Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010
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Manuale di diritto amministrativo (Guido Corso, edizione 2010)
Parte I
L’ organizzazione
Sezione I
I concetti
§1. Organizzazione e prospettiva giuridica
Le organizzazioni sono insiemi di persone legate tra loro da uno
stesso scopo (sono organizzazioni, ad es., il Ministero dell’ interno,
il cui scopo è quello di mantenere l’ ordine e la sicurezza pubblica,
ovvero l’ INPS, la cui finalità è quella di raccogliere contributi ed
erogare prestazioni sociali). Ovviamente, all’ interno di ogni
organizzazione le persone sono distribuite secondo ruoli
complementari tra loro (dal Ministro dell’ interno all’ ultimo dei
poliziotti), devono agire in modo congruo rispetto agli scopi da
raggiungere e hanno bisogno di risorse (ad es., il denaro
necessario al pagamento degli stipendi).
Le strutture indicate a mo’ di esempio come organizzazioni
(Ministero dell’ interno e INPS) sono, più precisamente, pubbliche
amministrazioni (P.A.), vale a dire quel complesso di soggetti
pubblici che svolgono un’ attività amministrativa, cioè un’ attività
volta alla realizzazione di interessi pubblici, che l’ ordinamento
pone come fini da realizzare (negli esempi avanzati: la sicurezza
pubblica e la previdenza sociale). Tali organizzazioni, a ben
vedere, presentano molti tratti in comune con altre che pubbliche
amministrazioni non sono (si pensi, ad es., all’ IBM o alla FIAT):
anche queste perseguono un determinato scopo, sono costituite
da persone e necessitano di determinate risorse. Ora, le analogie
tra questi due tipi di organizzazioni sono tali da giustificare l’
esistenza di una disciplina scientifica che le abbraccia entrambe:
la scienza dell’ organizzazione, la quale prende in considerazione i
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rapporti tra le persone all’ interno dell’ organizzazione.
Dal punto di vista giuridico, però, l’ approccio è diverso. Infatti, le
organizzazioni (cioè, le persone giuridiche) sono, innanzitutto, una
specie del genere personae (una di quelle tre entità, insieme alle
cose e alle azioni, attraverso le quali Gaio descrive l’ ordinamento
romano). Pertanto, in quanto persona, cioè soggetto di diritto,
ogni persona giuridica è al centro di un fascio di rapporti giuridici,
di diritti e di doveri. È bene chiarire, però, che la nozione di
persona giuridica (comune sia al diritto pubblico che a quello
privato) non va confusa con quella di persona fisica: mentre,
infatti, la persona fisica, cioè l’ individuo umano, ha una sua
esistenza fuori dal mondo del diritto, la persona giuridica, che
ovviamente non può agire senza persone fisiche, esiste solo
perché c’è il diritto.
Fondamentale è, inoltre, la distinzione tra persona giuridica
privata e persona giuridica pubblica: distinzione espressa
fedelmente dal predicato (il predicato pubblico allude, infatti, ai
fini che la persona giuridica deve perseguire).
§2. Due schemi: le associazioni e le fondazioni
Le persone giuridiche, nel codice civile, vengono distinte in due
tipi fondamentali: associazioni e fondazioni (queste ultime, nel
diritto pubblico, prendono anche il nome di istituzioni); anche se
in entrambe concorrono i due elementi (uomini e mezzi), diverso
è il rapporto nei due tipi: nelle associazioni, infatti, pur essendo
necessario un patrimonio (art. 16 c.c.), gli associati sono in primo
piano e compongono l’ organo sociale (l’ assemblea); è
importante specificare, inoltre, che si tratta di organismi che
operano a vantaggio di coloro che li hanno costituiti (cioè, i soci).
Nelle fondazioni, invece, assumono maggiore importanza i beni
destinati al raggiungimento di uno scopo stabilito dal fondatore
(art. 25 c.c.); qui i beneficiari, come è facile intuire, sono persone
che si trovano all’ esterno dell’ ente (si pensi, ad es., ai poveri, ai
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quali è destinato il patrimonio dell’ istituzione di beneficenza).
Presentano una struttura a fondazione, nella maggior parte dei
casi, le persone giuridiche pubbliche (cd. enti pubblici): si pensi,
ad. es., all’ INPS, delle cui prestazioni sono beneficiari i lavoratori
subordinati.
Hanno, invece, struttura associativa le federazioni sportive,
nonché lo Stato, le regioni, le province e i comuni (cd. enti
territoriali); questi ultimi, in particolare, prendono anche il nome
di associazioni politiche, perché perseguono una pluralità di
obiettivi, hanno carattere territoriale (i loro soci sono, infatti,
stanziati in un territorio più o meno vasto) e sono parzialmente
sovrapposte [perché i soci dell’ associazione più piccola (il
comune) sono anche soci delle altre (provincia, regione e Stato)].
§3. I fini e le attribuzioni
Mentre l’ individuo umano (persona fisica) può perseguire
qualunque fine che sia compatibile con le sue capacità e con la
legge (questa gli vieta solo di coltivare alcuni fini), la persona
giuridica persegue fini ben determinati, stabiliti dallo statuto o
dall’ atto di organizzazione (che, per l’ ente pubblico, coincide di
regola con la legge); ed è naturale che sia così, dal momento che
coloro che si associano per costituire la persona giuridica lo fanno
per realizzare specifiche finalità che non riuscirebbero a realizzare
come singoli. Questo discorso vale sia per la società per azioni,
sia per la massima tra le associazioni, cioè lo Stato: quasi tutte le
costituzioni contengono, infatti, la previsione dei fini da
raggiungere, il conferimento dei relativi poteri, nonché la
limitazione degli stessi.
Uno schema del genere lo ritroviamo anche nelle leggi sulla
pubblica amministrazione: queste, infatti, stabiliscono fini da
raggiungere (o interessi pubblici da tutelare) e, al contempo,
conferiscono i poteri necessari; tali poteri sono attribuiti agli enti
(e parliamo allora di attribuzione) e sono, poi, distribuiti tra i loro
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organi (e parliamo allora di competenza); è bene precisare, però,
che le attribuzioni (che costituiscono un insieme di poteri
amministrativi) non esauriscono ciò che l’ ente può fare, ma
delimitano soltanto i poteri amministrativi dello stesso ente;
accanto a questi ci sono, infatti, i poteri di diritto privato (ad es., il
potere di autonomia privata, ex art. 1322, cpv. c.c.) che all’ ente
pubblico spettano perché, prima di essere una persona giuridica
pubblica, esso è una persona giuridica.
Le attribuzioni sono ripartite tra gli enti sulla base di diversi
criteri:
• il criterio della materia, sicché, ad es., l’ INPS si occupa di
pensioni e l’ ASL di prestazioni sanitarie;
• il criterio dei destinatari, per cui l’ INPS si occupa delle pensioni
dei lavoratori del settore privato e l’ INPDAP di quelle dei
lavoratori del settore pubblico;
• il criterio territoriale, in base al quale gli Istituti Autonomi Case
Popolari (IACP) si distinguono perché ciascuno di essi opera nel
territorio di una provincia diversa;
• il criterio della dimensione, onde la tutela ambientale compete
allo Stato o alle regioni, a seconda che il problema riguardi tutto il
territorio nazionale (si pensi, ad es., alle conseguenze di
Cernobyl) o solo una parte di esso.
Se, infine, consideriamo insieme fini e attribuzioni ne consegue
un’ ulteriore distinzione: gli enti politici o territoriali (Stato,
regioni, province e comuni) perseguono una pluralità di fini; gli
altri, invece, sono monofunzionali [istituiti, cioè, per la
soddisfazione di un unico interesse pubblico (sanitario,
previdenziale, sportivo, etc.) e per il perseguimento di un unico
fine pubblico].
§4. Le attribuzioni e le competenze
Le attribuzioni, come detto, sono un fascio di poteri amministrativi
che vengono attribuiti all’ ente; ciascun ente, a sua volta, è
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costituito da una pluralità di organi, in cui le attribuzioni sono
ripartite (vengono, in tal modo, individuate le competenze dei
singoli organi). Così, ad es., l’ ente-comune si compone dei
seguenti organi: il consiglio comunale, la giunta, il sindaco e i
dirigenti.
Va qui sottolineato che anche la competenza (degli organi) è
ripartita sulla base di criteri che, però, solo in parte coincidono
con i criteri di riparto delle attribuzioni (dell’ ente). In particolare,
la competenza può essere divisa per materia (così, ad es., mentre
il consiglio comunale delibera l’ acquisto di beni immobili, la
giunta delibera quello di beni mobili); nell’ ambito della medesima
materia, la competenza può essere, poi, divisa per funzioni (così,
ad es., mentre al consiglio comunale spettano le funzioni di
controllo politico-amministrativo, alla giunta spettano quelle di
gestione).
Detto ciò, dobbiamo adesso chiederci il motivo per il quale i
pubblici poteri sono distribuiti per sfere di attribuzione (dell’ ente)
e di competenza (degli organi); per rispondere a tale quesito è
necessario sottolineare che questa regola strutturale risponde ad
un’ indispensabile esigenza organizzativa; la stessa che sta alla
base della suddivisione del lavoro in fabbrica, così come delineata
da Taylor: è più razionale che il lavoro sia diviso tra più persone,
in modo che ciascuna faccia una parte di ciò che è richiesto. Da
ciò si intuisce, quindi, che il potere pubblico ripartito per sfere di
attribuzione (degli enti) e di competenza (degli organi) è un
potere diviso: un potere, cioè, meno pericoloso (per il cittadino
che lo subisce) di un potere concentrato (quale sarebbe quello di
una struttura pubblica che cumulasse su di sé tutti i poteri
amministrativi).
§5. L’ ente e l’ organo
L’ ente è una persona giuridica formata al suo interno da più
organi (si pensi, ad es., all’ ente-comune, che comprende i
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seguenti organi: il consiglio comunale, la giunta, il sindaco e i
dirigenti); gli organi, a loro volta, sono gli strumenti (dal greco:
organon) della capacità di agire dell’ ente. Ciò significa, quindi,
che l’ ente (persona giuridica) può agire solo attraverso i suoi
organi, i quali non hanno soggettività distinta da quella dell’ ente,
ma attuano la sua stessa capacità di agire. In altri termini, nel
rapporto organico non ci sono due soggetti giuridici: l’ organo è la
persona giuridica, sicché non solo gli effetti degli atti che l’
organo compie, ma anche gli atti stessi vengono imputati alla
persona giuridica (in particolare, questa immedesimazione
organica trova conferma nel processo: se, ad es., ritengo di
essere stato leso da un atto del consiglio comunale che mi ha
negato l’ autorizzazione a lottizzare un terreno, dovrò ricorrere
contro il comune e non contro il consiglio comunale, appunto
perché l’ atto del consiglio è un atto del comune).
a) gli organi collegiali
L’ organo, di solito, è coperto da una sola persona: il sindaco, il
prefetto, il ministro, etc.; in molti casi, però, la legge prevede che
all’ organo siano assegnate più persone: si pensi, ad es., ad un
consiglio comunale o ad una giunta regionale (in questi, come in
altri casi l’ organo è un collegio o, più precisamente, un organo
collegiale).
Sono collegiali, di solito, gli organi di consulenza (si pensi, ad es.,
al Consiglio di Stato), sul presupposto che il consigliare è dei molti
e il decidere dei pochi; sono collegiali, inoltre, gli organi di base
degli enti politici (collegiali in virtù della loro rappresentatività: si
pensi, ad es., al Parlamento, al consiglio regionale o a quello
comunale); sono collegiali, infine, gli organi chiamati ad esprimere
un giudizio (si pensi, ad es., alle commissioni mediche: in questi
casi, la collegialità si giustifica in virtù del fatto che il giudizio del
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singolo può essere opinabile).
L’ organo collegiale (a differenza di quello individuale, che è
sempre presente) ha una vita intermittente: esso, infatti, diventa
operativo solo a seguito di una convocazione della seduta (giorno,
ora, luogo) da parte del presidente del collegio, il quale deve
anche fissare l’ ordine del giorno e presiedere l’ adunanza, con il
relativo ordine dei lavori.
Perché la seduta sia valida ed il collegio sia legittimato a
deliberare non è, tuttavia, necessario che siano presenti tutti i
suoi componenti: è sufficiente, infatti, il numero legale (cd.
quorum strutturale), vale a dire, la metà più uno dei membri
assegnati al collegio (così, ad es., in un consiglio comunale di 40
consiglieri, il numero legale sussiste quando sono presenti almeno
21 di essi); il principio del numero legale non opera, però, nei cd.
collegi perfetti, come quelli giudicanti, nei quali è richiesta la
presenza di tutti i membri (si pensi, ad es., ai tribunali civili,
penali e amministrativi).
È bene precisare, comunque, che il problema fondamentale del
collegio è quello di estrapolare da una pluralità di persone con
opinioni diverse una determinazione unitaria; per superare quest’
ostacolo è stato escogitato il procedimento della votazione
(fondato sul principio di maggioranza).
Il meccanismo è il seguente: il presidente del collegio formula un
progetto di delibera (cd. proposta) sulla quale si andrà a votare, a
favore o contro; la proposta sarà approvata e diventerà delibera
del collegio se avrà conseguito la maggioranza dei voti dei
presenti, vale a dire il voto favorevole della metà più uno dei
membri del collegio presenti (cd. quorum funzionale). Più
precisamente, dopo che sia stata accertata l’ esistenza del
quorum strutturale (necessario per la validità della seduta), il
quorum funzionale (necessario per l’ approvazione della proposta)
sarà pari alla metà dei membri presenti più uno: così, ad es., se
un consiglio comunale è composto da 40 persone, il quorum
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strutturale sarà di 21 membri, mentre quello funzionale dipenderà
dal numero dei componenti presenti (se, ad es., alla seduta sono
presenti 30 componenti, il quorum funzionale sarà di 16 voti: la
metà più uno dei presenti).
Ovviamente, ad ogni componente del collegio è riconosciuta la
facoltà di emendamento: la facoltà, cioè, di proporre una modifica
della proposta, per effetto della quale membri del collegio, in
partenza contrari, possono diventare favorevoli alla proposta
stessa.
Dalla proposta al voto si passa attraverso la discussione: con essa
i membri del collegio espongono le ragioni per cui sono favorevoli
o contrari alla proposta. Qualora, al termine della discussione,
alcuni membri dovessero continuare a rimanere perplessi
potranno, in ogni caso, astenersi dal voto (occorre specificare,
però, che l’ astensione va a sommarsi ai voti contrari; sono,
tuttavia, previste specifiche deroghe: si pensi, ad es., al
regolamento del Senato della Repubblica, ove gli astenuti non
vengono computati tra i votanti e non influiscono, quindi, sulla
votazione).
§6. Gli uffici
Con riferimento al settore pubblico, si dice che l’ organizzazione è
fatta, oltre che di organi, anche di semplici uffici: strutture alle
quali sono addette persone cui non sono assegnate competenze,
ma soltanto compiti, i quali si sostanziano nello svolgimento di
determinate attività preparatorie degli atti (che costituiscono
esercizio delle competenze): così, ad es., l’ organo-sindaco è
attorniato da una serie di uffici (ufficio di gabinetto, segreteria
particolare, etc.) che permettono al sindaco di svolgere le sue
funzioni mediante attività preparatorie, istruttorie e di
comunicazione, senza le quali gli atti del sindaco non sarebbero
visibili all’ esterno o addirittura non sarebbero posti in essere.
Da quanto detto appare chiaro, quindi, che i compiti sono
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strumentali all’ esercizio delle competenze (di conseguenza, se
essi vengono svolti in modo inappropriato possono viziare l’
esercizio delle competenze ed invalidarlo).
§7. L’ amministrazione attiva, quella consultiva e quella di
controllo
Una distinzione importante è quella tra organi di amministrazione
attiva, organi di amministrazione consultiva ed organi di controllo.
Chi agisce (l’ organo di amministrazione attiva) deve essere
consigliato: o perché la materia della decisione è tecnicamente
complessa (ed è quindi richiesta la consulenza di tecnici) o perché
deve essere assicurata la legalità della decisione (e servono allora
dei tecnici del diritto).
A sua volta, però, l’ attività di amministrazione attiva deve essere
doppiata da un’ attività di controllo; il controllo, in particolare,
serve a garantire che l’ attività posta in essere sia conforme ad un
paradigma: che può essere la legge (controllo di legalità), l’
opportunità (controllo di merito), l’ efficienza, l’ efficacia, etc.
(controlli di efficacia, di gestione, etc.).
È importante specificare, però, che proprio per l’ attività richiesta
all’ organo consultivo e a quello di controllo, il reclutamento delle
persone che ne vengono investite deve essere fatto in base ad un
criterio di competenza professionale. Non solo: va anche detto
che lo status dei componenti di questi due organi è caratterizzato
dall’ indipendenza rispetto all’ organo di amministrazione attiva
(la funzione della consulenza, infatti, verrebbe stravolta se l’
organo consultivo dovesse seguire le direttive dell’ organo di
amministrazione attiva; allo stesso modo, se l’ organo di controllo
dovesse obbedire ai comandi dell’ organo di amministrazione
attiva, sarebbe il controllato a controllare il controllore e non il
contrario).
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§8. La questione dell’ investitura
Persona giuridica, organo e ufficio sono concetti astratti; per poter
effettivamente funzionare hanno bisogno di persone fisiche (cioè,
di individui) che operino come organi o svolgano i compiti propri
dell’ ufficio. In quest’ ottica, l’ operazione con la quale un
individuo è chiamato ad agire come organo (o come titolare di un
ufficio) prende il nome di investitura; questa può essere di due
specie: politica o burocratica. In particolare, l’ investitura si
definisce politica quando colui che sceglie vanta una
legittimazione, appunto, politica; a sua volta, l’ investitura politica
si fonda su due meccanismi: quello dell’ elezione (si pensi, ad es.,
ad una maggioranza elettorale che elegge il sindaco o il
presidente della regione) e quello della nomina [quest’ ultima
ricorre quando un organo ad investitura politica (ad es., il
Governo) nomina, a sua volta, il Presidente].
L’ investitura è, invece, burocratica quando una persona è
chiamata a ricoprire un organo o un ufficio in ragione della sua
competenza professionale, verificata attraverso una procedura
selettiva (ad es., il concorso), aperta ad una pluralità di aspiranti.
§9. L’ agente ed il principale
La relazione tra il dipendente (o l’ amministratore) e l’
organizzazione viene descritta come relazione di agenzia: una
relazione nella quale un individuo (agente) agisce per conto di un
altro (principale) ed è tenuto a promuovere l’ interesse di quest’
ultimo; ora, poiché gli obiettivi del primo e gli interessi del
secondo possono non coincidere, il diritto ha sempre previsto dei
meccanismi di controllo (di regole del genere è, ad es., costellato
il codice civile, quando disciplina la rappresentanza, il mandato o
la gestione di affari).
Nel diritto pubblico, però, le regole sono più numerose, perché il
principale viene a coincidere con la generalità dei cittadini
(quando l’ agente opera all’ interno dell’ organizzazione statale) o
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con il complesso dei cittadini di uno specifico ambito territoriale
(regionale, provinciale o comunale); e l’ agente non viene scelto
dal principale (tranne in caso di elezione), ma viene individuato
sulla base di particolari meccanismi, ai quali il principale è
estraneo. È per questo motivo che si è ritenuto opportuno
enucleare determinati strumenti volti ad assicurare che gli
interessi perseguiti dall’ agente non divergano da quelli del
principale.
a) le modalità di reclutamento
Le modalità di reclutamento sono essenzialmente due: l’ elezione
ed il concorso. L’ elezione (qui ci riferiamo, in particolare, a quella
politica), viene ripetuta nel tempo, a cadenza fissa, allo scopo di
garantire l’ attualità del rapporto tra rappresentanti (eletti) e
rappresentato (elettore). La scelta dell’ elettore, però, è preceduta
dalla scelta, fatta da altri (ad es., dai gruppi dirigenti di partito),
delle persone tra le quali egli può scegliere (tale scelta è molto
più importante di quella dell’ elettore, perché delimita l’ ambito
delle persone da votare); può anche capitare, tra l’ altro, che l’
elettore non possa neppure scegliere la persona, ma solo la lista,
all’ interno della quale le posizioni sono precostituite.
L’ altro meccanismo di reclutamento è, invece, il concorso: questi,
in particolare, tende a privilegiare non tanto il rapporto di fiducia
tra principale ed agente, quanto piuttosto la preparazione
professionale dell’ agente.
b) i requisiti dell’ agente
Sia la legislazione elettorale che quella sui concorsi subordinano l’
ammissione alla competizione elettorale o alle prove concorsuali
al possesso di determinati requisiti, quali: immunità da precedenti
penali, titoli di studio (nei concorsi), etc.; se questi requisiti
dovessero mancare, vi sarebbe una presunzione di esercizio
infedele del mandato (elettivo o burocratico).
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c) gli schemi organizzativi
Gli schemi organizzativi guidano la collocazione dell’ agente nell’
organizzazione (si pensi, ad es., alla gerarchia, che tende ad
assicurare un controllo del superiore sull’ inferiore; controllo che
dovrebbe garantire l’ aderenza dell’ azione dell’ agente alle
finalità del principale).
Un altro criterio funzionale che assume molta importanza nel
rapporto tra agente e principale è, poi, quello di competenza:
questa individua il complesso dei compiti alla stregua dei quali
deve essere valutata la condotta dell’ agente (occorre verificare,
ad es., se egli ha adempiuto i compiti affidatigli e, in caso
positivo, come li ha adempiuti).
d) le regole di progressione
Le organizzazioni burocratiche sono articolate in ruoli, qualifiche,
carriere, etc., nell’ ambito dei quali l’ agente non occupa una
posizione fissa, ma tende ad ascendere verso l’ alto (la
promozione, la progressione di carriera, etc.). È chiaro, però, che
quest’ ascesa è condizionata da una certa performance (per cui,
ad es., l’ infedeltà o la negligenza dell’ agente verranno
sanzionate, negando allo stesso la progressione alla quale aspira).
e) la responsabilità
Come gli amministratori delle s.p.a. rispondono verso i terzi, verso
i creditori sociali e verso la società, allo stesso modo l’
amministratore e il dipendente pubblico (agenti) rispondono verso
i terzi e verso l’ ente (principale) da cui dipendono (la relativa
azione sarà esercitata dinanzi alla Corte dei Conti, ex art. 103 cpv.
Cost.).
§10. Il rapporto d’ ufficio ed il rapporto di servizio
Quel che si è detto del rapporto tra l’ organo e l’ ente può
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ripetersi a proposito del rapporto tra la persona fisica e l’ organo
(o l’ ufficio) ovvero tra la persona fisica e l’ ente. Anche in questo
caso vi è, infatti, una immedesimazione: così, ad es., l’ ordine di
demolizione che il sindaco emette è, ovviamente, l’ espressione di
volontà di un individuo umano, ma è, allo stesso tempo,
provvedimento amministrativo (dell’ organo-sindaco), che viene
imputato all’ ente-comune.
Appare utile specificare, però, che se da un lato l’ individuo si
identifica con l’ organo (e, quindi, con l’ ente), dall’ altro se ne
distingue, come portatore di un interesse contrapposto a quello
dell’ ente. Per spiegare questa duplicità di situazioni, la dottrina
ha immaginato che la persona fisica sia legata all’ ente da due
tipi di rapporti: il rapporto d’ ufficio e quello di servizio.
Nel rapporto d’ufficio l’ individuo si identifica con l’ ente per il
quale agisce: i suoi atti sono atti dell’ organo (o dell’ ufficio) e,
quindi, atti dell’ ente. In questi casi, quindi, se l’ individuo umano
cagiona a terzi un danno ingiusto, responsabile risulterà l’ ente
(così, ad es., la chiusura illegittima di una discoteca, disposta dal
questore, esporrà il Ministero dell’ Interno ad un’ azione di
risarcimento del danno).
Il rapporto di servizio, invece, è un rapporto tra due soggetti (una
persona giuridica ed una persona fisica): l’ individuo si impegna a
mettere le sue energie a servizio dell’ ente pubblico dietro
corrispettivo, se impiegato (e in questo caso si parla di servizio
professionale, così denominato perché esso viene reso in base ad
un titolo professionale: il contratto di lavoro) ovvero ad altro titolo
(e in questo caso si parla di servizio onorario, così denominato
perché esso viene reso da persone che vanno a ricoprire non
professionalmente l’ organo: si pensi, ad es., ai consiglieri
regionali, ai sindaci, ai ministri o agli amministratori di enti
pubblici). In queste ipotesi, a differenza di quanto accade nel
rapporto d’ ufficio, se colui che agisce per conto di una pubblica
amministrazione commette un illecito a danno di un terzo
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risulterà responsabile nei riguardi dell’ ente: si tratta, in
particolare, della cd. responsabilità amministrativa, nella quale
incorre l’ amministratore o l’ impiegato pubblico che abbia
cagionato un danno all’ erario (e della quale sarà chiamata a
conoscere la Corte dei Conti).
§11. Gli uffici vacanti
Il duplice rapporto che lega la persona fisica all’ organo assume
particolare importanza nei casi in cui la persona fisica risulti
assente o temporaneamente impedita: in questi casi, infatti,
occorre comunque assicurare il funzionamento dell’ organo o dell’
ufficio.
Per superare quest’ ostacolo si fa ricorso alla supplenza: ed
invero, in molti casi, all’ organo vengono istituzionalmente
assegnati un titolare e un vice (il prefetto ed il vice-prefetto, il
sindaco ed il vice-sindaco): nell’ assenza o nell’ impedimento del
titolare il vice è legittimato (e obbligato) a sostituirlo.
Diverso è, invece, il problema che si manifesta quando il titolare
dell’ organo perde l’ investitura (ad es., per il decorso del termine
di durata della carica) e l’ autorità competente non ha ancora
provveduto a nominare il successore; in questi casi viene
mantenuto nella carica il vecchio titolare sino all’ insediamento
del nuovo. Questo congegno, grazie al quale titolari scaduti
continuavano ad esercitare le funzioni, talvolta per anni, è stato,
però, ridimensionato a seguito della sent. 208/92 della Corte
cost.: i giudici della Consulta hanno, infatti, evidenziato che un’
applicazione senza limiti temporali del principio della prorogatio
contrasta con il principio di legalità, perché abilita all’ esercizio di
funzioni amministrative persone che hanno perduto l’ investitura.
In conseguenza di tale pronuncia, oggi la proroga non può
spingersi al di là di 45 gg. dalla scadenza del termine di durata
della carica e, nel corso di essa, possono essere posti in essere
solo gli atti di ordinaria amministrazione, nonché gli atti urgenti
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(L. 444/94).
Altro istituto importante è, poi, quello della sostituzione, in virtù
del quale, quando il titolare dell’ organo omette di porre in essere
un’ attività che gli compete, la legge prevede un potere di
sostituzione da parte di un altro organo, appartenente, di regola,
ad un altro ente (ad es., lo Stato verso la regione, la regione verso
l’ ente locale); l’ autorità munita del potere sostituivo può
adottare essa stessa il provvedimento (non posto in essere dall’
organo inerte) ovvero può nominare un commissario ad acta (che
avrà il compito di sostituire l’ organo inerte).
Sezione II
I princìpi costituzionali
§1. Premessa
Uno dei maestri del diritto costituzionale, Esposito, affermava che
chi voglia sapere com’è disciplinata l’ amministrazione nella
nostra Costituzione non deve leggere due soli articoli, ma l’ intera
Costituzione.
In effetti, la nostra Carta fondamentale dedica espressamente
due soli articoli alla disciplina della pubblica amministrazione: gli
artt. 97 e 98; ma, a ben vedere, alla P.A. fanno riferimento anche
le disposizioni che assegnano alla Repubblica fini che non
possono essere perseguiti se non attraverso apparati
amministrativi (si pensi, ad es., alla salute e all’ istruzione, ex
artt. 32 e 33) o che distribuiscono il potere politico e
amministrativo secondo criteri territoriali (comuni, province,
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regioni e Stato, ex artt. 114 e 118) o che disciplinano i rapporti tra
Governo e amministrazione (art. 95) o, ancora, che stabiliscono i
controlli sull’ amministrazione (art. 100) o che garantiscono, con
riserve di legge, il cittadino contro atti della P.A. (artt. 16, 17, 23,
41 e 42).
§2. Il principio democratico
Il primo dei princìpi enunciati dalla Costituzione è il principio
democratico (art. 1); tale principio, sul piano organizzativo,
comporta, da un lato, la distinzione delle cariche elettive da
quelle burocratiche (pubblici uffici o impieghi, ai quali si accede
per concorso) e, dall’ altro, la supremazia delle prime (cioè, delle
cariche elettive) sui pubblici uffici (impiegatizi): è per questo
motivo, ad es., che, ai sensi dell’ art. 95 Cost., al Presidente del
Consiglio spetta di mantenere l’ unità di indirizzo politico e
amministrativo (ossia l’ indirizzo sull’ attività dei pubblici uffici
organizzati nei ministeri e negli enti pubblici), mentre il ministro
(titolare di una carica elettiva) risponde dell’ attività dei ministeri
(e, quindi, deve essere in grado di indirizzarla e coordinarla).
La burocrazia è, invece reclutata sulla base di un criterio diverso
da quello democratico (il cd. criterio meritocratico); ed è tenuta
ad agire in conformità a regole che non hanno nulla a che vedere
con il principio democratico (quali l’ imparzialità ed il buon
andamento). Ed è proprio per tal motivo che, nel nostro
ordinamento, la burocrazia è sottoposta alla politica (che
rappresenta, invece, l’ ambito nel quale il principio democratico
trova piena applicazione).
§3. I diritti dell’ uomo e le riserve di giurisdizione
L’ altra grande novità della Costituzione è costituita dal
riconoscimento dei diritti inviolabili dell’ uomo (art. 2), per la
maggior parte dei quali essa prevede un rapporto di reciproca
esclusione con gli apparati ed i poteri amministrativi: si pensi, ad
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es., alla libertà personale, a quella domiciliare, alla libertà e
segretezza delle comunicazioni, alla libertà religiosa (artt. 13, 14,
15 e 19), le quali sono sottoposte sia a riserva di legge che di
giurisdizione. In questi casi, alla P.A. (ed in particolare, all’ autorità
di pubblica sicurezza) è sottratto ogni potere di intervento.
Tuttavia, è bene precisare che in casi eccezionali di necessità e
urgenza (indicati tassativamente dalla legge) l’ autorità di p.s.
può adottare determinate misure amministrative, le quali, però,
dovranno essere comunicate entro 48 ore all’ autorità giudiziaria
e restano prive di effetti se questa non le convalida entro le
successive 48 ore (si tratta, quindi, di una competenza non solo
legata a presupposti eccezionali, ma anche provvisoria).
Appare utile sottolineare, in ogni caso, che non tutti i diritti
inviolabili formano oggetto di riserva di giurisdizione: non lo, ad
es., la libertà di circolazione, che può essere, infatti, limitata in via
generale per motivi di sanità e di sicurezza (art. 16); non lo è, del
pari, la libertà di riunione (art. 17), dal momento che le riunioni
possono essere vietate per motivi di sicurezza e di incolumità
pubblica. In tali situazioni l’ autorità di p.s. può intervenire senza
che sia richiesto l’ intervento dell’ autorità giudiziaria e ciò perché
la circolazione e la riunione sono attività che si svolgono in
contesti pluripersonali, composti cioè da più persone, il cui
contatto potrebbe mettere a repentaglio beni o valori
costituzionali (così, ad es., l’ incolumità dei cittadini potrebbe
essere pregiudicata da una riunione con partecipanti armati; allo
stesso modo, la sanità potrebbe subire un grave danno se
persone affette da una malattia contagiosa potessero circolare
liberamente). In questi casi, la garanzia per il cittadino è data da
una riserva di legge, rinforzata dalla previsione dei motivi che
autorizzano la limitazione: sanità e sicurezza per la libertà di
circolazione; incolumità e sicurezza per la libertà di riunione.
§4. Il principio della separazione dei poteri
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Il principio della separazione dei poteri, pur se non espressamente
enunciato nella nostra Carta costituzionale, è in essa
implicitamente incorporato, dal momento che la Corte
Costituzionale, con sent. 1/77, lo ha inserito tra i princìpi supremi
dell’ ordinamento costituzionale.
È certo, comunque, che la nostra Carta fondamentale delinea in
modo molto netto i contorni del potere legislativo e del potere
giudiziario (come poteri dai quali è distinto il potere esecutivo-
amministrativo). Infatti, la P.A. non può fare le leggi, dato che la
funzione legislativa è riservata alle Camere (art. 70) e ai consigli
regionali (art. 117); e non può, ovviamente, esercitare la funzione
giurisdizionale, perché questa è riservata alla magistratura
(nonché al Consiglio di Stato e alla Corte dei Conti). Per altro
verso, però, la P.A. è soggetta alla legge, la quale stabilisce le
regole di base per l’ organizzazione dei pubblici uffici (art. 97
Cost.); ed è anche soggetta al sindacato dei giudici, ordinari e
amministrativi, perché contro i suoi atti è sempre ammessa la
tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (art. 113
Cost.).
Non altrettanto definito è, invece, lo statuto della P.A.
Innanzitutto, va detto che non è chiaro se di essa faccia parte il
Governo: a prima vista sembrerebbe di no, dal momento che la
Costituzione parla del Consiglio dei Ministri e della P.A. in due
Sezioni differenti, anche se contenute nello stesso Titolo (quello
dedicato al Governo); in realtà, è necessario sottolineare che l’
apparato amministrativo è un appartato complesso, che include al
suo interno il Consiglio dei Ministri, i singoli ministeri, le
amministrazioni territoriali e gli enti pubblici; ora, che dell’
apparato amministrativo facciano parte anche il Consiglio dei
ministri e i singoli ministeri risulta confermato non solo dalla
topografia della nostra Costituzione [infatti, sotto il Titolo III, Parte
II (del governo) sono contemplati il Consiglio dei ministri, la P.A. e
gli organi ausiliari], ma anche dal fatto che al Presidente del
18
Consiglio e ai singoli ministri sono affidati determinati poteri
amministrativi: ai sensi, infatti, dell’ art. 95 Cost., il Presidente del
Consiglio mantiene l’ unità di indirizzo politico e amministrativo,
promuovendo e coordinando l’ attività dei ministri; questi, dal
canto loro, sono responsabili sia collegialmente (per gli atti del
Consiglio), sia individualmente (per gli atti dei propri dicasteri).
Lo stesso schema può essere riprodotto in relazione agli enti
pubblici e alle amministrazioni territoriali: infatti, sempre ai sensi
dell’ art. 95 Cost., gli enti pubblici devono essere vigilati da un
ministero e rispondere ad un ministro che, a sua volta, è
responsabile di fronte al Parlamento (se si tratta di enti nazionali).
Quanto agli enti territoriali, infine, va detto che ciascuno di essi
riproduce al suo interno il rapporto tra politica e amministrazione
che l’ art. 95 disegna all’ interno dello Stato (nel rapporto tra
Presidente del Consiglio, Consiglio dei ministri e ministri): così,
per quanto riguarda la regione, la polarità tra politica e
amministrazione si riproduce all’ interno del rapporto tra
presidente della giunta regionale, giunta e amministrazione; in
relazione, invece, agli enti locali il rapporto è tra il consiglio
(organo di indirizzo politico-amministrativo) e la giunta.
Come visto, l’ amministrazione (dal punto di vista dei soggetti)
viene nettamente separata dal potere legislativo e dal potere
giudiziario; non altrettanto netta, invece, è la riserva dell’ attività
amministrativa in favore della pubblica amministrazione. Ora, dal
momento che sul punto la Costituzione non dice nulla, si potrebbe
addirittura sostenere che gli organi del potere legislativo e di
quello giudiziario siano abilitati ad esercitare la funzione
amministrativa; ma una tale conclusione non può essere
assolutamente accettata e va, di conseguenza, confutata sulla
base delle seguenti argomentazioni: in particolare, per quanto
riguarda il rapporto con il potere legislativo, occorre evidenziare
che, ai sensi dell’ art. 3 Cost., la legge non può operare alcuna
distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, di
19
condizioni personali e sociali; pertanto, non è possibile che la
legge si faccia provvedimento, proprio perché quest’ ultimo si
fonda su quelle condizioni-distinzioni che la legge non può avere
(va anche detto, però, che la Corte Costituzionale ha ritenuto
ammissibili le leggi-provvedimento: quanto meno le leggi-
provvedimento statali).
Per quanto riguarda, invece, il rapporto con il potere giudiziario,
nella Costituzione manca un divieto per gli organi giurisdizionali di
adottare dei provvedimenti amministrativi: un limite, tuttavia, è
rinvenibile nella legislazione ordinaria, che ha sempre vietato al
giudice di sostituirsi all’ amministrazione.
§5. I rapporti tra la politica e l’ amministrazione
Da quanto detto emerge un fondamentale principio di
organizzazione: il principio, cioè, della strumentalità dell’
amministrazione (e, quindi, del relativo apparato) rispetto alla
politica generale del Governo-Parlamento (questo principio,
dettato per lo Stato dall’ art. 95 Cost., vale, come visto, anche per
la regione e per gli enti minori).
Se, infatti, il Presidente del Consiglio dirige la politica generale del
Governo e mantiene l’ unità di indirizzo politico ed
amministrativo, promuovendo e coordinando l’ attività dei
ministri, vuol dire che c’è una politica generale del Governo, la
quale è sovraordinata rispetto alle singole amministrazioni (è in
questo senso che si parla di strumentalità). Dovrebbe risultare
chiara, quindi, la distinzione tra l’ attività politica e quella
amministrativa: l’ attività politica consiste nel definire gli obiettivi
dell’ azione dello Stato (Governo-Parlamento); l’ attività
amministrativa, invece, consiste nel compiere tutti quegli atti che
permettono di realizzare, in concreto, le finalità decise in sede
politica e legislativa (facciamo un esempio: il Governo e il
Parlamento possono definire i propri orientamenti in materia di
politica scolastica e questi possono essere tradotti in leggi che
20
stabiliscono quali sono i diversi tipi di scuola, i criteri per l’
ammissione degli allievi e per lo svolgimento degli esami, etc.;
ma affinché la politica scolastica venga effettivamente attuata,
occorre che venga predisposta l’ organizzazione necessaria nelle
varie zone del paese: la costruzione e l’ arredo degli edifici
scolastici, il reclutamento degli insegnanti, il concreto
svolgimento dell’ attività didattica, etc.).
Posta in questi termini la questione, risulta evidente che l’ attività
amministrativa è un’ attività subordinata alla politica, e ciò in
virtù del principio democratico: l’ amministrazione, infatti, è
subordinata alla politica, perché la prima è gestita da apparati
non rappresentativi (burocratici), il cui personale non è scelto in
base al proprio orientamento politico, ma sulla base della propria
competenza tecnico-professionale, mentre la seconda è espressa
da organi a legittimazione elettorale (diretta, come il Parlamento;
indiretta o semi-diretta, come il Governo).
§6. Il principio di legalità
Nel quadro costituzionale dell’ amministrazione, dal punto di vista
delle fonti, assume importanza fondamentale il ruolo che la legge
ricopre nella disciplina dell’ ordinamento, dell’ organizzazione e
dell’ attività amministrativa.
La P.A. è, infatti, sottoposta al principio di legalità: ciò significa, in
altri termini, che i pubblici uffici, cioè gli apparati amministrativi
(enti ed organi) devono agire secondo le norme stabilite dalla
legge, rispettando i diritti dei cittadini; tale principio non è
enunciato in modo esplicito nella nostra Costituzione, ma ad esso
fanno comunque riferimento numerose norme (artt. 23, 28, 113
Cost.). Esso è, poi, rafforzato anche da altri princìpi enunciati dalla
Carta costituzionale: primo tra tutti il principio della riserva di
legge nell’ organizzazione dei pubblici uffici.
Dal 1926, e per tutto il periodo fascista, l’ organizzazione della
P.A. è stata di esclusiva competenza del potere esecutivo;
21
viceversa, con l’ entrata in vigore della Costituzione repubblicana
le cose sono cambiate; ciò risulta oggi confermato dalla
formulazione del co. 1 dell’ art. 97 Cost., il quale, infatti,
stabilendo che i pubblici uffici sono organizzati secondo
disposizioni di legge, ha disposto una riserva di legge in proposito
(ha dato, cioè, al Parlamento il compito di delineare le linee
fondamentali dell’ organizzazione amministrativa, in modo da
sottoporre questo importante aspetto al controllo democratico e
sottrarlo al potere discrezionale del Governo).
L’ art. 97 Cost. parla, come abbiamo visto, di pubblici uffici, ma
non ci dice che cosa bisogna intendere per essi; ci dice soltanto,
al co. 2, che di questi ne sono determinate le competenze, le
attribuzioni e le responsabilità dei funzionari. Ora, dal momento
che sono menzionate solo le attribuzioni (spettanti agli enti) e le
competenze (spettanti agli organi), sono, di conseguenza, esclusi
dalla preesistenza della legge gli uffici, i quali, infatti, sono
destinatari di compiti e non di competenze.
Come detto, quindi, la legge non può limitarsi a creare l’
istituzione di un apparato amministrativo, ma deve conferire allo
stesso le relative attribuzioni e competenze; ciò significa,
pertanto, che nessun apparato amministrativo può esercitare
poteri amministrativi che non siano stati disciplinati e assegnati
espressamente dalla legge. È per questo motivo che il principio di
legalità comporta un vincolo anche per il legislatore, nel senso
che la legge non può contenere una semplice autorizzazione ad
agire, ma deve contenere anche la disciplina dell’ azione
amministrativa (cd. principio di legalità sostanziale).
È importante specificare, inoltre, che la legge non può limitarsi a
prevedere l’ istituzione di un’ autorità amministrativa e a munirla
di poteri amministrativi, ma deve anche assegnarle i fini, in vista
dei quali quei poteri vanno esercitati (il principio di legalità
esclude, quindi, che l’ amministrazione possa stabilire essa stessa
i fini della sua azione).
22
La riserva di legge prevista dall’ art. 97 Cost. copre, in ogni caso,
non solo l’ istituzione e la competenza dell’ organo, ma anche la
relazione tra l’ organo e le persone fisiche destinate a ricoprirlo:
relazione nella quale è fondamentale la dimensione temporale
(inizio, fine e durata del mandato). È proprio su questa base che
la Consulta, con la citata sent. 208/92, ha affermato che un’
organizzazione caratterizzata da un ricorso sistematico alla
prorogatio sine die (cioè, al mantenimento in carica del titolare
dell’ organo dopo la scadenza del mandato sino alla nomina del
successore) violerebbe il principio della riserva di legge in materia
di organizzazione amministrativa, dal momento che la durata del
mandato (prevista a termine dal legislatore ordinario) verrebbe, in
tal modo, stabilita arbitrariamente da colui che deve provvedere
alla sostituzione.
Un ultimo accenno occorre dedicarlo al co. 3 dell’ art. 97 Cost., il
quale estende, in alcuni casi, il principio della riserva di legge
anche ai meri uffici: stabilisce, infatti, la disposizione in esame
che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede
mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge: ciò significa
che, perché sia consentito derogare all’ ordinaria modalità di
reclutamento (il pubblico concorso), è necessaria una legge; e
poiché il concorso (o lo strumento alternativo previsto dalla legge)
serve per accedere ad un mero ufficio, ne consegue che gli uffici
ai quali è possibile accedere senza concorso devono essere
previsti dalla legge (una legge è comunque necessaria quando l’
accesso a tali uffici avviene con modalità diverse dal pubblico
concorso).
L’ altra implicazione che si desume dal co. 3 dell’ art. 97 Cost.
riguarda il concetto di accesso al pubblico impiego. Invero, l’
assetto odierno del rapporto di lavoro con gli enti pubblici
prevede fasce funzionali con progressione economica orizzontale
(la retribuzione aumenta, mentre la fascia rimane uguale): ciò
significa che non soltanto l’ accesso al pubblico impiego, ma
23
anche il passaggio alla fascia funzionale superiore deve essere
preceduto da un concorso pubblico.
Dalla combinazione dei co. 1 e 3 dell’ art. 97 Cost., si evince,
quindi, che l’ area della riserva di legge si allarga, in quanto essa
viene a ricomprendere, in alcuni casi, non solo gli organi, ma
anche gli uffici; è pur vero, però, che questa stessa area, al
contempo, viene a restringersi in ragione di una distinzione
formulata dalla Corte costituzionale: la Consulta ha, infatti,
distinto l’ organizzazione della P.A. (affidata alla legge) ed il
rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti (affidato alla
contrattazione collettiva); ciò in considerazione del fatto che la
disciplina privatistica è considerata più idonea alla realizzazione
delle esigenze di flessibilità nella gestione del personale
(flessibilità che, ovviamente, è strumentale ad assicurare il buon
andamento dell’ amministrazione).
È importante specificare comunque che la riserva di legge, di cui
all’ art. 97 Cost., è una riserva di legge relativa; tale norma,
infatti, non vieta qualsiasi normazione diversa da quella
legislativa, né esclude che la legge consenta al potere esecutivo
di emanare norme secondarie di efficacia subordinata
(regolamenti, statuti o circolari). Alla legge, però, deve essere
affidata la disciplina degli aspetti fondamentali dell’
organizzazione dei pubblici uffici (ad es., l’ istituzione di organi, la
previsione di competenze, il livello delle retribuzioni, etc.), in
modo tale da garantire il buon andamento e l’ imparzialità dell’
amministrazione.
§7. Il principio di imparzialità
L’ art. 97 Cost. specifica, al co. 1, che i pubblici uffici sono
organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che sia
assicurata l’ imparzialità dell’ organizzazione e dell’ attività
amministrativa; ora, imparzialità dell’ amministrazione significa
una molteplicità di cose:
24
• anzitutto, l’ organizzazione si definisce imparziale quando è
strutturata in modo che chi amministra (amministratore o
funzionario) non sia personalmente interessato alla materia della
decisione; in questa prospettiva, la Consulta ha dichiarato
illegittime quelle leggi regionali che, nel disciplinare la
composizione delle commissioni esaminatrici dei concorsi presso
enti locali, prevedevano che i commissari fossero, in
maggioranza, espressioni del consiglio comunale, anziché esperti
in materia (sent. 453/90);
• l’ imparzialità dell’ organizzazione richiede, in secondo luogo,
che il personale sia reclutato in modo imparziale; in questo senso,
il co. 1 dell’ art. 97 Cost. viene a collegarsi al co. 3 della
medesima disposizione, secondo il quale agli impieghi nelle
pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso: ciò
significa, in altri termini, che l’ amministrazione ha il dovere di
scegliere i propri dipendenti attraverso esami che accertino, in
modo obiettivo, le capacità professionali dei candidati e a cui tutti
i cittadini, in possesso dei requisiti richiesti, possano partecipare
in condizione di parità (si vuole, in tal modo, impedire all’
amministrazione la possibilità di effettuare assunzioni in maniera
clientelare, cioè in base a raccomandazioni, a conoscenze
personali, familiari o politiche);
• l’ organizzazione è, poi, imparziale se esulano da essa tutti quei
componenti che potrebbero essere parziali (così, ad es., per
lunghi anni i consigli di amministrazione degli enti pubblici sono
stati, in parte, composti da rappresentanti sindacali; in epoca più
recente si è capito, però, che una composizione del genere veniva
a contrastare con il principio di imparzialità, dal momento che una
quota dell’ organo di amministrazione è per definizione parziale in
tutte le materie che riguardano il personale; da qui un progressivo
esodo dei sindacati dagli organi di amministrazione degli enti
pubblici);
• il principio di imparzialità valorizza, infine, il procedimento
25
amministrativo: questo, infatti, richiede che la decisione dell’
amministrazione sia preceduta da una sequenza di atti di natura
istruttoria (sul piano organizzativo, ciò si traduce nella necessità
di separare gli uffici con compiti istruttori da quelli con
competenze decisorie).
§8. Il principio del buon andamento
L’ art. 97 Cost. fa riferimento, oltre che all’ imparzialità, anche al
buon andamento della P.A., cioè all’ efficienza dell’ azione
amministrativa; in particolare, con l’ espressione in esame si
vuole far riferimento, innanzitutto, alla relazione che si viene ad
instaurare tra risorse, umane e materiali, impiegate e risultati
ottenuti (efficienza, in senso stretto): un’ amministrazione è
efficiente quando adotta i mezzi più adatti e meno costosi per
svolgere i propri compiti (ad es., un amministrazione che impiega
più personale, più denaro o più tempo di quelli necessari è un’
amministrazione che agisce in modo inefficiente).
L’ inciso buon andamento fa riferimento, però, anche alla
relazione tra risultati ottenuti e obiettivi prestabiliti (si parla, in tal
caso, di efficacia): un’ amministrazione è efficace se riesce a
conseguire risultati di buona qualità, corrispondenti agli obiettivi
stabiliti (ad es., l’ amministrazione scolastica è efficace se riesce
ad ottenere una buona preparazione degli studenti; allo stesso
modo, l’ amministrazione sanitaria è efficace se riesce
effettivamente a migliorare le condizioni di salute dei cittadini).
Detto ciò, è necessario adesso porre in evidenza alcuni degli
effetti che il principio del buon andamento esplica nell’
organizzazione della P.A.: innanzitutto, va sottolineato che il
riparto delle funzioni amministrative (tra lo Stato, le regioni e gli
enti locali), enunciato dall’ art. 118 Cost., deve tener conto della
capacità degli apparati di svolgerle in modo adeguato; è questa la
ragione per la quale, se determinate attribuzioni vengono
trasferite da un apparato ad un altro (ad es., dallo Stato alle
26
regioni), anche le relative risorse, umane e finanziarie, dovranno
essere trasferite. In quest’ ottica, il nuovo art. 118 Cost. stabilisce
che le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni, salvo
che, per assicurarne l’ esercizio unitario, siano conferite a
province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base dei
princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza (un
criterio di adeguatezza può, ad es., sconsigliare l’ attribuzione di
certe funzioni ai comuni o a certi comuni, come quelli minori);
nella stessa direzione si pone anche l’ art. 119 Cost., secondo il
quale le risorse finanziarie degli enti territoriali devono consentire
di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite.
In secondo luogo, il principio del buon andamento esclude che
possano essere istituiti apparati amministrativi senza competenze
(all’ esclusivo scopo, cioè, di sistemare personale): in tal senso si
è espressa la Consulta con sent. 14/62; ciò impone, di
conseguenza, che il reclutamento nelle pubbliche amministrazioni
avvenga sulla base di piante organiche, nelle quali sia
numericamente indicato il personale occorrente e che lo stesso
sia distribuito per qualifiche e mansioni (Corte cost., sent. 1/99).
Il principio del buon andamento opera, poi, come temperamento
del principio di legalità: mentre, infatti, quest’ ultimo, non pone
alcun limite al legislatore nell’ ordinamento dei pubblici uffici (art.
97, cpv. Cost.), il principio del buon andamento esige, invece, che
una parte della disciplina sia riservata al Governo e, al di fuori
dello Stato, all’ amministrazione. In effetti, un apparato
amministrativo che fosse integralmente regolato dalla legge
risulterebbe estremamente rigido; ciò significa, quindi, che per
essere efficace ed efficiente, l’ organizzazione deve essere in
qualche modo flessibile [da qui la tendenza, a partire dagli anni
’90, a delegificare la materia dell’ organizzazione, rimettendo la
relativa disciplina alla contrattazione collettiva e ad atti normativi
(regolamenti) ed organizzativi della stessa amministrazione].
Il principio del buon andamento ha, inoltre, determinato negli anni
27
recenti una revisione del sistema dei controlli; infatti, la
Costituzione prevedeva, inizialmente, i soli controlli, di legittimità
e di merito, sugli atti (dello Stato, delle regioni e degli enti locali);
recentemente, viceversa, si è finalmente giunti a capire che i
criteri di efficienza ed efficacia dell’ azione amministrativa
richiedono la valutazione non tanto dei singoli atti, ma dell’
attività nel suo complesso, perché solo in tal modo si è in grado di
tener conto di entità come: le risorse, i risultati e gli obiettivi (se,
ad es., un comune di piccole dimensioni assume un
programmatore, la sua efficienza verrà incrementata; al contrario,
se con 50 delibere diverse assume 50 programmatori, il buon
andamento ne soffrirà, perché un settore verrà sovradotato di
personale, con palese spreco di risorse).
È importante specificare, infine, che il principio del buon
andamento è oggi anche un criterio per la valutazione del
personale dirigente, il quale viene giudicato in base ai risultati del
controllo di gestione (così, ad es., una valutazione negativa
ripetuta da parte del dirigente può comportare la risoluzione del
rapporto di impiego).
§9. Le funzioni amministrative e le autonomie locali
Gli Stati moderni, nel corso di un processo che è stato avviato
cinque secoli fa (in Francia, in Spagna e in Gran Bretagna), hanno
assorbito compiti che, per tutto il medioevo, erano stati svolti
dalle collettività minori (i comuni); nel corso di questo processo la
funzione normativa si è staccata da quella amministrativa ed è
venuta a far capo ai parlamenti e ai governi; mentre per la cura in
concreto degli interessi pubblici sono stati creati, all’ interno dello
Stato, appositi apparati (i ministeri) incaricati ciascuno di un
particolare compito (l’ ordine pubblico, la difesa esterna, la
riscossione dei tributi, le opere pubbliche, etc.); col tempo, però,
la struttura ministeriale è apparsa inadeguata per lo svolgimento
di alcune funzioni che richiedevano un’ azione più spedita; ed è
28
per questo motivo che nel secondo dopoguerra alcuni Stati
europei hanno assunto una forma federale (Germania e Austria),
mentre altri (come l’ Italia) hanno assunto una forma regionale:
cosicché, al di sotto dello Stato sono state create unità politiche
minori (come le regioni), le quali riproducono, in qualche modo, lo
schema statuale (ai ministeri corrispondono, infatti, gli assessorati
e al Parlamento i consigli regionali).
In ogni caso, occorre sottolineare che le comunità minori (comuni
e province), pur avendo perso molte funzioni (transitate, almeno a
livello normativo, allo Stato o alla regione), hanno comunque
continuato ad esprimere un’ inesauribile vitalità; tant’è vero che,
negli anni più recenti, il loro ruolo è cresciuto enormemente a
causa di una sempre più ampia domanda di prestazioni pubbliche
da parte dei cittadini (prestazioni che lo Stato non riesce più a
fronteggiare da solo e, quindi, tende a scaricare verso il basso:
verso, cioè, le istituzioni locali, in quanto più vicine ai cittadini).
In Italia, però, l’ accresciuta complessità di questo quadro
organizzativo ha richiesto un intervento costituzionale, allo scopo
di stabilire alcuni criteri di distribuzione delle funzioni.
Innanzitutto, è necessario premettere che, in ossequio al principio
di legalità, le funzioni amministrative seguono le funzioni
legislative: in altri termini, in un ordinamento come il nostro, in
cui la funzione legislativa è suddivisa tra lo Stato e le regioni, si
può dire, in linea di massima, che il titolare della potestà
legislativa è anche titolare della potestà amministrativa. Ora,
poiché l’ art. 117 Cost. (nella versione risultante dalla modifica
attuata con l. cost. 3/01) prevede tre specie di potestà legislativa
[la potestà legislativa esclusiva dello Stato nelle materie elencate
nel comma 2; la potestà legislativa concorrente dello Stato e delle
regioni nelle materie elencate nel comma 3; e la potestà residuale
(o esclusiva) delle regioni nelle materie non espressamente
riservate allo Stato (comma 4)] se ne deduce che: lo Stato
esercita funzioni amministrative nelle materie assegnate alla sua
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potestà legislativa esclusiva; le regioni nelle materie di
competenza residuale; ed entrambi nelle materie devolute alla
competenza legislativa concorrente.
Questa regola del parallelismo tra funzioni legislative e funzioni
amministrative, che era espressamente sancita dall’ art. 118
Cost. (nella sua versione originaria), ha subìto, con la modifica
costituzionale del 2001, temperamenti e deroghe: stabilisce,
infatti, il nuovo art. 118 Cost. che le funzioni amministrative sono
attribuite ai comuni, salvo che, per assicurarne l’ esercizio
unitario, siano conferite a province, città metropolitane, regioni e
Stato sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza.
Questa competenza amministrativa riservata agli enti locali (ed in
primis ai comuni) si giustifica soprattutto alla luce del
fondamentale principio di autonomia: autonomia che la
Repubblica (all’ art. 5 Cost.) riconosce e promuove, anche perché
essa è costituita dai comuni, dalle province, dalle città
metropolitane e dalle regioni, oltre che dallo Stato (art. 114
Cost.); in particolare, la nuova formulazione dell’ art. 114,
introdotta dalla L. cost. 3/01, intende enfatizzare due cose: la
prima è che gli enti sopra citati non sono delle semplici
articolazioni territoriali, ma elemento costitutivo della Repubblica;
la seconda è che la conta, per così dire, comincia dal basso, vale
a dire dai comuni per arrivare allo Stato.
§10. Gli organi consultivi e gli organi di controllo
La Costituzione contiene, nel Titolo III (del Governo), una Sezione
dedicata agli organi ausiliari: il Consiglio Nazionale dell’ economia
e del lavoro, il Consiglio di Stato (che è sia organo di consulenza
giuridico-amministrativa che di tutela della giustizia nell’
amministrazione) e la Corte dei Conti (che è organo di controllo).
L’ art. 100, ult. co. Cost. assicura l’ indipendenza del Consiglio di
Stato e della Corte dei Conti (e dei loro componenti) di fronte al
30
Governo (che è, invece, organo di amministrazione attiva).
Questa indipendenza viene ribadita anche in relazione alle
funzioni giurisdizionali attribuite ai due organi: al Consiglio di
Stato, per la tutela degli interessi legittimi e, in particolari materie
indicate dalla legge, dei diritti soggettivi (art. 103); alla Corte dei
Conti, sulle materie di contabilità pubblica e nelle altre materie
indicate dalla legge (art. 103, cpv.).
Si tratta, quindi, di organi che fanno parte dell’ amministrazione,
ma in un certo senso sono ad essa estranei: non solo, è ovvio,
perché svolgono anche funzioni giurisdizionali, ma anche perché
svolgono funzioni di consulenza e di controllo.
Queste funzioni, invero, non comportano una valutazione di
interessi (valutazione che deve essere effettuata dall’ autorità
amministrativa), ma il confronto tra una proposta o una decisione,
da un lato, e un criterio di valutazione, dall’ altro: la proposta che
viene sottoposta all’ organo consultivo, la decisione che è
assoggettata al controllo.
§11. Il sistema dei controlli
La nostra Costituzione, nella sua versione originaria, conteneva
tre specifiche disposizioni sui controlli:
• i controlli della Corte dei Conti sull’ amministrazione dello Stato
e sugli enti in cui lo Stato contribuisce in via ordinaria (art. 100);
• i controlli dello Stato sugli atti amministrativi delle regioni (art.
125, co. 1);
• i controlli delle regioni sugli atti degli enti locali (art. 130).
I controlli in esame presentano tre aspetti in comune:
innanzitutto, occorre specificare che l’ organo di controllo si
colloca all’ esterno dell’ amministrazione controllata; esso, infatti,
o fa parte di un ente diverso (ad es., lo Stato che controlla la
regione) o è collocato in una posizione di indipendenza rispetto al
Governo (è il caso della Corte dei Conti).
Il controllo, in secondo luogo, investe i singoli atti: a tale regola fa,
31
però, eccezione la previsione secondo la quale la Corte dei Conti è
chiamata ad effettuare anche il controllo (successivo) sulla
gestione del bilancio dello Stato e sulla gestione finanziaria degli
enti pubblici.
In terzo luogo, occorre sottolineare che il controllo in esame
assume i caratteri del controllo di legittimità: si tratta, in
particolare, di un controllo cd. preventivo, perché viene esercitato
prima che l’ atto possa produrre i suoi effetti (nel senso che questi
ultimi non si producono se il controllo è negativo, cioè se l’ organo
di controllo, una volta controllato l’ atto, nega il visto).
È necessario sottolineare, però, che con la riforma del Titolo V
Cost. del 2001 (L. 3/01) sono state soppresse le disposizioni sui
controlli dello Stato sulle regioni e delle regioni sugli enti locali, in
virtù dell’ autonomia che è stata riconosciuta a tali enti (regioni
ed enti locali); rimane intatto, pertanto, solo l’ art. 100 Cost.
Tuttavia, è bene precisare che, con questa modifica, i controlli
sulle regioni e sugli enti locali non sono venuti meno, ma sono
stati, per così dire, internalizzati: sono stati, cioè, trasformati in
una sorta di controllo interno (il controllo, cioè, che ciascuna
amministrazione esercita sul proprio funzionamento e che non
viene più esercitato in rapporto a parametri di stretta legalità, ma
in riferimento ai risultati raggiunti, collegati agli obiettivi
programmati).
32
Sezione III
Le fonti
§1. La riserva di legge
La disciplina della P.A., che trova nella Costituzione i suoi princìpi
fondamentali, è contenuta nelle leggi (sia statali che regionali) e
nei regolamenti; ed è oggi profondamente influenzata anche dal
diritto comunitario e dalle convenzioni internazionali.
Ora, in riferimento alla legge, è necessario sottolineare che il
principio di legalità, come detto in precedenza, richiede che la
legge non solo dia un fondamento al potere amministrativo, ma
che ne definisca anche i tratti essenziali (art. 97 Cost.); più
precisamente, la nostra Costituzione (che, è bene ricordare, non
enuncia espressamente il principio di legalità), utilizza la
categoria della riserva di legge [questa può essere assoluta o
relativa: quella assoluta ricorre quando una norma costituzionale
attribuisce soltanto alla legge, e non ad una fonte subordinata, il
potere di disciplinare una determinata materia (si pensi, ad es.,
alle libertà fondamentali o alla materia penale); quella relativa,
invece, ricorre quando la legge si limita a fissare la disciplina di
principio di una determinata materia, nell’ ambito della quale è
ammesso l’ intervento di regolamenti].
Secondo l’ opinione unanime, la P.A. è sottoposta ad una riserva
di legge relativa; tuttavia, l’ art. 97 Cost. non si limita
33
semplicemente a distribuire la competenza normativa tra legge e
regolamento, ma delinea anche il minimo che deve essere
regolato dalla legge: non a caso, l’ art. 97 cpv. stabilisce che alla
legge (e soltanto alla legge) spetta stabilire, nell’ ordinamento
degli uffici, le sfere di competenza, le attribuzioni e le
responsabilità dei funzionari (e poiché le attribuzioni e le
competenze hanno per oggetto poteri amministrativi e questi
poteri si esercitano a mezzo di atti amministrativi, ne consegue
che deve essere riservato alla legge il conferimento di potestà
amministrative).
In ogni caso, è bene precisare che la Costituzione con la locuzione
riserva di legge ha inteso far riferimento non solo alle leggi in
senso formale, ma anche ai decreti legislativi e ai decreti legge;
va chiarito, inoltre, che la riserva può anche essere soddisfatta da
una legge regionale (qualora la materia ricada nella competenza
legislativa concorrente o esclusiva della regione, ex art. 117
Cost.).
Se, però, da un lato, l’ art. 97 Cost. stabilisce il contenuto minimo
che la legge deve avere in relazione all’ organizzazione
amministrativa (attribuzioni, competenze e responsabilità), dall’
altro lato stabilisce anche due limiti a carattere finalistico (e
questo perché la legge deve assicurare l’ imparzialità ed il buon
andamento dell’ amministrazione).
Non solo: la Costituzione determina anche un contenuto massimo,
al di là del quale la legge non può spingersi; e ciò perché, in virtù
del principio della separazione dei poteri, è escluso che il
legislatore possa fare l’ amministratore (è escluso, cioè, che la
legge abbia il contenuto concreto dell’ attività amministrativa). A
sostegno di quanto detto, si è rilevato, ad es., che se contro gli
atti della P.A. è sempre ammessa la tutela giurisdizionale (art. 113
Cost.), la legge non potrebbe avere il contenuto di un atto
amministrativo, perché, se lo avesse, verrebbe negata al
destinatario la tutela giurisdizionale (il singolo, infatti, può
34
impugnare un atto amministrativo, non una legge).
Secondo questa persuasiva impostazione, la Costituzione
disporrebbe, quindi, anche una riserva di provvedimento
amministrativo, così vietando le cd. leggi-provvedimento: quelle
leggi, cioè, che, anziché limitarsi a prevedere i casi da regolare,
provvedono concretamente su casi e rapporti specifici, attraendo
nella propria sfera di disciplina materie e oggetti normalmente
affidati all’ autorità amministrativa (è necessario sottolineare,
però, che questa tesi non ha trovato l’ avallo della Corte
Costituzionale, la quale ha, invero, fatte salve, in numerose
occasioni, le leggi-provvedimento).
§2. I regolamenti
La riserva di legge relativa, alla quale è sottoposta la P.A.,
comporta che una quota rilevante della disciplina che la riguarda
può essere contenuta nei regolamenti governativi, la cui materia
è oggi disciplinata dalla L. 400/88. In tale legge sono elencate, in
particolare, cinque specie di regolamenti:
•i regolamenti esecutivi (che vengono adottati per l’ esecuzione
delle leggi, dei decreti legislativi e dei regolamenti comunitari);
• i regolamenti di integrazione (delle norme di principio contenute
nelle leggi e nei decreti legislativi);
• i regolamenti indipendenti (che vengono adottati nelle materie
in cui manchi la disciplina da parte di leggi o di atti aventi forza di
legge, sempre che non si tratti di materie riservate comunque alla
legge);
• i regolamenti di organizzazione (che disciplinano l’
organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni
pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge);
• i regolamenti di delegificazione (così denominati perché la
disciplina, un tempo tutta contenuta nella legge, viene
ridistribuita tra la legge, che detta le norme generali, ed il
regolamento).
35
Accanto ai regolamenti governativi, la L. 400/88 prevede, poi, i
regolamenti ministeriali, i quali possono essere adottati nella
materia di competenza del ministro (o di autorità sott’ ordinate),
qualora la legge conferisca espressamente tale potere; è
necessario sottolineare, però, che i regolamenti ministeriali (o
interministeriali) non possono dettare norme contrarie a quelle
dei regolamenti emanati dal Governo.
Particolare importanza assumono anche i regolamenti degli enti
territoriali, sui quali hanno, però, inciso in modo rilevante le
riforme costituzionali del 1999 e del 2001. L’ art. 121 Cost., nella
sua originaria formulazione, attribuiva al consiglio regionale la
potestà legislativa e regolamentare della regione; la riforma
apportata dalla L. 1/99 ha, invece, eliminato questa riserva
attribuita al consiglio, sicché oggi spetterà alla singola regione
assegnare tale potestà al consiglio o alla giunta (attraverso il
proprio statuto). In concreto, tutte le regioni, ad eccezione dell’
Abruzzo, hanno conferito la potestà regolamentare alla giunta
regionale, prevedendo per lo più forme di partecipazione del
consiglio (per effetto di questo spostamento della competenza, la
produzione regolamentare della regione ha ricevuto un nuovo
impulso).
L’ altra importante modifica è stata, invece, apportata dalla L.
3/01: in particolare, l’ art. 117, co. 6 Cost., nella nuova
formulazione, attribuisce allo Stato la potestà regolamentare nelle
materie di legislazione esclusiva, mentre in ogni altra materia
spetta alle regioni (viene meno, così, la potestà regolamentare
dello Stato nelle materie di competenza concorrente).
Il nuovo art. 117 Cost. stabilisce, infine, che i comuni, le province
e le città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine
alla disciplina dell’ organizzazione e dello svolgimento delle
funzioni loro attribuite (si tratta, in realtà, del riconoscimento
normativo di una potestà che gli enti locali, ed in particolare i
comuni, hanno sempre avuto).
