunando la verificazione e la consulenza tecnica, stabilisce,

260

Page 261: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

in realtà, una sorta di graduazione tra i due mezzi di prova: nel

senso che, in prima battuta, deve essere esperita la verificazione

e, solo se indispensabile, può essere disposta la consulenza

tecnica.

La competenza a disporre i mezzi di prova è ripartita tra il

presidente (o un magistrato da lui delegato) e il collegio; va detto,

tuttavia, che la consulenza tecnica e le verificazioni si

sottraggono a tale regola, perché esse possono essere ammesse

solo dal collegio.

Appare utile ricordare, infine, la distinzione tra l’ ammissione della

prova (che è l’ atto con il quale il mezzo istruttorio viene

disposto), l’ assunzione della prova (ossia il suo espletamento: ad

es., la formulazione dei quesiti) e la valutazione della prova [il

giudice in particolare, deve valutare la prova secondo il suo

prudente apprezzamento (che lo porta, ad es., a giudicare un

teste più o meno attendibile) e può desumere argomenti di prova

dal comportamento tenuto dalle parti nel corso del processo (può,

ad es., trarre argomento dalla resistenza opposta dall’

amministrazione al rilascio delle informazioni e dei documenti

ritenuti dal giudice utili ai fini del decidere)].

§16. La sospensione e l’ interruzione del processo

Ai sensi dell’ art. 295 c.p.c. (che trova applicazione anche nel

processo amministrativo) il giudice dispone che il processo sia

sospeso nei casi in cui egli (ovvero un altro giudice) debba

risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la

decisione stessa: è questo, ad es., il caso del ricorso contro l’

ordine di demolizione emesso dal sindaco per un contrasto della

costruzione con una previsione del piano regolatore; ora, qualora

contro tale previsione penda un altro ricorso, l’ accoglimento del

quale travolgerebbe il precetto che il sindaco assume violato dal

costruttore, è necessario disporre la sospensione del primo

procedimento, il cui esito è condizionato dall’ esito dell’ altro.

261

Page 262: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Nel processo amministrativo trova, poi, applicazione anche l’

interruzione del processo (artt. 299 c.p.c. e 28 d.lgs. 104/10): è

stabilito, infatti, che la morte o la perdita della capacità di stare in

giudizio di una delle parti private, al pari della morte dell’

avvocato, della sua radiazione o sospensione dall’ albo producono

l’ interruzione del processo (è bene precisare, però, che l’

interruzione è automatica quando l’ evento interruttivo riguarda l’

avvocato; quando riguarda la parte, l’ effetto di interruzione si

produce, invece, solo dal momento in cui l’ avvocato lo dichiara).

Una volta interrotto, il processo deve essere riassunto dalla parte

più diligente con atto notificato alle altre parti, nel termine

perentorio di 90 gg. dalla conoscenza legale dell’ evento

interruttivo (diversamente, il processo si estingue).

§17. Le sentenze di rito e le sentenze di merito

Il Tar, prima di stabilire se il ricorso è fondato o meno, se le

domande del ricorrente sono da accogliere o da respingere, è

tenuto a porre in essere una serie di verifiche: in primis, il Tar

deve verificare se il ricorso è stato proposto entro i termini

stabiliti (infatti, se il ricorso è tardivo, lo stesso verrà dichiarato

irricevibile); successivamente, il Tar deve controllare se il

contraddittorio è stato rispettato [se non lo è stato (ad es., per la

mancata notifica al controinteressato) il ricorso sarà, allora,

inammissibile]; irricevibile sarà, altresì, il ricorso che, notificato

tempestivamente, non sia stato depositato entro 30 gg. dall’

ultima notifica; improcedibile sarà, invece, il ricorso nei confronti

del quale il ricorrente abbia perduto interesse, per aver egli

ottenuto (per altra via) ciò a cui aspirava (ad es., dopo aver

impugnato un ordine di demolizione, il ricorrente ottiene il rilascio,

nel corso del giudizio, di una concessione in sanatoria);

inammissibile, infine, sarà il ricorso rispetto al quale il Tar ritenga

che difetti la giurisdizione del giudice amministrativo (perché la

giurisdizione spetterebbe al giudice ordinario o alla Corte dei

262

Page 263: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Conti ovvero alla commissione tributaria o al Tribunale Superiore

delle Acque).

In tutti i casi sopra elencati (e disciplinati dall’ art. 35 d.lgs.

104/10), il Tar emette una sentenza di rito, perché incontra un

ostacolo che non gli consente di pronunciare nel merito del

ricorso, ossia di emettere una sentenza di merito. Più

precisamente, sono sentenze di rito quelle che si arrestano ad

una pregiudiziale; sono, invece, sentenze di merito quelle che

decidono il merito delle domande, ossia accertano la fondatezza o

l’ infondatezza delle domande (di annullamento, di mero

accertamento e di condanna).

Di conseguenza, è solo sulle sentenze di merito che si forma il

giudicato (una volta che siano decorsi i termini per l’

impugnazione), perché solo in questo caso si può dire che l’

accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa

stato, ad ogni effetto, tra le parti.

In relazione al giudicato amministrativo, assume particolare

importanza l’ esame dei motivi di ricorso: il Tar, infatti, è tenuto

ad esaminare ciascun motivo di ricorso (e può, quindi, ritenerne

infondati alcuni e fondati altri). La regola in esame ha, pertanto,

indotto la giurisprudenza a praticare il cd. assorbimento:

accertata, cioè, la fondatezza di un motivo, il Tar dichiara assorbiti

gli altri (considerato che, per quel motivo, il ricorso deve

comunque essere accolto e l’ atto impugnato deve essere

annullato). A bene vedere, però, l’ assorbimento limita la portata

dell’ accoglimento e, quindi, l’ estensione del giudicato: se, ad es.,

il Tar accoglie il motivo con il quale viene denunciata l’

incompetenza dell’ autorità adita, senza valutare gli altri motivi

(dichiarati assorbiti e, quindi, non esaminati), l’ autorità dichiarata

competente sarà del tutto libera nella sua determinazione

(quando, viceversa, l’ accoglimento degli altri motivi avrebbe

potuto vincolarla nella decisione, al punto da impedirle di

emetterla).

263

Page 264: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

§18. Il giudicato amministrativo

Anche alle sentenze del giudice amministrativo sono applicabili le

categorie di giudicato formale e di giudicato sostanziale. In

particolare, il giudicato formale designa la condizione della

sentenza non più soggetta ad impugnazione, a prescindere dal

contenuto della stessa (sentenza di rito o sentenza di merito).

Il giudicato sostanziale, invece, rappresenta l’ accertamento

contenuto nella sentenza passata in giudicato e che fa stato tra le

parti, i loro eredi ed i loro aventi causa; è bene precisare, però,

che tale accertamento è contenuto solo nelle sentenze di merito

(le uniche che definiscono il rapporto tra le parti e fissano una

regola o un precetto); nelle sentenze di rito, invece, quest’

accertamento manca, perché vi è un fatto o una circostanza

(irricevibilità, inammissibilità, etc.) che impedisce al giudice di

concludere con un accertamento che faccia stato tra le parti.

