MANUALE DI DIRITTO AGRARIO

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1 MANUALE DI DIRITTO AGRARIO CAPITOLO I LE RAGIONI DELLO STUDIO DEL DIRITTO AGRARIO 1. POSIZIONE DEL PROBLEMA DELLO STUDIO DEL DIRITTO AGRARIO È difficile riconoscere principi generali propri del diritto agrario. I suoi istituti risultano un mix tra elementi pubblici ed elementi privati da analizzare in maniera unitaria. Possiamo definire in diritto agrario attraverso 2 strade : la prima, considera diritto agrario l’ attività che si svolge nel fondo rustico, le modalità di circolazione della proprietà o del suo godimento; la seconda identifica il diritto agrario nell’attività economica in agricoltura. Attualmente il diritto agrario è fortemente “comunitarizzato” grazie alla forte presenza normativa dell’ Unione Europea in materia di agricoltura. Diciamo quindi che il diritto agrario è un complesso di norme di diritto privato, di diritto pubblico, di diritto nazionale e di diritto comunitario, aventi ad oggetto l’ agricoltura. 2. I DATI DIFFERENZIATI DELLA DISCIPLINA GIURIDICA DELL’ ATTIVITA' ECONOMICA AGRICOLA RISPETTO A QUELLE DELLE ATTIVITA' ECONOMICHE EXTRAGRICOLE : IL FISCO, LA PREVIDENZA, IL LAVORO, IL CREDITO Analizziamo ora gli aspetti caratterizzanti ogni operatore economico e vediamo quali sono le differenze rilevanti che distinguono l’ operatore agricolo dal suo omologo commerciale. Analizziamo quattro caratteristiche molto importanti : a) ASPETTO FISCALE : non vi è differenza tra gli imprenditori agricoli-società (sia di persone sia di capitali) e le società commerciali. La differenza ha il suo fondamento nel fatto che il reddito agrario è facilmente calcolabile dato che è “determinato mediante l’applicazione di tariffe d’estimo (=determinazione del valore di beni immobili e della loro rendita) stabilite per ciascuna qualità e classe” di terreno e trova la sua originaria giustificazione nell’opportunità che venga preso in considerazione un reddito ipotetico e non il reddito effettivo al fine, da un lato, di “obbligare” il titolare del godimento della terra a sfruttarla onde almeno raggiungerne il conseguimento, dall’altro di riconoscere all’operatore economico agricolo un “vantaggio” derivante dalla “modestia” degli estimi catastali vigenti, anche per compensarlo del fatto che, per il sistema catastale di determinazione del reddito agrario, egli non può tenere conto delle perdite della gestione economica come, invece, può fare l’operatore commerciale. Un avvicinamento tra i due istituti è dovuto alla coltivazione industriale di vegetali disposta dalla legge, e riguardo all’imposta sul valore aggiunto (IVA), uguale per i due tipi di imprenditore, commerciale e agricolo, cui sono soggette tutte le cessioni di beni (e di servizi) delle imprese. b) POSIZIONE PREVIDENZIALE: inizialmente vi era una disciplina differente per i due tipi di imprenditori. Inizialmente la tutela previdenziale riguardava solo il lavoro subordinato, con riguardo al settore industriale e successivamente il settore agricolo. Oggi grazie all’art.35 Cost. l’imprenditore agricolo e imprenditore commerciale sono equiparati, la Costituzione infatti tutela il lavoro in tutte le sue forme, per cui le due figure sono equiparate per ciò che riguarda i criteri relativi alla previdenza sociale che ha come fine la tutela del lavoratore (e dei familiari a suo carico) dai rischi conseguenti alla menomazione o alla perdita della sua capacità lavorativa a causa di eventi predeterminati (naturali o connessi al lavoro prestato). c) LAVORO: vi è diversità fra la tipologia del lavoro agricolo e quella del lavoro non agricolo per ciò che riguarda le mansioni, gli orari di lavoro, il riposo domenicale e settimanale. È invece medesimo il sistema delle assunzioni, dei licenziamenti, della disoccupazione e del trattamento previdenziale;

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MANUALE DI DIRITTO AGRARIO CAPITOLO I LE RAGIONI DELLO STUDIO DEL DIRITTO AGRARIO 1. POSIZIONE DEL PROBLEMA DELLO STUDIO DEL DIRITTO AGRARIO È difficile riconoscere principi generali propri del diritto agrario. I suoi istituti risultano un mix tra elementi pubblici ed elementi privati da analizzare in maniera unitaria. Possiamo definire in diritto agrario attraverso 2 strade : la prima, considera diritto agrario l’ attività che si svolge nel fondo rustico, le modalità di circolazione della proprietà o del suo godimento; la seconda identifica il diritto agrario nell’attività economica in agricoltura. Attualmente il diritto agrario è fortemente “comunitarizzato” grazie alla forte presenza normativa dell’ Unione Europea in materia di agricoltura. Diciamo quindi che il diritto agrario è un complesso di norme di diritto privato, di diritto pubblico, di diritto nazionale e di diritto comunitario, aventi ad oggetto l’ agricoltura. 2. I DATI DIFFERENZIATI DELLA DISCIPLINA GIURIDICA DELL’ ATTIVITA' ECONOMICA AGRICOLA RISPETTO A QUELLE DELLE ATTIVITA' ECONOMICHE EXTRAGRICOLE : IL FISCO, LA PREVIDENZA, IL LAVORO, IL CREDITO Analizziamo ora gli aspetti caratterizzanti ogni operatore economico e vediamo quali sono le differenze rilevanti che distinguono l’ operatore agricolo dal suo omologo commerciale. Analizziamo quattro caratteristiche molto importanti :

a) ASPETTO FISCALE : non vi è differenza tra gli imprenditori agricoli-società (sia di persone sia di capitali) e le società commerciali. La differenza ha il suo fondamento nel fatto che il reddito agrario è facilmente calcolabile dato che è “determinato mediante l’applicazione di tariffe d’estimo (=determinazione del valore di beni immobili e della loro rendita) stabilite per ciascuna qualità e classe” di terreno e trova la sua originaria giustificazione nell’opportunità che venga preso in considerazione un reddito ipotetico e non il reddito effettivo al fine, da un lato, di “obbligare” il titolare del godimento della terra a sfruttarla onde almeno raggiungerne il conseguimento, dall’altro di riconoscere all’operatore economico agricolo un “vantaggio” derivante dalla “modestia” degli estimi catastali vigenti, anche per compensarlo del fatto che, per il sistema catastale di determinazione del reddito agrario, egli non può tenere conto delle perdite della gestione economica come, invece, può fare l’operatore commerciale. Un avvicinamento tra i due istituti è dovuto alla coltivazione industriale di vegetali disposta dalla legge, e riguardo all’imposta sul valore aggiunto (IVA), uguale per i due tipi di imprenditore, commerciale e agricolo, cui sono soggette tutte le cessioni di beni (e di servizi) delle imprese.

b) POSIZIONE PREVIDENZIALE: inizialmente vi era una disciplina differente per i due tipi di imprenditori. Inizialmente la tutela previdenziale riguardava solo il lavoro subordinato, con riguardo al settore industriale e successivamente il settore agricolo. Oggi grazie all’art.35 Cost. l’imprenditore agricolo e imprenditore commerciale sono equiparati, la Costituzione infatti tutela il lavoro in tutte le sue forme, per cui le due figure sono equiparate per ciò che riguarda i criteri relativi alla previdenza sociale che ha come fine la tutela del lavoratore (e dei familiari a suo carico) dai rischi conseguenti alla menomazione o alla perdita della sua capacità lavorativa a causa di eventi predeterminati (naturali o connessi al lavoro prestato).

c) LAVORO: vi è diversità fra la tipologia del lavoro agricolo e quella del lavoro non agricolo per ciò che riguarda le mansioni, gli orari di lavoro, il riposo domenicale e settimanale. È invece medesimo il sistema delle assunzioni, dei licenziamenti, della disoccupazione e del trattamento previdenziale;

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d) RICORSO AL CREDITO: va ricordato che un tempo il credito a favore degli agricoltori era oggetto di una specifica legislazione risalente al 1927 che si caratterizzava per la specialità dei soggetti erogatori, per la netta ripartizione delle operazioni di credito di miglioramento da quelle di credito di esercizio, per la tipicità del contratto di credito agrario quale mutuo con vincolo di scopo, per l’adattamento di strumenti negoziali, quali la cambiale e il conto corrente, alle particolarità socio-economiche degli operatori agricoli. Per il testo unico di leggi in materia bancaria e creditizia il ricorso al credito è il medesimo sia per gli agricoltori che per gli altri imprenditori. Sono le banche libere o meno di accettare le richieste di mutuo. Del vecchio ordinamento rimane il privilegio legale, cioè quell’istituto che ha rappresentato lo strumento di protezione degli enti erogatori.

3. IL REGISTRO DELLE IMPRESE, I LIBRI CONTABILI, IL FALLIMENTO, L’ ESERCIZIO COLLETTIVO DELL’ ATTIVITA' Non vi è differenza di disciplina tra i contratti dell’imprenditore agricolo e quelli dell’imprenditore commerciale, tranne che per le norme che tutelano i terzi che stipulano un contratto con l’imprenditore commerciale. L’imprenditore commerciale è infatti tenuto ad avere i libri contabili (art.2214 c.c.) ed è assoggettato al fallimento e altre procedure concorsuali (art.2221 c.c.), tutto questo a tutela dei terzi. L’art. 320.5 c.c. prevede che l’esercizio dell’impresa commerciale non può essere continuato da un minore senza l’ autorizzazione del Tribunale. Analoga norma manca invece per l’impresa agricola. Gli impiegati pubblici non possono svolgere attività commerciale mentre non è ad essi vietato l’esercizio dell’attività agricola. Va precisato tuttavia che anche l’imprenditore agricolo è tenuto a tenere la contabilità dei prodotti soggetti ad IVA se vuole avere accesso ai finanziamenti comunitari. Le imprese agricole, se vogliono godere delle agevolazioni fiscali, sono tenute a iscriversi presso il registro delle imprese, ciò anche se desiderano vendere i propri prodotti. L’iscrizione nel registro delle imprese inoltre contribuisce a creare un mercato trasparente, anche se l’iscrizione non ha efficacia costitutiva : si è imprenditori agricoli anche se non iscritti nel registro. 4. LA RESPONSABILITA' PER INQUINAMENTO E PER PRODOTTI DIFETTOSI Prima vi era una disciplina differente per gli imprenditori agricoli e per quelli commerciali. Oggi non è più così. Una differenza tra industria e agricoltura riguarda l’ inquinamento in quanto l’ agricoltore ha la necessità di non inquinare il suolo in quanto ciò andrebbe a svantaggio della sua produzione. Al contrario dell’imprenditore industriale, l’ agricoltore, può per legge, riutilizzare i propri rifiuti (ad esempio può riutilizzare gli effluenti dei propri allevamenti e i residui di origine vegetale e/o animale come concime), senza essere sottoposto alle regole riguardanti lo smaltimento dei rifiuti industriali e commerciali, ma con l’onere di fare una semplice comunicazione alle preposte autorità. Per ciò che riguarda la responsabilità per prodotti difettosi la disciplina è la medesima sia per l’imprenditore agricolo che per quello industriale, sono entrambi tenuti alla massima diligenza. 5. I FINANZIAMENTI, GLI AIUTI PUBBLICI ED IL MERCATO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE L’agricoltura è un settore assistito. L’ art.44 Cost. sancisce l’ obbligo per il legislatore di assistere la piccola e media proprietà terriera, ossia l’ impresa agricola, attraverso delle sovvenzioni pubbliche. Ovviamente sono state riconosciute delle sovvenzioni anche agli imprenditori commerciali. Sono stati stanziati dei finanziamenti anche dalla Comunità Europea per gli imprenditori, sia agricoli che commerciali, volti a proteggere le aziende sfavorite da condizioni strutturali o naturali. Abbiamo anche sia degli aiuti comunitari che degli aiuti nazionali (aiuti di Stato) che sono in grado di incidere sui prezzi.

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Tutte le imprese agricole ricevono dei sussidi, perché oltre a essere utili per le proprie produzioni, esse preservano il territorio dal degrado offrendo così un servizio all’intera collettività, parliamo a proposito di multifunzionalità dell’agricoltura. 6. LA CONCORRENZA CON GLI ALTRI AGRICOLTORI I vari imprenditori si incontrano e si scontrano nel mercato, per questo la Comunità Europea e i singoli ordinamenti nazionali hanno configurato un sistema di norme anticoncorrenziali che consentano a tutti gli operatori commerciali di accedere e di confrontarsi nel mercato evitando comportamenti sleali. La normativa comunitaria ai sensi dell’art. 101 e 102 del TFUE mira a evitare accordi e intese che eliminano e falsano la concorrenza (art.101) nonché lo sfruttamento abusivo delle posizioni dominanti (art.102). Queste disposizioni generali vanno adattate al settore specifico dell’agricoltura con norme speciali e specifiche. 7. PRIME CONCLUSIONI Da ciò che abbiamo detto possiamo ricavare tre conclusioni :

1) il diritto agrario disciplina non solo il fondo rustico o la titolarità degli animali, ma disciplina l’esercizio di tutte le attività economiche che prendono il nome di agricoltura;

2) le norme che regolano l’ impresa agricola sono diverse da quelle che regolano l’ impresa

commerciale;

3) lo statuto giuridico dell’imprenditore agricolo è ricco di vantaggi e privilegi se raffrontato con quello dell’ imprenditore commerciale.

8. LE RAGIONI DELLA DIFFERENZA DI DISCIPLINA Già nel diritto romano la disciplina relativa all’imprenditore agricolo e quella relativa all’imprenditore commerciale erano differenti. Le ragioni della differente disciplina risiedono nel fatto che prima di tutto la produzione agricola è diversa rispetto al commercio in senso lato, ossia un’intermediazione tra lavoratori e consumatori, mentre invece in agricoltura l’ agricoltore non compra ciò che poi venderà (come fa il commerciante, o l’ industriale che acquista e trasforma per poi rivendere). Altra differenza di disciplina può riguardare il fatto che la realtà economica agricola è caratterizzata da fattori ingovernabili da parte dell’ uomo come ad esempio i rischi ambientali o biologici, o la deperibilità dei prodotti, i rischi atmosferici, la lunghezza dei cicli produttivi dell’ agricoltura a differenza dell’ accelerazione della produzione propria dell’ impresa in grado di soddisfare a pieno la domanda. L’agricoltore deve sperare di produrre a sufficienza e al tempo stesso deve sperare di non avere una superproduzione rispetto alla domanda. CAPITOLO II LE FONTI DEL DIRITTO AGRARIO 1. L’AGRICOLTURA COME MATERIA DI COMPETENZA NORMATIVADELL’ UNIONE EUROPEA E DELLE REGIONI La competenza normativa della materia agricoltura, ai sensi dell’ art. 117 Cost., è della Comunità Europea e delle Regioni. Da questa competenza SEMBRA invece essere escluso lo Stato.

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2. LA COMPETENZA COMUNITARIA La Comunità Europea ha competenza esclusiva (assoluta) riguardo alla materia agricoltura e al commercio dei prodotti agricoli. È la Comunità a disciplinare questa materia, per cui le norme comunitarie sono direttamente applicabili, costituiscono le fonti primarie e sono autorizzate a derogare la legge nazionale. La costituzione di un mercato unico dei prodotti agricoli, con la suddivisione dei costi fra gli stati membri non poteva che essere gestito direttamente ed esclusivamente dalla Comunità Europea. La comunità cerca di armonizzare con un diritto unico le diverse legislazioni degli stati membri attraverso le direttive comunitarie. 3. LE COMPETENZE LEGISLATIVE DELLO STATO E DELLE REGIONI L’ art.117 Cost. definisce le materie in cui è competente lo Stato, quelle in cui è competente la Regione e quelle in cui Stato e regione hanno competenza concorrente. Le Regioni a statuto speciale hanno competenza esclusiva con riguardo alla materia agricoltura, mentre si deduce che per ciò che riguarda le Regioni a statuto ordinario vi sia competenza concorrente tra stato e regione, in quanto la materia agricoltura rientra in maniera trasversale nella tutela della salute, dell’ alimentazione, del governo del territorio e della valorizzazione dei beni ambientali, tutte materie di competenza concorrente. La Comunità Europea detta i principi fondamentali la cui attuazione ed esecuzione spetta alle Regioni. 4. LE LEGISLAZIONE AGRARIA DELLE REGIONI Prima della riforma costituzionale del 2001 per agricoltura si intendeva la coltivazione del fondo agricolo. In seguito alla riforma per agricoltura deve intendersi l’attività di cura dei vegetali e degli animali, produttiva di ricchezza e diretta alla produzione di beni (alimentari) e di servizi, ad opera di soggetti inseriti in un mercato regolato da norme anticoncorrenziali. Alcuni tratti della materia sono di competenza esclusiva delle Regioni (ad es. impianti abusivi di vigneti), altri sono di competenza esclusiva dello Stato (ad es. profilassi internazionale, ossia prevenzioni delle malattie). Vi sono poi tratti della materia in cui lo Stato ha potestà legislativa esclusiva ai fini di un trattamento unitario che va al di la dell’ ambito regionale. 5. LA “RESPONSABILITA'” INTERNAZIONALE DELLO STATO VERSO L’ UNIONE EUROPEA ED IL RISPETTO DELLO STATO VERSO L’ AUTONOMIA LEGISLATIVA DELLE REGIONI Lo Stato deve garantire l’attuazione della normativa europea. Le Regioni devono dare attuazione alle direttive comunitarie e qualora queste non provvedano è lo Stato a doversi attivare, altrimenti viene ritenuto responsabile dell’ inattuazione da parte delle Regioni. In casi del genere lo Stato può sostituirsi alle Regioni in caso di mancato rispetto della normativa comunitaria (art.120 Cost.). Per ciò che riguarda la normativa europea va precisato che, i regolamenti sono immediatamente obbligatori per tutti i cittadini comunitari, essi vanno applicati, non c’ è bisogno di un’attuazione nazionale, attuazione invece necessaria per le direttive. 6. LA MATERIA AGRICOLTURA NELLA NORMATIVA DELLA COMUNITA' Per la Comunità Europea il mercato comune comprende l’agricoltura e il commercio dei prodotti agricoli (prodotti del suolo, dell’ allevamento, della pesca,e i prodotti di prima trasformazione connessi a tali prodotti primari). L’ ordinamento comunitario si occupa dunque sia dei prodotti primari sia delle produzioni, prodotti individuati nell’allegato I del Trattato dell’UE. Per la Comunità Europea sono prodotti agricoli alcuni beni che per il diritto italiano sono invece prodotti industriali, come ad es. l’aceto e lo zucchero.

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Agricoltura per la Comunità Europea è il commercio dei beni elencati nell’allegato I, ossia beni prodotti allo stato naturale e beni che hanno subito una trasformazione. 7. IL POSSIBILE “CONFLITTO” TRA NORMA COMUNITARIA E NORMA INTERNA Abbiamo più fonti nel diritto agrario, vi sono fonti comunitarie e fonti di diritto interno. Questi due sistemi di fonti sono autonomi, ma devono essere compatibili fra loro. Quando una norma interna è incompatibile con una norma comunitaria, la norma interna va disapplicata. Unico limite all’applicazione delle norme comunitarie è quello del rispetto dei principi fondamentali dl nostro ordinamento e quindi della nostra Costituzione. 8. I PRINCIPI DEGLI art. 41 E 44 COST. Il tema agricoltura si ricollega agli art. 41 e 44 Cost. che riguardano lo sfruttamento razionale del suolo e la possibilità per il singolo di concorrere all’organizzazione economica del paese per produrre nuove utilità. Ai sensi dell’ art.41 Cost. l’ iniziativa economica privata è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’ utilità sociale, per cui la legge determina programmi e controlli opportuni perché l’ iniziativa privata sia indirizzata e coordinata ai fini sociali. Ai sensi dell’ art.44 Cost. invece la legge impone dei limiti ed impone dei vincoli volti a conseguire il razionale sfruttamento del suolo e a stabilire equi rapporti sociali. 9. LE MATERIE PROPRIETA' ED IMPRESA E LA RISERVA DI LEGGE, CON RIFERIMENTO ALLA NORMATIVA COMUNITARIA La Comunità Europea in tema di agricoltura si esprime tramite :

a) REGOLAMENTI che sono norme aventi efficacia immediata e diretta nei confronti di tutti i cittadini dell’ U.E.;

b) DIRETTIVE che sono norme che obbligano gli stati membri ad armonizzare la propria legislazione nazionale alle regole espresse dalla C.E..

Questi atti hanno valore di legge. 10. CENNI SUI PROVVEDIMENTI COMUNITARI E SUI LORO EFFETTTINEL DIRITTO INTERNO In caso di mancata attuazione o di mancato rispetto delle direttive o dei regolamenti comunitari, lo Stato inadempiente e i suoi cittadini potrebbero essere destinatari di conseguenze dannose. Lo Stato è generalmente tenuto al risarcimento del danno. I cittadini possono farsi valere nei confronti dello Stato che non abbia provveduto al rispetto delle direttive e dei regolamenti comunitari, chiedendo al proprio giudice nazionale l’ applicazione della norma comunitaria e il risarcimento del danno. 11. LEGGI DI ORIENTAMENTO AGRICOLO E CODICE AGRICOLO E DI LEGGE DI SEMPLIFICAZIONE DELLE NORMATIVE SULL’ATTIVITA’ AGRICOLA In forza della legge delega 5 marzo 2001 n.57, il Governo (Ministro dell’ agricoltura on. Pecoraroo Scanio) ha emanato tre decreti legislativi intitolati all'orientamento e modernizzazione dei settori della pesca ed acquacoltura, forestale ed agricolo. I tre decreti hanno riportato l’attenzione sui problemi attuali dell’ agricoltura italiana, che necessita di moderni strumenti normativi per porsi nel mercato europeo e mondiale in termini di efficienza e competitività. Con l’ entrata in vigore del nuovo art.117 Cost. (con il quale la materia agricoltura viene a far parte dell’ elenco “silenzioso” comprensivo di tutte le materie attribuite alla competenza residuale ed esclusiva delle Regioni) allo Stato è rimasto il compito di elaborare le linee direttrici di politica agricola. Nel programma legislativo del nostro paese vi è stato poi un altro impegno che si riferisce all’agricoltura : ossia la legge delega 7 marzo 2003 n.38, che riguarda la realizzazione di un codice agricolo mediante il

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riassetto delle disposizioni legislative vigenti riguardanti la pesca, l’ acquacoltura e le foreste, alla luce del nuovo art.117 Cost.. Questo compito fu affidato dal Ministero delle politiche agricole e forestali all’Istituto di Diritto Agrario Internazionale e Comparato di Firenze (IDAIC). Questo codice agricolo avrebbe avuto la forma e gli effetti di un testo legislativo, ma sostanzialmente sarebbe stato un “testo unico” delle norme agricole nazionali. Il codice è stato elaborato da 70 collaboratori dell’ IDAIC, e si compone di 11 libri preceduti da un libro di “disposizioni generali”, e seguiti da un libro di “disposizioni finali e delle abrogazioni”, per un totale di 960 articoli. 12. IL DIRITTO AGRARIO COME UN DIRITTO DEI MERCATI Alla luce di tutte queste informazioni possiamo definire il diritto agrario semplicemente come il diritto che riguarda l’ agricoltura. Possiamo dire che il diritto agrario è il complesso di norme che disciplinano l’ attività che in modo imprenditoriale (dunque in vista del mercato), è diretta alla creazione di beni che avendo nella natura il loro supporto ed il loro radicamento, si presentano come manifestazione della vita animale e vegetale. Il diritto agrario come diritto dell’impresa agricola nello spazio rurale è dunque il nostro oggetto di studio. CAPITOLO III L’ IMPRESA AGRICOLA 1. IL TITOLO II “DEL LAVORO NELL’ IMPRESA” DEL LIBRO V DEL C.C. Cosa è l’ impresa agricola ? La formula è composta da due termini, un nome, l’impresa, ed un aggettivo, agricola, che dobbiamo accertare il significato di entrambi. Il Titolo II del Codice Civile sotto il titolo “del lavoro nell’impresa”, è organizzato in tre distinti capi :

- “dell’ impresa in generale” (art.2082-2134) - “dell’ impresa agricola” (art.2135-2187) - “delle imprese commerciali e delle altre imprese soggette a registrazione” (art.2188-2221).

Ai sensi dell’ art.2082 c.c. è imprenditore chi esercita professionalmente un’ attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi. Gli art.2135 e 2195 c.c. invece elencano le attività che rispettivamente danno corpo all’impresa agricola e a quella commerciale, senza indicare come debbano essere esercitate queste specifiche attività. L’ art.2135 c.c. elenca quattro attività :

1) coltivazione del fondo 2) silvicoltura (o selvicoltura) 3) allevamento degli animali 4) attività connesse.

L’ articolo chiarisce in cosa consistano queste attività ma non come queste debbano svolgersi. L’ art.2195 c.c. ne elenca invece sei :

1) attività industriale

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2) attività del negoziante 3) attività di trasporto 4) attività bancaria 5) attività assicurativa 6) attività ausiliaria delle precedenti.

L’articolo non chiarisce ne in cosa consistano queste attività ne come debbano svolgersi. Si deve inoltre constatare che gli articoli seguenti all’art.2135 c.c. che riguardano l’ impresa agricola in generale sono ben pochi. Questa scarsità di disposizioni fa pensare ad una artificiosa simmetria tra impresa agricola ed impresa commerciale. 2. LA CATEGORIA UNITARIA DELL’ IMPRESA Appoggiamo l’ opinione maggioritaria secondo cui “impresa” significa “attività”. Lo stesso art. 2082 c.c. definendo la figura dell’imprenditore ci parla di “attività economica professionalmente esercitata” ed identifica quindi l’ impresa con tale attività. Possiamo a questo punto cogliere la differenza tra impresa ed azienda che il nostro legislatore sancisce all’art. 2555 c.c., definendo l’azienda come il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’ impresa. Analizzando l’ art. 2082 c.c. possiamo affermare che il soggetto è imprenditore :

a) quando esercita un’ attività economica organizzata; b) quando la esercita professionalmente; c) quando la esercita al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.

Dobbiamo innanzitutto analizzare il termine “organizzazione”. Solo le attività produttive organizzate sono imprenditoriali, e non importa che l’organizzazione abbia proporzioni rilevanti; è organizzazione del proprio lavoro tanto quella posta in essere da un ciabattino, tanto quella posta in essere da un broker. Il secondo termine da analizzare è “professionalità”. Per essere imprenditore non occorre nè un titolo di studio, ne l’iscrizione ad albi o a registri, anche se essi sono sempre più richiesti per l’ esercizio dell’ attività imprenditoriale, o quantomeno per l’ attribuzione di finanziamenti pubblici, o per essere ammessi a certe agevolazioni. La professionalità attiene all’attività: l’ attività è svolta in modo professionale quando non è occasionale, ne saltuaria, ossia quando è esercitata con continuità. Il terzo termine da analizzare è in realtà una proposizione, ossia l’ espressione “produzione o scambio” di beni o di servizi. Sia lo scambio che la produzione riguardano il mercato. Non vi è attività di impresa che non si concluda con l’ immissione nel mercato dei beni o dei servizi prodotti. Non vi è dunque attività imprenditoriale che non sbocchi in una serie indefinita di negozi giuridici con i consumatori ed utenti per uno scopo di lucro e di profitto; per questo motivo non è impresa l’ attività, che pur economica, sia un’ attività di autoconsumo. Dobbiamo ora fare un’ultima riflessione. Dobbiamo chiederci se lo scopo dell’impresa sia il lucro o invece la produzione. Non vi è dubbio che dall’immissione della produzione nel mercato ci si attende un ricavo, ovverosia che sia realizzato un fine, almeno astrattamente, lucrativo onde evitare decozione( o insolvenza) e fallimento. 3. IL DECRETO LEGISLATIVO DEL 18 MAGGIO 2001 N.228 E LE RAGIONI DELLA NUOVA FORMULAZIONE DELL’ ART. 2135 C.C. La dottrina prima si chiedeva se l’impresa agricola fosse un’ impresa in senso tecnico; si chiedeva se fosse agricola solo la coltivazione dei vegetali sul terreno e se fosse necessaria la cura dell’ intero ciclo

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biologico della pianta; aveva inoltre sollevato la questione dell’ equiparazione del termine “bestiame” a quello di “animali”. Ma la dottrina discuteva soprattutto sulla natura e sui limiti delle attività connesse alle attività agricole principali. Si può dire che si erano date a tutte queste domande delle risposte soddisfacenti, ma allora perché il legislatore nel 2001 è voluto intervenire con la riscrittura dell’ art. 2135 c.c.? In effetti erano rimaste delle zone d’ ombra e delle divergenze ermeneutiche che in alcuni casi avevano dato vita a liti e processi. Occorreva quindi una sorta di interpretazione autentica che consentisse l’ eliminazione, o almeno la riduzione del contenzioso agricolo per il futuro. In virtù della nuova formula dell’ art. 2135 c.c. si può sperare in un minor carico di lavoro per i giudici e in un’ interpretazione unitaria. 4. L’ IMPRESA AGRICOLA, COME DEFINITA DAL VECCHIO E DAL NUOVO ART. 2135 C.C., ERA ED E’ UN’ IMPRESA IN SENSO TECNICO Si può notare che la nuova formula dell’imprenditore agricolo di cui all’art. 2135 c.c. si ricollega alla definizione dell’ art. 2082 c.c. che ci dà atto di un soggetto che “esercita professionalmente un’ attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”. In altre parole l’ impresa agricola è un’ impresa in senso tecnico e l’ imprenditore agricolo non è, e non lo è mai stato, un semplice produttore. La conferma che l’operatore agricolo di cui ci parla l’ art. 2135 c.c. è un imprenditore, ovvero un soggetto che produce utilità per il mercato, è ormai acquisita. 5. LA VENDITA DEI PRODOTTI AGRICOLI E LE CONTRATTAZIONI DELL’ AGRICOLTORE NELLE BORSE MERCI Analizziamo ora l’ art. 4 del D.Lgs. 228/2001. Tale articolo consente agli imprenditori agricoli, singoli od associati, di vendere direttamente al dettaglio i propri prodotti “su aree pubbliche o in locali aperti al pubblico” dopo averne dato comunicazione al sindaco, senza per questo cadere nella disciplina del commercio, comunicazione tra l’ altro non necessaria qualora l’ agricoltore venda al dettaglio su superfici all’aperto nell’ambito della propria azienda o di altre aree private di cui abbia la disponibilità. Non si tratta di vendita all’ingrosso ma di vendita al minuto, si tratta di portare il prodotto direttamente al consumatore e già una legge del 1959 consentiva al produttore agricolo di vendere i propri prodotti senza licenza di commercio. Anche il D.Lgs. 31 marzo 1998 n.114, riformando e liberalizzando la disciplina relativa al settore del commercio, ne ha escluso l’ estensione ai produttori agricoli che vendono i propri prodotti, confermando così la “separatezza” dai commercianti. 6. LE ATTIVITA' AGRICOLE PRINCIPALI Leggendo congiuntamente l’ art. 2082 e l’ art. 2135 del codice civile si rileva che è imprenditore agricolo colui che esercita professionalmente e mediante un’ organizzazione “una delle seguenti attività : coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse”, al fine della produzione per il mercato. Sono imprenditori agricoli tanto modesti operatori economici del settore primario, quanto coloro che esercitano attività agricola con imponenti complessi aziendali. 7. SEGUE : LA CURA DI ESSERI VEGETALI La prima delle attività agricole elencate è la “coltivazione del fondo”. Che cosa vuol dire fondo? Per coltivazione del fondo non si deve intendere la coltivazione del “campo” ma la coltivazione delle “piante”. L’ agronomia, ovvero la scienza che studia il modo di conseguire dalla terra, sfruttandone le risorse naturali, la maggiore quantità e la migliore qualità dei prodotti vegetali necessari all’ esistenza degli uomini e degli animali allevati, non studia come viene coltivata la terra, studia invece come si coltivano le piante.