36
§3. Gli statuti
Tra le fonti rilevanti per l’ amministrazione vanno annoverati,
inoltre, gli statuti delle regioni e degli enti locali. Ciascuna
regione, infatti, ha un proprio statuto (espressione della sua
autonomia e che deve essere approvato a maggioranza assoluta
dei componenti del consiglio e con due deliberazioni successive a
distanza di due mesi); lo statuto, in armonia con la Costituzione,
determina la forma di governo e i princìpi fondamentali di
organizzazione e di funzionamento della regione: più
precisamente, la potestà statutaria della regione si muove tra la
Costituzione, la quale individua gli organi di governo (consiglio,
giunta e presidente) e ne disciplina le funzioni essenziali, e la
competenza legislativa residuale (della regione stessa) in materia
di organizzazione amministrativa.
Diversa è, invece, la condizione delle regioni a statuto speciale,
perché i loro statuti sono stati approvati con legge costituzionale
del Parlamento: sicché essi sono, sul piano formale, sovraordinati
agli statuti delle regioni ordinarie (perché hanno il rango delle
leggi costituzionali), ma sul piano sostanziale sono espressione di
un’ autonomia minore (proprio perché la legge votata dal
consiglio regionale deve essere, a sua volta, approvata dal
Parlamento, ex art. 138 Cost.).
Anche gli enti locali (comuni, province e città metropolitane)
hanno propri statuti: l’ art. 114, co. 2 Cost. afferma, infatti, che
essi sono enti autonomi con propri statuti [ovviamente, anche qui
la potestà statutaria incontra il limite della Costituzione, alla quale
spetta, infatti, il compito di fissare la legislazione elettorale, gli
organi di governo e le funzioni fondamentali degli enti locali, ex
art. 117, co. 2, lett. p) Cost.].
§4. Le fonti comunitarie
Il quadro costituzionale dell’ attività amministrativa non sarebbe
37
completo se non venisse integrato con i princìpi dell’ Unione
europea, sanciti dal Trattato di Roma (stipulato nel 1950) e dal
diritto comunitario derivato (direttive, regolamenti e sentenze
della Corte di Giustizia CE).
In questa prospettiva, la Corte Costituzionale ha ritenuto che, con
la stipula del Trattato di Roma, la Repubblica italiana, ai sensi dell’
art. 11 Cost., abbia consentito, in condizioni di parità con gli altri
Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento
che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni; in conseguenza di
ciò, si ritiene che i regolamenti comunitari sono direttamente
applicabili, senza la necessità di norme interne di adattamento o
di ricezione (sent. 183/73); che, in caso di contrasto con il diritto
comunitario, la norma interna confliggente deve essere
disapplicata dal giudice nazionale (sent. 170/84); che lo stesso
rango va riconosciuto alle sentenze della Corte di Giustizia (sent.
379/89); che l’ obbligo di disapplicare le norme interne
incompatibili con il diritto comunitario grava anche sugli organi
amministrativi (sent. 379/89); che i princìpi richiamati vanno
estesi anche alle direttive comunitarie, qualora le stesse
contengano prescrizioni sufficientemente precise e sia decorso il
termine assegnato agli Stati membri per dare attuazione, con
proprio atto normativo, alla direttiva stessa (sent. 161/91).
Costruito in questi termini il rapporto tra i due ordinamenti
(interno e comunitario), risulta evidente che lo status delle norme
comunitarie viene equiparato a quello delle norme della
Costituzione italiana. In realtà, un contrasto potrebbe verificarsi
qualora una disposizione comunitaria venga in contrasto con i
princìpi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale;
anche questa formale riserva, però, è venuta a cadere, in seguito
alla modifica apportata dal nuovo testo dell’ art. 117 Cost., ad
avviso del quale, infatti, la potestà legislativa è esercitata dallo
Stato e dalle regioni, nel rispetto della Costituzione, nonché dei
vincoli derivanti dall’ ordinamento comunitario e dagli obblighi
38
internazionali (ciò significa, in altri termini, che l’ ordinamento
comunitario vincola il legislatore, statale o regionale, nella stessa
misura in cui lo vincola la Costituzione).
§5. Le norme internazionali
Le norme internazionali sono divise nelle due grandi categorie
delle norme consuetudinarie e delle norme convenzionali,
contenute nei trattati. Nella sua formulazione originaria, però, la
Costituzione, regolava in maniera distinta l’ adattamento di
queste norme al diritto interno: ed infatti, mentre per le norme
consuetudinarie prevedeva (e prevede tuttora) l’ adattamento
automatico, in quanto coincidenti con le norme di diritto
internazionale generalmente riconosciute (art. 10, co. 1 Cost.),
per i trattati di natura politica, invece, stabiliva che questi
dovessero essere autorizzati con legge del Parlamento. In altri
termini, prima dell’ entrata in vigore del nuovo art. 117 Cost., si
riteneva che le norme contenute nei trattati internazionali
stipulati dall’ Italia acquistassero il rango di legge ordinaria, che
ad esse dava esecuzione (c.d. ordine di esecuzione): si escludeva,
cioè, che l’ adattamento automatico operasse al di fuori delle
norme consuetudinarie (in tal senso era orientata la stessa Corte
Costituzionale). Di conseguenza, la collocazione dei trattati sul
livello della legge ordinaria comportava la possibilità che le norme
in essi contenute fossero abrogate da norme di legge ordinarie
successive.
Le cose sono cambiate, però, con la nuova formulazione dell’ art.
117 Cost., ai sensi del quale, infatti, la potestà legislativa è
esercitata dallo Stato e dalle regioni, nel rispetto della
Costituzione e dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
Gli effetti di questa modifica sono stati, in particolare, esaminati
dalla Consulta nella sent. 348/07, in relazione ad un importante
Trattato: la Convenzione europea dei diritti dell’ uomo (CEDU). I
giudici costituzionali hanno precisato che le norme CEDU, pur non
39
obbligando il giudice italiano a disapplicare le norme nazionali in
contrasto con esse; e pur non avendo lo stesso rango delle norme
costituzionali, obbligano, comunque, il legislatore italiano a
rispettarle; da ciò ne consegue che la norma interna incompatibile
con la norma della CEDU viola la Costituzione.
Sezione IV
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L’ assetto positivo
§1. Lo Stato e i ministeri
Nel linguaggio del diritto costituzionale l’ idea di Stato rimanda
alla nozione di Governo, di Parlamento, di Capo dello Stato (organi
supremi che assumono le decisioni politiche fondamentali). Nell’
ottica del diritto amministrativo, invece, lo Stato è essenzialmente
un insieme di ministeri: sono queste le sue articolazioni
fondamentali, ognuna associata ad un complemento di
specificazione che ne indica la sfera di azione (ad es., Ministero
dell’ Interno, Ministero degli Affari Esteri, Ministero della Giustizia,
etc.). È bene precisare, però, che la parola ministero presenta un
carattere bifronte, perché essa designa, innanzitutto, una
struttura amministrativa (formata da un insieme di uffici ricoperti
da burocrati); al vertice di tale struttura, però, c’è una persona (il
ministro), che non solo è capo di amministrazione, ma è anche
componente di un collegio politico (il Consiglio dei ministri).
Nel corso di quasi un secolo e mezzo (dal 1860 ad oggi) i ministeri
sono cambiati nel numero, nella denominazione e nelle strutture:
infatti, accanto a ministeri che ci sono sempre stati, e che
continuano ad esserci (esteri, interni, giustizia), ce ne sono altri
che sono nati nel momento in cui un certo interesse collettivo è
stato ritenuto meritevole di essere tutelato con un apposito
ministero (si pensi, ad es., al Ministero della Sanità, al Ministero
dei Beni Culturali o al Ministero dell’ Ambiente).
Dopo decenni di incremento del numero dei ministeri (siamo
arrivati a contarne 25), di recente si è pervenuti ad una drastica
riduzione, ispirata anche a finalità di economia organizzativa;
tuttavia, le buone intenzioni manifestate dal d.lgs. 300/99, che
aveva ridotto a 12 il numero dei ministeri, hanno dovuto fare i
conti con le esigenze dei governi di coalizione (e con la necessità,
quindi, di un congruo numero di posti da spartire). Sicché, con il
d.l. 181/06, conv. in L. 233/06, il numero dei ministeri è stato
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riportato a 18; nell’ attuale legislatura, però, vi è stata una nuova
riduzione: vi sono, infatti, 13 ministeri.
§2. I ministeri
a) i dipartimenti, le direzioni generali e gli uffici di collaborazione
Nel quadro legislativo definito dal d.lgs. 300/99, i ministeri sono
divisi in due gruppi: in quelli del primo gruppo (interni; giustizia;
economia; lavoro e politiche sociali; istruzione, università e
ricerca; salute) le strutture di primo livello sono rappresentate dai
dipartimenti (i quali abbracciano grandi aree di materie).
Nei ministeri del secondo gruppo (tutti gli altri) le strutture di
primo livello sono, invece, rappresentate dalle direzioni generali
(con ambiti più ridotti rispetto ai dipartimenti); tali direzioni
generali, in particolare, sono coordinate da un segretario generale
(figura non prevista nei ministeri a struttura dipartimentale).
Affianco ai dipartimenti e alle direzioni generali operano, poi, gli
uffici di diretta collaborazione con il ministro, i quali sono legati
all’ organo politico da un rapporto fiduciario (tra di essi
ricordiamo: l’ ufficio legislativo e l’ ufficio di gabinetto). Questi
uffici, però, si distinguono dagli uffici burocratici, perché non sono
organizzati secondo un disegno gerarchico, ma sono collocati in
posizione di staff, ossia in una posizione collaterale al vertice
politico, con il quale hanno un contatto diretto (a prescindere
dalla gerarchia).
b) l’ organizzazione periferica
Molti ministeri, accanto ad un apparato centrale, presentano
anche un apparato periferico, che fa capo ad un ufficio organo (si
pensi, ad es., al prefetto, che fa capo al Ministero dell’ Interno; al
provveditore agli studi, che fa capo al Ministero della Pubblica
Istruzione; all’ intendenza di finanza, che fa capo al Ministero
delle Finanze, etc.). A tali uffici periferici (sempre, o quasi sempre,
di dimensione provinciale) è stata riconosciuta una parziale
42
soggettività giuridica (negata, questa, per oltre un secolo, alle
direzioni generali dei ministeri); ciò si spiega in considerazione del
fatto che, se così non fosse stato, anche, ad es., il prefetto, il
provveditore agli studi o l’ intendente di finanza (cioè, l’ apparato
periferico) avrebbe dovuto sottoporre i suoi atti alla firma del
ministro e sarebbe, di conseguenza, venuta meno la stessa utilità
di un’ organizzazione periferica dello Stato.
È necessario sottolineare, però, che con l’ istituzione delle regioni
(1970), l’ organizzazione periferica dello Stato ha perso,
ovviamente nei settori regionalizzati (agricoltura, turismo e, in
parte, lavori pubblici) una parte dei suoi spazi; con la riforma del
1999 è stato, poi, attuato un ulteriore snellimento delle strutture
periferiche: alcune sono state fatte salve (difesa, economia e
finanze, beni culturali), mentre le altre sono state concentrate
nelle prefetture (denominate, oggi, uffici territoriali di governo).
c) la responsabilità ministeriale
L’ art. 95, co. 2 Cost., affermando che i ministri (nei confronti del
Parlamento) sono responsabili collegialmente degli atti del
Consiglio dei ministri e individualmente degli atti dei loro
dicasteri, concorre, almeno in parte, a definire il rapporto tra il
ministro e la burocrazia ministeriale (e, in primo luogo, i dirigenti).
Ora, questa formula (che afferma la responsabilità del ministro
per gli atti del suo dicastero) è stata interpretata, anche prima
della sua costituzionalizzazione, nel senso che tutti gli atti del
ministero fossero giuridicamente imputabili al ministro (anche se
non posti in essere dallo stesso); si trattava, però, di un’ evidente
esagerazione che, come già affermava il Presidente del Consiglio
Bettino Ricasoli nel 1866 (quindi, sin dalle origini dell’ Italia unita),
eliminava di fatto la responsabilità dei dirigenti (mettendo, così, in
discussione il buon andamento dell’ amministrazione stessa).
La questione del rapporto tra ministro e dirigente non si
esaurisce, però, nell’ art. 95, ma è presa in considerazione anche
43
dagli artt. 28 e 97 Cost.
In particolare, l’ art. 97, come sappiamo, dopo aver enunciato i
princìpi di buon andamento e di imparzialità dell’
amministrazione, prescrive che nell’ ordinamento degli uffici
siano determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le
responsabilità proprie dei funzionari. Ora, poiché l’ inciso proprie
è riferito sia alla responsabilità che alla competenza, se ne
deduce che la competenza non può essere limitata al ministro,
ma deve essere estesa anche ai dirigenti, i quali sono chiamati a
rispondere degli atti compiuti nell’ esercizio di tale competenza,
senza che possano trincerarsi dietro la responsabilità ministeriale
(in tal senso: Merloni).
Che i funzionari (e, quindi, anche i dirigenti) rispondano
direttamente dei propri atti, compiuti in violazione dei diritti,
risulta poi confermato dall’ art. 28 Cost.: ne rispondono secondo
le leggi penali, civili e amministrative; viceversa, i ministri (ex art.
95 Cost.) rispondono politicamente degli atti dei loro dicasteri (e
quindi, anche di quelli posti in essere dai dirigenti).
In definitiva, le tre disposizioni su analizzate (artt. 95, 97 e 28
Cost.) compongono, come si può notare, un quadro in cui la
responsabilità politica del ministro (per gli atti del suo dicastero)
convive con la responsabilità diretta del dirigente (che è titolare
di una sua sfera di competenza) e forniscono anche un criterio per
distinguere il contenuto di tale responsabilità: una responsabilità
politica del ministro ed una responsabilità civile, penale e
amministrativa del dirigente (della quale, però, è bene precisarlo,
è tenuto a rispondere anche il ministro, essendo egli stesso
funzionario e, quindi, destinatario dei precetti contenuti negli artt.
28 e 97 Cost.).
d) i ministri e i dirigenti
Il D.P.R. 748/72 (cd. decreto sulla dirigenza), staccando - dalla
carriera direttiva del personale statale - la carriera dirigenziale
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(articolata nelle tre qualifiche di dirigente generale, dirigente
superiore e primo dirigente) aveva attribuito ai dirigenti
competenze proprie (in tal modo, i dirigenti, dopo essere stati per
lungo tempo titolari di meri uffici, diventavano organi dell’
amministrazione).
Si trattava, in particolare, di competenze dirette ad adottare atti
che impegnavano l’ amministrazione verso l’ esterno (il cui valore
monetario era comunque inferiore ad una certa soglia e la cui
natura era vincolata); in capo al ministro veniva, invece,
mantenuta la competenza ad adottare gli atti più rilevanti e a
sindacare l’ operato dei dirigenti mediante poteri di intervento sui
loro atti (revoca, riforma, annullamento) o sulle loro competenze
(avocazione e riserva preventiva di atti).
Le cose, però, sono successivamente cambiate: infatti, con i d.lgs.
29/93 e 165/01, è stato enunciato un nuovo criterio di riparto
delle competenze tra gli organi di governo e i dirigenti (cd. riparto
funzionale). In questa prospettiva, gli organi di governo sono oggi
chiamati a definire gli obiettivi e i programmi da attuare e
verificano la rispondenza dei risultati della gestione
amministrativa alle direttive generali impartite; ai dirigenti,
invece, spetta la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa
(compresi gli atti che impegnano l’ amministrazione verso l’
esterno) mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione
delle risorse, umane e strumentali, e di controllo.
Il riparto delle competenze tra organi di governo e dirigenti è
reso, poi, ancora più netto dal divieto, per l’ organo politico (il
ministro), di revocare o avocare a sé atti di competenza dei
dirigenti: in caso di inerzia o ritardo, infatti, l’ organo politico può
fissare al dirigente un termine entro il quale provvedere e, se l’
inerzia persiste, può nominare un commissario ad acta.
Tuttavia, è necessario sottolineare che se, da un lato, l’organo
politico (il ministro) ha perso la possibilità di intervenire sugli atti
del dirigente (revoca, annullamento, modifica, avocazione etc.),
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dall’ altro lato ha mantenuto (anzi, ha rafforzato) i propri poteri
sul piano dell’ investitura: infatti, a differenza del rapporto di
lavoro privato, in cui il possesso di una qualifica lavorativa
comporta il diritto di esercitare le relative mansioni (ex art. 2103
c.c.), alla qualifica dirigenziale si accede mediante concorso; l’
incarico di funzioni dirigenziali viene, però, conferito dall’ organo
politico (sicché da tale incarico dipende lo svolgimento delle
mansioni proprie del dirigente). L’ incarico di funzioni dirigenziali
ha una durata limitata nel tempo (da un minimo di 3 anni ad un
massimo di 5) ed è rinnovabile: ovviamente, la temporaneità dell’
incarico si spiega in funzione del controllo sull’ operato del
dirigente da parte dell’ organo politico (così, ad es., se il dirigente
non ha raggiunto gli obiettivi che gli sono stati prefissati, l’
incarico non può essere rinnovato).
§3. L’ amministrazione locale
a) il principio elettivo e le modalità di elezione
L’ altro grande braccio dell’ amministrazione pubblica è costituito
dall’ amministrazione locale (comuni, province e città
metropolitane).
Le province sono state istituite subito dopo l’ unificazione italiana,
sul modello francese; le città metropolitane, invece, sono previste
dal nuovo testo dell’ art. 114 Cost.; i comuni, infine, risalgono a
secoli addietro (i più antichi addirittura al medioevo).
Gli enti locali si distinguono dagli altri enti pubblici per la modalità
di investitura degli organi di base, che non poggia su una nomina,
ma su una elezione (in tal senso si è espressa la Consulta con le
sentt. 42/61 e 96/68); in questa prospettiva, il primo e più
importante tratto caratteristico dell’ ente locale è quello della
elettività dei suoi organi di base (un principio che risale ad epoca
remota e che solo il fascismo ha cercato di negare); l’ elettività
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degli organi comporta, di conseguenza, la possibilità che la
maggioranza al comune ovvero alla provincia sia di colore diverso
dalla maggioranza al Parlamento nazionale o al consiglio
regionale (ed è questa l’ implicazione fondamentale dell’
autonomia dell’ amministrazione locale).
Analizziamo adesso le modalità di elezione (prima e dopo la
riforma del 1993). Prima della riforma del 1993 i cittadini
eleggevano il consiglio (comunale o provinciale) e questi, a sua
volta, eleggeva il sindaco (o il presidente della provincia) e i
componenti della giunta; tale meccanismo, però, non era
particolarmente idoneo ad assicurare stabilità all’ esecutivo dell’
ente locale, dal momento che alcuni consiglieri della
maggioranza, aspirando a far parte della giunta (o ad esserne a
capo, in qualità di sindaco o di presidente della provincia),
potevano sabotare l’ esecutivo, togliendo ad esso l’ appoggio (con
il preciso intento di determinarne la caduta e di provocare un
avvicendamento che avrebbe potuto favorirli).
In virtù di tali considerazioni, con L. 81/93, il sistema di
rappresentanza è stato radicalmente mutato: cosicché all’
elezione del consiglio è stata affiancata l’ elezione diretta del
sindaco (o del presidente della provincia) e all’ elezione della
giunta, da parte del consiglio, è subentrata la nomina del sindaco.
Pertanto, ragionando in questi termini, possiamo affermare con
certezza che il modello costituzionale al quale si ispira oggi il
sistema locale è di tipo presidenziale (sul modello statunitense):
ed infatti, i rappresentanti eletti (il consiglio) e il capo dell’
esecutivo (sindaco o presidente) hanno un’ investitura popolare
diretta; forte di questa investitura, quindi, il sindaco o il
presidente della provincia sceglie gli assessori (i componenti della
giunta) sulla base di un rapporto di natura fiduciaria, che
dovrebbe prescindere dalle appartenenze ai partiti e alle liste
collegate (anche se ciò, a ben vedere, risulta quasi inevitabile a
causa degli accordi fatti in vista delle elezioni).
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Con il modello presidenziale, che presuppone (nel capo dell’
esecutivo) un’ investitura che prescinde dalla fiducia del
legislativo (il consiglio) contrasta, però, l’ istituto della mozione di
sfiducia, disciplinato dall’ art. 52 d.lgs. 267/00; è, tuttavia,
previsto un potente correttivo: se, infatti, la sfiducia viene votata
ne consegue lo scioglimento del consiglio e la nomina di un
commissario; in altri termini, i consiglieri sanno che se la loro
iniziativa (la presentazione della mozione di sfiducia) avrà
sèguito, cesseranno automaticamente di essere consiglieri,
perché l’ organo (il consiglio) verrà disciolto.
Detto questo, è necessario adesso analizzare il particolare
meccanismo elettorale degli enti locali. Tale meccanismo è
diverso a seconda che il comune abbia meno o più di 15000
abitanti: nel primo caso ciascun candidato alla carica di sindaco è
collegato ad una lista di candidati al consiglio comunale (in
questo caso, quindi, l’ elettore, votando per il candidato sindaco,
vota anche per la lista che lo sorregge, nell’ ambito della quale
può votare anche il candidato consigliere che preferisce).
Terminata la votazione, viene eletto sindaco il candidato che
ottiene il maggior numero di voti; e alla lista collegata sono
attribuiti i due terzi dei seggi assegnati al consiglio (gli altri,
ovviamente, sono assegnati in modo proporzionale alle altre
liste).
Nei comuni con più di 15000 abitanti, invece, il sindaco viene
eletto con la maggioranza assoluta dei voti validi; pertanto, se
nessun candidato supera il 50% dei voti, la domenica successiva
si procede ad un secondo turno (cd. ballottaggio), al quale sono
ammessi i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero
dei voti. È importante specificare, inoltre, che in questi casi la
candidatura a sindaco è collegata ad una o più liste, ma il
collegamento non è così stretto come nei comuni minori, perché l’
elettore può votare la lista, ma può non votare il candidato
sindaco ad essa collegato (e scegliere un candidato collegato ad
48
un’ altra lista). Ciò significa, in altri termini, che pur essendo
possibile che il candidato sindaco venga eletto al primo turno, è
altrettanto possibile che la lista o le liste collegate non
raggiungano il 50% dei voti: in tal caso è previsto un premio di
maggioranza (il 60% dei seggi del consiglio), purché la lista (o il
gruppo di liste) abbia conseguito il 40% dei voti (e nessun altra
lista abbia, ovviamente, superato il 50% dei voti).
Per converso, se il sindaco viene eletto dopo il ballottaggio, e la
lista o le liste collegate non hanno conseguito il 60% dei voti,
anche in questo caso esse ottengono un premio di maggioranza
(il 60% dei seggi), sempre che nessun altra lista o gruppo di liste
abbia superato, al primo turno, il 50% dei voti.
Il procedimento dettato per l’ elezione nei comuni maggiori si
applica anche alle province.
b) le funzioni
Dagli altri apparati amministrativi (i ministeri, gli enti pubblici, le
aziende pubbliche, etc.) il comune si distingue perché svolge una
molteplicità di funzioni, di servizi e di interessi (ciò dipende dalla
storia, che ha visto per secoli il comune come la sola
organizzazione collettiva del territorio, chiamata dai suoi cittadini
ad assumersi compiti che essi, da soli, non potevano assolvere).
La polifunzionalità dei comuni è oggi riconosciuta dall’ art. 13
d.lgs. 267/00, il quale infatti stabilisce che spettano al comune
tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione e il
territorio comunale (ad es., i servizi alla persona e alla comunità;
l’ utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico), salvo
quanto non sia attribuito dalla legge (statale o regionale) ad altri
soggetti: si pensi, ad es., alle funzioni che, pur riferibili alla
popolazione e al territorio, sono attribuite dalla legge ad enti
diversi (ASL, IACP, aziende di promozione turistica, etc.).
Questa sorta di presunzione di competenza generale dei comuni è
stata, poi, ribadita dalla riforma costituzionale del 2001: non a
49
caso, il nuovo art. 118, co. 1 Cost. stabilisce che le funzioni
amministrative sono attribuite ai comuni, salvo che, per
assicurarne l’ esercizio unitario, siano conferite a province, città
metropolitane, regioni e Stato, sulla base dei princìpi di
sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.
Ora, presa alla lettera, la prima parte di questa disposizione
sembra stabilire una presunzione generale di competenza dei
comuni per l’ attività amministrativa; ma in realtà, un assetto del
genere (che, tra l’ altro, riporterebbe il nostro sistema
istituzionale al medioevo, quando non esistevano altre forme di
governo al di fuori di quella municipale) deve fare i conti con un
quadro costituzionale nel quale continua a campeggiare il
principio di legalità. Ciò significa, pertanto, che sarà la legge
(regionale o statale) a distribuire le competenze amministrative
sui vari livelli territoriali in base ai criteri di sussidiarietà,
adeguatezza e differenziazione (criteri che sono stati mutuati
dalla L. 59/97: prima legge Bassanini). In particolare, in virtù del
principio di sussidiarietà le funzioni amministrative saranno
attribuite ai comuni, alle province e alle comunità montane,
secondo le rispettive dimensioni territoriali (il principio in esame,
come si può facilmente notare, privilegia il criterio dimensionale);
qualora, però, la funzione interessata sia incompatibile con la
dimensione dell’ ente, il principio in esame giustifica l’ intervento
sussidiario del livello di governo superiore.
Non diverse sono le conseguenze del principio di adeguatezza, il
quale, infatti, richiede che l’ amministrazione ricevente sia in
grado di garantire, anche in forma associata con altri enti, l’
esercizio delle relative funzioni (ciò, in realtà, già risulta implicito
nel principio di sussidiarietà).
Lo stesso discorso può essere fatto per il principio di
differenziazione, il quale impone di tener conto, nell’ allocazione
delle funzioni, anche delle diverse caratteristiche associative,
demografiche, territoriali e strutturali degli enti riceventi; richiede,
50
cioè che, nell’ allocazione delle funzioni, si tenga conto non solo
della diversa idoneità dei diversi livelli territoriali, ma anche della
diversa idoneità ad esercitare le funzioni di enti situati nel
medesimo livello territoriale (se, ad es., è idoneo il comune di
Milano non lo è quello di Briga o di Floresta).
Il co. 2 dell’ art. 118 Cost. specifica, poi, che gli enti locali sono
titolari sia di funzioni amministrative proprie sia di funzioni
amministrative conferite con legge statale o regionale, secondo le
rispettive competenze.
L’ art. 118 Cost. deve, però, essere letto unitamente al
precedente art. 117, co. 2, lett. p), perché quest’ ultimo,
elencando (tra le materie di competenza legislativa esclusiva
dello Stato) gli organi di governo e le funzioni fondamentali di
comuni, province e città metropolitane, ha fatto emergere il
problema dei rapporti tra le funzioni fondamentali (art. 117) e le
funzioni di cui all’ art. 118, nonché il conseguente problema della
distinzione tra funzioni proprie, attribuite e conferite.
In realtà, una volta assodato che, stante il principio di legalità,
non possono esserci funzioni amministrative che non siano
assegnate con legge e che, quindi, l’ art. 118 Cost. non
attribuisce, di per sé, specifiche funzioni agli enti locali, dal
momento che queste sono assegnate con legge, dello Stato o
della regione, ex art. 117, risulta, di conseguenza, priva di senso
la distinzione tra funzioni proprie e funzioni conferite con legge,
proprio perché gli enti locali non hanno funzioni proprie diverse da
quelle conferite con legge (e, di conseguenza, priva di senso si
dimostra la distinzione tra funzioni attribuite e funzioni conferite).
Ha, invece, senso la distinzione tra funzioni fondamentali e
funzioni non fondamentali degli enti locali, perché le prime sono
oggetto di potestà legislativa esclusiva dello Stato (art. 117
Cost.), mentre le seconde no. In particolare, le funzioni
fondamentali possono rientrare nell’ ambito delle competenze
materiali attribuite alla potestà legislativa esclusiva dello Stato e,
51
quindi, possono essere scorporate dagli apparati amministrativi
statali per essere devolute agli enti locali (ad es., in tema di
immigrazione, di cittadinanza, di stato civile, di anagrafe e di
tutela dell’ ambiente); esse, però, possono anche ricadere nell’
ambito delle materie regionali oggetto di competenza legislativa
concorrente Stato-regioni (in tal caso vi sarà un’ ingerenza della
legge statale nelle materie regionali).
Possiamo, pertanto, concludere dicendo che le funzioni agli enti
locali possono essere conferite con legge: che sarà la legge
regionale, nelle materie di competenza (concorrente o esclusiva)
della regione; mentre sarà la legge statale, nelle materie che
rientrano nella competenza legislativa esclusiva dello Stato
(concernenti gli organi di governo e le funzioni fondamentali) o
nelle materie di competenza concorrente Stato-regioni e che
determinano funzioni essenziali di comuni e province (in questi
casi, il carattere fondamentale di tali funzioni abilita la legge
statale ad ingerirsi nelle materie regionali).
c) gli organi di governo dell’ ente locale
La legge dello Stato è abilitata non solo ad assegnare funzioni agli
enti locali, ma anche a distribuirle tra i suoi organi di governo (il
consiglio, la giunta e il capo dell’ esecutivo - sindaco o presidente
della provincia). La struttura e le funzioni degli organi di governo
dell’ ente locale sono disciplinate dalle legge: ed è proprio entro
questi limiti che si muove la potestà statutaria, nell’ esercizio
della quale il singolo ente locale stabilisce non tanto le norme
fondamentali della sua organizzazione (art. 6 d.lgs. 267/00),
perché queste le stabilisce la legge, ma regola, più che altro, l’
organizzazione delle funzioni, le forme di collaborazione con gli
altri enti locali (ad es., convenzioni, consorzi e accordi di
programma), le modalità di partecipazione popolare, del
decentramento, dell’ accesso dei cittadini alle informazioni ed ai
procedimenti amministrativi.
52
Ora, dal momento che lo statuto rappresenta una piccola
costituzione dell’ ente locale, lo stesso deve essere approvato con
il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati; e se tale
maggioranza non viene raggiunta, sono necessarie due
successive votazioni, nelle quali lo statuto dovrà essere approvato
a maggioranza assoluta dei voti (la metà più uno dei consiglieri).
Come detto, gli organi di governo dell’ ente locale sono: il
consiglio, la giunta e il sindaco (o il presidente, nella provincia).
In particolare, il consiglio (dal punto di vista funzionale) è l’
organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo ed ha
competenza limitatamente agli atti indicati dall’ art. 42 d.lgs.
267/00: statuti, regolamenti, programmi, piani finanziari, bilanci,
rendiconti, piani territoriali, organizzazione dei pubblici servizi,
tributi, etc. (a queste funzioni lo statuto non può aggiungerne
altre, perché la competenza del consiglio è, appunto, limitata
dalla legge).
Per quanto riguarda la composizione, va detto che il numero dei
consiglieri, da eleggere a suffragio universale, varia da 12 (nei
comuni con meno di 3000 abitanti) a 60 (nei comuni con più di un
milione di abitanti); nelle province, invece, il numero dei
consiglieri oscilla tra i 25 e i 45 (sempre a seconda del numero di
abitanti).
Il sindaco e il presidente della provincia sono, invece, gli organi
responsabili dell’ amministrazione del comune e della provincia:
essi rappresentano l’ ente, convocano e presiedono la giunta ed
anche il consiglio (nei comuni con meno di 15000 abitanti, nei
quali non è previsto il presidente del consiglio) e sovrintendono al
funzionamento dei servizi e degli uffici e all’ esecuzione degli atti.
La giunta, infine, è l’ organo di governo che collabora con il
sindaco o con il presidente della provincia ed opera attraverso
deliberazioni collegiali; la sua competenza è stabilita in via
residuale, in quanto abbraccia tutti gli atti non riservati dalla
legge al consiglio, al sindaco (o al presidente) o agli organi di
53
decentramento.
La giunta è composta da un numero di componenti non superiore
ad un terzo dei membri del consiglio (e comunque non superiore
a 16); gli assessori sono nominati dal sindaco (o dal presidente
della provincia) e possono essere da lui revocati (la carica di
assessore è, ovviamente, incompatibile con quella di consigliere).
d) la dirigenza negli enti locali
Accanto agli organi di governo dell’ ente locale (ai quali sono
affidati i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo) ci
sono gli organi di gestione (i dirigenti), ai quali, invece, è affidata
la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica (questa si
esprime attraverso autonomi poteri di spesa, di organizzazione
delle risorse umane, strumentali e di controllo). I dirigenti, in
particolare, adottano gli atti e i provvedimenti amministrativi che
impegnano l’ amministrazione verso l’ esterno, sempre che
questi, ovviamente, non siano, dalla legge o dallo statuto,
ricompresi tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-
amministrativo degli organi di governo.
In ogni caso, è necessario sottolineare che la distinzione tra
organi di governo ed organi di gestione non è, in realtà, così netta
come potrebbe sembrare; le incertezze sono, innanzitutto, dovute
al fatto che le funzioni di indirizzo e controllo politico-
amministrativo vengono, nella prima parte del d.lgs. 267/00,
riservate al consiglio, mentre nell’ art. 107 (sempre del d.lgs.) tali
funzioni sono riferite al complesso degli organi di governo (come
se di esse fossero partecipi anche la giunta ed il sindaco o il
presidente della provincia). La confusione è ancora maggiore, poi,
se prendiamo in considerazione i rapporti che si instaurano tra gli
organo di governo esecutivi (giunta e sindaco o presidente) e gli
organi di gestione: non è facile, ad es., distinguere tra il potere di
54
sovrintendere al funzionamento dei servizi e degli uffici (che è
riservato al sindaco o al presidente) e il potere di dirigere gli uffici
e i servizi (riservato, invece, ai dirigenti); così come non è facile
distinguere tra il potere di sovrintendere all’ esecuzione degli atti
(che compete al sindaco) e il potere di gestire l’ ente, sul piano
finanziario, tecnico e amministrativo (compito riservato al
dirigente).
e) il sistema dei controlli
Nel sistema originario il collegamento tra amministrazione locale
e amministrazione dello Stato veniva essenzialmente assicurato
attraverso il sistema dei controlli: di legittimità e di merito
[controlli che, prima dell’ entrata in vigore della Costituzione,
erano esercitati dal prefetto (controllo di legittimità) e dalla giunta
provinciale amministrativa (controllo di merito)].
Viceversa, con la Costituzione (art. 130), il controllo di legittimità
è stato attribuito alle regioni (in particolare, al comitato regionale
di controllo: CO.RE.CO.); si tratta, in particolare, di un controllo cd.
preventivo, perché esso condiziona l’ efficacia della delibera dell’
ente locale (impedisce, cioè, che l’ atto controllato produca i suoi
effetti prima che intervenga il visto del comitato regionale). Il
controllo di merito, invece, è oggi previsto solo come un controllo
eventuale (e subordinato ad espressa previsione legislativa).
Tuttavia, è necessario sottolineare che, con la L. 142/90, i controlli
di legittimità sulle delibere degli organi collegiali degli enti locali
sono stati alleggeriti: essi, cioè, sono stati mantenuti come
controlli necessari su alcuni atti fondamentali, ma, per il resto,
sono stati trasformati in meri controlli eventuali. I controlli di
merito sono stati, invece, soppressi.
La L. cost. 3/01 è stata ancora più radicale: soppressi gli artt. 125,
co. 1 e 130 Cost. è, infatti, venuta meno la previsione
costituzionale dei controlli statali sulle regioni e di quelli regionali
sugli enti locali. A seguito di tali modifiche normative, nel nuovo
55
assetto vengono, pertanto, privilegiati i cd. controlli interni, ossia i
controlli che l’ ente esercita su stesso (o, più precisamente, il
controllo che un organo o un ufficio dell’ ente esercita su altri
organi o altri uffici dello stesso ente).
f) le forme associative
La popolazione dei comuni italiani varia da poche decine a milioni
di persone: si tratta di un fenomeno comune agli altri paesi, la
maggior parte dei quali ha cercato di risolvere il problema
fondendo i comuni minori. Nel nostro paese, però, tale processo
non ha potuto aver luogo, dal momento che ogni comunità (anche
la più piccola) è gelosa della propria identità e, quindi, rifiuta di
essere assimilata ad altre (cd. municipalismo). Ne consegue,
pertanto, che in Italia sussiste un’ enorme disparità tra comuni e
ciò ha reso difficile l’ attribuzione, in loro favore, di funzioni
amministrative, perché quelli medi e grandi sono in grado di
esercitarle efficacemente, mentre i comuni più piccoli difettano
delle risorse necessarie per svolgerle. Per ovviare a questo
problema si è pensato di far ricorso ad uno speciale correttivo
(risalente agli inizi della legislazione comunale), costituito dai
consorzi: questi sono stati creati dagli enti locali per la gestione
associata di uno o più servizi o per l’ esercizio associato di
funzioni (trasporto urbano, smaltimento rifiuti e, in passato,
macellazione, servizi veterinari, etc.); è bene precisare, però, che
il consorzio è un ente diverso da quelli che lo costituiscono o lo
finanziano.
La legislazione recente prevede, invece, forme associative che
non danno luogo alla costituzione di nuovi enti: si tratta delle
convenzioni, degli accordi di programma e dell’ esercizio
associato di funzioni e servizi. In dettaglio, la convenzione, che è
la forma associativa più elementare, presuppone l’iniziativa di
enti locali e si sostanzia in un accordo con cui vengono stabiliti i
fini, la durata, le modalità di consultazione degli enti contraenti, i
56
rapporti finanziari, gli obblighi e le garanzie. Accanto alle
convenzioni volontarie sono previste anche quelle obbligatorie,
alla cui stipulazione lo Stato o la regione possono subordinare
l’affidamento a tempo determinato di un servizio o l’ esecuzione
di un’ opera.
Per quanto riguarda, invece, l’ esercizio associato di funzioni e
servizi da parte dei comuni, va detto che esso è sempre promosso
dalla regione; quanto, infine, all’ accordo di programma è
necessario sottolineare che ad esso possono partecipare anche
soggetti pubblici diversi dagli enti locali interessati, in quanto l’
accordo viene concluso per la definizione e l’attuazione di opere,
interventi e programmi che richiedono la partecipazione
necessaria di più amministrazioni.
§4. L’ amministrazione regionale
a) le funzioni
La Costituzione del 1948, prevedendo l’ istituzione delle regioni,
ha creato un nuovo livello territoriale di amministrazione (che,
nelle intenzioni dei padri costituenti, avrebbe dovuto avere
dimensioni molto contenute).
In questa prospettiva, la nostra Carta fondamentale (art. 118,
testo originario), dopo aver enunciato il principio del parallelismo
tra funzioni amministrative e funzioni legislative (spettano alle
regioni le funzioni amministrative per le materie elencate nel
precedente articolo), introduce due rilevanti correttivi. Il primo
riguarda le funzioni di esclusivo interesse locale: queste, infatti,
anche se rientrano nelle materie di competenza regionale,
57
possono essere attribuite, dalle leggi della Repubblica, alle
province, ai comuni e agli altri enti locali (art. 118, co. 1).
Il secondo correttivo concerne, invece, le modalità di esercizio
delle competenze amministrative regionali: nell’ art. 118 (testo
originario) si legge, infatti, che la regione esercita normalmente le
sue funzioni amministrative delegandole alle province, ai comuni
e agli altri enti locali o valendosi dei loro uffici. In tal modo, il
costituente ha imposto alle regioni lo schema della cd.
amministrazione indiretta: con ciò si vuole intendere, più
precisamente, che le regioni sono titolari di funzioni
amministrative nelle materie in cui hanno potestà legislativa, ma
normalmente hanno l’ obbligo di esercitarle o mediante delega
agli enti locali o mediante avvalimento dei loro uffici (in realtà,
però, va qui specificato che le regioni hanno interpretato in modo
elastico questo criterio di normalità, trattenendo presso di sé
molte funzioni che avrebbero potuto essere delegate agli enti
locali).
Con la riforma del Titolo V della Costituzione le cose sono
cambiate, perché, come sappiamo, è stato eliminato ogni
riferimento al principio del parallelismo tra competenze legislative
regionali e competenze amministrative (il nuovo art. 118 Cost.
stabilisce, infatti, che le funzioni amministrative sono attribuite ai
comuni, salvo che per assicurarne l’ esercizio unitario, siano
conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla
base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed
adeguatezza).
Ciò che accomuna il vecchio ed il nuovo assetto è, come si può
notare, il favor per gli enti locali: favor che veniva espresso dal
testo originario dell’ art. 118 attraverso le due clausole (quella
dell’ attribuzione agli enti locali di funzioni che, seppur rientranti
nelle materie di competenza delle regioni, erano di esclusivo
interesse locale; e quella dell’ amministrazione regionale
indiretta); e, dal nuovo art. 118, mediante la previsione
58
generalizzata di competenza amministrativa comunale.
b) la forma di governo
L’ organizzazione regionale è modellata sull’ organizzazione degli
enti locali; in particolare, gli organi della regione sono: il consiglio
regionale, la giunta ed il suo presidente (art. 121, co. 1 Cost.).
La differenza di fondo, però, consiste nel fatto che il consiglio
regionale, a differenza di quello degli enti locali, è un organo
legislativo (non amministrativo), anche se, con una certa
forzatura, si potrebbe affermare che il consiglio regionale è
organo di indirizzo politico-amministrativo, sebbene tale funzione
venga esercitata con leggi, non con provvedimenti amministrativi.
La forma di governo regionale è rimessa allo statuto di ciascuna
regione (art. 123 Cost.), ma solo in piccola parte, perché (nelle
sue linee fondamentali) è stabilita direttamente dalla
Costituzione.
Il presidente della giunta regionale viene eletto a suffragio
universale e diretto (art. 122 Cost., nel testo di cui alla L. cost.
1/99); i candidati alla presidenza della giunta sono i capilista nelle
liste regionali, sicché viene eletto presidente il candidato che ha
conseguito il maggior numero di voti in ambito regionale. Il
presidente, una volta eletto, nomina e revoca i componenti della
giunta (la giunta regionale è l’ organo esecutivo ed il presidente
ne dirige la politica e ne è responsabile, nei confronti del consiglio
e del corpo elettorale che lo ha eletto).
Da quanto detto, si può notare, quindi, che la Costituzione,
estendendo alle regioni lo schema introdotto nell’
amministrazione locale dalla L. 81/93, delinea una forma di
governo presidenziale, in cui il capo dell’ esecutivo è eletto
direttamente dal popolo e sceglie lui i componenti della giunta
(concettualmente in contraddizione con la forma di governo
presidenziale è, però, l’ istituto della mozione di sfiducia nei
confronti del presidente della giunta, da votarsi su proposta di
59
almeno un quinto dei componenti del consiglio (questo istituto
trova, tuttavia, un particolare disincentivo: il voto di sfiducia
travolge, infatti, la giunta ed il consiglio che lo ha espresso).
§5. Gli enti pubblici
La terza grande articolazione dell’ amministrazione italiana è
costituita dagli enti pubblici, i quali sono stati istituiti a partire dai
primi anni del ‘900, allo scopo di assicurare il decentramento di
funzioni amministrative statali ad enti pubblici diversi da quelli
territoriali. Essi, in realtà, non sono altro che servizi della P.A. ai
quali viene conferita personalità giuridica: si comincia nel 1916
con l’ INA [Istituto Nazionale per le Assicurazioni] e si prosegue
nel 1917 con gli Enti autonomi di consumo, gli Istituti di ricerca e
di sperimentazione agraria e gli Istituti di patronato e di
assistenza sociale; il numero degli enti aumenta, poi, in modo
cospicuo durante il fascismo (si pensi, ad es., all’ Opera Nazionale
Combattenti, all’ Istituto nazionale fascista per la previdenza
sociale, alle associazioni sindacali fasciste e agli IACP).
In ogni caso, è importante sottolineare che gli enti pubblici sono
stati istituiti non solo per gestire funzioni e servizi di Stato, ma
anche per gestire funzioni e servizi non di Stato (funzioni e servizi
gestititi, cioè, fino a quel momento da soggetti privati e poi
attratti nella sfera pubblica per la loro rilevanza o, più
semplicemente, per la pressione di gruppi sociali interessati ad
una statizzazione, sia pure nella forma dell’ ente pubblico: è in
questo modo che si spiega il passaggio alla sfera pubblica di
funzioni e servizi come quelli relativi alla previdenza, all’
assistenza e alla sanità).
L’ ente pubblico si distingue dall’ ente locale (territoriale),
innanzitutto, perché è monofunzionale: esso cura, cioè, un solo
interesse pubblico (l’ INPS, ad es., si occupa della sicurezza
sociale dei lavoratori subordinati del settore privato; gli IACP
hanno come clienti le famiglie meno abbienti prive di alloggio,
60
etc.).
In secondo luogo, è bene ricordare che l’ ente pubblico (a
differenza dell’ ente locale, che presenta una struttura
associativa) ha, di solito, una struttura del tipo fondazione: ha,
infatti, un consiglio di amministrazione e un presidente, i quali
sono chiamati a gestire un patrimonio nell’ interesse di terzi
(manca, come si può notare, l’ assemblea e, cioè, l’ equivalente
del consiglio comunale o provinciale).
In funzione di controllo, terzo organo dell’ ente pubblico è, infine,
il collegio dei revisori, del quale fa parte, di regola, un
rappresentante del ministero vigilante (tale organo controlla l’
amministrazione, verifica l’ osservanza delle leggi e la
corrispondenza del bilancio alle risultanze delle scritture
contabili).
a) l’ ente pubblico e la responsabilità ministeriale
L’ ente pubblico pone un grave problema costituzionale in
relazione alla responsabilità ministeriale: infatti, dal momento che
gli atti vengono imputati all’ ente pubblico, in quanto munito di
personalità giuridica, e non al ministro, ci si domanda come
quest’ ultimo possa risponderne davanti al Parlamento, ex art. 95
Cost.
La legge ha risolto il problema istituendo un controllo
parlamentare sulle nomine negli enti pubblici (L. 14/78); in realtà,
occorre specificare che non si tratta di un vero e proprio controllo,
quanto piuttosto di un parere preventivo che deve essere
richiesto alle commissioni parlamentari delle due Camere,
competenti per materia, quando la nomina riguarda il presidente
o il vice-presidente di un ente pubblico nazionale (per gli
amministratori diversi dal presidente o dal vice-presidente è
prevista, invece, una semplice comunicazione alle Camere).
Il presidente ed il vice-presidente sono, poi, nominati con decreto
del presidente della Repubblica, emanato su proposta del
61
Presidente del Consiglio, previa deliberazione del Consiglio dei
ministri adottata su proposta del ministro competente (l’
amministratore pubblico, in ogni caso, non può essere confermato
nella carica più di due volte).
Sull’ operato degli amministratori degli enti pubblici nazionali è
previsto il controllo del ministro vigilante (e del Ministro dell’
Economia) sul bilancio, sul conto consuntivo, sulle delibere che
adottano il regolamento organico, su quelle che definiscono la
consistenza organica e il numero degli addetti; entro 90 gg. i
ministri vigilanti approvano le delibere o le restituiscono per un
riesame (in questo caso, se i rilievi attengono a vizi di legittimità o
alla consistenza degli organici, le delibere non acquistano
efficacia; diversamente diventano esecutive se confermate con
un nuovo atto).
Il raccordo con il Parlamento, comunque, dovrebbe essere
assicurato dalla relazione annua (entro il 31 luglio), che ciascun
ministro è tenuto a trasmettere al Parlamento sull’ attività svolta
(in tal modo, il ministro finisce per rispondere dell’ attività dell’
ente pubblico davanti al Parlamento).
La Costituzione ha, poi, introdotto un ulteriore elemento di
controllo sull’ operato dell’ ente pubblico: ai sensi, infatti, dell’ art.
100 Cost., la Corte dei Conti (in raccordo con il collegio sindacale
dell’ ente pubblico) partecipa al controllo sulla gestione
finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria e
riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro
eseguito. In attuazione del precetto costituzionale (art. 100), l’
art. 3, L. 20/94 attribuisce alla Corte dei Conti il controllo
successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio degli enti
pubblici, allo scopo di verificare la regolarità della relativa
gestione.
b) l’ ascesa e il declino degli enti pubblici
Il sistema degli enti pubblici è prosperato in Italia sino agli anni
62
’70 (periodo nel quale esso ha raggiunto il massimo sviluppo); a
partire da quel momento sono intervenuti due fattori che ne
hanno determinato un drastico ridimensionamento.
Il primo ridimensionamento si è avuto nel 1972 con l’ entrata in
funzione delle regioni a statuto ordinario: molti enti pubblici
esistenti in quel periodo operavano, infatti, in molti settori che l’
art. 117 Cost. (testo originario) ha successivamente riservato alla
potestà legislativa regionale (beneficienza, assistenza, istruzione
professionale, turismo e agricoltura: settori nei quali le regioni
disponevano anche di potestà amministrativa ed organizzativa, ex
art. 118 Cost., testo originario); in conseguenza di ciò, pertanto,
molti enti pubblici sono stati soppressi.
Il secondo ridimensionamento si è avuto, invece, in seguito ad
una riconsiderazione dell’ interesse pubblico che, a suo tempo,
aveva giustificato l’ istituzione dell’ ente pubblico; invero, molti
enti pubblici sono stati istituiti nel tempo per prestare assistenza
a determinate categorie di persone (si pensi, ad es., all’ ENAOLI,
ente nazionale di assistenza orfani lavoratori italiani, all’ ONIG,
opera nazionali invalidi di guerra, ovvero all’ opera nazionale
combattenti); a metà degli anni ’70 ci si domanda se questi enti
necessitino assolutamente di una personalità giuridica di diritto
pubblico (se questa, infatti, era stata attribuita allo scopo di
dotare l’ ente di beni conferiti dallo Stato o di riscuotere contributi
degli associati, era, in realtà, sufficiente mantenere in vita questi
due privilegi, trasformando, però, l’ ente in persona giuridica di
diritto privato). In questa prospettiva, sono stati trasformati in
persone giuridiche di diritto privato gli enti di previdenza e
assistenza che non svolgono funzioni di rilevante interesse
pubblico (e la stessa operazione è stata fatta per gli enti pubblici
operanti in settori diversi dalla previdenza e assistenza).
Un ruolo importante, nella trasformazione degli enti pubblici in
soggetti privati, lo ha svolto, poi, anche la Corte costituzionale:
questa, infatti, con sent. 396/88, ha dichiarato l’ illegittimità
63
costituzionale dell’ art. 1 L. 6972/1890 (cd. legge Crispi), nella
parte in cui qualifica come istituzioni pubbliche di assistenza e
beneficienza le opere pie. La Consulta ha sottolineato, in
particolare, che una generalizzata pubblicità contrasta con l’ art.
38, ult. co. Cost., secondo il quale l’ assistenza privata è libera;
pertanto, se il privato è libero di prestare assistenza, deve essere
libero di farlo anche a mezzo di organizzazioni impersonali
(associazioni, fondazioni, etc.); in ragione di tale pronuncia,
quindi, sono venuti meno migliaia di enti pubblici.
È necessario sottolineare, infine, che l’ ultima tappa del percorso
di ridimensionamento degli enti pubblici è oggi costituita dal
massiccio programma di trasformazione e soppressione degli
stessi, enunciato dalla legge finanziaria (L. 448/01) e proseguito
con il d.l. 78/10 (da tale programma sono, però, esclusi gli enti
pubblici che gestiscono la previdenza sociale a livello di primario
interesse nazionale e quelli che sono essenziali per esigenze della
difesa o della sicurezza pubblica.)
§6. Le amministrazioni autonome e le agenzie
La fuga dallo Stato ha avuto la sua massima espressione negli
enti pubblici (che, inizialmente, erano pezzi di apparati
ministeriali, poi resi autonomi e costituiti in persone giuridiche
pubbliche), ma si è espressa anche nelle Aziende (o
Amministrazioni autonome), create sia a livello statale che locale:
si pensi, ad es., all’ Azienda delle Ferrovie dello Stato, all’ Azienda
di Stato per i Servizi telefonici, all’ Azienda delle Poste italiane, all’
Azienda autonoma dei Monopoli di Stato, le quali sono sorte sul
ceppo di un ministero, dal quale, poi, sono state rese autonome in
quanto amministrate da un proprio consiglio di amministrazione;
al ministero, però, sono rimaste legate, perché a capo del
consiglio di amministrazione vi era istituzionalmente il ministro.
Dal punto di vista giuridico, le Aziende continuano ad essere un
organo del rispettivo ministero, ma godono di una legittimazione
64
separata, in forza della quale esse stanno in giudizio come
Aziende, hanno un proprio patrimonio e svolgono un’ attività,
nelle forme del diritto privato, dalla quale ricavano le risorse
necessarie alla loro sopravvivenza (ad es., vendita di biglietti
ferroviari, dei francobolli e delle sigarette); il personale di queste
Aziende, inoltre, è distinto da quello statale, è regolato dalla
contrattazione collettiva ed ha proprie organizzazioni sindacali.
Lo stesso schema lo ritroviamo anche a livello locale con le cd.
aziende municipalizzate, istituite da comuni e province per la
gestione di uno o più servizi pubblici locali (ad es., trasporti
urbani, smaltimento rifiuti, distribuzione dell’ acqua e del gas,
etc.): anche qui si tratta di organi del comune, dotati, però, di
legittimazione separata.
È necessario sottolineare, tuttavia, che il modello organizzativo
appena analizzato è andato in crisi negli anni ’80; periodo nel
quale alcune Aziende (in particolare, Ferrovie e Poste) sono state
trasformate prima in enti pubblici economici e poi in s.p.a. in
mano pubblica; mentre le aziende municipalizzate sono state
trasformate prima in aziende speciali e poi in s.p.a.
Va anche detto, però, che lo schema organizzativo in precedenza
delineato non è stato del tutto accantonato: basti pensare, invero,
che la legge delega (L. 59/97) sulla riorganizzazione dei ministeri
ha conferito al Governo il compito di istituire apposite Agenzie
(con a capo un direttore generale); in particolare, l’ Agenzia è una
struttura che svolge un’ attività a carattere tecnico-operativo di
interesse nazionale ed è sottoposta ai poteri di indirizzo e di
vigilanza del ministro competente.
Il d.lgs. 300/99 ha previsto, in particolare, l’ istituzione di 11
agenzie, tra le quali ricordiamo: l’ agenzia industrie difesa, l’
agenzia per le normative e i controlli tecnici, l’ agenzia per la
proprietà industriale e l’ agenzia per la protezione dell’ ambiente
e per i servizi tecnici.
65
§7. Gli enti pubblici economici
Nel 1912, con L. n. 305, veniva istituito l’ INA (Istituto Nazionale
per le Assicurazioni), avente lo scopo di gestire le assicurazioni-
vita mediante la vendita di polizze (garantite dallo Stato), il cui
gettito sarebbe stato destinato a scopi di interesse pubblico (in
particolare: al finanziamento delle infrastrutture industriali); il
nuovo ente era caratterizzato da strutture snelle, presenza di
poche regole interne, utilizzo di tecnici e rapporti con il personale
di tipo privatistico.
Con l’ istituzione dell’ INA veniva, in questo modo, creato un
prototipo che sarebbe stato replicato con grande successo
durante il fascismo (a partire dagli anni ’30) e poi nell’ età
repubblicana (a partire dagli anni ’50): l’ ente pubblico
economico, ossia l’ ente pubblico che ha per oggetto esclusivo un’
attività economica. Ciò che caratterizza questo ente è, più
precisamente, la sussistenza di un singolare connubio di attività
economica (di un’ attività, cioè, priva del tratto autoritativo che
contraddistingue gli enti pubblici) e di finalità pubblicistiche:
sicché il fine pubblico dell’ ente viene perseguito attraverso un’
attività imprenditoriale, costituita essenzialmente da contratti,
anziché da provvedimenti amministrativi (dal normale
imprenditore, però, l’ ente pubblico economico si distingue perché
non persegue fini di lucro o, più correttamente, persegue un lucro
da devolvere a fini pubblici).
L’ altra caratteristica degli enti pubblici economici è il fatto che
essi non sono muniti di poteri amministrativi; la questione, per
lungo tempo, si è posta, in particolare, in sede di delimitazione
della giurisdizione sull’ impiego presso enti pubblici economici. Il
legislatore fascista del 1938, infatti, sottraendo gli impiegati in
questione al divieto di inquadramento sindacale (stabilito per tutti
gli impiegati pubblici), li sottopose alle norme del libro del lavoro
del codice civile; e qualche anno dopo, il codice di rito attribuì la
competenza giurisdizionale sulle controversie con gli enti datori di
66
lavoro al giudice ordinario.
Con la caduta del regime fascista e, quindi, dell’ inquadramento
sindacale dei lavoratori presso gli enti pubblici economici, nacque,
però, un contrasto tra Consiglio di Stato e Corte di Cassazione: il
primo, infatti, sosteneva che, con la caduta dell’ inquadramento
sindacale (proprio del corporativismo fascista) fosse venuta meno
la giurisdizione del giudice ordinario e che il relativo contenzioso
fosse attratto nella giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo; la Cassazione, invece, riteneva che la
giurisdizione del giudice ordinario non dipendeva dall’
inquadramento sindacale degli enti economici, ma dal carattere
imprenditoriale della loro attività.
Quest’ ultima tesi, che si rivelò vincente, consentì di mettere a
fuoco anche l’ altro aspetto fondamentale dell’ ente pubblico
economico e cioè che gli atti organizzativi (ad es., i regolamenti
organici, gli atti di approvazione delle piante organiche, la
determinazione dei criteri per le promozioni) e gli atti di gestione
del rapporto di lavoro non erano provvedimenti amministrativi
(tali atti, infatti, ad avviso del Supremo Collegio, dovevano essere
assimilati ai regolamenti di impresa delle imprese private).
La disputa si è chiusa, sul piano legislativo, con la L. 533/73, che
ha attribuito al giudice ordinario la giurisdizione sulle controversie
di lavoro degli enti pubblici economici.
Detto ciò, appare utile sottolineare che della figura in esame sono
state proposte varie classificazioni; in particolare, dal punto di
vista dei fini, gli enti pubblici economici si distinguono in:
• enti di disciplina di settore, che sono chiamati a reggere e
regolare un certo settore economico (Banca d’ Italia, IRI, ENI,
EFIM);
• enti imprenditoriali, che svolgono un’ attività economica di
produzione di beni e servizi (Banco di Napoli, Banco di Sicilia,
Monte dei Paschi di Siena, ENEL).
In base al criterio degli schemi organizzativi, invece, un posto a sé
67
hanno occupato gli enti di gestione delle partecipazioni statali:
IRI, ENI, EFIM, GEPI.
a) la crisi del sistema degli enti pubblici economici
Il sistema degli enti pubblici economici, negli anni ’80, è entrato in
collisione con il diritto europeo; non a caso, i fondi di dotazione
con i quali il Parlamento italiano aveva costantemente alimentato
gli enti di gestione delle partecipazioni statali sono incappati nel
divieto di aiuti di Stato, sancito dall’ art. 92 (oggi 87) del Trattato
CE, ossia nel divieto per gli Stati membri di attribuire risorse che,
favorendo talune imprese, potessero falsare la concorrenza. Basti
osservare, invero, che i soldi che il contribuente italiano versava,
ad es., a favore dell’ IRI o dell’ ENI (sottoforma di capitale di
rischio) conferivano alle società partecipate un vantaggio
competitivo rispetto alle altre imprese che operavano negli stessi
settori, ma che non fruivano di finanziamento pubblico.
Per risolvere questo problema, pertanto, è stato necessario
procedere alla liberalizzazione di determinati settori, allo scopo di
concedere alle imprese non finanziate dallo Stato di accedere ai
relativi mercati, con un consequenziale ridimensionamento dell’
ente pubblico monopolista. Un’ operazione del genere è stata
realizzata in Italia, in primis, attraverso la trasformazione degli
enti pubblici economici in s.p.a. (cd. privatizzazione formale) e,
successivamente, con la vendita, da parte dell’ azionista pubblico
(lo Stato e, in particolare, il Ministero del Tesoro) del capitale della
società interessata ai privati (cd. privatizzazione sostanziale).
Si è cominciato con il settore del credito e la trasformazione degli
istituti di credito di diritto pubblico in s.p.a. (1990) e si è
continuato con gli enti di gestione delle partecipazioni statali
(1992), con l’ ENEL, l’ IMI e l’ INA (1993-1995), con le Ferrovie
(1995) e con l’ Ente Italiano Tabacchi (1998).
b) le società in mano pubblica (o a partecipazione statale)
68
A partire dagli anni ’20 del XX secolo, lo Stato, allo scopo di
assicurare lo svolgimento di attività economiche ritenute di
particolare rilievo, cominciò a costituire s.p.a. o ad acquisire quote
di società esistenti: si pensi, ad es., all’ Azienda generale italiana
petroli (AGIP, 1926), all’ Azienda nazionale idrogenerazione
combustibili (ANIC, 1936), alla Ricerche minerali ferrosi s.p.a.
(1939).
Il primo massiccio intervento dello Stato in questa direzione
avvenne negli anni ’30, per far fronte alla crisi economica
mondiale del 1929; tale crisi, infatti, mise in enorme difficoltà il
sistema bancario, perché le banche detenevano cospicui
pacchetti azionari delle società che gestivano imprese
manifatturiere e che erano affette da una crisi di
sovraproduzione; il dissesto di queste ultime coinvolse
inevitabilmente il sistema bancario (che veniva, così, esposto al
rischio di non recuperare i crediti erogati alle imprese). Furono,
pertanto, creati due enti pubblici, l’ Istituto Mobiliare Milano (IMI,
1931) e l’ Istituto per la ricostruzione industriale (IRI, 1933); l’ IRI,
in particolare, acquistò le azioni detenute dalle banche e
procedette al ripianamento graduale dei passivi delle società (di
cui era diventato azionista) ovvero alla loro liquidazione o fusione.
Da sottolineare, però, che l’ operazione aveva (o avrebbe dovuto
avere) carattere transitorio; e, invece, nel 1937 l’ IRI fu
trasformato in ente stabile con un proprio fondo di dotazione (l’
Istituto assunse, più precisamente, la forma di una società
finanziaria, cioè di un ente di gestione, con un potere di direzione
e di controllo su una gran quantità di imprese private, diventando,
in tal modo, una delle maggiori potenze industriali del Paese).
Ora, per ciascun gruppo di attività produttiva, l’ IRI costituì
altrettante società finanziarie: telecomunicazioni (STET),
siderurgia (Finsider), meccanica (Finmeccanica), elettricità
(Finelettrica), cantieristica (Fincantieri), trasporto aereo (Alitalia),
trasporto marittimo (Finmare), radio-televisione (Rai), etc.: si
69
trattava, in altri termini, di una struttura che aveva la forma dell’
ente pubblico, ma la sostanza di una società finanziaria (cioè, di
una società che non svolge direttamente attività produttiva, ma
detiene il capitale di imprese produttive).
A questo modello fu ispirata la creazione, nel 1953, dell’ ENI (Ente
Nazionale Idrocarburi), sotto il quale furono raggruppate le
società a partecipazione pubblica operanti nel settore degli
idrocarburi (AGIP, SNAM e ROMSA).
In questa prospettiva, nel 1956 venne istituito il Ministero delle
Partecipazioni statali e venne consacrato il principio che l’
azionariato di Stato non sarebbe stato più tale, perché (almeno
formalmente) tutte le azioni detenute dallo Stato venivano
trasferite agli enti di gestione (delle partecipazioni statali). La
catena di comando, però, in questo modo, si allungava, dal
momento che il Ministro delle Partecipazioni statali emanava
direttive nei confronti degli enti di gestione, i quali, a loro volta,
indirizzavano l’ azione delle società finanziarie a loro collegate;
queste ultime, a loro volta, compivano le scelte fondamentali
delle società operative del gruppo.
Se a tutto questo si aggiunge che le imprese a partecipazione
statale erano sottoposte ad una serie di vincoli politici (ad es., l’
obbligo di destinare una quota non inferiore al 40% degli
investimenti al Mezzogiorno), che erano tenute ad operare con
criteri di economicità da valutare, però, in relazione all’ intero
gruppo di società controllate (il che presupponeva che singole
società del gruppo potessero operare in perdita), che la
ricapitalizzazione delle società partecipate veniva addossata al
contribuente e che a molte di queste società venivano conferiti
monopoli legali (ad es., le società autostrade del gruppo IRI), si
capisce perché il sistema delle partecipazioni statali è andato alla
deriva. Non solo, il sistema ha messo in evidenza, negli anni,
molte deficienze, la principale delle quali è stata l’ eccessiva
influenza dei partiti sulle imprese. Trattandosi, infatti, di imprese a
70
partecipazione statale, i loro dirigenti venivano nominati dal
Governo e, dato il sistema politico esistente in Italia, essi finivano
per essere designati dai partiti di governo, sulla base di criteri di
fedeltà più che di competenza. Accadeva, così, che i massimi
managers dell’ IRI, dell’ ENI e delle società da loro controllate
tendessero a rispondere del loro operato ai partiti che li avevano
scelti e fossero indotti a prendere iniziative poco vantaggiose per
le loro aziende.
L’ impopolarità crescente del sistema ha trovato, poi, conferma
nel referendum popolare del 1993, che ha portato alla
soppressione del Ministero delle Partecipazioni statali; negli stessi
anni, la trasformazione degli enti di gestione in s.p.a. ha posto,
infine, le premesse per uno smantellamento del sistema e per la
privatizzazione sostanziale.
È necessario sottolineare comunque che l’ azionariato pubblico ha
avuto manifestazioni anche a livello regionale e soprattutto a
livello locale; non a caso, mentre il fenomeno veniva
ridimensionato a livello statale, nella legge di riforma delle
autonomie locali (L. 142/90) la costituzione di società a
prevalente partecipazione pubblica locale (da parte di comuni e
province) veniva indicata come uno degli strumenti ammessi per
la gestione di servizi pubblici locali (accanto all’ azienda speciale
e alla concessione); il d.lgs. 267/00 e la successiva L. 448/01
hanno, poi, accentuato il favor per questo strumento, prevedendo
la possibilità di trasformare le aziende speciali in società di
capitali.
In questa prospettiva, possiamo, quindi, affermare che, a livello
statale, oggi il quadro dell’ azionariato pubblico abbraccia
essenzialmente s.p.a. a partecipazione pubblica a livello
nazionale, nate dalla trasformazione degli enti di gestione, dei
grandi enti pubblici economici nazionali (l’ INA, le Poste e le
Ferrovie) e dell’ ente nazionalizzato (l’ ENEL): azionista unico o
prevalente è il Ministro dell’ Economia e delle Finanze. A livello
71
locale, invece, sono numerose le società di capitali con scopi di
gestione dei servizi pubblici locali, partecipate dagli enti locali.
Per quanto riguarda, invece, la natura giuridica delle società in
mano pubblica, è bene specificare che l’ azionariato di Stato è
stato sempre considerato come uno degli strumenti del diritto
privato per la cura di interessi pubblici; tale conclusione è stata
fondata anche sul fatto che il codice civile, avendo dedicando al
fenomeno in esame solo tre norme (art. 2458-2460) avrebbe, con
ciò, inteso assoggettare le società in mano pubblica alla
medesima disciplina applicabile alle società in mano privata (in
tal senso Galgano).
Questa conclusione, tuttavia, non è stata accolta dalla
giurisprudenza amministrativa: ed infatti, il Consiglio di Stato,
nelle pronunce del 1998, del 2001 e del 2002, concernenti ENEL
S.p.a. e Poste italiane S.p.a., ha tenuto a precisare che queste
società conservano natura pubblicistica sia perché continuano ad
essere affidatari di rilevanti interessi pubblici, sia perché l’ unico
azionista (o l’ azionista di maggioranza), il Ministro dell’ Economia
e delle Finanze, è tenuto ad indirizzare le attività sociali a fini di
interesse pubblico.