Nell’ ambito delle sentenze di merito occorre distinguere le

sentenze di accoglimento da quelle di rigetto: queste ultime,

lasciando immutata la situazione così come determinata dal

provvedimento impugnato, fanno sì che l’ accertamento

vincolante per le parti sia proprio quello contenuto nel

provvedimento che è stato impugnato senza successo dal

ricorrente (è questo il motivo per il quale il tema del giudicato

amministrativo assume particolare importanza in relazione alle

sentenze di accoglimento del ricorso e di annullamento dell’ atto

impugnato).

Detto ciò, è necessario sottolineare, comunque, che una volta

annullato un provvedimento amministrativo, il relativo potere

(che attraverso il provvedimento era stato esercitato) non si

estingue, ma sopravvive all’ annullamento, anche se la sentenza

che lo dispone, avendo accolto il ricorso, orienta la futura azione

dell’ amministrazione o comunque ne delimita i confini (è questo

il senso della disposizione contenuta nell’ art. 45 r.d. 1054/24, ad

264

Page 265: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

avviso del quale l’ annullamento da parte del giudice

amministrativo fa salvi gli ulteriori provvedimenti dell’ autorità

amministrativa). Considerato, quindi, che la vicenda

amministrativa può proseguire con un rinnovato esercizio del

potere amministrativo, dottrina e giurisprudenza hanno

individuato tre specie di effetti del giudicato di annullamento:

• il primo è l’ effetto demolitorio, il quale non colpisce soltanto l’

atto o gli atti impugnati, ma investe anche gli atti successivi che

sono stati adottati sul presupposto dell’ atto annullato [così, ad

es., se viene accolto il ricorso contro il licenziamento di un

dipendente, il cui rapporto di impiego continua ad essere

sottoposto alla giurisdizione amministrativa (ad es., un

magistrato, un professore universitario, un ufficiale dell’ esercito o

un poliziotto) ne risulterà travolto il trasferimento di altro

dipendente nel posto lasciato libero dalla persona licenziata)];

• all’ effetto demolitorio si accompagna l’ effetto ripristinatorio

(ad es., se viene annullato un decreto di espropriazione, l’

immobile espropriato va restituito al proprietario, in modo che

questi è posto nella stessa situazione nella quale si sarebbe

trovato se l’ espropriazione non fosse intervenuta);

• l’ esercizio ulteriore del potere amministrativo soggiace, invece,

all’ effetto conformativo della sentenza di annullamento (effetto

che è strettamente collegato ai motivi di ricorso che il giudice ha

ritenuto fondati); con l’ effetto conformativo, in altri termini, la

sentenza che accerta l’ illegittimità dell’ atto annullato identifica il

modo legittimo dell’ esercizio del potere (contiene, cioè, un

precetto destinato ad orientare la futura attività dell’

amministrazione). Va precisato, in ogni caso, che il vincolo a

carico dell’ amministrazione può essere pieno: come quando il

giudice annulla l’ atto per difetto dei presupposti normativi

soggettivi o oggettivi (è questo il caso, ad es., della sentenza di

annullamento del provvedimento di espulsione di un cittadino

comunitario, al quale viene applicata indebitamente la normativa

265

Page 266: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

sugli extracomunitari).

Il vincolo può essere, altresì, semipieno: come quando l’ atto è

annullato per eccesso di potere (in tal caso, l’ amministrazione ha

la possibilità di riadottare l’ atto, depurandolo, però, dal vizio

accertato dal giudice).

Il vincolo si definisce, infine, secondario (o anche strumentale)

quando l’ annullamento è disposto per motivi formali: ad es.,

perché non è stata data comunicazione dell’ avvio del

procedimento (in questi casi, l’ amministrazione può rinnovare il

procedimento, purché elimini il vizio, senza essere in alcun modo

legata in ordine al contenuto del nuovo atto).

§19. Il giudizio di ottemperanza

Come abbiamo visto, la sentenza del giudice amministrativo non

chiude la partita tra le parti del giudizio, ma pone le premesse per

un’ ulteriore attività della pubblica amministrazione (attività che

si muove tra i due estremi del puntuale adempimento del

precetto contenuto in sentenza e del rinnovato esercizio del

potere amministrativo).

In linea di principio possono verificarsi tre situazioni:

• in alcuni casi la sentenza è autoesecutiva: non richiede, cioè,

alcuna attività di esecuzione da parte dell’ amministrazione (se,

ad es., è stato revocato un permesso di costruire, l’ annullamento

del provvedimento da parte del giudice amministrativo restituisce

efficacia al permesso, che il privato può, in tal modo, continuare

ad utilizzare);

• in altri casi l’ amministrazione, pur essendo tenuta ad agire,

rimane assolutamente inerte (così, ad es., annullato un diniego di

autorizzazione, l’ autorità è tenuta a riesaminare la domanda; se

non lo fa, il privato può rivolgersi al giudice dell’ ottemperanza);

• la terza ipotesi è quella più complessa. L’ autorità provvede (ad

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Page 267: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

es., reiterando il diniego di autorizzazione). A questo punto

occorre stabilire se l’ amministrazione abbia esercitato il potere

amministrativo che viene fatto salvo dalla sentenza, ex art. 45 r.d.

1054/24 (nel qual caso il nuovo atto dovrà essere allora

impugnato nell’ ambito di un nuovo processo di cognizione)

ovvero se abbia violato o eluso il giudicato (e in tal caso la

questione dovrà essere sottoposta al giudice dell’ ottemperanza):

riproponendo l’ esempio di prima, si dovrà allora affermare che,

qualora l’ atto riproduca con qualche variante marginale il

precedente diniego, lo stesso dovrà essere considerato elusivo del

giudicato.

A questo punto, però, è necessario interrogarsi sul tipo di

invalidità che inficia l’ atto posto in essere in violazione o elusione

del giudicato: a tale quesito ha dato una risposta ben precisa la L.

15/05, la quale, infatti, ha qualificato come atto nullo il

provvedimento adottato in violazione o elusione del giudicato

(nullo perché ritenuto lesivo del diritto soggettivo del ricorrente

risultato vincitore all’ esecuzione del giudicato); pertanto,

trattandosi della lesione di un diritto soggettivo, la relativa

controversia è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice

amministrativo.

In questa prospettiva, l’ art. 112 c.p.a. individua le decisioni per le

quali è possibile chiedere l’ esecuzione in sede giurisdizionale,

così circoscrivendo l’ ambito di applicazione del giudizio di

ottemperanza; in particolare, ad avviso del legislatore, tale

giudizio è finalizzato all’ attuazione:

• delle sentenze passate in giudicato del giudice amministrativo e

del giudice ordinario;

• delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi

del giudice amministrativo;

• dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili.

