Manuale Di Cardiologia Definitivo

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Manuale delle Malattie Cardiovascolari Sezione I. Approccio al paziente con Malattia Cardiovascolare Capitolo 1. I Sintomi delle Malattie Cardiovascolari, Mario Mariani Capitolo 2. I Segni delle Malattie Cardiovascolari, Mario Mariani Sezione II. Le indagini strumentali Capitolo 3. L’Elettrocardiogramma, Giuseppe Oreto, Francesco Luzza, Maria Pia Calabrò Capitolo 4. L’Ecocardiogramma, Maria Penco, Eleonora De Luca, Simona Fratini, Sergio Severino, Pio Caso, Raffaele Calabrò Capitolo 5. L’Esame Radiologico Capitolo 6. Metodiche Nucleari, Pasquale Perrone Filardi, Massimo Chiariello Capitolo 7. Risonanza Magnetica Nucleare, Sabino Iliceto, Martina Marra Perazzolo, Luisa Cacciavillani Capitolo 8. Tomografia Computerizzata Capitolo 9. Test Cardiopolmonare, Marco Guazzi Capitolo 10. Tecniche di Valutazione del Sistema Nervoso Neurovegetativo, Federico Lombardi Capitolo 11. Cateterismo Cardiaco e Angiocardiografia, Germano Di Sciascio, A. Dambrosio Capitolo 12. Diagnostica Vascolare, Alberto Balbarini, R. Di Stefano Sezione III. Malattie delle Valvole Cardiache Capitolo 13. Malattia Reumatica, Luigi Meloni, Massimo Ruscazio Capitolo 14. Stenosi Mitralica, Giuseppe Oreto, Francesco Saporito Capitolo 15. Insufficienza Mitralica, Paolo Marino Capitolo 16. Stenosi Aortica, Francesco Pizzuto, Francesco Romeo Capitolo 17. Insufficienza Aortica, Corrado Vassanelli Capitolo 18. Malattie della Tricuspide e della Polmonare Sezione IV. Scompenso Cardiaco Capitolo 19. Fisiopatologia dello Scompenso Cardiaco, Livio Dei Cas, Marco Metra, Savina Nodari, Tania Bordonali Capitolo 20. Quadri Clinici dello Scompenso Cardiaco Acuto, Francesco Fedele Capitolo 21. Quadri Clinici dello Scompenso Cardiaco Cronico, Livio Dei Cas, Marco Metra, Savina Nodari Sezione V. Shock cardiogeno Capitolo 22. Lo Shock Cardiogeno, Gian Paolo Trevi, Serena Bergerone, Claudio Chirio, Davide Castagno Sezione VI. Cardiopatia Ischemica Capitolo 23. Fisiopatologia dell’Ischemia Miocardica, Filippo Crea, Gaetano A. Lanza Capitolo 24. Sindromi Coronariche Croniche, Mario Marzilli Capitolo 25. Sindromi Coronariche Acute, Raffaele Bugiardini, Carmine Pizzi, Marco Ciccone Capitolo 26. Diagnostica Strumentale, Carmen Spaccarotella, Ciro Indolfi

Transcript of Manuale Di Cardiologia Definitivo

Manuale delle Malattie Cardiovascolari

Sezione I. Approccio al paziente con Malattia Cardiovascolare

Capitolo 1. I Sintomi delle Malattie Cardiovascolari, Mario Mariani

Capitolo 2. I Segni delle Malattie Cardiovascolari, Mario Mariani

Sezione II. Le indagini strumentali

Capitolo 3. L’Elettrocardiogramma, Giuseppe Oreto, Francesco Luzza, Maria Pia Calabrò

Capitolo 4. L’Ecocardiogramma, Maria Penco, Eleonora De Luca, Simona Fratini, Sergio Severino, Pio Caso,

Raffaele Calabrò

Capitolo 5. L’Esame Radiologico

Capitolo 6. Metodiche Nucleari, Pasquale Perrone Filardi, Massimo Chiariello

Capitolo 7. Risonanza Magnetica Nucleare, Sabino Iliceto, Martina Marra Perazzolo, Luisa Cacciavillani

Capitolo 8. Tomografia Computerizzata

Capitolo 9. Test Cardiopolmonare, Marco Guazzi

Capitolo 10. Tecniche di Valutazione del Sistema Nervoso Neurovegetativo, Federico Lombardi