§8. Le autorità amministrative indipendenti
A partire dagli anni ’90 si profila un nuovo schema di
organizzazione amministrativa: l’ autorità amministrativa
indipendente (o autorità di regolazione). Si tratta, in particolare,
di un’ autorità rivolta a garantire il funzionamento delle regole del
mercato (il mercato in generale ovvero specifici mercati, che
vengono aperti alla concorrenza dopo essere stati, per decenni,
strutturati in termini di monopolio pubblico).
Queste autorità sono poste al di fuori dell’ organizzazione dei
ministeri e non sono formate da funzionari dello Stato, ma da
esperti qualificati (in tal modo, si è voluto affidare il controllo in
determinati settori ad organi che diano garanzie di indipendenza
72
e di imparzialità sia rispetto ai vari interessi privati in gioco, sia
nei confronti dello stesso potere politico).
Tra le più importanti autorità amministrative indipendenti
ricordiamo, anzitutto, l’ AGCM (Autorità garante della concorrenza
e del mercato: L. 287/90). Essa ha il compito di vigilare sull’
osservanza, da parte delle imprese, del divieto di intese restrittive
della concorrenza, quali, ad es., la fissazione dei prezzi di acquisto
o di vendita, la ripartizione dei mercati e l’ abuso di posizioni
dominanti (a tal fine, l’ Autorità dispone di poteri di indagine, di
diffida e di poteri sanzionatori). L’ AGCM si compone di quattro
membri (nominati dai presidenti di Senato e Camera), che durano
in carica sette anni.
Lo schema appena delineato lo ritroviamo, grosso modo, per le
altre autorità poste a presidio dei singoli mercati: la CONSOB, l’
ISVAP e la Banca d’ Italia.
In particolare, alla CONSOB (Commissione nazionale per le società
e la borsa, istituita nel 1947, ma successivamente trasformata, e i
cui membri sono nominati dal Governo) è affidata la tutela degli
investitori, l’ efficienza e la trasparenza del mercato del controllo
societario e del mercato dei capitali: un mercato efficiente dei
prodotti finanziari richiede, infatti, che gli investitori siano
motivati dalla stabilità delle quotazioni e dalla produzione di utili;
e tale risultato può essere conseguito solo se agli strumenti di
controllo interno al diritto societario (azioni di responsabilità e
poteri amministrativi dei soci) vengono affiancati strumenti di
controllo esterno.
Per quanto riguarda l’ ISVAP (Istituto per la vigilanza sulle
assicurazioni private, istituito nel 1982 e il cui presidente è
nominato dal Governo), va detto che anch’ esso opera a tutela dei
risparmiatori (più precisamente, a tutela di coloro che affidano i
loro risparmi a imprese assicurative): gli interessi individuali e
collettivi che sono coinvolti nel mercato delle assicurazioni
giustificano, infatti, un controllo pubblico sia sul contratto, perché
73
sia temperato lo squilibrio del potere negoziale delle parti, sia
sull’ impresa di assicurazione, perché ne siano garantite la
stabilità e la solvibilità (necessarie per il soddisfacimento degli
impegni assunti verso gli assicurati).
Il prototipo delle autorità indipendenti è, però, la Banca d’ Italia:
nata nel 1893 dalla fusione della Banca Nazionale del Regno,
della Banca Nazionale Toscana e della Banca Toscana di credito, la
Banca d’ Italia ricevette nel 1926 il potere di battere moneta in
via esclusiva; con la riforma del 1936 fu trasformata da s.p.a. in
ente di diritto pubblico con capitale le cui quote potevano
appartenere soltanto a casse di risparmio, istituti di credito e di
diritto pubblico; questo assetto pubblicistico fu completato con l’
istituzione del Comitato dei ministri, presieduto dal Capo del
Governo, e dell’ Ispettorato per la difesa del risparmio e per l’
esercizio del credito, organo del Ministero delle Finanze (il
raccordo tra le tre strutture era, poi, assicurato dal Governatore
della Banca d’ Italia, il quale presiedeva la Banca e faceva parte
sia del Comitato dei ministri che dell’ Ispettorato). Soppresso nel
1944 l’ Ispettorato (le sue funzioni furono trasferite alla Banca) e
modificata la composizione del Comitato dei ministri (ne divenne
presidente il Ministro del Tesoro), il sistema bancario è stato retto,
fino alla riforma del 1993, da una diarchia (Comitato dei ministri e
Banca d’ Italia).
Nel tempo la Banca d’ Italia ha esercitato essenzialmente due
funzioni: la funzione monetaria e la funzione di vigilanza sulle
banche e sugli intermediari finanziari in genere. Più precisamente,
la prima funzione include il potere di emettere carta moneta, di
stabilire il tasso ufficiale di sconto e di disciplinare il sistema dei
pagamenti [va detto, però, che con il Trattato di Maastricht del
1992 tali funzioni sono state trasferite alla BCE (Banca Centrale
Europea)].
La seconda funzione della Banca d’ Italia è, come detto, quella di
vigilare sulle banche e sugli altri operatori finanziari, sotto la
74
direzione del Comitato interministeriale per il credito ed il
risparmio (CICR), di cui fa parte lo stesso Governatore: la
vigilanza, più precisamente, è rivolta a garantire la concorrenza
tra le imprese bancarie.
Vi sono, poi, due autorità indipendenti preposte a settori
monopolistici: si tratta, in particolare, dell’ Autorità per l’ energia
elettrica ed il gas e dell’ Autorità per le comunicazioni. La prima,
creata nel 1995, ha la funzione di promuovere la concorrenza e l’
efficienza nei due settori energetici (elettricità e gas).
La seconda, istituita nel 1997, promuove, invece, la concorrenza e
l’ efficienza nei servizi delle telecomunicazioni.
Un posto a sé, nel panorama delle autorità indipendenti, occupa,
infine, il Garante per la protezione dei dati personali (1996), che si
compone di quattro membri, eletti per metà dal Senato e per
metà dalla Camera e che durano in carico quattro anni: il compito
di tale autorità è quello di verificare che il trattamento dei dati
personali si svolga nel rispetto dei diritti, delle libertà
fondamentali, della dignità delle persone fisiche, con particolare
riguardo alla riservatezza e all’ identità personale.
§9. Gli strumenti di raccordo tra le amministrazioni
L’ organizzazione amministrativa, a causa della sua complessità,
esige degli strumenti di raccordo (tra enti diversi, tra organi di
uno stesso ente, tra organi e meri uffici di uno stesso ente, tra
organi di un ente e organi di un altro ente). Tali strumenti sono: il
procedimento, gli accordi, la gerarchia, la direzione, la
sostituzione ed i controlli.
a) il procedimento
Il primo tra gli strumenti di raccordo è il procedimento, il quale
rappresenta, per un verso, il luogo in cui i portatori di interessi
pubblici diversi fanno sentire la loro voce ed esprimono le loro
istanze in relazione ad un progetto; per altro verso, esso
75
rappresenta la sequenza nella quale i singoli interventi sono
ordinati sulla base di relazioni predefinite (così, ad es., la
legislazione urbanistica prevede che la giunta comunale
conferisca l’ incarico della relazione del piano regolatore generale;
che il consiglio comunale adotti il piano predisposto dal gruppo di
progettazione e prenda posizione sulle osservazioni dei privati; e
che la regione adotti il piano, previo parere di un organo di
consulenza). Come si può notare, la molteplicità di queste
relazioni può rendere vulnerabile il provvedimento conclusivo (che
può risultare, ad es., illegittimo), ma soprattutto allunga i tempi
per la conclusione del procedimento. Per rimediare a questi
inconvenienti la legge sul procedimento amministrativo (L.
241/90) ha introdotto alcuni correttivi: innanzitutto, la legge
stabilisce un termine per l’ esercizio della funzione consultiva (45
gg.); pertanto, una volta che sia decorso infruttuosamente tale
termine, l’ amministrazione che ha chiesto il parere può
procedere come se lo avesse acquisito.
In secondo luogo, è prevista la possibilità di indire una conferenza
di servizi qualora si debbano valutare contestualmente vari
interessi pubblici o quando sia in gioco la programmazione di
opere pubbliche che richieda l’ intervento di più amministrazioni
(nella conferenza di servizi gli atti, invece di essere emessi in
sequenza, sono presi in sede collegiale).
Infine, è previsto (per le autorizzazioni, le licenze, i nulla osta ed
altri atti del genere), che, decorso un certo termine, essi si
considerano rilasciati: il silenzio dell’ amministrazione (che
dovrebbe provvedere) viene, così, equiparato ad un atto di
assenso. Tale meccanismo comporta una precoce conclusione del
procedimento [questo, tuttavia, resta aperto nei casi in cui l’
attività privata sia subordinata ad un provvedimento espresso (ad
es. licenza) che tarda a venire].
b) gli accordi
76
Per affrontare problemi comuni le amministrazioni hanno sempre
fatto ricorso ad accordi; questi vengono, il più delle volte, conclusi
allo scopo di vincolare l’ esercizio delle rispettive competenze, di
predeterminare i tempi entro i quali le stesse devono essere
esercitate, di quantificare i rispettivi impegni finanziari e di
stabilire le conseguenze degli eventuali inadempimenti. In questo
modo, i piccoli comuni hanno realizzato servizi che da soli non
sarebbero stati in grado di rendere (si pensi, ad es., al servizio
veterinario o al servizio di trasporto urbano); allo stesso modo, gli
ospedali pubblici e le cliniche universitarie hanno razionalizzato il
complesso delle prestazioni sanitarie (ad es., fornendo, i primi, le
strutture ed il personale paramedico; le seconde, il personale
medico).
È bene precisare, però, che il problema del coordinamento dell’
azione amministrativa è particolarmente complesso quando le
attribuzioni sono, per un verso, costituzionalmente garantite
(Stato, regioni, province autonome e, indirettamente, enti locali),
ma, per altro verso, tendono a sovrapporsi (e ciò accade ogni
volta che tali attribuzioni sono distinte non in base ad un criterio
materiale, ma spaziale): si pensi, ad es., alla materia ambientale,
in cui tutti gli enti territoriali, dallo Stato al comune, sono
competenti.
In questa prospettiva, la legislazione ha dovuto affrontare il
problema dell’ asimmetria del rapporto tra un unico Stato, 20
regioni e più di 8000 enti locali. Tale problema è stato risolto con il
d.lgs. 281/97, con il quale è stata istituita la cd. Conferenza Stato-
regioni: e ciò al fine di garantire la partecipazione delle regioni e
delle province autonome di Trento e di Bolzano a tutti i processi
decisionali di interesse regionale, interregionale ed infraregionale.
La Conferenza deve essere sentita in tutti i casi in cui la
legislazione preveda un’ intesa tra Stato e regioni; qualora, però,
l’ intesa non venga raggiunta, il Consiglio dei ministri può
provvedere, in via autonoma, con deliberazione motivata (da ciò
77
si intuisce che l’ intesa si configura come un parere obbligatorio,
ma non vincolante).
Diverso dall’ intesa è, invece, l’ accordo, il quale presuppone la
convergenza del Governo e di tutte le regioni e province
autonome su un unico testo (esso viene perfezionato al fine di
coordinare l’ esercizio delle rispettive competenze e svolgere
attività di interesse comune).
Infine, le relazioni tra lo Stato e gli enti locali sono intrattenute
nell’ ambito della Conferenza Stato-città ed autonomie locali: la
conferenza è presieduta dal Presidente del Consiglio dei ministri e
vi partecipano, da un lato, alcuni ministri (economia,
infrastrutture, sanità) e, dall’ altro, i presidenti dell’ ANCI
(Associazione nazionale comuni italiani), dell’ UPI (Unione delle
province d’ Italia) e dell’ UNCEM (Unione nazionale comuni,
comunità ed enti montani), 14 sindaci designati dall’ ANCI e 6
presidenti di provincia designati dall’ UPI.
c) la gerarchia
La gerarchia è una relazione che accomuna organizzazioni
pubbliche e organizzazioni private: essa designa il diritto di chi
riveste una qualifica superiore di comandare colui il quale, nell’
ambito dello stesso ufficio o di un ufficio diverso (ma collegato),
riveste una qualifica inferiore (cd. gerarchia di persone). Si parla,
però, anche di gerarchia di uffici (o di organi): in questo senso, ad
es., il Ministro dell’ Interno è sovraordinato alla prefettura.
La gerarchia è una relazione interna all’ ente (o all’ apparato
ministeriale); essa, pur presupponendo una distinzione di
competenze (tra organi) o di compiti (tra uffici o persone),
comporta una certa commistione, che si manifesta: con il potere
di sostituzione (che il superiore ha nei confronti dell’ inferiore);
con il potere di avocazione (spettante al superiore) di un certo
affare rientrante nei compiti dell’ inferiore; e con il potere (del
superiore) di annullare atti posti in essere dall’ inferiore e di
78
decidere i ricorsi gerarchici proposti contro atti dell’ inferiore.
Ovviamente, la gerarchia, per definizione, è una relazione alla
quale sfuggono gli organi e gli uffici collegiali, i quali, infatti,
vengono istituiti affinché la decisione si formi al loro interno
attraverso il dialogo (prima) ed il voto (poi): ed invero, la ratio
della collegialità verrebbe meno se, alla volontà del collegio, un
superiore gerarchico potesse sostituire la sua volontà.
La gerarchia ha un limite: qualora, infatti, l’ ordine impartito dal
superiore gerarchico dovesse apparire illegittimo, l’ inferiore deve
farne rimostranza, spiegandone le ragioni; è tenuto, però, ad
obbedire se l’ ordine viene rinnovato per iscritto, a meno che l’
atto non sia vietato dalla legge penale.
d) la direzione
Diversa dalla gerarchia è la direzione: essa si esprime non in
ordini, ma in direttive o atti di indirizzo, ossia in atti che vincolano
nel fine, ma non nei mezzi per raggiungerlo (questi ultimi, infatti,
sono rimessi al soggetto che è destinatario della direttiva).
La direttiva è oggi essenzialmente una relazione interna allo
stesso apparato: più precisamente, è la relazione che intercorre
tra l’ organo politico e la dirigenza burocratica, così come si
desume dall’ art. 4 d.lgs. 165/01, il quale, infatti, stabilisce che gli
organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-
amministrativo, definendo gli obiettivi e i programmi da attuare;
ai dirigenti spetta l’ adozione degli atti e provvedimenti, nonché
la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa.
A differenza della gerarchia, inoltre, colui che è soggetto alla
direttiva ha anche un limitato potere di disattenderla, purché ne
enunci le ragioni (ciò che, appunto, non è consentito a colui che è
sottoposto ad un potere di gerarchia, tranne nei casi di ordine
illegittimo); quanto detto si desume dalla citata disciplina del
rapporto tra organo politico e dirigente: infatti, la direttiva, che l’
organo politico rivolge ai dirigenti, è anche frutto della proposta di
79
questi ultimi, i quali concorrono alla formazione dell’ atto.
e) la sostituzione
Vi sono, infine, dei casi in cui l’ esercizio dei poteri amministrativi
(in genere, doveroso) è particolarmente serio, perché ad esso
corrisponde una pretesa che non è del solo cittadino, ma anche di
altri soggetti (ad es., l’ Unione europea o uno Stato estero con il
quale è stato stipulato un Trattato). In questi casi, se l’ ente
munito di attribuzioni (o l’ organo dotato di competenze)
risultasse inattivo e contro tale inattività non fosse previsto alcun
rimedio potrebbero generarsi inadempimenti ad obblighi
internazionali o inerzie pericolose per gli interessi pubblici
coinvolti.
Il meccanismo che è stato escogitato per evitare questa paralisi è
quello della sostituzione: sicché l’ inerzia di chi sarebbe tenuto a
provvedere costituisce (in certi casi, predeterminati dalla legge) il
presupposto dell’ intervento sostitutivo di un organo o di un ente
diverso (la sostituzione, ad es., è prevista dalla Costituzione per l’
ipotesi nella quale le regioni, nelle materie di loro competenza,
omettano di provvedere all’ attuazione o all’ esecuzione degli
accordi internazionali; in questi casi, lo Stato, attraverso il
Governo, può sostituirsi alla regione inadempiente).
f) i controlli
Il controllo è una tipica relazione tra figure soggettive: tra organi
di uno stesso ente, tra organi di enti diversi, tra uffici diversi di
uno stesso ente. Esso presuppone la sussistenza di un parametro
alla stregua del quale valutare l’ atto o l’ attività altrui: nella storia
delle amministrazioni, il parametro prevalentemente utilizzato è
stato la legge (cd. controllo di legittimità). Non a caso, la
Costituzione italiana (prima della modifica apportata al Titolo V
nel 2001) prevedeva un controllo preventivo di legittimità sugli
atti del Governo, affidato alla Corte dei Conti (art. 100); un
80
controllo di legittimità sugli atti amministrativi della regione,
affidato ad un organo dello Stato (art. 125); ed un controllo di
legittimità sugli atti delle province, dei comuni e degli altri enti
locali, affidato a un organo delle regioni (art. 130). I suddetti
controlli venivano definiti preventivi, perché il controllo veniva
esercitato prima che l’ atto controllato potesse produrre i suoi
effetti.
Negli anni ‘90, però, il numero dei controlli ha cominciato a subire
una drastica riduzione: ed infatti, mentre in passato tutti i decreti
ministeriali (qualunque ne fosse l’ oggetto) erano sottoposti al
controllo di legittimità della Corte dei Conti, dal ‘94 il controllo è
stato limitato ai provvedimenti emanati a seguito di deliberazione
del Consiglio dei Ministri, agli atti normativi a rilevanza esterna, ai
provvedimenti di disposizione del demanio e del patrimonio e ad
altri pochi atti.
Nel 1997 sono stati, poi, soppressi i controlli statali sugli atti
amministrativi delle regioni; mentre i controlli sugli enti locali
sono stati ridotti. Con la riforma del Titolo V della Costituzione
sono stati, infine, abrogati gli artt. 125, co. 1 e 130 Cost., che li
prevedevano entrambi.
Da alcuni anni l’ attenzione si è, pertanto, spostata dai controlli
sui singoli atti al controllo sull’ attività nel suo complesso: in
particolare, è stato sostenuto che se l’ attività amministrativa è
retta da criteri di efficacia e di economicità è logico che anche il
controllo si ispiri agli stessi canoni (e non più soltanto al canone
della legittimità). Un giudizio di economicità e di efficacia,
tuttavia, non può essere emesso in relazione al singolo atto, ma in
relazione ad un’ attività complessiva, considerata in un arco
temporale predefinito (un anno, sei mesi, etc.).
La svolta si è manifestata, in primo luogo, negli enti locali: la L.
241/90 ha, infatti, introdotto nei comuni e nelle province la
revisione economico-finanziaria, affidandola ad un collegio di
revisori; successivamente (nel 1995), è stato introdotto il
81
controllo di gestione.
La materia dei controlli è stata, poi, disciplinata in termini
generali, per tutte le amministrazioni, dal d.lgs. 286/1999: si
precisa, innanzitutto, che il controllo in esame è interno: interno,
cioè, a ciascuna amministrazione; a sua volta, il controllo interno
viene distinto in controllo di regolarità amministrativa e contabile,
controllo di gestione (il quale investe il rapporto tra costi e
risultati) e controllo strategico (che riguarda, invece, il rapporto
tra obiettivi e risultati). Da quanto detto si evince con chiarezza
che il punto di riferimento dei controlli interni è il principio
costituzionale del buon andamento (art. 97 Cost.).
Nel sistema dei controlli interni occupa, invece, un posto a sé la
valutazione dei dirigenti (ossia dei soggetti responsabili della
gestione e dei risultati): la valutazione può sfociare in misure
correttive, come il passaggio ad altro incarico o la revoca dello
stesso incarico.
È necessario sottolineare, infine, che la Costituzione indica anche
un terzo tipo di controllo: ai sensi, infatti, dell’ art. 100, la Corte
dei Conti esercita anche il controllo successivo sulla gestione del
bilancio dello Stato e partecipa al controllo sulla gestione
finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria
(tale controllo tende, in particolare, ad impedire lo sperpero di
risorse che sono state acquisite quasi interamente attraverso il
prelievo tributario).
§10. Le risorse umane (il rapporto di lavoro con le P.A.)
Le amministrazioni pubbliche (come quelle private) funzionano
con l’ apporto di pochi amministratori e molti lavoratori
dipendenti; di conseguenza, assume particolare importanza il
rapporto che si insatura tra ciascuna pubblica amministrazione ed
il personale dipendente.
Al riguardo, va detto che la nostra legislazione si è orientata verso
un impiego pubblico con un assetto distinto da quello del rapporto
82
di lavoro privato: è in questa prospettiva che, nel 1957, è stato
approvato uno statuto degli impiegati civili dello Stato (D.P.R.
3/57) del tutto peculiare rispetto a quello che, nel 1970, sarebbe
stato lo statuto dei lavoratori del settore privato (L. 300/70).
In realtà, il processo di pubblicizzazione può dirsi concluso già nel
1923, quando, con r.d. 2840/23, fu attribuita al Consiglio di Stato,
in sede giurisdizionale, una competenza esclusiva in materia di
pubblico impiego (l’ impiego pubblico finì, così, per essere trattato
con le categorie proprie del diritto e del processo amministrativo).
In tal modo, il rapporto di pubblico impiego non veniva costituito
da un contratto (come il rapporto di lavoro privato), ma da un atto
unilaterale di nomina (quindi, da un provvedimento
amministrativo), rispetto al quale l’ accettazione del privato
fungeva da mera condizione di efficacia.
È necessario sottolineare, tra l’ altro, che secondo parte della
dottrina, la natura pubblicistica del rapporto di pubblico impiego
sarebbe stata rafforzata dalla Costituzione: quest’ ultima, infatti,
disponendo una riserva di legge relativa in materia di
organizzazione dei pubblici uffici, richiederebbe, per l’ impiego
pubblico, una disciplina per legge o per regolamento. Tale
assunto, però, è stato criticato da altra parte della dottrina sulla
base della distinzione tra organizzazione (in astratto) dei pubblici
uffici e (concreta) provvista degli stessi; e, più in generale, sulla
base della distinzione tra organizzazione degli uffici ed
organizzazione del lavoro (sicché solo l’ organizzazione degli uffici
formerebbe oggetto di riserva di legge, mentre l’ organizzazione
del lavoro non sarebbe diversa dall’ organizzazione del lavoro
privato e, al pari di questa, potrebbe essere sottoposta a
disciplina contrattuale).
L’ assetto vigente, quale risulta dal d.lgs. 29/93 e dalle successive
modifiche (poi confluite nel d.lgs. 165/01) è, invece, il seguente:
ciascuna P.A., in virtù dei princìpi generali fissati dalla legge,
adotta regolamenti ed atti generali con i quali vengono fissate le
83
linee fondamentali di organizzazione degli uffici, vengono
individuati gli uffici con maggiore rilevanza, stabilite le relative
modalità di copertura e determinate le dotazioni organiche
complessive (ossia il fabbisogno di personale). Nel quadro di tali
atti (che hanno natura di provvedimenti amministrativi), la
gestione dei rapporti di lavoro viene fatta con la capacità e i
poteri del privato datore di lavoro (vale a dire, con un atto di
diritto privato): così, ad es., è un provvedimento amministrativo
quello con il quale un ente determina il proprio organico; è,
invece, un atto di diritto privato (contratto) quello con il quale un
lavoratore è chiamato a ricoprire un posto o quello con il quale un
lavoratore è trasferito d’ ufficio o destinato ad altre mansioni.
In dipendenza della privatizzazione del rapporto di impiego
cambia, ovviamente, anche il sistema delle fonti: diritti e doveri
delle parti non sono più stabiliti da leggi e regolamenti
amministrativi, ma trovano la loro fonte nel libro del lavoro del
codice civile, nelle leggi sul rapporto di lavoro subordinato nell’
impresa e nei contratti collettivi di lavoro. Questi ultimi, in
particolare, sono stipulati, per singoli comparti (ad es., ministeri,
regioni, enti locali, etc.), dalle confederazioni sindacali e dall’
ARAN (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle P.A.); la
stipulazione, però, deve essere preceduta dal parere favorevole
del Comitato del settore interessato e dall’ attestazione della
Corte dei Conti.
Detto ciò, è necessario comunque sottolineare che l’
assimilazione dell’ impiego presso enti pubblici all’ impiego
privato conosce dei limiti. Infatti, occorre osservare, innanzitutto,
che il reclutamento del personale avviene sulla base di piante
organiche approvate, nell’ amministrazione dello Stato, con
regolamenti deliberati dal Consiglio dei ministri, su proposta del
ministro competente. Più precisamente, la pianta organica serve a
commisurare la quantità di personale al fabbisogno: ciò significa,
quindi, che l’ assunzione di dipendenti al di fuori dell’ organico è
84
nulla, con conseguente applicazione dell’ art. 2126 c.c.
(prestazione di fatto con violazione di legge).
In secondo luogo, il personale viene assunto con procedure
selettive, volte ad accertare la professionalità richiesta e tali da
garantire l’ accesso dall’ esterno; come si può notare, viene qui in
rilievo il principio del pubblico concorso (principio che trova
applicazione sia per l’ accesso alle qualifiche iniziali, che per l’
inquadramento nelle qualifiche superiori).
Una terza rilevante differenza riguarda, poi, la disciplina delle
mansioni superiori: occorre evidenziare, infatti, che il lavoratore
privato assegnato a mansioni superiori a quelle della qualifica ha
diritto al mantenimento corrispondente e l’ assegnazione stessa
diventa definitiva dopo che siano trascorsi 3 mesi (a meno che la
stessa non sia disposta per sostituire un lavoratore assente). Il
d.lgs. 165/01 stabilisce, invece, un limite temporale all’
assegnazione del dipendente a mansioni superiori (6 mesi) e
individua i presupposti in presenza dei quali l’ operazione è
ammessa (vacanza di un posto in organico o sostituzione di altro
dipendente assente con diritto alla conservazione del posto); il
lavoratore adibito a mansioni superiori ha diritto al trattamento
economico corrispondente, ma non all’ inquadramento nella
qualifica superiore (e ciò perché il principio del pubblico concorso
verrebbe eluso se il dipendente potesse accedere alla qualifica
superiore in conseguenza del solo esercizio di fatto delle mansioni
corrispondenti).
In ogni caso, è bene precisare che, in determinati settori, viene
fatto salvo l’ impiego pubblico tradizionale, retto da leggi e
regolamenti; l’ impiego in esame concerne i militari, la polizia, i
diplomatici, i magistrati, i professori e ricercatori universitari (in
quest’ ambito, la giurisdizione rimane al giudice amministrativo).
Il d.lgs. 165/01 è stato, però, modificato in maniera incisiva dal
d.lgs. 150/09: attraverso tale decreto, in particolare, la materia
disciplinare, che era stata devoluta alla contrattazione collettiva
85
(con palese beneficio per i dipendenti pubblici) viene restituita
alla legge; vengono, poi, registrati termini e forme di
provvedimento disciplinare, i rapporti con il procedimento penale,
la rilevanza delle false attestazioni o certificazioni, i controlli sulle
assenze e viene espressamente previsto il licenziamento
disciplinare (come fattispecie diversa dal licenziamento per giusta
causa o giustificato motivo). Viene, inoltre, rafforzato il controllo
pubblico sul procedimento di formazione del contratto collettivo
nazionale di lavoro [attraverso la previsione di poteri di indirizzo
sull’ ARAN (da parte di comitati di settore) e poteri di indagine
della Corte dei Conti].
§11. Le risorse materiali (i beni pubblici)
Ogni amministrazione pubblica è, a suo modo, un’ impresa: un’
attività organizzata per la produzione di beni e servizi; è naturale,
quindi, che ciascuna amministrazione si avvalga, per lo
svolgimento dei suoi compiti, oltre che delle risorse umane
(costituite dai lavoratori dipendenti), anche delle risorse materiali
organizzate in vista di quello scopo [tali risorse, costituite da beni
propri o da beni sui quali l’ amministrazione vanta un titolo
giuridico diverso dalla proprietà (ad es., l’ edificio preso in
locazione e destinato a scuola) devono avere un tratto comune,
vale a dire: la destinazione a pubblico servizio]. Ora, ciò che
distingue i beni utilizzati dall’ amministrazione per lo svolgimento
dei suoi compiti dai beni che formano l’ azienda dell’ imprenditore
privato è il fatto che ciascuno di questi beni è sottoposto ad un
regime giuridico speciale, diverso (sotto qualche aspetto) dal
regime della proprietà, così come delineato dagli artt. 832 e ss.
c.c.
Secondo una classificazione formale, possono distinguersi, in
particolare, tre tipologie di beni pubblici: il demanio, il patrimonio
indisponibile ed il patrimonio disponibile.
I beni che fanno parte del demanio pubblico sono inalienabili e
86
non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei
modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano. La tutela di
detti beni spetta all’ autorità amministrativa, la quale può anche
avvalersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso
(art. 823 c.c.).
I beni che fanno parte del patrimonio indisponibile (nella cui
categoria rientrano anche tutti i beni destinati ad un pubblico
servizio, ex art. 826 c.c.) non possono essere sottratti alla loro
destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano
(art. 828 c.c.).
I beni del patrimonio disponibile sono, invece, quelli che
appartengono allo Stato e agli altri enti pubblici come a qualsiasi
proprietario (essi sono semplicemente destinati alla produzione di
un reddito e sottoposti alle norme civilistiche sulla proprietà).
Nella prospettiva dell’ organizzazione amministrativa (fatta di
risorse umane e materiali) assumono un rilievo particolare i beni
pubblici che sono tali per destinazione della P.A.; al riguardo, è
importante sottolineare che anche se il concetto di destinazione è
contemplato in via generale per il solo patrimonio indisponibile
(ad eccezione delle foreste e dei beni archeologici), esso concerne
anche beni demaniali (ad es., i porti, le opere destinate alla difesa
nazionale, le strade, le autostrade, le strade ferrate e gli
acquedotti).
Ora, la destinazione (ad ufficio o a servizio pubblico) presuppone
un’ attività di costruzione a cura della stessa amministrazione
(attività che, invece, manca nel cd. demanio naturale, vale a dire
nei beni pubblici per natura, quali, ad es., il lido, la spiaggia, il
fiume, il torrente, etc.); alla costruzione segue l’ atto di
destinazione, che può concretarsi anche in meri fatti materiali (ad
es., l’ apertura della strada al traffico).
Il servizio pubblico, cui il bene è destinato, può essere diretto
[può, cioè, coincidere con le modalità d’ uso del bene (ad es.,
strade pubbliche, ferrovie, acquedotti, etc.)] o indiretto (in questo
87
secondo caso, il bene è necessario affinché il servizio possa
essere esercitato, ma non costituisce l’ oggetto proprio del
servizio: ad es., l’ ufficio comunale, in cui è ubicato il servizio
anagrafe, serve al pubblico che, tuttavia, si attende una
prestazione non da quella cosa, ma dal servizio che in quell’
immobile viene prestato).
Simmetrica alla destinazione è la revoca o la cessazione della
destinazione: così, ad es., l’ immobile destinato a scuola cessa di
assolvere alla sua funzione una volta che la scuola è trasferita in
un nuovo edificio (cessata la destinazione, il bene patrimoniale
indisponibile transita nel patrimonio disponibile). Lo stesso
discorso vale per i beni demaniali a destinazione amministrativa:
si pensi, ad es., ad un tronco stradale che viene abbandonato
perché viene realizzata una variante più comoda e meno
pericolosa o ad un binario ferroviario a scartamento ridotto che
viene dismesso.
L’ altra grande categoria di beni pubblici (enucleata dagli elenchi
dei beni demaniali e patrimoniali indisponibili) è quella dei beni
riservati, ossia dei beni che non possono appartenere se non allo
Stato (e agli altri enti territoriali): il demanio marittimo (lido,
spiagge, rade), il demanio idrico (fiumi, torrenti, laghi, acque
pubbliche) e le miniere.
La riserva è volta ad impedire che del bene si approprino soggetti
privati; e, quindi, ad assicurare l’ uso della generalità delle
persone [è necessario sottolineare, però, che l’ uso generale può
trovare dei limiti per ragioni di polizia del bene, qualora diventi
impossibile il godimento simultaneo di tutti gli aspiranti (si pensi,
ad es., alla chiusura al traffico di alcune zone cittadine o all’
ingresso al museo consentito a gruppi di persone non superiori a
15)].
a) la trasformazione nel regime dei beni pubblici
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A partire dagli anni ’90 sono state introdotte molte trasformazioni
nel regime dei beni pubblici. Volendo schematizzarle, possono
essere prospettate le seguenti evenienze.
• L’ art. 822 cpv. c.c. stabilisce che fanno parte del demanio
pubblico, se appartengono allo Stato, le strade, le autostrade e le
strade ferrate; tuttavia, con la trasformazione dell’ Azienda
Autonoma delle ferrovie dello Stato in ente pubblico economico e
dell’ ente pubblico economico in s.p.a. (e, quindi, con il
trasferimento dei beni al nuovo soggetto giuridico) è venuto
meno il presupposto della demanialità pubblica, cioè
l’appartenenza dei beni allo Stato. È necessario sottolineare, però,
che nonostante la fuoriuscita di molti beni dal demanio e dal
patrimonio indisponibile statale, rimane in vita il vincolo di
destinazione.
• In alcuni casi, enti pubblici sono stati, per legge, trasformati in
persone giuridiche private (associazioni e fondazioni), essendosi
ritenuto che per il loro funzionamento non fosse necessaria la
personalità di diritto pubblico; in tal modo, i beni, la cui gestione o
conservazione costituiva lo scopo fondamentale dell’ ente
pubblico, passano al nuovo soggetto privato (e, quindi, perdono la
loro natura di beni patrimoniali indisponibili), ma permangono
destinati a tale finalità.
• In altri casi, invece, oggetto della misura legislativa è proprio il
bene, che viene conferito dallo Stato ad una s.p.a., creata proprio
allo scopo di gestire, valorizzare e commercializzare i beni statali,
sia patrimoniali (disponibili ed indisponibili) che demaniali.
A questo scopo sono state create la Patrimonio s.p.a. e la
Infrastrutture s.p.a., il capitale delle quali è detenuto interamente
dal Ministero dell’ Economia e delle Finanze e dalla Cassa Depositi
e Prestiti: l’ obiettivo è quello di gestire il patrimonio con criteri
imprenditoriali e conseguire l’ utilizzazione economica delle
infrastrutture conferite all’ omonima società. I beni della
Patrimonio s.p.a. possono anche essere venduti, previa
89
cartolarizzazione (in tal modo, questi beni perdono sia il vincolo di
destinazione, che la connotazione pubblicistica); la
cartolarizzazione viene effettuata a mezzo di società
intermediarie che pagano subito allo Stato il prezzo iniziale del
trasferimento per rivendere poi il bene a terzi.
• Il d.lgs. 12/08 ha, poi, autorizzato le regioni e gli enti locali a
redigere un elenco dei beni immobili di loro proprietà, non
strumentali all’ esercizio delle funzioni istituzionali, suscettibili di
valorizzazione o di dismissione (in tal modo, i beni vengono a far
parte del patrimonio disponibile).
• La legge delega in materia di federalismo fiscale (L. 42/09) ha
previsto, da ultimo, l’ attribuzione (a titolo non oneroso) ad ogni
livello di governo di distinte tipologie di beni pubblici statali.
§12. La finanza pubblica ed il bilancio dello Stato
Entrate e spese pubbliche sono considerate separatamente dalla
nostra Carta Costituzionale. In particolare, per quanto riguarda le
entrate, la Costituzione distingue le entrate patrimoniali (che lo
Stato e gli altri enti pubblici ricavano dalla loro proprietà) dalle
entrate tributarie.
Le entrate dello Stato sono ripartite in:
• titoli, distinti a seconda che abbiano natura tributaria,
extratributaria o provengano dall’ alienazione dei beni
patrimoniali, dalla riscossione di crediti o dall’ accensione di
prestiti;
• ricorrenti o non ricorrenti, a seconda che la loro acquisizione sia
prevista a regime ovvero sia limitata ad uno o più esercizi;
• tipologie: per le entrate tributarie si indicano i tributi più
importanti (IRE, IRES, IVA); per i restanti titoli è indicata, invece, la
tipologia del provento (redditi da capitale o proventi da servizi);
• categorie, a seconda che l’ entrata derivi dall’ attività ordinaria
di gestione o dall’ attività di controllo (ad es., recupero di imposte
evase);
90
• capitoli, eventualmente suddivisi in articoli.
Per le spese pubbliche, invece, non esiste una disciplina
costituzionale specifica; esistono, però, numerose norme della
Costituzione che, addossando alla Repubblica (Stato, regioni ed
enti pubblici) compiti che hanno un costo (ad es., cure gratuite
agli indigenti o assistenza agli inabili al lavoro, che sono privi di
mezzi), rendono obbligate certe spese pubbliche.
Le spese dello Stato sono ripartite in:
• missioni, che stabiliscono le funzioni e gli obiettivi fondamentali;
• programmi, che sono diretti al perseguimento di questi obiettivi;
• capitoli, secondo l’ oggetto della spesa.
Il documento che tiene insieme, collegandole, entrate e spese è il
bilancio, il quale, infatti, si concreta nella previsione delle entrate
che lo Stato o l’ ente pubblico ritiene di realizzare nel corso dell’
esercizio finanziario e nella previsione delle spese da effettuare.
Il bilancio è presentato dal Governo e approvato dal Parlamento;
in particolare, il ciclo della programmazione di bilancio
(disciplinato con L. 196/09) è avviato dalla Relazione sull’
economia e la finanza pubblica (da presentare alle Camere entro
il 15 aprile di ogni anno); segue lo schema di Decisione di finanza
pubblica (da presentare alle Camere entro il 15 settembre); entro
il 15 ottobre va predisposta la manovra di finanza pubblica (quest’
ultima è formata dalla legge di stabilità, che sostituisce la vecchia
legge finanziaria, e dalla legge di bilancio); i disegni di legge
legati alla manovra vanno presentati entro il mese di febbraio
dell’ anno successivo, mentre il d.d.l. di assestamento deve
essere pronto entro il 30 giugno.
Un ultimo accenno occorre dedicarlo al procedimento di
erogazione della spesa pubblica. Questa, in particolare, si esplica
attraverso quattro fasi: l’ impegno, con il quale il dirigente (o l’
organo politico), a seguito di obbligazione giuridicamente
perfezionata, determina la somma da pagare, il soggetto
creditore, indica la ragione e costituisce il vincolo sulle previsioni
91
di bilancio; la liquidazione, che consiste nel complesso di
operazioni con le quali viene determinato l’ importo della somma
da pagare e individuata l’ identità del beneficiario; l’ ordinanza,
che consiste nella emissione del titolo di spesa (cd. ordinativo di
pagamento) con il quale viene impartito al tesoriere (o cassiere
dell’ ente) l’ ordine di effettuare il pagamento, cioè la materiale
erogazione del denaro a favore del beneficiario.
Parte II
L’ attività amministrativa
Sezione I
Premesse
§1. Gli interessi
a) il fine e l’ interesse
Nel linguaggio corrente degli studiosi della P.A., il termine fine è
fungibile con il termine interesse. Si parla di fini pubblici o di
interessi pubblici: ad es., del fine, che una collettività persegue, di
avere assicurato l’ ordine pubblico o dell’ interesse di una
collettività all’ ordine pubblico.
I due termini, a ben vedere, denotano la stessa cosa, ma hanno
una diversa connotazione: il sostantivo fine, infatti, evoca
qualcosa che sta al termine di un percorso; l’ interesse, invece,
rimanda a qualcosa che è permanente, che dura, cioè, nel tempo
(è bene precisare, comunque, che nell’ ambito della politica e
dell’ amministrazione si preferisce utilizzare il termine interesse,
perché esso più si addice al carattere di permanenza proprio dello
Stato, dei pubblici poteri e delle amministrazioni).
b) l’ interesse legittimo e il diritto soggettivo
In generale, l’ interesse può essere definito come l’ aspirazione
verso un bene ritenuto idoneo a soddisfare una pretesa o un
92
bisogno nella vita di un soggetto; ora, quando quest’ interesse
viene considerato dalla legge meritevole di tutela in quanto tale,
nel senso che l’ interessato ha la possibilità di agire direttamente
in giudizio per la sua tutela, si parla di diritto soggettivo. Diritto
soggettivo è, ad es., il diritto di proprietà; ciò significa che il
proprietario può agire in giudizio per la tutela del diritto contro
chiunque lo abbia leso (P.A. compresa): supponiamo, ad es., che
un comune, nel realizzare un parco pubblico, invada
abusivamente una porzione di terreno di proprietà privata, senza
espropriarlo; in questo caso il comune viola un diritto soggettivo
(di proprietà) e il proprietario può rivolgersi al giudice ordinario
contro tale comportamento della P.A.
L’ interesse legittimo, invece, (secondo la definizione elaborata
dal Nigro e, poi, accolta dalla Cassazione nella importantissima
sentenza 500/99) è una posizione giuridica soggettiva
riconosciuta ai privati, grazie alla quale essi incidono sull’ attività
amministrativa allo scopo di tutelare un bene pertinente allo loro
sfera di interessi: così, ad es., l’ impresa che non ha ottenuto l’
appalto, perché è stata preferita un’ altra ditta, aveva
sicuramente interesse ad ottenerlo, ma non si può dire che essa
vanti un diritto nei confronti dell’ amministrazione, dal momento
che questa ha un potere discrezionale (cioè, un potere di scelta)
diretto ad assicurare la soddisfazione dell’ interesse pubblico (in
questo caso: massima qualità della prestazione al minimo
prezzo); all’ impresa che è risultata sconfitta viene
semplicemente riconosciuto un interesse legittimo (cioè, l’
interesse a che l’ amministrazione si comporti rispettando le
norme di legge sulle gare d’ appalto).
Da quanto detto, quindi, si può concludere dicendo che l’
interesse legittimo è una situazione soggettiva correlata al potere
discrezionale della pubblica amministrazione; ovviamente, questo
potere discrezionale viene esercitato attraverso una scelta (che
può essere anche quella di non agire: si pensi, ad es., alla
93
determinazione di non disporre l’ annullamento d’ ufficio di un
atto illegittimo). Tale scelta comporta un’ alternativa alla quale
soggiace la situazione soggettiva dell’ altra parte (l’ interesse
legittimo): il privato, quindi, non ha diritto a che il potere venga
esercitato nella direzione da lui voluta, ma, appunto, solo un
interesse (che viene definito legittimo, perché esso può essere
soddisfatto dall’ autorità amministrativa solo con un atto
legittimo).
c) gli interessi collettivi
Quello fin qui descritto è l’ interesse privato, vale a dire l’
interesse che concerne il singolo; ad esso viene affiancato l’
interesse collettivo, che, però, non rappresenta la semplice
somma degli interessi individuali.
Per comprendere la distinzione occorre partire ancora una volta
dall’ interesse del singolo: ci sono interessi che il singolo può
soddisfare senza la cooperazione altrui (come ad es., l’ interesse
a dissetarsi o l’ interesse a guardare le stelle); altri interessi,
invece, non sono suscettibili di soddisfazione individuale, o perché
presuppongono un gioco di squadra (il calcio, il basket, etc.) o
perché richiedono mezzi di cui la persona interessata non dispone
(l’ interesse a viaggiare per il mondo in navi di lusso) o perché l’
interesse individuale ha di fronte a sé l’ interesse antagonistico
che è proprio di altra persona e che è destinato a prevalere (ad
es., l’ interesse del lavoratore ad ottenere dal suo datore di lavoro
la retribuzione più alta possibile, le condizioni di lavoro migliori
possibili, etc.). In tutti questi casi, come si può facilmente intuire,
la soddisfazione dell’ interesse va cercata sul piano collettivo (ad
es., il lavoratore singolo è destinato a soccombere nello scontro
con colui che gli dà lavoro, ma può far valere le sue ragioni se si
riunisce in un sindacato di lavoratori, che recupera sul piano
collettivo quella forza contrattuale che al singolo lavoratore
manca).
94
Così considerato, l’ interesse collettivo non designa tanto una
specie di interesse, quanto il mezzo per soddisfarlo (costituito,
quest’ ultimo, dalla cooperazione di tutti coloro che ne sono
portatori); in questa prospettiva l’ interesse collettivo può anche
essere definito un interesse parziale, vale a dire l’ interesse di una
collettività che, a sua volta, costituisce una parte di una comunità
maggiore.
d) gli interessi generali
L’ interesse generale è l’ interesse che riguarda l’ individuo come
membro del pubblico (si pensi, ad es., all’ interesse a che sia in
vigore una norma che vieti l’ omicidio e punisca coloro che lo
commettono).
Ora, la condizione indispensabile perché una misura possa essere
considerata di interesse generale è che essa tratti allo stesso
modo tutti quelli che ne sono toccati; e tale condizione delimita,
ovviamente, tutte le alternative possibili: così, ad es., rispetto alla
regola che vieta a tutti di commettere omicidio, la sola alternativa
munita del medesimo carattere di universalità sarebbe la regola
che consentisse a tutti di commettere omicidio.
In virtù di tali considerazioni, si può senz’ altro affermare che sono
conformi all’ interesse generale le norme contenute in un codice
civile, in un codice penale o in un codice di procedura, perché si
tratta di norme che prendono in considerazione chiunque, nonché
le situazioni in cui chiunque può venire a trovarsi (esistono,
tuttavia, in questi testi, anche delle norme specifiche che si
rivolgono a soggetti determinati, in ragione del ruolo da essi
rivestito: ad es., pubblico ufficiale, giudice, etc.).
e) gli interessi pubblici
Con l’ interesse generale viene spesso confuso l’ interesse
pubblico (nel senso che i due termini vengono usati
promiscuamente); in realtà, occorre sottolineare che l’ interesse
95
pubblico si distingue da tutti gli altri interessi perché è stato
incorporato in una norma, in una politica o in una misura pubblica
(dei pubblici poteri). L’ interesse generale può essere, semmai, un
criterio per valutare più proposte che abbiano per oggetto norme,
politiche o misure, prima che una di queste proposte venga
accolta e formalizzata come norma, politica o misura pubblica
(così, ad es., l’ interesse generale potrebbe essere quello ad una
riduzione delle tasse; ma se il Governo persegue una politica
opposta di incremento del carico tributario e delibera o promuove
un provvedimento legislativo che ritocca le aliquote verso l’ alto,
è questo l’ interesse pubblico che gli uffici finanziari devono
perseguire).
Assumendo, pertanto, che l’ interesse pubblico è l’ interesse che
viene reso pubblico dai pubblici poteri, diventa essenziale stabilire
chi, all’ interno dei pubblici poteri, è abilitato a convertire un certo
interesse in interesse pubblico. Ovviamente, nello stato assoluto,
arbitra dell’ operazione è la volontà del sovrano; nello stato
costituzionale l’ interesse pubblico è, invece, definito dalla legge;
nello stato liberal-democratico la legge è quella deliberata da un
Parlamento eletto a suffragio universale o da un Governo che è
espressione della maggioranza elettorale ed è munito di potestà
legislativa.
Questo semplice fatto (che, cioè, competente ad individuare l’
interesse pubblico è il legislatore, ossia la maggioranza
parlamentare) spiega, tra l’ altro, il motivo per il quale interesse
collettivi, ma non generali, siano eretti ad interessi pubblici: è
sufficiente, infatti, che un certo gruppo sociale, numericamente
maggioritario, voti compatto perché la maggioranza parlamentare
che ne risulta adotti politiche e misure conformi all’ interesse
collettivo del gruppo.
Da quanto detto, quindi, possiamo concludere dicendo che gli
interessi pubblici includono non solo gli interessi generali (gli
interessi che ogni individuo avverte in quanto cittadino), ma
96
anche gli interessi collettivi, che sono riqualificati come interessi
pubblici con la loro assunzione nell’ ambito pubblico.
f) i modi per soddisfare gli interessi
Da quanto detto risulta evidente che la distinzione tra gli interessi
appena delineata non è fondata sul valore o sul pregio
comparativo, ma sulle modalità di soddisfazione degli stessi
interessi: è, infatti, in virtù di questo parametro che determinati
interessi rimangono nella sfera privata, mentre altri vengono
trasferiti sul piano collettivo (o pubblico). Per comprendere quanto
detto, facciamo un esempio: è difficile trovare un interesse più
essenziale del cibo, necessario per soddisfare un bisogno
elementare; eppure, in quasi tutte le civiltà, l’ agricoltura è stata
praticata dai privati nella forma dell’ autoproduzione (prima) e del
mercato (poi); allo stesso modo, l’ interesse a circolare
corrisponde anch’ esso ad un bisogno essenziale, ma certamente
meno essenziale del bisogno del cibo (si può sopravvivere stando
sempre nello stesso posto, non si può sopravvivere senza
mangiare); eppure dappertutto la libertà di circolazione viene
esercitata a mezzo di infrastrutture e di servizi pubblici. Dagli
esempi avanzati si capisce, pertanto, che gli interessi generali e
gli interessi pubblici, nella prospettiva del singolo, non sono
interessi più elevati di tanti altri interessi che rimangono privati; si
tratta soltanto di interessi che non possono essere soddisfatti se
non con l’ intervento pubblico.
g) gli interessi non pubblicizzabili
Non bisogna, però, credere che il processo di moltiplicazione degli
interessi sia inarrestabile. Un primo vincolo, infatti, discende dalle
costituzioni; ogni costituzione indica (al legislatore) interessi
(pubblici) da perseguire, ma nello stesso tempo esclude o vieta
che altri interessi siano assunti nella sfera pubblica e qualificati
come interessi pubblici: ad es., la Costituzione italiana, mentre,
97
da un lato, impone di organizzare un sistema di sicurezza sociale,
una scuola pubblica per tutti gli ordini e gradi, un sistema di
assistenza per i cittadini inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi
necessari per vivere, dall’ altro, ci dice anche che determinati
interessi non possono essere qualificati come interessi pubblici:
così, ad es., l’ affermazione della libertà sindacale esclude che i
sindacati possano essere qualificati come enti pubblici; così come
non possono essere enti pubblici i partiti politici [infatti, la libertà
sindacale e partitica, che include anche l’ opzione negativa (cioè,
la libertà di non iscriversi ad alcun sindacato o ad alcun partito),
comporta che gli interessi tutelati da organismi del genere non
possono essere, per definizione, interessi pubblici].
Il secondo limite a carico del legislatore ordinario deriva, invece,
dai vincoli europei: il diritto europeo vincola, infatti, il legislatore
italiano nella determinazione degli interessi pubblici da soddisfare
attraverso la disciplina della politica economica e monetaria.
§2. I mezzi: il diritto ed il denaro
Le amministrazioni pubbliche sono chiamate a svolgere attività
volte a soddisfare interessi pubblici; per far ciò esse si avvalgono
di due strumenti (individuati dal sociologo tedesco Luhmann): il
diritto ed il denaro.
Il diritto può essere costituito anche soltanto da regole: ad es.,
uno Stato che miri a riequilibrare i rapporti tra datori di lavoro e
lavoratori, correggendo lo squilibrio a favore dei secondi (soggetti
deboli del rapporto), può impiegare mezzi esclusivamente
normativi (come una disciplina differenziata del recesso dal
rapporto di lavoro, che è ammesso senza limiti per il lavoratore,
mentre è subordinato a giusta causa o a giustificato motivo per il
datore di lavoro).
Nella stragrande maggioranza dei casi, però, il diritto che viene
usato per la soddisfazione degli interessi pubblici non è composto
solo da regole, ma è fatto anche di apparati amministrativi
98
(istituiti in base alla legge); apparati che vengono, a loro volta,
muniti di poteri e risorse per la realizzazione di quegli interessi:
così, ad es., l’ interesse all’ ordine pubblico è affidato alle norme
del codice penale, che prevedono i reati e stabiliscono le pene per
la loro violazione (pene che verranno applicate, poi, dal giudice);
ma sul presupposto che questa linea difensiva risulti vulnerabile,
il legislatore istituisce apparati di polizia (in Italia: polizia di Stato,
carabinieri e guardia di finanza), munendoli di poteri di ordinanza,
di identificazione, di controllo, di investigazione e di repressione.
Sotto questo profilo, come si può notare, non è più solo il diritto il
medium utilizzato per soddisfare l’ interesse, ma anche il denaro,
vale a dire quella parte rilevante delle risorse nazionali necessaria
a sostenere i costi di un servizio, che per colui che ne fruisce è
gratuito.
§3. L’ amministrazione che prende e l’ amministrazione che dà
Un giurista tedesco, negli anni ’30 del XX secolo, ha formalizzato
la distinzione tra amministrazione che prende (che aggredisce,
cioè, la sfera giuridica del privato) e amministrazione che dà
(cioè, che al privato rende prestazioni).
L’ amministrazione che prende si esprime in provvedimenti
amministrativi (ad es., ordini, espropriazioni, occupazioni,
autorizzazioni, concessioni o licenze): si tratta di misure che
comportano una restrizione della sfera giuridica del privato, al
quale viene tolto un bene o un diritto o imposto un obbligo;
ovvero di misure che, pur avendo l’ aria di estendere la sfera
giuridica del destinatario (autorizzazione e concessione), in realtà
presuppongono una previa restrizione delle sfere giuridiche dei
privati (ad es., il fatto stesso che un’ attività debba essere
autorizzata per poter essere svolta equivale ad una restrizione se
paragonato alla situazione di chi la stessa attività potrebbe
svolgere con una propria decisione, senza necessità di una previa
autorizzazione).
99
L’ amministrazione che dà (o attività di prestazione) è, invece,
quella con la quale il cittadino viene continuamente a contatto in
qualità di utente o di consumatore (consumatore, ad es., di
prestazioni sanitarie, di prestazioni di energia elettrica, di
trasporto, etc.).
Quanto detto, ovviamente, non giustifica l’ opinione secondo la
quale l’ amministrazione che prende (o autoritativa) si traduce in
provvedimenti, mentre l’ amministrazione che dà (o di
prestazione) si concreta in attività materiali: basti pensare, invero,
che il provvedimento che costituisce esercizio di un potere
autoritativo richiede una successiva attività materiale di
esecuzione (del soggetto destinatario o della stessa
amministrazione); reciprocamente, l’ attività materiale di
prestazione deve essere sorretta da un titolo giuridico (ad es., un
contratto di somministrazione in base al quale il mio
appartamento è rifornito di acqua, luce e gas).
§4. Il potere amministrativo come potere unilaterale
Nei rapporti tra P.A. e cittadino, l’ amministrazione dispone di
poteri che non hanno un fondamento contrattuale, ma che
derivano dalla legge che la istituisce e che entrano in azione
quando si verifica il fatto previsto dalla relativa norma (ad es., la
legge prevede che il sindaco, accertata l’ esecuzione di opere in
assenza di concessione, ingiunga la demolizione).
Il potere amministrativo è, quindi, un potere unilaterale non solo
nel senso che il suo esercizio incide unilateralmente nella sfera
giuridica altrui, ma anche nel senso che la sua fonte non è
contrattuale (anche il datore di lavoro privato ha un potere
direttivo verso il lavoratore, ma tale potere ha una fonte
contrattuale). È necessario sottolineare, però, che
amministrazione e privato possono comunque stringere un
accordo che non solo può predeterminare il contenuto del
provvedimento, ma può anche sostituirlo; tale accordo, in ogni
100
caso, non mette in discussione l’ unilateralità del potere
amministrativo [infatti, poiché l’ accordo è un’ evenienza precaria,
dipendente dall’ incontro di due volontà, gli interessi pubblici che
richiedono una protezione continua sarebbero pregiudicati se alla
singola amministrazione non fosse attribuito il potere unilaterale
di influire sulla sfera giuridica di colui che all’ accordo non vuole
addivenire (come accadrebbe, ad es., nel caso in cui l’
amministrazione tributaria dovesse aspettare il consenso del
contribuente ovvero l’ amministrazione militare il consenso della
recluta).
Proprio perché è un potere unilaterale, il potere amministrativo (in
un ordinamento democratico, come il nostro) deve essere istituito
ed attribuito dalla legge: e ciò perché la capacità di incidere sulla
sfera giuridica di un altro (il privato interessato), senza il suo
consenso, costituisce una eccezione ad una regola fondamentale
del diritto privato (ecco il motivo per il quale solo il popolo,
attraverso la sua rappresentanza e con una votazione a
maggioranza, può introdurre questa eccezione).
§5. Il potere amministrativo e gli interessi pubblici
Il potere amministrativo è attribuito a tutela di un interesse
pubblico (a tutela, cioè, del complesso dei cittadini); di
conseguenza, risulta evidente che la persona soggetta al potere
amministrativo può anche ottenere (soprattutto dal giudice
amministrativo) l’ invalidazione dell’ atto di esercizio del potere se
quell’ atto non soddisfa l’ interesse pubblico specifico (che la
legge ha affidato alle cure di quell’ autorità). Da qui l’ idea, errata,
che il privato possa soddisfare le sue pretese solo se il suo
interesse coincide con l’ interesse pubblico; o, peggio, che il
giudice amministrativo sia stato istituito per soddisfare l’
interesse pubblico (mentre, invece, la giurisdizione
amministrativa serve alla difesa del privato e non dell’ interesse
pubblico).
101
L’ interesse pubblico che stiamo analizzando è un interesse
specifico, ossia un interesse che si qualifica in ragione dell’
ambito materiale di riferimento (interesse sanitario, ambientale,
culturale, etc.). Ciò comporta almeno due conseguenze:
innanzitutto, l’ interesse pubblico affidato alla cura dell’ autorità
può confliggere non soltanto con un interesse privato antagonista,
ma anche con un altro interesse pubblico affidato alla cura di un’
altra autorità [ad es., l’ interesse che ha il comune a realizzare
una certa opera pubblica (un nuovo palazzo comunale) può
entrare in conflitto con l’ interesse pubblico curato dall’
amministrazione dei beni culturali alla conservazione dei caratteri
del centro storico, che verrebbero alterati dalla realizzazione dell’
opera].
L’ altra conseguenza riguarda la competenza: poiché ciascuna
autorità deve farsi carico dell’ interesse pubblico specifico che è
implicito nella sua competenza, sarebbe illegittimo il
provvedimento che, pur rivolto a tutelare l’ interesse pubblico,
pretendesse di soddisfare un interesse pubblico diverso da quello
rientrante nella propria competenza (si pensi, ad es., al caso in
cui il sindaco limiti a poche ore di sera l’ apertura di una sala
cinematografica, allo scopo di impedire che gli scolari siano
distolti dallo studio; la competenza a regolare gli orari dei pubblici
servizi non può essere esercitata per soddisfare l’ interesse alla
pubblica istruzione).
§6. Il potere amministrativo come potere tipico
Il potere amministrativo è un potere tipico: in altri termini, ciò
significa che, al di fuori dei casi di urgenza e di grave necessità
pubblica, il contenuto del provvedimento deve essere sempre
predeterminato dalla legge (sicché il provvedimento si
qualificherà, di volta in volta, come autorizzazione, concessione,
ordine, divieto, espropriazione, etc.). Ed è in questo che si
esprime il vincolo della tipicità: nell’ esigenza, cioè, che il potere
102
si esprima attraverso un provvedimento tipico, indicato dalla
legge (art. 97, co. 1 e 2 Cost.).
La predeterminazione legislativa del tipo di provvedimento da
adottare esclude, inoltre, che l’ amministrazione possa
aggiungere all’ atto clausole o condizioni che esulano dallo
schema (sarebbe, ad es., illegittimo, perché in contrasto con la
tipicità dell’ atto, un permesso di costruire che fosse condizionato
all’ impegno da parte del proprietario di assicurare la
manutenzione della strada pubblica antistante). Tali clausole o
condizioni, però, possono essere inserite in un accordo che l’
amministrazione può concludere con il privato (tale accordo,
ovviamente, non costituisce un’ obiezione contro il principio di
tipicità).
§7. Il potere amministrativo e la doverosità del suo esercizio
Come detto, il potere amministrativo è attribuito per soddisfare l’
interesse pubblico. Ciò può significare due cose: o che il potere,
quando viene esercitato, è vincolato alla soddisfazione dell’
interesse pubblico o che il potere, in presenza di determinati
presupposti, deve essere esercitato, perché sia soddisfatto l’
interesse pubblico.
Questa seconda accezione trova un fondamento normativo nell’
art. 2 L. 241/90, il quale, infatti, afferma che, ove il procedimento
consegua obbligatoriamente ad un’ istanza (ad es., domanda di
autorizzazione, di concessione, di abilitazione, di iscrizione, etc.)
ovvero debba essere iniziato d’ ufficio, la pubblica
amministrazione ha il dovere di concluderlo mediante l’ adozione
di un provvedimento espresso. In questi casi, quindi, come si può
notare, l’ esercizio del potere è doveroso (in realtà, sono pochi i
casi in cui l’ esercizio della potestà amministrativa non è dovuto:
non è dovuto, ad es., nei riguardi di chi chieda l’ annullamento d’
ufficio o la revoca di un provvedimento preesistente ovvero
103
qualora una persona chieda che sia inflitta una sanzione
amministrativa ad un’ altra).
§8. Il potere amministrativo come potere discrezionale
Un’ altra caratteristica del potere amministrativo è la
discrezionalità, le cui premesse teoriche sono state individuate sin
dall’ antichità: scriveva, infatti, Platone (nel Politico) che una
legge non potrà mai ordinare con precisione, e per tutti, la cosa
più buona e più giusta, indicando contemporaneamente anche ciò
che è assolutamente valido.
Ancora più preciso Aristotele quando parlava della convivenza
come di una forma particolare di giustizia: la legge è sempre una
norma universale, mentre di alcuni casi singoli non è possibile
trattare correttamente. […] Quando la legge parla in universale,
allora è legittimo, laddove il legislatore ha trascurato qualcosa,
correggere l’ omissione.
Oggi, quest’ opera di completamento della legge è affidata, nel
nostro ordinamento, all’ amministrazione e ai giudici; ovviamente
tale operazione conosce determinati confini, fissati dalla
Costituzione, la quale, con riferimento alla P.A., stabilisce che il
Parlamento non può fare della P.A. un legislatore delegato, perché
tale delega è ammessa solo nei riguardi del Governo; la
Costituzione, però, presuppone comunque questa operazione,
perché se la legge pretendesse di regolare in anticipo tutto
verrebbe pregiudicata quell’ esigenza di flessibilità e di aderenza
alle circostanze concrete (esigenza che risulta incorporata nel
principio del buon andamento dell’ amministrazione, ex art. 97
Cost.).
Detto ciò, le norme che conferiscono poteri all’ amministrazione
hanno la seguente struttura: se si verifica A (che può essere un
fatto da accertare o un fatto da valutare), allora l’ autorità può e
deve fare B (che può essere un atto vincolato o discrezionale).
Facciamo qualche esempio: se una cosa immobile ha cospicui
104
caratteri di bellezza naturale, la regione emette la dichiarazione
di notevole pubblico interesse (in questo caso, il fatto è da
valutare: è richiesto, cioè, un giudizio, non solo di fatto, ma anche
di valore); se un pubblico esercizio viene chiuso per più di otto
giorni, senza che sia dato avviso all’ autorità locale di p.s., la
licenza viene revocata (in questo secondo caso, il fatto è da
accertare: occorre, cioè, accertare se l’ esercizio è stato chiuso
per più di otto giorni).
In entrambi gli esempi avanzati la decisione della P.A. parrebbe
obbligata: al riconoscimento di bellezza naturale consegue la
dichiarazione di notevole pubblico interesse; accertata la chiusura
del pubblico esercizio per più di otto giorni, senza che il titolare ne
abbia dato comunicazione all’ autorità di p.s., la licenza va
revocata.
In realtà, però, le cose stanno in modo diverso: nel primo caso,
potrebbe, infatti, accadere che l’ area dichiarata di notevole
interesse pubblico sia più ristretta di quella proposta per il vincolo
(sicché, per una parte la proposta non viene accolta); può anche
accadere che la proposta venga rigettata del tutto (perché sull’
immobile grava un altro vincolo, ad es. a parco, idoneo a
garantire comunque la salvaguardia dei caratteri di bellezza
naturale).
Neppure nel secondo caso la decisione è obbligata: sarebbe,
infatti, illegittima la revoca della licenza di esercizio, motivata con
la chiusura dei locali per più di otto giorni, senza darne
comunicazione all’ autorità di p.s., se il titolare dimostrasse di
essere stato nell’ impossibilità di comunicare, perché trattenuto
da uno sciopero in un’ isola lontana, non collegata da alcun
mezzo di comunicazione alla città in cui l’ esercizio era ubicato.
a) l’ accertamento dei presupposti e la discrezionalità
Dagli esempi fatti, si intuisce, quindi, che l’ accertamento dei
presupposti consiste quasi sempre in un fatto da valutare e non in
105
un fatto puramente da accertare, e che la stessa complessità
presenta la conseguenza, ossia la decisione da prendere. Per
comprendere quanto detto facciamo un altro esempio: le opere
eseguite in parziale difformità dalla concessione sono demolite a
cura e spese del responsabile dell’ abuso e, in difetto, dal comune
(a spese del responsabile); se la difformità è totale, e il
responsabile non demolisce, il comune adotta la diversa misura
dell’ acquisizione dell’ immobile al patrimonio del comune. Ora,
accertare che una difformità è parziale può essere un’ operazione
complicata, perché occorre anche accertare che la demolizione
della parte di costruzione difforme dalla concessione non
pregiudichi la parte conforme: se, infatti, c’è tale pregiudizio, in
alternativa alla demolizione va applicata una sanzione pecuniaria.
Ciò non solo conferma la funzione cruciale dell’ accertamento dei
presupposti di fatto, ma spiega anche perché il discorso sulla
discrezionalità investa entrambi i momenti (della premessa
normativa e della conseguenza decisionale).
b) la discrezionalità come potere di scelta
All’ accertamento dei presupposti indicati dalla legge segue la
decisione dell’ amministrazione, cioè, la scelta. Questa,
ovviamente, non può esserci nei casi in cui le risultanze dell’
istruttoria conducano ad una soluzione obbligata (si pensi, ad es.,
all’ ipotesi dell’ autorizzazione, il cui rilascio dipende
esclusivamente dall’ accertamento dei presupposti e dei requisiti
di legge).
Nella maggioranza dei casi, però, l’ istruttoria conclusa lascia
aperta una scelta ed è questa scelta che qualifica la
discrezionalità (discrezionalità amministrativa significa, appunto,
facoltà di scelta nell’ esercizio di un potere amministrativo). La
scelta, secondo la dottrina dominante in Italia, è collegata alla
pluralità degli interessi in gioco, pubblici e privati, di cui l’
amministrazione è tenuta a tener conto; proprio per tal motivo la
106
discrezionalità viene identificata con una valutazione comparativa
di interessi (ad es., il piano regolatore comunale tocca tutti gli
interessi che hanno un rapporto con il territorio: interessi
dominicali, interessi produttivi, interessi culturali, interessi
turistici; pertanto, il consiglio comunale articolerà la sua scelta a
seconda che voglia tutelare l’ uno più dell’ altro interesse).
La dottrina, concordando sostanzialmente sull’ idea della
discrezionalità come scelta, ha individuato l’ oggetto di questa
scelta nei seguenti elementi: l’ an (se adottare o no il
provvedimento), il quando (quando adottarlo), il quomodo (con
quali modalità, condizioni o clausole accessorie) e il quid (con
quale contenuto). Tale costruzione presenta, però, determinati
limiti.
Per quanto riguarda l’ an, infatti, occorre sottolineare che non è
frequente che l’ amministrazione sia libera di scegliere se
adottare o non il provvedimento (no lo è quando il procedimento
sia ad iniziativa di parte e l’ amministrazione abbia l’ obbligo di
avviarlo: si pensi, ad es., alla richiesta di autorizzazione); l’
alternativa è, invece, prospettabile nei procedimenti sanzionatori
o in quelli di annullamento d’ ufficio (ma si tratta di casi
sporadici).