L’ art. 112 c.p.a. contiene anche altre disposizioni finalizzate a

delineare il giudizio di ottemperanza; più precisamente, in tale

267

Page 268: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

sede il ricorrente:

• può esperire azione di condanna per il pagamento di somme a

titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in

giudicato della sentenza;

• può esperire azione di risarcimento dei danni derivanti dalla

mancata esecuzione, violazione o elusione del giudicato;

• può proporre la connessa domanda di risarcimento del danno

derivante dalla illegittimità del provvedimento impugnato (nel

termine di 120 gg. dal passaggio in giudicato della relativa

sentenza);

• può proporre domanda al fine di ottenere chiarimenti in ordine

alle modalità con cui si deve procedere all’ esecuzione di una

delle suddette pronunce (cd. ottemperanza di chiarimento).

Ad eccezione della domanda di risarcimento del danno (in cui l’

azione si prescrive, come visto, nel termine di 120 gg.), nelle altre

ipotesi l’ azione si prescrive dopo 10 anni dal passaggio in

giudicato della sentenza: è bene precisare, al riguardo, che opera

il termine di prescrizione (e non quello di decadenza) perché il

ricorrente fa valere, in tal caso, un diritto soggettivo nell’ ambito

di una giurisdizione esclusiva e di merito.

Giudice dell’ ottemperanza è il Tar che ha emesso la sentenza di

cui si chiede l’ esecuzione (e ciò anche qualora la stessa sia stata

impugnata davanti al Consiglio di Stato e quest’ ultimo l’ abbia

confermata in toto).

Viceversa, se la sentenza è stata riformata in appello, in senso

favorevole al privato (ovvero sia stata confermata, ma con

diversa motivazione), la competenza è del Consiglio di Stato.

Se, infine, la sentenza di cui si chiede l’ ottemperanza è del

giudice ordinario competente sarà, invece, il Tar nella cui

circoscrizione ha sede quel giudice (stesso discorso quando l’

ottemperanza riguarda un lodo arbitrale).

Con la sentenza che accoglie il ricorso il giudice ai sensi dell’ art.

114 c.p.a.:

268

Page 269: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

• ordina l’ ottemperanza, prescrivendo le relative modalità;

• dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del

giudicato;

• nomina, ove occorra, un commissario ad acta;

• determina, su richiesta del ricorrente, la somma di denaro

dovuta dall’ amministrazione per il ritardo nell’ esecuzione del

giudicato.

Un accenno è necessario dedicarlo, in particolare, al commissario

ad acta (figura inventata dalla giurisprudenza amministrativa, poi

codificata); si tratta di un soggetto terzo, che viene nominato dal

giudice nel caso in cui l’ amministrazione non ottemperi. Il

commissario, in ogni caso, non è un organo dell’ amministrazione

che non ha ottemperato, ma è un ausiliare del giudice (al quale,

tra l’ altro, è tenuto a rispondere).

Occorre precisare, infine, che se la sentenza che conclude il

giudizio di ottemperanza è emessa dal Tar, la stessa sarà

impugnabile dinanzi al Consiglio di Stato.

§20. I riti speciali

Accanto al rito ordinario (disciplinato dagli artt. 49-90), il c.p.a.

prevede e disciplina i cd. riti speciali: questi procedimenti

riguardano controversie che, in considerazione della loro

peculiarità (accesso ai documenti e ricorsi contro il silenzio) o per

la loro particolare rilevanza economica (appalti pubblici) o politica

(contenzioso elettorale) sono sottoposti a regole speciali.

a) il rito in materia di accesso ai documenti (art. 116 c.p.a.)

Per quanto riguarda il rito in materia di accesso ai documenti, l’

azione deve essere proposta entro 30 gg. dal diniego di accesso

ovvero dalla formazione del silenzio (l’ interessato, in ogni caso,

può proporre la domanda anche nell’ ambito del ricorso

principale); la decisione è presa dal giudice in forma semplificata

(questi, qualora accolga il ricorso, ordina all’ amministrazione di

269

Page 270: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

esibire, entro 30 gg., i documenti richiesti).

b) i ricorsi avverso il silenzio (art. 117 c.p.a.)

Per i ricorsi avverso il silenzio, il ricorrente può esercitare l’ azione

entro 1 anno dalla scadenza del termine per la conclusione del

procedimento (è fatta salva, tuttavia, la possibilità di riproporre l’

istanza con conseguente decorrenza dei nuovi termini); anche in

questo caso, la decisione viene presa dal giudice in forma

semplificata (e, in caso di accoglimento del ricorso, l’

amministrazione è ottemperata a provvedere entro 30 gg.).

c) il procedimento di ingiunzione (art. 118 c.p.a.)

Al procedimento di ingiunzione può ricorrere il creditore di una

somma di denaro (nell’ ambito della giurisdizione esclusiva su

diritti soggettivi di natura patrimoniale); l’ ingiunzione a pagare,

emessa dal presidente del Tar (o da un magistrato da lui delegato)

è opponibile con ricorso dinanzi al Tribunale.

d) il rito abbreviato in determinate materie (art. 119 c.p.a.)

Nelle controversie elencate nel co. 1 dell’ art. 119 (tra le quali

ricordiamo: l’ affidamento di lavori, servizi e forniture; i

provvedimenti delle Autorità amministrative indipendenti; la

privatizzazione di imprese o beni pubblici) i termini processuali

sono ridotti a metà (ad eccezione dei termini per ricorrere, che

rimangono immutati).

Se il rito abbreviato viene adìto con domanda cautelare, il giudice

può fissare l’ udienza di merito, ove ritenga che il ricorso sia

fondato, che il pregiudizio sia grave ed irreparabile e che il

contraddittorio sia completo (è bene specificare, però, che tra il

deposito dell’ ordinanza cautelare e l’ udienza di merito deve

decorrere un termine non inferiore a 30 gg.).

Considerazioni particolari è necessario, a questo punto, dedicarle

al rito in materia di affidamento di lavori, servizi e forniture: in tali

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Page 271: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

controversie, infatti, trovano applicazione ulteriori regole.

Innanzitutto, va detto che, qualora sia mancata la pubblicità del

bando di gara, il termine per ricorrere è di 30 gg. (decorrenti dalla

pubblicazione dell’ avviso di aggiudicazione definitiva).

Gli artt. 121-123 c.p.a. disciplinano, poi, i rapporti tra l’

annullamento dell’ aggiudicazione ed il contratto stipulato con l’

aggiudicatario, devolvendo la relativa giurisdizione al giudice

amministrativo (in tal modo è stato risolto un controverso

problema che ha visto da sempre su posizioni contrapposte il

Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione).

Al riguardo, è importante sottolineare che l’ annullamento dell’

aggiudicazione non travolge necessariamente il contratto, ma ne

determina, tuttavia, l’ inefficacia: ciò si verifica, ai sensi dell’ art.

121 c.p.a., se l’ affidamento non è stato preceduto dal bando o è

avvenuto con procedura negoziata senza bando, ovvero ancora se

il contratto è stato stipulato senza rispettare il termine dilatorio

stabilito dall’ art. 11 c.p.a. o senza rispettare la sospensione

obbligatoria del termine per la stipulazione derivante dalla

proposizione del ricorso giurisdizionale contro l’ aggiudicazione

definitiva.