Capitolo 11. Cateterismo Cardiaco e Angiocardiografia, Germano Di Sciascio, A. Dambrosio

Capitolo 12. Diagnostica Vascolare, Alberto Balbarini, R. Di Stefano

Sezione III. Malattie delle Valvole Cardiache

Capitolo 13. Malattia Reumatica, Luigi Meloni, Massimo Ruscazio

Capitolo 14. Stenosi Mitralica, Giuseppe Oreto, Francesco Saporito

Capitolo 15. Insufficienza Mitralica, Paolo Marino

Capitolo 16. Stenosi Aortica, Francesco Pizzuto, Francesco Romeo

Capitolo 17. Insufficienza Aortica, Corrado Vassanelli

Capitolo 18. Malattie della Tricuspide e della Polmonare

Sezione IV. Scompenso Cardiaco

Capitolo 19. Fisiopatologia dello Scompenso Cardiaco, Livio Dei Cas, Marco Metra, Savina Nodari, Tania

Bordonali

Capitolo 20. Quadri Clinici dello Scompenso Cardiaco Acuto, Francesco Fedele

Capitolo 21. Quadri Clinici dello Scompenso Cardiaco Cronico, Livio Dei Cas, Marco Metra, Savina Nodari

Sezione V. Shock cardiogeno

Capitolo 22. Lo Shock Cardiogeno, Gian Paolo Trevi, Serena Bergerone, Claudio Chirio, Davide Castagno

Sezione VI. Cardiopatia Ischemica

Capitolo 23. Fisiopatologia dell’Ischemia Miocardica, Filippo Crea, Gaetano A. Lanza

Capitolo 24. Sindromi Coronariche Croniche, Mario Marzilli

Capitolo 25. Sindromi Coronariche Acute, Raffaele Bugiardini, Carmine Pizzi, Marco Ciccone

Capitolo 26. Diagnostica Strumentale, Carmen Spaccarotella, Ciro Indolfi

Sezione VII. Cardiomiopatie

Capitolo 27. Definizione e Classificazione, Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Fulvio Camerini

Capitolo 28. Cardiomiopatia Ipertrofica

Capitolo 29. Cardiomiopatia Dilatativa, Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Andrea Di Lenarda

Capitolo 30. Cardiomiopatia Restrittiva, Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Rossana Bussani, Andrea

Perkan

Capitolo 31. Cardiomiopatia/Displasia Aritmogena del Ventricolo Destro, Luciano Daliento, Barbara

Bauce, Cristina Basso, Alessandra Rampazzo, Gaetano Thiene, Andrea Nava

Sezione VIII. Pericarditi, Miocarditi, Endocarditi

Capitolo 32. Pericarditi, Antonio Barsotti, Gian Marco Rosa

Capitolo 33. Miocarditi, Antonello Ganau, Pier Sergio Saba

Capitolo 34. Endocardite Infettiva, Sergio Dalla Volta

Sezione IX. Tumori del Cuore

Capitolo 35. I Tumori del Cuore, Gaetano Thiene, Cristina Basso, Marialuisa Valente

Sezione X. Aritmie

Capitolo 36. Definizione e Meccanismi delle Aritmie, Giuseppe Oreto, Marco Cerrito

Capitolo 37. Battiti Ectopici, Francesco Luzza, Scipione Carerj, Sebastiano Coglitore

Capitolo 38. Tachicardie Parossistiche Sopraventricolari, Rossella Troccoli, Matteo Di Biase

Capitolo 39. Fibrillazione e Flutter Atriale, Antonio Montefusco, Lucia Garberoglio, Alessandro Blandino,

Antonella Corleto, Fiorenzo Gaita

Capitolo 40. Tachicardie Ventricolari, Stefano Favale, Pierangelo Basso, Franceso Capestro, Valentina

D’Andria, Annalisa Fiorella

Capitolo 41. Bradicardie, Francesco Arrigo, Giuseppe Andò

Sezione XI. Sincope e Arresto Cardiocircolatorio

Capitolo 42. Sincope, Luigi Padeletti, Alfonso Lagi

Capitolo 43. Morte Cardiaca Improvvisa, Lia Crotti, Peter J. Schwartz

Capitolo 44. Trattamento dell’Arresto Cardiocircolatorio

Sezione XII. Ipertensione arteriosa

Capitolo 45. L’ipertensione Arteriosa, Massimo Volpe, Sebastiano Sciarretta

Sezione XIII. Arteriosclerosi

Capitolo 46. L’Aterosclerosi, Paolo Golino

Capitolo 47. La Valutazione del Rischio Coronarico, Salvatore Novo, Gisella Rita Amoroso, Giuseppina