Anche la discrezionalità sul quando non riveste molta rilevanza,
dal momento che la legge, di norma, impone all’ autorità di
concludere il procedimento entro un termine prefissato [tra l’
altro, occorre considerare che anche i giorni che precedono il
termine finale, tra i quali l’ amministrazione potrebbe scegliere
per provvedere (esercitando, quindi, una discrezionalità sul
quando), servono, in realtà, per l’ istruttoria, ossia per l’
accertamento dei presupposti dell’ atto].
Per quanto riguarda, invece, il quid (con quale contenuto adottare
il provvedimento), va detto che l’ autorità incontra, innanzitutto, il
limite della tipicità del provvedimento (ad es., essa non può
revocare la licenza di pubblico esercizio per sanzionare il rifiuto
107
del titolare di dare informazioni alla polizia). La discrezionalità
consente, però, l’ alternativa tra il rifiuto o il rilascio (quando è il
privato a chiedere il provvedimento); in realtà, è bene precisare
che il margine di scelta è molto più ampio, perché in questi casi l’
autorità può rilasciare il provvedimento, ma a determinate
condizioni (si pensi, ad es., all’ eliminazione di un’ elevazione dal
progetto di costruzione, per il quale il proprietario abbia chiesto il
permesso di costruire).
Giungiamo così, infine, alla discrezionalità nel quomodo (cioè, con
quali modalità, condizioni o clausole accessorie adottare il
provvedimento): infatti, come già detto in precedenza, il
provvedimento è suscettibile di clausole accessorie, purché,
ovviamente, non ne venga intaccata la tipicità (si pensi, ad es., ad
una concessione edilizia che venga rilasciata a condizione che il
proprietario provveda alla manutenzione ordinaria e straordinaria
della strada pubblica antistante).
c) la questione della discrezionalità tecnica
Soltanto se si accetta l’ idea che la discrezionalità attiene non
soltanto al momento della decisione, ma anche a quello della
valutazione del fatto, ha un senso la categoria della
discrezionalità tecnica: questa ricorre quando il giudizio che è
richiesto all’ autorità amministrativa deve essere espresso sulla
base di conoscenze specialistiche non giuridiche, ma scientifiche,
proprie della fisica, della chimica, dell’ estetica, dell’ archeologia,
etc. (si pensi, ad es., all’ individuazione dei giacimenti di gas a
marginalità economica ovvero all’ individuazione degli spartiti
musicali di pregio artistico o storico da sottoporre alla disciplina
dei beni culturali).
Ciò che unifica le ipotesi su citate non è solo la natura del criterio
che informa il giudizio (criterio mutuato da una disciplina
scientifica), ma è anche il margine di opinabilità che qualifica il
giudizio; ed è proprio in virtù di tale opinabilità che parte della
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dottrina ritiene che il giudice (ordinario e amministrativo) non
possa sindacare l’ atto di esercizio della discrezionalità tecnica: si
dice, cioè, che il giudice non può sostituire il suo giudizio a quello
che l’ amministrazione ha espresso sulla base di una scienza o di
una tecnica diversa dal diritto.
In realtà, i due criteri su menzionati non valgono ad inibire il
controllo del giudice: non l’ opinabilità, che può, tutt’ al più,
obbligare il giudice a far salva la valutazione dell’
amministrazione che si mantenga nei limiti di quel margine (di
opinabilità); non il carattere scientifico del giudizio, dal momento
che il giudice, grazie alla consulenza tecnica, è in grado di
controllare quel giudizio.
d) il sindacato sulla discrezionalità
Secondo la concezione originaria (risalente alla dottrina francese
della prima metà del XIX sec.), atto discrezionale era sinonimo di
atto insindacabile da parte del giudice. Oggi, invece, le cose
stanno in modo diverso, perché contro gli atti della P.A. è sempre
ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi
legittimi (art. 113 Cost.): ciò significa non solo che l’ atto
discrezionale è sindacabile, ma che esso è comunque suscettibile
di ledere un diritto o un interesse legittimo.
Ora, poiché la discrezionalità si risolve in una scelta dell’
amministrazione, occorre stabilire come possa conciliarsi questa
(relativa) libertà di scelta con la tutela di una situazione giuridica
soggettiva (diritto o interesse), che il titolare pretende lesa. In
realtà, partendo dal presupposto che il provvedimento è quello
concretamente adottato, ma avrebbe potuto essere diverso, il
giudice (amministrativo) ha focalizzato la sua attenzione non sul
contenuto dell’ atto, ma sul modo in cui l’ autorità è pervenuta
alla sua adozione: da qui è stata enucleata una serie di regole e di
princìpi sull’ elaborazione dei provvedimenti discrezionali (che
hanno finito per condizionare l’ intera attività amministrativa).
109
In questa prospettiva, va detto che l’ esigenza di
contemperamento tra la libertà di azione dell’ amministrazione e
la tutela del privato viene soddisfatta, innanzitutto, con il
procedimento amministrativo e con la partecipazione del privato
al procedimento.
L’ accertamento dei fatti e dei presupposti (che la legge richiede
per l’ esercizio del potere amministrativo) è rimesso all’
istruttoria, che rappresenta una fase necessaria del procedimento
amministrativo e le cui risultanze orientano la decisione dell’
autorità. Quest’ ultima deve essere preceduta da una valutazione
comparativa degli interessi in gioco; e l’ esame di questi interessi
è formalizzato nell’ istituto della conferenza di servizi.
Trova, poi, applicazione un principio di particolare importanza,
vale a dire: il principio di ragionevolezza. Ragionevole deve essere
non solo la disposizione di legge, ma anche il provvedimento che
vi dà attuazione; e la ragionevolezza di questo va valutata in
relazione alle circostanze di fatto, ai precedenti e al contesto
complessivo: ad es., che un maresciallo dei carabinieri si appropri
del cellulare di una persona coinvolta in un incidente stradale e
trasportata in ospedale è certamente grave; tuttavia, che per
quest’ unico episodio il maresciallo venga privato del grado,
senza che vi sia a suo carico un solo precedente disciplinare in
una carriera che dura da decenni, è certamente irragionevole.
§9. I poteri amministrativi
a) le tipologie
I poteri amministrativi possono essere classificati, innanzitutto, in
base al criterio dell’ interesse pubblico che ciascuno di essi è
chiamato a soddisfare: possiamo così distinguere un potere
urbanistico, un potere edilizio, un potere sanitario, un potere di
polizia, un potere di tutela ambientale, etc.
Ciascuno di questi poteri, a sua volta, si esplica in forme diverse:
110
ad es., il potere urbanistico viene svolto attraverso piani
urbanistici regionali, piani intercomunali, piani regolatori
comunali; il potere edilizio si esprime mediante permessi di
costruire, autorizzazioni edilizie, ordini di sospensione dei lavori; il
potere di polizia si esercita mediante ordinanze, licenze,
autorizzazioni, revoche, divieti, etc. Ora, poiché le forme, con le
quali vengono esercitati questi poteri, ricorrono più volte (ad es.,
l’ autorizzazione la ritroviamo sia nella materia sanitaria, sia nella
materia edilizia, che in quella di polizia) i poteri amministrativi
possono essere classificati anche in ragione di queste forme:
avremo così un potere autorizzativo, un potere di concessione, un
potere sanzionatorio, etc.
I poteri amministrativi possono essere classificati anche in
relazione al tipo di interesse contrapposto (l’ interesse del
soggetto privato): ci sono poteri che restringono la sfera del
privato (cd. poteri ablativi) e poteri che garantiscono al privato un
beneficio (cd. poteri ampliativi). In rapporto ai primi, il privato ha
un interesse oppositivo (cioè, l’ interesse a che il potere non
venga esercitato); rispetto ai secondi, invece, il privato ha un
interesse pretensivo [cioè, l’ interesse a che il potere venga
esercitato; in questa seconda ipotesi può accadere, però, che il
potere venga esercitato dall’ amministrazione in modo difforme
dall’ interesse del privato (si pensi, ad es., al caso in cui un’
autorizzazione venga negata, anziché concessa); e allora il
privato ne riceverà un danno, come se l’ amministrazione avesse
esercitato un potere ablativo].
I poteri amministrativi possono essere ancora qualificati in base al
tipo di precetto contenente gli atti che ne costituiscono esercizio:
precetti di portata generale (regolamenti, programmi, piani) o
precetti concreti.
I poteri amministrativi possono essere, infine, distinti in poteri
strumentali e poteri finali (i primi, ovviamente, sono attribuiti per
l’ esercizio dei secondi): tipico potere strumentale è il potere
111
organizzativo, del quale l’ amministrazione si serve per dotarsi di
strutture idonee allo svolgimento di poteri finali (ad es., un
comune istituisce una ripartizione urbanistica, assegnandovi un
dirigente e altro personale, reclutato per concorso, per poter
esercitare i compiti di pianificazione del territorio e di controllo
sull’ attività edilizia dei privati).
b) gli schemi di azione
L’ azione amministrativa si manifesta secondo alcuni schemi
fondamentali, il primo dei quali è l’ autorizzazione (denominata
anche licenza o nulla osta): essa presuppone un divieto, posto
dalla legge, di svolgere una determinata attività; ma il divieto può
essere rimosso dall’ autorizzazione, che viene rilasciata da un’
autorità amministrativa (è in questo senso che parte della
dottrina, in relazione all’ autorizzazione, parla anche di divieto
con riserva di permesso).
L’ autorizzazione si presenta, più precisamente, come un atto
(successivo), attraverso il quale l’ amministrazione rimuove un
limite all’ esercizio di un diritto (preesistente). Affermare, però,
che prima dell’ autorizzazione c’è un diritto, comporta un forte
vincolo a carico dell’ autorità amministrativa, la quale, infatti, può
negare l’ autorizzazione solo qualora ricorrano i presupposti che la
legge indica ai fini del diniego: ad es., il permesso di costruire può
essere negato solo qualora il richiedente non sia proprietario del
terreno o non ne abbia comunque la disponibilità ovvero se il
progetto non sia conforme alla normativa urbanistica.
Un secondo schema di azione è, poi, quello della dichiarazione di
inizio dell’ attività (D.I.A.): tale istituto, introdotto in materia
edilizia, è stato generalizzato dalla L. 241/90, come tecnica di
intervento pubblico alternativa all’ autorizzazione (occorre qui
specificare che, insieme al silenzio-assenso, la D.I.A. costituisce
una delle forme della liberalizzazione amministrativa, cioè della
eliminazione o riduzione degli ostacoli di ordine amministrativo
112
che si frappongono allo svolgimento di attività private). In tal
modo, il privato interessato, invece di chiedere l’ autorizzazione,
attenderne il rilascio e avviare l’ attività, può comunicare all’
autorità competente l’ intenzione di intraprendere l’ attività
subordinata all’ atto di consenso; decorsi 30 gg. da tale
comunicazione, egli può avviare l’ attività, dandone notizia all’
autorità. Questa, entro 30 gg. dalla seconda comunicazione,
verifica l’ esistenza dei presupposti e dei requisiti che legittimano
l’ attività e, in caso di accertamento negativo, può vietare al
privato di proseguire l’ attività ovvero ordinare la rimozione dei
suoi effetti [in altri termini, al controllo preventivo
(autorizzazione), viene sostituito un controllo successivo ed
eventuale, che può sfociare in un divieto].
Con una recente legge (d.l. 78/10, conv. in L. 122/10) la D.I.A. è
stata sostituita dalla SCIA (Segnalazione certificata di inizio di
attività). In particolare, secondo la formulazione dell’ art. 19 L.
241/90 (così come modificato dalla L. 122/10), l’ interessato,
anziché attendere 30 gg. dalla dichiarazione per avviare l’ attività,
può farlo subito; purché la segnalazione sia corredata dalle
dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dall’ atto di notorietà
necessari, nonché dalle attestazioni e asseverazioni di tecnici
abilitati.
Nel caso in cui accerti la carenza dei requisiti e presupposti
richiesti per avviare l’ attività (imprenditoriale, commerciale,
artigianale, etc.), l’ amministrazione competente può vietare la
prosecuzione dell’ attività stessa entro 60 gg. [ovvero, a
prescindere da tale termine, può esercitare i suoi poteri di
autotutela (annullamento e revoca), qualora ne ricorrano i
presupposti].
Un altro schema di azione è costituito dagli ordini e dai divieti
disposti dall’ amministrazione; questi, a differenza di quelli posti
dalla legge (ad es., divieto di uccidere o di invadere la proprietà
altrui) sono legati a circostanze di fatto, il cui accertamento è
113
devoluto all’ autorità amministrativa (gli ordini o i divieti
interferiscono sul comportamento dei destinatari, limitandone la
libertà di azione).
Un altro schema di azione è costituito, poi, dall’ abilitazione, la
quale produce lo stesso effetto dell’ autorizzazione: consentire,
cioè, al privato di fare ciò che, in assenza di una determinazione
positiva dell’ autorità, sarebbe vietato. Il presupposto dei due
istituti è, però, diverso, dal momento che l’ oggetto dell’
abilitazione non è (come accade per l’ autorizzazione) l’ esercizio
di una libertà o di un diritto, che astrattamente compete a tutti,
ma è lo svolgimento di un’ attività che richiede una qualificazione
tecnica che il privato acquista con lo studio e con l’ esperienza e
che viene verificata attraverso prove ed esami: in tal senso, l’
abilitazione è un atto di qualificazione giuridica (ad es., non basta
la laurea in legge, ma occorre superare l’ esame di abilitazione ad
avvocato per esercitare la relativa professione; ed una volta
conseguita l’ abilitazione è necessaria l’ iscrizione all’ albo
professionale).
Un altro schema di azione è dato dalla concessione, la quale
rappresenta un beneficio che l’ amministrazione attribuisce al
privato, il quale, ricevendolo, assume la posizione di privilegiato
(rispetto ad altri), perché il beneficio non può essere conferito a
tutti.
È bene precisare che la concessione si distingue dall’
autorizzazione, perché mentre la seconda rimuove un limite all’
esercizio di un diritto (preesistente), la prima conferisce un diritto
(nuovo).
Oggetto di concessione sono, tradizionalmente, i beni demaniali,
nel momento in cui una porzione di essi viene sottratta all’ uso
pubblico per essere destinata all’ uso esclusivo di un soggetto, sul
presupposto che quest’ uso valorizzi il bene (si pensi, ad es., alla
spiaggia, porzione del demanio marittimo, che viene valorizzata
dalla concessione al privato, che vi realizza uno stabilimento
114
balneare).
L’ ambito della concessione è oggi stato esteso anche ai servizi e
alle attività, delle quali il legislatore limita la possibilità di
svolgimento ad un numero predeterminato di soggetti: abbiamo
così, concessioni di servizi pubblici, concessioni di costruzione e
gestione di opere pubbliche.
Rientrano, infine, tra le concessioni: le sovvenzioni, ossia i
contributi pecuniari previsti a favore dei privati e soprattutto di
imprese.
Un altro schema di azione è costituito dai vincoli. I beni privati
possono essere tolti al proprietario con l’ espropriazione o ne può
essere sottratto il possesso con l’ occupazione o la requisizione;
tali beni, però, possono anche essere lasciati nella disponibilità
del titolare ed essere sottoposti a vincoli. Tali vincoli possono
essere preordinati ad un futuro trasferimento del bene ai pubblici
poteri (si pensi, ad es., ai vincoli espropriativi stabiliti dal piano
regolatore comunale, in vista dell’ espropriazione per realizzare
impianti pubblici); i vincoli, però, possono essere stabiliti anche
per assicurare la conservazione dei caratteri del bene (tali sono,
ad es., i vincoli paesaggistici): in questo secondo caso, i vincoli
comportano l’ assoggettamento del bene ad un determinato
regime giuridico: ad es., la dichiarazione di interesse storico o
artistico comporta limitazioni sia al potere di godimento del bene
(divieto di modificare il bene senza autorizzazione), sia al potere
di disposizione dello stesso (divieto di esportazione senza
autorizzazione). Sotto questo profilo, anche i vincoli sono una
specie del genere atti di qualificazione giuridica.
Altro schema di azione è costituito dai certificati rilasciati dalle
amministrazioni: si tratta, in particolare, di documenti che hanno
una funzione di ricognizione e riproduzione di stati, qualità
personali e fatti contenuti in albi, elenchi o registri pubblici in
possesso dell’ amministrazione (si pensi, ad es., al certificato di
nascita, che riproduce il contenuto degli atti di stato civile). In
115
passato, la certificazione è stata ritenuta una funzione propria dei
pubblici poteri; la L. 241/90 ha introdotto, invece, il principio dell’
autocertificazione, in virtù del quale, qualora l’ interessato dichiari
che fatti, qualità e stati sono attestati in documenti già in
possesso dell’ amministrazione, il responsabile del procedimento
provvede d’ ufficio alla loro acquisizione o alla copia degli stessi.
All’ autocertificazione, la legislazione ha, poi, affiancato la
certificazione privata: vi sono oggi, infatti, certificatori qualificati e
accreditati, ossia soggetti privati abilitati a svolgere attività di
certificazione, in grado di dimostrare l’ affidabilità organizzativa,
tecnica e finanziaria necessaria [si pensi, ad es., alle Società
organismi di attestazione (SOA), le quali sono chiamate a
certificare la qualità delle imprese che concorrono all’
aggiudicazione di appalti pubblici].
Ulteriore schema di azione è costituito dai piani e programmi. In
particolare, il piano prefigura azioni future, cercando di orientarle
o vincolarle secondo un criterio di razionalità [ad es., il piano
regolatore comunale disciplina gli usi del territorio, destinando
quest’ ultimo in parte alla conservazione (centro storico), in parte
alla trasformazione (zone produttive), in parte ad usi privati e in
parte ad impianti pubblici].
Un’ ultima categoria di atti è costituita dalle sanzioni
amministrative. Invero, l’ ordinamento, al fine di assicurare l’
osservanza dei suoi precetti fondamentali (volti, cioè, a garantire
la convivenza tra le persone) li munisce di sanzioni penali:
configura la violazione del precetto come reato, sanzionato da
una pena (inflitta dal giudice). Quando, però, il precetto è meno
essenziale (si pensi, ad es., alle regole del traffico), l’ ordinamento
configura la trasgressione come illecito amministrativo e, come
tale, punito con una sanzione amministrativa, applicata da un’
autorità amministrativa (ad es., il prefetto, il sindaco, etc.).
116
Sezione II
Il procedimento ed il provvedimento
§1. Premessa
I poteri pubblici si esplicano a mezzo di procedimenti; e ciò per
varie ragioni. Innanzitutto, è necessario sottolineare che nei
riguardi del potere amministrativo ricorrono particolari esigenze di
tutela del privato: esigenze presenti sia quando il potere
amministrativo è destinato a svolgersi mediante provvedimenti
restrittivi (espropriazioni, occupazioni, sanzioni, etc.), nei
confronti dei quali il privato ha interesse a limitare il danno o ad
escluderlo del tutto, sia quando il potere dovrebbe sfociare in
provvedimenti ampliativi (autorizzazione, concessione,
sovvenzione, etc.), nei confronti dei quali il privato ha interesse
ad ottenere il beneficio.
Ma vi è anche un’ altra ragione che consiglia di strutturare l’
azione amministrativa nella forma del procedimento: come
sappiamo, il provvedimento richiede quasi sempre una
comparazione di interessi (pubblici e privati) e, quindi,
presuppone che, ove i singoli interessi pubblici siano affidati alle
cure di uffici diversi, questi ultimi siano posti nella condizione di
far sentire la loro voce prima che la decisione venga presa.
Detto ciò, occorre adesso identificare la forma che deve assumere
il procedimento. Al riguardo, è la nostra Costituzione a proporci
un’ interessante lettura: si ritiene, infatti, che l’ art. 97 Cost.,
qualificando l’ amministrazione come apparato imparziale,
suggerisca un’ assonanza tra i criteri che ispirano l’ azione
amministrativa e i criteri che presiedono all’ amministrazione
della giustizia; in altri termini, si vuol dire che se il giudice, terzo
ed imparziale, esercita il suo potere attraverso il giusto processo
(art. 111 Cost.), anche l’ amministrazione, per essere imparziale,
deve agire nella forma del procedimento, ossia attraverso una
117
sequenza di atti che evoca, in qualche modo, la sequenza degli
atti del processo.
§2. La legge sul procedimento amministrativo (L. 241/90)
Sino al 1990 non c’è stata in Italia una legge generale sul
procedimento amministrativo (c’erano soltanto leggi su singoli
procedimenti, quali, ad es., il procedimento di espropriazione per
pubblica utilità del 1865; il procedimento di pianificazione
urbanistica del 1942; il procedimento per l’ individuazione delle
cd. bellezze d’ insieme del 1939, etc.).
Da tali leggi di settore la dottrina e la giurisprudenza
(costituzionale e amministrativa) hanno ricavato dei princìpi
comuni, quali, ad es.: l’ obbligo di contestazione degli addebiti nei
procedimenti disciplinari e sanzionatori; l’ obbligo di motivazione
dei provvedimenti restrittivi della sfera giuridica del destinatario;
il principio della necessaria precedenza del parere rispetto al
provvedimento di amministrazione attiva, etc.).
Con la L. 241/90 sono state, poi, fatte due operazioni: da un lato,
sono stati generalizzati alcuni princìpi elaborati dalla
giurisprudenza; dall’ altro, il legislatore si è fatto carico di alcuni
problemi insorti con la stessa evoluzione del diritto
amministrativo. È necessario sottolineare, infatti, che la
legislazione amministrativa, a partire dall’ inizio del XX secolo, è
stata caratterizzata da una crescita costante del numero degli
interessi pubblici (dovuta al riconoscimento normativo di interessi
collettivi); e a tale crescita ha corrisposto l’ istituzione di un
centro di interessi amministrativi. Il coordinamento tra questi
interessi pubblici con gli interessi collettivi e privati sono stati
affidati al procedimento, il quale, in tal modo, è diventato il luogo
nel quale tutti questi interessi fanno oggi sentire la loro voce.
§3. Il responsabile del procedimento
118
Allo scopo di cucire le varie fasi del procedimento, la L. 241/90 ha
istituito la figura del responsabile del procedimento (che viene
individuato dal dirigente dell’ unità organizzativa cui il
procedimento fa capo; e, fino a quando non compie tale
operazione, è lui il responsabile).
Il primo atto che il responsabile deve porre in essere è
comunicare agli interessati l’ avvio del procedimento; tale atto
deve essere accompagnato dall’ indicazione del proprio
nominativo, in modo che l’ interessato conosca l’ identità della
persona alla quale rivolgersi per ricevere informazioni o per
sollecitare la conclusione del procedimento.
Il responsabile del procedimento dirige la fase istruttoria,
ponendo in essere gli atti di sua competenza o sollecitando l’
adozione degli accertamenti o delle ispezioni degli organi tecnici;
indìce le conferenze di servizi o ne propone l’ indizione; adotta,
ove abbia competenza, il provvedimento finale ovvero trasmette
gli atti all’ organo competente perché questi provveda; cura le
comunicazioni, le pubblicazioni e le notificazioni previste dalla
legge; è responsabile dell’ osservanza del termine stabilito per la
conclusione del procedimento (non può, però, rispondere delle
omissioni altrui: ad es., della mancata adozione del
provvedimento da parte dell’ organo competente).
§4. Le fasi del procedimento
a) l’ iniziativa
La prima fase del procedimento amministrativo è la fase di
iniziativa: questa può essere di parte, come nel processo (nel
processo civile, ad es., è l’ attore che la esercita; nel processo
penale è il pubblico ministero; nel processo amministrativo il
ricorrente; nel procedimento amministrativo è colui che fa una
richiesta di autorizzazione o di sovvenzione, etc.).
L’ iniziativa, però, può anche essere d’ ufficio, ossia può partire
119
dalla stessa amministrazione che dovrà provvedere (si pensi, ad
es., alle pianificazioni urbanistiche e ambientali, ai procedimenti
sanzionatori, ai procedimenti espropriativi, etc.).
Un atto fondamentale della fase di iniziativa è costituito dalla
comunicazione di avvio del procedimento; questa va fatta: ai
futuri destinatari del provvedimento finale, a coloro che, per
legge, devono intervenire nel procedimento e a coloro i quali
potrebbero ricevere un pregiudizio dall’ adozione del
provvedimento.
La comunicazione (dalla quale si può prescindere nei casi di
urgenza: ad es., nel caso in cui il responsabile dell’ ufficio tecnico
comunale ordini l’ abbattimento di una costruzione pericolante)
deve indicare: l’ amministrazione competente, l’ oggetto del
procedimento, l’ ufficio responsabile, la persona del responsabile
e la data prestabilita per la conclusione del procedimento.
b) l’ istruttoria
La decisione (cioè, il provvedimento amministrativo) deve essere
preceduta da una fase istruttoria, nella quale vanno accertati i
presupposti di fatto che, insieme alle concorrenti ragioni
giuridiche, giustificano la decisione: ad es., l’ ordine emesso dal
comune di demolire opere edilizie realizzate in parziale difformità
del permesso di costruire richiede un confronto tra la situazione di
fatto, posta in essere dal costruttore, ed il progetto che è stato
rilasciato (una verifica del genere potrebbe approdare alla
conclusione che nessuna difformità esiste o, all’ opposto, che la
difformità è totale, sicché l’ intero manufatto va rimosso, e non
soltanto parte di esso).
L’ istruttoria amministrativa, a differenza dell’ istruttoria del
processo civile o del processo penale, è retta dal principio
inquisitorio: ciò significa che non è sulle parti private che grava l’
onere della prova, ma è l’ amministrazione che deve verificare, d’
ufficio, l’ esistenza dei presupposti del provvedimento (anche se,
120
a tal fine, può giovarsi dell’ apporto degli interessati).
Il protagonista dell’ istruttoria è il responsabile del procedimento:
è lui, infatti, che valuta le condizioni di ammissibilità della
domanda, i requisiti di legittimazione e i presupposti rilevanti per
l’ emanazione del provvedimento; è lui che deve accertare, d’
ufficio, i fatti, adottando le misure necessarie (collaborando con
gli interessati, ai quali, ad es., può chiedere il rilascio di
dichiarazioni), disponendo accertamenti tecnici e ispezioni ed
ordinando l’ esibizione di documenti.
c) i pareri e le valutazioni tecniche
Tra gli atti tipici della fase istruttoria ci sono i pareri e le
valutazioni tecniche. Nella maggior parte dei casi, infatti, la legge
ritiene opportuno che la decisione amministrativa sia preceduta
da un parere di un organo tecnico, volto ad orientare l’ autorità
chiamata a provvedere (ad es., la domanda di permesso di
costruire è sottoposta al parare giuridico-tecnico della
commissione edilizia comunale).
Quando il contenuto è esclusivamente tecnico (ad es., sanitario,
chimico, etc.) si parla, invece, di valutazioni tecniche, le quali
hanno la stessa funzione dei pareri, ma in questo caso la capacità
di giudicare da parte dell’ organo di amministrazione attiva è
nulla.
Il parere e la valutazione tecnica devono essere resi,
rispettivamente, entro 45 e 90 gg. dal ricevimento della richiesta
(i termini possono essere interrotti una sola volta, attraverso una
richiesta istruttoria); scaduto il termine, senza che il parere sia
stato comunicato (45 gg.), l’ organo di amministrazione attiva può
procedere, prescindendo dal parere stesso: viene meno, cioè, l’
obbligo di attendere il parere ai fini della decisione.
121
Se, invece, è scaduto infruttuosamente il termine assegnato all’
ufficio chiamato ad esprimere la valutazione tecnica (90 gg.), l’
autorità procedente dovrà rivolgersi ad un altro organo (o ufficio),
allo scopo di acquisire tale valutazione.
d) la distribuzione degli incombenti istruttori
Il responsabile del procedimento (che in questa fase rappresenta
l’ amministrazione) accerta, d’ ufficio, i fatti, disponendo il
compimento degli atti all’ uopo necessari; ma a questo
accertamento può concorrere anche il privato, rendendo, ad es.,
le dichiarazioni che il responsabile del procedimento gli chiede di
rilasciare o presentando memorie scritte e documenti (ciò accade
nei procedimenti ad iniziativa di parte: così, ad es., la domanda di
permesso di costruire deve essere corredata da un progetto, da
un certificato di destinazione urbanistica e dai documenti
comprovanti la proprietà).
È necessario sottolineare, però, che la normativa sul
procedimento amministrativo ha trasferito sull’ amministrazione
una parte degli oneri di documentazione che prima gravavano sul
privato (si tratta, in particolare, di documenti che attestano atti,
fatti, qualità e stati soggettivi, quali, ad es., la residenza, la
condizione di invalido civile, la qualifica di coltivatore diretto, che
possono essere acquisiti d’ ufficio, se necessari a fini istruttori, e
se sono già in possesso dell’ amministrazione).
I fatti rilevanti nel procedimento amministrativo corrispondono ai
fatti rilevanti nel processo civile, ex art. 2697 c.c.: chi vuol far
valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne
costituiscono il fondamento.
A differenza del processo civile, però, nel procedimento
amministrativo non vige una regola così rigorosa circa l’ onere
della prova, perché, come detto, è l’ amministrazione che, di
regola, deve accertare, d’ ufficio, i fatti.
Inoltre, mentre nel processo (civile, penale e amministrativo) i
122
mezzi istruttori sono soltanto quelli previsti dalle leggi processuali
(cd. principio di tipicità), nel procedimento amministrativo il
responsabile può adottare ogni misura per l’ adeguato
svolgimento dell’ istruttoria.
A questo punto, dobbiamo chiederci fino a che punto può
spingersi l’ istruttoria; per rispondere a tale quesito può essere
utilizzato il metodo suggerito dal Herbert Simon, in virtù del quale
si afferma che l’ autorità amministrativa deve cercare di
raggiungere un equilibrio tra la quantità di informazioni (cd.
completezza dell’ istruttoria) e le esigenze di una decisione
(esigenze consacrate a livello costituzionale nel principio del buon
andamento dell’ amministrazione): espressione di questo canone
è la regola enunciata nell’ art. 1, co. 2 L. 241/90, ai sensi del
quale la pubblica amministrazione non può aggravare il
procedimento (ad es., ripetendo indagini già fatte o acquisendo
pareri non obbligatori), se non per motivate esigenze.
e) la conferenza di servizi
Il procedimento amministrativo può coinvolgere non solo un
interesse privato e un interesse pubblico, ma anche una pluralità
di interessi pubblici (si pensi, ad es., al procedimento di
pianificazione urbanistica, che tocca tutti gli interessi pubblici che
gravitano sul territorio: ambientali, produttivi, culturali, etc.). In
questi casi, l’ amministrazione competente a decidere è tenuta ad
acquisire intese, concerti, nulla osta o altri atti di assenso di altre
amministrazioni pubbliche (in altri termini, essa non può decidere
autonomamente).
Proprio a tale scopo, la legge sul procedimento ha introdotto uno
strumento di semplificazione: la conferenza di servizi (L. 241/90;
d.l. 78/2010, conv. in L. 122/2010). La legge, in particolare,
123
distingue i casi in cui la conferenza è facoltativa (può essere
indetta) da quelli nei quali è, invece, obbligatoria (deve essere
indetta); individua, inoltre, chi è competente a convocarla (di
solito l’ amministrazione procedente e, per essa, il responsabile
del procedimento); e attribuisce al privato interessato la facoltà di
chiederne la convocazione.
Le regole comuni possono essere così sintetizzate:
• una volta indetta la conferenza, la prima riunione deve essere
tenuta nei 15 gg. successivi (o nei 30 gg. successivi, qualora il
procedimento sia particolarmente complesso);
• i lavori della conferenza non possono durare più di 90 gg.
(prorogabili fino a 90 gg., nel caso in cui venga richiesta la
valutazione di impatto ambientale);
• alla conferenza sono convocati coloro che propongono il
progetto dedotto in conferenza;
• conclusa la conferenza (o scaduto il termine), l’ amministrazione
procedente adotta la determinazione motivata di conclusione del
procedimento;
• il provvedimento finale (che deve conformarsi alla
determinazione di cui sopra) sostituisce, a tutti gli effetti, le
autorizzazioni, le concessioni, i nulla osta o gli altri atti di assenso
di competenza delle amministrazioni coinvolte nella conferenza;
• anche se i lavori della conferenza sono retti dal principio
maggioritario, i partecipanti non possono limitarsi ad esprimere
un voto (un sì o un no); infatti, il dissenso (ma anche il consenso)
di una o più amministrazioni coinvolte, deve essere motivato e
manifestato nella conferenza di servizi (non al di fuori di essa) e
deve recare anche le specifiche indicazioni delle modifiche
progettuali che l’ organo partecipante alla conferenza ritiene
necessarie affinché possa rilasciare il suo assenso;
• una deroga al principio maggioritario è prevista, però, qualora il
motivato dissenso provenga da un’ amministrazione preposta alla
tutela ambientale, paesaggistico-territoriale ovvero alla tutela del
124
patrimonio storico-artistico, della salute e della pubblica
incolumità; in questi casi, in ragione della rilevanza degli interessi
in gioco, la competenza viene trasferita all’ organo politico: e,
cioè, al Consiglio dei ministri, se il dissenso è tra amministrazioni
dello Stato; alla conferenza Stato-regioni, se il dissenso è tra Stato
e regione; alla conferenza unificata, se il dissenso è tra regione ed
ente locale (l’ organo incaricato di risolvere il conflitto è chiamato
a decidere entro 30 gg., prorogabili fino a 60 gg. quando l’
istruttoria è particolarmente complessa).
f) la partecipazione del privato
Il procedimento è il luogo nel quale il privato fa sentire la sua
voce non solo a tutela del suo interesse ad impedire una misura
amministrativa a lui sfavorevole ovvero del suo interesse a
conseguire un provvedimento favorevole, ma anche in funzione di
una decisione amministrativa giusta (che tenga conto, cioè, dell’
interesse del privato).
La prima esigenza che deve essere soddisfatta è quella di
informare il privato interessato del fatto che è stato avviato un
procedimento che lo riguarda [e ciò avviene mediante la
comunicazione dell’ avvio del procedimento (questa esigenza
risulta particolarmente avvertita nei procedimenti ad iniziativa d’
ufficio: si pensi, ad es., ad un provvedimento espropriativo o
sanzionatorio)]. Ma, in realtà, anche nei procedimenti ad iniziativa
di parte (ad es., richiesta di autorizzazione, concessione, etc.) può
prospettarsi la necessità di una informazione nei riguardi di coloro
che potrebbero ricevere un danno (diversi dal privato
interessato). Grazie alla comunicazione dell’ avvio del
procedimento l’ interessato può intervenire nel procedimento,
prendere visione degli atti e presentare memorie e documenti; è
necessario sottolineare, però, che possono intervenire nel
procedimento anche: l’ interessato che non abbia avuto
comunicazione dell’ avvio del procedimento (ma ne abbia
125
appurato l’ esistenza aliunde), i soggetti che dal provvedimento
potrebbero ricevere un danno ed infine i portatori di interessi
diffusi, costituiti in associazioni (ad es., le associazioni
ambientalistiche).
Le memorie e i documenti depositati obbligano l’ amministrazione
a valutarli e a prendere posizione su di essi; fatto ciò, qualora
essa ritenga di rigettare le argomentazioni e le richieste
contenute nelle memorie e di non tener conto dei documenti
presentati, deve enunciare le ragioni del suo convincimento.
Prima che venga adottato un provvedimento che rigetta un’
istanza di parte, il responsabile del procedimento comunica all’
interessato i motivi che ostano all’ accoglimento dell’ istanza; in
questo caso, l’ interessato, nei 10 gg. successivi, può presentare
per iscritto le sue osservazioni e depositare eventuali documenti.
Se non accoglie le osservazioni dell’ interessato l’
amministrazione ne deve dar ragione nella motivazione del
provvedimento finale.
g) l’ accesso ai documenti
Perché possa far valere le sue ragioni nel procedimento
amministrativo, il privato non solo deve essere informato della
pendenza del procedimento e del suo oggetto, ma deve anche
conoscere i documenti sulla base dei quali l’ amministrazione
agisce. Questa conoscenza, in passato, era resa difficile a causa
della sussistenza del segreto d’ ufficio, al quale era tenuto il
pubblico impiegato, in virtù dell’ art. 15 D.P.R. 3/57 (statuto degli
impiegati civili dello Stato); il principio di segretezza, però, è stato
sostituito oggi dal principio di trasparenza, enunciato dall’ art. 1 L.
241/90.
In questa prospettiva, legittimati all’ accesso sono i privati, inclusi
i portatori di interessi pubblici o diffusi (ad es., le organizzazioni
sindacali) che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
126
collegata al documento.
Oggetto dell’ accesso sono i documenti amministrativi (anche
interni e non relativi ad uno specifico provvedimento),
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della
disciplina sostanziale: in altri termini, chi ha un interesse può
accedere anche ad una lettera di intenti, ad una proposta
contrattuale fatta dalla P.A. o ad un contratto di lavoro.
Tra i documenti ai quali si può accedere vi sono, poi, anche quelli
che non riguardano uno specifico procedimento: l’ interessato,
infatti, potrebbe avere interesse ad acquisire copia di un
provvedimento, in relazione ad un processo civile, penale o
amministrativo (ad es., la certificazione di una missione in un
certo luogo, compiuta da un impiegato, da utilizzare come alibi in
un processo penale a suo carico).
Il diritto di accesso può essere esercitato mediante il semplice
esame del documento ovvero con l’ estrazione di copia (copia può
anche essere la riproduzione di un filmato o di una registrazione
fonografica).
È necessario sottolineare, però, che il diritto di accesso è escluso
in determinati casi stabiliti dalla legge (art. 24, co. 1 L. 241/90): si
tratta, in particolare, dei documenti coperti dal segreto di Stato e
di quelli che contengono informazioni di carattere psico-
attitudinale relative ai terzi.
È poi prevista la facoltà del Governo di sottrarre all’ accesso,
mediante regolamento, alcune specie di documenti (art. 24, co. 6
L. 241/90): si tratta di documenti, la cui divulgazione possa
produrre una lesione alla sicurezza e alla difesa nazionale ovvero
possa pregiudicare la formazione e l’ attuazione della politica
monetaria e valutaria ovvero, ancora, nuocere alle ragioni di
ordine pubblico, ostacolare la lotta alla criminalità o pregiudicare
l’ attività di polizia giudiziaria.
Il diritto di accesso può anche confliggere con la tutela e la
riservatezza altrui: sono, pertanto, esclusi dall’ accesso i
127
documenti che riguardano la vita privata o la riservatezza di
persone (fisiche e giuridiche), gruppi, imprese e associazioni; ciò
significa, quindi, che il diritto alla riservatezza del terzo prevale
sul diritto di accesso (quando, però, l’ accesso ai documenti è
necessario al privato per curare o per difendere i propri interessi
giuridici, è il diritto di accesso che deve essere tutelato ed avere
preminenza).
L’ amministrazione può, in ogni caso, rifiutare l’ accesso ai
documenti quando l’ istante non è legittimato o la sua domanda
non è motivata ovvero ancora quando il documento rientra tra
quelli esclusi dall’ accesso; contro il rifiuto dell’ amministrazione,
tuttavia, l’ interessato può proporre ricorso al Tribunale
amministrativo regionale (Tar) entro 30 gg. (se accoglie il ricorso,
che deve essere deciso in camera di consiglio entro 30 gg. dalla
scadenza del termine per il deposito della richiesta, il Tar ordina
all’ amministrazione l’ esibizione dei documenti richiesti).
Per quel che riguarda, infine, la natura che il diritto di accesso
assume, parte della giurisprudenza nega che si tratti di un diritto
soggettivo, qualificando l’ istituto come interesse legittimo; altra
parte della giurisprudenza, invece, ritiene che ci si trovi in
presenza di un vero e proprio diritto soggettivo (e ciò troverebbe
conferma nel dato letterale, ex art. 22 L. 241/90, che qualifica,
infatti, l’ accesso come diritto).
§5. La conclusione del procedimento
a) il termine
In virtù del principio costituzionale del buon andamento dell’
amministrazione, una volta esaurita l’ istruttoria, l’
amministrazione ha l’ obbligo di provvedere con un
provvedimento espresso, entro un termine prestabilito.
Analizziamo le implicazioni di questo enunciato.
Innanzitutto, va detto che l’ obbligo di provvedere sussiste ogni
128
qual volta l’ amministrazione ha l’ obbligo di procedere; non
sempre, però, l’ obbligo di procedere (e, quindi, di provvedere)
sussiste: sussiste, ad es., quando è il privato a chiedere il rilascio
di un provvedimento tipico (un’ autorizzazione, una concessione,
una dispensa, etc.); non sussiste, invece, quando il privato
chiede, ad es., l’ annullamento di un provvedimento.
Il procedimento, come detto, deve concludersi entro un termine
prestabilito (e in ciò il procedimento amministrativo si distingue
dal processo, nel quale manca, invece, un termine prestabilito per
la sua conclusione).
In particolare, per ciascun procedimento gestito dalle
amministrazioni statali il termine è stabilito da un regolamento
governativo; per quel che riguarda, invece, gli enti pubblici
nazionali, ciascuno di essi adotta regolamenti o atti amministrativi
generali, in conformità ai rispettivi ordinamenti; per quanto
riguarda, infine, le regioni e gli enti locali, questi regolano la
materia (anche quella dei termini) nel rispetto delle garanzie del
cittadino nei riguardi dell’ azione amministrativa.
Qualora, però, l’ amministrazione procedente abbia omesso di
provvedere a fissare il termine, il procedimento deve concludersi
entro 90 gg. dal suo avvio.
Il procedimento deve essere concluso con un provvedimento
espresso: ciò significa, da un lato, che l’ amministrazione non può
trincerarsi dietro il silenzio e, dall’ altro lato, che il provvedimento
amministrativo (dal momento che deve essere motivato) deve
avere una forma scritta.
b) il decorso infruttuoso del termine
Anche se è obbligata a provvedere, non sempre l’
amministrazione porta a termine il procedimento nel modo
prescritto: spesso, infatti, il termine scade senza che nessun
provvedimento venga adottato. Allo scopo di evitare ciò, la
giurisprudenza e la legislazione hanno introdotto determinate
129
misure volte a contrastare l’ inerzia dell’ amministrazione; tali
misure possono essere così classificate:
• quando l’ atto omesso è fortemente restrittivo della sfera
giuridica del privato (ad es., un’ espropriazione o una sanzione
disciplinare), la legge fa discendere, dal decorso infruttuoso del
termine per la conclusione del procedimento, l’ esaurimento del
potere dell’ amministrazione di provvedere (ad es., il decreto di
esproprio emesso dopo la scadenza del termine stabilito nella
dichiarazione di pubblica utilità è nullo);
• nei procedimenti ad istanza di parte il silenzio dell’
amministrazione (protratto oltre il termine stabilito per la
conclusione del procedimento) equivale, invece, ad accoglimento
della domanda; tale regola, però, conosce molte eccezioni: il
silenzio-assenso, ad es., non si applica agli atti e ai procedimenti
riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l’ ambiente, la
difesa nazionale, la pubblica sicurezza e la salute pubblica.
È bene precisare, comunque, che anche se è decorso il termine
(e, quindi, si è formato il silenzio-assenso) l’ amministrazione
competente, in funzione di autotutela, può annullare o revocare l’
atto di assenso tacito, negando, con ritardo, quel provvedimento
che il privato aveva ottenuto;
• nei procedimenti ad istanza del privato, in cui l’
amministrazione rimane inerte oltre il termine per la conclusione
del procedimento e in cui non trova applicazione l’ istituto del
silenzio-assenso, opera il principio civilistico, in base al quale chi
tace non dice né si né no: in tal caso, il silenzio dell’
amministrazione viene equiparato ad un provvedimento di rifiuto
(o di diniego), avverso il quale l’ interessato, entro 1 anno, può
proporre impugnazione dinanzi al giudice amministrativo.
§6. Il provvedimento amministrativo
a) la nozione
130
Il procedimento confluisce verso un atto conclusivo che la L.
241/90 qualifica come provvedimento amministrativo (o
provvedimento finale); è bene precisare, però, che la nozione di
provvedimento amministrativo non va confusa con quella di atto
amministrativo: mentre, infatti, gli atti amministrativi sono quelli
che precedono o seguono il provvedimento (in funzione
preparatoria o servente), il provvedimento coincide, invece, con la
decisione (cioè, con la scelta dell’ amministrazione competente).
In passato, il provvedimento amministrativo è stato definito come
la dichiarazione di volontà, di conoscenza, di giudizio o di
desiderio espressa da un’ autorità amministrativa; questa
nozione, però, da un lato, risultava troppo ampia (perché finiva
per ricomprendere anche atti amministrativi che non erano
provvedimenti) e, dall’ altro, enfatizzava un profilo (quello
psicologico) che veniva in scarso rilievo sia ai fini del regime
giuridico, sia ai fini della validità-invalidità del provvedimento.
L’ aspetto importante da prendere in considerazione, invece, è
che quel provvedimento proviene da un’ autorità amministrativa,
anzi costituisce esercizio di una potestà amministrativa: in tal
senso, appare appropriata la definizione proposta dal Giannini,
secondo il quale il provvedimento amministrativo è l’ atto con cui
l’ autorità amministrativa dispone in un caso concreto, in ordine
all’ interesse pubblico che è affidato alla sua tutela, esercitando
una potestà amministrativa e incidendo su situazioni giuridiche di
privati.
b) gli elementi del provvedimento
Analizziamo i singoli elementi della definizione:
• il provvedimento amministrativo proviene da un’ autorità
amministrativa; ciò significa che il provvedimento viene
qualificato, innanzitutto, dal soggetto [sicché un atto di identico
contenuto, ma adottato da un privato o da un soggetto pubblico
che non fa parte dell’ amministrazione (ad es., una commissione
131
parlamentare) non è un provvedimento amministrativo (in questa
prospettiva, provvedimento amministrativo è, ad es., l’ ordinanza
con la quale il sindaco vieta la circolazione delle auto in una
strada comunale durante certe ore della giornata; non lo è,
invece, la disposizione con la quale il proprietario di una riserva di
caccia limita la circolazione degli autoveicoli)];
• perché un atto sia qualificato come provvedimento
amministrativo non basta che esso provenga da un’ autorità
amministrativa, ma occorre anche che sia emanato nell’ esercizio
di una potestà amministrativa [nell’ ambito, cioè, del diritto
pubblico: in quest’ ottica, non sono, ad es., provvedimenti
amministrativi i contratti delle P.A., ovvero gli atti precontrattuali
(offerta, accettazione, controproposta) ovvero ancora gli atti di
esecuzione di un contratto; è, invece, un provvedimento
amministrativo la deliberazione a contrattare, ossia l’ atto con il
quale l’ ente pubblico individua il fine del contratto, ne fissa il
contenuto fondamentale (oggetto, forma e clausole essenziali) e
stabilisce le modalità di scelta del contraente];
• il provvedimento si concreta in un disporre (o provvedere) in un
caso concreto in ordine ad un interesse pubblico.
Più precisamente, l’ autorità amministrativa può provvedere con
una disposizione (ad es., quando ordina la demolizione di una
costruzione abusiva), con una decisione (ad es., quando assegna
ad una delle ditte richiedenti, escludendo le altre, una
concessione di autolinea), con una dichiarazione (ad es., quando
dichiara un immobile di interesse paesaggistico) ovvero con un
giudizio (si pensi, ad es., alla commissione di laurea che assegna
il voto);
• il provvedere dell’ atto amministrativo si contrappone al
prevedere che è proprio della legge: la legge, ad es., prevede che,
per costruire un edificio, il proprietario dell’ area deve essere
autorizzato dal sindaco; il sindaco del comune x, in presenza di
una domanda del proprietario y, provvede ad autorizzarlo (o a
132
negargli l’ autorizzazione). Questa contrapposizione mette in luce
un aspetto fondamentale del provvedimento amministrativo, vale
a dire: il suo legame con un interesse pubblico, che la legge
individua in astratto, ma che l’ autorità amministrativa tutela in
concreto (nell’ esempio precedente va notato, infatti, che il
sindaco non stabilisce una regola, ma la applica nel caso
specifico);
• un altro aspetto della definizione di provvedimento
amministrativo riguarda, poi, la sua efficacia verso l’ esterno:
questo tratto vale a distinguere i provvedimenti amministrativi
dagli atti amministrativi che non sono provvedimenti (ad es., la
proposta del sindaco di localizzare un edificio scolastico in una
certa area spiega effetti nei confronti del proprietario solo quando
la stessa viene fatta propria dalla giunta o dal consiglio comunale,
mediante una delibera che ha natura di provvedimento); quindi,
dal provvedimento si distinguono (perché privi di efficacia
esterna) gli atti interni e quelli endoprocedimentali, che esplicano
i loro effetti all’ interno del procedimento;
• un’ ulteriore caratteristica del provvedimento amministrativo è,
infine, la discrezionalità; in particolare, il problema della
discrezionalità amministrativa (ossia della scelta che l’
amministrazione è chiamata ad effettuare) va inquadrato nel
rapporto che sussiste tra provvedimento e decisione: ai sensi,
infatti, dell’ art. 3 L. 241/90 la decisione è legata alle risultanze
dell’ istruttoria e costituisce, di solito, il prodotto dell’ esame
contestuale di vari interessi pubblici. Si tratta, pertanto, di una
scelta che non è del tutto libera: in primo luogo, perché essa è
compiuta dall’ autorità a tutela di un interesse che non è proprio;
in secondo luogo, perché è legata alle risultanze dell’ istruttoria
[infatti, l’autorità amministrativa provvede sulla base di fatti che
vanno accertati d’ ufficio, cioè sulla base di un’ istruttoria, le cui
risultanze confluiscono nella motivazione del provvedimento (se,
ad es., dall’ istruttoria emerge che la costruzione è stata
133
realizzata in totale difformità della concessione edilizia, il
dirigente comunale non può fare a meno di ordinare la
demolizione); in terzo luogo, la scelta non è libera perché essa è
spesso espressione di una valutazione comparativa di interessi
(pubblici e privati): si pensi, ad es., ad un piano regolatore
urbanistico, il quale andrà ad incidere non solo sull’ interesse dei
proprietari delle aree ricomprese nel territorio comunale, ma
anche sugli interessi di privati che non sono proprietari, nonché
sugli interessi pubblici.
c) la motivazione
L’ art. 3 L. 241/90 stabilisce che ogni provvedimento
amministrativo deve essere motivato; con la motivazione, in
particolare, l’ autorità amministrativa (ad es., il sindaco), in
relazione alle risultanze dell’ istruttoria, deve indicare i
presupposti di fatto (ad es., che l’ edificio di proprietà di Tizio è
pericolante) e le ragioni giuridiche che giustificano la decisione
(nel nostro esempio, la norma che attribuisce al sindaco il potere
di ordinare a Tizio di effettuare lavori di consolidamento).
Dalla formulazione dell’ art. 3 su citato si evince che la
motivazione è obbligatoria; ma, a questo punto ci si chiede il
perché. Per rispondere a tale quesito, è necessario precisare,
innanzitutto, che il provvedimento amministrativo, al pari della
legge del Parlamento o della sentenza del giudice, è un’
espressione del pubblico potere (e, in quanto tale, idoneo ad
incidere unilateralmente nella sfera giuridica del cittadino).
Tuttavia, mentre non v’è motivo di motivare la legge, perché essa
è espressione della volontà popolare (è votata, cioè, da un
collegio, i cui componenti sono eletti dal popolo), i giudici e la P.A.
non sono eletti dal popolo; è bene precisare, però, che solo per i
provvedimenti giurisdizionali è stato costituzionalizzato, in modo
puntuale, l’ obbligo di motivazione (art. 111, co. 6), mentre per
quelli amministrativi, almeno fino al 1990, un simile obbligo
134
generalizzato non era previsto neppure nella legge ordinaria.
Secondo una teoria formulata negli ultimi anni, però, l’ obbligo di
motivare i provvedimenti amministrativi troverebbe, in realtà, il
proprio fondamento nel principio democratico, dal momento che
quest’ ultimo implica sia trasparenza nelle decisioni dell’ autorità
amministrativa, che esplicitazione delle ragioni (in funzione del
controllo popolare); ne consegue, pertanto, che ogni
provvedimento amministrativo deve essere motivato, allo scopo
di consentire al cittadino di avere le informazioni necessarie per
esercitare quel controllo.
Più risalente nel tempo è, invece, la teoria che riconduce l’
obbligo di motivazione ai princìpi costituzionali di imparzialità dell’
attività amministrativa (art. 97) e di giustiziabilità degli atti
amministrativi, contro i quali è sempre ammessa la tutela
giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (art. 113); in
altri termini, secondo tale teoria si ritiene che se l’
amministrazione deve agire in modo imparziale, il privato ha il
diritto di conoscere le ragioni per le quali la decisione viene presa.
In linea con questa impostazione, l’ atto privo di motivazione è
illegittimo, proprio perché impedisce al cittadino di conoscere le
ragioni poste a fondamento del provvedimento.
d) le suggestioni della dottrina del contratto e la questione del
silenzio
Parte della dottrina, nella costruzione dogmatica del
provvedimento amministrativo, si è ispirata alla teoria del negozio
giuridico e del contratto: da qui, il frequente richiamo alle
categorie civilistiche della volontà, della forma e della causa.
Analizziamo tali elementi.
La volontà non può mancare nel provvedimento amministrativo,
perché esso deve essere necessariamente voluto (anche qualora
il suo contenuto si risolva in un giudizio); rispetto al contratto,
però, diversa è la rilevanza della volontà: mentre, infatti, l’
135
assenza o il vizio della volontà rende nullo o annullabile il
contratto, l’ invalidità del provvedimento non è mai diretta
conseguenza di un vizio della volontà (ad es., l’ ordine di
demolizione di un immobile che il dirigente comunale ritiene
abusivo, mentre è stato autorizzato con regolare permesso di
costruire, è annullabile non perché l’ atto è affetto da un errore-
vizio, ma perché difetta il presupposto richiesto dalla legge, vale a
dire il carattere abusivo della costruzione).
Più complesso, invece, è il discorso relativo alla forma: in passato
si era soliti ripetere che, in assenza di specifiche prescrizioni, la
forma del provvedimento era libera; oggi, invece, l’ art. 3 L.
241/90, prescrivendo la motivazione per ciascun provvedimento
amministrativo, presuppone la necessità della forma scritta,
perché questa è la sola che consente all’ amministrazione di
indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno
determinato la decisione, in relazione alle risultanze dell’
istruttoria.
Identica soluzione è indicata dall’ art. 2, co. 1, L. 241/90, in virtù
del quale, una volta avviato il procedimento, l’ amministrazione
ha il dovere di concluderlo mediante l’ adozione di un
provvedimento espresso (cioè, scritto).
In passato, però, si è a lungo discusso se il provvedimento
amministrativo potesse assumere forma tacita (se potesse
esserci, cioè, un provvedimento tacito); se, tuttavia, la questione
poteva apparire giustificabile in passato, oggi, invece, il quadro
normativo contiene una risposta ben precisa (si legga l’ art. 2 su
citato, che parla di provvedimento espresso e, quindi, scritto).
È bene precisare, però, che l’ art. 20 L. 241/90 (nell’ ottica della
semplificazione amministrativa) stabilisce che, nei procedimenti
ad istanza di parte, il silenzio dell’ amministrazione, protratto
oltre il termine per la conclusione del procedimento, equivale ad
accoglimento della domanda (si parla in questi casi di cd. silenzio-
assenso); in altri termini, ciò significa che una volta scaduto il
136
termine per la conclusione del procedimento, senza che l’
amministrazione abbia provveduto sulla domanda del privato,
questi potrà avviare l’ attività, il cui svolgimento è subordinato al
rilascio di un determinato provvedimento amministrativo (il
privato, cioè, potrà avviare quell’ attività come se, una volta
scaduto il termine, la stessa fosse libera); da quanto abbiamo
detto si intuisce, pertanto, che la legge non autorizza affatto una
sorta di provvedimento silenzioso; solo che, per ragioni di tutela
del privato, l’ inerzia viene equiparata ad un atto di assenso.
È bene precisare, comunque, che l’ amministrazione conserva
sempre il potere di adottare i provvedimenti di annullamento e di
revoca (può, cioè, annullare o revocare il silenzio-assenso che si
era formato in precedenza); ma ciò soltanto nei casi in cui
ricorrano i presupposti indicati dalla legge, quali: l’ esistenza di
uno specifico interesse pubblico alla cessazione dell’ attività
ovvero una delle sopravvenienze che autorizzano la revoca.
Al di fuori dei casi di silenzio-assenso, la legge equipara, invece, l’
inerzia dell’ amministrazione, mantenuta oltre un certo termine, a
rifiuto di provvedimento (cd. silenzio-rifiuto).
Rimane da analizzare, infine, la questione della causa del
provvedimento; al riguardo, è necessario premettere che nel
periodo successivo all’ entrata in vigore del codice civile, la causa
(del provvedimento amministrativo) veniva identificata con la
funzione economico-sociale tipica del contratto (in questa
prospettiva, ad es., la causa dell’ autorizzazione amministrativa
veniva a coincidere con la rimozione di un limite all’ esercizio di
un diritto e la causa della espropriazione con il trasferimento
coattivo dell’ immobile dietro un indennizzo); una tale concezione
della causa comportava, però, problemi tecnici di non facile
soluzione: come quello della causa illecita nei contratti tipici.
Per risolvere il problema, si è pensato allora di spostare il concetto
di causa dall’ atto al potere amministrativo, qualificato in ragione
del suo contenuto (sanitario, ambientale, urbanistico, etc.);
137
pertanto, in virtù di tale spostamento, la causa si identifica, oggi,
con l’ interesse pubblico specifico (sanitario, ambientale,
urbanistico, etc.) che, a mezzo di quel potere, viene tutelato.
§7. Gli accordi tra l’ amministrazione ed il privato
a) il rapporto tra l’ art. 11 L. 241/90 e i princìpi civilistici
L’ art. 11 L. 241/90 prevede anche la possibilità di un esito
negoziato del procedimento amministrativo: prevede, cioè, che il
procedimento si concluda con un accordo, anziché con un
provvedimento. Più precisamente, l’ accordo con gli interessati è
consentito sia allo scopo di determinare il contenuto discrezionale
del provvedimento finale, sia in sostituzione di questo: cioè, come
accordo preliminare al provvedimento o come accordo sostitutivo
dello stesso.
Gli accordi in questione rappresentano una species del genus
contratti, che l’ amministrazione è abilitata a concludere nella sua
capacità di soggetto giuridico; e ciò è confermato dallo stesso art.
11 L. 241/90, il quale, infatti, stabilisce che agli accordi si
applicano, ove non diversamente stabilito, i princìpi del codice
civile in materia di obbligazioni e contratti.
Sono, però, previste determinate deroghe:
• innanzitutto, va detto che l’ accordo deve essere concluso nel
perseguimento di un pubblico interesse;
• in secondo luogo, la stipulazione dell’ accordo deve essere
preceduta da una determinazione dell’ organo competente ad
adottare il provvedimento (e non del dirigente che, poi, stipulerà
l’ accordo per conto dell’ amministrazione);
• l’ accordo deve essere, poi, concluso senza pregiudizio dei diritti
dei terzi: se, infatti, l’ accordo sostituisce il provvedimento o ne
predetermina il contenuto e se il provvedimento può ledere il
terzo (ad es., il permesso di costruire rilasciato a Tizio può
danneggiare Caio) è ragionevole che il terzo venga tutelato con
questa clausola;
138
• è necessario sottolineare, infine, che l’ amministrazione, per
sopravvenuti motivi di pubblico interesse può recedere
unilateralmente dall’ accordo, salvo l’ obbligo di provvedere alla
liquidazione di un indennizzo, in relazione agli eventuali pregiudizi
verificatisi in danno del privato (è questa un’ ulteriore
applicazione del principio secondo il quale l’ accordo deve essere
perseguito nel pubblico interesse).
b) gli accordi ex art. 11 L. 241/90
Gli accordi previsti dall’ art. 11 sono di due tipi: quelli che
determinano il contenuto discrezionale del provvedimento finale
(che viene comunque adottato) e quelli che lo sostituiscono.
Per quanto riguarda gli accordi del primo tipo, l’ amministrazione
concorre a determinare il contenuto dell’ accordo, accettando la
proposta del privato (previa una sua valutazione) o formulando
essa stessa la proposta. Ovviamente, una volta sottoscritto l’
accordo, il contenuto del provvedimento diventa vincolato, perché
esso deve essere conforme all’ accordo (se è difforme, il
provvedimento è illegittimo).
Gli accordi del secondo tipo, invece, sostituiscono il
provvedimento: nella versione originaria dell’ art. 11 ciò era
possibile soltanto nei casi previsti dalla legge (quali l’ accordo
amichevole in materia di espropriazione e la convenzione in
materia urbanistica). La novella del 2005 ha soppresso, però, tale
inciso: sicché l’ accordo sostitutivo del provvedimento è oggi
ammesso senza limitazioni.
A questo punto ci si pone un quesito fondamentale: per quale
motivo l’ amministrazione, che dispone di un potere unilaterale
(che si estrinseca nel provvedimento), dovrebbe optare per un
accordo, ossia per una risoluzione che implica il consenso del
privato?
Per rispondere a questa domanda, è necessario sottolineare che
oggi il privato è sempre più riluttante a sottostare all’ autorità
139
amministrativa e, invece, sempre più propenso a contestarne le
determinazioni e i comandi (sia nel procedimento, sia in via di
fatto); vi è, quindi, un interesse dell’ autorità ad ottenere il
consenso preventivo della parte se vuole raggiungere il suo
obiettivo; dal canto suo, invece, il privato può avere interesse a
venire a patti con un’ autorità ostile se vuole realizzare il suo
interesse. In quest’ ottica, le due parti, pubblica e privata, si fanno
reciproche concessioni, che consentono di raggiungere un’ intesa:
così, ad es., sostituendo al provvedimento l’ accordo, l’ autorità
può ottenere dal privato, che richiede un permesso di costruire,
una prestazione supplementare (ad es., la manutenzione del
tratto di strada antistante) che non potrebbe formare oggetto di
condizione apposta al provvedimento (perché ne snaturerebbe la
tipicità e sarebbe, quindi, illegittima); la proposta può anche
venire dal privato che, in questo modo, ottiene ciò che avrebbe
incontrato resistenza.
Il sistema degli accordi, ex art. 11 L. 241/90, viene chiuso da una
clausola che riguarda la giurisdizione: le controversie in materia di
formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi sono
riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In
particolare, la controversia può insorgere tra le due parti dell’
accordo (ad es., perché l’ autorità si rifiuta di emettere il
provvedimento, il cui contenuto è stato determinato con l’
accordo, o perché una delle parti non adempie alle obbligazioni
nascenti dall’ accordo sostitutivo), ma può anche insorgere con un
terzo che ricorre contro l’ accordo (o contro il provvedimento
sostitutivo dell’ accordo), assumendo di aver subìto il pregiudizio
che l’ accordo non dovrebbe comportare.
In ogni caso, è necessario sottolineare che gli accordi, ex art. 11,
ricorrono raramente nella prassi: le amministrazioni, infatti, da un
lato, non sono, di norma, disposte a rinunciare all’ esercizio
unilaterale del potere; dall’ altro, gli amministratori temono di
venire a patti con i privati per timore che dietro l’ operazione il
140
giudice penale possa ravvisare le fattispecie di corruzione,
concussione e abuso.
Sezione III
L’ efficacia del provvedimento
§1. L’ efficacia del provvedimento amministrativo
a) l’ efficacia del genus provvedimento
In dottrina ci si chiede se accanto agli effetti peculiari del singolo
provvedimento amministrativo (autorizzazione, concessione, etc.)
possa essere configurata un’ efficacia del genere provvedimento,
che sia capace di accomunare le singole specie di provvedimento.
Per rispondere a tale quesito, occorre procedere analiticamente,
partendo dai singoli provvedimenti amministrativi; in tal modo,
infatti, ci si potrà rendere conto che gli effetti di questi
provvedimenti hanno perfetti equivalenti in altri rami del diritto: si
pensi, ad es., all’ espropriazione per pubblica utilità, che
rappresenta il provvedimento amministrativo per eccellenza;
eppure la sua efficacia non è diversa dalla pronuncia del giudice
dell’ esecuzione, che trasferisce all’ aggiudicatario il bene
immobile espropriato (art. 586 c.c.).
Si pensi, ancora, all’ autorizzazione amministrativa: anch’ essa, a
prima vista, sembra un unicum; ma, in realtà, è sufficiente
guardare ai rapporti di vicinato nella proprietà immobiliare (art.
141
873 c.c.) per rendersi conto che quasi tutti i divieti e i limiti che
gravano sul proprietario a tutela del fondo vicino possono essere
rimossi con il consenso del proprietario di quest’ ultimo (che può,
ad es., tollerare la comunione forzosa del muro sul confine o
consentire una deroga alle distanze, ex art. 878 c.c.).
Il discorso non cambia se dalla singola specie di provvedimento si
passa al provvedimento in genere, dal momento che sussiste una
forte analogia tra l’ atto posto in essere dall’ autorità
amministrativa ed il contratto: anche il provvedimento
amministrativo, infatti, in virtù della definizione contenuta nell’
art. 1321 c.c., è capace, come il contratto, di costituire, regolare o
estinguere un rapporto giuridico (con la differenza, però, che l’
effetto del provvedimento amministrativo viene prodotto
unilateralmente e non da un accordo).
b) l’ autoritarietà e l’ imperatività del provvedimento
Un aspetto interessante dell’ efficacia del provvedimento
amministrativo è la sua autoritarietà (o autorità). In relazione a
tale aspetto, la dottrina italiana, sulla scorta di quella francese, ha
messo in rilievo che questa efficacia si produce
indipendentemente dal consenso del terzo o anche in presenza di
un suo dissenso: in ciò il potere amministrativo si distinguerebbe
dal potere privato, proprio perché l’ atto di esercizio di quest’
ultimo non produce conseguenze giuridiche in capo al terzo.
Di recente, però, questo aspetto dell’ incidenza unilaterale del
provvedimento amministrativo sulla sfera giuridica altrui è stato
messo in discussione con riferimento ad alcune categorie di
provvedimenti favorevoli, come l’ autorizzazione o la concessione:
in tali casi, si è osservato che non si può prescindere dal consenso
del privato, perché la richiesta da parte di questi (che implica,
ovviamente, un consenso anticipato) costituisce una condizione di
legittimità del provvedimento e coincide con l’ avvio del relativo
procedimento. Ciò, però, non significa che il consenso, ove
richiesto, faccia venir meno il carattere unilaterale del
142
provvedimento: ad es., il consenso manifestato con la richiesta di
concessione non si fonde con la volontà dell’ autorità
amministrativa (come accadrebbe se si trattasse di un contratto),
ma rimane ad essa esterna. Ragionando a contrario, quindi, se ne
deduce che l’ efficacia unilaterale sulla sfera giuridica del terzo è
esclusiva dei provvedimenti amministrativi sfavorevoli (che
prescindono dal consenso del terzo). Ciò, però, non è del tutto
vero: ed infatti, con riferimento, quantomeno, alle concessioni
(provvedimento amministrativo favorevole) si è detto che esse
non si esauriscono nell’ attribuzione di un vantaggio al
beneficiario, ma possono anche dar luogo ad un diniego nei
riguardi di altri aspiranti allo stesso bene o servizio (tant’è vero
che questi sono legittimati a ricorrere dinanzi al giudice
amministrativo contro la concessione rilasciata ad altra persona).
Sempre con riferimento all’ aspetto dell’ incidenza unilaterale
nella sfera giuridica del terzo si pone, poi, la questione della cd.
imperatività del provvedimento, la cui nozione è stata proposta
per la prima volta dallo studioso Giannini: questi, in particolare,
ha identificato l’ imperatività con l’ autorità del provvedimento,
che si articola in tre effetti tra loro collegati: la degradazione dei
diritti, l’ esecutività e l’ inoppugnabilità.