È bene precisare, però, che il giudice, nei casi su menzionati, non

può dichiarare l’ inefficacia del contratto qualora sussistano

determinate esigenze connesse ad un interesse generale: tali

esigenze ricorrono, ad es., nel caso in cui risulti evidente che gli

obblighi contrattuali possono essere soddisfatti solo dall’

esecutore attuale; o quando dalla declaratoria di inefficacia

deriverebbero esigenze sproporzionate, soprattutto nei casi in cui

il ricorrente non abbia chiesto di subentrare nel contratto.

A differenza delle ipotesi elencate nell’ art. 121 c.p.a. (che, come

abbiamo visto, regola i casi in cui il giudice è tenuto a dichiarare l’

inefficacia del contratto stipulato con l’ aggiudicatario o gli è

vietato di dichiararla in presenza delle esigenze imperative su

esposte), il successivo art. 122 rimette, invece, al giudice la

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Page 272: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

facoltà di dichiarare inefficace il contratto (ovviamente, fuori dei

casi indicati nell’ art. 121).

Qualora il contratto venga dichiarato inefficace, il ricorrente potrà

ottenere l’ aggiudicazione; viceversa, nel caso in cui non lo

dichiari tale, il giudice disporrà il risarcimento del danno per

equivalente.

§21. Il giudizio cautelare

a) i poteri cautelari del giudice amministrativo

Anche se il d.lgs. 104/10 impone al giudice ed alle parti di

cooperare per la realizzazione della ragionevole durata del

processo, i tempi processuali possono, il più delle volte,

pregiudicare le ragioni del ricorrente (ad es., se al proprietario

viene intimata la demolizione di un manufatto edilizio, perché

abusivo, e la costruzione viene effettivamente demolita, a nulla

varrà l’ accoglimento del ricorso contro il provvedimento del

comune, se non ai fini dell’ eventuale risarcimento danni).

Tenuto conto di ciò, tutti gli ordinamenti processuali prevedono,

oggi, una specifica tutela cautelare, che serve ad impedire che i

tempi del processo giochino a danno della parte che ha ragione

(serve, cioè, ad assicurare provvisoriamente, anticipandoli, gli

effetti della decisione di merito).

È necessario sottolineare, tuttavia, che prima dell’ emanazione

della L. 205/00, l’ unica misura cautelare tipica prevista e

disciplinata dal nostro ordinamento era la sospensione del

provvedimento impugnato, qualora dalla sua esecuzione fossero

derivati danni gravi ed irreparabili (tali, cioè, da non poter essere

riparati dall’ accoglimento del ricorso nel merito).

Soltanto nell’ ambito della giurisdizione esclusiva (in particolare,

nella materia del pubblico impiego) potevano trovare applicazione

misure cautelari atipiche, ex art. 700 c.p.c. (in tal senso, Corte

cost., sent. 190/85).

272

Page 273: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Tali limitazioni, però, se non influivano negativamente sulla tutela

di interessi legittimi oppositivi (ad es., la sospensione dell’

ordinanza di demolizione), rendevano, viceversa, quasi del tutto

impossibile la tutela cautelare di interessi legittimi pretensivi,

poiché lesi da provvedimenti di carattere negativo (ad es., il

diniego del permesso di costruire): in altri termini, ci si chiedeva

come fosse possibile sospendere il provvedimento negativo.

La stessa giurisprudenza, del resto, non era riuscita a fornire al

quesito risposte del tutto efficaci: si riteneva, infatti, che il diniego

di provvedimento non fosse suscettibile di sospensione; ma,

anche se fosse stata possibile, la sospensione del provvedimento

negativo non avrebbe potuto comunque equivalere al rilascio del

provvedimento negato, perché qualora avesse accolto la

domanda di cautela, il giudice avrebbe finito per sostituirsi all’

amministrazione.

Di queste problematiche hanno preso, quindi, atto la L. 205/00 e il

d.lgs. 104/10: in particolare, attraverso questi due provvedimenti,

il legislatore, tenendo conto dell’ insufficienza della misura

cautelare (tipica) della sospensione del provvedimento

impugnato, ha ritenuto opportuno strutturare i poteri cautelari del

giudice amministrativo sullo schema dell’ art. 700 c.p.c.: ciò

significa, pertanto, che oggi il giudice può concedere all’

interessato la misura cautelare (atipica) più idonea ad assicurare

interinalmente (cioè, provvisoriamente) gli effetti della decisione

sul ricorso; il legislatore, inoltre, tenendo conto del fatto che nel

processo amministrativo può essere proposta non soltanto l’

azione di annullamento, ma anche l’ azione di condanna e quella

di mero accertamento (ossia, azioni nelle quali manca un

provvedimento), ha previsto anche la possibilità di disporre l’

ingiunzione a pagare, in via provvisoria, una somma di denaro

(anticipatoria di una sentenza di condanna).

b) i presupposti per l’ esercizio del potere cautelare

273

Page 274: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Affinché la richiesta cautelare possa essere accolta sono

necessari il fumus boni iuris ed il periculum in mora. In

particolare, ai sensi dell’ art. 55, co. 1 c.p.a., il periculum in mora

coincide con il danno grave ed irreparabile, mentre la necessità

del fumus boni iuris è enunciata nel successivo co. 2 della

medesima disposizione, ove si legge che la domanda cautelare

può essere accolta se il ricorso, ad un sommario esame, appare

fondato [si parla di fumus, ossia di una parvenza di fondatezza

(senza la quale il danno grave ed irreparabile non è sufficiente, da

solo, a giustificare l’ accoglimento della domanda): sarebbe, ad

es., incongrua la sospensione di un provvedimento, anche se

causa di un pregiudizio serio, se i motivi di ricorso apparissero,

prime facie, infondati].

c) il procedimento cautelare ordinario (o collegiale)

L’ istanza cautelare deve essere proposta al collegio (il Tar adìto)

con un atto inserito nel corpo del ricorso introduttivo (o anche con

una separata istanza); fatto ciò, la domanda (dopo essere stata

notificata alle altre parti) deve essere depositata presso la

segreteria del Tar (insieme all’ istanza di fissazione dell’ udienza

di merito). A questo punto, la domanda cautelare viene esaminata

dal collegio nella prima camera di consiglio successiva, purché

siano trascorsi almeno 20 gg. giorni dal perfezionamento, anche

per il destinatario, dell’ ultima notificazione e 10 gg. dal deposito

del ricorso.

Le parti possono depositare memorie e documenti fino a 2 gg.

prima della camera di consiglio; tuttavia, per gravi ed eccezionali

ragioni, le stesse parti possono essere autorizzate a depositare

documenti anche nella camera di consiglio, purché di essi sia

stata consegnata copia alle altre parti prima dell’ inizio della

discussione (questa si svolge in modo sintetico, se una delle parti

ne fa richiesta).