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Il nuovo art. 2135 c.c. recita che “per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono la attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso di carattere vegetale o animale”. Coltivazione del fondo vuol dire dunque coltivazione delle piante, vuol dire cura e attenzione al ciclo biologico dell’ essere vegetale, cura che può riguardare l’ intero ciclo biologico o parte di esso. Tra l’ altro la coltivazione dl fondo oltre che per la produzione di alimenti, può essere utile per produrre biogas ed energia elettrica. La necessità, per aversi impresa agricola, della cura del ciclo biologico di esseri vegetali ha come conseguenza il fatto che la semplice raccolta di frutti naturali, ancorché organizzata e destinata al mercato, non costituisce attività di impresa agricola e resta fuori dall’ art. 2135 c.c. insieme alla caccia, alla raccolta dei funghi, tartufi, bacche, more, mirtilli e lamponi. Costituisce attività agricola come abbiamo già detto anche una fase essenziale del ciclo biologico dell’ essere animale e vegetale. Ad esempio l’allevamento con mangimi sarà attività agricola se avrà una durata minima, cioè se si svolgerà lungo un periodo di tempo adeguato per lo svolgimento del ciclo biologico, sicché non sarà agricoltore il mercante di bestiame che lo nutre in attesa di rivenderlo; invece sarà agricoltore colui che si specializzerà nel produrre e vendere barbatelle e ne seguirà la crescita. Per “fase necessaria del ciclo biologico vegetale ed animale” va intesa quindi una tappa di apprezzabile durata. 8. SEGUE : LA CURA DEL BOSCO E LA FILIERA BOSCO-LEGNA-AGROENERGIA La seconda attività agricola elencata è la “selvicoltura”. La parola significa coltivazione della selva. Parliamo quindi del bosco che non dà solo legname ma “produce” ambiente, garantendo la saldezza del suolo, la purezza dell’ aria, la conformazione dl paesaggio. Queste funzioni del bosco sono state riconosciute in realtà a tutta l’ agricoltura in generale. Va detto poi che il legno (ossia il frutto della selvicoltura), ha un lungo ciclo biologico, sicché esso si ottiene dopo un periodo di tempo nel corso del quale il bosco soddisfa le altre sue funzioni. L’ attività di cura del bosco e le sue modalità sono prescritte dalle leggi forestali e costituiscono obblighi per il titolare del godimento di esso. I selvicoltori sono stati da sempre inseriti tra gli agricoltori essendo il legno un prodotto del fondo, e poi tra gli imprenditori agricoli. Con riguardo al bosco dobbiamo ricordare la legge Galasso che ha elevato a beni ambientali tutti i territori coperti da foreste e boschi, aree in cui non possono compiersi opere che alterino in modo permanente lo stato dei luoghi; il taglio colturale è consentito nel rispetto delle prescrizioni delle leggi forestali. Attualmente la produzione eccedentaria di vegetali destinati all’ alimentazioni degli uomini e degli animali, ha indotto la Comunità a sostenere la produzione delle c.d. biomasse, ovvero di organismi vegetali destinati a produrre biogas ed elettricità. Tra le biomasse sono specificatamente elencati la legna da ardere, i prodotti residui lignocellulosi puri e le colture forestali a ciò dedicate. Alla luce di queste informazioni possiamo dire che colui che si dedica professionalmente alla produzione di biomasse deve essere qualificato imprenditore agricolo in quanto produttore del fondo e/o del bosco. 9. LA RACCOLTA DEI FRUTTI SPONTANEI DEL SOTTOBOSCO E LA LORO NATURA GIURIDICA DI RES NULLIUS Abbiamo detto che per poter parlare di coltivazione delle piante come attività dell’ impresa agricola occorre la cura del ciclo biologico, e ciò distingue l’ agricoltura dell’ art. 2135 c.c. dalla semplice raccolta dei c.d. frutti spontanei, che tra l’ altro possono anche corrispondere a quelli coltivati. La raccolta di frutti spontanei destinata al mercato quando è organizzata da un imprenditore agricolo sul proprio terreno boscato, acquista il valore di attività connessa e come tale soggiace alla disciplina dell’ impresa agricola.

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Al contrario quando l’ organizzazione di tale attività viene posta in essere nei boschi altrui, da chi non è imprenditore agricolo, il quale provvede ad immettere sul mercato i prodotti del sottobosco, si è in presenza di un’ impresa commerciale. Sono definiti frutti spontanei tanto i vegetali cresciuti spontaneamente (funghi, tartufi), quanto i frutti prodotti dalle piante spontanee (fragole, mirtilli, lamponi, bacche, more), e la loro raccolta non è attività agricola perché manca la coltivazione. La questione essenziale attiene la possibilità di definire i c.d. frutti spontanei come “frutti” in senso giuridico ai sensi dell’ art. 820 c.c. Per tale disposizione del codice “sono frutti naturali quelli che provengono direttamente dalla cosa, vi concorra o no l’ opera dell’ uomo”; per il successivo art. 821 c.c. tali frutti naturali appartengono al proprietario della cosa che li produce, salvo che la loro proprietà sia attribuita ad altri, che l’acquistano con la separazione. Sono dunque frutti in senso giuridico i beni derivati da una cosa madre, ma distinti da questa, per ciò “nuovi” rispetto ad essa, e capaci di essere oggetto autonomo di diritti al momento della separazione. Il proprietario della cosa madre diventa proprietario dei frutti; mentre il concessionario del diritto (reale o personale) di godimento della cosa madre diventa, al momento della separazione, proprietario dei frutti a titolo originario e non ha titolo derivativo, dato che prima della separazione non esistono beni nuovi. I c.d. frutti spontanei (funghi, tartufi, fragole, mirtilli, lamponi, bacche…) non sono di proprietà del titolare di godimento (reale o personale) della terra in cui spontaneamente nascono; esse sono quindi res nullius e da chiunque occupabili, salvo che la chiusura del fondo (art. 841 c.c.) ne impedisca di fatto l’occupabilità. La legge-quadro 16 dicembre 1985 n.752 dichiara “libera” la raccolta dei tartufi nei boschi e nei terreni non coltivati, mentre la legge-quadro 23 agosto 1993 n.352 consente alle Regioni di autorizzare coloro che hanno diritto di “uso” del bosco di delimitare, con apposite tabelle, specifiche aree per affermarvi il diritto di esclusiva raccolta dei funghi. È proprio la tabellazione concessa dalle Regioni a coloro che hanno il diritto di godimento del fondo ciò che conferma, che solo in tal caso i coltivatori di questo abbiano diritto, in via esclusiva, ai funghi e ai tartufi delle loro terre. Le dette leggi prevedono la confisca dei tartufi e dei funghi che vengano raccolti in violazione delle disposizioni riguardo il loro peso e la loro misura, o sulle modalità di raccolta e di trasporto. Qualora il titolare del diritto di godimento del bosco chiedesse ed ottenesse la tabellazione e la conseguente riserva a sè della raccolta dei funghi ivi esistenti, ma lo facesse solo ed esclusivamente per impedire l’ accesso a terzi al suo terreno, si può dire che la sua condotta costituisce un atto illecito (atti di emulazione). 10. LA CURA DI ESSERI ANIMALI La terza attività agricola considerata è “l’allevamento di animali”. Quando è stato redatto il codice gli animali erano legati al fondo da un rapporto di necessità (lavoro) o da un rapporto di complementarietà (alimentazione e concimazione). I primi commentatori dell’art. 2135 c.c. enumeravano tra il “bestiame” solo i bovini, gli equini, i caprini e gli ovini, mentre l’allevamento degli altri animali, detti di bassa corte, non assurgeva di per se ad attività agricola principale ma era stimato come attività connessa qualora essi fossero stati alimentati con prodotti di risulta o di scarto dell’attività di coltivazione o con quanto naturalmente avessero potuto trovare sul terreno. Ma quando i buoi, i cavalli, i muli, le capre, sono stati sostituiti dai trattori, dai veicoli a motore, dai concimi, si è persa la distinzione tra allevamento degli animali grossi e allevamento di animali da bassa corte, dato che entrambi non servivano più al fondo e per entrambi gli alimenti potevano non provenire dal fondo. La “rottura” tra l’ allevamento e la coltivazione del fondo da un lato, e lo sviluppo delle moderne pratiche di allevamento, hanno imposto una riflessione sul significato della parola “bestiame” adoperata dall’ art. 2135 c.c., e ci si chiede se con essa si possa intendere il complesso delle bestie, ovvero “l’insieme degli animali allevati per l’ agricoltura e l’ alimentazione dell’uomo” che si distinguono in

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bestiame “grosso” (mucche, buoi, equini), “minuto” (capre, pecore) e “da cortile” (conigli, pollame e tutti i volatili domestici”). Tra l’altro l’ ordinamento giuridico italiano considera agricolo anche l’ allevamento di suini, conigli, polli, rane, mitili, crostacei, ostriche, molluschi, api, bachi da seta e persino cani, per cui si è giunti alla conclusione che il termine “bestiame” della vecchia formula dell’ art. 2135 c.c. non può essere inteso nel senso attribuito dai primi commentatori. Con il D.Lgs. 228/2001 che ha voluto riformulare l’ art. 2135 c.c. viene abbandonato il termine bestiame e viene invece adottato il termine “animali”. Una volta che l’ allevamento veniva scisso dalla coltivazione dl fondo e una volta che si era allargato l’oggetto dell’ allevamento al di la dei bovini, degli equini, dei caprini ed ovini, si poneva la necessità di individuare dei criteri che consentissero di circoscrivere l’ attività di allevamento e di delimitare gli animali-prodotti agricoli. Riguardo il termine “allevamento” la dottrina riconduce la parola all’ etimologia intendendo con questo termine il prendersi cura della crescita dell’ animale. In questo modo veniva esclusa, come attività necessaria, la riproduzione. “Allevamento” è dunque la cura del ciclo biologico dell’animale, quella che fa di un soggetto un imprenditore agricolo. L’allevamento degli animali è agricolo quando consiste nella cura e nello sviluppo del ciclo biologico dell’ animale o di una fase di tale ciclo. Ma per potersi parlare di allevamento dobbiamo intendere la cura di qualsivoglia animale? La dottrina si divideva; una parte sosteneva che tutti gli animali possono rientrare nella categoria dei prodotti agricoli, l’altra parte sosteneva che l’ elenco degli animali che potevano essere allevati da un imprenditore agricolo doveva essere circoscritto. Il D.Lgs. 228/2001 stabilisce che sono agricole le attività si dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico di carattere animale, ma che “utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco, o le acque dolce, salmastre o marine”. La formula dunque delimita l’ oggetto dell’ allevamento agricolo ai soli animali che vengono allevati sul fondo. Vengono quindi esclusi gli animali carnivori come gatti, visoni, cincillà e volpi, nonché scimmie, coccodrilli e pitoni. Diverso è il caso dei cani, per cui tramite legge l’allevatore di cani è stato assimilato all’ agricoltore quando possiede più di cinque fattrici ed almeno trenta cuccioli l’ anno, ed ottenga da tale attività un reddito prevalente sui redditi a lui imputabili da altre attività extragricole. Sono poi da includere nelle attività agricole la fauna selvatica allevata nelle aziende agro-turistiche-venatorie, nonché l’ allevamento delle api. Anche l’ acquacoltore (colui che alleva pesci, mitili, ostriche, molluschi e crostacei) è di pieno diritto un imprenditore agricolo. 11. LA CATTURA DEI PESCI Parliamo ora di un’ attività equiparata a quella agricola ossia l’ attività di pesca. La pesca e la caccia non sono mai state considerate dalla legislazione italiana come facenti parte dell’attività agricola. Quando però il Trattato di Roma all’ art. 32 ha compreso tra i prodotti agricoli, oltre a quelli del suolo e dell’allevamento, anche quelli della pesca, il sistema giuridico italiano si è trovato dinnanzi a due normative differenti, una nazionale e una comunitaria. Una tale situazione aveva creato del caos relativamente all’applicazione della normativa, per questo motivo il Parlamento diede delega al Governo perché disciplinasse l’ attività di pesca equiparandola all’ attività agricola, per evitare così la duplice normativa esistente. L’ art. 2 del D.Lgs. 18 maggio 2001 n. 226, tratta dell’ imprenditore ittico e lo equipara all’ imprenditore agricolo; si tratta di un’ equiparazione ai fini della disciplina giuridica. Il D.Lgs. 153/2004 invece disciplina l’ attività diretta alla cattura o alla raccolta di organismi acquatici in mare disponendo che l’ attività di pesca marittima deve ispirarsi al principio di sviluppo sostenibile e di pesca responsabile che impone di coniugare le attività economiche di settore con la tutela degli eco-sistemi, ed impone l’ obbligo di registrazione per i pescatori marittimi e per le imprese di pesca, nonché il controllo delle navi tramite licenza di pesca e la vigilanza sulla pesca. Sono stati elaborati dei programmi nazionali della pesca e dell’acquacoltura con l’ obiettivo di perseguire la tutela della biodiversità e della durabilità delle risorse ittiche, nonché la promozione della

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cooperazione e dell’associazionismo tra pescatori e l’ istituzione del c.d. Tavolo azzurro e di uno specifico Fondo di solidarietà nazionale della pesca e dell’ acquacoltura. 12. LE ATTIVITA' CONNESSE ED IL CRITERIO DELLA PREVALENZA Anche il nuovo art. 2135 c.c. elenca accanto alle tre attività che abbiamo menzionato (coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento degli animali) altre attività denominate “connesse”, ciò ci porta a compiere una distinzione tra queste tre attività considerate “essenzialmente agricole”, e tutte le altre ad esse connesse considerate appunto “attività agricole per connessione” , attività che comunque sono assoggettate alla stessa disciplina giuridica dell’ impresa agricola. Tra le attività connesse il legislatore comprende “la produzione e la cessione di energia elettrica da fonti rinnovabili agro-forestali”, ovvero la trasformazione delle colture vegetali e forestali dedicate all’ ottenimento delle biomasse da cui estrarre poi biogas, calore ed elettricità. La connessione si instaura non quando le biomasse ottenute vengono utilizzate dalla stessa impresa, ma quando si ha appunto una cessione, per cui le biomasse ottenute vengono immesse sul mercato, per cui l’ attività connessa è un’ attività di per se commerciale che però, per effetto della connessione è sottoposta alla disciplina dell’ agricoltura. Queste attività sono considerate dalla legge “produttive di reddito agrario”. Ma che cosa significa connessione? Il dizionario Devoto-Oli ci dice che per connessione si intende “legame di relazione e interdipendenza”, e che “connesso” significa “strettamente congiunto o collegato sul piano ideale; intimamente unito, interdipendente”. Dunque la connessione implica un legame di relazione e di interdipendenza e comunque uno stretto collegamento sia pure ideale. Lo stretto collegamento non è fra due attività poste sullo stesso piano ma fra attività che si distinguono per essere una la principale e l’ altra la secondaria; ciò avviene quando la secondaria è funzionalmente collegata alla principale, è ad essa complementare e servente, non ha un proprio fine ma tende a perseguire lo stesso fine perseguito dall’ imprenditore che svolge l’ attività principale. In altre parole l’ attività connessa deve “servire” allo sviluppo dell’ attività agricola principale integrandone il reddito. Della connessione tratta il terzo comma dell’ art. 2135 c.c. ed impone all’ interprete di mettere in evidenza i seguenti punti :

a) per connesse si intendono le attività esercitate dal medesimo imprenditore dirette a determinati e specificati fini;

b) queste attività devono essere dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione,

commercializzazione e valorizzazione dei prodotti;

c) i prodotti manipolati, conservati, trasformati, commercializzati e valorizzati devono essere ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’ allevamento di animali;

d) connesse sono poi le attività dirette alla fornitura di beni o di servizi mediante l’ utilizzazione

prevalente di attrezzature o di risorse dell’ azienda normalmente impiegate nell’ attività agricola esercitata e che tra tali attività di fornitura sono comprese le attività di valorizzazione dl territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definiti dalla legge.

Va quindi precisato che queste attività devono essere svolte dallo stesso soggetto che svolge l’ attività principale per essere considerate connesse giuridicamente (principio dell’ uni soggettività). Da dire poi ancora che oltre alle attività espressamente indicate dal terzo comma dell’ art. 2135 c.c. si reputano connesse, salva prova contraria (gravemente su chi intende contestare la connessione), le attività accessorie, collaterali, dipendenti, “serventi” delle attività principali di coltivazione dl fondo, della selvicoltura e dell’ allevamento di animali. Oggi possiamo considerare connesse le offerte di insaccati, porchetta e polli cotti, quali beni ottenuti dalla produzione di carni e della loro macellazione. Invece non può essere considerato tale il gelato

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ottenuto dallo yogurt perché frutto di una successiva trasformazione dello yogurt, questo si prodotto derivato dal latte e come tale prodotto agricolo. Al termine “trasformazione” si ricollega poi quello successivo di “valorizzazione” del prodotto, ossia l’attività con cui si provvede a dare al prodotto destinato al mercato, un valore in più, ad esempio l’aggiunta di vitamine o di specifiche sostanze nutritive nel corso delle operazioni di trasformazione del prodotto di base. La “valorizzazione” dà al prodotto una presentazione migliore, un prezzo più alto di vendita (si pensi al lavaggio e al confezionamento della frutta con appositi bollini riportanti il marchio dell’ impresa). Da tutto ciò che abbiamo detto si evince che non vi è nulla di nuovo rispetto a quello che la dottrina aveva ricavato dalla formula dell’ originario art. 2135 c.c.; la novità è data dal fatto che attualmente un soggetto non perde la sua qualità di imprenditore agricolo quando manipola, conserva, trasforma, commercializza e valorizza, assieme ai propri prodotti, prodotti altrui, che ha acquistato appunto, per manipolarli, conservarli, trasformarli e valorizzarli per poi commercializzarli con i (prevalenti) propri, e ciò “al fine di ottenere anche un mero aumento quantitativo della produzione e un più efficiente sfruttamento della struttura produttiva”. Successivi decreti legislativi annoverano tra le attività agricole connesse anche quelle “dirette alla manipolazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione, ancorché non svolte sul terreno, di prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dell’ allevamento di animali”. Tra le attività connesse peraltro, non sono elencate solo quelle che hanno per oggetto prodotti agricoli, tanto allo stato naturale, quanto quelli trasformati, perché il nuovo art. 2135 c.c. elenca anche “attività dirette alla fornitura di beni o servizi”, “le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale” e “le attività di ricezione ed ospitalità”. Da ricordare che l’imprenditore per essere considerato tale deve svolgere un’attività proiettata sul mercato. 13. SEGUE : LE ATTIVITA' “TURISTICHE” Come abbiamo appena detto l’ art. 2135 c.c. elenca tra le attività connesse la “fornitura di beni o servizi”. Parliamo a proposito dell’offerta di alimenti e di bevande “ricavati da materie prime dell’ azienda agricola” e in particolare si può parlare in merito dell’ attività propria dell’ agriturismo. L’attività di ristorazione si compone del servizio della selezione, cottura e somministrazione degli alimenti agli ospiti e non della sola vendita di prodotti agricoli. Per “attività agrituristiche” vanno intese le attività di ricezione ed ospitalità, di somministrazione di pasti e bevande e di svolgimento di attività ricreative e culturali da svolgersi “nell’ ambito dell’ azienda”, altre attività ricreative, culturali, didattiche, escursionistiche, di pratica sportiva e ippoturismo “ancorché svolte all’ esterno dei beni fondiari nella disponibilità dell’ impresa” ovvero fuori dai confini dell’ azienda che molto spesso si rivela ristretta per pratiche come l’ escursionismo. Sono le Regioni a disciplinare l’attività di servizio di alloggio e di prima colazione nella propria abitazione (il c.d. bed and breakfast), anche da parte di soggetti diversi dagli imprenditori agricoli, chiarendo che se il servizio viene reso da questi, rientra fra le attività agrituristiche. Per potersi parlare di attività agrituristica sono necessari gli elementi dell’uni-soggettività e dell’uni-aziendalità (attraverso l’ utilizzo da parte degli imprenditori agricoli della propria azienda). Il reddito proveniente dalle attività agrituristiche è considerato reddito agrario. I locali utilizzati ad uso agrituristico sono assimilabili ad ogni effetto alle abitazioni rurali. Gli alimenti e le bevande che i turisti consumano possono provenire da “lavorazioni esterne” anche a carattere industriali, compiute da altri e fuori dall’ azienda (come previsto dall’ art. 2135 c.c. che considera agricoli non solo i prodotti ottenuti dall’ imprenditore agricolo attraverso i suoi campi, ma anche quelli dei campi altrui che siano stati acquistati, manipolati e trasformati da lui purché questi prodotti non siano prevalenti). Sono le Regioni a disciplinare l’ attività dell’ agriturismo e a predisporre programmi di sviluppo rurale miranti a sostenere il reddito degli imprenditori agricoli attraverso aiuti a colore che operano in zone svantaggiate.

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Prima abbiamo parlato dell’imprenditore ittico, e abbiamo detto che questo viene equiparato all’ imprenditore agricolo, sia con riguardo all’ attività di pesca e di raccolta di organismi acquatici, sia riguardo alle attività connesse (attività di prima lavorazione dei prodotti del mare, loro conservazione, trasformazione, distribuzione e commercializzazione). Parliamo ora di altre due attività connesse alla pesca, ossia del “pesca-turismo” e dell’ “ittioturismo”. Per pesca-turismo si intende l’ andare in barca on i pescatori e mangiare il pesce appena pescato, mentre con il termine ittioturismo si intende il passare le vacanze nelle case dei pescatori, partecipando alla loro vita e al loro mondo socio-culturale. Generalmente queste prestazioni non possono essere offerte da imprenditori individuali. Queste attività devono essere autorizzate dall’ autorità marittima, sono considerate “attività assimilate” alle attività agrituristiche, e la loro disciplina è la medesima delle attività connesse alle attività agricole. 14. SEGUE : LE ALTRE PRESTAZIONI DI SERVIZI Sotto la vigenza del vecchio art.2135c.c. la dottrina aveva enucleato con la legge sull’ agriturismo, delle ipotesi di servizi che l’ agricoltore può prestare ad una massa indefinita di consumatori (ad esempio offrire dietro pagamento le pratiche di semina e di raccolta, o mettere a disposizione il proprio autocarro per il trasporto dei prodotti agricoli del proprio vicino). L’art.2135 c.c. ci dice che sono connesse le attività poste in essere dal medesimo imprenditore agricolo e dirette alla fornitura di servizi “mediante l’ utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’ azienda normalmente impiegate nell’ attività agricola esercitata”. Per ciò le attrezzature impiegate non solo devono essere “prevalenti” sul complesso di macchine e attrezzi utilizzati nell’attività, ma soprattutto devono essere quelle che “normalmente vengono impiegate nell’ attività agricola dall’ imprenditore”. Altre attività connesse possono essere quelle ottenute “dalla valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale”. Rientrano fra queste le offerte di musei o di farm shops, quando siano dirette ad illustrare ad esempio la storia degli attrezzi agricoli o delle varie forme di agricoltura. Quando parliamo di “valorizzazione del territorio” bisogna comprendere che l’ agricoltura in genere e la selvicoltura in particolare non producono solo beni materiali, ma producono anche beni e ambiente, producono cioè risorse naturali. I benefici ambientali che provengono dall’agricoltura dipendono ovviamente anche dalle modalità di gestione dei fondi rustici, per questo motivo la Comunità Europea ha promosso una serie di “misure agro-ambientali” volte appunto a regolare queste attività. 15. L’ORGANIZZAZIONE COMUNE DEI MERCATI AGRICOLI : LA POLITICA COMUNITARIA DEI PREZZI Il prezzo dei prodotti agricoli (quantità di moneta data in cambio della merce), non è determinato dalla perfetta relazione dell’ offerta e della domanda. Le imprese agricole non sono in grado di influire sui prezzi. Per questo motivo il Trattato di Roma si occupa dell’ organizzazione comune del mercato dei prodotti agricoli e della disciplina sui prezzi. Il prezzo indicativo è quello che gli organi comunitari fissano annualmente quale prezzo d’obiettivo del mercato, tenendo presente la zona più deficitaria della Comunità. Sulla base di tale prezzo viene fissato il prezzo di entrata, ovverosia quel prezzo che garantisce la protezione del mercato comune dai più bassi prezzi del mercato mondiale, attraverso la determinazione di dazi mobili o prelievi all’importazione che determinano l’ aumento del prezzo d’ ingresso del prodotto extracomunitario nell’ area della Comunità. Sulla base del prezzo indicativo poi viene fissato il prezzo di intervento, ovvero quel prezzo pagato dagli organismi statali di intervento per i prodotti agricoli che gli agricoltori ad essi conferiscono quando il prezzo di mercato scende al di sotto di quello d’ intervento.

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Al fine poi di indurre i produttori comunitari ad immettere sul mercato mondiale i proprio prodotti la Comunità può concedere restituzioni all’esportazione calcolate sulla differenza fra i costi comunitari e i minori prezzi mondiali. CAPITOLO IV GLI IMPRENDITORI AGRICOLI 1. PREMESSA Bisogna precisare che ci sono dei provvedimenti comunitari relativi all’ organizzazione comune dei mercati e al sostegno delle strutture agricole. In questo capitolo parleremo dell’ imprenditore agricolo professionale, del coltivatore diretto, della famiglia coltivatrice, di società e di enti (pubblici e privati) quali agricoltori; parleremo poi della politica comunitaria riguardo le strutture agricole. L’imprenditore può essere sia una persona fisica che una persona giuridica, sia un individuo che una collettività, sia un soggetto privato che un ente pubblico, sia un modesto operatore economico che un’ imponente organizzazione. Saremo in presenza di un imprenditore agricolo quando detto soggetto esercita l’ attività di coltivazione del fondo o quella di selvicoltura o quella di allevamento di animali, con lo scopo di immettere la produzione sul mercato. 2. L’ IMPRENDITORE AGRICOLO PROFESSIONALE Abbandonato nel 1972, dalla comunità Europea il programma Agricoltura ’80 di Sicco Mansholt, la direttiva 72/159 del 17 aprile 1972 introdusse la figura dell’ imprenditore agricolo a titolo principale (i.a.t.p.). Questo soggetto, destinatario delle sovvenzioni comunitarie, si caratterizzava per il fatto che possedendo una sufficiente capacità professionale (titolo di studio e/o esperienza di attività agricola), elaborando un piano di sviluppo ed impegnandosi a tenere la contabilità, esercitava l’ attività agricola per almeno il 50% del suo tempo di lavoro realizzando da essa almeno il 50% del suo reddito. Da subito la figura dell’ i.a.t.p. ha iniziato a subire degli aggiustamenti : prima si è cambiato il parametro dello sviluppo (richiedendosi un miglioramento non in senso quantitativo ma in senso qualitativo), poi estendendo gli aiuti umanitari agli agricoltori part-time, ed infine considerando destinatari degli aiuti comunitari “gli imprenditori agricoli” tout court. In sostanza la figura dell’ i.a.t.p. è sparita nel diritto comunitario. Ciò che il diritto comunitario richiede all’agricoltore non è più una particolare quantità di lavoro o una particolare quantità di reddito agricolo, ma è una dedizione all’azienda agricola tale da renderla capace di produrre utili, nonostante i costi occorrenti per rispettare i requisiti minimi di ambiente, igiene e benessere degli animali. Bisogna poi ricordare che gli imprenditori agricoli destinatari di sovvenzioni comunitarie non sono solo persone fisiche, ma anche società, sia di persone che di capitali. Dunque per il diritto comunitario l’ efficienza è misurata sulla capacità di stare sul mercato (la redditività appunto). L’Italia ha elevato a 2/3 la misura minima tanto del lavoro da dedicare all’ agricoltura quanto del reddito dall’ agricoltura ricavato (restringendo così la platea dei destinatari degli aiuti comunitari). Il legislatore italiano pretende quindi che l’ agricoltore per essere IAP dedichi alle attività agricole almeno il 50% del suo tempo di lavoro complessivo e ricavi da esse almeno il 50% del proprio reddito globale di lavoro, oppure un lavoro e un reddito pari al 25% qualora operi in zone svantaggiate.

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3. IL PICCOLO IMPRENDITORE AGRICOLO : IL COLTIVATORE DIRETTO La figura del coltivatore diretto è tipica del diritto italiano e risale alla legge 15 luglio 1906 n.383 sull’ agricoltura meridionale. Il codice civile, dopo la definizione generale di imprenditore (art.2082), nel dettare quella di piccolo imprenditore vi include “i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’ attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia” e ciò al fine di escludere i piccoli operatori economici dalle complessità proprie dell’ imprenditore tout court. Quando è stato redatto il codice civile, coltivatore diretto poteva essere tanto il proprietario del fondo, quanto l’ affittuario di esso, e si caratterizzava per il modo personale con cui svolgeva l’ attività, (l’ imprenditore era il lavoratore, partecipava alla fatica dei suoi eventuali dipendenti, svolgeva quindi mansioni esecutive non limitandosi alla sola attività di direzione ed organizzazione). Abbiamo detto di una divaricazione della figura del coltivatore diretto nei due sottotipi dell’ affittuario e del proprietario. Oggi sono coltivatori diretti tutti “coloro che coltivano il fondo con il lavoro proprio e della propria famiglia, sempre che tale forza lavorativa costituisca almeno 1/3 di quella occorrente per le normali necessità di coltivazione dl fondo” tenuto conto anche delle macchine e dell’ uguaglianza del lavoro della donna rispetto a quello dell’ uomo. L’appartenenza del piccolo imprenditore alla stessa categoria dei suoi dipendenti fa si che il suo lavoro sia direttivo ed esecutivo insieme : direttivo perché così deve essere e non può non essere il lavoro dell’ imprenditore, esecutivo perché solo così il piccolo imprenditore si differenzia da colui che non è coltivatore diretto o commerciante ambulante o artigiano. Inizialmente quando si parlava di coltivatore diretto si faceva riferimento al suo lavoro “con le braccia”, poi è stato preso in considerazione anche l’ uso delle macchine. Ai fini dell’iscrizione presso l’ INPS è coltivatore diretto chi si dedica “con abitualità alla diretta e manuale coltivazione del fondo o all’ allevamento e al governo del bestiame” : sicché si può dire che sotto questo profilo si può sostenere che esista ancora una differenza tra coltivatore diretto e IAP, perché mentre il primo dovrebbe svolgere attività manuale (oltre che di direzione dell’ impresa), l’ attività manuale non è richiesta al secondo che può limitarsi a svolgere la direzione dell’ impresa agricola. 4. L’ EQUIPARATO AL COLTIVATORE DIRETTO Analizziamo ora la figura dell’equiparato al coltivatore diretto. Dell’equiparato vi sono due sottofigure :

a) il laureato e il diplomato in materie agraristiche; b) la cooperativa ed i gruppi di coltivatori diretti.

L’equiparazione fra queste figure e il coltivatore diretto altro non è che l’ espressione del principio di trasparenza. Diversa è però la figura dell’equiparato quando si tratta di un infra-cinquantacinquenne laureato in agraria o in veterinaria o di un diplomato di “qualsiasi scuola” di indirizzo agrario o forestale, perché rispetto a questo soggetto, si pongono le questioni del significato del suo impegno ad esercitare in proprio la coltivazione dei fondi per almeno nove anni” e della quantità di tale suo impegno. La formula per il quale l’ equiparato deve impegnarsi ad esercitare in proprio la coltivazione non può essere intesa come attività manuale o esecutiva, perché altrimenti non si avrebbe “equiparazione” ma assoluta identità con la figura del coltivatore diretto “puro”. Il lavoro che il laureato o diplomato deve prestare nell’ azienda è quel lavoro che il suo specifico titolo di studio gli consente di apportare alla sua impresa : cioè non l’ attività direttiva ed organizzativa che ogni imprenditore deve svolgere, ma il lavoro tecnico-professionale per il quale il corso di studi lo ha abilitato. Ad esempio il veterinario equiparato al coltivatore diretto svolgerà attività di veterinario al posto o in aggiunta di dipendenti veterinari.