Viceversa, nella ricostruzione più recente della dottrina (in
particolare: Scoca) l’ imperatività (concepita come una particolare
qualità dell’ atto amministrativo) viene a costituire, insieme all’
autotutela, uno dei due elementi dell’ autorità; secondo quest’
impostazione, l’ imperatività perde la sua autonomia e viene ad
identificarsi con l’ idoneità del provvedimento a produrre eventi di
nascita, modificazione ed estinzione di situazioni soggettive nella
sfera giuridica altrui, indipendentemente dalla collaborazione del
soggetto che lo subisce.
c) la questione della forza tipica
Un diverso modo di affrontare il tema dell’ efficacia giuridica del
143
provvedimento amministrativo è quello di chi parte dallo schema
evocato, a proposito del contratto, dall’ art. 1372 c.c., il quale
stabilisce che il contratto ha forza di legge tra le parti. Partendo
da questo assunto, ci si domanda, pertanto, se il provvedimento
amministrativo possieda un’ analoga forza.
A differenza della dottrina tedesca, che ha dato al quesito risposa
positiva, quella italiana non ha mai accettato l’ equiparazione dell’
efficacia del provvedimento amministrativo con la forza di legge
tra le parti, propria del contratto, perché essa non si concilierebbe
con categorie fondamentali di provvedimenti amministrativi come
le concessioni, le autorizzazioni e gli atti ablativi (così, ad es., se
si parte dal presupposto che l’ autorizzazione rimuove un limite
all’ esercizio di un diritto, la determinazione del diritto del
soggetto autorizzato non nasce dall’ autorizzazione, ma dalla
norma che tutela la libertà, la quale, per effetto dell’
autorizzazione, può essere pienamente dispiegata).
Di conseguenza, allo scopo di cercare di attribuire al
provvedimento amministrativo una sua forza tipica, in dottrina l’
attenzione si è spostata sul vincolo che il provvedimento pone a
carico dell’ amministrazione; in virtù di tale vincolo, infatti, il
provvedimento amministrativo instaura una situazione che non
può essere modificata fino a quando l’ amministrazione non adotti
un atto ulteriore, di annullamento o di revoca del precedente, in
presenza dei presupposti che autorizzano il contrarius actus (così,
ad es., se il sindaco autorizza chi ne ha fatto richiesta ad
esercitare il commercio non può poi disporre la chiusura della
bottega, come se l’ autorizzazione mancasse; allo stesso modo,
se la provincia ha espropriato un immobile per farvi un impianto
sportivo non può poi destinare il bene acquisito ad altro uso).
§2. L’ esecuzione del provvedimento (l’ esecutorietà)
Con il provvedimento amministrativo l’ autorità dispone qualcosa;
un qualcosa che, di solito, richiede un’ attività materiale ulteriore
144
(o del privato o della stessa autorità).
Volendo esemplificare, in relazione ad una prima serie di ipotesi
possiamo dire che il privato, in seguito all’ emanazione del
provvedimento, ha la possibilità di porre in essere una
determinata attività: così, ad es., una volta rilasciata l’
autorizzazione, il privato può svolgere un’ attività che prima gli
era vietata (costruire una casa, trasmettere programmi televisivi,
etc.).
In altri casi, invece, egli non ha la facoltà, ma l’ obbligo di porre in
essere un’ attività: ad es., quando gli viene notificato un ordine di
demolizione o un ordine di messa in sicurezza di un immobile o un
ordine di sgombero. In questi casi, se il privato non ottempera, l’
amministrazione può imporre l’ esecuzione coattiva dell’ obbligo
inadempiuto, senza necessità di rivolgersi al giudice; e ciò in forza
di un principio generale di esecutorietà degli atti amministrativi (è
necessario sottolineare, però, che il legislatore del 2005,
modificando l’ art. 21 ter L. 241/90, ha stabilito espressamente
che l’ esecuzione coattiva da parte dell’ amministrazione può
essere imposta soltanto nelle ipotesi e con le modalità previste
dalla legge).
In una terza serie di ipotesi, infine, è l’ amministrazione che deve
attuare il provvedimento: così, ad es., il decreto di espropriazione
viene eseguito dall’ espropriante (l’ autorità amministrativa)
mediante l’ immissione in possesso, la descrizione dell’ immobile
e la trascrizione del decreto stesso.
In relazione a quest’ ultima serie di ipotesi, è importante
specificare, però, che la giurisprudenza della Cassazione, con
sent. 1463/83, ha stabilito che l’ attività materiale posta in essere
dall’ autorità amministrativa può anche essere esplicata in
esecuzione di un provvedimento tacito: si è ritenuto, ad es., che l’
occupazione senza titolo (cd. occupazione acquisitiva) di un
immobile da parte di un soggetto pubblico, seguita dalla
trasformazione irreversibile del bene, facesse perdere al privato la
145
proprietà, come se l’ immobile fosse stato espropriato con un
regolare decreto. Questa invenzione giurisprudenziale, tuttavia,
non solo è stata giudicata incompatibile con la tutela del diritto di
proprietà (assicurata dalla Convenzione europea dei diritti dell’
uomo), ma è risultata in contrasto anche con il principio di
legalità, ex art. 42 Cost., ai sensi del quale la proprietà privata
può essere espropriata solo nei casi previsti dalla legge.
Per risolvere il problema si è deciso allora di inserire nel T.U. sull’
espropriazione per pubblica utilità (D.P.R. 327/01) una
disposizione che abilita l’ autorità, che utilizza un bene immobile
per scopi di interesse pubblico (dopo averlo modificato in assenza
di un valido provvedimento di esproprio), ad acquisirlo con un
provvedimento espresso al suo patrimonio indisponibile (in tal
modo, l’ effetto traslativo della proprietà viene ascritto non in
base ad un comportamento di fatto, bensì in presenza di un atto
giuridico, emesso a sanatoria, ma che è previsto dalla legge).
§3. L’ efficacia del provvedimento nello spazio
Di efficacia del provvedimento amministrativo nello spazio si
parla in relazione alla distribuzione della competenza
amministrativa per territorio, nel senso che l’ autorità competente
può emanare atti che possono avere efficacia solo nell’ ambito
territoriale di propria competenza: ad es., l’ ordine di demolizione
di costruzione abusiva, emanato dal sindaco, non può colpire un
manufatto che sorge al di fuori del territorio comunale.
La violazione di questa regola comporta la nullità dell’ atto (e non
la semplice annullabilità): così, ad es., se l’ ordine di demolizione
dell’ immobile è stato adottato dal sindaco sull’ erroneo
presupposto che il terreno interessato ricada nell’ ambito della
sua circoscrizione, il proprietario può legittimamente rifiutarsi di
dare esecuzione al provvedimento, proprio perché questo è nullo.
A questa regola generale, però, la legge prevede diverse
eccezioni: si pensi agli atti di qualificazione giuridica (come l’
146
iscrizione ad un albo professionale), i quali, infatti, spiegano
effetti anche al di fuori del territorio di competenza: ad es., l’
architetto iscritto all’ ordine degli architetti di Milano può
esercitare la sua professione in tutto il territorio italiano.
§4. L’ efficacia del provvedimento nel tempo
Il provvedimento amministrativo comincia a produrre i suoi effetti
nei confronti dei destinatari al momento della comunicazione
(questa regola, nonostante sia enunciata espressamente solo per
i provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati, ex art.
21 bis L. 241/90, ha, in realtà, una sfera di applicazione più
ampia; e ciò lo si ricava dal regime del ricorso al giudice
amministrativo, che va proposto entro 60 gg. dalla comunicazione
o dalla piena conoscenza, indipendentemente dal contenuto dell’
atto, favorevole o sfavorevole). Si può, quindi, affermare che i
provvedimenti amministrativi sono recettizi, ossia esplicano la
loro efficacia a partire dal momento in cui sono entrati nella sfera
di conoscibilità degli interessati.
È necessario sottolineare, però, che nell’ ambito dei
provvedimenti limitativi della sfera giuridica del privato
(provvedimenti sfavorevoli), sono previste due eccezioni alla
regola dell’ efficacia che coincide con la comunicazione:
• la prima, a carattere automatico, riguarda i provvedimenti
cautelari ed urgenti, i quali sono immediatamente efficaci anche
prima che il destinatario ne abbia ricevuto comunicazione (si
pensi, ad es., all’ ordine di demolizione di un muro pericolante);
• la seconda eccezione è rimessa, invece, ad una scelta dell’
amministrazione, la quale può inserire nel provvedimento una
clausola motivata di immediata efficacia (purché il provvedimento
non abbia carattere sanzionatorio).
Gli effetti del provvedimento amministrativo possono essere,
inoltre, anticipati (cd. retroattività: ma si tratta di un’ ipotesi
eccezionale) o, più frequentemente, ritardati: ad es., la nomina di
147
un docente spiega effetti dal momento dell’ inizio dell’ anno
scolastico o accademico, anche se adottata prima.
Il provvedimento amministrativo può, altresì, produrre un’
efficacia istantanea o un’ efficacia prolungata nel tempo: ad es., il
decreto di espropriazione produce l’ effetto istantaneo del
trasferimento della proprietà dell’ immobile in capo all’
espropriante; il decreto di occupazione, invece, produce effetti
che si protraggono nel tempo, perché abilita l’ occupante ad
acquisire e mantenere il possesso del bene per tutta la durata
prevista (in genere non superiore a 5 anni).
Il provvedimento ad efficacia prolungata ha, di solito, un termine
finale, che può essere prestabilito dalla legge (si pensi, ad es., alle
nomine a cariche, che hanno un termine legato alla durata della
carica); negli altri casi, invece, il termine può essere stabilito dall’
organo amministrativo (ad es., in relazione alla concessione di un
bene demaniale).
Vi sono, però, provvedimenti ai quali nessun termine può essere
apposto: si pensi, ad es., alle abilitazioni professionali, che durano
tutta la vita.
Un’ ultima considerazione occorre riservarla, infine, all’ ultrattività
di alcuni provvedimenti amministrativi: ultrattiva è, ad es., la
nomina di una carica pubblica nel periodo successivo alla
scadenza (il periodo di prorogatio), nel senso che una parte dei
suoi effetti continuano a prodursi al di là del termine finale.
§5. Gli atti di secondo grado (o di riesame)
a) l’ annullamento d’ ufficio e la revoca
La P.A., come sappiamo, deve perseguire l’ interesse pubblico
affidato alla sua cura e, nel far ciò, deve agire legittimamente; da
quanto detto si intuisce, quindi, che (nel momento in cui la P.A.
provvede) i due vincoli sono strettamente connessi, nel senso che
l’ autorità non può perseguire l’ interesse pubblico adottando un
148
provvedimento illegittimo (non può, ad es., negare una
concessione edilizia perché il nuovo piano regolatore, in fase di
elaborazione, ma non ancora adottato dal consiglio, destina la
zona a servizi pubblici), né può prendere una decisione legittima
(conforme alla legge), ma in contrasto con l’ interesse pubblico.
Se, viceversa, la vicenda amministrativa viene presa in
considerazione in maniera retrospettiva i due aspetti possono
anche essere scissi: a distanza di tempo, infatti, il provvedimento
può apparire legittimo, ma in contrasto con l’ interesse pubblico
attuale o, al contrario, apparire illegittimo, ma non in contrasto
con l’ interesse pubblico attuale.
In questi casi, per risolvere il problema, la giurisprudenza ha
adottato una soluzione fondata sul criterio dell’ attualità dell’
interesse pubblico: in virtù di tale principio, l’ atto illegittimo potrà
essere eliminato quando l’ interesse pubblico attuale lo consigli
(cd. annullamento d’ ufficio); e l’ atto a suo tempo legittimo potrà
(anzi: dovrà) essere eliminato qualora la sua permanenza
contrasti con l’ interesse pubblico (cd. revoca).
Per spiegare questa vicenda, dottrina e giurisprudenza hanno
fatto ricorso alla categoria giuridica dell’ autotutela; più
precisamente, in base a questa teoria l’ amministrazione può farsi
ragione da sé: può, cioè, ottenere, con una nuova determinazione
(sua propria), quel risultato di rimozione, modifica o sostituzione
dell’ atto precedente (che il privato, invece, ai sensi dell’ art. 1372
c.c., può conseguire soltanto dal giudice, a meno che l’ altra parte
del rapporto non sia d’ accordo).
Detto ciò, però, è necessario sottolineare che la nozione di
autotutela non appare oggi convincente: in primo luogo, perché la
possibilità di rimuovere o modificare un proprio atto non è
esclusiva della P.A.; tale possibilità, infatti, dipende dal fatto che l’
atto amministrativo è unilaterale e non dal fatto che è un atto
amministrativo.
In secondo luogo, l’ autorità amministrativa, quando annulla o
149
revoca un proprio atto, non tutela se stessa, né si fa giustizia da
sé; ma tutela, o dovrebbe tutelare, l’ interesse pubblico (così
come era tenuta a curarlo). Ora, dal momento che l’ interesse
pubblico è caratterizzato dall’ attualità, la P.A. ha il potere ed il
dovere di rimuovere l’ atto adottato in precedenza, qualora lo
stesso sia in contrasto con l’ interesse pubblico attuale; e questo
potere-dovere non può avere altro fondamento se non nella legge
(come, infatti, la legge conferisce all’ autorità amministrativa la
possibilità di provvedere in una certa direzione, adottando un
determinato atto, allo stesso modo deve essere la stessa legge, in
un momento successivo, ad attribuire all’ autorità la possibilità di
provvedere in direzione diversa). Ovviamente, perché tale
meccanismo possa operare è necessario che il potere
amministrativo sia esercitabile in tempi diversi e in direzioni
diverse (cd. inesauribilità del potere amministrativo); da tale
inesauribilità deriva, come logica conseguenza, la prevalenza dell’
atto successivo su quello precedente (cioè, l’ annullamento o la
revoca del provvedimento amministrativo precedente).
Questo potere amministrativo che ritorna sui suoi passi deve,
però, fare i conti con il rapporto giuridico che il provvedimento
amministrativo ha costituito con i privati interessati, i quali
vantano determinati diritti ed interessi (creati dal provvedimento
stesso): in questa prospettiva, la giurisprudenza ha escluso, ad
es., che il sindaco possa revocare un’ autorizzazione all’ esercizio
del commercio in base ad una nuova valutazione dell’ interesse
pubblico, perché in questo caso il sacrificio dell’ interesse privato
si concretizzerebbe, in realtà, in un sacrificio dell’ interesse
pubblico attuale.
b) gli aspetti comuni
Gli istituti dell’ annullamento e della revoca (che inizialmente
erano disciplinati in virtù di una prassi giurisprudenziale) hanno
trovato una conferma normativa con la modifica apportata dalla L.
150
15/05 alla legge sul procedimento amministrativo (L. 241/90): ciò
significa, quindi, che, d’ ora in poi, il regime dell’ annullamento e
della revoca è quello che risulta dalla legge.
È necessario sottolineare, inoltre, che, accanto all’ annullamento
e alla revoca, la L. 15/05 (sempre rifacendosi alla prassi
giurisprudenziale) ha introdotto altre due figure riguardanti il
provvedimento amministrativo: è stabilito, infatti, che l’ autorità
amministrativa può ritornare sui suoi atti per annullarli, revocarli,
sospenderli o convalidarli.
Il presupposto comune di tutti questi atti è che il potere
amministrativo, una volta esercitato, non si esaurisce; pertanto,
in presenza di determinate circostanze, esso può essere
nuovamente esercitato in senso contrario (annullamento e
revoca) o per paralizzare temporaneamente gli effetti dell’ atto
precedente (sospensione) o per depurare l’ atto precedente da un
vizio che lo inficia (convalida). Soltanto quando ricorre tale
presupposto comune l’ atto di secondo grado (o di riesame) potrà
essere adottato.
c) l’ annullamento d’ ufficio
Affinché l’ autorità amministrativa possa disporre l’ annullamento
d’ ufficio devono ricorrere quattro importanti condizioni:
• innanzitutto, il provvedimento originario deve essere illegittimo
(deve essere, cioè, viziato da una violazione di legge o di
incompetenza o di eccesso di potere);
• in secondo luogo, affinché il provvedimento possa essere
annullato, debbono sussistere particolari ragioni di pubblico
interesse (il pubblico interesse che qui viene in rilievo è,
ovviamente, lo specifico interesse pubblico che è affidato alla
cura dell’ organo amministrativo: ad es., sanitario, ambientale,
etc.);
• questo interesse, a sua volta (e arriviamo alla terza condizione)
va contemperato e bilanciato con gli interessi privati dei
151
destinatari e dei controinteressati (ossia di coloro che sono
interessati alla conservazione dell’ atto originario o alla sua
rimozione); in particolare, se il provvedimento che si intende
annullare favorisce il destinatario questi avrà interesse a
conservarlo in vita; se, invece, lo danneggia egli avrà interesse a
che sia eliminato. Opposta è la posizione dei controinteressati,
ossia di coloro che hanno un interesse antagonistico a quello del
destinatario (interesse a che l’ atto sia annullato, nel primo caso;
interesse a che l’ atto sia conservato, nel secondo caso).
Nella comparazione di tutti questi interessi, l’ amministrazione è
tenuta ad accertare quale sia l’ interesse prevalente; tra l’ altro, è
importante specificare che è proprio questa valutazione
comparativa di interessi che ci permette di qualificare l’
annullamento d’ ufficio come un provvedimento amministrativo
discrezionale (a differenza dell’ annullamento giurisdizionale).
Sempre con riferimento al bilanciamento degli interessi in gioco,
prima della riforma del 2005 si è sempre ritenuto che l’
annullamento d’ ufficio avesse efficacia retroattiva e che, per tal
motivo, eliminasse tutti gli effetti prodotti medio tempore dall’
atto annullato (efficacia ex tunc). Una tale convinzione, però, è
stata messa in discussione di recente e, in particolare, dopo l’
entrata in vigore della L. 15/05: si è osservato, infatti, che il
contemperamento degli interessi in gioco può richiedere all’
amministrazione di graduare quegli effetti e di farli decorrere dal
momento in cui l’ atto viene annullato (efficacia ex nunc);
• la quarta condizione (richiesta perché il provvedimento possa
essere annullato) riguarda la distanza temporale tra l’ atto che si
intende annullare e la determinazione di annullarlo: tale
determinazione, infatti, deve essere presa entro un termine
ragionevole (da ciò si intuisce, quindi, che il termine non è
prestabilito); è bene precisare, comunque, che la ragionevolezza
del termine dipenderà dalle circostanze concrete e dalla
valutazione degli interessi in gioco.
152
d) la revoca
A differenza dell’ annullamento d’ ufficio (che viene disposto per
ragioni di legittimità), la revoca viene disposta per ragioni di
opportunità; ciò lo si desume dalla formulazione dell’ art. 21
quinquies L. 241/90 (così come modificato dalla riforma del 2005),
il quale, infatti, stabilisce che per sopravvenuti motivi di pubblico
interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o
di una nuova valutazione dell’ interesse pubblico originario, il
provvedimento amministrativo può essere revocato da parte dell’
organo che lo ha emanato.
Come si può notare, ai fini della revoca, la legge distingue i
sopravvenuti motivi di interesse pubblico dal mutamento della
situazione di fatto: la prima ipotesi ricorre, ad es., quando una
destinazione urbanistica a verde agricolo viene modificata a
seguito della prospettiva di un grosso insediamento industriale,
per il quale non v’è disponibilità di un’ altra area.
Il mutamento della situazione di fatto, invece, ricorre, ad es.,
quando il beneficiario di un finanziamento pubblico, finalizzato
alla realizzazione di un certo investimento per una determinata
produzione, distoglie le somme dalla destinazione prevista.
In terzo luogo, come detto, la revoca può essere disposta in
conseguenza di una nuova valutazione dell’ interesse pubblico
originario; questa ipotesi, in realtà, sembra ridare vigore ad una
tesi che appariva screditata: la tesi, cioè che, con la revoca, l’
amministrazione eserciti uno ius poenitendi (cd. diritto di
pentirsi). È bene precisare, però, che il pentimento dell’
amministrazione (che conduce alla revoca) non deve contrastare,
in maniera assoluta, con l’ interesse del destinatario del
provvedimento (o del controinteressato), ma deve trovare il suo
fondamento in un nuovo accertamento che consigli quella nuova
valutazione dell’ interesse pubblico originario: così, ad es., un
permesso di costruire può essere revocato se un’ indagine
153
successiva al rilascio accerti una condizione di instabilità
geologica dell’ area interessata.
Una remora contro il mero pentimento dell’ amministrazione è
costituita, in ogni caso, dall’ obbligo (sempre previsto dall’ art. 21
quinquies L. 241/90) di indennizzare i soggetti interessati per il
danno subìto per effetto della revoca.
È necessario sottolineare, infine, che (come per l’ annullamento)
anche per la revoca la L. 15/05 stabilisce che il provvedimento
revocato non può produrre effetti ulteriori (efficacia ex nunc).
e) la sospensione
Con la sospensione, l’ amministrazione non elimina l’ atto
esistente (come nell’ annullamento o nella revoca), ma ne
paralizza temporaneamente gli effetti:
• in vista del suo riesame (si pensi, ad es., alla sospensione del
permesso di costruire e al contemporaneo avvio di un
procedimento di annullamento d’ ufficio);
• ovvero sul presupposto di un abuso da parte del beneficiario
dell’ atto, in attesa di un accertamento più approfondito [si pensi,
ad es., alla sospensione dei lavori qualora gli uffici comunali
competenti constatino l’ inosservanza delle modalità esecutive
fissate nel permesso di costruire, in attesa che nei 45 gg.
successivi venga adottato il provvedimento definitivo (che può
consistere in una sanzione edilizia ovvero nel ripristino degli
effetti del provvedimento sospeso)];
• ovvero in funzione sanzionatoria (si pensi, ad es., alla
sospensione della patente di guida prevista dal codice della
strada).
È bene precisare, in ogni caso, che con la L. 15/05, che ha
introdotto, nella L. 241/90, l’ art. 21 quater, la sospensione è
divenuta un istituto di carattere generale: stabilisce, infatti,
questa disposizione che l’ esecuzione del provvedimento
amministrativo può essere sospesa, per gravi ragioni e per il
154
tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha
emanato.
f) la convalida
L’ art. 21 nonies L. 241/90 prevede la possibilità che il
provvedimento amministrativo annullabile possa essere
convalidato entro un termine ragionevole e sempre che
sussistano ragioni di pubblico interesse.
Da ciò si intuisce che la convalida è un’ alternativa all’
annullamento d’ ufficio; in altri termini, anziché eliminare l’ atto, l’
autorità elimina il vizio che lo inficia e in questo modo ne
stabilizza gli effetti: così, ad es., se la delibera collegiale è stata
adottata senza che l’ argomento fosse all’ ordine del giorno, la
convalida viene realizzata con una nuova delibera che sia
preceduta da un avviso di convocazione che faccia menzione dell’
argomento.
Tutto questo, però, è possibile soltanto se contro l’ atto originario
non sia pendente un ricorso giurisdizionale: se, infatti, c’è un
giudizio in corso dinanzi al giudice amministrativo la convalida
non è ammessa (salvo il caso del vizio di incompetenza, il quale
può essere rimosso dall’ organo competente che si appropria del
contenuto dell’ atto impugnato).
g) le altre forme di conservazione dell’ atto viziato
La prassi e la giurisprudenza conoscono altre forme di
conservazione dell’ atto viziato; esse sono: la conferma, la ratifica
e la sanatoria.
La conferma si sostanzia nel rifiuto dell’ amministrazione di
procedere all’ annullamento d’ ufficio richiesto da chi vi abbia
interesse (rifiuto che viene formalizzato con la predisposizione di
un nuovo atto).
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La ratifica opera, invece, in presenza di provvedimenti
amministrativi d’ urgenza presi eccezionalmente da un organo
diverso da quello competente (questo schema ricorre, in
particolare, negli enti pubblici, il cui statuto prevede una
competenza in via d’ urgenza del presidente, il cui atto va
ratificato dal consiglio di amministrazione nella prima riunione
successiva).
La sanatoria, infine, è un istituto che opera nell’ ipotesi in cui il
provvedimento amministrativo sia viziato dall’ omissione di un
atto intermedio del procedimento (ad es., un’ autorizzazione o un
nulla osta); è bene precisare, però, che la sanatoria non è
ammessa qualora tra l’ atto omesso ed il provvedimento
conclusivo del procedimento vi sia una relazione giuridico-
temporale: è il caso, ad es., del parere che deve, infatti,
necessariamente precedere l’ atto di amministrazione attiva.
Sezione IV
L’ invalidità
§1. L’ illiceità e l’ illegittimità
Rispetto alla norma giuridica è possibile individuare una duplice
156
devianza: quando la norma impone un dovere (cioè, un obbligo), il
comportamento difforme è illecito: si pensi, ad es., al
comportamento di chi commette un delitto.
Quando, invece, la norma attribuisce un potere, il comportamento
difforme è invalido (o, più precisamente, illegittimo).
Nel primo caso la sanzione colpisce l’ autore dell’ atto (nell’
esempio fatto: la sanzione della pena); nel secondo caso la
sanzione giuridica colpisce, viceversa, proprio l’ atto che, a causa
della sua difformità, è nullo o annullabile (le due forme
fondamentali dell’ invalidità): si pensi, ad es., a chi venda un
immobile in forma verbale (atto nullo) o a chi stipula un contratto
inducendo la controparte in un errore, senza il quale non avrebbe
stipulato (atto annullabile).
Si tratta, ovviamente di concetti differenti: la nullità, infatti, rende
l’ atto improduttivo di effetti, mentre l’ annullabilità lo vizia senza,
però, privarlo di effetti sino a quando il soggetto legittimato a
farla valere non otterrà una pronuncia giudiziale di annullamento.
Detto ciò, è necessario osservare che la devianza nella quale
incorre la P.A. è della specie invalidità: infatti, nell’ esercitare il
potere che la legge le attribuisce, l’ autorità amministrativa
spesso viola qualcuna delle prescrizioni che disciplinano tale
esercizio, ponendo così in essere un atto invalido (e, nella
maggior parte dei casi, invalido-annullabile).
§2. Il regime dell’ invalidità degli atti amministrativi
a) l’ annullabilità come regime prevalente
In relazione all’ atto amministrativo sono previsti tre vizi, ossia tre
forme di invalidità: incompetenza, violazione di legge ed eccesso
157
di potere (ma unico è il regime che le accomuna: quello dell’
annullabilità).
L’ atto annullabile è l’ atto che, pur essendo invalido, produce i
suoi effetti sino a quando non venga annullato (dal giudice
amministrativo); ciò significa, quindi, che l’ atto invalido (o
illegittimo) produce i suoi effetti come se fosse valido (o legittimo)
sino a quando non viene eliminato. È in tal senso che si parla del
cd. modo di equiparazione degli effetti dell’ atto invalido agli
effetti dell’ atto valido; in tal modo, il legislatore (optando per l’
annullabilità) ha inteso contemperare le ragioni del cittadino con
quelle dell’ amministrazione: conferendo al primo (il cittadino) il
potere di impugnare l’ atto illegittimo, ma mantenendo nel
contempo l’ efficacia di quest’ ultimo sino a quando il giudice
(eventualmente adìto) non abbia accertato l’ invalidità e disposto
l’ annullamento.
Se, invece, il legislatore avesse optato per il regime della nullità
(atto privo di effetti), il soggetto privato avrebbe potuto sottrarsi
ai comandi derivanti dall’ atto o avrebbe potuto disapplicarlo o
considerarlo inesistente (come accade oggi, ad es., nell’
ordinamento americano, ove, infatti, esistono atti amministrativi
nulli).
In realtà, è bene precisare che anche nel nostro ordinamento
esistono provvedimenti amministrativi nulli; lo ha stabilito la Corte
di Cassazione alcuni decenni fa: il Supremo Collegio ha stabilito,
in particolare, che la nullità si manifesta quando l’ atto è stato
emesso in carenza di potere, ossia quando l’ autorità
amministrativa non si è limitata ad esercitare malamente un
potere che la legge le attribuisce (atto annullabile), ma ha preteso
di esercitare un potere di cui essa è carente (atto nullo).
Come è stato detto, i vizi che rendono il provvedimento
amministrativo annullabile sono: l’ incompetenza, la violazione di
legge e l’ eccesso di potere. Si potrebbe dire, tuttavia, che le
cause di annullabilità sono riconducibili ad una sola, che è la
158
violazione di legge, essendo le altre due (incompetenza ed
eccesso di potere) delle semplici specificazioni della prima: l’
attività amministrativa, infatti, è sottoposta alla legge (principio di
legalità) e la legge disciplina la competenza, i presupposti, le
forme, il procedimento, il tipo di misura, gli effetti e il fine dell’
attività; sicché ogni deviazione dalla legge (cioè, ogni violazione
di legge) si traduce nell’ invalidità dell’ atto finale.
b) l’ invalidità parziale, derivata e successiva
Due forme specifiche di invalidità-illegittimità sono l’ invalidità
parziale e l’ invalidità derivata.
L’ invalidità parziale colpisce soltanto una parte dell’ atto e non l’
atto nella sua integrità; tale fenomeno ricorre, in particolare, negli
atti che hanno una pluralità di contenuti e di destinatari [così, ad
es., un piano regolatore comunale può essere illegittimo, e per
questo può essere annullato dal giudice amministrativo,
limitatamente alle previsioni che riguardano la zona di espansione
dell’ abitato; allo stesso modo, una graduatoria di concorso può
essere illegittima nella parte in cui in essa risulta inserito un
candidato anziché un altro (il ricorrente), mentre rimane valida
per gli altri dieci concorrenti in essa inclusi].
L’ invalidità derivata è, invece, una conseguenza del
collegamento tra più atti o del fatto che il provvedimento
amministrativo è preceduto da un procedimento: in tal modo, può
accadere che il vizio di un atto preparatorio del procedimento si
ripercuota sul provvedimento (così, ad es., anche se in sé
ineccepibile, il provvedimento può essere viziato dal fatto che il
parare obbligatorio che lo ha preceduto è stato reso da un organo
in composizione irregolare, perché qualcuno dei suoi membri non
era stato debitamente convocato).
Più controverso è, infine, il concetto di invalidità successiva:
controverso, perché la legittimità o l’ illegittimità di un atto deve
essere valutata in relazione al quadro normativo in vigore nel
159
momento in cui l’ atto viene adottato; se così non fosse, l’ autore
dell’ atto sarebbe tenuto, infatti, a tener conto delle modifiche
che quel quadro potrà subire in un momento successivo.
Nonostante ciò, dottrina e giurisprudenza hanno individuato
alcune ipotesi nelle quali una invalidazione successiva di un atto,
originariamente valido, è possibile (si pensi, ad es., alla legge
retroattiva che modifica i presupposti o i requisiti dell’ atto;
ovvero alla declaratoria di illegittimità costituzionale della norma
in base alla quale l’ atto era stato posto in essere).
c) l’ incompetenza
L’ incompetenza è una forma di invalidità tipica del regime
giuridico delle organizzazioni impersonali, nelle quali il potere di
agire è diviso tra una pluralità di organi: in questa prospettiva, l’
incompetenza si verifica qualora un organo usurpi le competenze
dell’ organo preposto.
Sotto un certo profilo, l’ incompetenza, come detto in precedenza,
è solo una specie di violazione di legge: quest’ ultima, prima di
stabilire i presupposti, le forme e gli effetti dell’ azione
amministrativa, individua l’ autorità competente e le assegna un
fine, che spesso è desumibile proprio dalla competenza (ad es., il
Ministro della Sanità deve perseguire il fine della salute pubblica,
il Ministro delle Attività produttive quello della promozione dello
sviluppo industriale, etc.).
Sotto altro profilo, invece, l’ incompetenza ha una sua autonomia
rispetto agli altri vizi dell’ azione amministrativa; partendo, infatti,
dal presupposto che l’ autorità, prima di agire (e, quindi, prima di
porre in essere l’ atto) deve accertare la sua competenza, l’ atto
posto in essere può essere perfetto dal punto di vista del
contenuto, della forma e dei fini, ma se è stato adottato da un
organo incompetente è illegittimo e per tal motivo va annullato
dal giudice, qualora il ricorrente ne faccia richiesta (in altri
termini, non è illegittimo ciò che l’ autorità ha disposto, ma lo è il
160
fatto che sia stata essa a disporlo).
Una volta annullato l’ atto, il giudice deve rimettere l’ affare all’
autorità competente (e quest’ ultima deciderà se non agire
ovvero se agire diversamente da come ha agito l’ organo
incompetente o se agire allo stesso modo); da ciò si intuisce che il
giudice non può decidere di non annullare l’ atto, ritenendo che l’
autorità competente non possa agire diversamente da come ha
agito l’ organo incompetente, perché così facendo egli finirebbe
con il sostituirsi all’ autorità competente.
In ogni caso, è necessario sottolineare che, perché vi sia
incompetenza, il potere esercitato indebitamente deve essere
previsto dalla legge come potere di altro organo dello stesso ente
(si pensi, ad es., al sindaco che si sostituisce al consiglio
comunale) o di altro ente (si pensi, ad es., al sindaco che adotta
un provvedimento di competenza del prefetto).
Esorbita, invece, dall’ area dell’ incompetenza l’ esercizio di un
potere che la legge non attribuisce ad alcuna autorità
amministrativa (in questo caso, infatti, vi è carenza di potere, che
dà luogo alla nullità dell’ atto).
d) la violazione di legge
La violazione di legge è il vizio tipico dell’ azione amministrativa.
L’ accertamento di tale violazione è molto semplice: il giudice (o l’
organo di controllo di legittimità o la stessa autorità
amministrativa in sede di riesame) confronta la fattispecie
concreta del provvedimento con la fattispecie normativa; in
conseguenza di tale confronto, ogni difformità (dalla fattispecie
legale) darà luogo ad un vizio di legittimità.
Appare utile sottolineare comunque che, nella prassi del
procedimento amministrativo, il ricorrente suole dedurre, insieme
al vizio di violazione di legge, anche il vizio di falsa applicazione
della legge: questa consiste nell’ applicazione della norma ad un
destinatario diverso da quello che essa contempla [si pensi, ad
161
es., all’ applicazione ad ex combattenti, dipendenti da imprese
private, di una legge (L. 336/70) che, invece, è rivolta a beneficio
dei soli ex combattenti che sono impiegati pubblici].
e) l’ eccesso di potere
Il terzo dei tre vizi di legittimità del provvedimento amministrativo
è l’ eccesso di potere. Esso equivale allo sviamento di potere, cioè
all’ uso del potere amministrativo per una finalità diversa da
quella stabilita dalla legge (incorre, ad es., in eccesso di potere il
sindaco che ordina la demolizione di un manufatto edilizio vicino
alla propria abitazione, non perché sia stato realizzato in
violazione della normativa edilizia, ma semplicemente per godere,
dal proprio appartamento, di una veduta più ampia: in questo
caso, il potere amministrativo affidato dalla legge al sindaco viene
utilizzato a fini privati).
Ma lo sviamento di potere ricorre anche quando la finalità
perseguita dall’ autorità sia anch’ essa una finalità pubblica, ma
diversa da quella per la quale il potere le è stato attribuito
(riproponendo l’ esempio avanzato in precedenza, l’ ordine di
demolizione è illegittimo anche nel caso in cui il sindaco intenda,
con esso, dare attuazione alla disciplina posta dal nuovo piano
regolatore, che prevede in quella zona l’ inedificabilità totale; in
questo modo, infatti, il sindaco cerca di ottenere con l’ ordine di
demolizione un risultato che può essere perseguito solo mediante
un provvedimento espropriativo e relativo indennizzo).
Impostata così la questione, si capisce che l’ eccesso di potere è
un vizio tipico dei poteri vincolati nel fine; di conseguenza, l’
accertamento di tale vizio implica un confronto tra il fine
concretamente perseguito e il fine che la legge ha imposto all’
autorità di perseguire, attribuendole quel potere. Questo
162
confronto, tuttavia, non è agevole, perché esso comporta un’
indagine sulle intenzioni dell’ agente; indagine che, tra l’ altro, è
ammessa soltanto quando il vero scopo dell’ agente risulti con
chiarezza dall’ atto impugnato o da qualcuno degli atti preparatori
ovvero da dichiarazioni rese in altra sede. È proprio per questo
motivo, allora, che (in presenza di tali difficoltà) il Consiglio di
Stato ha formulato la figura sintomatica dell’ eccesso di potere, in
virtù della quale è stato affermato che, anche se l’ eccesso non
risulta con chiarezza dalla documentazione, è comunque possibile
che da quest’ ultima emergano sintomi del vizio, che lasciano
presumere la sua esistenza (a meno che l’ amministrazione non
dimostri il contrario). Sintomi dell’ eccesso di potere sono oggi
considerati: la disparità di trattamento, la manifesta ingiustizia, la
contraddizione con precedenti provvedimenti, nonché il difetto, l’
insufficienza e la contraddittorietà della motivazione.
Analizziamoli singolarmente.
L’ amministrazione incorre nella disparità di trattamento quando
applica misure diverse in situazioni uguali, senza alcuna
giustificazione: ad es., due impiegati incorrono nella stessa
infrazione (furto di francobolli): ad uno viene inflitta la sanzione
disciplinare della censura (la più lieve), mentre all’ altro la
destituzione (la più grave).
Allo stesso genere appartiene l’ ingiustizia manifesta, che però (a
differenza della disparità di trattamento), non richiede un
confronto tra due fattispecie ed i rispettivi trattamenti:
riproponendo l’ esempio di prima, sarebbe manifestamente
ingiusta la destituzione di un impiegato sorpreso mentre si
appropria di alcuni francobolli (vi è sproporzione, cioè, tra il fatto
e la misura applicata).
Si ha, invece, contraddittorietà con precedenti provvedimenti
quando l’ autorità, discostandosi da una prassi, senza alcun
motivo, applica in un caso una misura diversa da quelle in
precedenza applicate: ad es., un sindaco rifiuta l’ autorizzazione
163
ad un mutamento di destinazione d’ uso (poniamo: da residenza
ad ufficio), quando, nella stessa zona, richieste di identico
contenuto erano state, in precedenza, tutte accolte.
Il travisamento dei fatti ricorre quando l’ autorità suppone l’
esistenza di un fatto inesistente o, viceversa, suppone l’
inesistenza di un fatto esistente: ad es., il sindaco rifiuta un’
autorizzazione all’ esercizio del commercio perché convinto
erroneamente che la zona sia satura di esercizi del genere.
Si ha omesso o insufficiente accertamento o omessa o
insufficiente istruttoria quando i presupposti richiesti dalla legge
per l’ adozione del provvedimento non sono stati acclarati
(comprovati) o lo sono stati in modo insufficiente: ad es., il
sindaco emette un provvedimento di urgenza, intimando la
demolizione di un edificio pericolante, avvalendosi del suo potere
di ordinanza in materia di edilizia, sanità ed incolumità pubblica,
sulla sola scorta della denuncia di un vicino (senza che l’ ufficio
tecnico comunale o i vigili urbani abbiano proceduto alla
necessaria verifica).
Si ha illogicità manifesta quando vi è incongruenza tra la
motivazione ed il dispositivo ovvero quando vi sono due
motivazioni in conflitto tra di loro ovvero ancora quando risulta
violata una regola logica: è illogica, ad es., la previsione di un
piano regolatore che, sulla premessa di un forte incremento
demografico del comune, riduca il perimetro dell’ area destinata a
residenze.
L’ eccesso di potere può anche consistere nella omessa
valutazione comparativa degli interessi in gioco: ad es., l’
amministrazione dei beni culturali e ambientali nega l’
autorizzazione ad aprire una cava, sul presupposto che la zona
contenga beni archeologici non ancora portati alla luce,
impedendo in tal modo la realizzazione di una diga capace di
portare acqua potabile ad una zona che ne ha bisogno (in questo
caso, un interesse pubblico ipotetico viene privilegiato rispetto ad
164
un interesse collettivo di immediata evidenza).
Una classica ipotesi di eccesso di potere è, poi, il vizio di
motivazione (omessa o insufficiente motivazione): si pensi, ad es.,
ad un atto di annullamento d’ ufficio di un precedente atto che
non faccia menzione dell’ interesse pubblico che giustifica il ritiro.
Di recente introduzione è, infine, il vizio derivante dalla violazione
del principio di proporzionalità (si tratta di una figura mutuata
dalla giurisprudenza amministrativa tedesca): esempio classico è
quello di una dichiarazione di pubblica utilità che investa un’ area
di gran lunga più vasta di quella necessaria per la realizzazione
dell’ opera pubblica (vi è, cioè, una sproporzione tra il sacrificio
inflitto al privato e le richieste dell’ interesse pubblico).
f) i vizi formali e i vizi sostanziali
L’ invalidità, determinata da violazione di legge, incompetenza o
eccesso di potere, espone l’ atto all’ annullamento da parte del
giudice amministrativo (art. 21 octies, co. 1 L. 241/90, come
modificato dalla L. 15/05), sempre che l’ atto venga impugnato
entro i termini stabiliti dalla legge. È importante specificare, però,
che se ricorrono anche i presupposti per l’ annullamento d’ ufficio
(se, cioè, oltre all’ invalidità, concorrono anche ragioni di pubblico
interesse, da contemperare con gli interessi dei destinatari e dei
controinteressati) il provvedimento invalido può essere annullato
anche dall’ amministrazione.
L’ art. 21 octies, co. 2 prevede, invece, due casi nei quali il
provvedimento, ancorché invalido (perché posto in essere in
violazione di legge), non può essere annullato né dal giudice
amministrativo, né dall’ amministrazione.
Il primo caso si verifica quando, pur essendo stato l’ atto adottato
in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti,
sia palese che il suo contenuto, a causa della sua natura
vincolata, non avrebbe potuto essere diverso.
Il secondo caso, invece, è quello del provvedimento (vincolato o
165
discrezionale) che l’ amministrazione ha posto in essere,
omettendo di comunicare all’ interessato l’ avvio del
procedimento: in una simile ipotesi il giudice non può annullare l’
atto, qualora l’ amministrazione dimostri in giudizio che il
contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso
da quello adottato in concreto.
Le due ipotesi si distinguono, oltre che per la diversa natura del
provvedimento, anche per la diversa modalità con la quale l’
annullabilità va negata: nel primo caso, infatti, deve essere
palese che il contenuto dell’ atto non avrebbe potuto essere
diverso da quello adottato; nel secondo caso, invece, deve essere
l’ amministrazione a dimostrare in giudizio che il contenuto del
provvedimento non poteva essere diverso da quello effettivo (a
ben vedere, però, l’ onere della prova a carico dell’
amministrazione è soltanto apparente, perché questa, nella
maggior parte dei casi si limiterà ad affermare che, anche se
fosse stato preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento, il provvedimento avrebbe avuto identico
contenuto; ciò vuol dire, quindi, che l’ onere della prova ricade
quasi sempre sul ricorrente).
§3. La nullità degli atti amministrativi
a) la carenza di potere
Come detto, la Corte di Cassazione, da alcuni decenni, ha
individuato uno spazio, non ampio, per la nullità del
provvedimento amministrativo.
Ad avviso del Supremo collegio, infatti, il principio di legalità
richiede che il potere esercitato dall’ autorità amministrativa
venga attribuito dalla legge, non solo in termini astratti, ma anche
166
in concreto: per fare un esempio, il potere di espropriare un
immobile di proprietà privata può essere esercitato soltanto
qualora detto immobile sia stato in precedenza dichiarato di
pubblica utilità (in base alla legge fondamentale del 1865); ne
consegue, pertanto, che se la dichiarazione di pubblica utilità
manca, manca l’ attribuzione in concreto del potere espropriativo;
ed il decreto di espropriazione è nullo per carenza di potere (Cass.
S.u. 36/01).
Ma carenza di potere, nel nostro caso, può esservi anche per un’
altra ragione: in virtù di una regola antichissima (che risale alla
citata legge del 1865), l’ atto che contiene la dichiarazione di
pubblica utilità deve stabilire i termini entro i quali le
espropriazioni ed i lavori devono essere compiuti: sicché un
decreto di espropriazione che sopravvenga dopo la scadenza del
termine finale previsto per l’ espropriazione (stabilito in sede di
dichiarazione di pubblica utilità) è nullo per carenza di potere
(Cass. S.u. 355/99).
È bene precisare, però, che le decisioni giurisprudenziali, in
questo campo, non sono state, nel tempo, uniformi; volendo
essere più chiari: in base all’ esempio citato (dell’ espropriazione
disposta dopo la scadenza del termine stabilito nella dichiarazione
di pubblica utilità) si potrebbe essere indotti a credere che, ogni
qual volta l’ esercizio del potere amministrativo sia sottoposto ad
un termine, il provvedimento adottato a termine scaduto sia nullo
per carenza di potere. Senonché, in tanti casi del genere, la
giurisprudenza ha ritenuto l’ atto annullabile (e non nullo): si
pensi, ad es., al caso dell’ annullamento, da parte del comitato
regionale di controllo, di una delibera di un consiglio comunale
dopo il termine di 20 gg. dal ricevimento di quest’ ultima; o al
caso dell’ autorizzazione amministrativa, sottoposta al regime del
silenzio-assenso, negata dopo la scadenza del termine previsto
per la formazione del silenzio.
Dagli esempi avanzati si capisce, pertanto, che la nozione di
167
carenza di potere non consente di stabilire in modo certo i confini
della nullità del provvedimento amministrativo, perché le
soluzioni escogitate dalla giurisprudenza sono specifiche
(applicabili caso per caso e non suscettibili di generalizzazione).
È bene precisare, infine, che (a differenza dell’ atto illegittimo-
annullabile, che può essere annullato dal giudice amministrativo o
dalla stessa autorità che lo ha posto in essere), la dichiarazione di
nullità spetta, invece, al giudice ordinario.
b) la nullità nella legge 15/2005
Degli sviluppi della giurisprudenza ha preso di recente atto il
legislatore, il quale ha introdotto nella L. 241/90 una disposizione
generale sulla nullità del provvedimento. L’ art. 21 septies
(introdotto con L. 15/05) stabilisce, infatti, che è nullo il
provvedimento amministrativo che manca degli elementi
essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è
stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli
altri casi espressamente previsti dalla legge.
Come si può notare, la disposizione in esame disciplina quattro
casi di nullità. Analizziamoli.
1° caso: la mancanza degli elementi essenziali corrisponde alla
mancanza dei requisiti che rende nullo il contratto (artt. 1418 e
1325 c.c.); a differenza del contratto, però, per il provvedimento
amministrativo non v’è alcuna norma che preveda i suoi requisiti
o i suoi elementi; e non è, quindi, agevole stabilire quando l’ atto
è nullo per mancanza di un elemento essenziale. Ciò non toglie,
però, che il provvedimento amministrativo possa essere
scomposto in elementi più semplici (oggetto, forma, etc.); sicché
l’ attenzione deve spostarsi sulla identificazione di questi ultimi
[per intenderci: il provvedimento amministrativo ha un oggetto (l’
oggetto del decreto di espropriazione è un bene altrui, dell’
autorizzazione un’ attività altrui, della sovvenzione una somma di
denaro, etc.); sicché è nullo, ad es., il decreto di espropriazione
168
emesso tardivamente dopo che l’ amministrazione ha acquistato
la proprietà del bene per effetto di occupazione acquisitiva (nullo
perché avrebbe ad oggetto un proprio bene)].
Allo stesso modo, un difetto radicale di forma (ad es., la
mancanza della sottoscrizione) dà luogo sicuramente a nullità
(per l’ impossibilità di imputare il provvedimento al suo autore).
2° caso: il difetto assoluto di attribuzione viene ricondotto dalla
dottrina (Cerulli Irelli) alla categoria della carenza di potere in
astratto, di cui parla la Cassazione (si tratta delle ipotesi nelle
quali non sussiste il potere in capo all’ amministrazione che lo ha
esercitato). Di conseguenza, verrebbe a ricadere nell’ ambito dell’
annullabilità la carenza di potere in concreto: quella cioè che
deriva dalla mancanza di un presupposto essenziale per la
fondazione del potere (ad es., la dichiarazione di pubblica utilità
rispetto all’ espropriazione). Al riguardo, tuttavia, è necessario
sottolineare che la nuova disciplina della fattispecie (art. 43 D.P.R.
327/01: per diventare proprietario di un bene espropriato, in
assenza di dichiarazione di pubblica utilità, l’ amministrazione
deve adottare un nuovo atto di acquisizione) sembra, in realtà,
confermare l’ orientamento della Cassazione: ciò vuol dire, quindi,
che (almeno in questo caso) il provvedimento emesso in carenza
di potere in concreto (il decreto di espropriazione) continua ad
essere nullo.
3° caso: la nullità dell’ atto posto in essere in violazione o
elusione del giudicato è stata riconosciuta dal giudice
amministrativo da oltre un decennio; la nullità, in tal caso,
consiste nel fatto che l’ attività di esecuzione del giudicato non è
solo attività amministrativa (e, in quanto tale, rivolta alla cura di
un interesse pubblico), ma è anche attività di adempimento degli
obblighi, che nascono dal giudicato, a carico dell’
amministrazione.
4° caso: l’ ultima categoria di atti nulli abbraccia, infine, i casi
espressamente previsti dalla legge (si pensi, ad es., alla nullità
169
delle assunzioni agli impieghi senza concorso, ex art. 3 D.P.R.
3/57, ovvero agli atti posti in essere dopo la scadenza del periodo
di prorogatio della carica, di cui alla L. 444/94).
§4. Le misure a carico degli atti invalidi
A ciascuna forma di invalidità-illegittimità corrisponde una misura
specifica: l’ annullamento per gli atti annullabili e la dichiarazione
di nullità per gli atti nulli.
Il potere di annullamento è dato al giudice amministrativo, all’
autorità competente a decidere i ricorsi amministrativi e all’
autorità che ha emanato l’ atto in sede di riesame; la declaratoria
di nullità, invece, compete al giudice ordinario. Questa singolare
ripartizione si spiega con il fatto che gli stati patologici del
provvedimento amministrativo sono legati a differenti situazioni
soggettive del privato (situazioni che, a loro volta, condizionano la
giurisdizione); sicché, l’ atto nullo è correlato ad un diritto
soggettivo, mentre quello annullabile ad un interesse legittimo.
Occorre specificare, però, che il quadro sopra illustrato è stato in
parte modificato dalla disposizione contenuta nell’ art. 21 septies
L. 241/90, il quale, infatti, stabilisce che nel caso in cui ci si trovi
di fronte a questioni concernenti la nullità di provvedimenti
amministrativi, in violazione o elusione del giudicato, queste
saranno di competenza del giudice amministrativo: la
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in tal caso, si
giustifica in considerazione del fatto che, in presenza di una
violazione o elusione del giudicato, persiste l’ inadempimento
dell’ amministrazione; e la relativa controversia rientra tra le
competenze del giudice dell’ ottemperanza (che è il giudice
amministrativo).
Tuttavia, al di fuori del caso sopraindicato, non è neppure certo
che nelle altre ipotesi di nullità la giurisdizione spetti sempre al
giudice ordinario: lo sarà quando il privato interessato vanta un
diritto soggettivo, che il provvedimento amministrativo nullo pone
170
in contestazione. Viceversa, quando di fronte all’ atto nullo il
privato vanta solo un interesse legittimo (l’ interesse, ad es., ad
ottenere una sovvenzione), la competenza a decidere spetterà al
giudice amministrativo.
Quanto detto trova oggi conferma nel fatto che il criterio utilizzato
per individuare il giudice competente, che un tempo si fondava
sul tipo di invalidità che si intendeva denunciare (annullabilità o
nullità), è stato sostituito dal criterio che si basa sulla situazione
soggettiva in gioco: in altri termini, nel caso in cui si tratti di un
diritto soggettivo si farà ricorso al giudice ordinario, mentre nel
caso in cui in gioco ci sia un interesse legittimo, la competenza
ricadrà sul giudice amministrativo.
§5. I vizi di merito dell’ atto amministrativo
Al vizio di legittimità il nostro ordinamento affianca il vizio di
merito dell’ atto amministrativo; più precisamente, si può dire che
l’ atto è viziato nel merito quando è inopportuno, ingiusto o
comunque difforme da un criterio di buona amministrazione.
In ogni caso, è necessario sottolineare che, a differenza del vizio
di legittimità (che ha una portata generale), il vizio di merito
rileva solo nei casi in cui la legge lo prevede; e lo ha previsto sia
quando ha attribuito al giudice amministrativo una competenza
speciale di merito (che si è affiancata a quella di legittimità), sia
quando ha previsto un controllo di merito (ad es., sulle delibere
dei consigli comunali o provinciali che approvano il bilancio o i
regolamenti).
Va anche detto, però, che oggi la giurisdizione di merito ha più
che altro un valore antiquario, dal momento che nessuna delle
materie previste dalla legge istitutiva della IV sezione del
Consiglio di Stato (1889) conserva alcuna attualità; del resto, la
sola materia che conserva un valore attuale (ricorso per
esecuzione del giudicato) non comporta un sindacato di merito
sull’ atto, perché il giudice valuta soltanto se l’ amministrazione
171
ha ottemperato o meno al giudicato amministrativo.
Lo stesso discorso può essere fatto in relazione al controllo di
merito, vista sia l’ eliminazione (nel 1990) del controllo di merito
sugli atti degli enti locali (comuni e province), che la
soppressione, con l. cost. 3/01, dell’ art. 130 Cost., che ha
eliminato il controllo regionale sulle delibere degli enti locali.
Il controllo di merito persiste, invece, nei riguardi di certi atti degli
enti pubblici nazionali sottoposti a vigilanza ministeriale e degli
enti pubblici pararegionali sottoposti a vigilanza regionale.
Sezione V
I servizi pubblici
§1. Le funzioni pubbliche e i servizi pubblici
La dottrina amministrativistica (italiana e francese) ha sempre
distinto l’ attività giuridica (o autoritativa) da quella sociale (o di
prestazione). Nei riguardi della prima il privato si pone come
cittadino (si pensi, ad es., all’ attività che lo Stato esplica per
assicurare l’ ordine pubblico o l’ amministrazione della giustizia),
mentre nei confronti della seconda egli si atteggia come utente
(utente, ad es., di servizi di trasporto, di servizi postali, di energia
elettrica, di telecomunicazioni, etc.).
Le due specie di attività su descritte si differenziano, innanzitutto,
per il regime giuridico; tale differenza è efficacemente espressa
dal nostro codice penale, il cui art. 357 stabilisce, infatti, che la
pubblica funzione amministrativa è disciplinata da norme di diritto
pubblico o da atti autoritativi ed è caratterizzata dalla formazione
e dalla manifestazione della volontà della pubblica
amministrazione. L’ art. 358 c.p. stabilisce, invece, che il pubblico
servizio, pur essendo disciplinato nelle stesse forme (norme di
diritto pubblico e atti autoritativi), è caratterizzato dalla
mancanza dei poteri tipici della pubblica funzione.
172
Per comprendere meglio la differenza tra l’ attività autoritativa e
quella sociale proponiamo un esempio: una cosa è ordinare un
comportamento (come quello di presentarsi alla leva militare
obbligatoria, esistita sino a poco tempo fa) o vietarne un altro
(come quello di superare un determinato limite di velocità); altra
cosa è, invece, rendere una prestazione sanitaria in un ospedale
pubblico o consentire a chi ha pagato il biglietto di salire su un
treno. Solo nel primo caso l’ amministrazione si presenta come
autorità (ossia come un soggetto munito di poteri autoritativi); nel
secondo caso, invece, il pubblico rende un servizio che non
costituisce esplicazione di un potere autoritativo (perché all’
ospedale o sul treno il privato ci va solo se vuole).
§2. Pubblico e privato nel servizio
A questo punto dobbiamo porci i seguenti questi: quando un
servizio può essere definito pubblico? Perché è pubblico il servizio
reso nell’ ambulatorio di un ospedale pubblico e non lo è quello
reso in uno studio medico privato? Nel cercare di rispondere a
queste domande, la dottrina francese, che ha dedicato al tema in
esame un’ attenta analisi, ha identificato il servizio pubblico come
quell’ attività la cui esplicazione deve essere assicurata, regolata
e controllata dai governanti, in quanto indispensabile alla
realizzazione e allo sviluppo dell’ interdipendenza sociale e che è
di natura tale da non poter essere completamente realizzata se
non con l’ intervento della forza di governo (Duguit).
Questa definizione mette in luce due elementi:
• il dovere di esplicare l’ attività; un dovere che, a sua volta, si
fonda sul fatto che le prestazioni in cui l’ attività si concreta sono
indispensabili allo sviluppo della società (indispensabili, cioè, alla
realizzazione del pubblico interesse);
• l’ impossibilità che l’ attività possa essere svolta da un soggetto
diverso dal pubblico potere (i governanti).
Questa simbiosi tra natura pubblica dell’ interesse da soddisfare e
173
natura pubblica del soggetto abilitato ed obbligato a soddisfarlo
ha rappresentato la base per lo sviluppo dei servizi pubblici in
Europa (si pensi, ad es., alle poste, alle ferrovie o alla telefonia).
§3. Il quadro costituzionale
La nostra Costituzione non contiene una disciplina dei pubblici
servizi; menziona soltanto i servizi pubblici essenziali (servizi
economici) all’ art. 43: questa disposizione stabilisce, infatti, che
la legge può riservare o trasferire, mediante espropriazione e
salvo indennizzo, allo Stato determinate imprese, qualora queste
si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a
situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente
interesse generale.
All’ interno della nostra Carta fondamentale vengono, poi, indicati
anche singoli servizi: questi, però, non sono qualificati come
servizi pubblici, ma come servizi sociali: l’ assistenza (artt. 31 e
38), la sanità (art. 32), la previdenza sociale (art. 38, co. 2), l’
istruzione (artt. 33 e 34) e i trasporti regionali e locali (art. 117).
Da quest’ elenco, tuttavia, possiamo estrarre delle regole ben
precise.
1° regola: innanzitutto, va detto che, alla stregua dell’ art. 43
Cost., ci sono servizi pubblici (quelli essenziali) che vengono
prodotti nella forma dell’ impresa: come impresa pubblica è stato
strutturato, ad es., l’ ENEL (Ente Nazionale per l’ energia
elettrica), istituito nel 1962 per la produzione e la distribuzione
dell’ energia elettrica in regime di monopolio legale; e come
impresa pubblica è tuttora organizzata la RAI-TV, chiamata (a suo
tempo: 1975) a gestire il servizio pubblico della diffusione
radiofonica e televisiva.
2° regola: il servizio pubblico può essere erogato da un soggetto
privato; ciò lo si desume, a contrario, dalla stessa formulazione
dell’ art. 43 Cost., ai sensi del quale, infatti, le imprese che
producono servizi pubblici essenziali possono essere riservate o
174
trasferite (mediante espropriazione) allo Stato e ad enti pubblici
solo quando hanno carattere di preminente interesse generale.
Da quanto detto si può dedurre, pertanto, che se il servizio è
pubblico anche quando è gestito da un imprenditore privato viene
meno il nesso indissolubile tra la natura pubblica del servizio e la
natura pubblica del soggetto abilitato a soddisfarlo.
3° regola: come abbiamo visto in precedenza, la Costituzione
propone una bipartizione dei servizi pubblici: i servizi pubblici
essenziali, ex art. 43 (che vengono prodotti da un’ impresa,
pubblica o privata), e i servizi previsti dagli artt. 31, 32, 33, 34 e
38 (assistenza, sanità, previdenza e istruzione), per i quali,
invece, valgono formule e criteri diversi rispetto ai primi (quelli
essenziali).
• Innanzitutto, è necessario sottolineare che, a differenza dei
servizi pubblici essenziali, i singoli servizi previsti dalla
Costituzione non sono suscettibili di nazionalizzazione; e ciò lo si
desume dalla prospettiva normativa: l’ art. 38, ult. co. stabilisce,
infatti, che l’ assistenza privata è libera; l’ art. 33, co. 2 afferma
che enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di
educazione; lo stesso dicasi in relazione alla previdenza sociale,
dal momento che l’ art. 38, co. 4 prevede che ai compiti ad essa
relativi provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo
Stato (e l’ integrazione da parte dello Stato presuppone,
ovviamente, un’ iniziativa originaria del privato); analogo discorso
può essere fatto per la sanità, perché l’ obbligo di tutelare la
salute (art. 32) non implica necessariamente l’ istituzione di un
Servizio sanitario nazionale (avvenuto in concreto nel 1978), né
comporta un monopolio pubblico delle prestazioni sanitarie.
Da quanto detto emerge chiaramente, quindi, che accanto al
dovere delle istituzioni (cioè, dello Stato) di assicurare assistenza,
salute, previdenza sociale e istruzione, la Costituzione prevede un
diritto (o una libertà) del soggetto privato di rendere questi
servizi: in altri termini, a differenza di quanto accade per i servizi
175
pubblici essenziali (in relazione ai quali vi è una successione di
pubblico e privato), per i singoli servizi previsti dalla Costituzione
vi è una sorta di coesistenza di pubblico e privato.
• L’ altra differenza tra i due tipi di servizi (quelli economici
previsti dall’ art. 43 e quelli sociali contemplati dagli artt. 31 ss.)
consiste nel modello organizzativo, perché non sempre ai servizi
sociali è applicabile il modello dell’ impresa: per alcuni di essi (si
pensi, ad es., all’ istruzione obbligatoria o alle cure gratuite agli
indigenti) vi è, infatti, la necessità di coprire dei costi elevati con
somme che, non potendo essere addossate agli utenti, vanno
ricercate altrove (ciò significa, quindi, che non si possono coprire i
costi di produzione con i ricavi, come farebbe, per definizione, un’
impresa).
• Quanto detto fa emergere una terza differenza tra i servizi
pubblici essenziali, ex art. 43, e quelli sociali, ex artt. 31 ss.: i
primi, in quanto erogati da un’ impresa (pubblica o privata)
vengono corrisposti dietro un prezzo a carico dell’ utente (si
pensi, ad es., al prezzo del francobollo per il servizio postale o al
prezzo del biglietto per il servizio di trasporto).
I servizi sociali, invece, sono prestati anche se, in alcuni casi, gli
utenti non pagano alcun prezzo: si pensi, ad es., agli indigenti
ovvero ai cittadini inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari
per vivere.
§4. I modelli organizzativi
Dall’ entrata in vigore della Costituzione fino agli anni ’90
abbiamo avuto una diversa organizzazione dei servizi pubblici tra
il centro e la periferia; al centro facevano capo i grandi servizi
nazionali: poste, ferrovie, telefonia, radiotelevisione, trasporti
marittimi, trasporti aerei, etc. (si trattava, cioè, di servizi la cui
erogazione era riservata allo Stato).
176
In seguito, il modello organizzativo ha conosciuto due diverse
forme:
• la gestione diretta mediante azienda di Stato (Poste e Ferrovie)
o ente pubblico economico (ENEL);
• la gestione mediante concessionario, costituito, il più delle
volte, da società a partecipazione statale (sicché lo Stato era, ad
un tempo, concedente e concessionario o comunque titolare della
maggioranza del capitale sociale della società concessionaria): è
questo il sistema che è stato prescelto, ad es., per la telefonia
(concessionaria la SIP) e per il trasporto aereo (Alitalia).
A livello locale sono state, invece, sperimentate due forme di
gestione del servizio:
• la gestione diretta a mezzo di appalto (l’ appaltatore rende alla
cittadinanza il servizio, ad es., di nettezza urbana, per conto del
comune, dal quale riceve un prezzo);
• la gestione a mezzo di azienda municipalizzata.
§5. I princìpi di diritto europeo
I principi giuridici sui quali si reggono i servizi pubblici hanno
subìto un radicale mutamento a seguito dell’ intervento del diritto
comunitario. Le linee essenziali di questo sistema sono le
seguenti.
• Nel Trattato di Roma non si fa menzione del servizio pubblico, se
non all’ art. 73, ove si fa rifermento al settore dei trasporti, e all’
art. 86, ove si parla di servizi di interesse economico generale
(nozione corrispondente a quella di servizio pubblico economico,
ex art. 43 Cost.). Come si può notare, restano fuori dalla
previsione i servizi sociali, riguardo ai quali ogni Stato ha
mantenuto le proprie competenze (va detto, però, che i princìpi in
tema di servizi economici tendono oggi ad estendere la loro
efficacia anche nell’ ambito dei servizi sociali).
• L’ art. 86 del Trattato stabilisce che i servizi di interesse
economico generale devono essere prestati da imprese; da
177
questo punto di vista, il dettato comunitario ricalca il regime
delineato dall’ art. 43 Cost.; ma a differenza del regime che è
prevalso in Italia sino ad una decina di anni addietro, le imprese
che forniscono servizi di interesse economico generale sono
soggette alle regole della concorrenza, come qualunque altra
impresa che produce servizi.
• Le regole della concorrenza, tuttavia, non sono applicabili
qualora sussista il pericolo che la loro osservanza possa
pregiudicare la missione affidata alle imprese che gestiscono
servizi di interesse economico generale. Ciascun servizio, infatti,
ha una missione sua propria: ad es., distribuire la corrispondenza,
trasportare i viaggiatori da un luogo all’ altro, consentire alla
gente di comunicare a distanza, etc.; vi è, però, anche una
missione comune a tutti: la missione, cioè, di assicurare un
minimo di servizi di una qualità determinata, accessibili a tutti gli
utenti (a prescindere dalla loro ubicazione geografica) ed offerti
ad un prezzo abbordabile. È in tal senso che si parla del cd.
principio di eguaglianza nella fruizione del pubblico servizio
(principio elaborato dalla dottrina francese e penetrato, poi, nel
diritto comunitario). Ovviamente, si tratta di un principio che non
sempre si concilia con la logica del mercato e della concorrenza:
nessun imprenditore, ad es., sarebbe disposto a distribuire la
posta nei paesini di alta montagna, difficilmente accessibili e con
popolazione rada (o lo farebbe facendo pagare il servizio a prezzi
esorbitanti, allo scopo di coprire i costi elevati, e a condizioni
disagevoli per l’ utenza). È per tal motivo che in questi casi si
rende necessario l’ intervento dei pubblici poteri: i soli che, infatti,
possono obbligare le imprese che gestiscono il servizio a
raggiungere anche quel tipo di utenti ad un prezzo per loro
accessibile.
• L’ accesso degli utenti al servizio in condizioni di eguaglianza
costituisce uno degli elementi fondamentali per il miglioramento
del tenore e della qualità di vita, nonché per la coesione
178
economica e sociale (si tratta di due degli obiettivi principali che l’
art. 2 del Trattato assegna alla Comunità). Esso, però, pone due
problemi.
Il primo riguarda la misura del servizio da rendere accessibile a
tutti; a tal riguardo, il diritto europeo ha isolato, all’interno di ogni
servizio di interesse economico generale, un ambito più ristretto:
il cd. servizio universale. Ora, che cosa debba intendersi per
servizio universale ce lo dice la Corte di Giustizia CE (causa
Corbeau, 1993), la quale, con riferimento al servizio postale, ha
stabilito che coincide con il servizio universale la raccolta, il
trasporto e la distribuzione della corrispondenza ordinaria, a
favore di tutti gli utenti, su tutto il territorio dello Stato, a tariffe
uniformi e a condizioni di qualità simili. Esula, viceversa, dal
servizio universale un servizio di posta espressa, con raccolta a
domicilio, possibilità di modificare la destinazione durante l’
inoltro e recapito in giornata. Ne consegue, pertanto, che il
monopolio legale si giustifica soltanto per il servizio universale,
ossia per quel complesso elementare che va assicurato a tutti, ma
non per il valore aggiunto (ossia per quei servizi che esulano da
quel complesso elementare).