In merito alla domanda, il collegio può, innanzitutto, emettere un’

274

Page 275: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

ordinanza motivata, di accoglimento o di rigetto (motivata,

ovviamente, in ordine al periculum in mora ed al fumus boni

iuris).

In secondo luogo, il collegio (qualora ritenga che sussistano i

presupposti per il giudizio di merito) fissa, con ordinanza

collegiale, la data di discussione del ricorso nel merito.

Infine, il collegio può definire il giudizio con sentenza di merito in

forma semplificata, purché sia assicurato il contraddittorio e

sempre che non sia necessaria un’ istruttoria; è bene precisare,

però, che la definizione del giudizio con sentenza in forma

semplificata non è ammessa nel caso in cui una delle parti

dichiari di voler presentare motivi aggiunti, ricorso incidentale

ovvero regolamento di competenza o di giurisdizione.

d) le varianti all’ ordinario procedimento cautelare

Sebbene la domanda di cautela debba essere esaminata in tempi

brevi, questi ultimi, tuttavia, possono risultare comunque troppo

lunghi qualora l’ urgenza sia massima; a tal fine, gli artt. 56 e 61

c.p.a. prevedono due specifiche ipotesi risolutive.

Innanzitutto, è previsto che, in caso di estrema gravità ed

urgenza (tale da non consentire neppure di attendere la data

della camera di consiglio) la richiesta può essere rivolta al

presidente del Tar o al magistrato da lui delegato: il giudice,

accertata l’ avvenuta notifica del ricorso (almeno all’

amministrazione resistente e ad uno dei controinteressati),

provvede con decreto motivato non impugnabile.

L’ altro rimedio previsto e disciplinato dalla legge prende, invece,

il nome di misura cautelare ante causam (cioè, anteriore alla

causa). A differenza della precedente ipotesi (nella quale, come

visto, l’ urgenza è tale non consentire l’ attesa fino alla data della

camera di consiglio), in questo caso, invece, l’ urgenza è tale da

non consentire neppure la previa notificazione del ricorso; risulta,

allora, sufficiente notificare la domanda di misura cautelare

perché il presidente o il giudice da lui delegato provveda su di

275

Page 276: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

essa (con decreto), dopo aver sentito le parti (è bene precisare

comunque che, nell’ ipotesi disciplinata, il ricorso per il merito non

viene omesso, ma semplicemente posticipato: tant’è vero che se

esso non viene notificato entro 15 gg. e depositato in segreteria

nei successivi 5 gg., il decreto presidenziale perde efficacia).

e) la riproposizione della domanda, l’ istanza di revoca e le

impugnazioni

L’ ordinanza del Tar che respinge la domanda cautelare può

essere riproposta qualora si verifichino mutamenti nelle

circostanze di fatto o qualora il ricorrente alleghi fatti anteriori da

lui prima non conosciuti (purché fornisca la prova del momento in

cui ne è venuto a conoscenza); per contro, qualora il Tar accolga

la domanda del ricorrente, le altre parti possono proporre istanza

di revoca della misura cautelare (sempre che, ovviamente,

ricorrano i medesimi presupposti su indicati).

Per quanto riguarda, invece, il sistema delle impugnazioni, è

necessario sottolineare che avverso le ordinanze cautelari l’

interessato può proporre appello al Consiglio di Stato, nel termine

di 30 gg. dalla notifica dell’ ordinanza (ovvero nel termine di 60

gg. dalla sua pubblicazione). In particolare, il Consiglio di Stato è

chiamato a valutare l’ ingiustizia dell’ ordinanza (di accoglimento

o di rigetto della misura cautelare) così come prospettata dall’

appellante; ma può anche accertare d’ ufficio la violazione delle

regole sulla giurisdizione, sulla competenza per territorio o sulla

competenza funzionale (ed annullare l’ ordinanza impugnata per

questo motivo).

Nel caso in cui il Consiglio di Stato, accogliendo il ricorso in

appello, disponga una misura cautelare, l’ ordinanza viene

trasmessa, dalla segreteria, al primo giudice, in modo che questi

fissi l’ udienza di merito con priorità.

§22. Le impugnazioni

276

Page 277: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

a) profili generali

I mezzi di impugnazione delle sentenze sono l’ appello, la

revocazione, l’ opposizione di terzo e il ricorso per cassazione (gli

aspetti comuni a questi quattro mezzi sono disciplinati dagli artt.

92-99 c.p.a).

È bene precisare, però, che oltre ai mezzi su indicati (che

potremmo definire impugnazioni principali) sono anche previste

due impugnazioni incidentali, che si distinguono per il differente

trattamento normativo: la prima impugnazione incidentale

(proposta ai sensi dell’ art. 333 c.p.c.) è un’ impugnazione che si

distingue da quella principale per il solo fatto che è stata

preceduta dall’ impugnazione di un’ altra parte [sicché il termine

per ricorrere in via incidentale (60 gg.) decorre dalla notifica dell’

altra impugnazione].

La seconda impugnazione incidentale (denominata tardiva) viene,

invece, proposta, ai sensi dell’ art. 334 c.p.c., solo perché la parte

soccombente ha impugnato in via principale la sentenza. In altri

termini: la parte (che ha impugnato in via incidentale) si sarebbe

acquetata, sebbene non pienamente soddisfatta dalla sentenza di

primo grado, se altra parte non avesse impugnato quest’ ultima,

facendo insorgere in lei l’ interesse ad attaccare la sentenza, al

fine di ridurre il danno che potrebbe emergere dall’ accoglimento

dell’ impugnazione principale (o di impedirlo del tutto).

Occorre precisare, in ogni caso, che l’ impugnazione incidentale,

in entrambe le sue forme, ha come suo normale ambito di

applicazione l’ appello al Consiglio di Stato (cd. appello

incidentale).

Per quanto riguarda, invece, i soggetti, è necessario sottolineare

che tra le parti del giudizio di impugnazione vi può essere l’

interventore: sia quello che era presente nel giudizio di primo

grado che, non avendo titolo per impugnare, può essere presente

nel processo d’ appello soltanto attraverso un nuovo intervento

277

Page 278: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

(che può essere sollecitato dalla notifica dell’ atto di

impugnazione); sia quello che, non avendo partecipato al giudizio

di primo grado, interviene, avendovi interesse, per la prima volta

nel giudizio di impugnazione.

Un accenno occorre dedicarlo, infine, ai poteri del giudice dell’

impugnazione: questi, in particolare, dispone dello stesso potere

di sospensione attribuito al giudice che ha emesso la sentenza

impugnata, sempre che dall’ esecuzione possa derivare un danno

grave ed irreparabile (anche in questo caso, quindi, rileva il

fumus, perché la sospensione può essere disposta una volta

valutati i motivi proposti). È bene precisare, però, che il potere

cautelare non può essere attribuito alla Corte di Cassazione: ciò

significa, pertanto, che se la sentenza viene impugnata per soli

motivi inerenti alla giurisdizione (se, cioè, viene proposto ricorso

per cassazione), l’ eventuale sospensione può essere chiesta al

Consiglio di Stato.

b) l’ appello

Le sentenze dei Tar sono impugnabili davanti al Consiglio di Stato:

questi ha la stessa competenza e dispone degli stessi poteri di

cognizione e di decisione del giudice di primo grado (salve le

eccezioni previste dall’ art. 104 c.p.a.).