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Per ciò che riguarda invece la “quantità” dell’ impegno, come al coltivatore diretto è richiesto almeno 1/3 del lavoro esecutivo occorrente per il fondo, all’equiparato è richiesto 1/3 del lavoro esecutivo (manuale, tecnico e professionale) necessario per l’ esercizio dell’ impresa. 5. GLI EQUIPARATI ALL’ IMPRENDITORE AGRICOLO Abbiamo già detto che per estendere i vantaggi riservati agli imprenditori agricoli, il legislatore ne ha dichiarato l’ equiparazione. Si tratta degli imprenditori ittici, ovvero coloro che svolgono un’ attività professionale ed organizzata, volta alla cattura o alla raccolta di organismi acquatici in ambienti marini, salmastri e dolci, mentre i veri imprenditori agricoli sono coloro che “allevano” i pesci, che cioè attraverso l’ attività di acquacoltura ne curano il ciclo biologico. Si tratta ancora delle cooperative di imprenditori agricoli, considerate agricole quando utilizzano per la coltivazione del fondo la selvicoltura e l’ allevamento di animali, prevalentemente prodotti dai soci. E si tratta infine delle cooperative che forniscono servizi nel settore selvi-colturale, ivi comprese le sistemazioni idraulico-forestali. L’ art. 15 della legge 23 dicembre 2000 n.388, ha ampliato il novero dei servizi che i coltivatori diretti possono svolgere nelle zone di montagna, qualificando agricoli pure i lavori di aratura, semina, potatura, falciatura, mieti-trebbiatura, trattamenti antiparassitari, raccolta di prodotti agricoli e taglio del bosco, purché di importo non superiore per ogni anno, a cinquanta milioni delle vecchie lire, ossia € 25.822,84. Per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro sono qualificati agricoli “tutti i lavori inerenti alla coltivazione dei fondi, alla silvicoltura, all’ allevamento del bestiame ed attività connesse”. 6. GLI AGRICOLTORI “GIOVANI” Il legislatore ha poi predisposto delle norme di aiuto e dei benefici a favore dei giovani agricoltori, cioè dei soggetti che avendo meno di quaranta anni ma competenza ed esperienza professionale, si dedicano all’ agricoltura come titolari o contitolari di aziende agricole nelle zone montane e svantaggiate, o come successori dei precedenti titolari che hanno aderito al regime di aiuti al prepensionamento. Si vuole in questo modo favorire il primo insediamento dei giovani agricoltori, con una sostituzione generazionale e un conseguente svecchiamento del settore, attraverso una serie di vantaggi fiscali e finanziari e delle attribuzioni di priorità. Sono state inoltre predisposte delle misure straordinarie per la promozione e lo sviluppo dell’imprenditoria giovanile nel Mezzogiorno. 7. L’ IMPRESA FAMILIARE COLTIVATRICE Abbiamo detto che il lavoro esecutivo può essere svolto dall’ imprenditore e dai suoi familiari. Ora appunto analizziamo la famiglia come comunità non di affetti ma di lavoro. In agricoltura è ricorrente la figura della famiglia contadina, che oggi si identifica con l’ art.230 bis c.c. con il nome di “impresa familiare”. L’impresa familiare non nasce da un contratto ma dal fatto di esercitare in comune un’ attività economica, si limita ai coniugi, ai parenti fino al terzo grado ed agli affini fino al secondo. La gestione dell’impresa è perfettamente democratica, tutti i familiari partecipano alle decisioni più importanti, e le decisioni vengono prese secondo il principio maggioritario. Tutti i familiari, al di là di chi ha agito, sono responsabili per le obbligazioni assunte. Ogni familiare partecipa alle decisioni di straordinaria amministrazione. Ogni familiare gode di legittimazione processuale attiva e passiva. Oltre all’attività di direzione, organizzazione e gestione i componenti dell’ impresa familiare devono occuparsi anche del lavoro esecutivo. Il gruppo viene considerato coltivatore diretto perché tutti i suoi componenti sono coltivatori diretti, perciò tutti i familiari nessuno escluso oltre che con-dirigere devono svolgere attività esecutiva.

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8. LA SOCIETA'; IN PARTICOLARE LE COOPERATIVE DI LAVORO, DI CONSUMO E DI SERVIZI Imprenditori agricoli non sono solo soggetti individuali ma anche soggetti collettivi. L’ impresa collettiva nasce non di fatto (come l’ impresa familiare), ma attraverso il contratto di società. Per l’ esercizio dell’ agricoltura di gruppo le forme societarie sono : a) la società semplice (art. 2251-2290 c.c.) b) la società di persone nelle sue due sottospecie di società in nome collettivo (art. 2291-2312 c.c.) e di

società in accomandita semplice (art. 2313-2324 c.c.) c) la società di capitali nella sua quadruplice articolazione di società per azioni (art. 2325-2451 c.c.),

società in accomandita per azioni (art. 2452-2461 c.c.), di società a responsabilità limitata (art. 2462-2483 c.c.) e si società uni personale a responsabilità limitata (art. 2475 c.c.)

d) e la società cooperativa (art. 2511-2545 octiesdecies c.c.). La società semplice è la forma giuridica dettata per l’ esercizio in comune delle attività non commerciali (art. 22492 c.c.), ed è la forma tipica della società cui possono ricorrere gli agricoltori. La qualifica “agricola” consente alla società di acquisire la qualifica di IAP o di coltivatore diretto e con esse le agevolazioni finanziarie e creditizie spettanti alle persone fisiche in possesso della qualifica di coltivatore diretto. Una società per essere considerata agricola se ha quale oggetto sociale “l’ esercizio delle attività” che l’ art. 2135 c.c. elenca. Ci sono dei requisiti che la società agricola deve possedere per ottenere la qualifica di IAP o di coltivatore diretto : le società agricole sono IAP se uno dei soci è IAP, quelle di capitali se uno degli amministratori è IAP. Per le società cooperative (art. 2511 c.c.) invece i soci cooperatori ricavano vantaggi proporzionalmente alla loro partecipazione all’attività sociale, e non proporzionalmente al capitale versato. Ogni socio ha diritto al voto; la cooperativa si costituisce tra soggetti appartenenti alla stessa professione o mestiere. 9. SOGGETTI COLLETTIVI, ENTI PRIVATI E PUBBLICI COME IMPRENDITORI AGRICOLI Le Associazioni e le Università agrarie dell’ Italia centromeridionale, le Comunanze, le Partecipanze, le Comunioni familiari montane, le Consorterie, e tutti gli altri enti titolari di pascoli, prati e campi arabili, per il fatto di essere proprietari di fondi rustici, hanno l’ obbligo di sfruttarli (anche) nell’ interesse generale, hanno quindi l’ obbligo di farsi imprenditori agricoli. Tali enti godono dell’esenzione dall’ imposta sul reddito delle società (IRES) a causa del fatto che svolgono nell’ esercizio della loro attività economica produttiva di reddito, anche una funzione di tutela ambientale. Imprenditori agricoli possono essere anche gli enti pubblici. Vi sono : a) enti pubblici imprenditori commerciali, i c.d. “enti pubblici economici” che svolgono attività

commerciale in via esclusiva o principale e come tali sono soggetti alla registrazione ma non al fallimento;

b) enti pubblici che hanno (anche) delle “imprese” svolgendo attività economica in via non esclusiva e quindi secondaria, i quali non sono soggetti ne alla registrazione ne al fallimento.

È poi possibile che l’ente pubblico che svolge un’ attività economica in modo non principale, eserciti un’ attività imprenditoriale agricola, e quindi che sia anche un imprenditore agricolo.

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10. IL SISTEMA INFORMATIVO AGRICOLO NAZIONALE E LA CARTA DELL’ AGRICOLTORE Il legislatore ha predisposto un sistema informativo nazionale a cui ricorrere per conoscere i vari dati attinenti alla struttura, superficie, colture delle aziende agricole italiane, nonché quelli relativi alle sovvenzioni ed agli aiuti goduti dagli agricoltori. Con la L.4 giugno 1984, n.194 è stato istituito il Servizio informativo agricolo nazionale (SIAN), a cui è stata attribuita la funzione di semplificazione amministrativa dei rapporti tra P.A. e singoli imprenditori agricoli, al fine di fornire agli utenti servizi efficaci e di assicurare l’ interscambio di dati rilevanti fra operatori pubblici e privati del settore. L’accesso al SIAN avviene attraverso la c.d. Carta dell’ agricoltore, ossia una carta d’ identità elettronica in cui sono concentrate le informazioni minime idonee a garantire il riconoscimento del titolare e il collegamento con il sistema SIAN. Il titolare della Carta ha poi un fascicolo aziendale che riporta le informazioni anagrafiche dell’impresa agricola. L’accesso al SIAN non è concesso al singolo agricoltore ma ai Centri autorizzati di assistenza agricola (CAA). 11. LA POLITICA COMUNITARIA DELLE STRUTTURE SINGOLE La locuzione “struttura agricola” è preferita dal diritto comunitario rispetto a quella di impresa. La parola struttura dà l’idea di un sistema, di un qualcosa di più ristretto dell’ impresa. Ci dà l’immagine : a) di un insieme; b) delle parti di tale insieme; c) dei rapporti di queste parti fra loro. Per il diritto comunitario dunque va preso in considerazione il complesso degli elementi economici e giuridici in presenza dei quali, il soggetto che noi chiamiamo imprenditore, svolge la sua attività. La politica comunitaria in particolare si occupa dei fattori di produzione, ossia dei beni agricoli, dei modi di circolazione di essi, del rapporto fra produzione e commercializzazione, e in fine del rapporto fra produzione e organizzazione e attività pubblica, che la tutela, la sorregge, la sovvenziona. Molto importante in merito è il Programma “Agricoltura 80” di Sicco Mansholt del 1986, fondato sulla conservazione delle imprese familiari contadine e diretto a migliorare e modernizzare le aziende agricole, per renderle competitive sul mercato mondiale. Per lo sviluppo del mercato comune era necessario sostenere il reddito degli agricoltori attraverso : a) una politica di garanzia del prezzo; b) una politica di orientamento dei sistemi produttivi. Dopo questi primi intenti della Comunità negli anni 90 ne abbiamo degli altri innovativi volti ad aumentare la competitività dell’ agricoltura, garantire la sicurezza dei prodotti agricoli a tutela dei consumatori, assicurare una stabilità dei redditi agricoli. È poi senz’altro da mettere in evidenza l’ aspetto della multifunzionalità dell’ agricoltura, infatti l’ agricoltore coltivando la terra nel rispetto delle leggi della natura, “conserva” l’ ambiente, “produce” ambiente. La Comunità mira al rispetto e alla garanzia di questa multifunzionalità, per cui il mancato adempimento di determinati obblighi ambientali porta alla riduzione o alla revoca dei sostegni finanziari europei.

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La Comunità ha poi istituito dei sistemi di “audit aziendale” (gli audit sono delle attività atte a misurare la conformità di determinati sistemi, processi, prodotti a determinate caratteristiche richieste e a verificarne l'applicazione) volti alla gestione e al controllo delle aziende.

CAPITOLO V LA TERRA, IL BOSCO ED IL BESTIAME: BENI CENTRIPETI DELL’ORGANIZZAZIONE AZIENDALE AGRARIA 1. L’ ESERCIZIO DELL’ ATTIVITA' ECONOMICA A MEZZO DI UN COMPLESSO ORGANIZZATO DI BENI : I BENI DELL’ AZIENDA AGRARIA L’ imprenditore per esercitare l’ impresa, ha bisogno di un’ organizzazione : l’ organizzazione di beni di cui si serve è detta azienda (art. 2555 c.c.). L’azienda è “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’ esercizio dell’ impresa” tanto commerciale che agricola. Lo sviluppo rurale deve articolarsi lungo 4 assi :

1) il miglioramento della competitività del settore agricolo e forestale; 2) il miglioramento dell’ ambiente e dello spazio rurale; 3) il miglioramento della qualità della vita nelle zone rurali e della diversificazione dell’ economia

rurale; 4) il miglioramento dello sviluppo locale svolto dai gruppi di azione locale o GAL.

In generale si cerca di modernizzare le aziende agricole, valorizzare economicamente le foreste, promuovere lo sviluppo di nuovi prodotti, nonché aumentare il valore aggiunto dei prodotti agricoli. I beni che l’imprenditore organizza sono strutturalmente coordinati in funzione all’ esercizio dell’ attività; tali beni sono sia materiali (mobili e immobili), che immateriali; tra i beni possiamo ricomprendere i contratti, i crediti e i debiti. Sono beni dell’ azienda agraria la terra, il bosco, il bestiame, gli attrezzi, le macchine, i contratti necessari all’ imprenditore nell’ organizzazione della sua attività di coltivazione del fondo, di silvicoltura e di allevamento. L’utilizzazione di un bene all’ interno dell’ impresa gli attribuisce la qualità di “bene economico”. 2. IL FONDO RUSTICO Il passaggio di un terreno da porzione di crosta terrestre a fondo rustico dipende dalla manifestazione di volontà con cui il titolare del diritto di proprietà di quel terreno lo destina, attraverso un comportamento concludente, all’esercizio dell’ agricoltura. Abbiamo già detto che per il combinato disposto degli art. 41 e 44 Cost. l’ iniziativa economica che ha per oggetto un fondo rustico è doverosa. L’ordinamento stabilisce quindi vincoli e obblighi al proprietario terriero in vista del razionale sfruttamento del suolo. Quando attraverso strumenti urbanistici, vengono individuate le aree urbane e quelle agricole, la P.A. svolge un ruolo fondamentale nella creazione dell’ impresa in agricoltura. Quando la P.A. definisce la destinazione agricola della terra tuttavia non impone al suo proprietario la coltivazione da impiantarvi, e non impedisce neppure al proprietario di utilizzare come agricolo, fino a quando gli aggraderà, un terreno destinato all’ edificazione. Sul fondo rustico possono insistere case padronali, case coloniche ed edifici aziendali che costituiscono miglioramenti del fondo rustico.

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3. IL SUOLO, I SUOI CONFINI E LA SUA ESTENSIONE Elemento costitutivo del fondo rustico è il suolo, ossia lo strato più superficiale della crosta terrestre e che rende possibili attraverso tutte le sue componenti organiche l’ esercizio dell’ agricoltura, per questo motivo il suolo è considerato una risorsa naturale rinnovabile da tutelare sia contro fatti naturali che contro comportamenti umani. Per ciò che riguarda i confini del fondo rustico il proprietario può esercitare il godimento nel sottosuolo e nel soprasuolo entro i limiti previsti dalla legge evitando danni ai vicini. I confini verticali si pongono laddove termina naturalmente la possibilità di godimento, mentre i confini orizzontali sono segnati da fossi, siepi, alberi e strade, nonché da segni lapidei che il proprietario può chiedere che siano giudizialmente apposti. L’individuazione dei confini orizzontali consente al proprietario del terreno di chiuderlo vietando così l’accesso anche ai cacciatori, ma soprattutto permette di determinare la superficie del fondo rustico, creando così latifondi e minifondi. Con il termine latifondo si intende un terreno molto vasto, parzialmente incolto appartenente ad un unico proprietario. Con il termine minifondo si individuano una frammentazione del fondo rustico in tante porzioni distanti appartenenti allo stesso titolare, oppure la polverizzazione del fondo ossia un “fazzoletto di terra”. Entrambi i fenomeni sono manifestazione di diseconomie e distruzione di ricchezza sicché sollecitano l’intervento dell’ ordinamento. L’ art. 44 Cost. segna la lotta al latifondo attraverso l’ esproprio dei terreni che hanno più di una certa estensione e previo pagamento di un’ indennità pari al valore del terreno. Per la lotta al minifondo invece è vietato il frazionamento dei fondi rustici al di sotto della superficie necessaria e sufficiente per il lavoro di una famiglia agricola. Vi sono svariate disposizioni che vietano i frazionamenti inter vivos e mortis causa, infatti molto spesso la frammentazione e la polverizzazione dei fondi rustici dipendono dalle regole di uguaglianza tra eredi e di divisione dei beni. In casi del genere vi sono delle operazioni di ricomposizione fondiaria finalizzate al riassetto delle proprietà frammentate attraverso l’ accorpamento delle particelle disperse appartenenti allo stesso proprietario. 4. SEGUE : IL COMPENDIO UNICO Come abbiamo detto il fondo rustico deve avere una determinata estensione economicamente conveniente, deve costituire un’ “unità produttiva sufficiente”. Il legislatore indica con l’espressione “compendio unico” l’ estensione della superficie minima indivisibile. La costituzione del compendio unico implica la coltivazione del fondo per 10 anni, la sua indivisibilità per 15 anni, imponendo quale sanzione della violazione di tale indivisibilità il pagamento di un imposta. Successivamente con l’ art. 117 Cost. il legislatore ha rimesso la definizione del compendio unico alle singole Regioni, anche se la sua disciplina spetta allo Stato. L’impossibilità di frazionare il compendio unico nella successione ereditaria implica la violazione di regole relative all’ uguaglianza tra coeredi, per questo motivo la legge prevede che in casi del genere gli eredi esclusi hanno diritto ad un conguaglio. Il compendio unico ha per oggetto i terreni rustici e non l’ azienda agricola. Il compendio unico è costituito con dichiarazione del proprietario dei terreni che per sua volontà, vengono a far parte del compendio, il quale è unico e indivisibile per 10 anni. A raggiungere detto livello minimo possono concorrere terreni già di proprietà di colui che vuole costituire il compendio unico nel momento in cui acquista nuovi terreni agricoli. Il compendio unico dei terreni montani è indivisibile per 10 anni e sono nulli gli atti sia inter vivos che mortis causa che ne dispongano il frazionamento, inoltre il suo costitutore è obbligato a coltivarlo per almeno 10 anni, sanzionando eventuali violazioni con la revoca dei vantaggi fiscali concessi al momento della costituzione.

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Abbiamo già detto che il compendio è un istituto volto a conservare l’ integrità fondiaria e solo mediatamente a tutelare l’ integrità dell’ azienda. A quest’ ultimo fine concorrono invece altre due fattispecie :

a) la ricomposizione aziendale a mezzo del contratto di affitto ; b) la ricomposizione aziendale attraverso la stipula di contratti di società cooperativa tra

imprenditori agricoli che conferiscono in godimento della società i rispettivi terreni. Anche in queste ipotesi le imposte dovute sono ridotte di 2/3. 5. GLI ALTRI ELEMENTI DEL FONDO RUSTICO : LE ACQUE, LE ADDIZIONI, I MIGLIORAMENTI, I IURA FUNDI Tra gli elementi del fondo rustico erano annoverate le acque, sia superficiali che sotterranee, purché non fossero utilizzate per usi di pubblico interesse generale ovverosia non fossero pubbliche. In seguito la L.5 gennaio 1994 n.36 ha dichiarato pubbliche tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal suolo. Per questo motivo per apprendere l’acqua dalle falde acquifere tramite pozzi era necessario denunciarne l’ esistenza e la quantità dell’ acqua prelevata. Inoltre va precisato che nella scala gerarchica della priorità dell’ uso dell’ acqua è collocata dopo il consumo umano. Fanno poi parte del fondo rustico anche le addizioni e i miglioramenti. Le addizioni sono opere che mantengono la loro individualità rispetto al terreno (ad es. una casa colonica o un impianto di irrigazione), mentre i miglioramenti sono investimenti di capitale che inscindibilmente si incorporano nel terreno (ad es. la bonificazione dei terreni paludosi). Sia i miglioramenti che le addizioni possono essere apportati al fondo dal proprietario, dall’ enfiteuta e dal possessore, mentre tale potere non è riconosciuto all’ usufruttuario. I miglioramenti non devono essere confusi con le spese di conservazione (ad es. riparazione del tetto della casa colonica o degli edifici aziendali). Tra gli elementi del fondo rustico abbiamo poi i c.d. iura fundi ovvero quei diritti che si collegano strettamente alla natura rustica del terreno o alla sua posizione topografica rispetto ai fondi vicini (in pratica sono delle servitù ad es. di passaggio o di acquedotto). Si qualificano quindi come utilità funzionali all’ aumento della produttività del fondo agricolo. 6. IL BOSCO Abbiamo già parlato della selvicoltura. Ora parleremo del suo oggetto cioè del bosco, bene fondamentale dell’azienda selvicola. Per bosco o foresta si intende un’ associazione di alberi formatasi naturalmente o per opera dell’ uomo. Giuridicamente è molto rilevante la distinzione tra bosco ceduo e bosco d’ alto fusto. Il bosco oltre ad altre funzioni ha anche la funzione di garantire l’ equilibrio ecologico e la saldezza del suolo. Per questi motivi il bosco è sottoposto al vincolo idrogeologico, vincolo che si traduce con l’ obbligo di rispettare la destinazione d’ uso del terreno vincolato e quindi nei divieti di romperlo con lavorazioni periodiche o di trasformarlo in diversa coltura o in altro uso, nonché l’ obbligo di utilizzarlo secondo le prescrizioni di massima e di polizia forestale, e con il divieto di taglio a raso e della conversione dei boschi ad alto fusto a boschi cedui. Per questi motivi ogni intervento sulle aree boschive richiede l’ autorizzazione dell’ autorità forestale. Il bosco è un bene ambientale in se e per se, vi sono numerose norme che concedono aiuto all’imboschimento, mirano al miglioramento, alla trasformazione e alla commercializzazione dei prodotti legnosi. La L.31 gennaio 1994 n.97 favorisce la costituzione di consorzi forestali tra i diversi proprietari di boschi.

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7. LE TERRE MONTANE E “SVANTAGGIATE” La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane volte a promuovere l’ attività agricola necessaria per il mantenimento di un livello minimo di popolazione o per la conservazione dell’ ambiente naturale nelle zone svantaggiate, tra le quali rientrano le zone montane, evitando così un veloce degrado del territorio. Sono diverse le disposizioni, sia nazionali che comunitarie, dettate a favore degli imprenditori agricoli che operano in montagna o nelle zone svantaggiate. Sono considerati montani i comuni situati per almeno l’ 80% della loro superficie al di sopra di 600 metri di altitudine sul livello del mare. Sono definite zone di montagna quelle caratterizzate da una notevole limitazione delle possibilità di utilizzazione delle terre e da un notevole aumento del costo del lavoro dovuti all’ altitudine o all’ esistenza di forti pendii che rendono impossibile la meccanizzazione o richiedono l’ impiego di materiale speciale assai oneroso. Alle zone di montagna sono assimilate le zone svantaggiate, cioè le aree caratterizzate da scarsa densità demografica o tendenza alla regressione, da una popolazione dipendente in modo preponderante dall’attività agricola, nonché dall’ esistenza di terre poco produttive con risultati inferiori alla media europea. 8. LE TERRE D’ USO CIVICO E LE PROPRIETA' COLLETTIVE Per la Legge Galasso sono poi beni ambientali anche le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici. Si tratta di diritti goduti in comune da una collettività senza divisione per quote, ma occorre fare una distinzione tra :

a) usi civici in senso stretto : ovvero il diritto di ritrarre alcuna utilità da una terra altrui : pascolo, legna, funghi, caccia, pesca, acqua, sassi, semina;

b) terre civiche : ovvero terre dalle quali si ha il diritto di ritrarre tutte le utilità che esse possono dare alla collettività che è costituita da tutti i cittadini della circoscrizione in cui essa risiede (terre civiche aperte);

c) terre collettive : quando le terre civiche sono si della collettività, ma di una collettività costituita da soli discendenti e vecchi originari (terre civiche chiuse).

9. IL MASO CHIUSO Campo e bosco sono presenti nel maso chiuso, un’ unità fondiaria indivisibile propria dell’ Alto Adige, caratterizzata da un fondo dotato di casa colonica e di annessi rustici, costituito da terreni coltivati, prati, boschi e pascoli e capace di dare lavoro e mantenimento ad almeno quattro e a non più di dodici persone. Il maso chiuso è l’ esempio paradigmatico di unità aziendale, la cui ottimale organizzazione di capitale e di lavoro non deve subire attentati ne inter vivos ne mortis causa. 10. IL BESTIAME Nell’ azienda agraria di allevamento il bene centrale è dato dal bestiame. Mandrie, greggi, branchi (costituenti universalità di beni mobili), rappresentano quel bene al quale gli altri beni aziendali si rapportano e dal quale questi sono condizionati.

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CAPITOLO VI I MODI DI APPRENSIONE DEI BENI FONDAMENTALI DELL’ ORGANIZZAZIONE AZIENDALE AGRARIA 1. POSIZIONE DEL PROBLEMA I modi generali per i quali un bene diviene pertinente ad un soggetto ed il diritto di godimento su di esso entra a far parte del patrimonio di lui, sono quello dell’ acquisto a titolo originario, della successione mortis causa e del contratto, quest’ ultimo scindendosi, in ordine agli effetti, in contratti ad effetti reali ed in contratti ad effetti obbligatori. 2. L’ USUCAPIONE SPECIALE DEI FONDI RUSTICI Disciplinata dagli art.1158-1167 c.c. l’ usucapione è un modo di acquisto di diritti a titolo originario in virtù del possesso protratto per un certo tempo, il quale produce l’ acquisto della proprietà o degli altri diritti reali di godimento a seconda del differente animus del possessore. Se un soggetto con l’ animus rem sibi habendi possiede per vent’anni un bene immobile o un’ universalità di beni mobili ne diviene il proprietario (art.1158 c.c.). Ma qualora oltre il possesso vi sia anche a) buona fede, b) un titolo valido e idoneo a trasferire il diritto, c) la trascrizione del titolo, l’ usucapione si consegue con la durata di dieci anni (art.1159 c.c.). Qualora invece si tratti di fondi rustici con annessi fabbricati in comuni classificati montani, l’ usucapione ordinaria e quella abbreviata si conseguono con la protrazione del possesso rispettivamente per quindici e cinque anni (art.1159 bis c.c.). 3. IL CONTRATTO DI COMPRAVENDITA DELLA TERRA E DEL BOSCO E GLI INCENTIVI PER LA FORMAZIONE DELLA PROPRIETA' CONTADINA Il modo più usuale di divenire proprietari di beni è quello della loro compravendita. Ciò vale anche con riguardo al fondo rustico. Non si rinvengono sostanziali diversità di trattamento dalla compravendita di fondo rustico rispetto allo schema generale del contratto di cui all’ art.1470 c.c. La natura del bene rileva invece sotto un profili fiscale : l’ imposta di registro dell’ atto di acquisto di terreni agricoli che è pari al 15%, scendeva all’ 8% se l’ acquirente era un imprenditore agricolo, mentre è dovuta in misura fissa se l’ acquirente è coltivatore diretto e se il fondo acquistato è idoneo alla formazione o all’ arrotondamento della piccola proprietà contadina. L’imprenditore agricolo professionale è equiparato al coltivatore per le agevolazioni tributarie in materia di imposizione indiretta. Tali agevolazioni si perdono se l’ acquirente rivende il fondo prima che siano trascorsi cinque anni dall’ acquisto. La L.26 maggio 1995 n.590, autorizza lo Stato, le province, i comuni, gli enti di colonizzazione, i consorzi di bonifica, a vendere i fondi rustici facenti parte dei loro patrimoni o acquistati, lottizzati e trasformati per tale scopo, a coltivatori diretti e a cooperative di coltivatori diretti con agevolazioni fiscali, con concessione di mutui o di fideiussioni e con il concorso dello Stato nel pagamento degli interessi. Vi sono poi delle norme che assoggettano a vincolo di indivisibilità per 15 anni i fondi rustici acquistati con le agevolazioni creditizie concesse dallo Stato per la formazione e l’ampliamento della proprietà coltivatrice, perciò sono nulli i negozi compiuti in violazione di tale divieto. 4. L’ ASSEGNAZIONE DELLE TERRE NEI COMPRENSORI DI BONIFICA E NELLE ZONE DI RIFORMA La funzione specifica dell’ Opera nazionale combattenti era quella di destinare i terreni pervenuti nel suo patrimonio, ma in generale quelli facenti parte di comprensori di bonifica, alla formazione della proprietà contadina attraverso contratti di compravendita.

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I fondi rustici così acquistati sono sottoposti ad un vincolo di indivisibilità sia inter vivos che mortis causa. Il “contratto di assegnazione” era un contratto di compravendita con pagamento rateale del prezzo, ma aveva una particolarità, perché era condizionato da un periodo triennale di prova il cui esito negativo determinava la risoluzione del contratto. La prova era da considerarsi negativa quando il soggetto dimostrava la sua incapacità nella gestione dell’impresa. All’assegnatario divenuto proprietario era vietato per un periodo di 30 anni alienare il fondo ad altri che non fossero lo stesso Ente di riforma o coltivatori diretti e ciò al prezzo ritenuto congruo dall’ Ispettorato provinciale dell’ agricoltura, e gli era vietato frazionarlo per lo stesso periodo di tempo. Alla luce di tutte queste informazioni possiamo quindi dire che i poteri dell’ acquirente sono ridotti da divieti temporanei di alienabilità e di divisibilità. 5. LA PRELAZIONE AGRARIA Si diviene proprietari di fondi rustici anche in virtù del diritto di prelazione, cioè del diritto di essere preferito, a parità di condizioni, quando il proprietario del terreno decide di alienarlo e ha già concluso con un terzo un preliminare di vendita. Deve trattarsi di un fondo rustico, quindi di un terreno destinato, dagli strumenti urbanistici, all’agricoltura, sicché sono estranei alla fattispecie i terreni che nei piani regolatori risultano essere destinati ad un uso diverso da quello agricolo. La prelazione è riconosciuta solo al coltivatore diretto, più precisamente :

a) a colui che da almeno due anni sia affittuario coltivatore diretto, mezzadro, colono, compartecipante;

b) al proprietario vicino che da almeno due anni sia coltivatore diretto singolo o associato in cooperativa;

c) alle società di persone qualora almeno la metà dei soci sia in possesso della qualifica di coltivatore diretto.

Il diritto di prelazione non spetta a quel coltivatore diretto che nel biennio precedente abbia venduto terreni agricoli per un imponibile fondiario superiore a € 0,52, salvo il caso di cessione a scopo di ricomposizione fondiaria, e si ritiene che non spetti a chi sia solo silvicoltore o solo allevatore. Il legislatore in caso di più proprietari confinanti, titolari del diritto di prelazione, stabilisce dei criteri preferenziali, richiede prima di tutto che si tratti di coltivatori diretti. Il diritto di prelazione diventa attuale con la formazione del contratto preliminare. 6. L’ ENFITEUSI, L’ USUFRUTTO, LE COLONIE MIGLIORATARIE ED IL COMPASCOLO Se la prelazione attribuisce al coltivatore un diritto di acquistare il fondo ma non ancora il diritto reale su di esso, l’ enfiteusi (art. 957 c.c.) e l’ usufrutto (art. 958 c.c.), concedono al loro titolare un diritto reale (più o meno ampio) sul bene in proprietà di altri. È quindi possibile costituire l’ azienda agricola anche acquisendo la terre in usufrutto od in enfiteusi, senza quindi ricorrere al contratto di compravendita. Obbligo fondamentale dell’ enfiteuta è quello di migliorare il fondo (oltre che di pagare un canone). Obblighi fondamentali dell’ usufruttuario sono quelli di rispettare la forma e la sostanza del bene, ovverosia la sua destinazione economica. Tanto l’ enfiteuta quanto l’ usufruttuario , trattandosi di fondo rustico, sono tenuti ad esercitare l’ attività agricola, in quanto solo la gestione produttiva del fondo agricolo dà luogo alle utilità che spettano all’ usufruttuario in quanto tale. L’ enfiteusi può essere perpetua o comunque superiore ai vent’ anni (art. 958 c.c.), mentre l’ usufrutto non può eccedere la vita dell’ usufruttuario (art. 979 c.c.).