Il secondo problema è quello dei costi: se, infatti, il servizio
universale deve essere garantito ad un prezzo abbordabile per
tutti, esso finisce, almeno in parte, per essere fornito sotto costo
(da qui l’ esigenza di coprire la differenza tra costi e ricavi). A tal
riguardo, va detto comunque che il diritto europeo lascia liberi gli
Stati membri dell’ Unione di decidere come finanziare i servizi di
interesse economico generale; le principali soluzioni adottate
sono le seguenti: il sostegno finanziario diretto (attraverso le
risorse del bilancio), la riserva del diritto di svolgere il servizio a
due o più imprese (diritto speciale) o ad una sola (diritto
esclusivo), i contributi degli operatori di mercato e il
finanziamento basato su princìpi di solidarietà.
• La libertà degli Stati nella scelta delle modalità di finanziamento
179
del servizio universale trova, però, un limite nel divieto di aiuti di
Stato, ex art. 87 Trattato CE, il quale, infatti, stabilisce che sono
incompatibili con il mercato comune gli aiuti concessi dagli Stati
che, favorendo talune imprese o produzioni, falsino la
concorrenza. È bene precisare, tuttavia, che l’ aiuto di Stato
(vietato dal Trattato) non deve essere confuso con la
compensazione finanziaria, che rappresenta soltanto la
contropartita di obblighi di servizio pubblico imposti dagli Stati
membri (e che è ammessa dal diritto europeo). In questa
prospettiva, la Corte di Giustizia, in una pronuncia del 2003
(causa Altmark), ha indicato le quattro condizioni affinché la
compensazione non si trasformi in aiuto di Stato:
• in primo luogo, l’ impresa beneficiaria deve essere
effettivamente incaricata dell’ assolvimento degli obblighi di
servizio pubblico;
• in secondo luogo, i parametri in base ai quali verrà calcolata la
compensazione devono essere predeterminati in modo obiettivo;
• in terzo luogo, la compensazione deve essere idonea a coprire
tutti o parte dei costi originati dall’ adempimento dell’ obbligo di
servizio pubblico;
• infine, l’ impresa incaricata dell’ assolvimento degli obblighi di
servizio deve essere scelta con una gara di appalti pubblici.
• La dottrina francese ha sempre indicato (tra le regole del
servizio pubblico) il cd. principio di continuità, in virtù del quale il
servizio pubblico non tollera interruzioni; del resto, occorre
osservare che nel nostro ordinamento l’ interruzione di un servizio
pubblico è considerato un delitto (art. 331 c.p.). Il principio in
esame (e lo stesso fatto che il nostro codice penale qualifichi
come delitto l’ interruzione di un pubblico servizio) ha un solido
fondamento e un’ importanza particolare. Infatti, è necessario
sottolineare che, poiché la libertà di impresa include anche la
libertà di cessazione dell’ attività imprenditoriale (e comporta,
quindi, il rischio che un servizio di interesse generale cessi dall’
180
oggi al domani), occorrono degli strumenti per impedire che ciò
avvenga; il principale di questi, nel diritto comunitario, è costituito
dagli obblighi di servizio: l’ incarico della gestione di un servizio di
interesse generale viene, cioè, conferito dai pubblici poteri ad una
o più imprese, le quali si obbligano a rendere il servizio ad un
determinato prezzo e per una durata prestabilita, ricevendo, a
loro volta, una compensazione degli obblighi di servizio.
• La soggezione alle regole della concorrenza presuppone che per
ogni servizio di interesse economico generale vi siano più imprese
in lizza (e, ovviamente, che la loro non sia una cerchia chiusa); in
realtà, è sufficiente questa osservazione per accorgersi di quanto
sia distante da questo quadro la situazione dei servizi pubblici in
Italia. Di recente, però, in seguito ad alcune direttive emanate
dalla Commissione europea, riguardanti settori fondamentali
(poste, ferrovie, telecomunicazioni, trasporto aereo e marittimo),
il nostro Paese è stato costretto ad aprire alla concorrenza la
gestione dei servizi pubblici (cd. liberalizzazione).
§6. L’ attuazione delle direttive comunitarie
L’ attuazione delle direttive comunitarie ha portato (a partire dalla
metà degli anni ’90) a profonde trasformazioni nell’ assetto dei
servizi pubblici italiani (nazionali e locali). A tal fine, si
prenderanno in considerazione i settori dell’ energia elettrica, dei
trasporti di linea e delle poste.
a) Energia
Nel 1962 (con L. 1643/62) la produzione, il trasporto e la
distribuzione dell’ energia elettrica sono state riservate allo Stato
(e il relativo servizio è stato affidato, in regime di monopolio, all’
ENEL, in virtù del principio contenuto nell’ art. 43 Cost.).
In attuazione, però, della direttiva 92/96/CE, il d.lgs. 79/99 ha
separato le varie fasi del ciclo, dichiarando libere le attività di
produzione, importazione, acquisto e vendita e mantenendo la
181
riserva (allo Stato) soltanto per la trasmissione, il dispacciamento
e la distribuzione dell’ energia (sul presupposto che, in queste fasi
persiste una sorta di monopolio naturale). La riserva è realizzata a
mezzo di concessione, che il Ministro delle Attività produttive
rilascia al gestore della rete nazionale (una s.p.a. costituita dall’
ENEL). Il gestore, a sua volta, ha l’ obbligo di connettere alla rete
di trasmissione nazionale tutti coloro che ne facciano richiesta
(alle condizioni stabilite dall’ Autorità per l’ energia elettrica e il
gas, che garantisce l’ imparzialità e la neutralità del servizio,
stabilendo, tra l’ altro, anche la tariffa base).
La distribuzione viene articolata per ambiti comunali: in ciascun
territorio comunale viene rilasciata un’ unica concessione, il cui
titolare (imprese elettriche comunali o rami di azienda dell’ ENEL
trasferiti ai comuni) è tenuto a connettere alla propria rete coloro
che ne facciano richiesta.
Gli utenti finali sono distinti in due categorie: i clienti idonei (cioè,
le imprese industriali) e i piccoli consumatori.
Il quadro esposto ha, tuttavia, subìto delle modifiche a seguito
della riforma costituzionale del 2001, la quale, con un’ improvvida
previsione, ha attribuito alla competenza delle regioni la
produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’ energia
(il Parlamento, però, ha posto riparo al problema con L. 239/04).
b) Trasporti di linea
Le Ferrovie in Italia (come negli altri paesi europei) sono state
gestite dallo Stato in forma monopolistica dalla fine del XIX sec.;
con il passare del tempo, tuttavia, la crescente concorrenza delle
altre forme di trasporto e l’ obsolescenza delle infrastrutture e del
materiale (legata alla stessa gestione monopolistica) hanno
generato paurosi deficit che, nei singoli paesi, sono stati colmati
con gli aiuti di Stato (aiuti che, in materia di trasporti, sono
consentiti dal Trattato).
La direttiva 91/440/CE ha, però, introdotto una nuova regola, vale
182
a dire: la separazione tra la gestione dell’ infrastruttura (che è
stata mantenuta in regime di monopolio) e la gestione del servizio
di trasporto ferroviario (che è stata, invece, liberalizzata, ossia
aperta ad una pluralità di imprese).
Occorre specificare, in ogni caso, che la separazione tra l’ attività
di gestione dell’ infrastruttura e quella di trasporto ferroviario è
stata attuata in Italia già nel 1988 (D.P.R. 277/88) attraverso la
costituzione di imprese separate per la gestione della rete, da un
lato, e l’ esercizio dell’ attività di trasporto, dall’ altro. Con un
successivo decreto ministeriale, la gestione dell’ infrastruttura è
stata rilasciata a FS (Ferrovie dello Stato) per la durata di 60 anni;
il gruppo FS si è, poi, scisso in una s.p.a. RFI (Rete ferroviaria
italiana) e in una s.p.a. Trenitalia (quest’ ultima è destinata a
concorrere con le altre imprese ferroviarie che abbiano ottenuto la
licenza dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti).
c) Poste
Nel nostro paese il servizio postale (raccolta, trasporto e
distribuzione della corrispondenza) è stato esercitato in regime di
monopolio dello Stato (dal 1973), che lo ha gestito a mezzo dell’
apposita azienda di Stato. Questo assetto è stato, però,
modificato con il d.lgs. 261/99 (in attuazione della direttiva
96/97/CE); in virtù di tale modifica, nell’ ambito del servizio, viene
oggi distinto il servizio universale dai servizi che esulano da
questo: il servizio universale comprende la raccolta, il trasporto e
lo smistamento di invii postali fino a 2 kg.; la raccolta, il trasporto,
lo smistamento e la distribuzione di invii postali fino a 20 kg.; i
servizi relativi agli invii raccomandati e agli invii assicurati.
Il servizio universale deve essere continuo (cioè, per tutta la
durata dell’ anno), diffuso in tutti i punti del territorio nazionale e
accessibile a tutti.
Dal punto di vista dei soggetti abbiamo, da un lato, un fornitore
del servizio universale (Poste s.p.a., nata dalla vecchia Azienda
delle Poste), affiancato da titolari di licenza individuale; e, dall’
183
altro, determinate imprese che, sulla base di un’ autorizzazione
rilasciata dal Ministro delle Comunicazioni, offrono al pubblico
servizi non rientranti nel servizio universale (cd. servizi a valore
aggiunto).
Sezione VI
L’ attività di diritto di privato
§1. Gli interessi pubblici e gli strumenti di diritto privato
Come sappiamo le pubbliche amministrazioni sono tenute a
soddisfare interessi pubblici; non sono, però, obbligate a farlo
sempre mediante l’ utilizzo di poteri pubblicistici e con l’ adozione
di provvedimenti amministrativi. Ciò significa, quindi, che gli
interessi pubblici possono essere soddisfatti anche con strumenti
di diritto privato (così, ad es., il terreno necessario per realizzare
un’ opera pubblica, oltre ad essere espropriato, può anche essere
comprato dall’ ente pubblico; allo stesso modo, il Servizio
sanitario nazionale può erogare le sue prestazioni non solo
attraverso gli ospedali pubblici, ma anche attraverso le cliniche
private).
Quanto detto trova conferma anche nella Costituzione, la quale,
184
infatti, indica come doverosi determinati compiti pubblici
(qualificandoli come interessi pubblici: sanità, previdenza,
assistenza, istruzione, etc.), ma riconosce, allo stesso tempo, ai
privati la libertà o il diritto di perseguirli. In questo modo, la
nostra Carta fondamentale ammette che interessi pubblici
possano essere soddisfatti da soggetti privati (e, quindi, con
strumenti di diritto privato). Ovviamente, se interessi pubblici
possono essere soddisfatti da soggetti privati è evidente che gli
stessi interessi possono essere egualmente soddisfatti da soggetti
pubblici mediante strumenti di diritto privato (si può, ad es.,
immaginare un sistema scolastico, le cui prestazioni formino il
contenuto di contratti identici a quelli conclusi da una scuola
privata con i suoi allievi).
A questa considerazione di fondo ne va aggiunta un’ altra, che
riguarda, da un lato, il regime giuridico dell’ ente pubblico e, dall’
altro, la sua struttura di azienda. È necessario sottolineare, infatti,
che la persona giuridica pubblica è, innanzitutto, una persona
giuridica, munita della stessa capacità di agire di cui dispone la
persona fisica (con l’ esclusione, beninteso, di quei poteri, diritti e
facoltà che postulano necessariamente la fisicità della persona):
così, ad es., che il comune o l’ INPS possano concludere un
contratto non dipende dall’ espresso conferimento legislativo di
una competenza a contrarre, ma dipende dalla loro qualità di
persona giuridica.
Per quanto riguarda l’ altro aspetto (l’ ente pubblico come
azienda), va specificato che l’ apparato pubblico è un’
organizzazione che ha bisogno di risorse (inputs) necessarie per
raggiungere i fini che le sono assegnati e conseguire, così, i
risultati voluti (outputs); tali risorse sono, come sappiamo, quelle
umane (impiegati), quelle finanziarie (denaro) e quelle materiali
(ad es., i locali dove ospitare gli uffici, il materiale di cancelleria, i
computers per l’ amministrazione della giustizia, etc.). Ora,
qualcuna di queste risorse viene acquisita mediante strumenti
185
pubblicistici (si pensi al denaro che proviene dal prelievo
tributario); altre, invece, sono ottenute mediante contratto, vale a
dire attraverso lo strumento principale che consente all’
amministrazione di acquisire le risorse necessarie per lo
svolgimento delle sue attività (quali, ad es., l’ attività di
certificazione e di realizzazione di opere pubbliche o l’ attività di
tutela dell’ ordine pubblico).
§2. I contratti delle pubbliche amministrazioni
L’ autonomia contrattuale dell’ amministrazione si manifesta in
modi diversi, tre dei quali sono essenziali:
• la libertà di contrarre (e, quindi, anche di non contrarre, ossia di
non concludere il contratto);
• la libertà di scegliere la controparte (ad es., vendo a Tizio, ma
non a Caio);
• la libertà di convenire le condizioni contrattuali (ad es., vendo a
Tizio per 10, ma pretendo da Caio 100, se vuole comprare).
Su tutti e tre i piani, però, l’ autonomia dell’ amministrazione è
limitata, dal momento che, se l’ autorità o il funzionario che per
essa agisce fossero liberi di scegliere il contraente, la scelta
potrebbe ricadere su di una determinata persona, dando luogo,
così, a dei favoritismi inaccettabili (cd. accordi collusivi).
Da quanto detto discendono, pertanto, due fondamentali regole:
• la prima regola sottrae all’ amministrazione e ai suoi agenti la
scelta del contraente, affidandola, invece, a dei meccanismi
oggettivi (l’ asta pubblica e la licitazione privata);
• la seconda regola prevede, da un lato, che le clausole
fondamentali del contratto devono essere determinate prima
della stipulazione e a mezzo di un atto diverso dal contratto
stesso (ad es., capitolato, disciplinare, etc.) e, dall’ altro, che il
contenuto di quest’ atto ulteriore deve essere approvato da un
organo diverso da quello competente a scegliere il contraente e a
sottoscrivere il contratto (ad es., nell’ ente locale competente ad
186
approvare il contenuto dell’ atto è l’ organo consiliare).
§3. L’ influenza del diritto europeo
La materia dei contratti delle pubbliche amministrazioni ha subìto
la profonda influenza del diritto europeo. La considerazione dalla
quale gli organi della Comunità hanno preso le mosse più di trent’
anni fa è la seguente: il Trattato vuole garantire la libera
circolazione delle merci e dei servizi e la libertà di stabilimento
delle imprese; tuttavia, queste libertà incontrano forti ostacoli al
loro esercizio nelle normative degli Stati membri, perché questi,
nel disciplinare i contratti delle pubbliche amministrazioni,
dettano regole che limitano la legittimazione a contrarre alle
imprese nazionali (e i cui effetti si manifestano soprattutto nel
mercato degli appalti di lavori, di servizi e di forniture).
Al fine di aggirare quest’ ostacolo, pertanto, la Commissione e il
Consiglio europeo hanno adottato determinate direttive volte al
riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e
amministrative degli Stati membri per assicurare l’ instaurazione
e il funzionamento del mercato interno. Va anche detto che
queste direttive, in una prima fase, hanno regolato
separatamente gli appalti di lavori pubblici, gli appalti di servizi e
quelli di forniture; mentre più di recente è stata emanata una
direttiva unica (18/04); è bene precisare, però, che in virtù di una
precedente direttiva (17/04), restano disciplinati separatamente
gli appalti nei settori che in passato venivano definiti settori
esclusi e che oggi sono, invece, qualificati come settori separati:
gas, energia elettrica, acqua, trasporti, servizi postali e
sfruttamento di area geografica.
La legge comunitaria (L. 62/05) ha, poi, delegato il Governo a
recepire le due direttive (d.lgs. 163/06), raccogliendo in un unico
testo sia la disciplina degli appalti di rilevanza comunitaria sia
quella degli appalti sotto soglia comunitaria [vale a dire: sia le
direttive che stabiliscono una soglia di valori (cioè, un importo), al
187
di sopra della quale esse vincolano gli Stati membri, sia quelle
che stabiliscono una soglia, al di sotto della quale gli stessi Stati
conservano un certo margine di autonomia].
§4. Il procedimento contrattuale
Il contratto che viene concluso da una pubblica amministrazione è
collocato a chiusura di un procedimento, composto dai seguenti
atti:
• la deliberazione a contrattare;
• il bando di gara;
• la presentazione delle offerte;
• l’ apertura delle buste contenenti le offerte e l’ aggiudicazione;
• l’ approvazione dell’ aggiudicazione;
• la stipulazione del contratto.
a) la deliberazione a contrattare
La separazione tra il momento della determinazione dei contenuti
fondamentali del contratto e il momento della contrattazione vera
e propria (scelta del contraente e stipulazione) è formulata
chiaramente nell’ ordinamento degli enti locali: ai sensi, infatti,
dell’ art. 192 d.lgs. 267/00 la stipulazione dei contratti deve
essere preceduta da un’ apposita determinazione del
responsabile del procedimento di spesa, indicante:
• il fine che con il contratto si intende perseguire;
• l’ oggetto del contratto, la sua forma e le clausole essenziali;
• le modalità di scelta del contraente e le ragioni che ne sono alla
base.
La sequenza sopra descritta, anche se enunciata esplicitamente
per gli enti locali, è valida per tutte le amministrazioni, ad
eccezione dei ministeri (in questi ultimi, infatti, vi è una sorta di
inversione, perché il contratto concluso deve essere, a sua volta,
approvato con decreto dirigenziale e successivamente sottoposto
al controllo della Corte dei Conti, qualora superi l’ importo
188
previsto dalla normativa comunitaria).
b) il bando di gara
La determinazione di contrarre (che è assunta con la delibera)
viene esternata e pubblicizzata con il bando di gara, che
rappresenta l’ atto attraverso il quale l’ amministrazione rende
pubblica la volontà di addivenire ad un contratto. Al riguardo, è
necessario sottolineare che una parte della dottrina assimila il
bando all’ offerta al pubblico, ex art. 1336 c.c. (che vale come
proposta contrattuale), mentre un’ altra parte della dottrina lo
assimila ad una invitatio ad offerendum, ossia ad un invito a fare
un’ offerta (in questo modo, però, le parti si invertono, perché la
proposta non viene più dall’ amministrazione, ma dalla
controparte; sicché, l’ amministrazione, accettando, dà luogo alla
conclusione del contratto).
La normativa europea richiede che al bando sia data la massima
pubblicità: anche con la pubblicazione nella G.U. delle Comunità
europee (per gli appalti sopra soglia), in modo che dell’ appalto,
indetto con il bando, vengano a conoscenza le imprese europee
interessate, permettendo alle stesse di concorrere (d.lgs. 163/06).
Il bando deve fornire alle imprese le informazioni essenziali per la
formulazione dell’ offerta: importo, durata, criteri di
aggiudicazione, documentazione da presentare, termini e requisiti
di partecipazione; nonostante, però, le linee generali siano
regolate dalla legge, ciascuna amministrazione può introdurre nel
bando clausole specifiche, le quali vincolano la stessa
amministrazione, il seggio di gara e le imprese partecipanti (in tal
senso, si dice che il bando di gara costituisce la lex specialis del
procedimento). Tali clausole (ad avviso della giurisprudenza)
possono essere di due tipi: quelle che comportano l’ impossibilità
di partecipare (cioè, che precludono ad una determinata impresa
la possibilità di partecipare alla gara o rendono nulla l’ offerta da
questa presentata) e quelle che producono un effetto lesivo
189
durante la gara (cioè, l’ esclusione di un’ impresa e l’
aggiudicazione della gara ad un’ altra impresa).
Le clausole del primo tipo devono essere immediatamente
impugnate (se l’ impresa vuole ottenere l’ ammissione alla gara);
in quelle del secondo tipo, invece, l’ impresa può limitarsi ad
impugnare l’ esito della gara congiuntamente al bando.
c) la legittimazione ad offrire
In Italia vigeva la regola, dal 1962, che limitava la partecipazione
alle gare d’ appalto indette dalle pubbliche amministrazioni
(superiori ad una certa soglia di valore) alle ditte iscritte nell’ Albo
nazionale costruttori; iscritte, però, per un certo importo (sicché
non potevano partecipare a gare d’ appalto di importo più
elevato) e per una determinata specializzazione (ad es., gasdotti,
strade, dighe, etc.). Tutto ciò comportava non solo l’ esclusione
delle imprese straniere dalla partecipazione alla gara, ma se si
considera la presenza di norme a favore di certi territori (ad es., il
Mezzogiorno) o di certe categorie di imprese (ad es., le imprese
cooperative) ne risultava anche una vera e propria
predeterminazione dell’ offerta.
Quest’ assetto è stato, però, modificato dal diritto comunitario, il
quale ha fatto leva sui princìpi di libertà di circolazione delle merci
e dei servizi, di libertà di stabilimento e di libertà di movimento di
capitali (si tratta di princìpi che, come detto in precedenza,
risultano violati da normative interne, nel momento in cui queste
riservano gli appalti alle imprese nazionali). In questa prospettiva,
pertanto, è necessario che oggi gli appalti vengano aggiudicati
con procedure concorsuali e siano pubblicizzati in modo adeguato
(bandi europei); diventa essenziale, altresì, che i bandi non
contengano clausole discriminatorie e che la partecipazione delle
imprese non sia subordinata all’ iscrizione in albi gestiti a livello
nazionale.
Ovviamente, non può essere ignorata l’ esigenza che l’ impresa
190
partecipante (alla gara per l’ appalto di lavori, di servizi o di
forniture) sia qualificata (che fornisca, cioè, garanzie di buona
esecuzione); pertanto, in luogo dell’ iscrizione nei relativi albi, il
diritto europeo richiede che l’ impresa partecipante abbia una
capacità economica, finanziaria e tecnica adeguata alla natura e
al contenuto dell’ appalto (in particolare, la capacità economico-
finanziaria viene comprovata dalle dichiarazioni bancarie, dai
bilanci e dal fatturato; la capacità tecnica, invece, è comprovata
dall’ elenco delle principali commesse nel triennio precedente,
dall’ elenco delle indicazioni dei tecnici, dei titoli di studio da loro
posseduti, delle attrezzature tecniche a disposizione, etc.).
Per allargare, poi, la platea delle imprese ammesse a partecipare
alle gare, la normativa europea ha introdotto un particolare
istituto: l’ associazione temporanea di imprese. Tali associazioni
possono essere di tipo orizzontale, nel qual caso imprese che
forniscono lo stesso bene o rendono lo stesso servizio o realizzano
la stessa specie di lavoro mettono insieme le proprie forze per
moltiplicare la capacità economica, finanziaria e tecnica, in modo
da poter partecipare alle gare per l’ aggiudicazione di appalti (ai
quali, in dipendenza della loro limitata dimensione, non
potrebbero aspirare).
Le associazioni temporanee possono anche essere di tipo
verticale: in particolare, nell’ appalto di lavori (ma il criterio si
applica anche per gli appalti di servizi e forniture), per
raggruppamento temporaneo di imprese di tipo verticale si
intende una riunione di concorrenti, in cui uno di essi realizza i
lavori della categoria prevalente, mentre gli altri realizzano i
lavori scorporabili (ad es., gli impianti di riscaldamento).
Infine, sempre allo scopo di allargare il novero delle imprese
abilitate a lavorare per le pubbliche amministrazioni, la normativa
europea prevede e disciplina anche il subappalto: ossia lo
scorporo di una quota delle prestazioni richieste all’ appaltatore e
il loro affidamento (da parte dello stesso appaltatore) ad altra
191
impresa minore (cd. ausiliaria).
d) le amministrazioni aggiudicatrici
Lo Stato, le regioni e gli enti locali, allo scopo di aggirare la
normativa comunitaria, hanno spesso concluso i contratti di
appalto a mezzo di soggetti giuridici diversi da sé, ma che ne
costituiscono, in ogni caso, una sorta di longa manus (ad es., un’
azienda di Stato, una s.p.a., un’ associazione, etc.). Per arginare il
problema, allora, la direttiva comunitaria 18/04, recepita dall’
Italia con d.lgs. 163/06, ha incluso, tra le amministrazioni
aggiudicatrici, oltre allo Stato e agli enti pubblici, anche gli
organismi di diritto pubblico, intendendosi per tali qualsiasi
organismo:
• istituito per soddisfare bisogni di interesse generale (e non
avente carattere commerciale o industriale);
• avente personalità giuridica;
• e la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato
o dagli enti locali o la cui gestione sia soggetta al controllo di
questi ultimi.
Al riguardo, va precisato che la Corte di Giustizia CE ritiene che le
tre condizioni richieste debbano sussistere congiuntamente,
affinché la struttura possa essere qualificata come organismo di
diritto pubblico.
e) la scelta del contraente
Per quanto riguarda la scelta del contraente, il diritto europeo
(direttiva 18/04) prevede quattro modalità: la procedura aperta, la
procedura ristretta, la procedura negoziata e il dialogo
competitivo.
La procedura aperta è quella in cui ogni operatore economico può
presentare un’ offerta (si tratta, in altri termini, dell’ asta
pubblica).
La procedura ristretta, invece, è quella in cui ogni operatore
192
economico può chiedere di partecipare; ma soltanto gli operatori
economici invitati dalle stazioni appaltanti (cioè, dalle
amministrazioni) potranno presentare un’ offerta (la figura in
esame corrisponde all’ antica licitazione privata, alla quale
partecipavano le imprese invitate dall’ amministrazione con la cd.
lettera-invito, contente l’ indicazione dell’ oggetto del contratto,
del luogo, del giorno e dell’ ora stabiliti per la presentazione delle
offerte).
È chiaro che la limitazione della partecipazione alle sole ditte
prescelte dall’ amministrazione ha la funzione di escludere dal
confronto concorrenziale imprese che potrebbero non essere
idonee; presenta, però, l’ inconveniente di rimettere all’
amministrazione una scelta che potrebbe essere ispirata da
ragioni di favoritismo. Per ovviare a questo problema, il legislatore
ha modificato l’ istituto, introducendo una fase di preselezione: in
tal modo, l’ amministrazione, invece di diramare direttamente le
lettere-invito, pubblica un avviso di gara contenente l’ indicazione
dell’ oggetto, dell’ importo del contratto e dei requisiti di
partecipazione; una volta pubblicato l’ avviso di gara, le imprese
che intendono partecipare e posseggono i requisiti richiesti
possono chiedere di essere invitate entro il termine stabilito nell’
avviso; a questo punto, la stazione appaltante dirama l’ invito a
tutti coloro che hanno chiesto di partecipare (previa verifica del
possesso dei requisiti).
La procedura negoziata, invece, è quella nella quale le stazioni
appaltanti consultano gli operatori economici da esse scelti e
negoziano con uno o più di essi le condizioni dell’ appalto (la
figura in esame corrisponde alla nostra vecchia trattativa privata).
La normativa comunitaria distingue due diverse modalità di
procedura negoziata:
• la procedura negoziata preceduta da un bando, qualora si sia
rivelata infruttuosa una procedura aperta o ristretta;
• la procedura negoziata non preceduta da un bando nei casi di
193
estrema urgenza (non imputabile all’ amministrazione appaltante)
ovvero nel caso in cui il contratto debba essere affidato ad un
operatore economico determinato (ad es., perché titolare di diritti
esclusivi).
Il dialogo competitivo, infine, è una procedura nella quale la
stazione appaltante, tenuto conto della complessità dell’ appalto,
avvia un dialogo con i candidati ammessi a tale procedura, al fine
di elaborare delle soluzioni atte a soddisfare le sue necessità; in
relazione a tali soluzioni, i candidati selezionati presenteranno le
proprie offerte.
Per quanto riguarda il rapporto che intercorre tra le procedure
analizzate, è bene precisare che la stazione appaltante deve
attenersi, di regola, alla procedura aperta o a quella ristretta
(quest’ ultima, però, deve essere preferita qualora il contratto
abbia ad oggetto non solo l’ esecuzione, ma anche la
progettazione ovvero qualora il criterio di aggiudicazione sia
quello dell’ offerta economicamente più vantaggiosa); viceversa,
il ricorso alla procedura negoziata e al dialogo competitivo è
ammesso soltanto nei casi espressamente previsti.
Infine, è necessario sottolineare che nelle procedure ristrette e
negoziate e nel dialogo competitivo l’ amministrazione deve
stabilire il numero massimo delle imprese da invitare (la cd.
forcella), qualora lo richieda la difficoltà dell’ opera, della fornitura
o del servizio (vi è comunque un numero minimo di imprese da
invitare, che è di dieci nelle procedure ristrette e di sei in quelle
negoziate).
f) il criterio di aggiudicazione
Il criterio di aggiudicazione è sicuramente uno degli aspetti più
tormentati della disciplina dei pubblici appalti. Nonostante ciò, il
diritto europeo è comunque assestato su due criteri: il criterio del
prezzo più basso ed il criterio dell’ offerta economicamente più
vantaggiosa.
194
Il prezzo più basso è quello che corrisponde alla percentuale di
ribasso più elevata sul prezzo posto a base d’ asta (ad es., base d’
asta: 1 milione di euro; ribasso più elevato: 10%; prezzo
contrattuale: 900 mila euro); è bene precisare che si parla di
percentuale di ribasso perché la base d’ asta costituisce il tetto
che le imprese partecipanti non devono superare, chiedendo un
prezzo più elevato. La commissione o il seggio di gara, aperte le
buste (contenenti l’ offerta economica) aggiudica l’ appalto all’
impresa che ha offerto il prezzo più basso.
Quando, invece, il criterio prescelto è quello dell’ offerta
economicamente più vantaggiosa, il bando di gara stabilisce gli
elementi di valutazione (ad es., il prezzo, la qualità, il pregio
tecnico, le caratteristiche estetiche e funzionali, le caratteristiche
ambientali, il costo di utilizzazione e di manutenzione, la
redditività, la data di consegna, etc.) e il peso da attribuire a
ciascuno di essi (ad es., al prezzo compete il 40% del punteggio a
disposizione della commissione di gara).
g) la verifica dell’ anomalia
Una questione di rilievo, in tema di appalti, è quella relativa alla
presentazione di offerte anomale (di quelle offerte, cioè, che
presentano un ribasso talmente eccessivo rispetto all’ oggetto del
contratto da far dubitare dell’ affidabilità delle stesse); in
presenza di un’ offerta anomala, il legislatore non distingue più
tra appalti sopra soglia e sotto soglia (per i quali sanciva l’
esclusione automatica) ed il procedimento di verifica in
contraddittorio si applica ad entrambe le tipologie di appalti.
L’ ipotesi dell’ esclusione automatica negli appalti sotto soglia non
è, però, del tutto scomparsa: essa, infatti, è ancora prevista nel
settore dei lavori pubblici, dei servizi e delle forniture.
195
h) la stipulazione del contratto
Le parti sottoscrivono il testo (cioè, il contratto in senso stretto),
nel quale sono riprodotte alcune clausole del bando ed è indicato
il prezzo risultante dall’ offerta. In alcuni casi la stipulazione ha
carattere meramente riproduttivo di un accordo che si è
perfezionato al momento dell’ aggiudicazione; in altri casi, invece,
la stipulazione coincide con la conclusione del contratto (ciò
accade, ad es., nella procedura negoziata, ove manca una fase di
aggiudicazione, distinta dalla fase di stipulazione; e si verifica,
talvolta, anche quando trova applicazione il criterio dell’ offerta
economicamente più vantaggiosa).
i) schemi particolari
La prassi e la legislazione di settore hanno introdotto alcune
varianti allo schema contrattuale descritto. Analizziamole
singolarmente.
1° variante: le stazioni appaltanti possono acquistare lavori,
servizi e forniture facendo ricorso a centrali di committenza da
esse istituite, anche associandosi o consorziandosi (la
contrattazione viene, così, accentrata in poche amministrazioni).
2° variante: una pluralità di appalti può essere aggiudicata ad uno
o più operatori economici sulla base di un accordo quadro, nel
quale vengono stabilite le clausole dei futuri appalti (in
particolare, per quanto riguarda i prezzi e le quantità previste).
3° variante: il sistema dinamico di acquisizione è un processo
interamente elettronico per acquisti di uso corrente, limitato nel
tempo (4 anni) e aperto a tutti gli operatori economici (che
presentino un’ offerta adeguata ai criteri di aggiudicazione
enunciati nel bando); l’ impresa inclusa nel sistema ha il diritto di
essere invitata in occasione di ogni appalto specifico che abbia ad
oggetto i beni, in funzione dei quali il sistema è stato creato.
4° variante: una variante dell’ appalto di lavori è costituita dalla
196
concessione dei lavori pubblici, che ha ad oggetto la
progettazione e l’ esecuzione di opere pubbliche o di pubblica
utilità; e si caratterizza in funzione del corrispettivo che, di regola,
consiste nel diritto di gestire o di sfruttare economicamente le
opere realizzate. La concessione, tranne rare eccezioni, non può
avere durata superiore ai 30 anni.
5° variante: i lavori possono essere realizzati anche con capitale
privato qualora alla realizzazione segua una gestione lucrativa: in
tal caso, quindi, vi è una partecipazione del privato alla spesa
(partecipazione che è disciplinata nella cd. finanza di progetto). In
questa prospettiva, l’ amministrazione, nell’ ambito dei
programmi di opere pubbliche che intende realizzare negli anni
successivi, indica quelli suscettibili di attuazione a mezzo di
capitali privati (in quanto suscettibili di gestione economica); fatto
ciò, i soggetti in possesso dei requisiti tecnici, organizzativi,
finanziari e gestionali (i cd. promotori) presentano una proposta; e
se questa viene giudicata di pubblico interesse, l’
amministrazione indìce una gara, a seguito della quale viene
scelto il concessionario.
Sezione VII
La responsabilità della pubblica amministrazione
§1. Le premesse storiche
Il tema della responsabilità dello Stato (e, quindi, dell’
amministrazione pubblica) per i danni cagionati a terzi ha sempre
costituito un punto molto importante e, allo stesso tempo,
controverso del nostro sistema giuridico; ciò risulta confermato
197
dal processo e dall’ evoluzione storica degli orientamenti della
dottrina e della giurisprudenza. Invero, nella seconda metà del
XIX sec. la situazione nel nostro Paese si presentava molto
articolata: ai fini della responsabilità dell’ amministrazione per
danni cagionati a terzi, la nostra giurisprudenza, infatti,
distingueva tra atti di imperio (contro i quali non era prevista
nessuna responsabilità dello Stato e degli enti pubblici) e atti di
gestione (per i quali, invece, veniva riconosciuta la responsabilità
dello Stato e degli enti pubblici secondo le regole comuni). La
distinzione tra atti di imperio e atti di gestione veniva fedelmente
espressa in una sentenza della Corte di Cassazione del 1897: in
questa pronuncia, infatti, il Supremo Collegio stabilì che il comune
di Roma non poteva essere chiamato a rispondere del furto di
animali, avvenuto nella stalla comunale, ai danni di chi aveva
depositato gli animali in vista della successiva macellazione nel
mattatoio pubblico; e ciò perché, essendo la custodia temporanea
delle bestie strumentale alla successiva macellazione (che era
funzione di governo e non mera gestione patrimoniale), non
potevano trovare applicazione i princìpi contrattuali sulla
responsabilità del depositario.
La sentenza in esame, tuttavia, fu aspramente criticata dalla
dottrina, la quale negava che la distinzione tra atti di imperio e
atti di gestione potesse essere posta a base del regime della
responsabilità civile della pubblica amministrazione; e questo
perché anche un atto di imperio (un atto amministrativo
illegittimo) poteva essere illecito, in presenza di un concorso di
colpa del funzionario (anche in tal caso si cagionava, cioè, un
danno verso terzi; un danno che dava diritto al risarcimento del
danno); non poteva, quindi, escludersi una responsabilità civile
della pubblica amministrazione nell’ esercizio di un potere
amministrativo (o di imperio).
In virtù di queste considerazioni, nel XX sec. la distinzione tra atti
di imperio e atti di gestione, come criterio utilizzato per
198
determinare il regime della responsabilità, venne abbandonata e
si affermò, pertanto, il principio dell’ ammissibilità della
responsabilità della pubblica amministrazione in ogni caso,
indipendentemente dalla natura del potere esercitato (di imperio
o di gestione).
Tutto ciò in teoria, perché nella pratica, almeno fino alla pronuncia
della Cassazione 500/99, la giurisprudenza ha ragionato in questi
termini: poiché il danno ingiusto presuppone la lesione di un
diritto soggettivo (ma non di un interesse legittimo), perché
contra jus, e all’ atto amministrativo viene attribuito l’ effetto di
degradare il diritto soggettivo a interesse legittimo, il danno
prodotto dall’ atto amministrativo (e, quindi, nell’ esercizio di un
potere di imperio) non è risarcibile (a meno che il giudice
amministrativo non annulli l’ atto, facendo rivivere il diritto
soggettivo).
§2. L’ articolo 28 della Costituzione
Il discorso sulla responsabilità della pubblica amministrazione è
stato ripreso dall’ art. 28 Cost., il quale, infatti, stabilisce che i
funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono
direttamente responsabili, secondo le leggi civili, penali e
amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti.
In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti
pubblici.
Da questa disposizione si possono ricavare diverse indicazioni.
1° indicazione: la responsabilità civile degli agenti (cioè, dei
funzionari e dei dipendenti) e la responsabilità dello Stato o dell’
ente pubblico sono coestese; nel senso che laddove c’è la
responsabilità dell’ agente c’è anche la responsabilità della
pubblica amministrazione; e, viceversa, non dovrebbe esserci
responsabilità della pubblica amministrazione senza
responsabilità dell’ agente.
Sia l’ amministrazione che il suo agente, quindi, rispondono
199
civilmente dei danni cagionati a terzi; qualora, però, sia stato
cagionato un danno erariale (che può consistere anche nella
somma di denaro che l’ amministrazione è obbligata a pagare ai
terzi danneggiati), l’ amministrazione ha il diritto di rivalersi sull’
agente, che sarà chiamato dinanzi al giudice della responsabilità
amministrativa (la Corte dei Conti).
2° indicazione: la responsabilità civile degli agenti e la
responsabilità civile dell’ amministrazione sono disciplinate dalle
stesse regole che valgono nei rapporti tra privati; è in questo
senso che va letto l’ art. 28 Cost., nella parte in cui prevede il
rinvio alle leggi civili, cioè al codice civile (oltre che alle leggi
penali e amministrative).
3° indicazione: il terzo presupposto della responsabilità prevista
dall’ art. 28 Cost. è il compimento, da parte degli agenti, di atti in
violazione di diritti; ciò significa, quindi, che quel che conta non è
il fatto che la violazione sia conseguenza di un mero
comportamento posto in essere dal dipendente pubblico (ossia
nell’ esercizio di un attività di gestione) ovvero di un
provvedimento amministrativo (che costituisce esercizio di un
potere di imperio), ma conta il fatto che, operando, l’ agente
abbia violato un diritto del privato.
Una parte della dottrina ritiene, poi, che il riferimento
costituzionale all’ inciso violazione di diritti negherebbe la
risarcibilità degli interessi legittimi; sul punto, in realtà, l’
Assemblea Costituente, non essendosi pronunciata all’ epoca,
sembra aver lasciato aperta la strada a qualsiasi tipo di
conclusione (non bisogna dimenticare, però, che la formula
violazione di diritti rappresenta il frutto dell’ estensione della
formula originariamente proposta dalla Costituente: violazione dei
diritti di libertà sanciti dagli artt. 13 ss., senza alcun riferimento
alla contrapposizione tra diritto ed interesse).
4° indicazione: mentre gli agenti rispondono direttamente degli
atti compiuti in violazione di diritti, alla pubblica amministrazione
200
la responsabilità civile è estesa.
Ora, posta la questione in questi termini, si potrebbe pensare che
la responsabilità dell’ amministrazione diventi indiretta o
sussidiaria (in tal senso si espresse l’ Onorevole Nobile all’
Assemblea Costituente); in realtà (come affermò l’ Onorevole
Pisanelli) non è così, perché, al contrario, è il principio della
responsabilità dell’ amministrazione che viene esteso alle persone
fisiche (dipendenti) che agiscono per essa.
Con ciò si vuol dire, quindi, che con l’ art. 28 Cost. non si è inteso
trasformare la responsabilità civile della pubblica amministrazione
da diretta in indiretta (se così fosse stato ne sarebbe risultata
indebolita la garanzia del cittadino leso, dal momento che il
patrimonio dell’ amministrazione è molto più capiente); viceversa,
lo scopo perseguito è stato quello di creare una sorta di
parallelismo tra la responsabilità diretta dell’ amministrazione e la
responsabilità (sempre diretta) degli agenti (in tal modo, del fatto
dannoso ne rispondono solidalmente sia l’ amministrazione che
gli agenti).
La legislazione ordinaria, tuttavia, ha alterato questo parallelismo:
l’ art. 23, D.P.R. 3/57 ha stabilito, infatti, che l’ impiegato statale
risponde solo quando abbia agito con dolo o colpa grave; occorre
precisare, tra l’ altro, che questa limitazione (al dolo o alla colpa
grave) è stata estesa a tutti gli agenti della pubblica
amministrazione, siano essi funzionari onorari o professionali o
impiegati (L. 639/96). A differenza di questi, invece, l’
amministrazione risponde, secondo i princìpi civilistici, anche per
colpa lieve (questa esonera l’ agente, ma non la pubblica
amministrazione).
Viceversa, qualora il dipendente abbia agito allo scopo di
perseguire un fine privato ed egoistico (estraneo, quindi, all’
amministrazione), lui solo risulterà responsabile, perché manca in
questo caso un collegamento tra le finalità dell’ amministrazione
e le finalità dell’ agente.
201
§3. La responsabilità aquiliana (o extracontrattuale)
a) i criteri di imputazione della responsabilità
L’ art. 28 Cost., sottoponendo la responsabilità degli agenti (e,
quindi, anche quella della pubblica amministrazione) alle leggi
civili, enuncia il principio della piena soggezione della pubblica
amministrazione alle forme di responsabilità civile previste dal
codice civile.
Ora, come sappiamo, il codice prevede diverse forme di
responsabilità civile, quali: la responsabilità fondata sulla colpa
(dolo o colpa, ex art. 2043), la responsabilità, per i danni
cagionati dall’ incapace, di chi è tenuto alla sorveglianza (art.
2047), la responsabilità dei genitori, tutori, precettori e maestri d’
arte (art. 2048), la responsabilità dei padroni e committenti (art.
2049), la responsabilità per l’ esercizio di attività pericolose (art.
2050), la responsabilità per il danno cagionato da cose in
custodia, da animali, da rovina di edificio o da circolazione di
veicoli (artt. 2051-2054).
Ora, per la vastità dei suoi compiti e per l’ ampiezza dei suoi beni,
è chiaro che la pubblica amministrazione (fatta eccezione per la
responsabilità dei genitori) è suscettibile di incorrere in ciascuna
di dette forme di responsabilità: essa gestisce, ad es., i reparti
neurologici degli ospedali pubblici e, quindi, deve sopportare i
danni prodotti a terzi da parte di persone incapaci di intendere e
di volere; amministra scuole e, quindi, risponde (come gli
insegnanti) dei danni cagionati dagli allievi; esercita attività
pericolose, come il servizio ferroviario, e pertanto deve rispondere
degli eventuali danni cagionati; è titolare di beni e, quindi, è
tenuta alla loro custodia (si pensi, ad es., ai danni cagionati dalla
cattiva manutenzione delle strade).
Ovviamente, la forma più frequente di responsabilità della
pubblica amministrazione è quella prevista dall’ art. 2043 c.c. (cd.
202
responsabilità aquiliana o extracontrattuale), ai sensi del quale il
fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto,
obbliga colui che lo ha commesso a risarcire il danno (è bene
precisare che la questione più controversa, nell’ applicazione di
questo principio alla pubblica amministrazione, è se per danno
ingiusto debba intendersi solo quello conseguente alla lesione di
un diritto soggettivo o anche quello derivante dalla lesione di un
interesse legittimo).
b) la responsabilità nell’ esercizio di una potestà amministrativa
In applicazione dei princìpi civilistici, un illustre studioso del diritto
amministrativo (Guicciardi) ha affermato che, affinché si possa
parlare di una responsabilità della pubblica amministrazione,
debbono ricorrere le seguenti condizioni:
• l’ esistenza del fatto o dell’ atto, delle cui conseguenze
giuridiche si disputa;
• l’ imputabilità dell’ atto o del fatto all’ amministrazione
(piuttosto che alla persona del funzionario che lo ha posto in
essere);
• l’ illiceità dell’ atto o del fatto;
• l’ esistenza di un danno giuridico, consistente nella privazione,
diminuzione o alterazione di un diritto soggettivo del cittadino;
• l’ esistenza di un rapporto di causalità tra l’ atto illecito e il
danno prodotto (con esclusione, quindi, dei casi in cui il danno sia
derivato da cause di forza maggiore o dal fatto stesso del
danneggiato).
Questo schema, elaborato in applicazione dell’ art. 2043 c.c.,
subisce, tuttavia, delle alterazioni nei casi in cui la responsabilità
non dipenda più dalla colpa (qualunque fatto doloso o colposo),
ma da altri fattori: basti osservare, infatti, che in alcuni di questi
203
casi la colpa diventa del tutto irrilevante (si pensi, ad es., alla
responsabilità dei padroni e committenti per il fatto dei commessi,
ex art. 2049 c.c., che dà luogo ad una vera e propria
responsabilità oggettiva); in altri casi, invece, viene in rilievo il
solo rapporto di causalità (artt. 2051-2052 c.c.: si pensi, ad es., ai
danni cagionati da cose in custodia o da animali; a ben vedere, in
queste ipotesi, la colpa non è più una qualificazione del fatto, ma
del soggetto che è legato da un rapporto di custodia o di
proprietà con la cosa o con l’ animale dannoso); in altri casi,
infine, la colpa che conta non è quella dell’ autore del fatto
dannoso (ad es., del minore, dell’ incapace o dell’ alunno), ma
quella di chi ha il dovere di vigilarlo (artt. 2047-2048 c.c.).
Lo stesso discorso può essere fatto in relazione all’ ente pubblico
(amministrazione), perché non v’è nulla di peculiare che lo
riguardi nel sistema degli artt. 2047 ss. c.c. Invero, l’ unica vera
particolarità, a proposito della responsabilità della pubblica
amministrazione, è ravvisabile quando il fatto dannoso, di cui all’
art. 2043 c.c., consiste in un provvedimento amministrativo; in
questi casi, infatti, ci si pone il seguente quesito: se il fatto doloso
o colposo coincide con l’ esercizio di una potestà amministrativa,
l’ amministrazione è tenuta a risarcire il danno ingiusto?
La domanda proposta non trova una semplice risposta, anche
perché il problema è reso ancor più complesso a causa della
costruzione dell’ efficacia del provvedimento amministrativo e
dell’ assetto della tutela giurisdizionale che è connesso a tale
costruzione. Alcuni esempi potranno rendere bene l’ idea: una
espropriazione illegittima danneggia il proprietario; così come il
diniego di un’ autorizzazione danneggia il soggetto che ne ha
fatto richiesta.
Nel primo caso il privato danneggiato non potrà rivolgersi al
giudice civile per il risarcimento dei danni, ex art. 2043 c.c., ma
dovrà adire il giudice amministrativo per ottenere l’ annullamento
del decreto di espropriazione illegittimo; solo dopo aver
204
conseguito questo risultato potrà rivolgersi al giudice civile per
ottenere la restituzione dell’ immobile (se questo non è stato
irreversibilmente trasformato) o il risarcimento danni. Il transito
per due giurisdizioni è reso obbligatorio dal fatto che, poiché il
decreto di espropriazione degrada il diritto di proprietà (diritto
soggettivo), il privato potrà azionare solo l’ interesse legittimo
dinanzi al giudice amministrativo; una volta che questi,
annullando l’ atto, avrà ricostituito l’ originaria situazione di diritto
soggettivo, di tale diritto potrà essere chiesto il risarcimento
danni dinanzi al giudice civile.
Diverso, invece, è il caso del diniego di autorizzazione
amministrativa, perché, secondo l’ opinione dominante, il privato
vanta un interesse, non un diritto all’ autorizzazione; sicché il
rifiuto di questa non dà titolo ad un’ azione risarcitoria dinanzi al
giudice civile. Anche in questa ipotesi, quindi, il privato si
rivolgerà al giudice amministrativo; solo che l’ eventuale
annullamento del diniego di autorizzazione non aprirà l’ accesso
alla giurisdizione civile per un’ azione di danni (a differenza del
proprietario espropriato, infatti, il privato, in questo caso,
continua a vantare un interesse legittimo).
c) il danno da lesione di un interesse legittimo
Dalle considerazioni precedenti emerge, quindi, l’ importanza che
per il tema in esame riveste la questione degli interessi legittimi;
interessi nei confronti dei quali, prima della fondamentale sent.
500/99 della Corte di Cassazione, era disconosciuto qualsiasi tipo
di risarcibilità.
La situazione, più precisamente, era posta in questi termini:
• è risarcibile il diritto soggettivo che viene leso da un fatto
illecito che l’ amministrazione ha posto in essere nella sua
capacità di diritto privato o comunque al di fuori dell’ esercizio di
una potestà amministrativa;
• non è risarcibile il diritto soggettivo che viene degradato ad
205
interesse legittimo dal provvedimento amministrativo (lo diventa
solo quando il provvedimento viene annullato dal giudice
amministrativo con una sentenza che restituisce alla situazione
soggettiva del privato consistenza di diritto soggettivo).
Da queste considerazioni si deduceva, pertanto, che non era
risarcibile, di per sé, l’ interesse legittimo: sia che esso fosse nato
dalla compressione del diritto soggettivo, sia che esso ab origine
si fosse configurato come interesse legittimo (soprattutto come
interesse all’ adozione di un provvedimento favorevole).
Questo dogma della irrisarcibilità degli interessi legittimi ha,
tuttavia, cominciato ad essere riconsiderato con il d.lgs. 80/98;
difatti, la legge delega (art. 11, co. 4, L. 59/97) aveva stabilito
che, nelle materie dell’ edilizia, dell’ urbanistica e dei servizi
pubblici, al giudice amministrativo venivano devolute le
controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali consequenziali,
ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno.
Interpretando in modo estensivo la delega, il Governo attribuì alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le materie dell’
edilizia, dell’ urbanistica e dei servizi pubblici (artt. 33 e 34 d.lgs.
80/98), stabilendo, all’ art. 35, che in queste (materie) il giudice
dispone il risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso la
reintegrazione in forma specifica (questa lettura, però, come
spiegherà la Consulta nella sent. 292/00, si risolve in un eccesso
di delega).
In ogni caso, nel solco di questa indicazione (fornita dalla
legislazione del 1997/98), la Corte di Cassazione, attraverso una
sentenza divenuta celeberrima (sent. 500/99), ha optato per una
completa rivisitazione della posizione tradizionale della
irrisarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi. La Corte,
in particolare, muovendo dalla premessa che l’ art. 2043 c.c.
collega l’ obbligo di risarcimento al fatto di aver colpevolmente
cagionato un danno ingiusto, senza far menzione della situazione
soggettiva incisa (diritto soggettivo o interesse legittimo), è
206
giunta alla conclusione che qualunque pregiudizio (danno),
arrecato alla sfera altrui senza giustificazione, obbliga colui che lo
ha cagionato a risarcirlo, anche quando soggetto danneggiante è
una pubblica amministrazione e il danno è arrecato ad un
interesse legittimo.
Dopo aver enunciato quest’ importante principio, però, la
Suprema Corte ha ritenuto opportuno fissare dei paletti, perché
consapevole delle difficoltà alle quali sarebbe stata esposta la
finanza pubblica (e, in ultimo, il contribuente) nel caso di un
risarcimento generalizzato.
Il primo limite posto dalla Corte riguarda l’ elemento soggettivo
dell’ illecito posto in essere dall’ amministrazione, che sia lesivo di
un interesse legittimo: con la sentenza 500/99, la Corte (a
differenza dei precedenti orientamenti giurisprudenziali) segnala
che non basta la sola illegittimità dell’ atto per desumere la
colpevolezza dell’ agente, ma è necessaria la sussistenza di altri
due presupposti e cioè:
• che siano violati i princìpi costituzionali di imparzialità e buon
andamento (art. 97 Cost.);
• e che tali violazioni siano imputabili non alla persona fisica che
ha posto in essere l’ atto, ma all’ amministrazione, cui essa
appartiene.
È bene precisare, però, che la giurisprudenza amministrativa (in
particolare, il Consiglio di Stato), consapevole della fragilità dell’
argomentazione del Supremo Collegio in tema di elemento
soggettivo, tende oggi a valorizzare una nozione oggettiva di
colpa (molto vicina a quella tradizionale, che fa della colpevolezza
un elemento della illegittimità dell’ atto).
Il secondo limite posto dalla Corte di Cassazione riguarda, invece,
la nozione di danno ingiusto, in quanto conseguenza dell’
esercizio del potere amministrativo: tale nozione, ad avviso del
Supremo Collegio, ha una diversa consistenza, a seconda che la
lesione concerna un interesse oppositivo o pretensivo. Nel primo
207
caso il danno è prospettabile, perché l’ interesse oppositivo (l’
interesse, cioè, a che non venga adottato un provvedimento
restrittivo: si pensi, ad es., all’ interesse del proprietario a fronte
del potere espropriativo) presuppone l’ esistenza di un bene che
già rientra nella sfera giuridica del titolare (nel nostro esempio: la
proprietà); sicché il provvedimento lesivo (l’ esproprio) toglie quel
bene.
Nel secondo caso (interesse pretensivo) il bene, invece, non
appartiene ancora al privato, ma costituisce l’ oggetto del suo
desiderio (desiderio che può essere appagato con l’ adozione del
provvedimento: si pensi, ad es., al caso in cui il privato chieda il
rilascio di un’ autorizzazione); in tale ipotesi, l’ atto lesivo (ad es.,
l’ atto che nega l’ autorizzazione) impedisce all’ interessato di
conseguire quel bene desiderato (cosa che è ben diversa dal
togliergli un bene già suo).
A giustificazione di quest’ orientamento, la Cassazione ha tenuto
a precisare che ciò che risulta decisivo, ai fini del risarcimento del
danno, è che l’ interessato possa far valere un bene della vita,
ossia un bene che forma oggetto di un interesse materiale,
rispetto al quale l’ interesse legittimo svolge una funzione
strumentale; in tale logica, pertanto (prosegue la Corte) l’
interesse pretensivo non è risarcibile, perché la sua soddisfazione
dipende da una scelta discrezionale dell’ amministrazione (che
deve decidere, ad es., se concedere o meno l’ autorizzazione);
nella stessa direzione il Consiglio di Stato, il quale ha affermato
che, qualora accordasse il risarcimento, il giudice si sostituirebbe
all’ amministrazione con una indebita ingerenza nella sua
discrezionalità.
Sempre in relazione all’ interesse pretensivo, lo stesso Consiglio
di Stato ha, però, sottolineato che, qualora la soddisfazione della
pretesa dell’ interessato sia collegata ad un’ attività vincolata
della pubblica amministrazione, il risarcimento è dovuto nel caso
in cui il giudice, attraverso un giudizio prognostico, accerti che, in
208
assenza dell’ illecito, il provvedimento richiesto avrebbe dovuto
essere rilasciato.
Proprio in questa alternativa (risarcibilità-irrisarcibilità dell’
interesse pretensivo) si colloca il discorso sulla cd. perdita di
chance: infatti, il Consiglio di Stato, partendo dal presupposto che
la chance rappresenta la concreta possibilità di conseguire un
risultato utile, di cui non è, però, dimostrabile la futura
realizzazione, per via di un fatto che ha interrotto una serie di
eventi idonei ad assicurare un vantaggio, ha stabilito che tale
perdita di chance è risarcibile qualora, in assenza dell’ illecito, vi
era una possibilità superiore al 50% che l’ evento favorevole si
verificasse: così, per fare un esempio, se il concorrente secondo
classificato in una gara d’ appalto di lavori pubblici aveva la
concreta possibilità di aggiudicarsi l’ appalto (ove, ad es., non
fosse stato ammesso il primo classificato, sfornito dei requisiti
prescritti dal bando), la sua perdita di chance deve essere
risarcita.
Detto questo, è importante sottolineare, in conclusione, che il
disegno volto ad introdurre nel nostro ordinamento la risarcibilità
degli interessi legittimi è stato completato con la L. 205/00, la
quale invero ha ripreso le disposizioni contenute nel citato d.lgs.
80/98: tali norme, che (come sappiamo) avevano attribuito al
giudice amministrativo il potere di risarcire il danno ingiusto
cagionato dall’ amministrazione nelle materie dell’ edilizia, dell’
urbanistica e dei servizi pubblici, sono state travolte per eccesso
di delega dalla sent. 292/00 della Corte cost.
Nonostante ciò, il Parlamento pochi giorni dopo questa pronuncia
ha convalidato le disposizioni di quel decreto: ed infatti, l’ art. 7 L.
205/00 stabilisce espressamente che il giudice amministrativo,
nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva,
dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il
risarcimento del danno ingiusto.
Ma la vera rivoluzione è realizzata attraverso un’ altra
209
disposizione della stessa legge, nella quale si legge che il
Tribunale amministrativo regionale, nell’ ambito della sua
giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’
eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la
reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali
consequenziali [ciò significa, in altri termini, che la previsione del
risarcimento, accordato dal giudice amministrativo, non è più
limitata alle materie di giurisdizione esclusiva (vale a dire, ai
diritti soggettivi che, in quelle materie, sono sottoposti alla
cognizione del giudice amministrativo), ma viene estesa all’ intera
giurisdizione amministrativa (e, quindi, alla giurisdizione di
legittimità, che è istituita a protezione degli interessi legittimi)].
In tal modo, il legislatore del 2000 ha compiuto una duplice
operazione: da un lato, ha riconosciuto espressamente la
risarcibilità degli interessi legittimi; dall’ altro, ha attribuito al
giudice amministrativo sia la tutela di annullamento che quella
risarcitoria (sottraendo quest’ ultima al giudice ordinario).
d) il danno da ritardo
Il cd. danno da ritardo è il danno che l’ amministrazione causa al
privato interessato quando rimane inerte di fronte ad una
richiesta di provvedimento favorevole ovvero quando la stessa
protrae, al di là dei termini previsti, un procedimento iniziato d’
ufficio, il cui esito è potenzialmente lesivo per il privato.
Come si può notare, a differenza delle ipotesi in precedenza
esaminate, in questo caso la fonte del pregiudizio non è l’
esercizio del potere amministrativo, ma il suo mancato esercizio,
che lascia il cittadino in uno stato di incertezza sulle sorti del bene
della vita che mira ad ottenere (attraverso l’ emanazione del
provvedimento favorevole) o a conservare (e la cui esistenza è
minacciata dal procedimento in corso).
Ora, questo stato di incertezza, causato dal comportamento dell’
amministrazione (che omette di provvedere nel termine di 90
210
giorni previsti dall’ art. 2, L. 241/90), può, ovviamente cagionare
al privato gravi pregiudizi economici, a prescindere dall’ esito del
procedimento: così, ad es., l’ amministrazione che
illegittimamente ritarda nel provvedere sulla richiesta di
autorizzazione all’ apertura di un esercizio commerciale causa un
danno al privato, sia nel caso in cui, alla fine, l’ autorizzazione
venga rilasciata, sia nel caso in cui venga negata.
Nel primo caso, il danno deriva dal non aver potuto
tempestivamente intraprendere l’ attività (e, quindi, nel mancato
guadagno nel periodo in cui l’ amministrazione è rimasta inerte);
nel secondo caso, invece, il danno deriva dal fatto che, in attesa
di sapere se poteva intraprendere l’ attività soggetta ad
autorizzazione, il richiedente ha sostenuto dei costi (ha dovuto,
ad es., tenere libri contabili, disporre della liquidità necessaria all’
avviamento dell’ attività, etc.).
In entrambi i casi, com’è facilmente intuibile, la causa del danno è
l’ illegittima inerzia dell’ amministrazione.
§4. La responsabilità da atto lecito (l’ articolo 42 della
Costituzione)
Un tema particolarmente interessante e sul quale si discute da
decenni in dottrina è quello della responsabilità dell’
amministrazione da atto lecito. In particolare, l’ interrogativo che
gli studiosi si pongono è il seguente: se il privato subisce un
danno dall’ operato della pubblica amministrazione è necessario
che esso derivi da un atto illecito (cioè, che si tratti di un danno
ingiusto) affinché il danneggiato abbia titolo al risarcimento?
L’ argomento in esame è tra i più controversi nella dottrina
civilistica (non solo italiana), una parte della quale tende
comunque a sganciare il diritto al risarcimento dall’ illecito,
desumendo l’ antigiuridicità da una valutazione comparativa degli
interessi in gioco.
In realtà, se si osserva bene, il codice civile prevede specifiche
211
ipotesi di indennità; indennità che consiste in un rimborso al
quale un soggetto ha diritto qualora subisca un pregiudizio che un
altro soggetto gli arrechi nell’ esercizio di un potere riconosciuto
(e, quindi, per definizione, nello svolgimento di un’ attività lecita):
si tratta delle ipotesi del proprietario di animali mansuefatti, il
quale può inseguirli anche nel fondo altrui, salvo il diritto del
proprietario del fondo a indennità per il danno (art. 925 c.c.) e del
proprietario di sciami d’ api in identica situazione (art. 924 c.c.).
La questione si pone con particolare frequenza anche nei rapporti
con la pubblica amministrazione, la quale, infatti, può arrecare
pregiudizio ai privati non soltanto quando commette un illecito,
ma anche quando esercita legittimamente i suoi poteri; ciò lo si
può dedurre, ad es., dalla formulazione dell’ art. 42 Cost., il quale,
infatti, stabilendo che la proprietà privata può, nei casi previsti
dalla legge, e salvo indennizzo, essere espropriata per motivi di
interesse generale, ci dice, in realtà, che non è sufficiente il
richiamo all’ interesse generale per autorizzare l’ appropriazione
della proprietà privata da parte dei pubblici poteri, ma occorre
anche un indennizzo, in assenza del quale l’ espropriazione
sarebbe illecita.
A questo punto, però, sorge il problema di stabilire se l’
indennizzo debba essere equiparato al risarcimento o se debba
essere inferiore allo stesso. Ora, nella formulazione originaria
della legge fondamentale sull’ espropriazione (del 1865), l’
indennizzo equivaleva al risarcimento, perché veniva
commisurato al valore di mercato dell’ immobile (cd. valore
venale). La disciplina attuale, invece, ai fini dell’ indennizzo, ha
distinto (almeno fino alla sent. 348/07 Corte cost.) i fondi agricoli
(per i quali l’ espropriato riceve una somma pari al valore agricolo
medio dei terreni nei quali sia praticato lo stesso tipo di coltura)
dalle aree edificabili (per le quali l’ espropriato riceve un
indennizzo pari a 1/3 del valore venale).
Questo regime, che la Consulta in un primo tempo aveva fatto
212
salvo (giudicando non irrisorio il ristoro assicurato all’
espropriato), è stato travolto dalla citata sentenza 348/07, sulla
base non più del solo art. 42 Cost., ma soprattutto in applicazione
dell’ art. 1 del primo Protocollo CEDU, così come interpretato dalla
Corte di Giustizia CE: secondo questo Giudice, infatti, la
disposizione europea invocata, stabilendo che nessuno può
essere privato della sua proprietà, se non per causa di pubblica
utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai princìpi generali
del diritto internazionale, impone un rimborso non inferiore al
valore venale.
§5. La responsabilità contrattuale
Parte della dottrina ritiene che l’ art. 28 Cost. riguarderebbe
soltanto la responsabilità contrattuale; in realtà, una tesi del
genere potrebbe essere accettata soltanto facendo leva sul fatto
che l’ amministrazione, avvalendosi del suo potere di autonomia
privata (che le compete in quanto persona giuridica), può essere
assoggettata, sul piano della responsabilità contrattuale, allo
stesso regime giuridico previsto per i soggetti privati.
In ogni caso, sia che si faccia riferimento all’ art. 28 Cost., sia che
si faccia leva sulla personalità giuridica dell’ ente pubblico si
perverrà alla medesima conclusione, ossia che la responsabilità
contrattuale dell’ amministrazione è identica a quella di
qualunque altro contraente: sottoposta, cioè, alle regole
contenute negli artt. 1218 ss. c.c. Ciò significa, quindi, che l’
amministrazione, in conseguenza dell’ inadempimento di un’
obbligazione contrattuale, è tenuta al risarcimento del danno
provocato al creditore. È bene precisare, però, che la
responsabilità dell’ amministrazione per inadempimento delle
obbligazioni contrattuali presuppone che tali obbligazioni siano
213
state assunte nel rispetto dei vincoli di contabilità: in particolare,
la legge di contabilità (del 1923) prescrive che ogni spesa debba
essere imputata al pertinente capitolo di bilancio e che questo
contenga i fondi necessari. Con maggiori e più puntuali dettagli
tecnici, poi, il T.U. delle leggi sull’ ordinamento degli enti locali
(d.lgs. 267/00) stabilisce, all’ art. 183, che l’ impegno costituisce
la prima fase del procedimento di spesa, con la quale, a seguito di
obbligazione giuridicamente perfezionata, è determinata la
somma da pagare, determinato il soggetto creditore, indicata la
ragione e viene costituito il vincolo sulle previsioni di bilancio. Ciò
significa che la spesa (acquisto di un bene o di un servizio) potrà
essere effettuata solo se sussiste l’ impegno contabile assunto
dall’ amministratore, dal funzionario o dal dipendente, per conto
dell’ ente locale; e solo se tale impegno sia stato registrato sul
competente capitolo di bilancio. Diversamente (vale a dire, se il
bene o servizio viene acquisito in violazione di queste regole), il
rapporto obbligatorio intercorre solo tra il fornitore e l’
amministratore, funzionario o dipendente che ha consentito la
fornitura; si tratta, a ben vedere, di una misura energica, idonea
ad operare come deterrente per l’ amministratore o il dipendente
superficiale o approssimativo, ma assai meno soddisfacente per il
privato fornitore: questi, infatti, nella maggior parte dei casi ha
ricevuto l’ incarico dal sindaco o dall’ assessore, con lettera o in
forma verbale, in attesa dell’ adozione della delibera di incarico
ed ha espletato l’ incarico (o ha reso la prestazione) senza che la
delibera sia stata adottata; in questi casi, egli può rivalersi
(secondo le disposizioni contenute nel d.lgs. 267/00) solo sull’
amministratore o sul funzionario; non può, invece, rivalersi sull’
amministrazione, neppure con l’ azione di indebito arricchimento
(ammessa contro chi, senza giusta causa, si è arricchito ai danni
di altra persona, ex art. 2041 c.c.), perché l’ azione in questione
ha carattere sussidiario e non può, quindi, essere esercitata, dal
momento che il danneggiato può rivalersi contro il funzionario o l’
214
amministratore (è bene precisare, però, che l’ azione di
arricchimento potrà essere esercitata qualora l’ amministrazione,
cui il privato ha reso la prestazione, sia diversa dall’ ente locale:
in tal caso, infatti, anche se l’ obbligazione è stata contratta
irregolarmente, l’ amministrazione, avendo fruito della
prestazione, sarà tenuta ad indennizzare il fornitore della
correlativa diminuzione patrimoniale, nei limiti dell’
arricchimento).
§6. La responsabilità patrimoniale
L’ art. 2740 c.c. stabilisce che il debitore risponde dell’
adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e
futuri, fatte salve alcune limitazioni previste dalla legge.
In particolare, tra i beni sottratti alla soddisfazione dei creditori,
qualora debitrice sia una pubblica amministrazione, vi sono i beni
demaniali (che sono inalienabili e non possono formare oggetto di
diritti in favore di terzi) ed i beni patrimoniali indisponibili (che
sono destinati ad un pubblico servizio e non possono essere
sottratti alla loro destinazione).
Ne consegue, pertanto, che alla soddisfazione dei creditori è
assoggettato soltanto il patrimonio disponibile dello Stato e degli
enti pubblici, nonché il denaro della pubblica amministrazione (in
ragione della sua natura fungibile).