Come l’ appello civile, anche l’ appello nel processo

amministrativo ha la struttura di un secondo giudizio: esso, cioè,

tende alla ripetizione del giudizio (o meglio, alla sua sostituzione

con un giudizio nuovo).

Legittimata a proporre appello è la parte soccombente: il

ricorrente (se il ricorso è stato respinto) ovvero l’ amministrazione

o il controinteressato (se il ricorso è stato accolto). Nel caso in cui

il ricorso venga respinto, il Consiglio di Stato conferma la

sentenza di primo grado; viceversa, qualora lo accolga, esso

sostituisce la sua sentenza a quella del Tar.

Accanto alle ipotesi su indicate (che sono le più semplici) ve ne

278

Page 279: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

sono altre ben più complicate: è possibile, infatti, che il Tar abbia

giudicato il ricorso irricevibile (perché tardivo) o nullo (perché

carente degli elementi essenziali) ovvero inammissibile (per

mancata notifica al controinteressato o per difetto di interesse). In

questi casi, come si può notare, è mancato, in primo grado, un

giudizio di merito (sulla fondatezza o meno del ricorso) perché il

Tar si è arrestato ad una questione pregiudiziale. Ora, in virtù del

principio del doppio grado di giurisdizione, il Consiglio di Stato,

una volta accolto l’ appello, dovrebbe rinviare la controversia al

giudice di primo grado, affinché questi esprima quel giudizio di

merito che è stato indebitamente omesso; ciò, però, non accade,

perché prevale un’ esigenza di pura economia processuale (si

tratta della regola della ragionevole durata del processo, ex art.

111 Cost.): di conseguenza, il Consiglio di Stato, una volta accolto

l’ appello, giudica nel merito, dopo aver superato le pregiudiziali

che avevano indotto il Tar ad astenersi dal giudizio di merito.

Vi sono, in ogni caso, delle ipotesi nelle quali la causa deve essere

comunque rimessa al giudice di primo grado (cioè, al Tar). Ciò

accade:

• se è mancato il contraddittorio (ad es., se il Tar ha posto a

fondamento della decisione una questione rilevata d’ ufficio,

precludendo, quindi, alla parte interessata la possibilità di

difendersi);

• se la sentenza è nulla (ad es., perché manca la concisa

esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione);

• se il Tar ha erroneamente declinato la giurisdizione o la

competenza (dichiarando se stesso carente di giurisdizione o

incompetente) o se ha erroneamente dichiarato l’ estinzione o la

perenzione del giudizio.

L’ appello (principale) presuppone la soccombenza (in primo

grado) della parte che lo propone. Questa soccombenza,

ovviamente, può essere totale o parziale: è parziale, ad es.,

quando il Tar accoglie un motivo di ricorso e, di conseguenza,

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Page 280: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

annulla l’ atto impugnato, ma respinge altri motivi [in questo caso

l’ appello è ammesso qualora la parte possa ricevere dal suo

accoglimento vantaggi ulteriori (ad es., accolto il ricorso per

motivi formali, il ricorrente propone appello allo scopo di vedere

accolti i motivi, respinti in primo grado, con cui si denunciano

illegittimità sostanziali)]. È questo il motivo per il quale l’ art. 102

c.p.a. riconosce la legittimazione a proporre appello alle parti tra

le quali è stata pronunciata la sentenza di primo grado (e, quindi,

non solo alla parte soccombente); ciò significa che anche il

vincitore può proporre appello se la sua vittoria (in primo grado) è

stata parziale.

Passiamo ora ad affrontare il tema dell’ appello incidentale: al

riguardo, è necessario sottolineare che nel caso in cui la sentenza

venga impugnata dall’ amministrazione resistente o dal

controinteressato, il ricorrente in primo grado ha la possibilità di

riproporre i motivi di ricorso non accolti dal Tar, con appello

incidentale (in questa ipotesi, come si può notare, il thema

decidendi viene allargato in modo che il Consiglio di Stato è

tenuto a riprendere in considerazione l’ intero oggetto del giudizio

di primo grado).

Come detto in precedenza, l’ appello principale presuppone la

soccombenza della parte che lo propone; viceversa, l’ appello

incidentale presuppone una parziale vittoria (è il caso, ad es., del

ricorrente in primo grado i cui motivi di ricorso siano stati accolti

solo in parte; o dell’ amministrazione o del controinteressato le

cui difese siano state accolte solo in parte). Dagli esempi

avanzati, quindi, possiamo dedurre che l’ appello incidentale può

essere proposto dalla parte che ha ottenuto una mezza vittoria e

che, per tal motivo, impugna la sentenza (appellata dall’ altra

parte in via principale) nella parte in cui le dà torto.

In linea generale, l’ esame dell’ appello principale precede quello

dell’ appello incidentale; vi sono, però, delle ipotesi nelle quali si

verifica una sorta di inversione (ciò accade, ad es., quando il

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Page 281: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

ricorrente soccombente impugna la sentenza del Tar e l’

amministrazione ripropone, con appello incidentale, la questione

di tardività del ricorso, che era stata già sollevata davanti al

giudice di primo grado e da questi era stata ritenuta infondata: in

questa ipotesi l’ appello incidentale, come si può notare,

configura una questione pregiudiziale che, in quanto tale, deve

essere necessariamente esaminata con precedenza).

Nel giudizio d’ appello vale la regola sancita dall’ art. 345 c.p.c.,

secondo cui in secondo grado non possono essere proposte né

nuove eccezioni non rilevabili d’ ufficio né domande nuove

[queste ultime, se proposte, devono essere dichiarate

inammissibili (tale preclusione opera, essenzialmente, a carico

dell’ appellante che era ricorrente in primo grado, il quale, infatti,

non può proporre, in appello, motivi non dedotti in primo grado)].

L’ originale del ricorso in appello deve essere depositato nella

segreteria del Consiglio di Stato entro 30 gg. dall’ ultima notifica;

per il resto, trovano applicazione le stesse regole già considerate

con riferimento al Tar (in tema di fissazione di udienza, istruttoria

eventuale, termini per il deposito dei documenti e delle memorie,

udienza di discussione).

Secondo la normativa preesistente al 2010 si riteneva che il

giudice d’ appello, disponendo degli stessi poteri di cognizione e

di decisione del giudice di primo grado, fosse titolare anche degli

stessi poteri istruttori; viceversa, l’ art. 104 d.lgs. 104/10,

uniformandosi al codice di rito (art. 345 c.p.c.) ha escluso che nel

processo d’ appello possano essere ammessi nuovi mezzi di prova

o possano essere prodotti nuovi documenti, a meno che il collegio

non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa

ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli nel

giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile.