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L’ enfiteuta ha il potere di acquistare la proprietà del fondo mediante il pagamento di una somma di denaro pari a quindici volte l’ ammontare del canone cui egli è tenuto, ricorrendo al giudice onde ottenere l’ ordinanza di affrancazione. Le colonie miglioratarie o colonie ad meliorandum erano un tempo istituti consuetudinari del basso Lazio. Si caratterizzavano per la lunga durata (perpetua o oltre un trentennio) e per la circostanza della concessione in cambio di un modesto canone parziario, di un terreno nudo che a cura del colono doveva essere sistemato con colture arboree od arbustive (ad es. noccioleti o vigneti). Le leggi 25 febbraio 1963 n. 327 e 22 luglio 1966 n. 607 hanno secondo alcuni convertito le colonie miglioratarie in enfiteusi. Il compascolo è un diritto reale regolato dalla consuetudine ed è un istituto tipico di alcune regioni alpine. Qui i proprietari di piccoli fondi hanno il diritto di far pascolare ciascuno i propri animali sul terreno dei vicini. Il compascolo o pascolo reciproco nasce dal tacito consenso dei proprietari dei fondi e cade sulla seconda erba per l’ utile scambievole di tutti. 7. IL CONTRATTO DI COMPRVENDITA DEL BESTIAME Colui che intende esercitare l’ impresa agricola di allevamento deve in primis acquistare il bestiame. Degli animali, bene fondamentale dell’ azienda zootecnica, si diventa titolari innanzitutto attraverso il contratto di compravendita che si articola sul modello civilistico dell’ art.1470 c.c. Nell’ acquisto che ha per oggetto gli animali assume particolare rilievo la garanzia per i vizi e quindi la “mancanza di qualità” del bestiame compravenduto, soprattutto con riguardo al breve termine di decadenza (8 giorni) e a quello di prescrizione (un anno) fissati dall’ art.1495 c.c. Le disposizioni in esame si applicano non tanto in caso di vizi quanto nell’ ipotesi di consegna di un bene che per le sue qualità non è idoneo all’ uso al quale è destinato. 8. LA SUCCESSIONE NELLA PROPRIETA' DEL FONDO RUSTICO E LE REGOLE ANOMALE DI SUCCESSIONE Altro modo di acquisire la terra è la successione ereditaria. Della disciplina generale occorre mettere in evidenza, per ciò che riguarda la successione dei figli, le tre regole fondamentali, ossia :

1) l’ uguaglianza delle quote (art.566 c.c.) 2) il diritto di chiedere in ogni momento la divisione (art.713 c.c.) 3) il diritto di pretendere la divisione in natura (art.718 c.c.).

In virtù di queste regole, generalmente in occasione di ogni eredità la divisione del fondo si riduce fino ad assumere la dimensione di un fazzoletto di terra (fenomeno della polverizzazione, riguardare i rimedi contro la divisione). Ad esempio nel nostro ordinamento è stato introdotto l’ istituto del compendio unico, il quale non può essere frazionato per effetto di trasferimenti mortis causa essendo prevista la nullità delle disposizioni testamentarie contrarie al divieto. È raro che gli eredi al momento della divisione si accordino circa il fatto che il fondo rustico faccia parte tutto intero di una sola quota, dovendo così colui a cui spetta l’ intero lotto pagare ai coeredi il conguaglio (art.728 c.c.), ovverosia sborsare denaro per compensarli della quota-parte cui hanno diritto in virtù del principio di uguaglianza delle quote. In caso di controversie fra eredi, essi potranno rivolgersi ad un arbitro, ed inoltre qualora nessuno dei coeredi voglia addossarsi il debito del conguaglio e quindi non chieda l’ assegnazione del compendio unico, vengono revocati gli aiuti comunitari e nazionali che erano stati attribuiti all’ imprenditore defunto per i terreni oggetto della successione.

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Questa disposizione mira ovviamente ad indurre uno dei coeredi a continuare nell’ esercizio dell’ attività agricola. Si può quindi dire che in tutte le ipotesi in cui l’unità aziendale si è formata con l’ esborso di pubblico denaro, l’ ordinamento si è preoccupato di mantenere siffatta unità anche dopo la morte del titolare. Secondo la legge 3 giugno 1940 n.1078 le unità poderali costituite nei comprensori di bonifica non potevano essere frazionate ne inter vivos, ne mortis causa per un periodo di trent’anni (questo non tanto per tutelare la proprietà quanto per tutelare la gestione produttiva). In caso di attribuzione preferenziale i coeredi avevano diritto al conguaglio che veniva determinato secondo il valore che il podere aveva sul mercato; il conguaglio poteva essere pagato in 10 anni. Abbiamo poi il caso (territorialmente limitato all’ Alto Adige) del maso chiuso, che proprio per la caratteristica di essere un’ azienda agraria familiare autosufficiente, pretende la conservazione della sua unità e consistenza. La regola dell’indivisibilità implica l’ impossibilità di variarne la consistenza senza l’ autorizzazione della Commissione locale per i masi chiusi e l’ attribuzione del maso ad un solo erede. Costui, che viene detto assuntore, viene designato dal testatore o dagli eredi o in ultimo dal giudice che lo sceglie tra i coeredi cresciuti nel maso e hanno partecipato abitualmente alla sua conduzione e coltivazione. Un tempo l’assuntore veniva scelto fra i figli maschi, con precedenza del più anziano. Oggi non vi è più distinzione fra maschi e femmine. Anche in questo caso l’erede preferito deve pagare il conguaglio entro 5 anni. 9. IL CONTRATTO DI AFFITTO DI FONDO RUSTICO La terra ed il bosco oltre che in proprietà possono essere acquisiti in affitto. Parliamo ora questo istituto analizzandone le caratteristiche principali. Natura di diritto reale o personale dell’ affitto : La posizione dell’affittuario è opponibile ed efficace non nei confronti di tutti i terzi ma solo di chi sia il locatore della cosa. Il contratto di affitto di fondi rustici è un contratto con effetti obbligatori e non reali. L’ affitto come contratto intuitu personae? Era insegnamento tradizionale che il contratto di affitto fosse un contratto intuitu personae, ovverosia che la prestazione dovuta dal debitore (l’ affittuario) non consentisse la sostituzione ad opera di altri se non con il consenso del creditore, l’ unico che potesse valutarne la legittimità e la convenienza. Oggi la legge prevede il diritto dell’ erede dell’ affittuario di succedere nel contratto, nonché una serie di ipotesi di cedibilità del contratto senza il consenso del locatore. Le due tipologie dell’ affitto : Esistono due tipi di affitto, quello a coltivatore diretto e quello a conduttore non-coltivatore diretto. Le differenze a favore dell’ affittuario coltivatore diretto attengono soltanto al suo potere di compiere i c.d. piccoli miglioramenti e alla forma libera del contratto, oltre che al suo diritto di prelazione. I due tipi di affitto trovano la loro origine nel contratto, che deve essere sempre interpretato in buona fede (art.1366 c.c.) circoscrivendo entro un’ area di prevedibilità i rischi ed i vantaggi che si intendono assumere con l’ operazione economica concreta. Libertà contrattuale ? Esigenze pratiche e motivazioni economiche e politiche hanno spinto il legislatore a :

a) prorogare i contratti agrari con i coltivatori diretti; b) ridurre l’ enorme numero di tipi sociali di contratti esistenti nel mondo dell’ agricoltura italiano

limitandoli ai 4 tipi legali dell’ affitto, della colonia parziaria, dell’ enfiteusi e del lavoro subordinato;

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c) disciplinare in maniera cogente il rapporto di colonia e delle residue mezzadrie e quello dell’affitto;

d) vietare i contratti agrari associativi aventi ad oggetto la terra; e) convertire in affitto le residue mezzadrie e colonie parziarie; f) ricondurre all’ affitto tutti i nuovi contratti agrari aventi ad oggetto la concessione di fondi

rustici. È stata inoltre vietata la creazione di contratti agrari atipici, disponendo la nullità di tutti quei contratti stipulati contra legem. La compressione dell’autonomia negoziale riguarda dunque solo il contenuto del rapporto, essendo libero il proprietario del fondo rustico di decidere se ed a chi concedere in affitto la sua terra. Quale la causa dell’ affitto? La funzione dell’ affitto è quella di attribuire al soggetto non-proprietario il potere di esercitare l’ attività agricola su un bene produttivo altrui. L’intenzione di esercitare l’ attività su di esso fa della concessione in godimento del fondo rustico un affitto che si distingue dalla locazione. Può quindi dirsi che la causa dell’ affitto è l’ esercizio dell’ impresa agricola . L’ incidenza delle deroghe ex.art.45 legge 203/1982 sull’ interpretazione e sull’ integrazione del contratto : in base all’ articolo suddetto le parti hanno la possibilità di derogare alla disciplina legale dell’ affitto e dunque possono rimettere la determinazione del contenuto contrattuale all’ autonomia negoziale, in questo caso dunque riprende vigore l’ applicazione degli art.1362-1371 c.c. sull’ interpretazione del contratto alla ricerca della comune intenzione delle parti. Generalmente le parti per stipulare questi contratti chiedono l’ assistenza dei sindacati, ma qualora essi non si rivolgessero alle organizzazione professionali, i contratti di affitto di fondo rustico stipulati in deroga alle norme imperative , non sono nulli, sono nulle le sole clausole che siano in contrasto con i precetti della legge. In casi del generale è richiesta la necessaria presenza di entrambe le contrapposte associazioni sindacali al momento dell’ effettiva stipulazione. La durata dell’ affitto e la stabilità dell’ affittuario : Analizziamo ora l’ aspetto che riguarda la durata dell’ affitto. La durata dell’ affitto tanto a coltivatore diretto che a conduttore è di 15 anni, rinnovabili per un pari periodo se non viene data disdetta un anno prima della scadenza del contratto da parte del locatore, essendo comunque riconosciuto all’ affittuario il diritto di recesso in ogni momento con il preavviso di un anno. Se si tratta invece di terreni montani inidonei a costituire un’ unità produttiva la durata è di sei anni. La stabilità dell’ affittuario è poi garantita da disposizioni come quella che attribuisce ad esso il diritto di essere preferito al terzo qualora il proprietario intenda nuovamente affittare il fondo. Salvo i casi dell’urbanizzazione del fondo, della risoluzione per inadempimento e del recesso anticipato da parte dell’ affittuario, il rapporto di affitto dura dunque 15 anni. Il canone dell’ affitto : Per ciò che riguarda il canone d’ affitto c’è un problema : il problema di un canone che non comprima in danno dell’ affittuario (specie se coltivatore diretto) la possibilità di ricavare dal fondo quella quantità di frutti che gli consenta un’ esistenza libera e dignitosa (art.36 Cost.). Il canone (che è da pagarsi in denaro) era dato dal prodotto della moltiplicazione del reddito dominicale del terreno fissato nel 1939 per una serie di coefficienti specificamente previsti dalla legge. La misura del canone era riferita alla produttività del fondo. Successivamente la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo il sistema di determinazione legale del canone, che è tornato così ad essere libero fra le parti.

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I poteri dell’ affittuario, i miglioramenti ed il diritto di ritenzione : Con riguardo a tali poteri essi si articolano in poteri di gestione dell’impresa e poteri di organizzazione dell’ azienda. L’affittuario ha il diritto di prendere tutte le iniziative di organizzazione e di gestione. Tutti i patti che limitano tali poteri sono nulli. Questi poteri dunque non possono essere compressi. Per ciò che riguarda invece i miglioramenti apportati dall’affittuario va detto che questi non possono incidere sulla destinazione agricola del fondo. I miglioramenti inoltre possono essere ovviamente apportati anche dal proprietario, il dominus, del fondo. I c.d. piccoli miglioramenti (quelli che possono essere compiuti con il lavoro personale dell’ affittuario coltivatore diretto) necessitano di un’ autorizzazione da parte del proprietario. È tuttavia necessario dare comunicazione al locatore onde permettergli, nello spazio di 20 giorni, di decidere se assumere su di se l’ impegno dell’ esecuzione. Se a migliorare è il proprietario egli ha diritto di chiedere l’ aumento del canone, mentre se a migliorare è l’ affittuario egli ha diritto, al termine dell’ affitto, ad una indennità pari all’ aumento del valore del fondo nonché a ritenerlo fino a che l’ indennità non gli venga pagata. La forma del contratto di affitto : Gli atti che da un punto di vista economico si appalesano i più importanti richiedono, a pena di nullità, la forma scritta, e talvolta una forma solenne. La forma scritta serve a far conoscere il contratto ai terzi rendendolo ad essi così opponibile (nesso tra forma e pubblicità). Tra l’ altro è espressamente prevista, secondo la legge, la forma scritta per le locazioni ultra-novennali di beni immobili e la pubblicità attraverso la trascrizione. Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte soltanto l’ affitto a coltivatore diretto non richiede ne forma scritta per essere valido fra le parti, ne trascrizione per essere opponibile ai terzi; mentre l’ affitto a conduttore richiede si la scrittura, ma solo ad probationem, nonché la trascrizione per la sua opponibilità . 10. LA CONCESSIONE DELLE TERRE INCOLTE Un altro modo di acquisire la terra che dà luogo ad un diritto personale e temporaneo di godimento (modalità attualmente superata), è la concessione delle terre incolte. Trattasi di un atto della pubblica amministrazione, nella specie la Regione, che determina il sorgere di un rapporto di diritto privato tra il concessionario e il proprietario del terreno, rapporto che è integralmente assoggettato alle norme che disciplinano l’affitto dei fondi rustici ma che si risolve anche qualora l’assegnazione venga revocata per omessa utilizzazione della terra da parte dell’ assegnatario entro due annate agrarie dalla concessione. L’ incoltura o l’ insufficiente coltivazione del terreno da parte di chi ne è l’utilizzatore legittima quindi qualsiasi interessato a chiedere l’ attribuzione del fondo. L’individuazione di questi fondi avviene soprattutto attraverso un censimento cui procedono le Regioni, tuttavia non occorre che il terreno sia censito e classificato come incolto per poterne chiedere la concessione. Contro questa evenienza al proprietario è data la possibilità di impegnarsi a coltivare direttamente le sue terre. 11. I CONTRATTI DI SOCCIDA E DI AFFITTO DI BESTIAME La soccida è il contratto nel quale il soccidante ed il soccidario si associano per l’allevamento e lo sfruttamento del bestiame e per l’esercizio delle attività connesse, al fine di ripartire l’accrescimento del bestiame e gli altri utili che ne derivano. Le parti del contratto sono

- il soccidante, che è tenuto al conferimento del bestiame

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- il soccidario, che è tenuto al conferimento della prestazione lavorativa, effettuata eventualmente con la collaborazione dei familiari, con il consenso del soccidante.

La durata minima del contratto è di tre anni vi è anche una rinnovazione tacita in mancanza di disdetta di una delle parti. In sintesi il soccidante attribuisce al soccidario il potere e dovere di curare il bestiame, ma si riserva un potere di direzione dell’impresa. Si possono distinguere tre tipi di soccida:

- Soccida semplice (art.2171 c.c.): nella quale il bestiame viene conferito interamente dal soccidante che ne conserva la proprietà, assumendosi il rischio di diminuzione del valore.

- Soccida parziaria (art.2182 c.c.): il bestiame viene conferito da entrambe le parti , con la conseguenza che sia la titolarità, che i rischi spettano ad entrambi.

- Soccida con conferimento di pascolo: il soccidante è tenuto conferire il fondo, mentre il soccidario al conferimento del bestiame e della prestazione lavorativa.

I contratti di soccida sono dunque quei contratti che consentono di acquisire il bene fondamentale dell’azienda zootecnica, ossia il bestiame. La soccida con conferimento di pascolo deve essere considerata come un contratto di scambio e non come un contratto associativo. Il proprietario del bestiame si associa con l’allevatore al fine di dividere gli utili dell’ attività comune di allevamento (art.2170 c.c.). L’impresa che nasce da questa combinazione di capitale e lavoro è un’ impresa collettiva essendo imprenditori agricoli sia il soccidante che il soccidario, ed è un’ impresa la cui disciplina è rimessa alla libera regolamentazione delle parti. Quindi sono solo due i veri contratti associativi di soccida, dato che il terzo cui fa riferimento il codice civile all’ art.2186 (soccida con conferimento di pascolo) è effettivamente un contratto di scambio, spettando al soccidario la direzione dell’ impresa e limitandosi il soccidante a conferire il pascolo. Possiamo quindi dire che la soccida è un contratto per l’ impresa agraria di allevamento tipizzato da obbligazioni inerenti al bestiame e dunque è un contratto agrario (nello specifico vedi art. 2171, 2175, 2176, 2181, 2183, 2184 c.c.). Anche il bestiame (gregge, mandria, branco) può essere oggetto di affitto, dovendosi riconoscergli la qualità di cosa produttiva. 12. I CONTRATTI PER COLTURE STAGIONALI OD INTERCALARI ED IL PASCIPASCOLO I contratti di integrazione agro-industriali sono contratti fra imprenditori appartenenti a settori economici distinti : agricoltori da un lato ed industriali dall’ altro. Ma in agricoltura sono possibili anche contratti fra imprenditori agricoli diversi, e tuttavia anche qui rivolti ad integrare rispettivamente le rispettive imprese. Ora parleremo di questo. L’ordinamento colturale classico è quello che comprende in successione per un anno, il maggese (ossia il terreno lavorato ma non seminato) e per due anni consecutivi il cereale, con una rotazione nei tre campi in cui è suddivisa l’ azienda. Talvolta il maggese è sostituito dalla c.d. coltura da rinnovo, ovverosia colture che rilasciano nel terreno un residuo di effetti positivi (la c.d. caloria o “forza vecchia”) a vantaggio delle coltivazioni successive. Gli intervalli di tempo rimasti liberi dalle colture principali possono poi essere utilizzati per colture di più breve durata, dette colture intercalari o stagionali o di “secondo raccolto”, così dette perché impegnano il terreno tra due colture principali, o a cavallo di due stagioni, o per il loro modesto reddito economico trattandosi di colture di minore importanza agronomica. Nella realtà italiana possono ricorrere contratti con i quali un imprenditore agricolo concede ad un altro imprenditore agricolo i propri terreni o parte del proprio fondo, per l’ impianto di colture intercalari o stagionali o per l’ apprensione delle erbe a mezzo degli animali condotti sul posto (il c.d. pasci pascolo). Le suddette concessioni non sono assoggettate alle norme inderogabili di affitto del fondo rustico. Si tratta invece di sfruttamento delle altrui attività di coltivazione o di allevamento da parte dell’

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imprenditore agricolo concedente il terreno, perché le colture compiute hanno capacità di “rinnovo” e lasciano “caloria” e “forza” al fondo e gli animali condotti a pascolo nel campo vi lasciano il loro sterco quale ottimo concime naturale. In altre parole il contratto per colture stagionali o intercalari e quello di pascipascolo creano un rapporto tra due imprenditori agricoli : uno di essi attribuisce all’ altro lo sfruttamento di una parte del proprio fondo che resta per un certo periodo privo della coltura principale, e ne attribuisce al secondo lo sfruttamento non tanto al fine di riscuotere un canone, quanto allo scopo di riottenere al termine del ciclo agrario del maggese o delle colture secondarie, il terreno in condizioni più fertili di quanto non fosse al momento della concessione e questo grazie all’ imprenditore che esercita una specifica e diversa attività agricola. Vi è quindi una reciproca integrazione delle economie delle rispettive imprese, sono quindi contratti strumentali all’worganizzazione aziendale. 13. IL CONTRATTO DI SOCIETA' L’acquisizione della terra o del bestiame come fattore produttivo e quindi come bene fondamentale dell’azienda agraria, può aversi anche qualora si costituisca una società, quando cioè terra e bestiame sono oggetto del conferimento del socio o dei soci. L’esercizio in comune di un’ attività economica è possibile se l’ organizzazione di persone e di beni, preordinata e coordinata a quello scopo, nasce da un contratto (il contratto di società appunto, art.2247 c.c.), nel quale sono fissati i contributi che i soci dovranno dare alla società per costituirne il capitale. Oggetto dei conferimenti dei soci possono essere beni o servizi. Quando si tratta di beni essi possono essere conferiti sia in proprietà che in godimento. Vi sono numerose società dette “di fatto” perché in poche parole sono nate dall’ accordo dei soci ma non hanno i requisiti per essere iscritte nel registro delle imprese. La legge n.662 del 1995 ha introdotto la possibilità di regolarizzare con modica spesa le società di fatto esistenti in Italia e ha previsto una spesa ancora più contenuta per la regolarizzazione delle società di fatto operanti in agricoltura e la loro assunzione nella categoria delle società semplici. A tal fine dobbiamo ricordare che la qualifica di “società agricola” e di “imprenditore agricolo” sono indispensabili per poter beneficiare delle agevolazioni creditizie e fiscali che l’ ordinamento riconosce agli imprenditori individuali coltivatori diretti. 14. GLI ORMAI SUPERATI CONTRATTI AGRARI ASSOCIATIVI DI COLTIVAZIONE La legge n.756 del 1964 aveva vietato per il futuro i contratti di mezzadria, ritenendo che questi non fossero più adatti alle esigenze di un moderno ordinamento dell’ agricoltura. La legge n.203 del 1982 ha inoltre disposto la conversione in affitto dei contratti associativi in corso in cui vi fosse concessione di fondo rustico, e dunque ha convertito in affitto le mezzadrie, le colonie parziarie e le soccide con conferimento di pascolo ancora esistenti, attribuendo al concessionario il diritto potestativo di chiederne la conversione entro il 6 maggio 1986. Per effetto della conversione si sarebbe avuta non la stipulazione di un nuovo contratto, ma solo la mera modifica del rapporto in corso. Contestate di illegittimità le norme sulla conversione hanno superato il controllo della Corte Costituzionale. I contratti agrari non convertibili o non convertiti avevano prefissato la scadenza massima al 10 novembre 1993, sicché contratti di mezzadria o di colonia non dovrebbero più esserci, salvo qualche accordo in deroga volto a prolungare la vita di qualche vecchio rapporto mezzadrile. 15. I CONTRATTI DI ANTICRESI E DI COMODATO La terra può essere acquisita anche con un contratto di comodato e può venire nella disponibilità di un soggetto con un contratto di anticresi. In queste due situazioni (art. 1362 c.c.) la comune intenzione, non è data dallo scambio del godimento temporaneo di un fondo contro un canone in denaro o in natura.

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Nel contratto di comodato infatti il proprietario della terra la consegna ad altri perché se ne servano gratuitamente per un certo tempo e la restituiscano al termine del rapporto (art. 1803 c.c.). Mentre nel contratto di anticresi un debitore consegna il fondo rustico, di cui è proprietario, al creditore, affinché questi ne percepisca i frutti. Una volta acquisita la terra (gratuitamente nel comodato e con l’ imputazione dei frutti nell’ anticresi), il comodatario e il creditore anticretico si trovano in quella situazione in relazione alla quale l’ art.44 Cost. impone di esercitare l’ impresa agricola. 16. IL DIRITTO DI OPZIONE COATTIVA La famiglia coltivatrice proprietaria di un fondo rustico, può, per legge acquistare coattivamente, ossia “riscattare” la quota del familiare che abbia lasciato l’ azienda da oltre cinque anni. Il prezzo d’acquisto viene stabilito dall’ Ispettorato provinciale dell’ agricoltura, ma la sua determinazione è sindacabile in sede contenziosa. In questo caso l’imprenditore agricolo, da comproprietario, diviene proprietario solitario o proprietario del fondo che è già nel suo godimento. Questa fattispecie non deve essere assimilata al diritto di prelazione bensì al diritto di opzione (art.1331 c.c.). CAPITOLO VII GLI ALTRI BENI DELL’ AZIENDA AGRARIA: ATTREZZI, BENI IMMATERIALI, DIRITTI, CONTRATTI 1. GLI ATTREZZI ED I BENI OCCORRENTI PER L’ ESERCIZIO DELL’ ATTIVITA' : DA PERTINENZE A BENI AZIENDALI L’operatore economico che intende svolgere un’ attività agricola deve possedere una serie di macchine e di attrezzi che gli consentano di ricavare dalla terra i prodotti, di conservarli, e quindi di trasformarli ed alienarli. Se prima tra le “cose” venivano compresi anche gli animali posti al servizio del fondo, perché strumenti di lavoro, oggi il loro posto viene preso dai trattori e dagli automezzi. Con il termine “attrezzi” indichiamo tutti quei beni mobili inanimati, destinati in modo durevole all’esercizio dell’ attività agricola. Va detto che quando gli attrezzi e le macchine utilizzate dall’imprenditore agricolo che non è proprietario del bene principale, i detti attrezzi e macchine si qualificano soltanto come beni aziendali, mentre se l’ imprenditore è anche proprietario della terra essi si qualificano anche come pertinenze, oltre che come elementi dell’ azienda. Va precisato che mentre i beni dell’azienda sono tra loto collegati da un rapporto di complementarietà che esclude la rilevanza di un bene principale, le cose del complesso pertinenziale sono invece disposte secondo un rapporto di accessorio a principale. Finalità degli attrezzi sono, la produzione nel caso dell’ azienda, e il servizio o l’ ornamento nel caso del complesso pertinenziale. Possiamo giungere alla conclusione che l’ azienda agricola non coincide con il fondo attrezzato; colui che organizza i beni dell’ azienda e li destina e li coordina all’ esercizio dell’ attività economica può anche non essere proprietario del fondo. E questa è la prima motivazione. Vi è poi una seconda motivazione e cioè che il complesso pertinenziale è costituito solo da cose, ovvero da entità corporali, mentre l’ azienda è costituita da beni.

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2. I BENI COMUNEMENTE DENOMINATI IMMATERIALI : LA DITTA E L’ INSEGNA Parliamo ora di due elementi che seppure privi del tratto della corporalità, costituiscono nuove forme di ricchezza. Parliamo a proposito di beni immateriali, dotati di valore patrimoniale e non connotati da materialità o fisicità. Nello specifico parliamo dei due segni distintivi della ditta e dell’ insegna, a cui l’ ordinamento ricollega una tutela funzionale alla loro protezione. Analizziamole nello specifico. La ditta (art.2563-2566 c.c.), è il contrassegno dell’impresa; è il nome sotto il quale l’ imprenditore esercita la sua attività, e che per il principio della verità deve contenere il cognome o la sigla di costui, e che non può essere trasferito senza l’ azienda. La ditta consente al pubblico di ricondurre una certa attività di impresa ad un soggetto . L’insegna (art.2568 c.c.), è il segno distintivo della sede in cui si esercita l’ attività imprenditoriale. Contraddistingue quindi il luogo in cui il complesso di beni aziendali è organizzato. 3. SEGUE : IL MARCHIO INDIVIDUALE Il marchio è il segno distintivo del prodotto. È interesse dell’ imprenditore marchiare i propri prodotti per distinguerli da prodotti uguali di altri imprenditori presenti sul mercato. Ma è anche interesse del consumatore, che soddisfatto da un determinato prodotto, può facilmente rintracciarlo grazie al marchio. Il marchio determina nell’ animo del consumatore l’ idea di un prodotto che gli garantisce la presenza di qualità che ha riscontrato precedentemente. È sinonimo di non confondibilità e facilita dunque il consumatore nella sua libertà di scelta. Oggi però il marchio non ha più queste sole funzioni; oggi il marchio è un valore a se, è esso stesso un prodotto appetibile per il consumatore. La possibilità di brevettare un marchio è stata concessa a chiunque e quindi anche a colui che non produce alcun prodotto. La pubblicità è uno strumento utilizzato per la valorizzazione del marchio, che ha finito con l’assumere rilievo di capitale pubblicitario. Il marchio di cui stiamo parlando è il marchio individuale. Il marchio individuale può essere registrato come abbiamo già detto anche da chi non è imprenditore. In altre parole colui che sta procedendo all’ organizzazione di una nuova azienda agraria ha facoltà di registrare il marchio con il quale intenderà poi contrassegnare i prodotti ottenuti. Il marchio individuale distingue i prodotti di un solo imprenditore, che ne è titolare e che ne ha il diritto esclusivo di utilizzazione (una sorta di monopolio legale). Gli agricoltori, singoli o associati, si servono sempre più di marchi per conquistare il mercato : pensiamo ai bollini sulle banane o sulle mele, le veline che avvolgono le arance e le etichette sulle bottiglie di vino e di olio. Ai sensi dell’ art.2573 c.c., oggi è consentito il trasferimento del marchio anche senza l’ azienda o un ramo di essa, purché però ciò avvenga “per la totalità o per una parte dei prodotti o servizi per i quali è stato registrato” ed in ogni caso purché dal trasferimento “non derivi inganno in quei caratteri dei prodotti o dei servizi che sono essenziali nell’ apprezzamento del pubblico”. In altre parole è vietato il peggioramento qualitativo dei beni contraddistinti dallo stesso marchio in assenza di adeguata informazione (il codice industriale infatti prevede anche la decadenza del marchio qualora esso sia divenuto idoneo ad ingannare il pubblico, in particolare circa la natura, la qualità o la provenienza dei prodotti o servizi). I prodotti industriali sono di regola qualificati da un know how (identifica le conoscenze e le abilità operative necessarie per svolgere una determinata attività lavorativa) facilmente “separabile” dal luogo originario di produzione; quelli agricoli invece sono qualificati invece soprattutto dalla localizzazione geografica che potrebbe essere essenziale per la realizzazione di quel determinato prodotto. Il richiamo della terra, del suolo, del sottosuolo, del clima, del profumo e del gusto dei prodotti agricoli, propongono il rilievo del marchio come segno idoneo a trasmettere un messaggio. Il messaggio che i produttori lanciano ai consumatori.