§7. La responsabilità amministrativa
a) la responsabilità degli amministratori e dei dipendenti
Un’ ultima considerazione occorre dedicarla all’ importante tema
della responsabilità amministrativa, vale a dire della
responsabilità degli amministratori, dei funzionari e dei dipendenti
per aver posto in essere determinate condotte che hanno
provocato ai terzi un danno ingiusto (che l’ amministrazione è
tenuta a risarcire), nonché per aver arrecato all’ amministrazione
un danno ingiusto nell’ esercizio dei loro compiti.
215
I tratti essenziali del regime giuridico che concerne questo tipo di
responsabilità, contenuti nella L. 20/94 (modificata nel 1996),
sono i seguenti:
• nella responsabilità amministrativa possono incorrere non solo
gli amministratori e i pubblici dipendenti, ma anche tutti coloro
che, a qualunque titolo (ad es., contratto d’ opera), svolgono
compiti per conto di un’ amministrazione pubblica (si pensi, ad
es., al direttore dei lavori nel contratto d’ appalto di opera
pubblica);
• la responsabilità amministrativa è stata sempre considerata una
responsabilità contrattuale, trovando essa fondamento in un
contratto;
• mentre, però, nella responsabilità contrattuale il debitore è
tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’
inadempimento è stato determinato da impossibilità della
prestazione a lui non imputabile (art. 1218 c.c.), nella
responsabilità amministrativa, invece, è l’ ente (in particolare, la
procura regionale della Corte dei Conti) che deve fornire la prova
della responsabilità, non l’ amministratore o il dipendente;
• la responsabilità amministrativa è limitata ai fatti e alle
omissioni commesse con dolo o colpa grave (anche questa, come
la precedente, rappresenta una deroga al regime della
responsabilità contrattuale: a questa, infatti, soggiace il debitore
se non ha eseguito esattamente la prestazione dovuta; e, quindi,
anche in caso di colpa lieve);
• un altro temperamento del rigore della responsabilità
amministrativa è costituito dal fatto che le scelte discrezionali non
possono essere sindacate nel merito; e ciò allo scopo di evitare
che l’ amministratore (o il dirigente) possa essere chiamato a
rispondere per una scelta che attiene al merito (ad es., per avere
il consiglio comunale optato per una forma di gestione di un
servizio pubblico locale, anziché per un’ altra);
• quando gli atti rientrano nella competenza degli uffici tecnici o
216
amministrativi la responsabilità è limitata ai dipendenti (essa,
quindi, non si estende agli amministratori, perché si presume che
questi abbiano agito in buona fede, facendo affidamento sulla
competenza degli uffici tecnici);
• nel regime della responsabilità amministrativa è centrale l’
elemento del danno (danno ingiusto): non è sufficiente, cioè, la
violazione del dovere d’ ufficio (o l’ adozione di un atto
illegittimo), ma occorre che da tale violazione (o da tale atto) sia
derivato un danno ingiusto;
• per quanto riguarda la quantificazione del danno, il giudice deve
tener conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’
amministrazione o dalla comunità amministrata, in relazione al
comportamento degli amministratori o dei dipendenti soggetti al
giudizio di responsabilità [si pensi, ad es., al caso in cui degli
amministratori comunali assumano dipendenti a titolo precario in
assenza dei relativi posti di organico: in questo caso, le casse del
comune subiscono un danno (pari alle retribuzioni che sono state
corrisposte e non potevano esserlo); ma l’ amministrazione ne ha
ricevuto un vantaggio (commisurato alla utilitas fornita dalle
prestazioni di lavoro); e un vantaggio ne ha ricevuto anche la
comunità, dal momento che è stata lenita la disoccupazione];
• la Corte dei Conti, valutate le singole responsabilità, può porre a
carico dei responsabili tutto o anche solo parte del danno
accertato o del valore perduto (cd. potere riduttivo dell’
addebito); simile (per quanto riguarda gli effetti) al potere
riduttivo è l’ esercizio della facoltà, riconosciuta al dipendente o
amministratore condannato in primo grado, di chiedere alla
sezione di appello, in sede di impugnazione, che il procedimento
venga definito mediante il pagamento di una somma non inferiore
al 10% e non superiore al 20% del danno quantificato nella
sentenza (cd. patteggiamento nel processo contabile);
• la responsabilità amministrativa è una responsabilità
individuale: ciò significa, quindi, che qualora il fatto dannoso sia
217
stato causato da più persone, la Corte dei Conti, valutate le
singole responsabilità, condanna ciascuno per la parte che vi ha
preso (a meno che i concorrenti non abbiano conseguito un
illecito arricchimento o abbiano agito con dolo, perché, in questo
caso, la responsabilità sarà solidale, nel senso che ciascun
condebitore può essere costretto all’ adempimento per la totalità
e l’ adempimento di uno libera gli altri);
• un’ altra deroga al regime civilistico è, poi, prevista per la
successione mortis causa dell’ obbligazione risarcitoria: infatti,
secondo i princìpi civilistici, l’ erede subentra sempre nelle
obbligazioni del defunto; viceversa, il debito derivante da
responsabilità amministrativa viene trasmesso soltanto se il
defunto (dipendente o amministratore) si è illecitamente
arricchito (e, di conseguenza, anche l’ erede si è arricchito in
modo illecito per aver ricevuto, illecitamente, un bene dal de
cuius);
• sul presupposto che la responsabilità amministrativa avesse
natura contrattuale, la Corte dei Conti aveva sempre ritenuto che
il termine di prescrizione per l’ azione fosse quello ordinario di 10
anni (art. 2946 c.c.) e non quello quinquennale previsto per il
diritto al risarcimento del danno da illecito extracontrattuale (art.
2947 c.c.); la novella del ’96 ha ridotto, invece, a 5 anni il termine
di prescrizione: questa decorre dalla data in cui si è verificato il
fatto dannoso ovvero, in caso di occultamento doloso del danno,
dalla data della sua scoperta;
• il soggetto danneggiato è l’ amministrazione o l’ ente dei quali
la persona responsabile sia dipendente o amministratore; la
novella del ’96 ha, però, esteso la giurisdizione della Corte dei
Conti (e, quindi, la responsabilità dell’ agente) anche all’ ipotesi
che il danno sia stato cagionato ad amministrazioni o ad enti
diversi da quelli di appartenenza (ciò significa, pertanto, che nella
prospettiva del danno, viene presa in considerazione l’ intera area
pubblica);
218
• è necessario sottolineare, infine, che il titolare dell’ azione di
danni non è l’ amministrazione danneggiata, ma (come detto) la
procura regionale della Corte dei Conti (ciò si spiega in virtù del
fatto che sussiste una seria presunzione che l’ amministrazione
danneggiata, invece di far valere le sue ragioni contro l’
amministratore o il dipendente, sia portata a coprirne la
responsabilità, ossia a colludere con lui).
b) la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche
L’ art. 27 Cost. stabilisce che la responsabilità penale è personale:
ciò significa che del reato rispondono solo i suoi autori che, a
seguito di un giusto processo (art. 111 Cost.), vengono
condannati ad una pena (detentiva o pecuniaria); tale
responsabilità non si estende, invece, né ai loro eredi e aventi
causa, né alle persone giuridiche (enti pubblici, s.p.a.,
associazioni, etc.), delle quali facciano parte i rei. La persona
giuridica, infatti, si risolve in una fictio iuris: è un centro di
imputazione di rapporti giuridici attivi e passivi, ma perché possa
concretamente agire deve avvalersi di persone munite del potere
di compiere atti, giuridici e materiali, i cui effetti civili vengono
imputati direttamente nella sfera giuridica e materiale dell’ ente
rappresentato [ad es., l’ ordinanza sottoscritta dal sindaco è un
atto che si imputa alla sfera dell’ ente (il comune); e chi vuole
contestarla deve agire contro l’ ente (facendo ricorso al TAR
contro il comune)]; gli effetti penali, invece, in virtù dell’ antico
brocardo societas delinquere non potest, si imputano alla persona
fisica (al sindaco, nel nostro esempio, dal momento che il comune
non può essere corrotto, ma il suo amministratore sì).
Nonostante la validità del brocardo citato, il legislatore ha ritenuto
comunque opportuno introdurre una nuova forma di
responsabilità: la cd. responsabilità amministrativa delle persone
giuridiche (d.lgs. 231/01): si tratta, in particolare, di una
responsabilità che il pubblico ministero (p.m.) fa valere nei
219
confronti dell’ ente come conseguenza dei reati commessi dai
suoi dipendenti e amministratori, dinanzi al giudice penale
competente a conoscere il reato; qualora il giudice accerti che il
dipendente o l’ amministratore ha commesso un reato nell’
interesse o a vantaggio dell’ ente del quale fa parte, su richiesta
del p.m., applica all’ ente una sanzione amministrativa, che può
essere di natura pecuniaria o interdittiva (ad es., la sospensione
delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla
commissione dell’ illecito) o può consistere nella confisca o nella
pubblicazione della sentenza.
È bene precisare, in ogni caso, che le norme sulla responsabilità
amministrativa dell’ ente si applicano soltanto nei confronti degli
enti pubblici non economici e delle s.p.a. in mano pubblica (non si
applicano, invece, allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri
enti pubblici non economici e agli enti che svolgono funzioni di
rilievo costituzionale).
220
Parte III
La giustizia amministrativa
Sezione I
Le premesse storiche
§1. I lineamenti storici della giustizia amministrativa in Italia
Prima dell’ unità d’ Italia, la maggior parte degli Stati della
penisola (in primis, il Regno di Sardegna) aveva strutturato il
sistema della giustizia amministrativa sul modello adottato in
Francia: in virtù di tale modello, le liti tra privati e P.A. erano
affidate alla cognizione di tribunali speciali composti da funzionari
amministrativi (sistema del contenzioso amministrativo); in altri
Stati, invece, esistevano solo rimedi di carattere amministrativo
davanti alla stessa autorità.
Pertanto, dopo l’ unificazione, il nuovo Stato si trovò a dover
risolvere il problema della giustizia amministrativa (diversamente
configurato tra i diversi Stati preunitari); in questa prospettiva, il
Parlamento italiano, chiamato a scegliere tra il mantenimento del
sistema del contenzioso amministrativo e la devoluzione al
giudice ordinario delle controversie nelle quali fosse parte una
pubblica amministrazione, decise di adottare la seconda soluzione
(sia pure con determinati temperamenti). Infatti, nel 1865, con L.
n. 2248, allegato E (cd. legge abolitiva del contenzioso
amministrativo) vennero aboliti i tribunali speciali del contenzioso
amministrativo (ad eccezione della Corte dei Conti e del Consiglio
221
di Stato) e devolute alla giurisdizione ordinaria tutte le cause nelle
quali si facesse questione di un diritto civile o politico (cioè, di un
diritto soggettivo) leso da un atto dell’ autorità amministrativa. È
bene precisare, però, che i poteri del giudice ordinario vennero
limitati, dal momento che egli poteva conoscere degli effetti dell’
atto amministrativo senza poterlo modificare o revocare, ma solo
disapplicare nel caso concreto sottoposto al suo esame (se
contrario alla legge). Venne, pertanto, introdotto l’ obbligo, per le
autorità amministrative, di conformarsi al giudicato dei tribunali
ordinari che avevano incidentalmente riconosciuto l’ illegittimità
dell’ atto.
La tutela degli interessi legittimi venne, invece, attribuita alle
stesse amministrazioni (nell’ ambito del procedimento
amministrativo) ovvero attraverso i ricorsi amministrativi
gerarchici. Nel 1889, però, con L. n. 5992 (cd. legge Crispi), venne
prevista e disciplinata la giurisdizione generale di legittimità sugli
atti amministrativi lesivi di interessi legittimi attraverso l’
istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato (organo che, sino
ad allora, aveva svolto funzioni solo consultive).
Successivamente, nel 1890, con L. n. 6837, venne attribuita alla
Giunta provinciale amministrativa (organo periferico dell’
amministrazione dell’ Interno, presieduto dal prefetto e deputato
ad esercitare il controllo di merito sugli atti degli enti locali) una
competenza ricalcata su quella della IV sezione, ma limitata all’
impugnazione di una serie di atti in prevalenza delle
amministrazioni locali (da sottolineare che le pronunce della
Giunta potevano essere appellate dinanzi alla IV sezione del
Consiglio di Stato).
Nel 1907, con L. n. 62 (cd. legge Giolitti) venne istituita la V
sezione del Consiglio di Stato con giurisdizione di merito su
determinate materie (nel contempo, venne riconosciuta la natura
giurisdizionale delle sezioni IV e V).
Infine, nel 1923 (con regio decreto n. 2840) venne abolita la
222
distinzione di competenza tra la IV e la V sezione del Consiglio di
Stato e venne istituita la giurisdizione amministrativa esclusiva
(del Consiglio di Stato) su determinate materie, la principale delle
quali era sicuramente quella relativa al rapporto di impiego con lo
Stato e gli enti pubblici: in questi casi, la giurisdizione del giudice
amministrativo era determinata dalla materia e non dalla
situazione soggettiva di interesse legittimo (tutta la materia, cioè,
era attribuita al giudice amministrativo, sia che il privato avesse
fatto valere un interesse legittimo, sia che avesse chiesto la tutela
di un diritto soggettivo).
§2. La giustizia amministrativa in Italia, oggi. Il riparto di
giurisdizione
In Italia, in virtù dell’ applicazione del sistema dualistico, non
esiste un giudice competente per ogni controversia
amministrativa, ma occorre individuare, di volta in volta, il giudice
dinanzi al quale la causa deve essere proposta; con tale sistema,
ovviamente, i problemi di giurisdizione sono ricorrenti, perché non
è sempre agevole applicare i criteri di ripartizione stabiliti dall’
ordinamento.
L’ attuale sistema di riparto giurisdizionale trova fondamento nell’
art. 103, co. 1 Cost., il quale stabilisce che il Consiglio di Stato e
gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per
la tutela, nei confronti della pubblica amministrazione, degli
interessi legittimi e, in particolari materie, anche dei diritti
soggettivi. Il criterio ordinario, quindi, è quello della posizione
soggettiva fatta valere in giudizio: se si tratta di un diritto
soggettivo la giurisdizione è del giudice ordinario, mentre se è di
interesse legittimo la giurisdizione è del giudice amministrativo
[come sappiamo, sussiste interesse legittimo quando l’
ordinamento, allo scopo di tutelare interessi pubblici, conferisce
alla pubblica amministrazione il potere di incidere
unilateralmente, con un proprio atto o provvedimento, nella sfera
223
giuridica altrui, sacrificandola o espandendola: nel primo caso, il
soggetto terzo è titolare di una posizione di interesse legittimo
oppositivo (volto a salvaguardare l’ integrità della propria sfera
giuridica lesa dall’ azione amministrativa); nel secondo caso,
invece, il terzo vanta una posizione di interesse legittimo
pretensivo (volto ad ampliare la propria sfera giuridica per opera
della pubblica amministrazione)].
La coesistenza di due diversi ordini di giurisdizioni ha posto
notevoli problemi in ordine all’ identificazione dei criteri idonei ad
operare il necessario riparto; in questa prospettiva, la Cassazione,
con sent. 1657/49 ha stabilito con chiarezza il criterio discretivo
tra i due ordini di giurisdizioni, osservando che: tutte le volte che
si lamenta il cattivo uso del potere dell’ amministrazione si fa
valere un interesse legittimo e la giurisdizione è del giudice
amministrativo, mentre si ha questione di diritto soggettivo e
giurisdizione del giudice ordinario quando si contesta la stessa
esistenza del potere (in tal modo, si è posto il collegamento
seguente: carenza di potere-diritto soggettivo, cattivo uso del
potere-interesse legittimo). La soluzione adottata dalla
giurisprudenza si spiega in virtù del fatto che il provvedimento
amministrativo, per quanto illegittimo (cioè, adottato con cattivo
uso del potere), è pur sempre efficace, ossia dotato di
autoritatività ed esecutività (comportando, laddove incida su di
un diritto soggettivo, la degradazione del diritto ad interesse
legittimo, con conseguente competenza del giudice
amministrativo).
Il tradizionale riparto di giurisdizione per posizioni soggettive,
però, non trova applicazione laddove il legislatore disponga il cd.
riparto per blocchi di materie: qualora, cioè, attribuisca alla
giurisdizione esclusiva del giudice ordinario o del giudice
amministrativo una determinata materia, indipendentemente dal
fatto che si faccia valere una posizione di diritto soggettivo o di
interesse legittimo.
224
È bene precisare, infine, che il nostro ordinamento (accanto ai
rimedi giurisdizionali) prevede e disciplina anche strumenti di
tutela di carattere amministrativo, azionabili di fronte alla stessa
autorità amministrativa attraverso procedimenti interni, senza l’
intervento del giudice.
Sezione II
La tutela giurisdizionale ordinaria
§1. L’ ambito della giurisdizione del giudice ordinario
L’ ambito della giurisdizione del giudice ordinario, nei confronti
della pubblica amministrazione, è ancora oggi definito dall’ art. 2
della legge abolitiva del contenzioso amministrativo. In base a
225
tale articolo, infatti, sono devolute alla giurisdizione ordinaria
tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie nelle quali si
faccia questione di un diritto civile o politico, comunque vi possa
essere interessata la P.A., e ancorché siano emanati
provvedimenti del potere esecutivo o dell’ autorità
amministrativa. Da questa disposizione si evince, pertanto, che
nella giurisdizione del giudice ordinario rientrano:
• le cause per contravvenzioni, ossia tutte le violazioni della legge
penale;
• tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile
o politico (al riguardo, va detto che l’ espressione diritto civile o
politico deve essere intesa nel senso di diritto soggettivo: di
conseguenza, la cognizione del giudice ordinario si estende a tutti
i diritti soggettivi, ad eccezione delle materie attribuite alla
giurisdizione esclusiva dei Tar);
• comunque vi possa essere interessata la P.A. (ciò significa che il
giudice ordinario è competente non solo nell’ ipotesi in cui la
pubblica amministrazione sia parte attrice, ma anche qualora la
stessa sia convenuta in giudizio);
• ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o
dell’ autorità amministrativa (questo vuol dire che la giurisdizione
del giudice ordinario non è preclusa dal fatto che la pubblica
amministrazione abbia emanato un atto autoritativo; ciò trova
conferma, tra l’ altro, negli artt. 4 e 5 della legge abolitiva, i quali
disciplinano i poteri del giudice ordinario in presenza di un atto
amministrativo, nonché nell’ art. 113 Cost., che espressamente
prevede la cognizione del giudice ordinario per gli atti
amministrativi lesivi di diritti).
§2. I poteri del giudice ordinario in ordine all’ atto amministrativo
Il giudice ordinario può conoscere di tutti i comportamenti della
226
P.A. lesivi di diritti soggettivi: sia che si tratti di meri
comportamenti (si pensi, ad es., al mancato compimento di lavori
di restauro ad una strada pubblica, con conseguenti danni per la
circolazione e per le autovetture private), sia che si tratti di atti
compiuti in esecuzione di provvedimenti amministrativi.
Gli artt. 4 e 5 della legge abolitiva stabiliscono, però, i limiti
interni alla giurisdizione del giudice ordinario in ordine agli atti
amministrativi; queste due disposizioni enunciano, in particolare, i
seguenti princìpi:
• il giudice ordinario può conoscere degli effetti dell’ atto in
relazione all’ oggetto dedotto in giudizio (ciò significa che
eventuali vizi dell’ atto, accertati dal giudice, potranno essere fatti
valere solo nella controversia sottoposta al suo esame);
• il sindacato del giudice sull’ atto amministrativo è limitato ai soli
vizi di legittimità, non anche a quelli di merito (il giudice ordinario,
cioè, può solo dichiarare l’ illegittimità dell’ atto, ma non può
sindacare i criteri di opportunità e di convenienza ai quali l’
amministrazione si è ispirata); quanto al profilo di legittimità, si
ritiene che il giudice ordinario dispone degli stessi poteri cognitori
riconosciuti al giudice amministrativo (egli può, cioè, esaminare l’
atto sotto il profilo dell’ incompetenza, dell’ eccesso di potere e
della violazione di legge);
• il giudice ordinario, anche qualora dovesse accertare l’
illegittimità dell’ atto, non dispone del potere di annullarlo,
revocarlo o modificarlo (se così fosse, infatti, il giudice, in
contrasto con il principio della separazione dei poteri,
sostituirebbe la sua volontà a quella dell’ amministrazione);
questo limite, recepito dall’ art. 113, co. 3 Cost., conosce tuttavia
determinate deroghe, tra le quali ricordiamo: il potere di annullare
le ordinanze-ingiunzioni in materia di sanzioni amministrative; il
potere di annullare la trascrizione del matrimonio e la possibilità
di rettificare i certificati di stato civile;
• l’ accertamento dell’ illegittimità dell’ atto compiuto dal giudice
227
non è, però, privo di conseguenze giuridiche: in primis, infatti, il
giudice ordinario è abilitato a disapplicare l’ atto ai fini della
soluzione della controversia sottoposta al suo esame; in secondo
luogo, la pubblica amministrazione interessata ha l’ obbligo di
conformarsi alla pronuncia [in altri termini, l’ autorità
amministrativa è tenuta a conformarsi al giudicato del giudice
ordinario e ad adottare successivi provvedimenti con esso
coerenti, a seguito di istanza dell’ interessato (va sottolineato che
il mancato adempimento di quest’ obbligo è tutelato, in sede
giurisdizionale, attraverso il giudizio di ottemperanza davanti al
giudice amministrativo, che può, in questa sede, conoscere anche
dei vizi di merito)].
§3. Le azioni ammissibili davanti al giudice ordinario
Esaminati i poteri ed i limiti posti al sindacato del giudice
ordinario nei confronti della pubblica amministrazione, è
importante, a questo punto, determinare le azioni ammissibili
contro la pubblica amministrazione; a tal fine, occorre richiamare
la classificazione delle azioni della dottrina processualcivilistica e,
in base ad essa, applicare le regole di cui agli artt. 4 e 5 della
legge abolitiva.
La dottrina del processo civile (a partire dal Chiovenda) ha
classificato le azioni in tre categorie fondamentali: le azioni
dichiarative (o di mero accertamento), le azioni di condanna e le
azioni costitutive.
Le azioni dichiarative sono quelle attraverso le quali l’ attore mira
ad acquisire una certezza giuridica (messa in discussione dalla
pretesa o dalla contestazione del convenuto); queste azioni sono
sempre consentite contro la P.A., perché l’ accoglimento della
domanda non modifica l’ assetto esistente [non incide, cioè, sull’
atto emesso dall’ autorità, ma si limita ad accertare una
situazione giuridica o di fatto (ad es., il giudice accerta che una
determinata area, che secondo l’ autorità fa parte del demanio, in
228
realtà è di proprietà privata)].
Le azioni costitutive tendono, invece, ad ottenere dal giudice una
sentenza che costituisca, modifichi o estingua un determinato
rapporto giuridico, una volta effettuati determinati accertamenti;
al riguardo è necessario sottolineare che la dottrina,
argomentando dal divieto per il giudice ordinario di intervenire
direttamente sull’ atto amministrativo (art. 4 della legge
abolitiva), ritiene che sia impossibile proporre davanti al giudice
ordinario qualsiasi domanda rivolta ad ottenere una sentenza
costitutiva nei confronti della P.A., in quanto ciò comporterebbe la
sostituzione della volontà del giudice a quella dell’
amministrazione.
Le azioni di condanna, infine, sono quelle in seguito alle quali il
giudice, accertato l’ obbligo di una delle parti, ordina alla
medesima una prestazione positiva, idonea a ristabilire l’
equilibrio giuridico violato [tale prestazione può consistere nel
pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento
ovvero in un determinato comportamento positivo (facere, non
facere o dare)]. Ora, prendendo in considerazione i rapporti che
intercorrono tra l’ azione di condanna e l’ atto amministrativo, è
necessario sottolineare che il giudice non modifica o annulla l’
atto amministrativo, ma impone all’ amministrazione di
modificarlo o annullarlo; sicché è l’ amministrazione che agisce,
non il giudice. A ben vedere, però, il nuovo atto dell’
amministrazione è pur sempre imposto dal giudice (la decisione,
cioè, è del giudice e non dell’ amministrazione): è per tal motivo,
quindi, che la giurisprudenza si è orientata nel senso di
ammettere le condanne pecuniarie e di escludere tutte le altre (a
un facere, a un non facere o a un dare che abbia un oggetto
diverso da una somma di denaro).
§4. La giurisdizione del giudice ordinario in tema di pubblico
impiego
229
Una delle principali innovazioni introdotte dal d.lgs. 29/93 (poi
confluite nel d.lgs. 165/01) è sicuramente costituita dalla
devoluzione al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro,
del contenzioso relativo al rapporto di lavoro tra P.A. e dipendenti
pubblici, in precedenza riservato alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo.
Al giudice ordinario sono devolute (dal 1998) tutte le controversie
relative ai rapporti di lavoro, incluse quelle relative all’
assunzione, alle indennità di fine rapporto, al conferimento e alla
revoca di incarichi dirigenziali e alla responsabilità dirigenziale.
Restano, invece, devolute al giudice amministrativo le
controversie in materia di procedure concorsuali per l’ assunzione
dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, nonché le
controversie relative ai dipendenti esclusi dalla privatizzazione
(indicati nell’ art. 3 d.lgs. 165/01).
Sezione III
La tutela giurisdizionale amministrativa
§1. Le fonti normative del processo amministrativo
Le fonti normative del processo amministrativo sono:
• il regio decreto 642/1907 (regolamento di procedura) e il regio
decreto 1054/1924 (T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato);
• la L. 1034/1971, istitutiva dei Tar (che ha integrato il testo unico
del 1924 e il regolamento del 1907);
• il d.lgs. 80/98 e la L. 205/00 (che ha assorbito il primo
provvedimento, colpito, con sent. 292/00, da una parziale
declaratoria di illegittimità costituzionale per eccesso di delega);
• la L. 15/05 e la L. 80/05 (riguardanti la disciplina del
provvedimento amministrativo), con le quali sono stati ritoccati
alcuni aspetti del processo amministrativo);
• i princìpi contenuti nella Costituzione, nei trattati europei e nella
CEDU;
• il d.lgs. 104/10 (che, in attuazione della delega contenuta nell’
230
art. 44 L. 69/09, ha approvato il codice del processo
amministrativo: c.p.a.)
§2. La giurisdizione amministrativa
La giurisdizione del giudice amministrativo viene distinta in
giurisdizione di legittimità, giurisdizione di merito e giurisdizione
esclusiva (art. 7 c.p.a.).
La giurisdizione di legittimità (la più importante) comprende le
controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni dell’
amministrazione interessata, comprese quelle relative al
risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi e agli altri
diritti patrimoniali consequenziali. Va precisato, però, che in tale
ambito giurisdizionale il giudice amministrativo può soltanto
pronunciare l’ annullamento dell’ atto impugnato (sentenza
costituiva), qualora sia viziato da incompetenza, violazione di
legge o eccesso di potere (cd. vizi di legittimità), nonché disporre
il risarcimento del danno (sentenza di condanna) attraverso la
reintegrazione in forma specifica ovvero il risarcimento per
equivalente e pronunciare le statuizioni in ordine agli altri diritti
patrimoniali consequenziali.
La giurisdizione di merito opera, invece, soltanto nelle materie
indicate nell’ art. 134 c.p.a. (tra queste ricordiamo: il giudizio di
ottemperanza, gli atti e le operazioni in materia elettorale, e le
contestazioni sui confini degli enti territoriali); in quest’ ambito, il
giudice, oltre a valutare la legittimità dell’ atto impugnato
(annullamento dell’ atto e risarcimento), può anche valutarne l’
opportunità o la convenienza (in questi ultimi due casi, il giudice,
una volta accolto il ricorso, può sostituirsi all’ amministrazione).
Un ultimo accenno occorre, infine, dedicarlo alla giurisdizione
esclusiva, la quale deve essere tenuta distinta dalla giurisdizione
di legittimità, perché diverso è il criterio delle situazioni
soggettive tutelate: interessi legittimi nella giurisdizione di
legittimità; anche diritti soggettivi in quella esclusiva (ma soltanto
231
nelle particolari materie indicate dalla legge).
Dobbiamo ricordare, al riguardo, che la previsione della
giurisdizione esclusiva è frutto della riforma amministrativa
attuata nel 1923: infatti, con il r.d. 2840/23 (concernente l’
ordinamento del Consiglio di Stato) sono state elencate, per la
prima volta, le materie devolute al giudice amministrativo
riguardanti la tutela dei diritti soggettivi (tali materie sono state,
poi, trasfuse negli artt. 29 e 30 r.d. 1054/24); ciò significa,
pertanto, che la giurisdizione esclusiva è antecedente alla
Costituzione, sebbene quest’ ultima l’ abbia poi disciplinata all’
art. 103, il quale, infatti, stabilisce che il Consiglio di Stato e gli
altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la
tutela degli interessi legittimi nei confronti della P.A. e, in
particolari materie, anche dei diritti soggettivi.
In dottrina, però, è stato osservato che la giurisdizione esclusiva
pone due problematiche di fondo: da un lato, infatti, vi è la
genericità dell’ espressione particolari materie; dall’ altro, vi è la
necessità di predeterminare i criteri in base ai quali operare una
delimitazione delle materie indicate dal legislatore.
In realtà, circoscrivere le materie devolute alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo è un’ operazione molto
difficoltosa, soprattutto alla luce del progressivo incremento delle
materie in questione. Ad una simile problematica ha fornito una
parziale risposta l’ art. 133 c.p.a., il quale contiene un elenco di
particolari materie devolute alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo; tra le più importanti ricordiamo:
• il risarcimento del danno provocato dall’ inosservanza del
termine di conclusione del procedimento (cd. danno da ritardo);
• gli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento e gli
accordi tra pubbliche amministrazioni;
• la dichiarazione di inizio attività;
• il diritto di accesso ai documenti amministrativi;
• le concessioni di beni pubblici, fatta eccezione per le
232
controversie riguardanti indennità, canoni ed altri corrispettivi e
per quelle attribuite al Tribunale Superiore delle Acque;
• i pubblici servizi, fatta eccezione per le questioni concernenti
indennità, canoni ed altri corrispettivi;
• le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture;
• gli atti ed i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in
materia di urbanistica e di edilizia;
• i rapporti di lavoro del personale in regime di diritto pubblico.
Tuttavia, è stato osservato che questa elencazione di materie non
può ritenersi esaustiva, dal momento che lo stesso legislatore ha
fatto salva la possibilità di ulteriori previsioni di materie indicate
dalla legge.
Della questione relativa alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, prima del c.p.a., si è occupata, in ogni caso, la
Consulta (con sent. 204/2004): in particolare, la Corte ha chiarito
che l’ art. 103, co. 1 Cost. non ha conferito al legislatore un’
incondizionata discrezionalità nell’ attribuzione al giudice
amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione
esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare particolari
materie nelle quali la tutela nei confronti della pubblica
amministrazione investe anche diritti soggettivi: un potere,
quindi, che non è né assoluto né incondizionato e del quale va
detto che deve considerare la natura delle situazioni soggettive
coinvolte e non fondarsi esclusivamente sul dato oggettivo delle
materie.
In altri termini, l’ art. 103, co. 1 Cost. autorizza il legislatore ad
attribuire una determinata materia alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo alla duplice condizione che si tratti di
materia particolare rispetto alla giurisdizione generale di
legittimità e che la giurisdizione esclusiva abbracci anche diritti
soggettivi (i quali vanno ad aggiungersi all’ interesse legittimo, di
cui il privato è portatore, perché si confronta con un’
amministrazione-autorità): è per questa ragione, quindi, che la
233
giurisdizione esclusiva in tema di servizi pubblici è stata
dichiarata costituzionalmente illegittima: le relative controversie,
infatti, non vedono, di regola, coinvolta la P.A. in veste di autorità
[volendo essere più precisi, la giurisdizione esclusiva sui pubblici
servizi è ammessa alla sola condizione che venga esercitato un
potere pubblicistico (concessione o affidamento del servizio,
vigilanza e controllo sul gestore); mentre essa contrasta con l’ art.
103 Cost. qualora l’ amministrazione o il gestore figuri come parte
di un contratto (è il caso, ad es., delle prestazioni rese nell’
espletamento di pubblici servizi)].
Per la stessa ragione è da ritenere egualmente illegittima la
previsione di una giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo sui comportamenti tenuti dall’ amministrazione in
materia di urbanistica e di edilizia, perché essa concerne
controversie nelle quali la P.A. non esercita alcun pubblico potere.
§3. Il doppio grado di giurisdizione amministrativa
La giurisdizione amministrativa è ordinata in base al principio del
doppio grado di giurisdizione. Ciò lo si desume dalla nostra
Costituzione: l’ art. 125 prevede, infatti, l’ istituzione (in ciascuna
regione) di organi di giustizia amministrativa di primo grado;
mentre l’ art. 103 fa riferimento al Consiglio di Stato e agli altri
organi di giustizia amministrativa. Dalla combinazione di queste
disposizioni si evince, quindi, che il Consiglio di Stato è giudice d’
appello rispetto agli organi di giustizia amministrativa regionale
(che sono organi di primo grado).
In questa prospettiva, il Parlamento, con la legge del 1971
(istitutiva dei Tribunali amministrativi regionali) ha attribuito ai
Tar:
• una giurisdizione generale di legittimità (cioè, la cognizione in
primo grado di tutte le controversie in tema di interessi legittimi);
• una giurisdizione estesa al merito, nelle materie individuate dal
legislatore;
234
• una giurisdizione esclusiva (comprendente sia interessi legittimi
che diritti soggettivi), anch’ essa nelle materie determinate dal
legislatore (e attribuite, a suo tempo, alla cognizione, in unico
grado, del Consiglio di Stato).
Nello stesso tempo, il Parlamento ha previsto una competenza
generale del Consiglio di Stato sia come giudice d’ appello, sia
come giudice ultimo. Infatti, avverso le sue sentenze (così come
avverso le sentenze della Corte dei Conti) non è ammesso il
ricorso in cassazione, se non per motivi inerenti alla giurisdizione:
ciò significa che la parte che ha motivo di dolersi di una sentenza
del Consiglio di Stato può ricorrere in cassazione solo se denuncia
un difetto di giurisdizione (ad es., il Consiglio di Stato ha
conosciuto di diritti soggettivi in una materia nella quale il giudice
amministrativo non è munito di giurisdizione esclusiva) o se
lamenta il mancato esercizio della giurisdizione (ad es., il
Consiglio di Stato ha negato la giurisdizione amministrativa,
sostenendo che si tratti di diritti soggettivi, in una controversia
che il ricorrente ritiene riguardare interessi legittimi).
§4. La competenza territoriale e la competenza funzionale dei Tar
La giurisdizione amministrativa, come detto, è esercitata dai Tar e
dal Consiglio di Stato [un assetto particolare è previsto, invece,
nel Trentino Alto Adige (ove il Tar ha una composizione speciale) e
in Sicilia (in cui l’ appello avverso le sentenze del Tar va proposto
dinanzi al Consiglio di giustizia amministrativa per la regione
siciliana)].
Ogni Tar, uno per regione (con sezioni distaccate nelle regioni più
popolose), decide con l’ intervento di tre magistrati (compreso il
presidente). Ora, poiché i Tar hanno una distribuzione regionale,
gli artt. 13 e ss. c.p.a. hanno individuato alcuni criteri per
determinare la loro competenza territoriale. In virtù di questi
criteri, il Tar periferico è competente per le controversie
riguardanti:
235
• i provvedimenti, gli atti, gli accordi ed i comportamenti di
autorità amministrative, nella cui circoscrizione territoriale esse
hanno sede;
• i provvedimenti, gli atti, gli accordi e i comportamenti di autorità
amministrative, i cui effetti sono limitati all’ ambito territoriale
della regione in cui il Tribunale ha sede;
• le controversie in materia di pubblico impiego (in tal caso, la
competenza è del Tribunale nella cui circoscrizione il dipendente
presta servizio).
Quando, invece, l’ autorità ha competenza su tutto il territorio
nazionale (si pensi, ad es., ad un ministero o ad un ente pubblico
nazionale) e gli effetti dell’ atto interessano tutto il territorio dello
Stato (o più regioni) competente sarà il Tar Lazio.
Esistono, poi, dei casi di competenza funzionale, previste da leggi
di settore: ad es., il Tar Lombardia, sede di Milano, è competente
per i giudizi instaurati contro l’ Autorità dell’ energia elettrica ed il
gas; mentre il Tar Lazio è competente sulle controversie in cui è
parte il C.S.M. e per tutte le controversie elencate nell’ art. 135
c.p.a.
È bene precisare, tuttavia, che la distinzione tra competenza per
territorio e competenza funzionale aveva una sua ragion d’ essere
nel regime precedente alla riforma del 2010 (d.lgs. n. 104): prima
di quest’ intervento legislativo, infatti, la competenza funzionale
era inderogabile (sicché il Tar erroneamente adìto era tenuto a
declinare, anche d’ ufficio, la sua competenza), mentre la
competenza per territorio era derogabile [di conseguenza, l’
incompetenza doveva essere eccepita dalla parte interessata e
non poteva essere rilevata d’ ufficio (in difetto di questa
eccezione, quindi, la competenza veniva radicata in capo al Tar
incompetente)]. Nel nuovo regime, invece, anche la competenza
per territorio (non solo quella funzionale) è inderogabile.
Finché la causa non è decisa in primo grado, ciascuna parte può
chiedere al Consiglio di Stato di regolare la competenza; il
236
Consiglio, a sua volta, decide in camera di consiglio con
ordinanza, che è vincolante per i Tar [sia per il Tar ab origine
adìto, sia per quello indicato come competente (si parla, al
riguardo, del cd. regolamento di competenza)].
Occorre aggiungere, infine, che nel caso in cui nessuna delle parti
sollevi la questione di competenza ma, ciononostante, il Tar adìto
ritiene di non essere territorialmente competente, lo dichiara con
sentenza.
§5. Le azioni ammissibili nel processo amministrativo
a) premessa
Rispetto alla giurisdizione ordinaria, nel processo amministrativo,
nella sua configurazione originaria, erano ammesse solo le azioni
(e, quindi, le sentenze) costitutive (in particolare: sentenze di
annullamento dell’ atto impugnato), mentre erano escluse le
azioni di accertamento e quelle di condanna.
Invero, l’ art. 45 r.d. 1054/24 (T.U. delle leggi sul Consiglio di
Stato) stabiliva che il Consiglio, qualora avesse accolto il ricorso,
avrebbe dovuto annullare l’ atto o il provvedimento impugnato
[ne conseguiva, quindi, che il giudice amministrativo non avrebbe
potuto né condannare l’ amministrazione a fare o non fare o a
dare alcunché, né avrebbe potuto emettere una sentenza di
accertamento (di illegittimità dell’ atto o della pretesa del
ricorrente ovvero dell’ obbligo dell’ amministrazione); difatti, l’
unico accertamento che era consentito al giudice amministrativo
era l’ accertamento della fondatezza dei motivi di ricorso].
Questo quadro, però, non appariva in sintonia con gli artt. 29 e 30
dello stesso regio decreto, attraverso i quali era stata prevista e
disciplinata la giurisdizione esclusiva del Consiglio di Stato in una
serie di materie, la più importante delle quali riguardava il
rapporto di pubblico impiego: in questa materia, parte della
dottrina riteneva che, qualora l’ impiegato pubblico avesse
chiesto al giudice amministrativo il riconoscimento di un
237
trattamento economico superiore o il pagamento delle ferie, la
sentenza costitutiva (cioè, l’ annullamento dell’ atto impugnato)
non si presentava come uno strumento adeguato. Occorreva,
pertanto, in questi casi, una sentenza di accertamento (ad es.,
accertamento del diritto ad una differenza retributiva) o ancor
meglio una sentenza di condanna.
Di qui, l’ emanazione, da parte del Consiglio di Stato (nelle
materie di giurisdizione esclusiva), di sentenze di condanna (a
partire dagli anni ’30 del 1900); quest’ orientamento, però,
incontrò l’ opposizione della Corte di Cassazione. Fu, pertanto,
soltanto con la legge del 1971 (istitutiva dei Tar) che venne
chiarito, all’ art. 26, co. 3, che il giudice amministrativo, nelle
materie relative a diritti attribuiti alla sua competenza esclusiva e
di merito, avrebbe potuto condannare l’ amministrazione al
pagamento delle somme di cui fosse risultata debitrice. Come
abbiamo visto, la condanna pecuniaria, ex art. 26 della legge del
‘71, riguardava solo la giurisdizione esclusiva; sarà soltanto con l’
art. 7 L. 205/00 che il Tar conoscerà di tutte le questioni relative
all’ eventuale risarcimento del danno, nell’ ambito della sua
giurisdizione (e, quindi, non solo nell’ ambito della sua
giurisdizione esclusiva, ma anche in quella di legittimità).
Questo mutamento del quadro normativo è stato, da ultimo, preso
in considerazione dal d.lgs. 104/10, che infatti ha previsto la
possibilità di esperire, dinanzi al giudice amministrativo, tre
specie di azioni: azioni di annullamento, azioni di condanna e
azioni di accertamento.
L’ azione di annullamento è riproposta nella sua formulazione
originaria: per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di
potere (il ricorso, in questo caso, va proposto nel termine di
decadenza di 60 gg.).
Con l’ azione di condanna, invece, il ricorrente chiede il
risarcimento del danno ingiusto derivante dall’ illegittimo
esercizio dell’ attività amministrativa o dal mancato esercizio di
238
quella obbligatoria (in entrambi i casi, egli agisce a tutela di un
interesse legittimo). È bene precisare, però, che nelle controversie
devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo il
ricorrente può anche chiedere il risarcimento del danno da lesioni
di diritti soggettivi.
Va chiarito, infine, che il ricorrente può, in alternativa al
risarcimento del danno, richiedere anche la reintegrazione in
forma specifica [sempre che, però, la stessa non risulti troppo
onerosa: è questo, ad es., il caso del proprietario di un palazzo
che sia stato illegittimamente abbattuto dall’ amministrazione
comunale; in tale ipotesi, la sua richiesta di ricostruzione dell’
edificio a carico del comune (reintegrazione in forma specifica),
può essere convertita dal giudice in domanda di risarcimento del
danno].
b) i rapporti tra l’ azione di annullamento e l’ azione di condanna
Il d.lgs. 104/10 ha definito i rapporti tra l’ azione di annullamento
e l’ azione di condanna, chiudendo una disputa che aveva visto
contrapposti per anni il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione.
Il contrasto si palesava nei seguenti termini: premesso che il
danno cagionato al privato dall’ illegittimo esercizio dell’ attività
amministrativa presuppone l’ esistenza di un provvedimento
illegittimo, che è suscettibile di impugnazione con l’ azione di
annullamento, il Consiglio di Stato ha sostenuto (per anni) che la
domanda di risarcimento del danno (azione di condanna) dovesse
essere preceduta da una domanda di annullamento (cd.
pregiudizialità dell’ azione di annullamento rispetto all’ azione di
condanna); l’ interessato, pertanto, qualora avesse voluto
ottenere il risarcimento danni avrebbe dovuto prima agire (nel
termine di decadenza di 60 gg.) con la domanda di annullamento.
Della tesi della cd. pregiudizialità amministrativa, però, le Sezioni
unite della Cassazione hanno fatto giustizia nel 2006 con
ordinanza n. 13659: il Supremo Collegio, infatti, ha innanzitutto
239
affermato l’ autonomia delle due azioni (sicché, oggi, l’ azione di
condanna può essere proposta in via autonoma); ed ha, poi,
precisato che il giudice amministrativo, rifiutando di esaminare
nel merito la domanda di risarcimento del danno (perché non è
stata richiesta la previa rimozione dell’ atto e dei suoi effetti nel
termine di 60 gg.), incorre in un indebito rifiuto di esercitare la
giurisdizione.
La nuova normativa (d.lgs. 104/10) si è, così, adeguata all’
orientamento della Cassazione, con qualche correttivo: è stato
stabilito, infatti, che l’ azione di condanna (che è legata all’
illegittimo esercizio dell’ attività amministrativa o al mancato
esercizio di quella obbligatoria) può essere esercitata anche in via
autonoma (a prescindere, quindi, dall’ azione di annullamento);
tale azione di condanna, tuttavia, è sottoposta ad un termine di
decadenza di 120 gg., che cominciano a decorrere dal giorno in
cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del
provvedimento.
Nel determinare il risarcimento, il giudice valuta tutte le
circostanze di fatto, nonché il comportamento complessivo delle
parti [egli, in ogni caso, esclude il risarcimento dei danni che si
sarebbero potuti evitare attraverso l’ esperimento degli strumenti
di tutela giurisdizionale previsti: l’ esempio che di solito viene
proposto è quello del proprietario di una costruzione destinataria
di un ordine di demolizione; alla sua domanda di risarcimento (per
il danno cagionato dalla demolizione) proposta nel termine di 120
gg. dalla notifica del provvedimento, ad esecuzione avvenuta,
potrebbe essere opposto che se egli si fosse attivato
tempestivamente con l’ azione di annullamento e con una
domanda di sospensione del provvedimento impugnato, e questa
fosse stata accolta, la costruzione sarebbe ancora in piedi].
c) le azioni di accertamento
Nel processo amministrativo possono essere esperite anche azioni
240
di accertamento (così come stabilito dall’ art. 31 c.p.a.).
Si tratta, innanzitutto, dell’ azione avverso il silenzio, ossia dell’
azione con la quale, chi vi ha interesse, può chiedere l’
accertamento dell’ obbligo dell’ amministrazione di provvedere,
una volta che siano decorsi i termini per la conclusione del
procedimento. Tale azione può essere proposta sino ad 1 anno
dalla scadenza dei termini; è bene precisare, tuttavia, qualora l’
interessato decada dall’ azione (per il decorso del termine di 1
anno), può rivolgersi nuovamente all’ amministrazione e far
scattare, così, i nuovi termini (il termine per la conclusione del
procedimento e, in caso di ulteriore inerzia, il termine per l’
esercizio dell’ azione).
Una volta proposta l’ azione di accertamento, il giudice è
chiamato ad accertare:
• che sia scaduto il termine per provvedere;
• che l’ amministrazione abbia l’ obbligo di provvedere;
• che l’ amministrazione abbia omesso di provvedere.
Va sottolineato, infine, che qualora si tratti di attività vincolata, il
giudice può anche accertare che l’ interessato ha diritto al rilascio
del provvedimento richiesto.
Una seconda azione di accertamento è prevista per far valere le
nullità previste dalla legge: in questo caso, è necessario
sottolineare che, dal momento che l’ atto nullo non produce
effetti, il giudice è chiamato semplicemente ad accertare che la
situazione giuridica (che l’ atto nullo pretendeva di modificare) è
rimasta immutata. È il caso di chiarire, al riguardo, che la
domanda volta all’ accertamento della nullità dell’ atto
amministrativo deve essere proposta entro il termine di
decadenza di 180 gg.: ciò, di conseguenza, comporta l’
inattaccabilità dell’ atto, una volta decorso il termine su indicato
(in tal modo, l’ atto nullo produrrebbe i suoi effetti e verrebbe,
quindi, ad identificarsi con l’ atto annullabile).
È necessario sottolineare, infine, che accanto alle azioni di
241
accertamento previste e disciplinate dall’ art. 31 c.p.a., nel
processo amministrativo sono ammesse azioni di accertamento
anche nella giurisdizione esclusiva: la controversia, in questi casi,
cade su diritti soggettivi (si pensi, ad es., al caso in cui l’
interessato chieda al giudice l’ accertamento del persistente
vigore di un contratto con la P.A., che questa, invece, sostiene
essere scaduto).
Sezione IV
Il processo amministrativo
§1. Il ricorrente
L’ art. 2, co. 1 d.lgs. 104/10 stabilisce che il processo
amministrativo attua i principi della parità delle parti, del
242
contraddittorio e del giusto processo (trova, quindi, applicazione l’
art. 111 Cost.).
Il soggetto che propone la domanda è, nel processo
amministrativo, il ricorrente (così denominato perché questo è un
processo, appunto, da ricorso); egli, in particolare, ricorre contro
un atto che ritiene lesivo di un suo interesse legittimo (e, nella
giurisdizione esclusiva, anche di un suo diritto soggettivo). Il
ricorrente, pertanto, si duole di un atto o di un comportamento
della pubblica amministrazione che lo ha pregiudicato; non è
sufficiente, però, che da quest’ atto o da questo comportamento
sia derivato un danno, ma occorre anche che tale danno sia stato
cagionato in modo illegittimo: così, ad es., chi impugnasse un
decreto di espropriazione che, togliendogli un immobile, ha inciso
sul suo patrimonio, ma non denunciasse alcuna illegittimità del
decreto, vedrebbe respinta la sua domanda, perché verrebbe a
mancare la lesione (cioè, la sussistenza di un pregiudizio arrecato
illegittimamente).
Per converso, chi denunciasse l’ illegittimità del decreto, ma non
fosse proprietario del bene, vedrebbe dichiarato il suo ricorso
inammissibile per carenza di interesse [in tal caso, infatti,
verrebbe a mancare l’ interesse ad invocare la tutela
giurisdizionale: il cd. interesse a ricorrere (si tratta di un interesse
personale)].
È bene precisare, però, che vi sono dei casi in cui il
provvedimento o il comportamento lesivo posto in essere dall’
autorità amministrativa tocca una pluralità di interessati (ad es.,
un decreto di espropriazione che colpisce un immobile
appartenente a più persone; ovvero un’ ordinanza sindacale che
chiude al traffico veicolare il centro storico): in questi casi, gli
interessati possono proporre un unico ricorso (cd. ricorso
collettivo). I ricorrenti, però, devono avere uno stesso interesse,
perché se tra di loro vi è conflitto il ricorso è inammissibile (così,
ad es., se più candidati non vincitori impugnano le operazioni di
243
un concorso a pubblico impiego, denunciando l’ irregolare
composizione della commissione giudicatrice, il ricorso collettivo
è ammissibile perché i ricorrenti hanno il comune interesse alla
ripetizione del concorso; se, invece, ciascuno di loro pretende di
aver titolo all’ unico posto messo a concorso e deduce vizi nell’
attribuzione dei punteggi, il ricorso è inammissibile perché i
concorrenti sono in conflitto tra loro; e, di conseguenza, ognuno di
loro dovrà presentare un distinto ricorso).
È necessario sottolineare infine che, al requisito della personalità
dell’ interesse, l’ ordinamento deroga nei casi in cui è ammessa la
cd. azione popolare: si pensi all’ art. 9 del d.lgs. 267/00, ove si
afferma che ciascun elettore può far valere in giudizio le azioni e i
ricorsi che spettano al comune e alla provincia [così, ad es., se il
comune omette di ricorrere contro un provvedimento della
regione ritenuto lesivo della sua autonomia (come potrebbe
essere un atto che riduce l’ importo di un finanziamento che il
comune attende), il cittadino elettore può ricorrere in sostituzione
del comune, perché in questo caso, l’ interesse dell’ ente è anche
interesse del cittadino].
§2. La legittimazione ad agire e l’ interesse a ricorrere
Perché il ricorrente abbia diritto ad una sentenza di merito (ad
una sentenza, cioè, che valuti il merito della sua domanda)
occorre che il ricorso sia sorretto dalla legittimazione ad agire (cd.
legitimatio ad causam) e dall’ interesse a ricorrere.
La legittimazione ad agire dipende da una particolare relazione
che si instaura tra il ricorrente e l’ atto impugnato; ad essa fa
riferimento l’ art. 81 c.p.c., ai sensi del quale, infatti, nessuno può
far valere nel processo, in nome proprio, un diritto altrui (così, ad
es., legittimato a ricorrere contro il permesso di costruire
rilasciato a Tizio è il proprietario del fondo vicino, non il
proprietario di un bene ubicato in un altro comune).
Detto ciò, è importante specificare che il problema della
244
legittimazione si pone spesso quando il ricorrente è un soggetto
collettivo (un’ associazione ovvero un ordine professionale): in
questi casi, la legittimazione è riconosciuta quando il ricorrente
agisce a tutela di un interesse che è di tutti gli associati (si pensi,
ad es., al Consiglio nazionale dei geometri che ricorre contro il
provvedimento che disciplina l’ attività di mediazione immobiliare
in modo ritenuto pregiudizievole per i geometri).
Diversa dalla legittimazione ad agire è, invece, l’ interesse a
ricorrere: quest’ ultimo consiste, infatti, nell’ utilità che il
ricorrente è in grado di trarre dal processo. È necessario
sottolineare, tra l’ altro, che l’ interesse a ricorrere deve essere
tenuto distinto anche dall’ interesse legittimo: si può, invero,
essere titolari di un interesse legittimo senza che vi sia un
interesse a ricorrere (così, ad es., se partecipo, come candidato,
ad un’ elezione a sindaco e vengo superato dal candidato
concorrente, ho un interesse legittimo a reclamare l’ attribuzione,
in mio favore, di 15 preferenze che il seggio mi ha negato
indebitamente, a mio giudizio; ma non ho un interesse a ricorrere
se la differenza tra i due candidati è di 30 voti sicché, anche con il
recupero di quei 15 voti, rimarrei in ogni caso in seconda
posizione e dal ricorso non otterrei nessun vantaggio, anche se
venisse accolto).
Come detto in precedenza, l’ interesse a ricorrere deve essere
tenuto distinto dalla legittimazione ad agire: riproponendo l’
esempio di cui sopra, io sarei legittimato a ricorrere (mentre non
lo sarebbe l’ elettore di un comune diverso), ma sono privo di
interesse ad agire.
§3. L’ amministrazione resistente
L’ amministrazione resistente è l’ amministrazione che ha posto in
essere l’ atto impugnato dal ricorrente [più precisamente: l’
amministrazione alla quale appartiene l’ organo che ha adottato l’
atto (così, ad es., se l’ atto proviene dal sindaco, l’
245
amministrazione resistente sarà il comune)].
È bene precisare, però, che vi sono atti che possono essere
imputati a più di un’ amministrazione (si pensi, ad es., ad un
decreto interministeriale o ad un accordo tra enti pubblici): in
questi casi, amministrazione resistente sarà quella alla quale è
imputabile l’ atto conclusivo del procedimento. Se, tuttavia, il
ricorrente denuncia il vizio di un atto intermedio che si ripercuote
sul provvedimento conclusivo e quest’ atto intermedio è stato
posto in essere da un’ amministrazione diversa da quella che ha
adottato l’ atto conclusivo, anche tale amministrazione dovrà
essere chiamata in giudizio.
Ovviamente, a differenza del ricorrente (il quale ha interesse all’
annullamento dell’ atto impugnato), l’ amministrazione resistente
ha, invece, interesse alla sua conservazione (in tal caso, quindi, l’
amministrazione non agisce più in veste di apparato volto alla
cura di un interesse pubblico, ma agisce allo scopo di tutelare un
proprio diritto).
Va detto, infine, che l’ amministrazione resistente ha un diritto di
difesa (art. 24 Cost.): ovviamente, affinché questo diritto possa
essere esercitato, il ricorso deve essere notificato all’ autorità che
ha adottato l’ atto impugnato.
§4. Il controinteressato
A differenza del ricorrente e dell’ amministrazione resistente (che
sono parti essenziali del processo amministrativo), il
controinteressato è, invece, soltanto una parte eventuale. Più
precisamente, il controinteressato è il soggetto che ha un
interesse contrario all’ interesse del ricorrente: infatti, mentre
quest’ ultimo tende alla rimozione dell’ atto (perché lesivo), il
controinteressato, invece, tende alla conservazione dell’ atto, in
quanto a lui favorevole (così, ad es., se Caio impugna il permesso
di costruire, che approva il progetto di un edificio che ostruirà la
visuale di cui gode il suo appartamento, il titolare del permesso
246
sarà controinteressato alla sua iniziativa; allo stesso modo, se
Tizio impugna l’ autorizzazione all’ apertura di una farmacia a
breve distanza da quella di cui è titolare, il nuovo farmacista sarà
controinteressato al ricorso).
Con riferimento al controinteressato, occorre sottolineare che la
legge del 1971 (istitutiva dei Tar) identifica tale soggetto con la
persona cui l’ atto direttamente si riferisce, mentre il recente
d.lgs. 104/10 lo identifica con la persona individuata nell’ atto
stesso. Nonostante quest’ identificazione operata dalla legge, va
detto, però, che in alcuni casi l’ individuazione del
controinteressato può risultare alquanto complessa: così, ad es.,
se impugno la graduatoria di un concorso perché della
commissione giudicatrice ha fatto parte un componente non
legittimato, questi sarà controinteressato; ma lo saranno anche i
candidati giudicati idonei dalla commissione, perché l’
annullamento di questa travolgerebbe tutte le operazioni
concorsuali [da quest’ esempio, si intuisce, quindi, che per
stabilire chi è controinteressato non è sufficiente accertare che la
persona è menzionata nell’ atto impugnato, ma occorre tener
conto del pregiudizio che una persona, anche se non menzionata
nell’ atto, riceverebbe dall’ annullamento giurisdizionale dello
stesso; dallo stesso esempio, inoltre, si evince che, in relazione
all’ atto impugnato, vi possono essere uno o più controinteressati
(in tal caso, il ricorso deve essere notificato almeno ad uno di
loro)].
§5. L’ interveniente
L’ art. 105 c.p.c. afferma che ciascuno può intervenire in un
processo tra altre persone per far valere, nei confronti di tutte le
parti o di alcune di esse, un diritto relativo all’ oggetto o
dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo.
Può anche intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle
parti quando vi ha un proprio interesse.
247
La prima specie di intervento (cd. intervento principale) non è
ammessa nel processo amministrativo: anche perché è difficile
ipotizzare che un soggetto si contrapponga sia al ricorrente che
all’ amministrazione.
Se ne deduce, pertanto, che l’ unico intervento ammesso nel
processo amministrativo è il cd. intervento adesivo: l’ intervento,
cioè, di chi ha interesse a sostenere le ragioni di una delle due
parti contro l’ altra (ricorrente o amministrazione). In particolare,
l’ interesse ad intervenire a sostegno del ricorrente prende il
nome di intervento ad adiuvandum: esso è ammesso a tutela di
un interesse diverso, ma collegato all’ interesse del ricorrente (si
pensi, ad es., all’ affittuario del fondo espropriato, che è abilitato
ad intervenire nel ricorso proposto dal proprietario contro il
decreto di espropriazione).
Viceversa, l’ interesse ad intervenire a sostegno dell’
amministrazione prende il nome di intervento ad opponendum. Al
riguardo, occorre sottolineare che tale tipo di intervento può
essere di due specie, perché esso o viene posto in essere dal
controinteressato non intimato (cioè, dal beneficiario del
provvedimento impugnato, al quale il ricorso non è stato
notificato) ovvero viene posto in essere da un terzo che, anche se
non assume la veste di controinteressato in senso tecnico,
potrebbe subire comunque un pregiudizio dall’ accoglimento del
ricorso: così, ad es., il candidato che ha partecipato ad un
concorso a pubblico impiego ed è risultato idoneo, può intervenire
ad opponendum nel ricorso proposto dal soggetto che, pur
avendo presentato domanda di partecipazione, era stato escluso
dal concorso; invero, se il ricorso venisse accolto, ed il candidato
escluso vedrebbe così riconosciuta la sua pretesa di essere
ammesso, la graduatoria del concorso verrebbe travolta, perché è
stata adottata sulla base di un atto illegittimo (l’ esclusione del
ricorrente dal concorso); in questo caso, chi interviene non è un
controinteressato in senso tecnico (perché in relazione ai
248
provvedimenti di esclusione da un concorso non ci sono
controinteressati), ma subirebbe, ad ogni modo, un danno dall’
accoglimento del ricorso (si parla in tale ipotesi del cd.
controinteressato successivo).
È bene precisare, infine, che l’ interveniente (visto che assume
una posizione subordinata rispetto alle parti) non può ampliare il
thema decidendi: non può, cioè, proporre motivi di ricorso diversi
da quelli del ricorrente (se interviene ad adiuvandum); se, invece,
interviene ad opponendum, egli può opporre, ai motivi di ricorso,
argomenti propri, non utilizzati dall’ amministrazione resistente.
§6. Il contraddittorio
Come è stato detto in precedenza, anche nel processo
amministrativo trova applicazione l’ art. 111 Cost., ad avviso del
quale il processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in
condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. Ciò
significa, quindi, che tra le parti sopra indicate (vale a dire:
ricorrente, amministrazione resistente e controinteressato)
occorre instaurare un contraddittorio; a tal fine, però, è
necessario che il ricorrente notifichi il ricorso alle altre parti,
perché solo la notifica, che deve essere effettuata a mezzo di
ufficiale giudiziario, consente alle parti, contro le quali il ricorso è
diretto, di conoscere l’ esistenza del processo e, quindi, di
difendersi.
§7. L’ atto impugnato
Il ricorso giurisdizionale, nella maggior parte dei casi è diretto
contro atti o provvedimenti di un’ autorità amministrativa (vi
sono, tuttavia, delle eccezioni: si pensi, ad es., al ricorso contro il
silenzio, ove l’ atto, in effetti, manca del tutto). Ora, premesso che
il ricorso è diretto contro un atto o contro un provvedimento
amministrativo, dobbiamo porci due quesiti fondamentali: di che
atto si tratta? E soprattutto, come si distingue l’ atto
249
amministrativo impugnabile da quello non impugnabile? Alla
ricerca di una risposta a questa domanda, la giurisprudenza
amministrativa, elaborando la distinzione tra mero atto
amministrativo e provvedimento amministrativo, ha ritenuto
suscettibile di impugnazione soltanto il provvedimento: ciò
significa, in altri termini, che è impugnabile l’ atto conclusivo di un
procedimento, perché è questo che produce la lesione di una
situazione giuridica soggettiva; non sono impugnabili, invece, gli
atti preparatori del procedimento (vale a dire, gli atti che
precedono il provvedimento conclusivo); in relazione a questi
ultimi, infatti, manca l’ interesse a ricorrere perché il
procedimento potrebbe anche avere una conclusione diversa da
quella che essi sembrano preannunciare.
Va anche detto, però, che la regola su esposta conosce
determinate eccezioni, dal momento che l’ atto
endoprocedimentale è impugnabile:
• qualora si tratti di atti di natura vincolata (idonei, come tali, ad
imprimere un indirizzo obbligato alla determinazione finale);
• qualora si tratti di atti interlocutori che arrestano il
procedimento (in tal caso, l’ istante non vede soddisfatto il suo
interesse);
• qualora si tratti di atti soprassessori, che rinviano, cioè, ad un
evento futuro ed incerto il soddisfacimento dell’ interesse e,
quindi, bloccano il procedimento a tempo indeterminato.
Diversa dalla questione dell’ atto impugnabile è, invece, la
questione dell’ atto del procedimento viziato, la cui invalidità si
ripercuote sul provvedimento finale, viziandolo a sua volta: si
pensi, ad es., al parere espresso da un collegio in composizione
irregolare, la cui illegittimità si ripercuote sul provvedimento che
lo fa proprio (in tal caso, è sufficiente impugnare l’ atto
conclusivo, denunciando l’ illegittimità derivata dall’ atto
preparatorio).
Un ultimo accenno occorre dedicarlo al cd. ricorso cumulativo:
250
cioè, al ricorso diretto contro più provvedimenti (si pensi, ad es.,
al regolamento che viene impugnato insieme all’ atto che ne fa
applicazione).
§8. Il contenuto del ricorso
Il ricorso è diretto al Tribunale amministrativo regionale e deve
contenere:
• le generalità del ricorrente, del difensore e delle parti
avversarie;
• l’ indicazione dell’ oggetto della domanda e dell’ atto
impugnato;
• l’ esposizione sommaria dei fatti;
• i motivi sui quali si fonda il ricorso, con l’ indicazione dei mezzi
di prova e delle misure chieste al giudice;
• la sottoscrizione della parte e dell’ avvocato che la rappresenta.
Ovviamente, il ricorso è inammissibile nel caso in cui manchi l’
indicazione dei motivi ovvero qualora, dall’ esposizione dei fatti, l’
atto impugnato non risulti lesivo dell’ interesse legittimo del
ricorrente (o di un suo diritto soggettivo, nel caso della
giurisdizione esclusiva).
Diverso, invece (ad avviso della giurisprudenza), è il caso nel
quale manchi l’ indicazione degli articoli di legge che si ritengono
violati: è sufficiente, infatti, che il contenuto del motivo sia, in
qualche misura, identificabile così che il giudice possa individuare
la disposizione pertinente (iura novit curia: il giudice è padrone
del diritto). Ovviamente, gli articoli di legge (ovvero di
regolamento) vengono in rilievo quando la censura è di violazione
di legge (o di incompetenza); non rilevano, invece, quando la
censura è di eccesso di potere, perché in tal caso viene attaccato
l’ uso che del potere ha fatto l’ autorità amministrativa (uso che è
ritenuto illegittimo dal ricorrente).
Va sottolineato, infine, che il ricorso è nullo se manca la
sottoscrizione o se vi è assoluta incertezza sulle persone o sull’
251
oggetto della domanda.
§9. La notifica del ricorso
Il giudizio davanti al giudice amministrativo passa attraverso le
seguenti fasi:
• la notifica e il deposito del ricorso;
• l’ istanza di fissazione d’ udienza;
• la costituzione delle altre parti;
• la fissazione dell’ udienza da parte del presidente del Tribunale;
• il deposito dei documenti e delle memorie;
• l’ udienza di trattazione.
Da quanto detto, quindi, si evince che il processo ha inizio con la
notifica del ricorso all’ amministrazione o alle amministrazioni
resistenti e ad almeno uno dei controinteressati.
È bene specificare che il ricorso deve essere notificato entro 60
gg. dalla notifica dell’ atto impugnato; tuttavia, se questo non è
stato notificato, ma la legge prevede la sua pubblicazione, il
termine decorre dall’ ultimo giorno di pubblicazione (o, qualora
dovesse mancare la pubblicazione, dalla piena conoscenza che
dell’ atto abbia avuto l’ interessato).
Il termine di 60 gg. è previsto a pena di decadenza; ciò significa,
quindi, che il ricorso notificato dopo tale termine è irricevibile (da
parte del Tribunale). Ovviamente, il regime della decadenza è
posto a presidio della stabilità degli atti e dei rapporti
amministrativi: nel senso che l’ attività dell’ amministrazione
deve svolgersi in un clima di certezza giuridica (certezza che
verrebbe pregiudicata se l’ attività stessa fosse esposta per anni
al rischio dell’ impugnazione).
§10. Il deposito del ricorso e la costituzione del ricorrente
Una volta notificato, il ricorso deve essere depositato nella
segreteria del giudice nel termine perentorio di 30 gg., che
cominciano a decorrere dal momento in cui l’ ultima notificazione
252
dell’ atto si è perfezionata anche per il destinatario. Il documento
depositato deve offrire la prova delle avvenute notifiche e deve
essere accompagnato da copia dell’ atto impugnato, nonché dai
documenti sui quali il ricorso si fonda.
Può accadere, però, che il ricorrente non sia in possesso di questi
atti (o perché non gli sono stati comunicati o perché la sua
richiesta di accesso non ha avuto esito); in questi casi, allora, l’
onere di depositare tali atti si trasferisce sull’ amministrazione
resistente, perché è proprio quest’ ultima che dispone dei
documenti e non il ricorrente (la regola in esame rientra, più
precisamente, tra quelle dirette a garantire la parità delle parti,
così come stabilito dall’ art. 111 Cost.).
Con il deposito dell’ originale del ricorso nella segreteria del Tar, il
rapporto processuale viene costituito (con la notifica, infatti, il
ricorrente chiama in giudizio l’ amministrazione resistente e l’
eventuale controinteressato; con il deposito, invece, viene tirato
in ballo il giudice).