Un’ altra rilevante novità introdotta dal d.lgs. 104/10 è, poi,

costituita dalla possibilità di proporre motivi aggiunti in appello,

qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti

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Page 282: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

dalle altre parti nel giudizio di primo grado, dai quali emergano

vizi degli atti impugnati (ovviamente, tale possibilità è

riconosciuta al ricorrente in primo grado e che, soccombente

davanti al Tar, abbia proposto appello).

È necessario sottolineare, infine, che l’ appello non sospende l’

esecuzione della sentenza impugnata (la quale, pertanto, è

esecutiva); l’ appellante, però, ha la possibilità di impedire l’

esecuzione presentando apposita istanza al Consiglio di Stato

(che la accoglie quando dall’ esecuzione possa derivare un danno

grave ed irreparabile).

c) il ricorso per revocazione e l’ opposizione di terzo

Come sappiamo, il Consiglio di Stato è giudice di secondo ed

ultimo grado: le sue sentenze, infatti, sono impugnabili con

ricorso per cassazione solo per motivi inerenti alla giurisdizione

(cioè, solo nel caso in cui il Consiglio abbia giudicato fuori dalla

sua giurisdizione). A questa regola, però, fanno eccezione due

rimedi: il ricorso per revocazione e l’ opposizione di terzo (che

possono essere proposti contro la sentenza del Consiglio di Stato).

Ai sensi dell’ art. 395 c.p.c. il ricorso per revocazione è ammesso:

• se la sentenza è l’ effetto del dolo di una delle parti in danno

dell’ altra;

• se si è giudicato in base a prove dichiarate false dopo la

sentenza ovvero che la parte soccombente ignorava essere state

dichiarate tali (cioè, false) prima della pronuncia;

• se, dopo la sentenza, sono stati trovati uno o più documenti

decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per

causa di forza maggiore o per fatto dell’ avversario;

• quando la sentenza è fondata sulla supposizione di un fatto la

cui verità è esclusa incontrastabilmente o sulla supposizione dell’

inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente accertata;

• se la sentenza è contraria ad altra precedente avente tra le

parti autorità di cosa giudicata ;

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Page 283: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

• se la sentenza è effetto del dolo del giudice, accertato con

sentenza passata in giudicato.

Ora, quando il fatto è rilevabile dalla sentenza (errore di fatto o

violazione del giudicato), il termine per impugnare (60 gg.)

decorre dalla notifica della sentenza (cd. revocazione ordinaria);

negli altri casi, invece, il termine decorre dal momento in cui è

stato scoperto il fatto o la circostanza su cui si fonda il vizio

revocatorio (cd. revocazione straordinaria).

È importante specificare che il giudizio di revocazione è

proponibile dinanzi al giudice che ha pronunciato la sentenza

impugnata (Tar o Consiglio di Stato); tuttavia, contro la sentenza

del Tar la revocazione è ammessa solo nel caso in cui i motivi non

possano essere dedotti con l’ appello.

Un ultimo accenno occorre dedicarlo al contenuto della sentenza

che chiude il giudizio di revocazione; al riguardo è necessario

sottolineare che tale sentenza presenta una struttura complessa,

perché comprensiva di due fasi: una fase rescindente ed una fase

rescissoria. Più precisamente, nella fase rescindente il giudice, se

accoglie il ricorso, elimina la sentenza impugnata perché affetta

dal vizio revocatorio denunciato; nella fase rescissoria, invece, il

giudice emette un nuovo provvedimento, emendato dal vizio che

aveva inficiato la pronuncia precedente.

L’ opposizione di terzo, oggi disciplinata dall’ art. 108 c.p.a., è

stata introdotta nel nostro ordinamento con una sentenza additiva

della Consulta (sent. 177/95), la quale ha giudicato illegittimi gli

artt. 28 e 36 della legge istitutiva dei Tar, nella parte in cui non

prevedevano questo particolare rimedio contro le sentenze del Tar

(passate in giudicato) e del Consiglio di Stato.

L’ opposizione di terzo è proponibile contro le sentenze del Tar e

contro quelle del Consiglio di Stato, ma competente a conoscerla

è, in ogni caso, il Consiglio di Stato; il rimedio può essere proposto

in ogni tempo (ma ove siano coinvolti interessi legittimi, il termine

decorre dal momento in cui il terzo ha avuto conoscenza della

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Page 284: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

sentenza lesiva del suo interesse).

Legittimati a proporre opposizione sono i controinteressati

pretermessi (cioè, i controinteressati ai quali non è stato

notificato il ricorso, di primo grado o d’ appello, e che pertanto

non furono posti nella condizione di potersi difendere), nonché i

soggetti che, pur non essendo stati controinteressati in senso

tecnico, sono comunque titolari di una posizione che può essere

pregiudicata dalla sentenza del Consiglio di Stato (cd.

controinteressati sopravvenuti).

Ovviamente, i presupposti per l’ accoglimento del ricorso variano

a seconda di chi sia l’ opponente: in particolare, qualora

opponente sia il controinteressato pretermesso è sufficiente che

egli dimostri che aveva diritto alla notifica del ricorso e che tale

notifica non è avvenuta, per ottenere l’ annullamento della

sentenza (del Consiglio di Stato o del Tar) ed il rinvio al primo

giudice (al Tar).

Qualora, invece, opponente sia il controinteressato sopravvenuto

è necessario che egli dimostri di aver ragione, allo scopo di

ottenere l’ annullamento della sentenza: non è sufficiente, cioè,

che egli provi che il ricorso non gli è stato notificato (il ricorrente,

infatti, non aveva alcun obbligo in tal senso), ma deve dimostrare

l’ inconsistenza dei motivi di ricorso ovvero l’ esistenza di una

pregiudiziale ostativa del giudizio di merito (ad es., l’ irricevibilità

del ricorso).

d) il ricorso per cassazione

L’ art. 111, co. 8 Cost. stabilisce che contro le sentenze del

Consiglio di Stato e della Corte dei Conti il ricorso per cassazione

è ammesso solo per i motivi inerenti alla giurisdizione: questa

limitazione è, ovviamente, connessa alla posizione costituzionale

dei due organi (posizione che sarebbe menomata qualora le loro

sentenze potessero essere annullate dalla Cassazione per

violazione di legge o per vizio della motivazione).

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Page 285: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

La disposizione costituzionale enunciata è stata, poi, ripresa dall’

art. 110 c.p.a., il quale, infatti, ammette il ricorso per cassazione

contro le sentenze del Consiglio di Stato per i soli motivi inerenti

alla giurisdizione. In particolare, sono motivi inerenti alla

giurisdizione:

• il difetto assoluto di giurisdizione (ossia, quando la questione è

demandata ad un altro potere dello Stato);

• il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo rispetto al

giudice ordinario, per essere la questione demandata alla

esclusiva cognizione di quest’ ultimo;

• il difetto di giurisdizione del Tar o del Consiglio di Stato rispetto

ad altri giudici amministrativi (ad es., la Corte dei Conti);

• il difetto di giurisdizione ove il giudice amministrativo abbia

esplicato un sindacato di merito su questione in cui esso aveva

competenza soltanto di legittimità;

• il difetto di giurisdizione per irregolare composizione del collegio

giudicante.