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Può però crearsi un problema con la comunicazione simbolica, derivante dall’ utilizzo di un toponimo, ossia il nome di un’ entità geografica (nazione, regione, provincia, città, monte, lago, fiume…) per distinguere un prodotto. Infatti in casi del genere il nome di una zona, indicando la provenienza da un certo territorio, costituisce una sorta di patrimonio comune di tutti i produttori di quel determinato luogo, i quali hanno tutti il diritto di utilizzarlo. Si comprende benissimo allora perché “non possono costituire oggetto di registrazione come marchio(individuale) di impresa i segni privi di carattere distintivo, in particolare quelli che in commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica”. Salva l’ipotesi di utilizzare un nome geografico adoperato in chiave fantastica ovvero collegato ad un luogo che nulla ha a che fare con il prodotto (ad es. frigoriferi Polo Nord o carte da gioco Las Vegas), in casi del genere il collegamento prodotto-zona geografica serve esclusivamente ad evocare un’ immagine suggestiva del prodotto. Al marchio in se il produttore non affida un messaggio pubblicitario, quanto tutta una serie di informazioni che il produttore indirizza ai consumatori. Con il passare del tempo il marchio ha poi finito per assorbire i messaggi e le promesse pubblicitarie alle quali il consumatore tenderà costantemente ad associarlo. Dobbiamo sempre ricordare che il marchio non può essere utilizzato in modo od in un contesto tale che possa dar luogo ad ingannevolezza; perciò se le comunicazioni che si accompagnano al marchio sono ingannevoli queste si riverberano su di esso e ne provocano la decadenza. 4. LE PRIVATIVE PER LE NOVITA' VEGETALI ED I BREVETTI PER LE INVENZIONI BIOTECNOLOGICHE Anche le invenzioni danno luogo a beni immateriali. La fattispecie dell’invenzione si completa giuridicamente con la brevettazione, che attribuisce all’ inventore il diritto esclusivo di utilizzare economicamente il trovato e che gli riconosce la paternità dell’ invenzione. Il nostro ordinamento stimola l’attività inventiva, in quanto essa determina nuove ricchezze nell’ interesse di tutti, con il premio all’inventore, del diritto di sfruttare in maniera esclusiva l’ invenzione, nonché il fatto che il brevetto costituisce il capitale tecnologico dell’ azienda. Il brevetto può essere ceduto o concesso in godimento (volontariamente e coattivamente) a chi in cambio di un prezzo o di un canone (royalty), provvederà alla riproduzione del frutto dell’idea inventiva, facendo sue le utilità economiche che derivano da siffatta attività di riproduzione (art.2589 e 2591 c.c.). Il brevetto dunque può essere considerato il capitale tecnologico dell’azienda, destinato insieme alla terra, al lavoro e agli altri beni, allo svolgimento di una determinata attività di coltivazione. Sono ammesse dalla legge solo le invenzioni relative ai vegetali, le c.d. novità vegetali, per effetto di ibridazione, incroci e selezione, mentre non sono riconosciute e tutelate le invenzioni di nuove razze animali. Oggi sono esclusi dalla brevettabilità europea sia le varietà vegetali che le razze animali, ad eccezione dei procedimenti microbiologici e dei prodotti con esso ottenuti. Dunque non è possibile richiedere il brevetto europeo neanche per le varietà vegetali. Originariamente in Italia era possibile ottenere il brevetto anche quando si trattava di varietà vegetali atte ad avere un’ applicazione agricola o industriale, attraverso il medesimo sistema adoperato per le invenzioni industriali. La protezione delle varietà vegetali è oggi sottoposta a dei limiti che consistono :

a) nell’ obbligo dell’ inventore di sfruttare l’ invenzione nel territorio della Comunità; b) nell’ adattamento della disciplina dell’ invenzione industriale alla peculiarità del nuovo bene

vegetale “inventato”. Non sono mai tutelabili le invenzioni di procedimento per l’ottenimento dei vegetali (perché è un procedimento naturale) ma solo le invenzioni di un prodotto nuovo e capace di conservare nelle nuove

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riproduzioni i suoi caratteri morfologici e fisiologici fondamentali che devono avere la capacità di essere descritti e riconosciuti. Alla nuova varietà occorre poi dare un nome (la c.d. denominazione varietale) che identifica il prodotto e va tenuta distinta dall’ eventuale marchio. Un tempo il brevetto per le varietà vegetali durava 15 anni, ora invece il marchio brevettato è tutelato per 20 anni rinnovabili. È interesse generale che l’invenzione delle nuove varietà generali sia sfruttata : sicché quando motivi di interesse pubblico sollecitano l’ utilizzazione di varietà vegetali utili all’ alimentazione umana o al bestiame, ad usi terapeutici o alla fabbricazione di medicinali, sono possibili licenze obbligatorie in forza delle quali il titolare della privativa è tenuto a mettere e disposizione del licenziatario, dietro il compenso fissato dalla P.A., il materiale di propagazione necessario. Per ciò che riguarda invece la brevettabilità dei prodotti in cui sono presenti organismi geneticamente modificati (OGM), e quindi delle piante transgeniche , attualmente esse sono oggetto di una direttiva del Parlamento Europeo che le ritiene legittime. Con tale direttiva si dà obbligo agli stati membri di proteggere le invenzioni biotecnologiche tramite il diritto nazionale dei brevetti, stabilendo che sono brevettabili le invenzioni caratterizzate da innovatività tecnica e applicazione industriale, che hanno per oggetto prodotti contenenti materiale biologico (ovvero materia contenente informazioni genetiche, auto-riproducibile o capace di riprodursi in un sistema biologico) o procedimenti che implichino la trasformazione di materiale biologico, ed escludendo dalla brevettabilità i procedimenti di clonazione umana. Questa direttiva europea consente dunque la brevettabilità della clonazione animale e delle piante transgeniche nei singoli stati membri. 5. LE QUOTE DI PRODUZIONE E I DIRITTI DI REIMPIANTO Il progresso tecnologico ha determinato l’ aumento della produttività della terra e del lavoro umano, e la politica comunitaria dei prezzi ha portato ad una sovrapproduzione dei prodotti agricoli il cui ritiro è assicurato dal prezzo di intervento. Il problema delle eccedenze agricole è divenuto per la Comunità Europea uno dei problemi più difficili da gestire, sia per l’aggravio del bilancio comunitario, sia per i contrasti con gli altri imprenditori mondiali. Così prima la Comunità dopo aver incentivato il volontario abbandono delle produzioni eccedentarie, ha introdotto limiti alla produzione ricorrendo al c.d. sistema delle quote. Con il termine “quote di produzione” ci si riferisce a quel tipico intervento comunitario di contingentamento delle produzioni agricole, con lo scopo di mantenere la produzione di determinati prodotti entro una quantità predefinita. Alcune volte questo sistema opera attraverso il ridimensionamento delle agevolazioni e dei premi assicurati sino a quel momento ai produttori (utilizzato ad esempio per il riso, il tabacco, il grano duro, i semi oleosi…), altre volte invece agisce direttamente sulla produzione, disincentivandola attraverso costosi prelievi parafiscali che gravano sul singolo agricoltore, qualora superi appunto la sua “quota”. Il sistema delle quote è particolarmente importante per ciò che riguarda la produzione del latte. Nel settore lattiero-caseario è stato infatti stabilito che la sovrapproduzione comporta il pagamento di una misura fiscale a carico di quel produttore di latte che abbia commercializzato un quantitativo di latte superiore alla quota che gli è stata riconosciuta. In altre parole i produttori di latte non sono obbligati a non produrre, ma sono tenuti a pagare, per ogni litro di latte commercializzato in più della rispettiva quota di produzione, una somma talmente alta (per 100 kg di latte 28,54 €) da scoraggiarne la produzione. Con un regolamento europeo fu fissato per l’intera Comunità un anno di riferimento onde calcolare la produzione globale di latte che ogni Stato membro aveva avuto in quel periodo (per l’ Italia l’ anno di riferimento era il 1983). Sulla base di tale quantitativo di riferimento è stato assegnato ad ogni Stato un quantitativo globale garantito (QGG). Ogni Stato ha poi provveduto a ripartire tale quantitativo tra i vari produttori di latte, tenendo conto della quantità da essi prodotta nell’ anno di riferimento (QRI).

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A questo punto i produttori che commercializzano più latte rispetto a quello previsto dalla propria quota devono pagare il prelievo supplementare, prelievo supplementare che sarà raccolto dall’ impresa di trattamento e commercializzazione del latte (la c.d. latteria). Lo Stato provvede poi a versare alla Comunità il “prelievo” raccolto dalle latterie. Era possibile concedere un quantitativo maggiorato ai giovani agricoltori, agli imprenditori a titolo principale e a coloro che si erano impegnati a realizzare un piano di sviluppo della produzione lattiera. Ovviamente il prelievo supplementare serve a scoraggiare la produzione eccessiva mantenendola dunque al di sotto della quota. Va però precisato che l’ allevatore fin dall’ entrata in vigore del sistema delle quote può rinunciare al suo quantitativo ottenendo dalla Comunità un indennizzo. La quota diviene in questo modo un bene immateriale avendo un valore patrimoniale di scambio, e diviene così meritevole di tutela giuridica. La quota può così essere oggetto di pignoramento, di costituzione in pegno, come qualsiasi altro bene. In Italia il regime delle quote latte è così organizzato :

a) gli adempimenti comunitari relativi al prelievo supplementare, sono di competenza delle Regioni;

b) la determinazione delle quote individuali che doveva essere fatta grazie all’ anno di riferimento, in realtà è stata fatta non in base al numero di vacche possedute e dalla media di produzione di ogni vacca, ma sull’ esibizione delle fatture di vendita del latte;

c) la mancata utilizzazione del 70% del proprio QRI per 12 mesi è causa di decadenza della titolarità della quota, salvo casi particolari di forza maggiore;

d) il prelievo dovuto dall’ Italia all’ Unione Europea è versato dalle latterie; e) l’ individuazione dei singoli produttori tenuti al pagamento è effettuata dall’ AGEA a livello

nazionale; f) ai produttori soci è attribuito il diritto di prelazione delle quote poste in vendita da altri soci della

stessa cooperativa o della stessa organizzazione di produttori; g) l’ attivazione di un programma di abbandono totale della produzione lattiera, con confluenza

delle quote dismesse, prevede la loro assegnazione ai produttori, esclusi quelli che hanno ceduto a titolo oneroso in tutto o in parte la propria quota.

Abbiamo detto prima che la quota latte può essere considerata un bene aziendale. Tale può essere considerato anche il c.d. diritto di reimpianto di vitigni. In base ad un regolamento europeo infatti il diritto di reimpianto può essere esercitato su una superficie (equivalente a quella in cui aveva avuto luogo l’ estirpazione) dello stesso fondo appartenente ad altri purché destinato alla produzione di vini di qualità prodotti in regioni determinate. La quota ed il diritto di reimpianto come beni aziendali mai potrebbero costituire la “cose” che per l’ art.817 c.c. sono poste al servizio della cosa principale, cioè nel caso di specie della terra. Dunque possiamo ribadire che il fondo attrezzato non è sinonimo di azienda. 6. LE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE CONSEGUITE DA SPECIFICHE MODALITA' DI ORGANIZZAZIONE DELL’ AZIENDA AGRARIA : IL RISPETTO DI NORME E DI DISCIPLINARI DI PRODUZIONE DA PARTE DI AGRICOLTORI “AFFILIATI” AD ENTI O A CONSORZI Fino ad ora abbiamo parlato di beni immateriali e di beni corporali che colui che intende svolgere attività di coltivazione, silvicoltura e allevamento deve organizzare e coordinare al fine del tipo di impresa agricola che intende realizzare, ed abbiamo detto che questi sono beni perché possono formare oggetto di diritti con un loro mercato. Ora parliamo invece dell’ esistenza di altri diritti che possono essere acquisiti dall’ agricoltore solo una volta che egli abbia già iniziato a svolgere la sua attività di impresa.

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Ci riferiamo :

a) al diritto di utilizzare i segni di indicazioni geografiche protette o denominazioni di origine protetta;

b) al diritto di servirsi di marchi collettivi; c) al diritto di utilizzare attestazioni comunitarie e regionali di biologicità nella

commercializzazione dei prodotti. Più in particolare si tratta del diritto di utilizzare certi nomi geografici o di fregiare il proprio prodotto con attestazioni di qualità, diritto che l’ imprenditore ottiene a particolari condizioni, ossia:

a) qualora rispetti un certo disciplinare; b) qualora ottenga l’ affiliazione dell’ organismo che concede l’ uso del nome o l’ attestazione di

qualità. I diritti di utilizzazione di questi segni, sono rilevanti per i consumatori, e rappresentano un valore economico di non poco conto per l’ impresa. Infatti più che ricollegarsi alla figura dell’ imprenditore si ricollegano e fanno parte dell’ azienda stessa. Questi diritti sono generalmente ricollegati al fatto che l’imprenditore che ne fa utilizzo partecipi a determinati consorzi ed organismi, o alla sua iscrizione in certi albi. Si può quindi dire che contratto di consorzio o iscrizione all’albo danno all’ azienda il suo maggior valore, dando alle aziende in questione il privilegio di utilizzare questi segni, a differenza invece di quelle che ne sono prive. 7. I MARCHI COLLETTIVI; IN ISPECIE IL MARCHIO GEOGRAFICO ED I MARCHI REGIONALI DI ORIGINE; I C.D. MARCHI DI QUALITA' Il marchio collettivo individua i prodotti di più imprenditori che fanno capo ad un ente o fanno parte di un consorzio, ente o consorzio che sono titolari del bene immateriale marchio collettivo, lo hanno brevettato e ne concedono l’ uso agli imprenditori collegati od associati, previo l’ accertamento del rispetto di determinate regole che ne garantiscono la produzione secondo certe modalità. A differenza del marchio individuale, il marchio collettivo non è in grado di identificare il prodotto come realizzato da un’ impresa anziché da un’ altra. Esso assolve una funzione di garanzia di qualità del prodotto assicurato dal controllo da parte dell’ ente o del consorzio. È l’ente o il consorzio infatti che organizza i controlli di qualità. Il marchio collettivo garantisce al consumatore l’ origine, la natura, e il rispetto di tutti gli standard di qualità dei prodotti marcati. In agricoltura è ricorrente l’ uso di marchi collettivi. L’ utilizzo di questo marchio è molto interessante in quanto questo mette in evidenza il luogo di produzione, la qualità del suolo e del sottosuolo, la qualità del clima, tutti fattori molto importanti capaci di imprimere al prodotto sapore e profumi particolari. L’ uso del marchio geografico individuale è vietato al fine di impedire all’ imprenditore che ha per primo l’ accortezza, di riferire al suo prodotto la rinomanza dell’ area geografica in cui lo produce. In casi del genere non si ha un diritto di esclusiva. Ma vietato il marchio geografico individuale, l’ordinamento ammette il marchio geografico collettivo, diretto a contrassegnare i prodotti di una serie plurima di produttori di una determinata località, anche al fine di identificarli e distinguerli dai prodotti identici di aree geografiche diverse. I titolari di marchi geografici collettivi non possono vietare ai produttori della zona di servirsi del toponimo (per la definizione vai a p.33 del riassunto) come indicazione di origine o di provenienza, e

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devono prevedere nel regolamento dell’ uso del marchio collettivo geografico, la possibilità dei produttori della zona di diventare membri dell’ associazione titolare del marchio. Il soggetto titolare del marchio è tenuto a garantire l’ origine, la natura o la qualità dei prodotti. Prima dell’ emanazione del regolamento comunitario n.2081 del 1992 il marchio collettivo geografico poteva nel settore agricolo individuare anche tutto il paese Italia. In seguito all’ emanazione di questo regolamento invece l’ origine di un prodotto agricolo può essere segnalato solo a marchio DOP e IGP. La nostra legislazione prevede anche che il Ministero delle politiche agricole, alimentari o forestali (MiPAAF), con il Ministero dello sviluppo economico, possa istituire d’ intesa con la Conferenza Stato-Regioni, il “marchio identificativo della produzione agroalimentare nazionale” di cui potranno fregiarsi i prodotti (industriali) ottenuti con solo materie prime (agricole) italiane o i prodotti direttamente realizzati da impresa agricole italiane. Il marchio geografico dunque circoscrive limitate aree, collegando la qualità del prodotto ad un origine geografica. Abbiamo poi anche i marchi collettivi regionali, chiamati comunemente “marchi di qualità”, e anche questi ricollegano la qualità del prodotto all’ origine territoriale. Altro marchio di qualità è quello concesso dal soggetto titolare a tutti quegli imprenditori rispettosi di un disciplinare; il soggetto titolare può essere sia un ente pubblico che un ente privato. Si tratta di marchi di garanzia o di certificazione, e sono accessibili a tutti quegli imprenditori che rispettino le procedure del disciplinare. Le Regioni nell’ ambito delle proprie funzioni amministrative, hanno il compito di effettuare dei controlli circa la qualità dei prodotti agricoli e forestali. Il marchio di qualità costituisce dunque una garanzia per il consumatore. Al fine di armonizzare le varie legislazioni in merito al marchio, la Comunità Europea emana delle direttive in cui stabilisce i requisiti essenziali che i prodotti devono avere per circolare liberamente nel mercato unico. Il ricorso alla prassi della certificazione è volontario, ma essa è incentivata da motivazioni economiche, commerciali e dalle pretese dei consumatori. L’ente certificatore quindi garantisce che i prodotti certificati sono stati ottenuti nel completo rispetto delle norme di riferimento, ad esempio dei requisiti igienico-sanitari. In tal modo la certificazione di qualità mette il consumatore in grado di conoscere la qualità del prodotto non dopo l’ acquisto, ma in anticipo, proprio in virtù e sulla base dell’ attestazione rilasciata dall’ organo certificatore. 8. LE INDICAZIONI GEOGRAFICHE PROTETTE E LE DENOMINAZIONI GEOGRAFICHE PROTETTE L’ indicazione geografica come abbiamo detto prima, collega al prodotto la bellezza e la rinomanza che un particolare luogo suggerisce al consumatore. È quindi molto importante il messaggio che il toponimo esercita sul pubblico, ed è per questo che l’ordinamento interviene per evitare false suggestioni e frodi. In questo quadro assumono particolare importanza, l’indicazione geografica protetta (IGP) e la denominazione di origine protetta (DOP). La designazione geografica tutelata dal diritto comunitario con il termine di “indicazione geografica protetta” o IGP, indica il nome di una regione o di un luogo determinato, diretto ad indicare un prodotto agricolo originario di tali aree, e di cui le qualità possono essere attribuite all’ origine geografica, e la cui produzione, elaborazione, trasformazione, avvengono nell’ area determinata. Con il termine “denominazione di origine protetta” o DOP invece, viene indicato il nome di una regione o di un luogo determinato diretto ad indicare un prodotto agricolo originario di tali aree, la cui qualità od i cui caratteri sono dovuti essenzialmente od esclusivamente all’ ambiente geografico comprendente fattori naturali e fattori umani, e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengono nell’ area determinata. Prima, per la dottrina italiana le differenze esistenti tra la mera indicazione di provenienza (ad es. “vino toscano”, “arance siciliane”) e la denominazione di origine controllata o DOC, erano date dal fatto che alla prima era attribuito il ruolo di segnalare semplicemente il luogo di produzione del prodotto, mentre con la seconda si dava conto non solo dei fattori geografici ma anche dei fattori umani, nel senso che la

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qualità del prodotto era attribuibile, oltre che al clima, al suolo e al sottosuolo di quel territorio, anche agli usi sperimentati e costanti di produzione e di elaborazione, includendo così nella denominazione anche la tecnica di produzione di quell’ area. La conseguenza era che nell’ipotesi di indicazione di provenienza era necessario solo che fosse garantita la veridicità del messaggio; nell’ ipotesi di denominazione di origine controllata invece, occorreva che il produttore di quell’ area geografica fosse rispettoso del disciplinare che regolava la concessione dell’ uso della doc. Oggi la registrazione a livello comunitario dei nome dell’ IGP e della DOP è compiuta sempre sulla base di un disciplinare cui i produttori devono adeguarsi per poter fregiare i propri prodotti con il segno corrispondente alla IGP o alla DOP e il fattore umano rileva in qualche modo anche nella IGP. Ne deriva che la differenza fra IGP e DOP sta nel fatto che con la seconda viene indicato un prodotto agricolo il cui intero ciclo produttivo, dalla produzione della materia prima fino all’ ottenimento del prodotto finito, è localizzato in una determinata area geografica (comprensiva di fattori naturali e di fattori umani) alla quale sono attribuibili le qualità del prodotto, mentre con la prima viene designato un prodotto agricolo il cui processo produttivo non è necessario che si svolga tutto all’ interno di una determinata area geografica alla quale tuttavia possa farsi risalire la reputazione o delle qualità o delle caratteristiche del prodotto stesso. Ogni Stato membro deve poi creare delle “strutture di controllo”, pubbliche o private o miste, che controllino che i prodotti con IGP o DOP rispondano ai requisiti dei disciplinari, e devono garantire che il produttore che rispetta il disciplinare abbia “diritto di accesso al sistema di controllo”. In Italia è il MiPAAF ad occuparsi di questi controlli. Prima si occupavano di questi controlli gli stessi Consorzi, ma il consorzio finiva con l’essere allo stesso tempo controllore e controllato, e si creandosi in questo modo una sovrapposizione. Attualmente i Consorzi hanno in merito funzioni propositive e consultive, di definizione di programmi e di adozione di delibere che, se approvati dal MiPAAF, valgono per tutti i consorziati. I costi dell’ attività dei Consorzi di tutela sono sostenuti da tutti gli utilizzatori della denominazione anche se non aderenti alla struttura consortile. Il “diritto di accesso” al sistema di controllo di cui abbiamo parlato prima, consiste nel diritto dell’imprenditore di richiedere all’ organismo di controllo la certificazione che egli rispetta il disciplinare, e dunque che è legittimato a servirsi delle IGP o delle DOP. Ne consegue che il rispetto del disciplinare implica, il diritto di servirsi del nome geografico, contro chi di tali segni non può avvalersi, e quindi indirettamente ha funzione concorrenziale. La tutela delle denominazioni geografiche non è rimessa solo alle azioni civilistiche contro la concorrenza sleale, ma anche ad eventuali sanzioni penali e sanzioni amministrative, per il loro uso indebito. Con queste sanzioni si intende combattere l’ utilizzazione indebita di un nome geografico notoriamente indicativo di prodotti tipici e di qualità, non solo per evitare che imprenditori senza scrupoli approfittino della fama e della reputazione di un certo prodotto per smerciare i propri prodotti, simili ma mancanti di quelle qualità organolettiche che soltanto il terreno ed il clima di una determinata area geografica sono capaci di attribuire, ma anche di impedire che il nome si “volgarizzi” e perda di istintività. 9. LE DENOMINAZIONI MERCEOLOGICHE LEGALI, IL PRINCIPIO COMUNITARIO DEL MUTUO RICONOSCIMENTO E LE ATTESTAZIONI DI SPECIFICITA'. I PRODOTTI ALIMENTARI TIPICI Parliamo ora delle denominazioni merceologiche, che possono essere denominazioni merceologiche comuni ossia dei nomi che identificano le cose nell’ ambito delle relazioni sociali, oppure denominazioni merceologiche legali, nomi a cui viene ricollegata una specifica disciplina legislativa. Ad esempio il nome “vino” è riservato al prodotto della fermentazione alcolica del mosto di uva fresca o leggermente appassita; il nome “cioccolato” è riservato al prodotto ottenuto da granella di cacao, cacao in pasta, cacao in polvere… la stessa cosa va detta per i nomi latte, formaggio, pasta, birra, caffè, ecc. tutti specificati nel loro significato dalla legge. Si tratta di regola di prodotti agricoli trasformati, le cui caratteristiche sono descritte dalla legge onde il prodotto possa essere designato con quello specifico nome.

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Poiché il nome legale è appunto il nome che la legge riconosce ad un prodotto composto e caratterizzato in un certo specifico modo, la legislazione di uno Stato può designare con un dato nome (“pasta”) un prodotto le cui caratteristiche (semola di grano duro) sono più o meno fortemente diverse da quelle (semola di grano tenero) proprie di un prodotto designato con quello stesso nome (anche qui “pasta”) dalla legislazione di un altro Stato. In casi del genere nella Comunità Europea si creano dei problemi relativamente alla libera circolazione dei beni, bene in questo caso che ha il medesimo nome (in entrambi gli Stati), ma ha qualità diverse. Per risolvere questo problema la Corte di giustizia ha elaborato il principio del mutuo riconoscimento, per il quale il prodotto agricolo può circolare nell’intero territorio della Comunità con il nome legalmente assegnatogli dallo Stato in cui è prodotto, anche se a quel nome, nello Stato importatore corrisponda un prodotto di qualità e di composizione diverse. In altre parole ogni Stato membro riconosce le denominazioni merceologiche legali degli altri Stati membri. La Corte di giustizia ha adottato questo principio in quanto era molto difficile armonizzare le diverse legislazioni degli Stati membri in materia, questo sistema ha però provocato una volgarizzazione dei nomi legali, divenuti così in qualche modo generici. Per ovviare a questo problema i prodotti agricoli devono essere sempre accompagnati da un etichetta che svolge un ruolo informativo, consentendo ai consumatori di scegliere il prodotto che stanno cercando e non uno simile (pensiamo all’ olio, può trattarsi di olio di oliva, olio vergine di oliva, olio extra-vergine di oliva, olio di semi, olio di sansa, tutte informazioni conoscibili attraverso l’ etichetta). Al di la del principio di mutuo riconoscimento, l importatore può scegliere :

a) di mantenere la denominazione merceologica con cui il prodotto è legalmente commercializzato nello Stato di produzione;

b) di adottare la denominazione merceologica con la quale i prodotti analoghi sono commercializzati nello Stato importatore;

c) usare entrambe. Tuttavia è riconosciuto allo Stato importatore il potere di imporre che il prodotto importato abbia una denominazione merceologica diversa da quella con cui esso è legittimamente commercializzato nel paese produttore allorquando la sua composizione si allontani talmente da quella delle merci generalmente conosciute nella Comunità con tale denominazione, da non poter essere considerato appartenente alla stessa categoria. Così ad esempio non può essere utilizzato il nome “aceto” (prodotto ottenuto dalla fermentazione acetica del vino quanto del sidro di mela), per quei prodotti ottenuti mediante diluizione in acqua di acido acetico di sintesi; non può essere utilizzato il nome “caviale” per uova di pesci diversi dallo storione, ne può essere usato il nome “yogurt” per prodotti i cui fermenti lattici non sono vivi. Inoltre la denominazione di vendita dello Stato membro di produzione non può essere usata, quando il prodotto che essa designa, dal punto di vista della composizione o della fabbricazione, si discosta in maniera sostanziale dal prodotto conosciuto sul mercato nazionale con tale denominazione. Tra l’ altro esiste un regolamento comunitario che introduce un sistema per il quale determinati prodotti agricoli ed alimentari possono fregiarsi di un’ attestazione di specificità, ovverosia un nome legale di tipo comunitario. Con tale segno si vogliono valorizzare quei prodotti e quegli alimenti che per le materie prime tradizionali impiegate, per il metodo tradizionale di produzione e di trasformazione impiegato, per il nome tradizionale consacrato dall’ uso, meritano di essere distinti da altri prodotti o alimenti analoghi appartenenti alla stessa categoria, senza che venga ricollegato alla denominazione di specificità il luogo di produzione. In sostanza l’attestazione di specificità riguarda prodotti che non derivano da una specifica area di produzione, ma quelli le cui caratteristiche distintive sono dovute ad una consolidata tradizione (si tratta di prodotti come “cappelletti”, “ravioli”, orecchiette”, “babà”…). Nome specifico, attestato comunitario e simbolo, fanno dunque sapere ai consumatori che il prodotto è attestato e che ha un nome specifico realizzato in modo tradizionale e con composti tradizionali secondo la tecnica “inventata” e messa a punto da un determinato popolo in una determinata regione.

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L’ attestazione di specificità di cui puoi godere il produttore non può riguardare prodotti agricoli di base: l’ attestato spetta ai prodotti ottenuti con composizione o con produzione fatte secondo la tradizione. In ambito comunitario esiste ovviamente un sistema di tutela delle specialità tradizionali garantite (STG), e anche la nostra normativa sui prodotti tradizionali o prodotti tipici italiani è diretta a promuovere e diffondere le produzioni agroalimentari tipiche e di qualità italiane e di accrescere le capacità concorrenziali del sistema agroalimentare nazionale. Dobbiamo fare tre considerazioni. La prima riguarda la distinzione tra prodotti contrassegnati dall’ attestazione di specificità e prodotti tipici che sono caratterizzati dall’ irripetibilità della loro produzione al di fuori dei luoghi tradizionali di origine favorendo così il progresso economico della zona rurale interessata. La seconda che siffatti prodotti tradizionali sono di regola prodotti di nicchia, che tuttavia grazie al ricorso ad internet e alla globalizzazione si potrebbero trasferire anche sul mercato mondiale. La terza che tali prodotti tipici potrebbero dar luogo ad un mercato non soggetto alla legge di Engel, ossia la regola che vuole che la spesa destinata all’ alimentazione non sia elastica all’ aumento del reddito dato che il consumatore, man mano che il suo reddito aumenta, reclama prodotti di qualità ovviamente più cari. I prodotti tipici italiani rispetto ai prodotti contrassegnabili dal logo comunitario SGT, si caratterizzano per una specifica deroga alle norme comunitarie di igiene dei locali e dei materiali di contatto, deroga che finisce con l’ indicare non solo gli ingredienti e le tecniche di produzione dei prodotti tipici ovvero un know how esportabile ovunque ma anche la cultura locale : quindi il carattere quasi artigianale della produzione di tali prodotti rende difficile che la tecnica di tale produzione sia “esportata” in luoghi geograficamente diversi per cultura e per tradizioni, come invece deve essere possibile per l’ attestazione di specificità. 10. L’ ATTESTAZIONE DI PRODOTTO BIOLOGICO Tra le altre attestazioni abbiamo anche l’ attestazione di biologicità dei prodotti agricoli. Si è già accennato ai problemi che derivano dall’ impiego massiccio di concimi chimici, diserbanti e fitofarmaci, problemi legati sia al degrado dell’ ambiente con eventuali danni alla salute ed alla qualità della vita. Nel quadro di una politica diretta a garantire i consumatori dai residui che fertilizzanti e antiparassitari lasciano nei prodotti agricoli e nello stesso tempo a favorire un sistema di produzione quantitativa, la Comunità ha emanato il regolamento n. 91 del 1991, relativo al metodo biologico di produzione ed all’indicazione di tale metodo sui prodotti agricoli così ottenuti, senza però garantire la sanità dei prodotti realizzati con tale metodo biologico. Detta normativa si applica ai prodotti vegetali e animali non trasformati ed ai prodotti alimentari di origine vegetale e/o animale. Essa attribuisce il diritto di usare nell’ etichetta, nella pubblicità e nei documenti commerciali, il termine “biologico” , con riferimento al prodotto o ai suoi ingredienti. Tale diritto è attribuito a chi rispetta determinati metodi di produzione vegetale o zootecnica, ovverosia non usa prodotti chimici di sintesi, ne mangimi o medicinali veterinari diversi da quelli indicati nel regolamento e non impiega organismi geneticamente modificati. L’indicazione di biologicità serve solo a perimetrare un nuovo mercato, quello biologico, e non ha differenziare i prodotti biologici dello stesso genere ma di produttori diversi (qui potrebbe utilizzarsi un marchio individuale). Questo marchio consente di separare quindi i prodotti ottenuti biologicamente da quelli che non sono stati così ottenuti. Occorre mettere in evidenza che l’ attestazione di biologicità non garantisce che il prodotto agricolo sia più sano e senza veleni, in quanto al di la del metodo di produzione, potrebbero esserci state delle contaminazioni ambientali (piogge acide o vapori di piombo proveniente da autostrade confinanti); questa certificazione dunque non è garanzia di qualità organolettica, nutritiva o sanitaria superiore. Il diritto di usare il nome “biologico” spetta solo a quegli agricoltori che organizzata la loro azienda secondo il metodo biologico di produzione, hanno ottenuto l’iscrizione nell’ elenco tenuto dall’

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organismo di controllo che ne certifica il comportamento rispettoso degli obblighi indicati dal regolamento. 11. I CONTRATTI DELL’ ORGANIZZAZIONE Sul commentare l’ art.2555 c.c. gli Autori sono quasi tutti d’ accordo nel considerare le cose corporali (mobili ed immobili) ed i beni immateriali come elementi del complesso organizzato dell’ imprenditore per l’ esercizio della sua impresa. I problemi sorgono con riferimento ai servizi, ai contratti, ai crediti ed ai debiti relativi. Le soluzioni prospettate sono le più varie, ora limitando i beni dell’ azienda alle sole cose materiali, ora comprendendovi i beni materiali, ora includendovi i servizi od opere ed ora estendendoli fino alle relazioni economiche o rapporti giuridici talvolta con limitazione ai crediti e talaltra con inclusione dei debiti. Non si può non concludere dicendo che tutto ciò che viene destinato all’ esercizio dell’ impresa ed è acquistato in prospettiva del suo esercizio fa parte sicuramente del patrimonio aziendale. Dunque rientrano in questa definizione tutte le risorse corporali e incorporali che daranno luogo a beni e a servizi finali cui è rivolta l’ attività imprenditoriale. Dunque è più corretta la tesi che considera tra i beni dell’ art.2555 c.c. anche quelle utilità che rendono l’ organizzazione aziendale maggiormente capace di raggiungere il risultato perseguito. Ora parleremo dei contratti dell’ impresa o di impresa, altrimenti detti contratti dell’ organizzazione per differenziarli dai contratti costitutivi dell’ impresa o contratti di organizzazione (l’ affitto o la soccida ad esempio). Non vi è dubbio sul collegamento economico che sussiste tra i vari atti che l’ imprenditore compie nell’ esercizio della sua impresa, dobbiamo invece chiederci se ricorrono conseguenze giuridiche relativamente alla partecipazione di un imprenditore (anche agricolo) alla stipulazione dei contratti. Il codice civile in merito detta :

a) norme specifiche se parte del contratto è un imprenditore agricolo; b) norme generali quando parte del contratto è un piccolo imprenditore; c) norme generali quando parte del contratto è un imprenditore.