§11. L’ istanza di fissazione d’ udienza
Nel processo amministrativo è il giudice che deve fissare l’
udienza per la discussione della causa, su istanza del ricorrente o
delle altre parti (di regola, tale istanza viene depositata dal
ricorrente insieme all’ originale del ricorso, al momento della
costituzione in giudizio).
In mancanza di un’ istanza del genere, l’ udienza, ovviamente,
non può essere fissata; e, ove il ricorrente indugi per un periodo
superiore ad 1 anno (dal giorno della costituzione in giudizio), il
ricorso è perento.
Occorre sottolineare, inoltre, che l’ impulso delle parti è richiesto
anche qualora si sia tenuta l’ udienza, ma il processo non si sia
chiuso: anche in tal caso, è necessaria una nuova istanza, che va
presentata entro 1 anno dalla cancellazione della causa dal ruolo,
affinché gli atti ulteriori del processo vengano posti in essere.
253
§12. La costituzione delle altre parti
Come il ricorrente ha l’ onere di costituirsi in giudizio mediante il
deposito del ricorso, così le altre parti (amministrazione resistente
e controinteressati intimati (cioè, quelli ai quali il ricorso è stato
notificato) hanno l’ onere (non l’ obbligo) di costituirsi in giudizio,
nel termine ordinatorio di 60 gg. dalla notifica del ricorso, se
intendono difendersi (art. 24 Cost.).
In realtà, è bene precisare che le parti possono costituirsi in
giudizio sino a 40 gg. prima dell’ udienza: termine entro il quale
esse possono depositare documenti. Il termine per presentare
memorie, invece, è di 30 gg. prima dell’ udienza, mentre le
eventuali repliche possono essere presentate sino a 20 gg. prima.
Va sottolineato, comunque, che la costituzione può avvenire
anche in udienza, ma in tal caso la parte (amministrazione o
controinteressato) può solo partecipare alla discussione.
§13. Le varianti allo schema
a) il ricorso contro il silenzio
Lo schema sopra descritto conosce numerose varianti. La prima
riguarda l’ oggetto dell’ impugnazione: infatti, la legge fa
riferimento ad atti o provvedimenti dell’ autorità amministrativa;
e, tuttavia, l’ interessato può essere danneggiato non da un atto,
ma da una omissione (ad es., l’ amministrazione che rimane
inerte su una richiesta di autorizzazione o di concessione
impedisce al privato di ottenere ciò a cui aspira).
Al fine di risolvere il problema, pertanto, il d.l. 35/05, conv. in L.
80/05, ha conferito all’ inerzia dell’ amministrazione il valore di
assenso. È stato stabilito, infatti, che nei procedimenti ad istanza
254
di parte, per il rilascio di provvedimenti amministrativi, il silenzio
dell’ amministrazione equivale ad accoglimento della domanda,
se l’ amministrazione, entro il termine per la conclusione del
procedimento, non comunica il diniego o non indice una
conferenza di servizi.
È necessario sottolineare, però, che questa regola non trova
applicazione per gli atti e per i procedimenti che riguardano il
patrimonio culturale o paesaggistico, l’ ambiente, la difesa
nazionale, la pubblica sicurezza o l’ immigrazione, la salute e l’
incolumità pubblica: in tutti questi casi, una volta scaduto il
termine per la conclusione del procedimento, l’ inerzia dell’
amministrazione equivale a silenzio-rifiuto. Questo silenzio,
tuttavia (così come disposto dalla novella introdotta dal d.l.
35/05), può essere impugnato immediatamente davanti al giudice
amministrativo senza necessità di notificare all’ amministrazione
inadempiente un atto di diffida. Il ricorso, in questo caso, può
essere proposto dopo che è decorso il termine entro il quale deve
concludersi il procedimento (di regola 90 gg.) e comunque non
oltre 1 anno dalla scadenza di detto termine.
La principale novità consiste, però, nel fatto che il giudice
amministrativo può conoscere della fondatezza dell’ istanza:
mentre, infatti, fino ad ora il Tar, adìto con il ricorso contro il
silenzio, si limitava ad accertare che l’ amministrazione avesse
realmente un obbligo di provvedere (e che, quindi, a tale obbligo
non avesse adempiuto), oggi invece può valutare se il
provvedimento richiesto spetti effettivamente al ricorrente o
meno. In tal modo, il giudice può sostituirsi all’ amministrazione o,
comunque, vincolarla strettamente, accertando la fondatezza
della pretesa del privato (da tale accertamento positivo deriva,
infatti, l’ obbligo dell’ amministrazione di rilasciare il
provvedimento).
Da quanto detto, si evince chiaramente che la legge ha
predisposto una tutela rafforzata contro il silenzio dell’
255
amministrazione. A questo punto, però, è necessario porsi un
quesito fondamentale: come si giustifica una tutela così efficiente
contro il silenzio quando contro il provvedimento negativo
esplicito il ricorrente deve ricorrere al procedimento ordinario e
subire i suoi tempi lunghi senza poter ottenere dal giudice una
pronuncia che accerti la fondatezza della sua pretesa? Partendo
da questa domanda, il Consiglio di Stato ha ridimensionato la
portata dei poteri del giudice, stabilendo che l’ accertamento
della fondatezza dell’ istanza sulla quale l’ amministrazione ha
mantenuto il silenzio è ammesso in soli due casi:
• quando l’ atto richiesto è dovuto o vincolato (e non c’è da
compiere alcuna scelta discrezionale);
• quando l’ istanza è del tutto infondata, sicché sarebbe
irragionevole obbligare l’ amministrazione a provvedere, dal
momento che l’ atto espresso non potrebbe che essere di rigetto.
Quando, invece, l’ atto richiesto è discrezionale, il giudice non può
compiere la valutazione di fondatezza dell’ istanza, perché
facendolo si sostituirebbe all’ amministrazione (e compirebbe,
così, un’ operazione in contrasto con il principio della separazione
dei poteri, che è eccezionalmente ammessa quando la legge
attribuisce anche una giurisdizione nel merito: ma non è questo il
caso).
b) i motivi aggiunti
Dal momento che i provvedimenti amministrativi sono, in
numerosi casi, concatenati tra di loro, è facile che un primo
ricorso ne generi altri: così, ad es., una volta annullata la nomina
del presidente di un’ azienda speciale comunale, il sindaco
procede, con separato atto, alla nomina di un’ altra persona; in tal
caso, colui che ha proposto ricorso contro l’ annullamento della
sua nomina ha l’ onere di ricorrere contro la nomina di chi è
chiamato a sostituirlo, perché se non lo fa rischia di vedere
dichiarato inammissibile il suo ricorso per carenza sopravvenuta
256
di interesse.
In ogni caso, è bene precisare che, in presenza di una molteplicità
di ricorsi, la L. 205/00, allo scopo di evitare una dispersione di
giudizi ed una pluralità di sentenze, ha stabilito che tutti i
provvedimenti adottati in pendenza del ricorso devono essere
impugnati con la proposizione dei motivi aggiunti (in questi casi,
cioè, il ricorrente aggiunge nuovi motivi al ricorso originario,
anziché proporre un nuovo ricorso).
I motivi aggiunti sono ammessi anche (ed è questa la nozione
originaria) quando, attraverso la documentazione prodotta in
giudizio dalle altre parti, il ricorrente venga a conoscenza di nuovi
vizi del provvedimento impugnato (così, ad es., una volta che l’
amministrazione ha depositato il testo del parere che ha
preceduto l’ atto impugnato, il ricorrente si accorge che questo è
difforme dal parere, senza che il dissenso sia motivato; la
difformità viene rilevata soltanto in questo momento perché il
contenuto del parere era sconosciuto al ricorrente).
I motivi aggiunti vanno proposti entro il termine di 60 gg., a meno
che non ricorra l’ ipotesi (sopra considerata) della conoscenza
postuma di un vizio dell’ atto impugnato: in tal caso, infatti, il
termine decorre dal momento in cui il ricorrente abbia acquisito la
piena conoscenza del documento dal quale risulta il vizio.
È necessario sottolineare, infine, che il d.lgs. 104/10 ha affiancato
ai motivi aggiunti anche le domande nuove, purché siano
connesse a quelle già proposte: si pensi, ad es., alle nuove voci di
danno risarcibile, che emergono dalla documentazione prodotta
dall’ amministrazione.
§14. Il ricorso incidentale e la domanda riconvenzionale
Attraverso il ricorso incidentale il controinteressato (o l’
interveniente ad opponendum) attacca il provvedimento
impugnato dal ricorrente principale in una parte diversa da quella
che viene investita dal ricorso principale, allo scopo di evitare o
257
mitigare il danno che deriverebbe dall’ accoglimento di quest’
ultimo (si pensi, ad es., al caso in cui il vincitore di un concorso a
pubblico impiego, che è controinteressato al ricorso del candidato
soccombente, impugni le operazioni concorsuali nella parte in cui
il ricorrente principale è stato ammesso al concorso: se il ricorso
incidentale venisse accolto, il ricorso principale sarebbe dichiarato
irricevibile per carenza di interesse, perché proposto da un
soggetto che non doveva essere ammesso al concorso).
Il ricorso incidentale deve essere proposto entro 60 gg. dalla
notifica del ricorso principale (a meno che a ricorrere in via
incidentale non sia l’ interveniente ad opponendum: in tal caso,
infatti, il termine decorre dall’ effettiva conoscenza della
pendenza del ricorso principale).
La domanda riconvenzionale, invece, ha un suo specifico ambito
di applicazione nei giudizi di accertamento e di condanna (e,
quindi, essenzialmente, nelle controversie devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo); al riguardo, è
necessario sottolineare che, a differenza del ricorso incidentale, la
domanda riconvenzionale può essere proposta anche dall’
amministrazione resistente (si pensi, ad es., all’ ipotesi in cui il
concessionario di un bene pubblico chieda la condanna dell’
amministrazione marittima al rilascio di una parte del bene
demaniale dato in concessione; in tal caso, l’ amministrazione
può presentare una domanda di risarcimento a causa del danno
cagionato dal concessionario nell’ uso indebito del bene
concesso).
Il giudice competente a decidere sul ricorso incidentale e sulle
domande riconvenzionali è il giudice competente sul ricorso
principale, a meno che la domanda introdotta con il ricorso
incidentale non sia devoluta alla competenza del Tar Lazio o
qualora ricorra un’ ipotesi di competenza funzionale (si pensi, ad
es., al caso in cui il ricorrente principale impugni un atto che
spiega i suoi effetti in Calabria, mentre il controinteressato ricorra
258
in via incidentale contro un regolamento governativo che spiega
efficacia su tutto il territorio nazionale: in tal caso, la competenza
sull’ intero giudizio spetta al Tar Lazio).
§15. L’ istruttoria
Nel processo amministrativo l’ istruttoria ha un ruolo meno
importante di quello che essa ricopre nel processo civile: ciò si
spiega in considerazione del fatto che la maggior parte delle
cause dinanzi al Tar può essere decisa senza che il giudice debba
assumere prove (ad es., se denuncio un vizio di incompetenza del
provvedimento impugnato, è sufficiente che il giudice metta a
confronto questo provvedimento con la norma o le norme che
stabiliscono la competenza dell’ organo).
Tutto ciò in linea generale, perché possono comunque esserci
ipotesi in cui un’ istruttoria è necessaria: si pensi, ad es., al
provvedimento con cui il comune ordina la demolizione di una
parte di un manufatto edilizio, perché ritiene sia stato realizzato
dal proprietario dopo che era stata intimata la sospensione dei
lavori; l’ interessato, invece, impugna il provvedimento
sostenendo che quella parte era stata realizzata prima che
intervenisse la sospensione (e che, di conseguenza, la norma
invocata dall’ amministrazione non è applicabile al caso
concreto). In tale ipotesi, il contrasto tra le due posizioni può
essere risolto soltanto attraverso un accertamento che si avvale
di documentazione fotografica, di perizia e di prova testimoniale
(ad es., la testimonianza degli operai che hanno lavorato alla
costruzione).
Detto ciò, è necessario sottolineare che, nel processo
amministrativo, la questione della prova sorge in relazione ad un
fatto; pertanto, quando il fatto non viene in rilievo, come accade,
di regola, nel giudizio di legittimità [in cui non viene contestato il
fatto (ad es., il provvedimento impugnato) ma la sua legittimità],
non è richiesta nessuna prova (questo ragionamento si giustifica
259
in virtù del fatto che la prova non può avere ad oggetto giudizi di
valore; e la qualificazione di legittimità-illegittimità è un giudizio
di valore: in tal senso Ruffo).
A questo punto, dobbiamo chiederci quando il fatto viene in
rilievo. Il fatto viene in rilievo quando il provvedimento impugnato
(ad es., una sanzione disciplinare) è fondata su un fatto (un
illecito disciplinare), la cui esistenza è contestata dal ricorrente: in
tal caso, può essere necessario acquisire una prova.
In questa prospettiva, l’ art. 63 c.p.a., parzialmente innovando
rispetto al regime precedente, prevede e disciplina i seguenti
mezzi di prova:
• la richiesta di chiarimenti alle parti;
• l’ ordine di esibire (in giudizio) documenti o quant’ altro il
giudice ritenga necessario;
• l’ ispezione, che consiste in un sopralluogo su cose o indagini su
persone (avente finalità soprattutto descrittiva);
• la prova testimoniale, che è ammessa soltanto su istanza di
parte e che deve essere sempre assunta in forma scritta (ciò
costituisce una rilevante differenza rispetto al processo civile e al
processo penale);
• l’ ordine di verificazione [verificazione che deve essere
effettuata da un organismo verificatore (di norma, un organo
pubblico non appartenente all’ amministrazione resistente)]; in
particolare, questo mezzo di prova trova applicazione qualora il
giudice reputi necessario l’ accertamento di un fatto ovvero l’
acquisizione di valutazioni che richiedono particolari competenze
tecniche (ad es., per accertare se un determinato elemento
chimico immesso nell’ atmosfera dall’ impresa ricorrente è
inquinante o meno);
• la consulenza tecnica, che è ammessa negli stessi casi previsti
per la verificazione e sempre che il giudice la ritenga
indispensabile; è bene precisare, però, che l’ art. 63 c.p.a., pur
accomunando la verificazione e la consulenza tecnica, stabilisce,
260
in realtà, una sorta di graduazione tra i due mezzi di prova: nel
senso che, in prima battuta, deve essere esperita la verificazione
e, solo se indispensabile, può essere disposta la consulenza
tecnica.
La competenza a disporre i mezzi di prova è ripartita tra il
presidente (o un magistrato da lui delegato) e il collegio; va detto,
tuttavia, che la consulenza tecnica e le verificazioni si
sottraggono a tale regola, perché esse possono essere ammesse
solo dal collegio.
Appare utile ricordare, infine, la distinzione tra l’ ammissione della
prova (che è l’ atto con il quale il mezzo istruttorio viene
disposto), l’ assunzione della prova (ossia il suo espletamento: ad
es., la formulazione dei quesiti) e la valutazione della prova [il
giudice in particolare, deve valutare la prova secondo il suo
prudente apprezzamento (che lo porta, ad es., a giudicare un
teste più o meno attendibile) e può desumere argomenti di prova
dal comportamento tenuto dalle parti nel corso del processo (può,
ad es., trarre argomento dalla resistenza opposta dall’
amministrazione al rilascio delle informazioni e dei documenti
ritenuti dal giudice utili ai fini del decidere)].
§16. La sospensione e l’ interruzione del processo
Ai sensi dell’ art. 295 c.p.c. (che trova applicazione anche nel
processo amministrativo) il giudice dispone che il processo sia
sospeso nei casi in cui egli (ovvero un altro giudice) debba
risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la
decisione stessa: è questo, ad es., il caso del ricorso contro l’
ordine di demolizione emesso dal sindaco per un contrasto della
costruzione con una previsione del piano regolatore; ora, qualora
contro tale previsione penda un altro ricorso, l’ accoglimento del
quale travolgerebbe il precetto che il sindaco assume violato dal
costruttore, è necessario disporre la sospensione del primo
procedimento, il cui esito è condizionato dall’ esito dell’ altro.
261
Nel processo amministrativo trova, poi, applicazione anche l’
interruzione del processo (artt. 299 c.p.c. e 28 d.lgs. 104/10): è
stabilito, infatti, che la morte o la perdita della capacità di stare in
giudizio di una delle parti private, al pari della morte dell’
avvocato, della sua radiazione o sospensione dall’ albo producono
l’ interruzione del processo (è bene precisare, però, che l’
interruzione è automatica quando l’ evento interruttivo riguarda l’
avvocato; quando riguarda la parte, l’ effetto di interruzione si
produce, invece, solo dal momento in cui l’ avvocato lo dichiara).
Una volta interrotto, il processo deve essere riassunto dalla parte
più diligente con atto notificato alle altre parti, nel termine
perentorio di 90 gg. dalla conoscenza legale dell’ evento
interruttivo (diversamente, il processo si estingue).
§17. Le sentenze di rito e le sentenze di merito
Il Tar, prima di stabilire se il ricorso è fondato o meno, se le
domande del ricorrente sono da accogliere o da respingere, è
tenuto a porre in essere una serie di verifiche: in primis, il Tar
deve verificare se il ricorso è stato proposto entro i termini
stabiliti (infatti, se il ricorso è tardivo, lo stesso verrà dichiarato
irricevibile); successivamente, il Tar deve controllare se il
contraddittorio è stato rispettato [se non lo è stato (ad es., per la
mancata notifica al controinteressato) il ricorso sarà, allora,
inammissibile]; irricevibile sarà, altresì, il ricorso che, notificato
tempestivamente, non sia stato depositato entro 30 gg. dall’
ultima notifica; improcedibile sarà, invece, il ricorso nei confronti
del quale il ricorrente abbia perduto interesse, per aver egli
ottenuto (per altra via) ciò a cui aspirava (ad es., dopo aver
impugnato un ordine di demolizione, il ricorrente ottiene il rilascio,
nel corso del giudizio, di una concessione in sanatoria);
inammissibile, infine, sarà il ricorso rispetto al quale il Tar ritenga
che difetti la giurisdizione del giudice amministrativo (perché la
giurisdizione spetterebbe al giudice ordinario o alla Corte dei
262
Conti ovvero alla commissione tributaria o al Tribunale Superiore
delle Acque).
In tutti i casi sopra elencati (e disciplinati dall’ art. 35 d.lgs.
104/10), il Tar emette una sentenza di rito, perché incontra un
ostacolo che non gli consente di pronunciare nel merito del
ricorso, ossia di emettere una sentenza di merito. Più
precisamente, sono sentenze di rito quelle che si arrestano ad
una pregiudiziale; sono, invece, sentenze di merito quelle che
decidono il merito delle domande, ossia accertano la fondatezza o
l’ infondatezza delle domande (di annullamento, di mero
accertamento e di condanna).
Di conseguenza, è solo sulle sentenze di merito che si forma il
giudicato (una volta che siano decorsi i termini per l’
impugnazione), perché solo in questo caso si può dire che l’
accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa
stato, ad ogni effetto, tra le parti.
In relazione al giudicato amministrativo, assume particolare
importanza l’ esame dei motivi di ricorso: il Tar, infatti, è tenuto
ad esaminare ciascun motivo di ricorso (e può, quindi, ritenerne
infondati alcuni e fondati altri). La regola in esame ha, pertanto,
indotto la giurisprudenza a praticare il cd. assorbimento:
accertata, cioè, la fondatezza di un motivo, il Tar dichiara assorbiti
gli altri (considerato che, per quel motivo, il ricorso deve
comunque essere accolto e l’ atto impugnato deve essere
annullato). A bene vedere, però, l’ assorbimento limita la portata
dell’ accoglimento e, quindi, l’ estensione del giudicato: se, ad es.,
il Tar accoglie il motivo con il quale viene denunciata l’
incompetenza dell’ autorità adita, senza valutare gli altri motivi
(dichiarati assorbiti e, quindi, non esaminati), l’ autorità dichiarata
competente sarà del tutto libera nella sua determinazione
(quando, viceversa, l’ accoglimento degli altri motivi avrebbe
potuto vincolarla nella decisione, al punto da impedirle di
emetterla).
263
§18. Il giudicato amministrativo
Anche alle sentenze del giudice amministrativo sono applicabili le
categorie di giudicato formale e di giudicato sostanziale. In
particolare, il giudicato formale designa la condizione della
sentenza non più soggetta ad impugnazione, a prescindere dal
contenuto della stessa (sentenza di rito o sentenza di merito).
Il giudicato sostanziale, invece, rappresenta l’ accertamento
contenuto nella sentenza passata in giudicato e che fa stato tra le
parti, i loro eredi ed i loro aventi causa; è bene precisare, però,
che tale accertamento è contenuto solo nelle sentenze di merito
(le uniche che definiscono il rapporto tra le parti e fissano una
regola o un precetto); nelle sentenze di rito, invece, quest’
accertamento manca, perché vi è un fatto o una circostanza
(irricevibilità, inammissibilità, etc.) che impedisce al giudice di
concludere con un accertamento che faccia stato tra le parti.
Nell’ ambito delle sentenze di merito occorre distinguere le
sentenze di accoglimento da quelle di rigetto: queste ultime,
lasciando immutata la situazione così come determinata dal
provvedimento impugnato, fanno sì che l’ accertamento
vincolante per le parti sia proprio quello contenuto nel
provvedimento che è stato impugnato senza successo dal
ricorrente (è questo il motivo per il quale il tema del giudicato
amministrativo assume particolare importanza in relazione alle
sentenze di accoglimento del ricorso e di annullamento dell’ atto
impugnato).
Detto ciò, è necessario sottolineare, comunque, che una volta
annullato un provvedimento amministrativo, il relativo potere
(che attraverso il provvedimento era stato esercitato) non si
estingue, ma sopravvive all’ annullamento, anche se la sentenza
che lo dispone, avendo accolto il ricorso, orienta la futura azione
dell’ amministrazione o comunque ne delimita i confini (è questo
il senso della disposizione contenuta nell’ art. 45 r.d. 1054/24, ad
264
avviso del quale l’ annullamento da parte del giudice
amministrativo fa salvi gli ulteriori provvedimenti dell’ autorità
amministrativa). Considerato, quindi, che la vicenda
amministrativa può proseguire con un rinnovato esercizio del
potere amministrativo, dottrina e giurisprudenza hanno
individuato tre specie di effetti del giudicato di annullamento:
• il primo è l’ effetto demolitorio, il quale non colpisce soltanto l’
atto o gli atti impugnati, ma investe anche gli atti successivi che
sono stati adottati sul presupposto dell’ atto annullato [così, ad
es., se viene accolto il ricorso contro il licenziamento di un
dipendente, il cui rapporto di impiego continua ad essere
sottoposto alla giurisdizione amministrativa (ad es., un
magistrato, un professore universitario, un ufficiale dell’ esercito o
un poliziotto) ne risulterà travolto il trasferimento di altro
dipendente nel posto lasciato libero dalla persona licenziata)];
• all’ effetto demolitorio si accompagna l’ effetto ripristinatorio
(ad es., se viene annullato un decreto di espropriazione, l’
immobile espropriato va restituito al proprietario, in modo che
questi è posto nella stessa situazione nella quale si sarebbe
trovato se l’ espropriazione non fosse intervenuta);
• l’ esercizio ulteriore del potere amministrativo soggiace, invece,
all’ effetto conformativo della sentenza di annullamento (effetto
che è strettamente collegato ai motivi di ricorso che il giudice ha
ritenuto fondati); con l’ effetto conformativo, in altri termini, la
sentenza che accerta l’ illegittimità dell’ atto annullato identifica il
modo legittimo dell’ esercizio del potere (contiene, cioè, un
precetto destinato ad orientare la futura attività dell’
amministrazione). Va precisato, in ogni caso, che il vincolo a
carico dell’ amministrazione può essere pieno: come quando il
giudice annulla l’ atto per difetto dei presupposti normativi
soggettivi o oggettivi (è questo il caso, ad es., della sentenza di
annullamento del provvedimento di espulsione di un cittadino
comunitario, al quale viene applicata indebitamente la normativa
265
sugli extracomunitari).
Il vincolo può essere, altresì, semipieno: come quando l’ atto è
annullato per eccesso di potere (in tal caso, l’ amministrazione ha
la possibilità di riadottare l’ atto, depurandolo, però, dal vizio
accertato dal giudice).
Il vincolo si definisce, infine, secondario (o anche strumentale)
quando l’ annullamento è disposto per motivi formali: ad es.,
perché non è stata data comunicazione dell’ avvio del
procedimento (in questi casi, l’ amministrazione può rinnovare il
procedimento, purché elimini il vizio, senza essere in alcun modo
legata in ordine al contenuto del nuovo atto).
§19. Il giudizio di ottemperanza
Come abbiamo visto, la sentenza del giudice amministrativo non
chiude la partita tra le parti del giudizio, ma pone le premesse per
un’ ulteriore attività della pubblica amministrazione (attività che
si muove tra i due estremi del puntuale adempimento del
precetto contenuto in sentenza e del rinnovato esercizio del
potere amministrativo).
In linea di principio possono verificarsi tre situazioni:
• in alcuni casi la sentenza è autoesecutiva: non richiede, cioè,
alcuna attività di esecuzione da parte dell’ amministrazione (se,
ad es., è stato revocato un permesso di costruire, l’ annullamento
del provvedimento da parte del giudice amministrativo restituisce
efficacia al permesso, che il privato può, in tal modo, continuare
ad utilizzare);
• in altri casi l’ amministrazione, pur essendo tenuta ad agire,
rimane assolutamente inerte (così, ad es., annullato un diniego di
autorizzazione, l’ autorità è tenuta a riesaminare la domanda; se
non lo fa, il privato può rivolgersi al giudice dell’ ottemperanza);
• la terza ipotesi è quella più complessa. L’ autorità provvede (ad
266
es., reiterando il diniego di autorizzazione). A questo punto
occorre stabilire se l’ amministrazione abbia esercitato il potere
amministrativo che viene fatto salvo dalla sentenza, ex art. 45 r.d.
1054/24 (nel qual caso il nuovo atto dovrà essere allora
impugnato nell’ ambito di un nuovo processo di cognizione)
ovvero se abbia violato o eluso il giudicato (e in tal caso la
questione dovrà essere sottoposta al giudice dell’ ottemperanza):
riproponendo l’ esempio di prima, si dovrà allora affermare che,
qualora l’ atto riproduca con qualche variante marginale il
precedente diniego, lo stesso dovrà essere considerato elusivo del
giudicato.
A questo punto, però, è necessario interrogarsi sul tipo di
invalidità che inficia l’ atto posto in essere in violazione o elusione
del giudicato: a tale quesito ha dato una risposta ben precisa la L.
15/05, la quale, infatti, ha qualificato come atto nullo il
provvedimento adottato in violazione o elusione del giudicato
(nullo perché ritenuto lesivo del diritto soggettivo del ricorrente
risultato vincitore all’ esecuzione del giudicato); pertanto,
trattandosi della lesione di un diritto soggettivo, la relativa
controversia è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo.
In questa prospettiva, l’ art. 112 c.p.a. individua le decisioni per le
quali è possibile chiedere l’ esecuzione in sede giurisdizionale,
così circoscrivendo l’ ambito di applicazione del giudizio di
ottemperanza; in particolare, ad avviso del legislatore, tale
giudizio è finalizzato all’ attuazione:
• delle sentenze passate in giudicato del giudice amministrativo e
del giudice ordinario;
• delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi
del giudice amministrativo;
• dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili.
L’ art. 112 c.p.a. contiene anche altre disposizioni finalizzate a
delineare il giudizio di ottemperanza; più precisamente, in tale
267
sede il ricorrente:
• può esperire azione di condanna per il pagamento di somme a
titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in
giudicato della sentenza;
• può esperire azione di risarcimento dei danni derivanti dalla
mancata esecuzione, violazione o elusione del giudicato;
• può proporre la connessa domanda di risarcimento del danno
derivante dalla illegittimità del provvedimento impugnato (nel
termine di 120 gg. dal passaggio in giudicato della relativa
sentenza);
• può proporre domanda al fine di ottenere chiarimenti in ordine
alle modalità con cui si deve procedere all’ esecuzione di una
delle suddette pronunce (cd. ottemperanza di chiarimento).
Ad eccezione della domanda di risarcimento del danno (in cui l’
azione si prescrive, come visto, nel termine di 120 gg.), nelle altre
ipotesi l’ azione si prescrive dopo 10 anni dal passaggio in
giudicato della sentenza: è bene precisare, al riguardo, che opera
il termine di prescrizione (e non quello di decadenza) perché il
ricorrente fa valere, in tal caso, un diritto soggettivo nell’ ambito
di una giurisdizione esclusiva e di merito.
Giudice dell’ ottemperanza è il Tar che ha emesso la sentenza di
cui si chiede l’ esecuzione (e ciò anche qualora la stessa sia stata
impugnata davanti al Consiglio di Stato e quest’ ultimo l’ abbia
confermata in toto).
Viceversa, se la sentenza è stata riformata in appello, in senso
favorevole al privato (ovvero sia stata confermata, ma con
diversa motivazione), la competenza è del Consiglio di Stato.
Se, infine, la sentenza di cui si chiede l’ ottemperanza è del
giudice ordinario competente sarà, invece, il Tar nella cui
circoscrizione ha sede quel giudice (stesso discorso quando l’
ottemperanza riguarda un lodo arbitrale).
Con la sentenza che accoglie il ricorso il giudice ai sensi dell’ art.
114 c.p.a.:
268
• ordina l’ ottemperanza, prescrivendo le relative modalità;
• dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del
giudicato;
• nomina, ove occorra, un commissario ad acta;
• determina, su richiesta del ricorrente, la somma di denaro
dovuta dall’ amministrazione per il ritardo nell’ esecuzione del
giudicato.
Un accenno è necessario dedicarlo, in particolare, al commissario
ad acta (figura inventata dalla giurisprudenza amministrativa, poi
codificata); si tratta di un soggetto terzo, che viene nominato dal
giudice nel caso in cui l’ amministrazione non ottemperi. Il
commissario, in ogni caso, non è un organo dell’ amministrazione
che non ha ottemperato, ma è un ausiliare del giudice (al quale,
tra l’ altro, è tenuto a rispondere).
Occorre precisare, infine, che se la sentenza che conclude il
giudizio di ottemperanza è emessa dal Tar, la stessa sarà
impugnabile dinanzi al Consiglio di Stato.
§20. I riti speciali
Accanto al rito ordinario (disciplinato dagli artt. 49-90), il c.p.a.
prevede e disciplina i cd. riti speciali: questi procedimenti
riguardano controversie che, in considerazione della loro
peculiarità (accesso ai documenti e ricorsi contro il silenzio) o per
la loro particolare rilevanza economica (appalti pubblici) o politica
(contenzioso elettorale) sono sottoposti a regole speciali.
a) il rito in materia di accesso ai documenti (art. 116 c.p.a.)
Per quanto riguarda il rito in materia di accesso ai documenti, l’
azione deve essere proposta entro 30 gg. dal diniego di accesso
ovvero dalla formazione del silenzio (l’ interessato, in ogni caso,
può proporre la domanda anche nell’ ambito del ricorso
principale); la decisione è presa dal giudice in forma semplificata
(questi, qualora accolga il ricorso, ordina all’ amministrazione di
269
esibire, entro 30 gg., i documenti richiesti).
b) i ricorsi avverso il silenzio (art. 117 c.p.a.)
Per i ricorsi avverso il silenzio, il ricorrente può esercitare l’ azione
entro 1 anno dalla scadenza del termine per la conclusione del
procedimento (è fatta salva, tuttavia, la possibilità di riproporre l’
istanza con conseguente decorrenza dei nuovi termini); anche in
questo caso, la decisione viene presa dal giudice in forma
semplificata (e, in caso di accoglimento del ricorso, l’
amministrazione è ottemperata a provvedere entro 30 gg.).
c) il procedimento di ingiunzione (art. 118 c.p.a.)
Al procedimento di ingiunzione può ricorrere il creditore di una
somma di denaro (nell’ ambito della giurisdizione esclusiva su
diritti soggettivi di natura patrimoniale); l’ ingiunzione a pagare,
emessa dal presidente del Tar (o da un magistrato da lui delegato)
è opponibile con ricorso dinanzi al Tribunale.
d) il rito abbreviato in determinate materie (art. 119 c.p.a.)
Nelle controversie elencate nel co. 1 dell’ art. 119 (tra le quali
ricordiamo: l’ affidamento di lavori, servizi e forniture; i
provvedimenti delle Autorità amministrative indipendenti; la
privatizzazione di imprese o beni pubblici) i termini processuali
sono ridotti a metà (ad eccezione dei termini per ricorrere, che
rimangono immutati).
Se il rito abbreviato viene adìto con domanda cautelare, il giudice
può fissare l’ udienza di merito, ove ritenga che il ricorso sia
fondato, che il pregiudizio sia grave ed irreparabile e che il
contraddittorio sia completo (è bene specificare, però, che tra il
deposito dell’ ordinanza cautelare e l’ udienza di merito deve
decorrere un termine non inferiore a 30 gg.).
Considerazioni particolari è necessario, a questo punto, dedicarle
al rito in materia di affidamento di lavori, servizi e forniture: in tali
270
controversie, infatti, trovano applicazione ulteriori regole.
Innanzitutto, va detto che, qualora sia mancata la pubblicità del
bando di gara, il termine per ricorrere è di 30 gg. (decorrenti dalla
pubblicazione dell’ avviso di aggiudicazione definitiva).
Gli artt. 121-123 c.p.a. disciplinano, poi, i rapporti tra l’
annullamento dell’ aggiudicazione ed il contratto stipulato con l’
aggiudicatario, devolvendo la relativa giurisdizione al giudice
amministrativo (in tal modo è stato risolto un controverso
problema che ha visto da sempre su posizioni contrapposte il
Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione).
Al riguardo, è importante sottolineare che l’ annullamento dell’
aggiudicazione non travolge necessariamente il contratto, ma ne
determina, tuttavia, l’ inefficacia: ciò si verifica, ai sensi dell’ art.
121 c.p.a., se l’ affidamento non è stato preceduto dal bando o è
avvenuto con procedura negoziata senza bando, ovvero ancora se
il contratto è stato stipulato senza rispettare il termine dilatorio
stabilito dall’ art. 11 c.p.a. o senza rispettare la sospensione
obbligatoria del termine per la stipulazione derivante dalla
proposizione del ricorso giurisdizionale contro l’ aggiudicazione
definitiva.
È bene precisare, però, che il giudice, nei casi su menzionati, non
può dichiarare l’ inefficacia del contratto qualora sussistano
determinate esigenze connesse ad un interesse generale: tali
esigenze ricorrono, ad es., nel caso in cui risulti evidente che gli
obblighi contrattuali possono essere soddisfatti solo dall’
esecutore attuale; o quando dalla declaratoria di inefficacia
deriverebbero esigenze sproporzionate, soprattutto nei casi in cui
il ricorrente non abbia chiesto di subentrare nel contratto.
A differenza delle ipotesi elencate nell’ art. 121 c.p.a. (che, come
abbiamo visto, regola i casi in cui il giudice è tenuto a dichiarare l’
inefficacia del contratto stipulato con l’ aggiudicatario o gli è
vietato di dichiararla in presenza delle esigenze imperative su
esposte), il successivo art. 122 rimette, invece, al giudice la
271
facoltà di dichiarare inefficace il contratto (ovviamente, fuori dei
casi indicati nell’ art. 121).
Qualora il contratto venga dichiarato inefficace, il ricorrente potrà
ottenere l’ aggiudicazione; viceversa, nel caso in cui non lo
dichiari tale, il giudice disporrà il risarcimento del danno per
equivalente.
§21. Il giudizio cautelare
a) i poteri cautelari del giudice amministrativo
Anche se il d.lgs. 104/10 impone al giudice ed alle parti di
cooperare per la realizzazione della ragionevole durata del
processo, i tempi processuali possono, il più delle volte,
pregiudicare le ragioni del ricorrente (ad es., se al proprietario
viene intimata la demolizione di un manufatto edilizio, perché
abusivo, e la costruzione viene effettivamente demolita, a nulla
varrà l’ accoglimento del ricorso contro il provvedimento del
comune, se non ai fini dell’ eventuale risarcimento danni).
Tenuto conto di ciò, tutti gli ordinamenti processuali prevedono,
oggi, una specifica tutela cautelare, che serve ad impedire che i
tempi del processo giochino a danno della parte che ha ragione
(serve, cioè, ad assicurare provvisoriamente, anticipandoli, gli
effetti della decisione di merito).
È necessario sottolineare, tuttavia, che prima dell’ emanazione
della L. 205/00, l’ unica misura cautelare tipica prevista e
disciplinata dal nostro ordinamento era la sospensione del
provvedimento impugnato, qualora dalla sua esecuzione fossero
derivati danni gravi ed irreparabili (tali, cioè, da non poter essere
riparati dall’ accoglimento del ricorso nel merito).
Soltanto nell’ ambito della giurisdizione esclusiva (in particolare,
nella materia del pubblico impiego) potevano trovare applicazione
misure cautelari atipiche, ex art. 700 c.p.c. (in tal senso, Corte
cost., sent. 190/85).
272
Tali limitazioni, però, se non influivano negativamente sulla tutela
di interessi legittimi oppositivi (ad es., la sospensione dell’
ordinanza di demolizione), rendevano, viceversa, quasi del tutto
impossibile la tutela cautelare di interessi legittimi pretensivi,
poiché lesi da provvedimenti di carattere negativo (ad es., il
diniego del permesso di costruire): in altri termini, ci si chiedeva
come fosse possibile sospendere il provvedimento negativo.
La stessa giurisprudenza, del resto, non era riuscita a fornire al
quesito risposte del tutto efficaci: si riteneva, infatti, che il diniego
di provvedimento non fosse suscettibile di sospensione; ma,
anche se fosse stata possibile, la sospensione del provvedimento
negativo non avrebbe potuto comunque equivalere al rilascio del
provvedimento negato, perché qualora avesse accolto la
domanda di cautela, il giudice avrebbe finito per sostituirsi all’
amministrazione.
Di queste problematiche hanno preso, quindi, atto la L. 205/00 e il
d.lgs. 104/10: in particolare, attraverso questi due provvedimenti,
il legislatore, tenendo conto dell’ insufficienza della misura
cautelare (tipica) della sospensione del provvedimento
impugnato, ha ritenuto opportuno strutturare i poteri cautelari del
giudice amministrativo sullo schema dell’ art. 700 c.p.c.: ciò
significa, pertanto, che oggi il giudice può concedere all’
interessato la misura cautelare (atipica) più idonea ad assicurare
interinalmente (cioè, provvisoriamente) gli effetti della decisione
sul ricorso; il legislatore, inoltre, tenendo conto del fatto che nel
processo amministrativo può essere proposta non soltanto l’
azione di annullamento, ma anche l’ azione di condanna e quella
di mero accertamento (ossia, azioni nelle quali manca un
provvedimento), ha previsto anche la possibilità di disporre l’
ingiunzione a pagare, in via provvisoria, una somma di denaro
(anticipatoria di una sentenza di condanna).
b) i presupposti per l’ esercizio del potere cautelare
273
Affinché la richiesta cautelare possa essere accolta sono
necessari il fumus boni iuris ed il periculum in mora. In
particolare, ai sensi dell’ art. 55, co. 1 c.p.a., il periculum in mora
coincide con il danno grave ed irreparabile, mentre la necessità
del fumus boni iuris è enunciata nel successivo co. 2 della
medesima disposizione, ove si legge che la domanda cautelare
può essere accolta se il ricorso, ad un sommario esame, appare
fondato [si parla di fumus, ossia di una parvenza di fondatezza
(senza la quale il danno grave ed irreparabile non è sufficiente, da
solo, a giustificare l’ accoglimento della domanda): sarebbe, ad
es., incongrua la sospensione di un provvedimento, anche se
causa di un pregiudizio serio, se i motivi di ricorso apparissero,
prime facie, infondati].
c) il procedimento cautelare ordinario (o collegiale)
L’ istanza cautelare deve essere proposta al collegio (il Tar adìto)
con un atto inserito nel corpo del ricorso introduttivo (o anche con
una separata istanza); fatto ciò, la domanda (dopo essere stata
notificata alle altre parti) deve essere depositata presso la
segreteria del Tar (insieme all’ istanza di fissazione dell’ udienza
di merito). A questo punto, la domanda cautelare viene esaminata
dal collegio nella prima camera di consiglio successiva, purché
siano trascorsi almeno 20 gg. giorni dal perfezionamento, anche
per il destinatario, dell’ ultima notificazione e 10 gg. dal deposito
del ricorso.
Le parti possono depositare memorie e documenti fino a 2 gg.
prima della camera di consiglio; tuttavia, per gravi ed eccezionali
ragioni, le stesse parti possono essere autorizzate a depositare
documenti anche nella camera di consiglio, purché di essi sia
stata consegnata copia alle altre parti prima dell’ inizio della
discussione (questa si svolge in modo sintetico, se una delle parti
ne fa richiesta).
In merito alla domanda, il collegio può, innanzitutto, emettere un’
274
ordinanza motivata, di accoglimento o di rigetto (motivata,
ovviamente, in ordine al periculum in mora ed al fumus boni
iuris).
In secondo luogo, il collegio (qualora ritenga che sussistano i
presupposti per il giudizio di merito) fissa, con ordinanza
collegiale, la data di discussione del ricorso nel merito.
Infine, il collegio può definire il giudizio con sentenza di merito in
forma semplificata, purché sia assicurato il contraddittorio e
sempre che non sia necessaria un’ istruttoria; è bene precisare,
però, che la definizione del giudizio con sentenza in forma
semplificata non è ammessa nel caso in cui una delle parti
dichiari di voler presentare motivi aggiunti, ricorso incidentale
ovvero regolamento di competenza o di giurisdizione.
d) le varianti all’ ordinario procedimento cautelare
Sebbene la domanda di cautela debba essere esaminata in tempi
brevi, questi ultimi, tuttavia, possono risultare comunque troppo
lunghi qualora l’ urgenza sia massima; a tal fine, gli artt. 56 e 61
c.p.a. prevedono due specifiche ipotesi risolutive.
Innanzitutto, è previsto che, in caso di estrema gravità ed
urgenza (tale da non consentire neppure di attendere la data
della camera di consiglio) la richiesta può essere rivolta al
presidente del Tar o al magistrato da lui delegato: il giudice,
accertata l’ avvenuta notifica del ricorso (almeno all’
amministrazione resistente e ad uno dei controinteressati),
provvede con decreto motivato non impugnabile.
L’ altro rimedio previsto e disciplinato dalla legge prende, invece,
il nome di misura cautelare ante causam (cioè, anteriore alla
causa). A differenza della precedente ipotesi (nella quale, come
visto, l’ urgenza è tale non consentire l’ attesa fino alla data della
camera di consiglio), in questo caso, invece, l’ urgenza è tale da
non consentire neppure la previa notificazione del ricorso; risulta,
allora, sufficiente notificare la domanda di misura cautelare
perché il presidente o il giudice da lui delegato provveda su di
275
essa (con decreto), dopo aver sentito le parti (è bene precisare
comunque che, nell’ ipotesi disciplinata, il ricorso per il merito non
viene omesso, ma semplicemente posticipato: tant’è vero che se
esso non viene notificato entro 15 gg. e depositato in segreteria
nei successivi 5 gg., il decreto presidenziale perde efficacia).
e) la riproposizione della domanda, l’ istanza di revoca e le
impugnazioni
L’ ordinanza del Tar che respinge la domanda cautelare può
essere riproposta qualora si verifichino mutamenti nelle
circostanze di fatto o qualora il ricorrente alleghi fatti anteriori da
lui prima non conosciuti (purché fornisca la prova del momento in
cui ne è venuto a conoscenza); per contro, qualora il Tar accolga
la domanda del ricorrente, le altre parti possono proporre istanza
di revoca della misura cautelare (sempre che, ovviamente,
ricorrano i medesimi presupposti su indicati).
Per quanto riguarda, invece, il sistema delle impugnazioni, è
necessario sottolineare che avverso le ordinanze cautelari l’
interessato può proporre appello al Consiglio di Stato, nel termine
di 30 gg. dalla notifica dell’ ordinanza (ovvero nel termine di 60
gg. dalla sua pubblicazione). In particolare, il Consiglio di Stato è
chiamato a valutare l’ ingiustizia dell’ ordinanza (di accoglimento
o di rigetto della misura cautelare) così come prospettata dall’
appellante; ma può anche accertare d’ ufficio la violazione delle
regole sulla giurisdizione, sulla competenza per territorio o sulla
competenza funzionale (ed annullare l’ ordinanza impugnata per
questo motivo).
Nel caso in cui il Consiglio di Stato, accogliendo il ricorso in
appello, disponga una misura cautelare, l’ ordinanza viene
trasmessa, dalla segreteria, al primo giudice, in modo che questi
fissi l’ udienza di merito con priorità.
§22. Le impugnazioni
276
a) profili generali
I mezzi di impugnazione delle sentenze sono l’ appello, la
revocazione, l’ opposizione di terzo e il ricorso per cassazione (gli
aspetti comuni a questi quattro mezzi sono disciplinati dagli artt.
92-99 c.p.a).
È bene precisare, però, che oltre ai mezzi su indicati (che
potremmo definire impugnazioni principali) sono anche previste
due impugnazioni incidentali, che si distinguono per il differente
trattamento normativo: la prima impugnazione incidentale
(proposta ai sensi dell’ art. 333 c.p.c.) è un’ impugnazione che si
distingue da quella principale per il solo fatto che è stata
preceduta dall’ impugnazione di un’ altra parte [sicché il termine
per ricorrere in via incidentale (60 gg.) decorre dalla notifica dell’
altra impugnazione].
La seconda impugnazione incidentale (denominata tardiva) viene,
invece, proposta, ai sensi dell’ art. 334 c.p.c., solo perché la parte
soccombente ha impugnato in via principale la sentenza. In altri
termini: la parte (che ha impugnato in via incidentale) si sarebbe
acquetata, sebbene non pienamente soddisfatta dalla sentenza di
primo grado, se altra parte non avesse impugnato quest’ ultima,
facendo insorgere in lei l’ interesse ad attaccare la sentenza, al
fine di ridurre il danno che potrebbe emergere dall’ accoglimento
dell’ impugnazione principale (o di impedirlo del tutto).
Occorre precisare, in ogni caso, che l’ impugnazione incidentale,
in entrambe le sue forme, ha come suo normale ambito di
applicazione l’ appello al Consiglio di Stato (cd. appello
incidentale).
Per quanto riguarda, invece, i soggetti, è necessario sottolineare
che tra le parti del giudizio di impugnazione vi può essere l’
interventore: sia quello che era presente nel giudizio di primo
grado che, non avendo titolo per impugnare, può essere presente
nel processo d’ appello soltanto attraverso un nuovo intervento
277
(che può essere sollecitato dalla notifica dell’ atto di
impugnazione); sia quello che, non avendo partecipato al giudizio
di primo grado, interviene, avendovi interesse, per la prima volta
nel giudizio di impugnazione.
Un accenno occorre dedicarlo, infine, ai poteri del giudice dell’
impugnazione: questi, in particolare, dispone dello stesso potere
di sospensione attribuito al giudice che ha emesso la sentenza
impugnata, sempre che dall’ esecuzione possa derivare un danno
grave ed irreparabile (anche in questo caso, quindi, rileva il
fumus, perché la sospensione può essere disposta una volta
valutati i motivi proposti). È bene precisare, però, che il potere
cautelare non può essere attribuito alla Corte di Cassazione: ciò
significa, pertanto, che se la sentenza viene impugnata per soli
motivi inerenti alla giurisdizione (se, cioè, viene proposto ricorso
per cassazione), l’ eventuale sospensione può essere chiesta al
Consiglio di Stato.
b) l’ appello
Le sentenze dei Tar sono impugnabili davanti al Consiglio di Stato:
questi ha la stessa competenza e dispone degli stessi poteri di
cognizione e di decisione del giudice di primo grado (salve le
eccezioni previste dall’ art. 104 c.p.a.).
Come l’ appello civile, anche l’ appello nel processo
amministrativo ha la struttura di un secondo giudizio: esso, cioè,
tende alla ripetizione del giudizio (o meglio, alla sua sostituzione
con un giudizio nuovo).
Legittimata a proporre appello è la parte soccombente: il
ricorrente (se il ricorso è stato respinto) ovvero l’ amministrazione
o il controinteressato (se il ricorso è stato accolto). Nel caso in cui
il ricorso venga respinto, il Consiglio di Stato conferma la
sentenza di primo grado; viceversa, qualora lo accolga, esso
sostituisce la sua sentenza a quella del Tar.
Accanto alle ipotesi su indicate (che sono le più semplici) ve ne
278
sono altre ben più complicate: è possibile, infatti, che il Tar abbia
giudicato il ricorso irricevibile (perché tardivo) o nullo (perché
carente degli elementi essenziali) ovvero inammissibile (per
mancata notifica al controinteressato o per difetto di interesse). In
questi casi, come si può notare, è mancato, in primo grado, un
giudizio di merito (sulla fondatezza o meno del ricorso) perché il
Tar si è arrestato ad una questione pregiudiziale. Ora, in virtù del
principio del doppio grado di giurisdizione, il Consiglio di Stato,
una volta accolto l’ appello, dovrebbe rinviare la controversia al
giudice di primo grado, affinché questi esprima quel giudizio di
merito che è stato indebitamente omesso; ciò, però, non accade,
perché prevale un’ esigenza di pura economia processuale (si
tratta della regola della ragionevole durata del processo, ex art.
111 Cost.): di conseguenza, il Consiglio di Stato, una volta accolto
l’ appello, giudica nel merito, dopo aver superato le pregiudiziali
che avevano indotto il Tar ad astenersi dal giudizio di merito.
Vi sono, in ogni caso, delle ipotesi nelle quali la causa deve essere
comunque rimessa al giudice di primo grado (cioè, al Tar). Ciò
accade:
• se è mancato il contraddittorio (ad es., se il Tar ha posto a
fondamento della decisione una questione rilevata d’ ufficio,
precludendo, quindi, alla parte interessata la possibilità di
difendersi);
• se la sentenza è nulla (ad es., perché manca la concisa
esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione);
• se il Tar ha erroneamente declinato la giurisdizione o la
competenza (dichiarando se stesso carente di giurisdizione o
incompetente) o se ha erroneamente dichiarato l’ estinzione o la
perenzione del giudizio.
L’ appello (principale) presuppone la soccombenza (in primo
grado) della parte che lo propone. Questa soccombenza,
ovviamente, può essere totale o parziale: è parziale, ad es.,
quando il Tar accoglie un motivo di ricorso e, di conseguenza,
279
annulla l’ atto impugnato, ma respinge altri motivi [in questo caso
l’ appello è ammesso qualora la parte possa ricevere dal suo
accoglimento vantaggi ulteriori (ad es., accolto il ricorso per
motivi formali, il ricorrente propone appello allo scopo di vedere
accolti i motivi, respinti in primo grado, con cui si denunciano
illegittimità sostanziali)]. È questo il motivo per il quale l’ art. 102
c.p.a. riconosce la legittimazione a proporre appello alle parti tra
le quali è stata pronunciata la sentenza di primo grado (e, quindi,
non solo alla parte soccombente); ciò significa che anche il
vincitore può proporre appello se la sua vittoria (in primo grado) è
stata parziale.
Passiamo ora ad affrontare il tema dell’ appello incidentale: al
riguardo, è necessario sottolineare che nel caso in cui la sentenza
venga impugnata dall’ amministrazione resistente o dal
controinteressato, il ricorrente in primo grado ha la possibilità di
riproporre i motivi di ricorso non accolti dal Tar, con appello
incidentale (in questa ipotesi, come si può notare, il thema
decidendi viene allargato in modo che il Consiglio di Stato è
tenuto a riprendere in considerazione l’ intero oggetto del giudizio
di primo grado).
Come detto in precedenza, l’ appello principale presuppone la
soccombenza della parte che lo propone; viceversa, l’ appello
incidentale presuppone una parziale vittoria (è il caso, ad es., del
ricorrente in primo grado i cui motivi di ricorso siano stati accolti
solo in parte; o dell’ amministrazione o del controinteressato le
cui difese siano state accolte solo in parte). Dagli esempi
avanzati, quindi, possiamo dedurre che l’ appello incidentale può
essere proposto dalla parte che ha ottenuto una mezza vittoria e
che, per tal motivo, impugna la sentenza (appellata dall’ altra
parte in via principale) nella parte in cui le dà torto.
In linea generale, l’ esame dell’ appello principale precede quello
dell’ appello incidentale; vi sono, però, delle ipotesi nelle quali si
verifica una sorta di inversione (ciò accade, ad es., quando il
280
ricorrente soccombente impugna la sentenza del Tar e l’
amministrazione ripropone, con appello incidentale, la questione
di tardività del ricorso, che era stata già sollevata davanti al
giudice di primo grado e da questi era stata ritenuta infondata: in
questa ipotesi l’ appello incidentale, come si può notare,
configura una questione pregiudiziale che, in quanto tale, deve
essere necessariamente esaminata con precedenza).
Nel giudizio d’ appello vale la regola sancita dall’ art. 345 c.p.c.,
secondo cui in secondo grado non possono essere proposte né
nuove eccezioni non rilevabili d’ ufficio né domande nuove
[queste ultime, se proposte, devono essere dichiarate
inammissibili (tale preclusione opera, essenzialmente, a carico
dell’ appellante che era ricorrente in primo grado, il quale, infatti,
non può proporre, in appello, motivi non dedotti in primo grado)].
L’ originale del ricorso in appello deve essere depositato nella
segreteria del Consiglio di Stato entro 30 gg. dall’ ultima notifica;
per il resto, trovano applicazione le stesse regole già considerate
con riferimento al Tar (in tema di fissazione di udienza, istruttoria
eventuale, termini per il deposito dei documenti e delle memorie,
udienza di discussione).
Secondo la normativa preesistente al 2010 si riteneva che il
giudice d’ appello, disponendo degli stessi poteri di cognizione e
di decisione del giudice di primo grado, fosse titolare anche degli
stessi poteri istruttori; viceversa, l’ art. 104 d.lgs. 104/10,
uniformandosi al codice di rito (art. 345 c.p.c.) ha escluso che nel
processo d’ appello possano essere ammessi nuovi mezzi di prova
o possano essere prodotti nuovi documenti, a meno che il collegio
non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa
ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli nel
giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile.
Un’ altra rilevante novità introdotta dal d.lgs. 104/10 è, poi,
costituita dalla possibilità di proporre motivi aggiunti in appello,
qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti
281
dalle altre parti nel giudizio di primo grado, dai quali emergano
vizi degli atti impugnati (ovviamente, tale possibilità è
riconosciuta al ricorrente in primo grado e che, soccombente
davanti al Tar, abbia proposto appello).
È necessario sottolineare, infine, che l’ appello non sospende l’
esecuzione della sentenza impugnata (la quale, pertanto, è
esecutiva); l’ appellante, però, ha la possibilità di impedire l’
esecuzione presentando apposita istanza al Consiglio di Stato
(che la accoglie quando dall’ esecuzione possa derivare un danno
grave ed irreparabile).
c) il ricorso per revocazione e l’ opposizione di terzo
Come sappiamo, il Consiglio di Stato è giudice di secondo ed
ultimo grado: le sue sentenze, infatti, sono impugnabili con
ricorso per cassazione solo per motivi inerenti alla giurisdizione
(cioè, solo nel caso in cui il Consiglio abbia giudicato fuori dalla
sua giurisdizione). A questa regola, però, fanno eccezione due
rimedi: il ricorso per revocazione e l’ opposizione di terzo (che
possono essere proposti contro la sentenza del Consiglio di Stato).
Ai sensi dell’ art. 395 c.p.c. il ricorso per revocazione è ammesso:
• se la sentenza è l’ effetto del dolo di una delle parti in danno
dell’ altra;
• se si è giudicato in base a prove dichiarate false dopo la
sentenza ovvero che la parte soccombente ignorava essere state
dichiarate tali (cioè, false) prima della pronuncia;
• se, dopo la sentenza, sono stati trovati uno o più documenti
decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per
causa di forza maggiore o per fatto dell’ avversario;
• quando la sentenza è fondata sulla supposizione di un fatto la
cui verità è esclusa incontrastabilmente o sulla supposizione dell’
inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente accertata;
• se la sentenza è contraria ad altra precedente avente tra le
parti autorità di cosa giudicata ;
282
• se la sentenza è effetto del dolo del giudice, accertato con
sentenza passata in giudicato.
Ora, quando il fatto è rilevabile dalla sentenza (errore di fatto o
violazione del giudicato), il termine per impugnare (60 gg.)
decorre dalla notifica della sentenza (cd. revocazione ordinaria);
negli altri casi, invece, il termine decorre dal momento in cui è
stato scoperto il fatto o la circostanza su cui si fonda il vizio
revocatorio (cd. revocazione straordinaria).
È importante specificare che il giudizio di revocazione è
proponibile dinanzi al giudice che ha pronunciato la sentenza
impugnata (Tar o Consiglio di Stato); tuttavia, contro la sentenza
del Tar la revocazione è ammessa solo nel caso in cui i motivi non
possano essere dedotti con l’ appello.
Un ultimo accenno occorre dedicarlo al contenuto della sentenza
che chiude il giudizio di revocazione; al riguardo è necessario
sottolineare che tale sentenza presenta una struttura complessa,
perché comprensiva di due fasi: una fase rescindente ed una fase
rescissoria. Più precisamente, nella fase rescindente il giudice, se
accoglie il ricorso, elimina la sentenza impugnata perché affetta
dal vizio revocatorio denunciato; nella fase rescissoria, invece, il
giudice emette un nuovo provvedimento, emendato dal vizio che
aveva inficiato la pronuncia precedente.
L’ opposizione di terzo, oggi disciplinata dall’ art. 108 c.p.a., è
stata introdotta nel nostro ordinamento con una sentenza additiva
della Consulta (sent. 177/95), la quale ha giudicato illegittimi gli
artt. 28 e 36 della legge istitutiva dei Tar, nella parte in cui non
prevedevano questo particolare rimedio contro le sentenze del Tar
(passate in giudicato) e del Consiglio di Stato.
L’ opposizione di terzo è proponibile contro le sentenze del Tar e
contro quelle del Consiglio di Stato, ma competente a conoscerla
è, in ogni caso, il Consiglio di Stato; il rimedio può essere proposto
in ogni tempo (ma ove siano coinvolti interessi legittimi, il termine
decorre dal momento in cui il terzo ha avuto conoscenza della
283
sentenza lesiva del suo interesse).
Legittimati a proporre opposizione sono i controinteressati
pretermessi (cioè, i controinteressati ai quali non è stato
notificato il ricorso, di primo grado o d’ appello, e che pertanto
non furono posti nella condizione di potersi difendere), nonché i
soggetti che, pur non essendo stati controinteressati in senso
tecnico, sono comunque titolari di una posizione che può essere
pregiudicata dalla sentenza del Consiglio di Stato (cd.
controinteressati sopravvenuti).
Ovviamente, i presupposti per l’ accoglimento del ricorso variano
a seconda di chi sia l’ opponente: in particolare, qualora
opponente sia il controinteressato pretermesso è sufficiente che
egli dimostri che aveva diritto alla notifica del ricorso e che tale
notifica non è avvenuta, per ottenere l’ annullamento della
sentenza (del Consiglio di Stato o del Tar) ed il rinvio al primo
giudice (al Tar).
Qualora, invece, opponente sia il controinteressato sopravvenuto
è necessario che egli dimostri di aver ragione, allo scopo di
ottenere l’ annullamento della sentenza: non è sufficiente, cioè,
che egli provi che il ricorso non gli è stato notificato (il ricorrente,
infatti, non aveva alcun obbligo in tal senso), ma deve dimostrare
l’ inconsistenza dei motivi di ricorso ovvero l’ esistenza di una
pregiudiziale ostativa del giudizio di merito (ad es., l’ irricevibilità
del ricorso).
d) il ricorso per cassazione
L’ art. 111, co. 8 Cost. stabilisce che contro le sentenze del
Consiglio di Stato e della Corte dei Conti il ricorso per cassazione
è ammesso solo per i motivi inerenti alla giurisdizione: questa
limitazione è, ovviamente, connessa alla posizione costituzionale
dei due organi (posizione che sarebbe menomata qualora le loro
sentenze potessero essere annullate dalla Cassazione per
violazione di legge o per vizio della motivazione).
284
La disposizione costituzionale enunciata è stata, poi, ripresa dall’
art. 110 c.p.a., il quale, infatti, ammette il ricorso per cassazione
contro le sentenze del Consiglio di Stato per i soli motivi inerenti
alla giurisdizione. In particolare, sono motivi inerenti alla
giurisdizione:
• il difetto assoluto di giurisdizione (ossia, quando la questione è
demandata ad un altro potere dello Stato);
• il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo rispetto al
giudice ordinario, per essere la questione demandata alla
esclusiva cognizione di quest’ ultimo;
• il difetto di giurisdizione del Tar o del Consiglio di Stato rispetto
ad altri giudici amministrativi (ad es., la Corte dei Conti);
• il difetto di giurisdizione ove il giudice amministrativo abbia
esplicato un sindacato di merito su questione in cui esso aveva
competenza soltanto di legittimità;
• il difetto di giurisdizione per irregolare composizione del collegio
giudicante.
La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso, cassa la sentenza
impugnata senza disporre il rinvio nel caso in cui neghi la
sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo; cassa,
viceversa, la sentenza con rinvio qualora affermi la giurisdizione
che, invece, il giudice amministrativo aveva negato (in tal caso il
processo deve essere riassunto dinanzi al Consiglio di Stato).
285
Sezione V
I ricorsi amministrativi
§1. Il ricorso gerarchico ed il ricorso in opposizione
Alla tutela offerta dal giudice si è sempre accompagnata la tutela
offerta dalla stessa amministrazione; l’ apparente paradosso (di
un protezione assicurata dallo stesso soggetto contro il quale si
agisce) si giustifica in virtù del fatto che l’ autorità alla quale ci si
rivolge non è la stessa autorità che ha emesso l’ atto che si
intende attaccare, ma è l’ autorità gerarchicamente superiore.
Disciplinato in termini generali con D.P.R. 1199/71, il ricorso
gerarchico può essere proposto contro gli atti (non definitivi) delle
autorità che hanno un superiore gerarchico (ad es., il questore
subordinato al prefetto, il prefetto al Ministro dell’ Interno); il
ricorso, quindi, non è ammesso contro gli atti di chi è al vertice
della gerarchia ovvero contro gli atti di un organo collegiale.
Il termine per ricorrere è di 30 gg. ed i motivi che possono essere
fatti valere possono essere non solo di legittimità, ma anche di
286
merito (chi ricorre in via gerarchica, cioè, può denunciare non solo
l’ illegittimità dell’ atto, ma anche la sua inopportunità o la sua
iniquità ed ingiustizia).
È importante sottolineare, infine, che se l’ interessato ha proposto
ricorso in via gerarchica non può proporre simultaneamente
ricorso al Tar (il ricorso giurisdizionale è ammesso soltanto dopo
che siano decorsi 90 gg.: ossia, dal momento in cui, non essendo
intervenuta nessuna decisione, il ricorso si intende respinto a tutti
gli effetti). Più precisamente:
• se l’ amministrazione accoglie il ricorso gerarchico viene meno l’
esigenza di rivolgersi al giudice;
• se, invece, l’ amministrazione lo respinge o non lo decide (entro
90 gg.) l’ interessato potrà rivolgersi al Tar.
Il D.P.R. 1199/71, oltre al ricorso gerarchico, prevede e disciplina
anche il ricorso in opposizione, ossia il ricorso che può essere
proposto allo stesso organo che ha emesso l’ atto impugnato: si
tratta di un ricorso che è ammesso nei soli casi previsti dalla
legge e la cui efficacia, in termini di tutela del privato, è quasi
nulla (dal momento che l’ autorità ben difficilmente è disposta a
rimangiarsi quello che ha deciso solo perché il privato reclama).
§2. Il ricorso straordinario
L’ altro rimedio amministrativo a carattere generale è il ricorso
straordinario, non più al Re, ovviamente, ma al Presidente della
Repubblica.
In realtà, è bene precisare che la decisione spetta ad una sezione
del Consiglio di Stato ovvero alla commissione speciale dello
stesso, anche se la legge parla di parere: più precisamente, dal
punto di vista formale, la decisione è del Presidente della
Repubblica su proposta del ministro competente per materia; dal
punto di vista sostanziale, invece, sia la decisione che la proposta
si limitano a far proprio il parere del Consiglio di Stato (ciò lo si
desume, tra l’ altro, dalla formulazione dell’ art. 69 L. 69/09, il
287
quale, infatti, ha stabilito che la decisione deve essere adottata su
proposta del ministro competente, conforme al parere del
Consiglio di Stato).
Oggi, il ricorso straordinario (disciplinato dal D.P.R. 1199/71)
continua ad essere usato sia perché è molto più economico del
ricorso giurisdizionale (può essere, infatti, presentato senza la
necessità dell’ assistenza di un legale), sia perché il termine per
ricorrere è di 120 gg. dalla data di notificazione ovvero dalla piena
conoscenza dell’ atto da impugnare (esso, quindi, rappresenta
una sorta di ultima spiaggia per chi abbia lasciato trascorrere il
termine di 60 gg. per rivolgersi al Tar).
A differenza del ricorso gerarchico (che, come sappiamo, può
essere seguito dal ricorso giurisdizionale al Tar), il ricorso
straordinario è alternativo al ricorso al Tar: in altri termini, chi
ricorre al Tar non può proporre ricorso straordinario e chi propone
ricorso straordinario non può rivolgersi al Tar [questa preclusione
si giustifica in virtù del fatto che a rendere il parere sul ricorso
straordinario, e in sostanza a deciderlo, è il Consiglio di Stato in
sede consultiva (ossia, lo stesso organo che, in sede
giurisdizionale, potrebbe essere chiamato a giudicare, in secondo
grado, sul ricorso presentato al Tar e da quest’ ultimo deciso: con
la possibilità di due pronunce contraddittorie sullo stesso tema)].
In ogni caso, appare opportuno sottolineare che la scelta è
obbligata per chi ricorre, non per chi resiste al ricorso
(amministrazione o controinteressato); costoro, infatti, possono
chiedere, entro 60 gg. dalla notifica del ricorso straordinario, che
questo sia deciso in sede giurisdizionale. Ora, in seguito a tale
richiesta, il ricorrente è tenuto a costituirsi, entro i successivi 60
gg., davanti al Tar competente (art. 48 c.p.a.): si tratta della cd.
trasposizione del ricorso straordinario in sede giurisdizionale, che
costituisce una manifestazione attraverso la quale il nostro
ordinamento riconosce ed attribuisce preferenza al ricorso
giurisdizionale.
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Qualora la parte resistente al ricorso (amministrazione o
controinteressato) non si avvalga della facoltà di trasposizione del
ricorso straordinario in sede giurisdizionale, potrà tuttavia
impugnare la decisione davanti al Tar, ma solo per vizi di forma o
di procedimento: cioè, solo se il procedimento di decisione del
ricorso straordinario è stato irregolare (perché, ad es., è stata
omessa la notifica ad un controinteressato).
È opportuno precisare, poi, che il ricorso straordinario si distingue
dal ricorso giurisdizionale per due motivi:
• esso, infatti, può essere proposto soltanto contro atti definitivi
(ossia, contro atti sui quali non possano proporsi domande di
riparazione in via gerarchica);
• il ricorso straordinario, inoltre, può essere proposto sia a tutela
di interessi legittimi che di diritti soggettivi.
Il ricorso straordinario si differenzia, inoltre, dal ricorso gerarchico,
per via del fatto che attraverso di esso possono essere fatti valere
solo vizi di legittimità.
Una volta annullato l’ atto (attraverso il ricorso straordinario),
qualora l’ amministrazione non ottemperi alla decisione, l’
interessato può adire il Tar Lazio con l’ azione di ottemperanza
(art. 112 c.p.a.).
289