La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso, cassa la sentenza

impugnata senza disporre il rinvio nel caso in cui neghi la

sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo; cassa,

viceversa, la sentenza con rinvio qualora affermi la giurisdizione

che, invece, il giudice amministrativo aveva negato (in tal caso il

processo deve essere riassunto dinanzi al Consiglio di Stato).

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Page 286: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

Sezione V

I ricorsi amministrativi

§1. Il ricorso gerarchico ed il ricorso in opposizione

Alla tutela offerta dal giudice si è sempre accompagnata la tutela

offerta dalla stessa amministrazione; l’ apparente paradosso (di

un protezione assicurata dallo stesso soggetto contro il quale si

agisce) si giustifica in virtù del fatto che l’ autorità alla quale ci si

rivolge non è la stessa autorità che ha emesso l’ atto che si

intende attaccare, ma è l’ autorità gerarchicamente superiore.

Disciplinato in termini generali con D.P.R. 1199/71, il ricorso

gerarchico può essere proposto contro gli atti (non definitivi) delle

autorità che hanno un superiore gerarchico (ad es., il questore

subordinato al prefetto, il prefetto al Ministro dell’ Interno); il

ricorso, quindi, non è ammesso contro gli atti di chi è al vertice

della gerarchia ovvero contro gli atti di un organo collegiale.

Il termine per ricorrere è di 30 gg. ed i motivi che possono essere

fatti valere possono essere non solo di legittimità, ma anche di

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Page 287: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

merito (chi ricorre in via gerarchica, cioè, può denunciare non solo

l’ illegittimità dell’ atto, ma anche la sua inopportunità o la sua

iniquità ed ingiustizia).

È importante sottolineare, infine, che se l’ interessato ha proposto

ricorso in via gerarchica non può proporre simultaneamente

ricorso al Tar (il ricorso giurisdizionale è ammesso soltanto dopo

che siano decorsi 90 gg.: ossia, dal momento in cui, non essendo

intervenuta nessuna decisione, il ricorso si intende respinto a tutti

gli effetti). Più precisamente:

• se l’ amministrazione accoglie il ricorso gerarchico viene meno l’

esigenza di rivolgersi al giudice;

• se, invece, l’ amministrazione lo respinge o non lo decide (entro

90 gg.) l’ interessato potrà rivolgersi al Tar.

Il D.P.R. 1199/71, oltre al ricorso gerarchico, prevede e disciplina

anche il ricorso in opposizione, ossia il ricorso che può essere

proposto allo stesso organo che ha emesso l’ atto impugnato: si

tratta di un ricorso che è ammesso nei soli casi previsti dalla

legge e la cui efficacia, in termini di tutela del privato, è quasi

nulla (dal momento che l’ autorità ben difficilmente è disposta a

rimangiarsi quello che ha deciso solo perché il privato reclama).

§2. Il ricorso straordinario

L’ altro rimedio amministrativo a carattere generale è il ricorso

straordinario, non più al Re, ovviamente, ma al Presidente della

Repubblica.

In realtà, è bene precisare che la decisione spetta ad una sezione

del Consiglio di Stato ovvero alla commissione speciale dello

stesso, anche se la legge parla di parere: più precisamente, dal

punto di vista formale, la decisione è del Presidente della

Repubblica su proposta del ministro competente per materia; dal

punto di vista sostanziale, invece, sia la decisione che la proposta

si limitano a far proprio il parere del Consiglio di Stato (ciò lo si

desume, tra l’ altro, dalla formulazione dell’ art. 69 L. 69/09, il

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Page 288: Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

quale, infatti, ha stabilito che la decisione deve essere adottata su

proposta del ministro competente, conforme al parere del

Consiglio di Stato).

Oggi, il ricorso straordinario (disciplinato dal D.P.R. 1199/71)

continua ad essere usato sia perché è molto più economico del

ricorso giurisdizionale (può essere, infatti, presentato senza la

necessità dell’ assistenza di un legale), sia perché il termine per

ricorrere è di 120 gg. dalla data di notificazione ovvero dalla piena

conoscenza dell’ atto da impugnare (esso, quindi, rappresenta

una sorta di ultima spiaggia per chi abbia lasciato trascorrere il

termine di 60 gg. per rivolgersi al Tar).

A differenza del ricorso gerarchico (che, come sappiamo, può

essere seguito dal ricorso giurisdizionale al Tar), il ricorso

straordinario è alternativo al ricorso al Tar: in altri termini, chi

ricorre al Tar non può proporre ricorso straordinario e chi propone

ricorso straordinario non può rivolgersi al Tar [questa preclusione

si giustifica in virtù del fatto che a rendere il parere sul ricorso

straordinario, e in sostanza a deciderlo, è il Consiglio di Stato in

sede consultiva (ossia, lo stesso organo che, in sede

giurisdizionale, potrebbe essere chiamato a giudicare, in secondo

grado, sul ricorso presentato al Tar e da quest’ ultimo deciso: con

la possibilità di due pronunce contraddittorie sullo stesso tema)].

In ogni caso, appare opportuno sottolineare che la scelta è

obbligata per chi ricorre, non per chi resiste al ricorso

(amministrazione o controinteressato); costoro, infatti, possono

chiedere, entro 60 gg. dalla notifica del ricorso straordinario, che

questo sia deciso in sede giurisdizionale. Ora, in seguito a tale

richiesta, il ricorrente è tenuto a costituirsi, entro i successivi 60

gg., davanti al Tar competente (art. 48 c.p.a.): si tratta della cd.

trasposizione del ricorso straordinario in sede giurisdizionale, che

costituisce una manifestazione attraverso la quale il nostro

ordinamento riconosce ed attribuisce preferenza al ricorso

giurisdizionale.

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Qualora la parte resistente al ricorso (amministrazione o

controinteressato) non si avvalga della facoltà di trasposizione del

ricorso straordinario in sede giurisdizionale, potrà tuttavia

impugnare la decisione davanti al Tar, ma solo per vizi di forma o

di procedimento: cioè, solo se il procedimento di decisione del

ricorso straordinario è stato irregolare (perché, ad es., è stata

omessa la notifica ad un controinteressato).

È opportuno precisare, poi, che il ricorso straordinario si distingue

dal ricorso giurisdizionale per due motivi:

• esso, infatti, può essere proposto soltanto contro atti definitivi

(ossia, contro atti sui quali non possano proporsi domande di

riparazione in via gerarchica);

• il ricorso straordinario, inoltre, può essere proposto sia a tutela

di interessi legittimi che di diritti soggettivi.

Il ricorso straordinario si differenzia, inoltre, dal ricorso gerarchico,

per via del fatto che attraverso di esso possono essere fatti valere

solo vizi di legittimità.

Una volta annullato l’ atto (attraverso il ricorso straordinario),

qualora l’ amministrazione non ottemperi alla decisione, l’

interessato può adire il Tar Lazio con l’ azione di ottemperanza

(art. 112 c.p.a.).

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