Quello che dobbiamo mettere in evidenza è la circostanza che è vero che tutti i contratti che vengono conclusi per l’ esplicazione dell’ attività imprenditoriale meritano di essere considerati e studiati insieme, perché dal fatto che di essi sia parte un imprenditore derivano specifiche conseguenze giuridiche. CAPITOLO VIII L’ AZIENDA AGRICOLA E LA SUA CIRCOLAZIONE 1. L’ AZIENDA AGRICOLA COME COMPLESSO ORGANIZZATO DI “BENI” Parliamo ora delle differenze tra fondo attrezzato ed azienda. L’ azienda non può confondersi interamente con il fondo rustico. Non può accettarsi la tesi che vi sia in agricoltura una perfetta assimilazione tra fondo rustico ed azienda, tesi sostenuta da Giuseppe Valeri che all’ entrata in vigore del codice del 1942 affermava che “esercitare il diritto di proprietà sul fondo attrezzato equivaleva ad esercitare l’ impresa agricola”. L’affermazione di Valeri è stata per un cinquantennio ripetuta nei nostri manuali. L’azienda agricola è un complesso organizzato di beni, beni in cui rientrano :

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a) cose corporali, di per se idonee allo scambio e alla capacità di essere oggetto del diritto di

proprietà; b) beni immateriali, come le invenzioni, le opere dell’ ingegno e i segni distintivi dell’ azienda e dei

prodotti; c) i “servizi” che circolano e si scambiano sul mercato in forza di un contratto di lavoro o di opera o

che consente al lavoratore di cedere le proprie energie, le proprie capacità, il proprio potere creativo, senza alienare se stesso come uomo;

d) i contratti in quanto elementi concretamente legati all’ esercizio di un’ attività rivolta a realizzare un ulteriore fine economico protetto mediante il diritto sull’ azienda;

e) i diritti di credito come oggetto di un godimento indiretto e mediato attraverso l’ organizzazione costituita per lo svolgimento di un’ attività economica e dunque come beni che divengono tali in quanto e soltanto perché inseriti in una determinata organizzazione funzionale;

f) i privilegi, i contingentamenti, le concessioni, le autorizzazioni, le largess, biens patrimoniaux o new properties, anche essi rilevanti in modo oggettivo perché funzionalmente coordinati all’ esercizio di un’ attività imprenditoriale e goduti in modo mediato attraverso la costituita organizzazione aziendale.

2. LE PROBABILI RAGIONI DELLA SCORRETTA OMOLOGAZIONE FONDO ATTREZZATO-AZIENDA AGRICOLA Abbiamo detto che l’ azienda è l’ organizzazione di vari strumenti per la produzione di utili; nell’azienda commerciale nessuno di questi strumenti è in grado naturalisticamente di produrre beni; i beni (prodotti) si ottengono solo svolgendo l’ attività economica; l’ utile è dato dal ricavo dei beni prodotti dedotte tutte le spese, le spese occorrenti per l’ acquisto delle materie prime, per i contratti di utenza, per le assicurazioni, per i trasporti, il salario spettante agli operai e lo stipendio spettante agi impiegati. Nell’esercizio dell’ attività agricola invece vi è un elemento dell’ organizzazione, la terra, capace per sua natura di produrre frutti, cioè beni che possono essere facilmente scambiati per gli utili. È evidente che i frutti naturali della terra non possono essere considerati utili o redditi, dato che anche essi rappresentano nel conto economico solo le entrate che occorrerà depurare da tutte le spese al fine di avere l’ utile. Il fondo rustico è uno dei tanti beni strumentali che l’ agricoltore organizza per ottenere utili. Dobbiamo vedere se c’è qualche specifico referente normativo capace di segnare in modo inequivocabile, la differenza ontologica tra fondo attrezzato ad azienda agricola, nonché quando sia possibile avvertire il momento del “passaggio” dal fondo attrezzato all’ azienda agricola. Sono gli stessi articoli 817 e 2555 c.c. che danno conto della differenza, e non solo per la diversità delle entità che ricorrono nel complesso pertinenziale (cose intese secondo la loro corporalità), rispetto alle entità che fanno parte dell’ azienda (beni intesi non solo come beni corporali, ma anche come entità incorporali come servizi, contratti, crediti, privilegi), ma anche e soprattutto perché il complesso pertinenziale è creatura del proprietario del fondo rustico, mentre l’ azienda agricola è creatura dell’ imprenditore agricolo che potrebbe non essere proprietario del terreno. Il problema dell’ individuazione del cuore dell’ azienda non è un problema da poco. L’ azienda è il complesso di beni organizzato per l’ esercizio dell’ impresa (art.2555 c.c.), è questo è un complesso dinamico, mentre la destinazione di una cosa al servizio o all’ ornamento di un’ altra (art.817 c.c.) è un qualcosa di statico. La Suprema Corte ritiene che si abbia trasferimento d’azienda quando “ferma restando l’ organizzazione del complesso dei beni destinati all’ esercizio dell’ impresa, si abbia la sostituzione della persona del titolare. 3. L’ AZIENDA COME UNIVERSITAS La tesi dell’ azienda come un unico bene immateriale, rappresentato dall’ idea organizzativa, diversa dai singoli beni ma nucleo centrale e di attrazione di tutti gli elementi organizzati, non trova oggi più consenso nella dottrina italiana.

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La disputa attuale è tra i sostenitori della c.d. teoria atomista, per la quale l’ azienda non sarebbe un unico oggetto unitario, ma solo una pluralità di beni giuridicamente disarticolati, ed i sostenitori della universitas i quali rilevano che le formule degli art.2556, 2561 e 2562 c.c., e quella dell’ art.670 n.1 c.p.c. (sequestro dell’ azienda e delle altre “universalità di beni”) risultano ispirate da esigenze unitarie dal complesso, sicché sostengono che al genere logico dell’ universalità di beni corrispondano nel concreto la specie delle universalità di cose mobili (art.816) e dell’ azienda (art.2555), con la conseguente affinità tra l’ azienda e l’ universalità di cose. Se è vero che nell’ universalità di mobili (art.816) vi è un’ aggregazione di cose (si parla di universitas rerum e universitas facti), mentre l’ azienda è caratterizzata da una profonda eterogeneità dei suoi elementi (beni mobili ed immobili e diritti, ossia univeritas iurium o universitas iuris), la problematica dell’ azienda non può che essere risolta sulla base delle sue specifiche disposizioni normative, che appaiono secondo la dottrina e la giurisprudenza determinare un’ unificazione del complesso aziendale secondo la formula dell’ universalità di beni. Per il giurista romano Pomponio, le res si distinguevano in corpora unita (cose semplici), in corpora ex contingentibus (cose composte), ed in corpora ex distantibus (cose complesse). Nella cosa complessa da una pluralità ontologica di cose si passa ad un’ unitaria considerazione logica, per cui secondo il diritto le varie cose sono considerate una cosa ed un nuovo oggetto e come tale sono regolate. Sul piano economico l’ azienda non è una semplice addizione degli elementi che la compongono, ma è un complesso ed una sintesi di beni organizzati : sicché la destinazione funzionale dei vari beni è ciò che li unifica sul piano dell’ economia. Per il diritto l’ azienda è intesa come un unico nuovo oggetto sotto la specie delle universalità, e questo può evincersi anche da come il legislatore attraverso vari articoli del codice civile (art.2556, 2661, 2562), si riferisce all’ azienda come un quid unitario e non come una somma di singoli elementi. “L’ esserci dell’ azienda” modifica le regole che concernono i singoli beni che la compongono :

a) se i singoli beni circolano senza vincoli di forma, quando sono organizzati in azienda richiedono la prova scritta (art.25561.1 c.c.);

b) se i singoli beni circolano senza bisogno di pubblicità, quando sono organizzati in azienda la richiedono (art.2556.2 c.c.);

c) gli atti di disposizione dei beni organizzati in azienda sono arricchiti dagli effetti del diritto di concorrenza (art.2557 c.c.);

d) la cessione dei crediti dell’ azienda si svolge secondo un paradigma diverso da quello ex art.1264 c.c. (art.2559 c.c.);

e) la cessione dei rapporti di lavoro si verifica in modo automatico in caso di trasferimento dell’ azienda (art.2112 c.c.);

f) la cessione dei contratti dell’ azienda pretende requisiti diversi da quelli richiesti dall’ art.1406 c.c. (art.2558 c.c.).

Possiamo quindi accettare la tesi che riconosce nell’ azienda una universitas. È irrilevante l’ appartenenza dei beni facenti parte del complesso aziendale all’ imprenditore, la forza unificatrice della loro destinazione all’ esercizio dell’ impresa è tale da travalicare il requisito della loro appartenenza in proprietà alla stessa persona. Ciò che ci preme più di tutto, al di là delle varie discussioni in dottrina, è che è sicuro che la titolarità dell’ azienda è riconosciuta all’ imprenditore. 4. L’ AVVIAMENTO L’ elemento coagulante dei beni che costituiscono l’ azienda è dato dall’ organizzazione, ossia dal modo con cui i beni stessi vengono coordinati ed utilizzati per l’ esercizio di attività economica in forma imprenditoriale. L’ organizzazione è dunque un modo di essere di beni aziendali, che si traduce in una maggiore o minore efficienza del complesso, e quindi in maggiori o minori guadagni.

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L’ aspettativa di lucri futuri viene detta “avviamento” e il suo coefficiente è la clientela, ossia l’ insieme di persone che tendenzialmente in modo permanente, domandano i prodotti ed i servizi di quell’ imprenditore. La tesi dominante in dottrina e in giurisprudenza è quella che considera l’ avviamento una qualità dell’ azienda e non uno dei suoi beni. Il primo caso giudiziario in cui si parlò di avviamento risale al 1620, quando davanti ad una corte inglese, si discuteva della legittimità dell’ impegno di un mercante che nel cedere tutta la sua scorta di merci ad un prezzo superiore a quello di inventario, si era obbligato a non fare concorrenza all’ acquirente (in sostanza si discuteva del fatto che l’ acquirente avesse acquistato il diritto di controllare l’offerta di certi beni ad opera della sua controparte, e dunque del diritto di pretendere che l’ordinamento vietasse al venditore dell’ azienda di smerciare ulteriormente quei particolari prodotti, in poche parole il cedente si astiene dallo svolgere in futuro la stessa attività già esercitata, ceduta con l’ azienda). Nella pratica degli affari viene riconosciuto al complesso organizzato un valore economico più alto della somma dei valori dei singoli beni, questo sovrapprezzo è imputato all’ avviamento, che l’ art.2426.1, n.6, c.c., permette di iscriverlo nell’ attivo di bilancio qualora sia stato acquistato a titolo oneroso, e ciò obbligherebbe a considerarlo necessariamente come un bene aziendale, conclusione questa che non trova molti consensi in dottrina. Definito come qualità dell’ azienda, l’ avviamento dipende :

a) dall’ ubicazione o avviamento di posizione; b) dall’ organizzazione oggettivamente intesa (ad es. qualità degli impianti, competenza dei

dipendenti); c) dalla capacità e dal prestigio dell’ imprenditore, o avviamento soggettivo.

Ma poiché tutto dipende dall’imprenditore (anche la scelta del luogo dove impiantare l’ azienda e la scelta dei dipendenti), l’ avviamento esprime la capacità del soggetto di avere successo negli affari : il sovrapprezzo dell’ avviamento altro non è che la saggezza dell’ imprenditore nello scegliere e nel coordinare i vari elementi che occorrono per vincere la gara per l’ acquisizione del mercato. Parlando di avviamento in agricoltura, esso veniva ricollegato alla qualità della terra, cui si faceva discendere la capacità di profitto dell’ agricoltore. Il successo dell’ agricoltore si faceva dipendere in maniera esclusiva da fattori intimamente connessi al suolo, e quindi dalla posizione geografica, dal clima, dall’ altitudine e dalla natura geologica del terreno che incidono sulla fertilità. Ma dobbiamo precisare che, se l’ avviamento altro non è che la capacità di profitto dell’ azienda, va detto che la probabilità di guadagno dell’ agricoltore non dipende solo dal fatto che ha impiantato l’azienda su un terreno fertile , ma anche dal fatto che egli ha introdotto coltivazioni adatte, eseguito specifici miglioramenti, adottato rotazioni convenienti, scelto dipendenti capaci ed efficienti, procurato ai propri prodotti rilevanti sbocchi sul mercato, attratto la clientela con marchi individuali e marchi collettivi di prestigio, nonché con attestati di biologicità o di qualità. Negare tutto questo sarebbe negare la realtà. Una monetizzazione della perdita della propria organizzazione aziendale viene riconosciuta all’ agricoltore in due determinate situazioni :

a) in caso di esproprio del fondo, l’ agricoltore agricolo (tanto se proprietario, quanto se affittuario), ha diritto ad un’ indennità aggiuntiva pari a quella del valore agricolo del terreno;

b) in caso di “risoluzione incolpevole” del contratto, l’ affittuario tanto se coltivatore diretto, quanto se conduttore capitalista, ha diritto ad un equo indennizzo.

Possiamo serenamente affermare che l’ indennità aggiuntiva e l’ equo indennizzo altro non sono che il corrispettivo per la “disintegrazione” dell’ azienda agricola, ossia per la perdita di quel particolare modo con cui l’ agricoltore aveva organizzato, su quel terreno, la sua attività imprenditoriale.

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Alla luce di tutte queste informazioni possiamo dire che anche in agricoltura si può parlare di avviamento come qualità dell’ azienda, se è vero che vi sono ipotesi in cui è previsto il diritto dell’ agricoltore ad essere indennizzato dalla “perdita” della sua organizzazione. 5. LA CESSIONE DELL’ AZIENDA E L’ ART.2557 C.C. Parliamo ora della cessione dell’ azienda. Due sono le considerazioni preliminari da farsi: innanzitutto nell’ ipotesi di trasferimento dell’ azienda (per compravendita, per usufrutto, per affitto), il cessionario aspira all’ intero potenziale economico espresso dall’ organizzazione aziendale, e dunque anche alla clientela; in secondo luogo, tra i possibili concorrenti del cessionario è il cedente quello che riveste la posizione più temibile e pericolosa, non solo perché egli conosce i punti deboli dell’ azienda ceduta, ma anche perché per lui è facile “recuperare” la vecchia clientela. Ne consegue che se alla cessione dell’azienda non fosse imposto al cedente un divieto di concorrenza, si vanificherebbero le aspettative dell’ acquirente. Ecco perché nella prima formula dell’ art.2557 c.c., il divieto di concorrenza a carico dell’ imprenditore che cedeva la sua azienda, era considerato quale effetto naturale del negozio traslativo in attuazione del principio di esecuzione del contratto secondo buona fede. La particolarità dell’ art.2557 c.c. che a noi interessa non è data tanto dal fatto che l’ alienante deve astenersi per cinque anni dall’ iniziare una nuova impresa, che per oggetto, ubicazione o altre circostanze, sia idonea a sviare la clientela dell’ azienda ceduta, quanto invece dal fatto che il legislatore parla esplicitamente di “azienda agricola” e che detta una specifica disciplina per la sua cessione. Più precisamente il 5° comma dell’ art.2557 c.c. stabilisce che il divieto di concorrenza è imposto al cedente solo nell’ ipotesi in cui siano svolte attività connesse e quando rispetto ad esse sia possibile lo sviamento della clientela In altre parole, il principio temporaneo di concorrenza in caso di cessione dell’ azienda (regola) non vale nell’ ipotesi di cessione dell’ azienda agricola (eccezione), ma torna a valere quando si tratti di cessione di azienda agricola organizzata anche per l’ esercizio di attività connesse. Come sappiamo l’ attività dell’ imprenditore agricolo si conclude con la vendita dei prodotti : sicché l’ art.2557.5 c.c. ha per riferimento la cessione dell’ azienda agricola a cui l’ imprenditore ha “impresso” l’esercizio delle attività di manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione dei prodotti, nonché la fornitura dei servizi, l’ esercizio di attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, e l’ esercizio di ricezione ed ospitalità di tipo turistico. È necessario tener presente anche l’altra regola contenuta nell’ art.2557 c.c., ossia la disposizione che consente alle parti di negoziare un patto di astensione della concorrenza ma che ne sancisce la validità solo nei limiti di durata di cinque anni e purché “non impedisca ogni attività professionale dell’ alienante”. Possiamo poi aggiungere un ulteriore considerazione per spiegare la ratio dell’ art.2557.5 c.c. ossia la constatazione che qualora il cedente volesse continuare a fare l’ agricoltore, non ha la possibilità di costituire ex novo un’ azienda, potendo solo insediarsi su un’ altra azienda agricola già esistente, migliorandone, se ne è capace, l’ organizzazione. Quindi qualora voglia, o non sappia fare altro, l’agricoltore cedente, può impiantare un’ azienda su un altro fondo rustico, purché essa sia limitata ad attività essenzialmente agricole come la coltivazione, la silvicoltura e l’ allevamento, senza estendersi per cinque anni alle attività connesse in precedenza esercitate nell’azienda ceduta. 6. LA CESSIONE DELL’ AZIENDA ED IL SUBENTRO DEL CESSIONARIO NEI CONTRATTI DELL’ IMPRESA L’aspetto caratteristico dell’ azienda (come complesso di beni organizzati), impone che non si possa parlare di cessione dell’ azienda se non trapassino nel cessionario tutti i valori economici che la fanno più o meno grande.

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La cessione dell’ azienda implica dunque la cessione dei beni essenziali che se nel settore industriale possono essere rappresentati dal semplice know-how o da una ricetta segreta, nel settore agricolo non possono che essere la terra, il bosco o il bestiame. Come abbiamo già detto però, l’ azienda è composta da una pluralità di beni che possono appartenere all’ imprenditore anche a titolo diverso dalla proprietà. Anzi si è precisato che i beni aziendali non sono solo cose corporali, ma anche beni immateriali, servizi, diritti di credito, contratti, concessioni ed autorizzazioni amministrative : sicché il titolare dell’ azione gode dei beni che la compongono in forza di distinti diritti di godimento reale e personale in virtù di contratti stipulati con terzi o di privilegi concessegli dalla pubblica amministrazione. Orbene, se l’acquirente dell’ azienda deve acquisire l’ intero potenziale economico di questa, occorre che con l’ unico negozio di trasferimento dell’ azienda (art.2556 c.c.) avvenga la circolazione dei diritti sui beni corporali ed immateriali e delle posizioni giuridiche attive e passive correlate ai contratti ed alle autorizzazioni o concessioni amministrative che la compongono. È per questo che il codice disciplina in caso di cessione dell’ azienda, la circolazione dei contratti (art.2558 c.c.), dei crediti (art.2559 c.c.) e dei debiti aziendali (art.2560 c.c.), nonché dei contratti di consorzio (art.2610 c.c.) e di quelli di lavoro (art.2112 c.c.), di mezzadria e di colonia parziaria (art.2160 c.c.), derogando alle norme ordinarie di circolazione dei contratti, dei crediti e dei debiti. Per ciò che riguarda la disciplina della circolazione dei contratti conclusi dall’imprenditore alienante, essa è sostanzialmente identica in tutte le ipotesi : l’ acquirente subentra nel contratto, salvo la possibilità del contraente ceduto di recedere dallo stesso, entro uno (art.2610 e 2160 c.c.) o tre mesi (art.2558 c.c.) dalla notizia del trasferimento, qualora sussista una giusta casa nei casi disciplinati dagli art.2558 e 2610, o per mera sua volontà contraria nel caso di contratto di lavoro o di contratto agrario associativo (art.2160 c.c.). Peraltro al di là degli specifici casi di circolazione dei contratti di consorzio, di lavoro e di associazione agraria, nonché dei contratti di coltivazione, allevamento e fornitura, il legislatore detta nell’ art.2558 c.c., la disciplina generale del subentro da parte dell’ acquirente dell’ azienda, nei contratti stipulati dall’ imprenditore alienante, stabilendo che “se non è pattuito diversamente, l’ acquirente dell’ azienda subentra nei contratti stipulati per l’ esercizio dell’ azienda stessa che non abbiano carattere personale”. Vanno fatte allora tre considerazioni :

a) il subentro nella posizione attiva e passiva di contraente avviene ex lege quale effetto automatico del contratto di trasferimento dell’ azienda;

b) la possibilità di escludere volontariamente e pattiziamente dal trasferimento dell’ azienda, alcuni contratti è necessariamente limitata ai c.d. contratti dell’ impresa, ovverosia quei contratti che l’ imprenditore stipula per l’ esercizio della sua attività, dovendosi nettamente distinguere i contratti con i quali sono stati acquisiti i beni essenziali per la stessa esistenza dell’ azienda;

c) è necessario che i contratti non abbiano carattere personale, ovverosia che non siano caratterizzati dall’ intuitus personae, cioè dalla natura soggettivamente infungibile della prestazione che per sua natura o per disciplina legale non è ne trasmissibile mortis causa, ne cedibile inter vivos.

Quindi se la cessione dell’ azienda implica necessariamente il trasferimento dei beni essenziali (mentre potrebbero non essere trasferiti quelli non essenziali, come ad esempio la ditta ed il marchio individuale), la cessione dell’ azienda agricola importa che il cessionario acquisti sulla terra e sul bosco lo stesso diritto che il cedente su tali beni essenziali aveva. Nessun problema sorge quando l’imprenditore agricolo è proprietario della terra o del bosco. Il problema invece si pone se l’imprenditore agricolo è titolare del diritto di godimento della terra in forza di un contratto di affitto. Posto che la terra è bene fondamentale dall’azienda agricola, se il titolare dell’azienda non fosse in grado di far subentrare l’ acquirente nel contratto di affitto del fondo rustico e dunque si limitasse a trasferirgli solo gli altri beni (ad es. trattori, macchine, tini…) non si avrebbe cessione di azienda perché l’ acquirente non potrebbero esercitare la stessa attività del cedente.

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7. SEGUE : LE CESSIONE DELL’ AZIENDA COSTITUITA SU TERRENO ALTRUI; IL PROBLEMA DELLA CESSIONE DELL’ AFFITTO Ora parleremo della cessione del contratto di affitto di fondo rustico. Nel 1942 il legislatore aveva attribuito all’affitto le caratteristiche di contratto intuitu personae, dipendendo la sostituzione di altri all’affittuario sempre dal consenso del locatore. Punto di partenza di questa disciplina è l’art.21 della legge 3 maggio 1982 n.203, il quale vieta “i contratti di subaffitto, di sublocazione e comunque di sub concessione dei fondi rustici”, tralasciando di inserire nel divieto la cessione dell’ affitto. L’omissione della fattispecie “cessione dell’ affitto” nella formula dell’ art.21, l.203/1982, è stata volutamente disposta dal legislatore. In altre parole oggi e in via generale, la cessione del contratto di affitto di fondi rustici non è vietata e la sua disciplina è rimessa alle regole ordinarie del codice, ovverosia gli art.1406 e 1594 c.c. che richiedono il consenso del ceduto. L’ art.48, ultimo comma della l.203/1982 prevede la possibilità per l’ affittuario, in assenza di famiglia coltivatrice, di cedere, senza il consenso del locatore, il proprio contratto ai familiari che lo coadiuvano e che esercitano attività agricola a titolo principale. Inoltre l’ affittuario che abbia effettuato miglioramenti, ha la potestà di cedere, senza necessariamente il consenso del locatore, il contratto ai familiari ancorché non coadiuvanti ne agricoltori a titolo principale. Possiamo dire quindi che oggi è venuta meno la natura personale della prestazione, la cui fungibilità/infungibilità non dipende dalla volontà del locatore, ma (ovviamente in determinate situazioni come quelle descritte sopra) dalla volontà dell’ affittuario, senza che nelle suddette ipotesi il locatore possa nemmeno esprimere una volontà di recesso. Può dirsi quindi che il contratto di affitto di fondo rustico :

a) non è un contratto di cui si possa convenire la non-cessione; b) non è legalmente disciplinato in modo che ne sia vietata la cessione; c) non è caratterizzato dall’ intuitu personae che ne impedisce la cessione.

Può concludersi che quando è l’ affittuario di fondo rustico ad organizzare , sul terreno altrui, la sua azienda, egli la può cedere, appunto perché nel contratto di affitto della terra subentra automaticamente, ex art.2558 c.c., l’ acquirente, con la sola possibilità per il locatore del fondo, contraente ceduto, di recedere, entro tre mesi, dal contratto di affitto qualora però sussista una giusta causa. È inoltre ammissibile trarre un’ulteriore conclusione : il nostro ordinamento rende possibile la circolazione di tutte le aziende agricole e non solo di quelle gestite da imprenditori che siano anche proprietari del fondo rustico su cui esse sono esercitate. Così la dottrina riconosce che anche l’ affittuario di fondi rustici, cui è consentito cedere la sua azienda, possa capitalizzare il frutto del suo lavoro e della sua capacità professionale, trasformando in valore di scambio il proprio successo negli affari. 8. LA SUCESSIONE NEL COMPENDIO UNICO E NELL’ AZIENDA FAMILIARE COLTIVATRICE L’ azienda come complesso di beni organizzati per l’ esercizio dell’ impresa pretende di essere conservata, passando indenne attraverso le vicissitudini che riguardano la persona dell’ imprenditore. Ora parleremo del fenomeno successorio per ciò che riguarda l’ azienda agricola e non solo la proprietà del fondo rustico. Nello specifico parliamo degli istituti del compendio unico e della successione anomala. Iniziamo dal compendio unico. Questo istituto è diretto a tutelare l’integrità fondiaria dei terreni costituiti in compendio unico, perché ne è stabilità la decennale indivisibilità per atti inter vivos e mortis causa. La suddetta indivisibilità reagisce anche con riguardo all’integrità aziendale nel caso di successione, perché impone che il compendio che necessariamente è stato organizzato in azienda agricola, passi tutto intero all’ erede che ne chiede l’ attribuzione preferenziale.

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Se nessuno degli eredi chiede l’ attribuzione preferenziale, è disposta la revoca degli aiuti comunitari e nazionali e delle quote di produzione che erano stati assegnati all’ imprenditore defunto per i terreni oggetto della successione. In questo modo gli eredi vengono sollecitati a continuare nell’ esercizio dell’ azienda del de cuius. Quanto alla successione anomala, da collegarsi al disposto dell’ art.230 bis c.c. sull’ ereditarietà dell’ impresa familiare, con lo scopo di evitare lo smembramento dei fattori produttivi allorché il titolare o uno dei suoi titolari muoia, occorre fare due premesse. Prima premessa: in caso di morte, i diritti che il defunto vantava sull’ azienda e sui singoli beni aziendali trapassano ai suoi eredi, i quali possono già essere membri dell’ impresa familiare o possono esserle estranei. Qualora tali eredi non intendano continuare l’ attività economica intrapresa o non possano assumerla, e dunque non vogliano divenire membri partecipi dell’ impresa familiare, e si proceda alla divisione ereditaria, alla quale concorrono tutti od alcuni dei partecipanti originari dell’ impresa familiare, ecco che la legge preferisce costoro nell’ assegnazione dell’ azienda, essi “hanno diritto di prelazione sull’ azienda”. Seconda premessa: l’affitto forzoso delle quote dei coeredi del quale è titolare ex lege l’ erede preferito, è possibile in quanto quest’ ultimo coltivava o conduceva il fondo assieme al defunto proprietario dello stesso. In altre parole, per il fatto della coltivazione o della conduzione in comune, tra il de cuius ed il familiare (che poi sarà preferito dal legislatore) si era instaurata un’ impresa familiare, e dunque si era formata un’ azienda. Per ciò al momento della morte dell’ originario proprietario del fondo rustico, cadono in successione tanto la terra quanto la quota parte dei beni aziendali che a lui personalmente appartenevano. Ne deriva che il prezzo del conguaglio non sarà rapportato al valore di tutta l’ azienda, ma solo a quello dei beni che erano del de cuius. In questi casi ai familiari già collaboratori del defunto, è riconosciuto il diritto di continuare l’ attività agricola, servendosi dell’ azienda familiare, questo in via transitoria. Quando poi i coeredi chiedano la divisione l’ art.230 bis c.c. assicura la conservazione dell’ unità aziendale riconoscendo il diritto di prelazione agli eredi partecipi, i quali però sono tenuti al pagamento dell’ eventuale conguaglio a favore dei coeredi non preferiti. 9. LA SUCCESSIONE NELL’ AZIENDA COSTITUITA SU TERRENO ALTRUI : LA SUCCESSIONE NEL CONTRATTO D’ AFFITTO Ogni volta che un imprenditore organizza un complesso di beni per l’ esercizio di un’ attività economica si ha un’ azienda. Pertanto è un’ azienda agricola quella che l’ affittuario di un fondo rustico organizza attorno al terreno preso in affitto. Il fondo rustico è nella composizione dell’ azienda agricola, l’ elemento fondamentale e caratterizzante, sicché senza di esso, non è possibile pensare all’ esercizio imprenditoriale della coltivazione del campo o della selva. Orbene la vicenda circolatoria mortis causa del contratto di affitto è così disciplinata : in caso di morte dell’ affittuario il contratto non si scioglie ma continua, qualora “tra gli eredi vi sia persona che abbia esercitato e continui ad esercitare attività agricola in qualità di coltivatore diretto o di imprenditore a titolo principale” o meglio di imprenditore agricolo professionale. Dobbiamo ora analizzare nello specifico quando l’ erede è un coltivatore diretto. In tal caso sorge un problema, per il quale in presenza di impresa familiare coltivatrice, il rapporto di affitto continua in caso di morte o di dimissioni di familiari, purché il familiare rimasto sia capace di soddisfare un terzo delle esigenze lavorative del fondo affittato. Vi è un conflitto tra la regola che riguarda il subentro dell’ erede nel contratto d’ affitto, e quella che disciplina la continuazione del rapporto di affitto in caso di morte di coloro che fanno parte della famiglia coltivatrice.

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La necessità di escludere la concorrenza fra queste due regole impone di ritenere :

a) che quando l’ erede coltivatore diretto faceva già parte della famiglia coltivatrice, non si ha successione nel contratto d’ affitto ma continuazione del rapporto agrario;

b) che quando non esisteva impresa familiare coltivatrice e tranne nell’ ipotesi in cui il familiare fosse vincolato da un contratto di lavoro con l’ affittuario, l’ erede successore nel contratto d’affitto debba svolgere la sua attività agricola, come coltivatore diretto o imprenditore agricolo professionale, su un fondo diverso da quello oggetto del contratto caduto in successione;

c) che il fatto che il successore sia individuato come “erede” qualifichi il subentro nel contratto d’affitto giuridicamente sì come successione a causa di morte, ma come ipotesi di successione a titolo particolare peraltro anomala, dato che il subentro si verifica in capo al successore “idoneo”, senza necessità di una sua accettazione, salva naturalmente la facoltà di rinuncia.

Il fatto che esistano della regole che attribuiscono il diritto di succedere in via preferenziale fa si che non operi più il principio di eguaglianza fra gli eredi, e che non abbia spazio di operatività il principio dell’intuitu personae che un tempo caratterizzava il contratto d’ affitto. In virtù dell’ art.1627 c.c. in caso di morte dell’ affittuario tutti gli eredi succedono nel contratto con possibilità del locatore di recedere entro tre mesi dalla morte della controparte mediante disdetta da comunicarsi con un preavviso di sei mesi. 10. L’ AFFITTO DI AZIENDA AGRICOLA Ma se l’ azienda agricola è ontologicamente diversa dal fondo attrezzato, è possibile pensare ad un affitto di azienda agricola (art.2562 c.c.) e come tale ad un contratto che sfugga alla legislazione speciale che ha per oggetto l’ affitto di fondi rustici? La dottrina è divisa. Occorre ricordare che tutta l’evoluzione normativa è nel senso della riduzione dei contratti agrari nell’ unico tipo legale dell’ affitto. Partendo da questo dato storicamente certo, passiamo alla lettura combinata degli art. 58, 45 e 27 della l.203/1982. Si rileva che l’ art.58 afferma il principio di inderogabilità della legislazione speciale : sicché in caso di clausole pattizie difformi da quanto disposto dalla legge, ci sarà la loro sostituzione di diritto con le clausole fissate dalla legge, e ciò in virtù delle regole degli art.1339, 1418.1, 1419 c.c. Tale principio può essere eluso qualora le parti contraenti vengano assistite dalle associazioni sindacali ai sensi dell’ art.45 (autonomia negoziale assistita) in quanto il contratto che possono stipulare non può che essere diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela (art.1322.2 c.c.). L’ autore del libro è d’ accordo con quella dottrina seconda la quale la libertà negoziale, è anche quella di poter modificare la “clausole” legali dell’ unico contratto agrario (avente ad oggetto la concessione di fondi rustici) oggi ammesso dall’ ordinamento, quello di affitto appunto. Analizziamo l’ ultimo articolo citato prima, l’ art.27, secondo cui il contratto di affitto di fondo rustico è il contratto agrario che ha per oggetto la concessione di un fondo rustico, o tra le cui prestazioni vi sia il conferimento di un fondo. Nell’affitto d’azienda però, il bene oggetto del contratto, non è il fondo rustico, ma un complesso organizzato di beni costituenti per il diritto una universitas : sicché quando si discute di contratti agrari aventi ad oggetto la concessione del fondo si parla di altra cosa, di un qualcosa di estremamente diverso dal contratto il cui oggetto è la concessione di un’ azienda. 11. L’ ESPROPRIO DEL FONDO RUSTICO E L’ INDENNIZZO DELLA PERDITA DELL’ AZIENDA Il rilievo dell’azienda agricola come diversa dal fondo rustico è evidente quando si esamina la disciplina dell’ espropriazione per pubblica utilità. L’indennità spetta a coloro che hanno la proprietà dei terreni soggetti ad espropriazione perché al loro valore essa è commisurata.

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Quando l’immobile è locato od affittato, il terzo non ha azione diretta nei confronti dell’ espropriante, ma esclusivamente nei riguardi dell’ espropriato al quale è attribuito il ristoro delle utilità derivanti dalla cosa e perciò anche di quelle che, per diritto personale, sono invece di spettanza di terzi : e si parla di indennità unica. L’unicità dell’indennizzo è stata “spezzata” in una parte risarcitoria del valore del terreno ed in altra parte risanatoria dell’ attività di coltivazione, che a seguito dell’ esproprio, viene dismessa : al proprietario coltivatore diretto o imprenditore agricolo professionale spetta infatti un’ indennità aggiuntiva di ammontare pari all’indennità di esproprio, indennità che è uguale al valore agricolo corrispondente al tipo di coltura effettivamente praticato. Altro aspetto rilevante è dato dal fatto che ove esista contratto agrario, le indennità vengono percepite separatamente dal proprietario del terreno e dall’affittuario che coltivi il fondo da almeno un anno. Inoltre, in caso di cessione volontaria del terreno, è prevista a favore del proprietario del fondo rustico, un’ ulteriore indennità aggiuntiva che porta a triplicare l’ indennità-base in caso di terreno effettivamente coltivato, mentre è pari al 50% dell’ indennità-base per le aree non edificabili. Messo in evidenza che l’ indennità aggiuntiva è dovuta al coltivatore (proprietario od affittuario che sia), la ratio della normativa va individuata nell’esigenza di assicurare un equo ristoro del lavoro dell’ agricoltore esercitante la sua attività sul terreno espropriato, ovverosia della sua perduta organizzazione aziendale. Alla medesima conclusione si perviene anche qualora l’ablazione ( processo di rimozione) derivi dalla costruzione di un’ opera pubblica che abbia prodotto l’ irreversibile trasformazione del fondo e renda quindi definitivamente impossibile il godimento in forma agricola del terreno. 12. L’ ESECUZIONE DELLA SENTENZA NON DEFINITIVA DI SFRATTO DAL FONDO RUSTICO E LA TUTELA DELL’ INTEGRITA' DELL’ AZIENDA AGRICOLA Nel nostro sistema c’è un’ altra specifica disposizione diretta ad evitare che, in pendenza di riesame giurisdizionale della controversia, si proceda alla disintegrazione dell’ azienda dell’ affittuario tanto se questi è agricoltore diretto, quanto se è conduttore. Ai sensi dell’ art.373 c.p.c. costituisce “grave ed irreparabile danno l’ esecuzione della sentenza che privi il concessionario di un fondo rustico del principale mezzo di sostentamento suo o della sua famiglia, o possa risultare fonte di serio pericolo per l’ integrità economica dell’azienda o per l’ allevamento di animali”. Il legislatore ha individuato due distinte ipotesi di grave ed irreparabile danno, in presenza delle quali può essere concessa la sospensione dell’ esecuzione della sentenza non definitiva di sfratto. La prima di queste ipotesi prende in considerazione l’idoneità del fondo rustico a soddisfare i bisogni alimentari dell’ affittuario, e quindi eleva la terra a mezzo di sostentamento e solo perché tale, considera irreparabile e grave la perdita del fondo rustico da parte di colui che da esso trae di vivere. La seconda (che è quella che vogliamo mettere in evidenza), si preoccupa dell’azienda agricola in relazione al suo essere ed alla sua integrità, che verrebbe meno con la sottrazione del fondo rustico , cioè di uno dei suoi elementi, senza possibilità alcuna di ricostituzione (ed ecco l’ irreparabilità del danno) qualora un successivo giudice riformasse la sentenza di escomio. Con riguardo a questa seconda ipotesi possiamo dire che il legislatore ha espresso un giudizio di irreversibilità del danno patrimoniale dell’ esecutando, nel senso che la perdita del fondo è capace di mettere in serio pericolo l’ integrità economica del complesso aziendale da lui organizzato. Una simile evenienza di regola si verifica ogni volta che si tratti di un’ impresa di coltivazione del campo o della selva, dato che in tale caso la sottrazione del fondo dal complesso dei fattori produttivi organizzati dall’ agricoltore si traduce necessariamente nella disintegrazione dell’ azienda agricola per l’ avvenuta perdita del suo bene fondamentale ed essenziale.

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CAPITOLO IX AMBIENTE, TERRITORIO, MERCATO 1. PREMESSA In questo capitolo parleremo di come si raccorda l’ agricoltura con l’ ambiente, di come si pone l’ impresa agricola nel territorio rurale e di come si proietta l’ impresa agricola nel mercato. 2. LA NOZIONE DI AMBIENTE Diamo ora una definizione del termine ambiente. Nell’accezione comune di ambiente rientrano entità come l’ aria, l’ acqua, la flora, la fauna, il suolo, le bellezze naturali, oggetto di diverse tutele giuridiche. L’ambiente soddisfa un interesse ulteriore, ossia la qualità della vita, garantendo appunto, dignità e benessere quali diritti fondamentali dell’ uomo. La dottrina si divide tra coloro che ritengono che l’ espressione “ambiente” sia soltanto un medium linguistico attraverso il quale si opera il rinvio ai singoli beni che godono di specifiche tutele contro i fatti di inquinamento, chi invece intende l’ ambiente come un valore-obiettivo dell’ azione dei pubblici poteri, e chi lo intende come una nuova res capace di essere oggetto di autonomo di diritti, ovvero esso stesso come bene giuridico. Certamente come bene giuridico lo hanno inteso la Corte di Cassazione e la Corte dei Conti ricorrendo agli art.9 e 32 Cost. che tutelano il paesaggio e la salute. Secondo la Corte Costituzionale l’ ambiente è “un bene immateriale unitario sebbene formato da vari componenti, ciascuno dei quali può costituire isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutela, ma tutti nell’insieme riconducibili ad un’ unità”. L’ ambiente appartiene alla categoria dei c.d. beni liberi e come tale è fruibile dalla collettività e dai singoli. La maggioranza della dottrina italiana ritiene che l’ ambiente rappresenti un valore, sia come obbiettivo dell’ azione delle pubbliche autorità, sia come dovere di solidarietà per tutti gli appartenenti all’ordinamento. Il nuovo art.117.2 Cost. ha indicato la “tutela dell’ ambiente” e la “tutela dell’ ecosistema” tra le materie di competenza esclusiva dello Stato. 3. LA NORMATIVA COMUNITARIA SULLA TUTELA DELL’ AMBIENTE TRA STATO E REGIONI Il diritto comunitario non si preoccupa di identificare l’ ambiente in un bene giuridico nuovo, quello che sicuramente ha fatto è stato inserire la salvaguardia dell’ ambiente ed il riconoscimento dell’ inscindibilità del rapporto ambiente-agricoltura tra le fonti primarie della Comunità, e dunque tra le finalità della politica agricola comune. Punto di riferimento è stato l’Atto Unico Europeo del 1987, cui hanno fatto seguito il Trattato di Maastricht del 1992 ed il Trattato di Amsterdam del 1999. Dalle disposizioni base dell’Unione e della Comunità europea si ricavano due principi, tra loro fortemente complementari: il primo è che nell’attuazione delle politiche comunitarie occorre perseguire l’obiettivo di “uno sviluppo armonioso, equilibrato sostenibile delle attività economiche”, il secondo è che occorre puntare ad “un elevato livello di protezione dell’ ambiente” ed il miglioramento delle sue qualità. Va inoltre evidenziato che la tutela dell’’ ambiente non rientra tra le materie di competenza esclusiva della Comunità, anzi per il principio della sussidiarietà, la Comunità interviene solo quando gli obiettivi da perseguire non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri, o possono essere meglio realizzati a livello comunitario.

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Inoltre dobbiamo dire che la disciplina comunitaria in materia ambientale ruota intorno a tre principi :

a) quello di precauzione, e quindi dell’ azione preventiva; b) quello della correzione dei danni, intervenendo prioritariamente sulla fonte di essi; c) quello della responsabilità del risarcimento che grava su chi ha inquinato.

Nella relazione del 24 gennaio 2001 della Commissione dal titolo “Ambiente 2010 : il nostro futuro, la nostra scelta”, si riconosce che un ambiente sano è essenziale per la prosperità e per la qualità della vita; che occorre riuscire a sganciare l’impatto ed il degrado ambientale dalla crescita economica e che è necessario che le attività economiche (tra cui l’ agricoltura), operino in modo ecologicamente efficiente, ovvero producendo la stessa o una maggiore quantità di prodotti ma con un minor consumo di risorse ed una minore produzione di rifiuti. L’Atto Unico Europeo, ha attribuito alla Comunità il potere di intervenire in materia ambientale, e la politica ambientale è così diventata una delle politiche della Comunità. Importante in merito è il regolamento 1094/88 che pone tra i suoi obiettivi, quello di ridurre drasticamente le superfici coltivate per ottenere il calo delle produzioni, e quello di migliorare l’ ambiente grazie sia al ritorno della flora spontanea nei campi messi a riposo, sia al minor uso di tecniche e di sussidi chimici dannosi. Il regolamento 2087/92 invece ha concesso degli aiuti agli agricoltori che hanno escluso dalla loro attività di coltivazione l’ uso di prodotti chimici di sintesi e che hanno promosso l’ agricoltura biologica, volta a offrire prodotti più naturali e tendenzialmente più sani. Con il nuovo art.117 Cost. sono sorti dei problemi, soprattutto se si considera che ancora la Corte Costituzionale sostiene che spetta allo Stato garantire il sistema ecologico nel suo complesso ed imporre una tutela uniforme dell’ambiente e dell’ ecosistema che deve essere rispettata nell’ intero territorio nazionale, ivi compreso quello delle Regioni a statuto speciale. Probabilmente la via d’ uscita sarà la partecipazione delle Regioni, nelle materie di loro competenza, alla “fase ascendente” della formulazione delle norme comunitarie, ma è certo che occorrerà una leale collaborazione tra lo Stato e le Regioni che sono competenti in vie esclusiva sulla materia agricoltura (art.117.4 Cost.), in via concorrente sulle materie di governo del territorio, della valorizzazione dei beni ambientali e della tutela della salute (art.117.3 Cost.) e che non hanno competenza alcuna nella materia statale della tutela dell’ ambiente (art.117.2 Cost.). Le Regioni dunque possono adottare nell’ ambito delle proprie competenze, una disciplina maggiormente rigorosa rispetto ai limiti fissati dal legislatore statale, quando essa è diretta ad assicurare un più elevato livello di garanzie per le popolazioni ed i territori interessati. Non si può fare a meno di ricordare che nel diritto comunitario è possibile rintracciare disposizioni normative che attribuiscono agli Stati membri la facoltà di derogare alle disposizioni comunitarie di armonizzazione e se è il caso, di aggravare i limiti imposti per la tutela della salubrità dell’ aria o della purezza delle acque. Vi sono poi diversi accordi come il Trattato di Marrakech o la Carta di Barcellona in cui troviamo diverse regole e principi circa la tutela dell’ ambiente e della salute. 4. L’ AMBIENTE E L’ AGRICOLTURA. LA TUTELA DEL SUOLO DALL’ INQUINAMENTO DI FONTE AGRICOLA Come altre attività produttive, anche l’ agricoltura produce esternalità negative. In altre parole l’esercizio di attività industriali ed agricole può produrre inquinamento. Anche in agricoltura si produce inquinamento : innanzitutto in danno del fondo rustico, e poi in danno delle acque, e ciò per l’ uso intensivo di concimi chimici, fitofarmaci e fanghi di depurazione; per la deiezione degli animali allevati a causa della percolazione dei liquami o della pratica della fertirrigazione; per lo smaltimento dei rifiuti della attività di trasformazione dei prodotti agricoli. Tuttavia esistono delle notevoli differenze fra industria ed agricoltura : infatti l’ agricoltore, diversamente dall’ industriale, deve fare i conti con l’ abuso di fertilizzanti e fitofarmaci che producono la deumidificazione del suolo e la desertificazione, annullando così qualsiasi vantaggio di produzione e creando dei danni all’ azienda stessa.

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Il fondo rustico, destinato a produrre ricchezza nell’interesse (anche) della collettività, deve essere coltivato (art.41 e 44 Cost.); ovvero non può esserci un terreno, definito dal piano pubblico di assetto territoriale come “verde agricolo”, che rimanga incolto. Il grado di intensità della coltivazione passa dalla coltura estensiva alla coltura intensiva, dipendendo dalla quantità minore o maggiore dei mezzi di produzione (capitali e lavoro) impiegati sull’ unità di terra nuda. Il sistema comunitario dei prezzi d’ intervento, che garantisce agli agricoltori la riscossione di un prezzo per tutta la produzione ritirata dagli organismi a ciò preposti, ha spinto per lungo tempo gli agricoltori a coltivare intensamente i propri fondi al fine di produrre quei prodotti agricoli assistiti dall’ intervento. Ne è conseguito un forte utilizzo di concimi chimici ed un conseguente abbandono della concimazione naturale, un forte utilizzo di insetticidi, erbicidi e fitofarmaci, volti a garantire le produzioni dalle malattie. Il problema dell’ aumento della produzione è dunque combinato con quello dell’ inquinamento delle falde acquifere , che si sono caricate di sostanze velenose come pesticidi e fertilizzanti; con la deumidificazione e conseguente desertificazione del terreno. La superproduzione agricola crea dunque danni al paesaggio agrario, alla biodiversità ed alla salute umana. La Comunità, con la sua politica agricola comune (PAC), ha favorito attraverso sostegni finanziari, il congelamento delle terre, ed ha effettuato interventi ecologicamente importanti, volti a far si che a titolo di compenso, gli agricoltori utilizzassero “buone pratiche agricole” e sistemi di produzione agricola sostenibili, volti a tutelare l’ ambiente, il paesaggio, le risorse naturali, il suolo, la diversità genetica, ovvero a promuovere le c.d. “misure agro-ambientali”. La PAC dunque mira ad una riduzione della produzione e ad un decremento dell’ uso di pesticidi e fertilizzanti, a vantaggio non solo delle finanze dalla Comunità, ma anche e soprattutto dell’ ambiente. Così la PAC si pone in sintonia con la Dichiarazione di Rio de Janeiro del 1992 riguardante l’ ambiente e lo sviluppo, per la quale occorre perseguire uno “sviluppo sostenibile”, cioè attraverso tecniche agricole compatibili con il razionale uso della terra, in modo da assicurarne la capacità di produzione anche alle generazioni future. In questo quadro di interventi volti a controllare l’ uso di fertilizzanti e fitofarmaci, e ad incentivare forme più naturali di coltivazione della terra, si inserisce la normativa italiana attraverso il c.d. quaderno di campagna, i manuali di corretta prassi igienica ed il codice di buona pratica agricola sulla protezione della acque dai nitrati. Dobbiamo analizzare altri due aspetti importanti :1) quello delle opere di organizzazione dell’ azienda agraria, che possono avere un impatto ambientale, e 2) quello dell’ eliminazione dei rifiuti agricoli. Iniziamo dal primo: alcune opere incidenti sulla consistenza dell’ azienda agricola potrebbero rappresentare modifiche territoriali e/o colturali di tale ampiezza da dar luogo ad effetti gravemente perturbatori dell’ equilibrio dell’ ambiente. Per questo motivo, svariate direttive comunitarie prevedono, al fine di garantire un elevato livello di protezione dell’ ambiente , non solo che sia elaborato un procedimento di valutazione ambientale strategica (VAS) dall’ impatto sull’ ambiente dei piani o dei programmi concernenti i settori agricolo, forestale, della pesca, energetico, industriale, dei trasporti, della gestione dei rifiuti e delle acque, turistico, della destinazione dei suoli, ma anche che le opere di rilevante entità siano sottoposte ad un’ apposita procedura di valutazione d’ impatto ambientale (VIA). Il secondo aspetto di cui dobbiamo parlare come abbiamo già detto è quello della gestione dei rifiuti. Ovviamente con l’ aumento della produzione, vi è stato un conseguente aumento della produzione di rifiuti, rifiuti che molto spesso oltre che essere inquinanti sono addirittura tossici. Per “rifiuto” si intende qualsiasi sostanza di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’ obbligo di disfarsi, e dunque tutto ciò che, derivante da attività umane o da cicli naturali, venga abbandonato o sia destinato all’abbandono. Vi sono delle sostanze che il Codice ambientale esclude dalla categoria “rifiuti” , come i materiali litoidi o vegetali riutilizzati nelle pratiche agricole o di conduzione dei fondi rustici, il siero di latte (se destinato come materia prima per la produzione di mangimi, mentre rientra nella categoria rifiuti dell’ industria lattiero-casearia quando prima di essere utilizzato deve essere trattato), le carogne animali, le materie fecali e le altre sostanze naturali derivanti dall’attività agricola, nonché gli scarichi idrici, esclusi i rifiuti liquidi costituiti da acque reflue.

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Per ciò che riguarda le carogne, esse vanno eliminate mediante incenerimento o sotterramento, mentre i materiali litoidi, quelli vegetali e quelli fecali, possono essere riutilizzati come concime naturale. In merito va detto che le imprese agricole, al contrario di quelle industriali, possono riutilizzare i propri rifiuti, generalmente come fertilizzanti e concimi; la stessa normativa comunitaria spinge gli agricoltori al riciclo o all’auto smaltimento dei rifiuti. La Comunità Europea inoltre prevede che i singoli Stati membri possano prendere provvedimenti per una protezione ambientale ancora maggiore, e per questo motivo la Corte di Giustizia ha ritenuto legittima la normativa tedesca che prevede disposizioni più rigorose in materia di discariche. Tra l’ altro la Comunità prevede un trattamento privilegiato a favore degli imprenditori agricoli che tengano i registri di carico e scarico dei rifiuti speciali pericolosi. Nel Codice ambientale troviamo in allegato l’elenco dei rifiuti, in cui quelli contrassegnati da un asterisco sono quelli pericolosi, e sono : i rifiuti agro-chimici contenenti sostanze pericolose, i rifiuti dei prodotti fitosanitari, le perdite di olio. Inoltre la Comunità promuove le pratiche e gli accordi tra produttori ortofrutticoli al fine di gestire i rifiuti in modo tale che sia rispettato l’ ambiente, mentre non sono previsti accordi analoghi tra i produttori industriali. Diamo in ultimo una definizione di biomassa : ossia prodotti legnosi, quali i residui delle potature, le paglie, gli stocchi di mais, il materiale derivante dalla pulizia dei boschi, ed i liquami ed i reflui zootecnici e acquicoli. 5. SEGUE : LA TUTELA DELLE ACQUE DALL’ INQUINAMENTO DI FONTE AGRICOLA Il legislatore italiano ha operato una distinzione tra imprese agricole e imprese commerciali. Ha distinto inoltre tra acque reflue scaricate da edifici in qui si svolgono attività commerciali o industriali, ed acque reflue scaricate da insediamenti residenziali e derivanti dal metabolismo umano e da attività domestiche. Se la legge Merli denominava le prime come provenienti da insediamenti produttivi e le seconde come provenienti da insediamenti civili, oggi il Codice ambientale distingue tra acque reflue industriali e acque reflue domestiche, ed equipara le seconde alle acque reflue provenienti :

a) dalla coltivazione del terreno e dalla silvicoltura; b) dall’allevamento di bestiame (ossia tutti gli animali allevati per uso o profitto); c) da impianti di acquacoltura o piscicoltura; d) da imprese di coltivazione, silvicoltura ed allevamento trasformatrici dei prodotti primi.

In altre parole le acque provenienti da tutte le attività agricole (art.2135 c.c.) sono parificate alle acque reflue domestiche, purché l’ attività si svolga sul fondo o con i prodotti prevalenti del fondo. Se è vero che tutti gli scarichi (ossia qualsiasi immissione diretta sul suolo, nel sottosuolo, o in rete fognaria), sono soggetti ad autorizzazione, per gli scarichi di acque reflue domestiche (e dunque anche di acque reflue agricole) il regime autorizzatorio è definito dalle Regioni, con condizioni attenuate rispetto a quelle occorrenti per le autorizzazioni degli scarichi di acque reflue industriali. Inoltre mentre la condotta contra legem degli imprenditori industriali è di regola sanzionata penalmente, quella degli imprenditori agricoli è punita con sanzioni amministrative. Abbiamo già detto che le imprese agricole a differenza di quelle industriali possono riutilizzare i propri rifiuti. Invero è concessa agli allevatori la facoltà di riutilizzare gli effluenti dei propri allevamenti, come concime, attraverso l’ antica pratica della fertirrigazione La pratica delle fertirrigazione tuttavia presenta un problema : l’utilizzo agronomico dei reflui zootecnici potrebbe dar luogo all’ inquinamento delle acque di falda ed all’eutrofizzazione (condizione di ricchezza) dei bacini lacustri e del mare, per questo motivo la Comunità ne ha disciplinato l’ utilizzo. Dunque i reflui di origine animale , hanno, entro certi limiti di dosaggio, effetti fertilizzanti; ecco perché lo spandimento dei liquami è considerato come utilizzazione di risorse della stessa azienda piuttosto che come smaltimento dei rifiuti. Cercando di semplificare al massimo, questa tecnica consiste nell’ abbandono di questi liquami sul terreno coltivato, nei tempi e nei modi che la tutela dell’ igiene e della sicurezza alimentare impone.

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Il problema ambientale provocato dagli allevamenti zootecnici è stato affrontato dalla Comunità. Ci sono diversi regolamenti comunitari che programmano la riduzione del carico di bestiame per ettaro di superficie foraggiera. Altra attività che contribuisce all’ accrescimento delle acque reflue è la trasformazione delle olive in olio. I frantoi (processi di estrazione dell’olio) per essere considerati tra gli insediamenti che danno luogo ad acque reflue domestiche e non industriali, non devono utilizzare sistemi tecnologici di tipo industriale. Il Codice ambientale prevede che anche le acque di vegetazione e le sanse (le materie solide che restano dopo le procedure di spremitura e/o frantumazione di olive, uva, o altra frutta) umide provenienti da frantoi possono essere utilizzate da un punto di vista agronomico. 6. LE ESTERNALITA' POSITIVE DELL’ ESERCIZIO RAZIONALE DELL’ AGRICOLTURA: LA MULTIFUNZIONALITA' Abbiamo già detto che il bosco non ha solo fini produttivistici, anzi un altro suo fine molto importante è quello della conservazione del territorio. Anzi oggi quest’ ultimo fine sembra essere il principale, da quando la c.d. legge Galasso ha elevato il bosco a bene ambientale assoggettando boschi e foreste a vincolo paesaggistico, il quale garantisce la conservazione del bene da qualsiasi vulnus che ne attenti la forma e la consistenza. Ora parleremo di come la non utilizzazione del bene-terra provochi degrado ambientale. L’uso attivo della terra è imposto dalla stessa Costituzione (art.41 e 44 Cost.) e si manifesta come un uso produttivo e non come un uso conservativo. L’espressione “razionale sfruttamento del suolo” dell’ art.44 Cost. è volta ad assicurare all’ uomo gli alimenti essenziali alla sua vita esigendo però una sorta di autoconservazione. In sostanza l’ordinamento riconosce alla terra funzioni che obbligano il titolare del diritto di utilizzazione di essa. Lo obbligano a produrre e al tempo stesso a conservare. La razionale coltura della terra e del bosco è quindi volta alla salvaguardia dell’ ecosistema, ed è indispensabile alla tutela della salute e della vita. Oggi sull’onda del diritto comunitario si riconosce e si finanzia la c.d. multifunzionalità dell’ agricoltura. Con l’espressione “multifunzionalità” si è preso atto che un’ agricoltura razionale, il cui esercizio consente non solo la produzione di alimenti, ma anche il mantenimento o la non compromissione degli elementi che caratterizzano gli equilibri ambientali con i quali essa interagisce, si tratta di un’ agricoltura ecocompatibile. 7. I C.D. CONTRATTI AGRO-AMBIENTALI In materia ambientale possono instaurarsi dei contratti fra ente pubblico erogatore e agricoltore beneficiario. Il regolamento 1698/99 ci parla dell’esistenza di due diverse categorie : la prima consiste in premi a favore degli agricoltori delle zone svantaggiate e di quelle soggette a vincoli ambientali che si impegnano per almeno 5 anni ad utilizzare buone pratiche agricole compatibili con la necessità di salvaguardare l’ ambiente e lo spazio naturale; la seconda invece riguarda le c.d. “misure agro-ambientali” che consistono in forme di conduzione dei terreni agricoli che oltrepassano l’ utilizzazione delle buone pratiche agricole, e il cui contenuto e compenso è pattuito con la P.A. In poche parole queste misure garantiscono in maniera sostenibile i valori di protezione ed ecologici delle foreste, e sono stabilite in un contratto nel quale è precisata la dotazione finanziaria. In Italia parliamo di contrattazione in agricoltura con riguardo alla c.d. programmazione negoziata, per cui determinati interventi vengono concordati fra soggetti pubblici e parti private attraverso dei “patti territoriali” e poi attraverso “contratti di programma” e “contratti d’area”. I contratti possono dunque essere stipulati fra P.A. ed agricoltori al fine di realizzare obiettivi di sviluppo rurale, come :

a) misure di estensivizzazione della produzione;

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b) buone pratiche agricole; c) misure agro-ambientali.

Questi contratti tendono a rafforzare il territorio come sistema economico-sociale e ad esaltare il contributo dato dall’ agricoltura al territorio, mostrando certamente il fil rouge che corre tra l’ uno e l’ altra. Nei contratti di programma riguardanti “misure agro-ambientali e silvo-ambientali”, le parti private stipulano liberamente con la P.A. interventi da esse determinati per la realizzazione di specifici fini (sviluppo rurale, tutela dell’ ambiente…), fissando il quantum dovuto dalla P.A. per la realizzazione dell’ impegno assunto dall’ agricoltore. Inoltre la P.A. può stipulare con gli agricoltori, contratti di collaborazione, convenzioni e contratti d’ appalto. In realtà non si parla più di contratti ma di impegni, che vengono assunti volontariamente dagli agricoltori. L’ impegno può durare da 5 a 7 anni, e non vi è un corrispettivo fisso prestabilito. La controprestazione a carico della P.A. dunque non è prestabilito in modo certo, ma dipende da una serie di variabili (durata, mancato guadagno, costi dell’ operazione, superficie del terreno), che non possono essere negoziate. 8. IL TERRITORIO COME SPAZIO RURALE Nel 1988 la Commissione Europea nella Comunicazione “il futuro del mondo rurale”, precisava che lo spazio rurale va oltre la delimitazione geografica, estendendosi a tutto il tessuto economico e sociale dell’area, comprendendo così le varie attività, dall’ agricoltura all’ artigianato, alle piccole e medie imprese industriale, al commercio, ai servizi. Lo spazio rurale è il territorio costituito dalla spazio agricolo, destinato alla coltivazione e all allevamento, e dallo spazio fondiario non agricolo destinato ad usi diversi dall’ agricoltura, in particolare l’ insediamento o le attività degli abitanti nell’ ambiente rurale. Le varie attività, non solo economiche, ma anche sociali e culturali, interagiscono fra loro in modo sinergico. L’ agricoltura costituisce così la spina dorsale dello spazio rurale. 9. I DISTRETTI RURALI Abbiamo detto che lo spazio rurale è caratterizzato da diverse attività interconnesse fra loro. Nasce così ad opera degli economisti e dei giuristi, l’ idea dei “distretti” ossia “l’ insieme di imprese e di istituzioni geograficamente prossime ed economicamente interconnesse”. I distretti ruotano devono avere 5 caratteristiche :

a) devono essere sistemi produttivi locali; b) devono presentare un’ identità storica e territoriale omogenea; c) deve esserci integrazione fra attività agricole e altre attività locali; d) i beni o servizi prodotti devono essere di particolare specificità; e) i prodotti o servizi devono essere coerenti con le tradizioni e le vocazioni naturali e territoriali.

Nei distretti agroalimentari, l’integrazione è tra imprese agricole ed imprese agroalimentari, e la specificità delle produzioni è certificata (DOP, DOC, IGP). L’ elemento fondante dell’ esperienza distrettuale è senz’altro un’ iniziativa spontanea ed autogovernata. Un esempio di distretto agroalimentare potrebbe essere quello per la produzione della nutella, dove collaborano e interagiscono fra loro, gli agricoltori produttori di nocciole, i raccoglitori, gli artigiani e gli industriali che producono gli strumenti utili per la raccolta, i commercianti che poi venderanno il prodotto finito, i finanziatori, i disegnatori e coloro che stampano le etichette.

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10. I CONTRATTI AGRO-INDUSTRIALI Le associazioni di produttori agricoli possono stipulare con le contrapposte organizzazioni professionali degli industriali e dei commercianti alimentari, accordi economici. Si tratta di contratti normativi, che rientrano nella categoria dei contratti collettivi, che però intercorrono non fra sindacati dei datori di lavoro e sindacati dei lavoratori, ma vengono stipulati fra organizzazioni professionali contrapposte e sono volti a disciplinare i rapporti economici fra le imprese. La legge in questa materia ha l’obiettivo di tutelare la categoria contrattualmente più debole, quella degli agricoltori, che si confrontano nel mercato con industriali e commercianti per trasformare e distribuire i propri prodotti. Sono un esempio di questi contratti le c.d. intese di filiera. Con esse agricoltori, industriali e distributori di alimenti, provvedono a definire le azioni :

a) per migliorare la conoscenza e la trasparenza della produzione e del mercato; b) per migliorare l’ immissione dei prodotti nel mercato; c) per valorizzare i marchi di qualità; d) per valorizzare il legame tra produzioni e territorio di provenienza; e) per raggiungere un equilibrio e una stabilità sul mercato; f) per suggerire metodi di produzione rispettosi dell’ ambiente; g) per stilare schemi contrattuali compatibili con le norme europee.

Le intese di filiera vengono approvate con decreto del Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali. Con i contratti di filiera lo Stato concede dei contributi finanziari alle imprese agricole, alle cooperative agricole, ai produttori agricoli, alle società agricole, che sviluppino la propria produzione in almeno tre Regioni. Le intese di filiera sono disciplinate da contratti quadro che disciplinano la quantità e la qualità della produzione, ricercando un equilibrio fra domanda e offerta e stabilendo i prezzi. Ogni inadempimento “di grave importanza” delle regole imposte da questi contratti quadro comporta un risarcimento del danno. Ai fini del nostro studio dobbiamo poi analizzare i contratti di coltivazione, allevamento e fornitura, individualmente stipulati dall’ agricoltore con gli acquirenti dei suoi prodotti. Con questi contratti l’ agricoltore si impegna a trasferire in cambio di un prezzo, la propria produzione o i propri servizi. 11. LE REGOLE DEL TERRITORIO COME REGOLE DELL’ IMPRESA AGRICOLA La trasmissione dell’immagine di una terra e della sua gente ha bisogno di un “segno” : questo segno è dato dal nome geografico che consente di far conoscere al pubblico che un certo prodotto proviene da una determinata area. Ad esempio i modenesi sono da sempre conosciuti per uno specifico aceto, l’aceto balsamico di Modena. Esistono allora delle norme, sia nazionali che comunitarie, dirette a garantire che la fama di certe produzioni di specifiche aree non sia usurpata da prodotti di altre zone : le DOP, le IGP e le DOC, rispondono appunto a quest’ esigenza. Va detto che alla gente di una certa terra, non si deve solo l’ accortezza di aver dato il nome geografico dell’ area al prodotto tipico, ma si deve anche quella cultura, quelle tradizioni, quei costumi, che l’ hanno resa e la rendono depositaria di tutte le risorse di quel luogo. Il territorio viene regolato in ragione delle proprie attività produttive rivolte al mercato, ad esempio è proibito l’ impianto di discariche nei territori con produzione agricola di particolare qualità e tipicità. Come già abbiamo detto nel caso dei prodotti tipici, il toponimo non è solo un semplice segno geografico, ma identifica una comunità di produttori locali e li valorizza.

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Ci sono una serie di norme comunitarie volte a preservare la tipicità di questi prodotti, vediamone qualcuna :

a) è obbligatorio imbottigliare il vino di qualità nelle regioni di produzione; b) il prosciutto DOP non si affetta, ne il formaggio DOP non si grattugia fuori dalle zone della

rispettiva produzione, quando i disciplinari prevedono che siano gli stessi produttori a compiere queste azioni.

12. IL MERCATO AGRICOLO TRA INTERESSI DEGLI IMPRENDITORI ED ESIGENZE DEI CONSUMATORI L’ impresa agricola (art.2135 c.c.) realizza, come abbiamo detto già tante volte, prodotti da destinare al mercato. Il “mercato” di cui parleremo ora, non è il luogo fisico dove vengono offerte e contrattate le merci, ma è il mercato in senso giuridico, cioè un’ istituzione storico-sociale, caratterizzata da norme di diritto. Esso è l’unità giuridica delle relazioni di scambio; il punto di incontro fra le norme che garantiscono ai venditori e agli acquirenti l’ accesso al mercato, quelle che tutelano i loro diritti, e fissano il requisiti del contratto di scambio, nonché delle norme che in generale regolano la domanda e l’ offerta. Secondo Nicolò Lipari “il mercato è la finale risultante delle forze espresse da una pluralità di atti contrattuali, di scelte imprenditoriali, di relazioni giuridicamente rilevanti”, in un sistema economico voluto dalla classe politica prevalente in quel determinato periodo storico di un Paese. Nello specifico il mercato agricolo è un prodotto di prodotti alimentari, nel quale si incontrano e si scontrano contrapposti interessi : quello dell’ imprenditore (diretto alla conquista di più larghe porzioni di mercato), e quello del consumatore (diretto a pretendere prodotti sicuri). Questo comporta l’instaurarsi di una gara fra gli imprenditori, per cui si avrà una riduzione dei prezzi a vantaggio del consumatore. Ma oltre a questo la scelta del consumatore è condizionata da dati emotivi, suggestivi e conoscitivi, dalle modalità di spiegazione dell’ origine, dai prodotti agricoli offerti. È di tutto questo che si avvale l’imprenditore per far si che il pubblico scelga il suo prodotto. Il consumatore è la persona fisica che consuma l’alimento, che lo ingerisce. L’interesse del consumatore è che il prodotto sia sano. Per conquistare il consumatore dunque occorrono messaggi pubblicitari. Un tempo la pubblicità veniva fatta comparando due diversi prodotti della stessa categoria, spacciando il proprio per il migliore. Allora, ma anche oggi, questo tipo di pubblicità è vietata, perché può dar luogo a considerazioni tendenziose e discriminanti. In Italia abbiamo delle norme relative alla pubblicità ingannevole e comparativa. La comparazione è possibile, ma deve riguardare prodotti o servizi che soddisfano gli stessi bisogni, o si pongono gli stessi obiettivi, deve essere un confronto obiettivo, pertinente e verificabile, ivi compreso il prezzo. La pubblicità deve essere sempre trasparente (sono vietati i messaggi subliminali), non deve essere confusoria, in modo che il consumatore possa scegliere l’uno o l’ altro prodotto in base alla sue esigenze. La Corte di giustizia in merito, ha ritenuto illegittimo il confronto di prezzo fra prodotti di marca e prodotti non di marca. 13. LA PARTECIPAZIONE ALLE ORGANIZZAZIONI DI PRODUTTORI ED ALLE ORGANIZZAZIONI INTERPROFESSIONALI La politica comunitaria è fondata sul principio della libertà di concorrenza, e quindi ha un atteggiamento sfavorevole verso le intese fra gli imprenditori, e loro eventuali posizioni dominanti, come possibili fonti distorsive della concorrenza. Tuttavia ci sono delle eccezioni nei confronti degli agricoltori, ai quali è concesso costituire delle associazioni tra produttori agricoli (APA), o secondo la formula comunitaria, organizzazioni di produttori.

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Le organizzazioni di produttori di ortofrutticoli valgono per tutto il territorio della Comunità, mentre le associazioni dei produttori degli altri comparti agricoli, sono limitate a determinate aree geografiche (Italia, Belgio, Spagna…). Tali associazioni di produttori gestiscono il flusso della produzione verso i canali distributivi, adattando l’offerta alle esigenze di mercato, non solo mediante la concentrazione della produzione, lo stoccaggio, il condizionamento, la trasformazione e la vendita, ma anche con la promozione e il rispetto per l’ ambiente, e soprattutto mediante decisioni che limitano reciprocamente la concorrenza. L’attività principale di un organizzazione di produttori riguarda la commercializzazione dei prodotti dei suoi aderenti. Possono far parte dell’organizzazioni anche non produttori, ad esempio soci capitalisti. Tra l’altro va detto che le organizzazioni, svolgono anche altre attività, ovvero vendere prodotti facenti parte della categoria, ma non prodotti da propri aderenti; possono prestare servizi extra-agricoli; possono creare delle filiali. Per essere riconosciute devono rivestire la forma di società di capitali o della società cooperativa o del consorzio con attività esterne, con l’obbligo per i soci di dover vendere almeno il 75% dei propri prodotti direttamente dall’ organizzazione e di mantenere il vincolo associativo per almeno 3 anni . Ogni organizzazione deve rappresentare un numero minimo di produttori e un volume minimo di produzione commerciabile; deve inoltre costituire un fondo patrimoniale alimentato dai soci e dai finanziamenti pubblici. Le organizzazioni inoltre hanno un ruolo attivo nella gestione delle crisi di mercato, infatti quando non c’è domanda essi possono ritirare dal mercato determinati prodotti, indennizzando il produttore per il ritiro; diciamo che in qualche modo così si adeguano al mercato. Accanto alle associazioni di produttori, abbiamo le organizzazioni interprofessionali, che raggruppano produttori, trasformatori e commercianti di prodotti ortofrutticoli, creando delle collaborazioni tra i vari settori economici della stessa filiera. Generalmente le decisioni assunte sono di carattere anticoncorrenziale, volta a creare un’ agricoltura europea competitiva sul mercato mondiale. 14. IL MERCATO ALIMENTARE : L’ ETICHETTA ED IL PROBLEMA DELL’ INDIVIDUAZIONE DELL’ ORIGINE DEL PRODOTTO AGRICOLO. I PRINCIPI DEL SISTEMA HACCP APPLICABILI ALLA PRODUZIONE PRIMARIA La realtà odierna conosce supermercati ed ipermercati dove masse anonime di consumatori, scelgono gli acquisti fra i vari beni offerti. Oggi nel mercato non si contratta più in maniera verbale; di regola esso è il luogo dove il venditore mette in offerta i suoi prodotti già confezionati e l’ acquirente si limita a preferire una merce invece di un’ altra, si tratta così di uno scambio molto anonimo. Il dialogo fra produttori e consumatori si esprime attraverso la pubblicità, i marchi, i simboli, le etichette, volte ad indirizzare il consumatore verso i propri propri prodotti. Nell’etichetta il produttore riporta le informazioni che ritiene opportune e quelle che la legge gli impone, e da essa il consumatore attento ricava tutto ciò che gli serve sapere, comprese pregi e manchevolezze del prodotto. È obbligatorio usare nell’etichetta, la lingua della regione in cui i prodotti vengono immessi nel mercato, inoltre la sicurezza alimentare impone che nell’etichetta siano esposte le informazioni sulla forma, l’aspetto, il confezionamento, in modo tale che i consumatori non vengano tratti in inganno. L’etichetta consente la “tracciabilità” delle carni bovine e dei prodotti a base di carne e di pesce. Si è posto un problema per l’origine dei prodotti agricoli, chiedendosi se per origine vada inteso il luogo di produzione del prodotto o quello di trasformazione. Secondo il diritto comunitario l’origine corrisponde al luogo dove risiede l’ impresa di trasformazione del prodotto, e non al luogo di coltivazione. Tornando al discorso dell’ etichetta, va detto che ancora il consumatore non è abituato a leggere tutte le notizie in essa contenute.

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Come accennato prima l’etichetta consente poi la “tracciabilità” del prodotto. La tracciabilità o rintracciabilità è la possibilità di ricostruire e seguire il percorso di un alimento (o di un mangime) attraverso tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione. Questo meccanismo consente di individuare quali possano essere, o quando si sono potuti verificare, eventuali danni, e quindi consente di individuare eventuali responsabilità e di evitare ulteriori conseguenze dannose. Ovviamente non è possibile riportare sull’ etichetta tutta la storia di un prodotto, ma è opportuno che i produttori dispongano di tutti i documenti necessari al fine di poterli esibire, in caso di controlli, alle pubbliche autorità. Ogni imprenditore agro-alimentare deve documentare il proprio sistema di autocontrollo, tenendo dei manuali aziendali che consentano di conoscere la tracciabilità dei loro prodotti. Vi è tra l’altro una disposizione comunitaria che impone di marchiare i prodotti con la dicitura “irradiato” o “trattato con radiazioni ionizzanti” qualora il prodotto sia stato sottoposto a questo tipo di radiazioni al fine di prolungarne il tempo di conservazione. 15. ALIMENTI TRADIZIONALI E NOVEL FOODS: GLI ALIMENTI CON ORGANISMI GENETICAMENTE MODIFICATI Nel mercato attuale ci sono dei prodotti che vengono geneticamente manipolati dall’ uomo : sono i c.d. novel foods e gli alimenti con OGM (organismo geneticamente modificato). L’uomo è riuscito ad inserire nel corredo genetico di una pianta, un gene prelevato da un altro organismo (pianta o animale), in modo da renderlo più resistente agli attacchi di parassiti o insetti, alla siccità, al caldo o al gelo. In merito ci sono stati dei forti dubbi, anche di carattere etico, partendo dal presupposto che queste manipolazioni con il tempo possano dare problemi a nostro carico (ad es. allergie), e ancora più gravi a carico delle generazioni future. Possiamo ricordare ad esempio il tristemente famoso caso della “mucca pazza”. La Comunità ha allora deciso di regolare queste produzioni, disciplinando questi esperimenti e la commercializzazione dei prodotti così ottenuti. Si è occupata dell’ etichetta di detti prodotti e della loro brevettabilità. Ciò che più ci interessa dire è che non possono essere introdotti sul mercato europeo prodotti contenenti OGM :

a) se non previa una complessa procedura di autorizzazione della Commissione; b) se privi di adeguata etichettatura.

È stata rigettata l’idea americana per la quale, prodotti ottenuti da incroci e selezioni naturali, potessero essere equiparati a prodotti contenenti OGM La Comunità ha invitato gli Stati membri a elaborare e attuare strategie nazionali dirette a individuare metodi di gestione e volti a minimizzare l’eventuale rischio in caso di coesistenza di colture (tra cui siano comprese colture di prodotti geneticamente modificati). 16. LA SICUREZZA ALIMENTARE I produttori hanno l’obbligo di commercializzare solo prodotti sicuri. La Comunità ha istituito per garantire ciò, l’ Autorità europea per la sicurezza alimentare. In merito occorre ricordare questi punti :

a) per alimento deve intendersi qualsiasi sostanza che possa essere ingerita; b) alimenti per gli uomini e mangimi per gli animali, vanno trattati allo stesso modo, posto che gli

animali finiscono per essere alimenti; c) nel mercato europeo non sono ammessi alimenti che non siano sani e sicuri;qualunque soggetto

che ha a che fare anche con una sola fase di vita dei prodotti (produzione, trasformazione,

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distribuzione) è soggetto a determinate regole ed in particolare alle regole sulla sicurezza alimentare, che non devono essere violate, incorrendo altrimenti nell’ inadempimento;

d) il pericolo eventuale alla salute derivante da un prodotto deve essere immediatamente sottoposto ad analisi;

e) l’ Autorità europea per la sicurezza alimentare deve costituire una rete di controlli volti a garantire la sicurezza degli alimenti, e deve occuparsi della gestione dei rischi;

f) la gestione del rischio viene trattata attraverso il criterio-guida della precauzione. Per ciò che riguarda invece le responsabilità in questo campo, essa va basata sulla responsabilità civile contrattuale ed extracontrattuale sulla base del dolo o della colpa. Tutte le imprese che operano nel settore alimentare, hanno l’ obbligo di rispettare le varie regole sull’igiene, e hanno l’ obbligo di registrazione. I consumatori hanno il diritto di consumare dei prodotti sani, privi di residui di fitofarmaci, diserbanti, antiparassitari, concimi e prodotti chimici. Gli Stati membri possono fissare norme ancora più severe in merito, al fine di tutelare la salute umana. 17. LA RESPONSABILITA' DEL DANNO PER PRODOTTO AGRICOLO DIFETTOSO L’operatore economico entra in contatto con i terzi che “usano “ i suoi prodotti o i suoi servizi. Parliamo ora delle responsabilità dell’operatore economico nei confronti del consumatore. Fino agli inizi del ‘900 il sistema giuridico della responsabilità si fondava sulla colpa: il costruttore di un prodotto (artigiano o industriale), rispondeva dei danni provocati alla salute e alla vita degli utenti solo se i difetti del suo prodotto fossero attribuibili a sua negligenza, imperizia, inosservanza di leggi e regolamenti. Con la sviluppo e l’estensione del contesto economico, questa regola si dimostrava sempre più inadeguata. Così negli anni ’60 alcuni giuristi statunitensi, elaborarono un’analisi economica del diritto, introducendo la responsabilità oggettiva del produttore per danno da prodotti difettosi. Inizialmente la disciplina tra industriali ed agricoltori era diversa, nel senso che i prodotti agricoli godevano di una presunzione di non-difettosità , fondata sull’ idea che l’ agricoltore servendosi di tecniche tradizionali avrebbe prodotto senz’ altro prodotti innocui. Questo però non garantisce i prodotti agricoli, infatti se anche la loro produzione può avvenire in maniera naturale e sana, essi non sono immuni ad altri fattori come ad esempio le piogge acide o lo smog. Per questo motivo, oggi, la responsabilità del danno per prodotti difettosi degli industriali e degli agricoltori, è la medesima, ed è imposto dunque a carico di entrambi l’obbligo di tenere la massima diligenza. Il difetto del prodotto agricolo viene ricollegato ad una carenza derivante dall’organizzazione aziendale. Tuttavia il produttore è esente da responsabilità qualora dimostri che il difetto non esisteva al momento della messa in circolazione del prodotto, e quindi non è a lui imputabile. Il risarcimento, tra l’ altro, non è dovuto, quando il danneggiato era consapevole del difetto del prodotto e vi si è volontariamente esposto; la stessa etichetta fa in modo che il consumatore possa gestire un rischio di questo tipo. Altre due sono le regole che dobbiamo ricordare :

a) il fornitore che entro un termine ragionevole non comunichi al danneggiato l’ identità del produttore, viene considerato ai fini della responsabilità, come produttore del prodotto difettoso;

b) spetta al commerciante dei prodotti che siano stati trasformati, dare al consumatore tutte le informazioni prescritte ed opportune, compreso il nome del produttore o il luogo di produzione, per assicurare a se stesso sgravi di responsabilità sussidiaria, per i prodotti non accompagnati da etichetta ma venduti allo stato sfuso.

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CAPITOLO X L’ ORGANIZZAZIONE GIUDIZIARIA DELL’ AGRICOLTURA E IL PROCESSO AGRARIO 1. L’ ORGANIZZAZIONE GIUDIZIRIA: GIUDICI ORDINARI E GIUDICI AMMINISTRATIVI In questo capitolo parleremo della risoluzione delle controversie che possono sorgere nel mondo dell’ agricoltura e del fatto che esse sono attribuite a più autorità giudiziarie. Innanzitutto vi è una fondamentale ripartizione della competenza fra giudici ordinari e giudici amministrativi, con riguardo alla posizione giuridica tutelata, (diritto soggettivo e interesse legittimo), e va detto che non sono poche le situazioni in cui ad un agricoltore venga riconosciuto un interesse legittimo e non un diritto soggettivo. Numerosi sono i momenti in cui l’ agricoltore entra in contatto con la P.A., per avere finanziamenti o per chiedere autorizzazioni. A titolo di esempio, questi sono alcuni casi in cui si ricorre ai tribunali amministrativi :

a) ricorso contro il rifiuto delle Regioni di riconoscere la qualità di imprenditore agricolo; b) ricorso contro le autorizzazioni dell’ Ispettorato provinciale in tema di miglioramenti apportati al

fondo rustico dall’affittuario; c) ricorso contro la revoca, da parte dell’apposita Commissione, della qualifica di maso chiuso per

perdita della sua idoneità al mantenimento di almeno 5 persone; d) ricorso contro il rigetto della richiesta di ammissione al programma di abbandono della

produzione latteria. Nonostante il coinvolgimento di pubblici poteri è stata riconosciuta invece la natura di diritto soggettivo, e quindi la competenza dell’ autorità giudiziaria ordinaria, nei casi :

a) dell’ inclusione di un proprietario tra quelli obbligati al pagamento dei contributi a favore di un Consorzio di bonifica;

b) dell’ attribuzione di quote latte; Nello specifico dovremo analizzare le controversie di natura agricola spettanti alla competenza del giudice ordinario. In particolare sono state riconosciute di competenza del giudice ordinario le controversie in tema di prelazione e di retratto agrari. Prima della riforma dell’ordinamento giudiziario che ha costituito il Tribunale giudice unico sopprimendo l’ ufficio del Pretore, sulle controversie riguardanti i diritti soggettivi in agricoltura, il pretore-giudice del lavoro si occupava delle controversie di lavoro agricolo, mentre il pretore si occupava dei procedimenti volti ad accertare l’ avvenuta usucapione speciale agraria, l’ affrancazione del fondo enfiteutico e le azioni possessorie, mentre il Tribunale aveva la competenza a pronunciarsi circa l’ attribuzione del podere ad un unico erede. Oggi con l’istituzione del Tribunale come giudice unico, questa ripartizione di competenze è venuta meno. 2. I COMMISSARI PER GLI USI CIVICI Il commissario liquidatore degli usi civici, era colui che aveva il compito di “liquidare “ queste antichissime forme di proprietà collettiva. Esso ha funzioni amministrative e funzioni giurisdizionali, e aveva il compito di accertare, valutare e liquidare i diritti di uso civico gravanti su terre di proprietà privata, sciogliere la promiscuità fra comuni, operare la rivendicazione, verificare e reintegrare i demani pubblici, sistemare le terre d’ uso civico secondo un piano di utilizzazione e giudicare sulle controverse posizioni di diritto soggettivo, ponendosi come giudice esclusivo del contenzioso demaniale civico.

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Dal 1972 le funzioni amministrative dei commissari sono state trasferite alle Regioni e la competenza di tali organi si è ristretta all’attività giurisdizionale. 3. IL GIUDICE UNICO NEI PROCEDIMENTI DI AFFRANCAZIONE DELLE ENFITEUSI RUSTICHE E DI USUCAPIONE SPECIALE AGRARIA Abbiamo già parlato del diritto di affrancazione attribuito all’ enfiteuta ed al colono miglioratario. Si tratta del diritto potestativo di acquistare, con una dichiarazione unilaterale di volontà, la proprietà del fondo mediante il pagamento del c.d. capitale di affranco, pari a 15 volte l’ ammontare del canone enfiteutico. La legge 607/1966 ha previsto un provvedimento speciale che si snoda in due fasi, una sommaria davanti al Pretora, ora al Tribunale in composizione monocratica, e la seconda, eventuale, davanti alla Sezione specializzata agraria. L’enfiteuta o il colono miglioratario possono ricorrere al giudice unico al fine di ottenere l’ordinanza di affrancazione, dando prova dell’ esistenza sia del contratto che della prestazione e del suo importo, nonché depositando il capitale di affranco. Abbiamo già parlato anche dell’ usucapione speciale agraria (art.1159 bis c.c.), in virtù del quale il possessore di un piccolo fondo rustico ne diventa proprietario a titolo originario, in virtù di un possesso di durata inferiore a quello richiesto ordinariamente per usucapire un bene immobile. Detta usucapione esclude, in presenza vittoriosa di un terzo in una azione di rivendica, il venir meno dell’ acquisto da parte di colui che ha acquistato (in buona fede) da chi ha ottenuto il decreto o la sentenza di riconoscimento della proprietà del fondo rustico. Prima competente era il Pretore , oggi è competente il giudice unico del Tribunale in composizione monocratica, il cui giudizio si conclude con un decreto qualora non vi sia opposizione, ovvero con sentenza (quindi nel corso di un vero processo di tipo contenzioso) in caso di opposizione da parte di conto interessati. 4. LE SEZIONI SPECIALIZZATE AGRARIA Giudice specializzato in materia agraria è la Sezione specializzata agraria, istituita presso ogni tribunale e corte d’ appello. La sua natura specializzata deriva dal fatto che la Sezione è composta oltre che dai giudici togati, anche da due esperti nominati dal Consiglio superiore della magistratura tra coloro che, fra otto, sono stati sorteggiati fra i dottori agronomi, periti agrari e geometri iscritti in appositi albi. La competenza della Sezione specializzata è innanzitutto quella di dirimere le controversie fra le parti dei contratti agrari qualunque sia la loro tipologia. Essa è inoltre competente in materia di affrancazione del fondo enfiteutico, nonché in materia di “riscatto” della quota spettante al componente la famiglia coltivatrice che abbia cessato di far parte della conduzione in comune e si rifiuti, dopo 5 anni di inattività, di trasferirla agli altri componenti per il consolidamento dell’ impresa familiare coltivatrice. Come abbiamo appena detto alla Sezione specializzata agraria spettano le liti aventi ad oggetto i contratti agrari ovvero :

a) il contratto di affitto; b) i residui contratti di mezzadria e di colonia; c) i contratti di soccida; d) i contratti societari; e) i contratti di colture stagionali od intercalari e di pascipascolo.

Restano estranee le controversie del lavoro subordinato in agricoltura (di competenza del giudice del lavoro) e le controversie in materia di prelazione e riscatto agrari. Restano estranee anche le controversie in materia di affitto di azienda agraria, in quanto questo tipo di affitto non rientra nella categoria dei “contratti agrari”.

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5. IL PROCESSO AGRARIO Il rito del processo agrario è lo stesso rito del lavoro, così dispone la l.203/1982 : “in tutte le controversie agrarie si osservano le disposizioni dettate dal cap. I del titolo IV del libro II del codice di procedura civile”. Dunque al processo agrario, si applicano, il sistema di introduzione della causa di costituzione ed intervento (art. 414, 415, 417, 419), quello delle preclusioni di cui agli art.416, 418 e 420, nonché le norme dirette a rendere possibile un rapporto più immediato fra il giudice e le parti, ossia quelle che impongono una trattazione concentrata e orale, la comparizione personale dei litiganti anche al fine di un tentativo di conciliazione giudiziale, l’ assunzione delle prove in pochissime udienze (art.420), la lettura del dispositivo della sentenza in udienza (art.429) ed il deposito della sentenza entro 15 giorni dalla pronuncia (art.430). Sono applicabili inoltre le norme che aumentano i poteri istruttori del giudice, il quale deve provvedere ex officio all’ istruzione della causa ogni qualvolta il materiale offerto dalle parti lo consenta. Si tratta delle disposizioni di cui agli art.420.1 e 2 comma (interrogatorio libero delle parti), 421 (poteri istruttori del giudice e in particolare di assumere i testimoni), 422 (registrazioni su nastro), 424 (assistenza del consulente tecnico) e 425 ( richiesta di informazioni e osservazioni alle associazioni sindacali). Devono altresì ritenersi applicabili al processo agrario gli art.429.3 (condanna al maggior danno per la diminuzione del credito del lavoratore), 431.1. ( esecutività della sentenza di primo grado che pronunci condanna a favore del lavoratore per credito di lavoro) e 432 (valutazione equitativa delle somme dovute al lavoratore). Sono infine applicabili l’ art.434, per il quale le sentenze di primo grado vanno impugnate con ricorso depositato nella cancelleria del giudice ad quem entro 30 giorni dalla notificazione della sentenza, e l’ art.437 sulla limitazione dello ius novo rum in appello. La l.203/1982 inoltre impone che l’istruzione della causa agraria si svolga tutta davanti all’ intero collegio, a pena di nullità assoluta : l’unico modo del resto che permette di giovarsi degli esperti nel rilevantissimo momento dell’ acquisizione delle prove. D’altra parte la presenza degli esperti nella Sezione specializzata è giustificata dalla possibilità per il giudice agrario di decidere servendosi della competenza specifica e dell’ esperienza tecnica dei membri. Tuttavia va precisato che la Sezione specializzata non può essere adita se prima non si sia svolto un tentativo di conciliazione davanti all’ Ispettorato provinciale dell’ agricoltura. La legge ha introdotto questo tentativo proprio per cercare di ridurre il numero delle controversie sottoposte all’ attenzione del giudice. È una sorta di “filtro” di accesso alla giustizia, affidato all’Ispettorato agrario provinciale, che svolge le sue funzioni conciliatrici con la collaborazione dei rappresentanti delle associazioni professionali di categoria indicati dalle parti, la cui presenza è necessaria per la validità di eventuali transazioni. Per ciò che riguarda la procedura conciliativa essa comincia con l’ invio da parte di colui che intende adire il giudice, di una lettera raccomandata con avviso di ricevimento, con la quale da comunicazione della domanda che vuole proporre in giudizio. Con tale raccomandata, la parte esplicita alla controparte e all’Ispettorato dell’ agricoltura, il contenuto della domanda giudiziale che ha intenzione di proporre, e quindi il petitum e la causa petendi. La comunicazione è in sostanza un preavviso della domanda giudiziaria, già chiara nei suoi presupposti giuridici e nel provvedimento che si intende ottenere dal giudice. Al termine del tentativo di conciliazione va redatto un verbale, sia che si raggiunga un accordo, sia se invece questo accordo non venga raggiunto. La successiva domanda giudiziaria (mancato il tentativo di conciliazione), deve essere formulata negli stessi identici termini in cui è stata trattata e comunicata alla controparte in via conciliativa. Deve esserci dunque una perfetta corrispondenza fra l’oggetto della fase conciliativa e l’ oggetto del giudizio, cosicché il giudice possa controllare se su quel determinato punto sottoposto al suo esame sia stato esperito il tentativo di conciliazione o se esso sia una “nuova” domanda e come tale improponibile. È inoltre improponibile la domanda del convenuto qualora nel corso del tentativo di conciliazione, egli non abbia espresso le sue contro pretese.

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L’Ispettorato provinciale dell’ agricoltura convoca entro 20 giorni dalla comunicazione, le parti ed i rappresentanti delle associazioni professionali da esse indicati e tenta di conciliare la vertenza. L’ Ispettorato consacra poi ciò che viene concordato o precisato dalle parti; in caso di esito felice della conciliazione viene redatto un processo verbale sottoscritto da tutti i presenti, dando così certezza e pubblica fede al compromesso o ai patti transattivi conclusi. Qualora invece la conciliazione non riesca, anche per mancata comparizione delle parti, o il tentativo non si definisca entro 60 giorni dalla comunicazione, le parti acquistano la libertà di adire il giudice agrario per la soluzione giudiziaria della vertenza. 6. L’ ARBITRATO IN AGRICOLTURA Vi sono alcune controversie in agricoltura che possono essere risolte da arbitri. L’ art.806 c.p.c. non esclude che le controversie agrarie possano essere devolute ad arbitri, stabilendo che ciò si verifica quando i contratti e gli accordi collettivi lo prevedono, sancendo tre ipotesi di nullità :

a) qualora venga vietato alle parti di rivolgersi all’ autorità giudiziaria; b) qualora la clausola compromissoria autorizzi gli arbitri a pronunciarsi secondo equità; c) qualora si stabilisca la non impugnabilità del lodo.

Si tratta di ipotesi in cui si ha praticamente una “fuga” dalla giustizia ordinaria. Presso il MiPAAF (Ministero delle politiche agricole, alimentari o forestali) sono stati istituiti, la Camera nazionale arbitrale e il Comitato di conciliazione davanti ai quali possono essere portate in via arbitrale e conciliativa, le controversie sulla validità, interpretazione, esecuzione e risoluzione dei rapporti relativi all’agricola di competenza AGEA(Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura), ossia le vertenze e le controversie dove l’ AGEA è l’ unica parte pubblica. Il ricorso alla Camera arbitrale ha per oggetto controversie di valore non inferiore a 20.000 euro, mentre il ricorso al Comitato di conciliazione è obbligatorio per tutte le controversie di valore inferiore. Questo apparato mira a realizzare una tempestiva e trasparente composizione delle controversie, soprattutto per evitare i lunghi tempi della giustizia ordinaria. Vediamo qualche caratteristica di questo sistema :

a) il collegio arbitrale è costituito da tre membri, di cui due scelti rispettivamente dalle parti (imprenditore ed AGEA) ed il terzo, in qualità di Presidente, è scelto o dalle parti o dai due arbitri, oppure viene scelto in alternativa, per sorteggio fra gli arbitri iscritti in un apposito albo;

b) le parti possono decidere anche di attribuire la decisione ad un unico arbitro; c) il lodo arbitrale deve essere motivato, pronunciato secondo diritto (salva richiesta delle parti di

avere una decisione basata sull’ equità) ed in breve tempo ; d) il lodo ha carattere vincolante.