Novo

Capitolo 48. La Funzione dell’Endotelio

Sezione XIV. Cuore Polmonare ed Embolia Polmonare

Capitolo 49. Il Cuore Polmonare Cronico, Cesare Fiorentini, Piergiuseppe Agostoni, Elisabetta Doria

Capitolo 50. L’Embolia Polmonare, Giuseppe Mercuro, Francesco Peliccia

Capitolo 51. L’Ipertensione Polmonare Primitiva, Carmine Dario Vizza, Roberto Badagliacca, Roberto

Poscia, Francesco Fedele

Sezione XV. Cardiopatie Congenite

Capitolo 52. Cardiopatie Congenite Parte I, Raffaele Calabrò, Giuseppe Pacileo, Maria Giovanna Russo,

Marianna Carrozza, Carmela Morelli, Alessandra Rea, Giampiero Gaio

Capitolo 53. Cardiopatie Congenite Parte II, Raffaele Calabrò, Giuseppe Pacileo, Maria Giovanna Russo,

Marianna Carrozza, Carmela Morelli, Alessandra Rea, Giampiero Gaio

Sezione XVI. Malattie delle Arterie e delle vene

Capitolo 54. Arteriopatie dei Tronchi Sopraortici, Salvatore Novo, Egle Corrado, Ida Muratori

Capitolo 55. Arteriopatie delle Arterie Periferiche, Giuseppe Mercuro, Ettore Manconi

Capitolo 56. Aneurismi e Aneurisma Dissecante, Francesco Spinelli, Giovanni De Caridi, Michele La Spada

Capitolo 57. Malattie delle Vene, Marco Matteo Ciccone

Sezione XVII. Approccio al trattamento delle Malattie Cardiovascolari: Terapia Medica e

Interventistica

Capitolo 58. Elementi di Farmacologia Cardiovascolare

Capitolo 59. Interventistica Coronarica

Capitolo 60. Interventistica Non Coronarica

Capitolo 61. Interventistica Elettrofisiologica

Sezione XVIII. Approccio al trattamento delle Malattie Cardiovascolari: Cardiochirurgia

Capitolo 62. Circolazione Extracorporea, Claudio Muneretto, Paolo Piccoli, Gianluigi Bisleri

Capitolo 63. Interventi sulle Valvole Cardiache, Luigi Chiariello, Carlo Bassano

Capitolo 64. Chirurgia della Cardiopatia Ischemica, Luigi Chiariello, Paolo Nardi

Capitolo 65. Chirurgia delle Cardiopatie Congenite, Mario Chiavarelli, Gianluca Lucchese

Capitolo 66. Trapianto Cardiaco

Sezione XIX. Approccio al trattamento delle Malattie Cardiovascolari: Chirurgia Vascolare

Capitolo 67. La Malattia dei Tronchi Sopraortici, Francesco Spinelli, Giovanni De Caridi, Michele La Spada

Capitolo 68. Le Arteriopatie Periferiche, Francesco Spinelli, Giovanni De Caridi, Michele La Spada

Atlante di Elettrocardiografia, Giuseppe Oreto

Atlante di Ecocardiografia, Maria Penco

Sezione I. Approccio al paziente con Malattia Cardiovascolare

Capitolo 1. I Sintomi delle Malattie Cardiovascolari, Mario Mariani

DEFINIZIONE

Le Malattie dell’Apparato Cardiovascolare rappresentano ormai da molti anni la prima causa di morbilità e

mortalità nel mondo industrializzato. Nei Paesi dell’Est europeo tale patologia è in continuo aumento con il

miglioramento del tenore di vita, mentre in altri Paesi, come nel Centro Africa, a causa del dilagare delle

patologie infettive e di una elevatissima mortalità in età giovanile, le malattie cardiovascolari non rivestono, per

incidenza, l’importanza raggiunta in Europa, negli USA e nei Paesi più industrializzati dell’Est Asiatico, come il

Giappone.

Sembra quasi che tali affezioni costituiscano un tragico tributo da pagare al benessere! Giova a tal fine

ricordare che più elevata è la vita media di un Paese, tanto più è possibile, nello stesso, lo sviluppo delle

malattie cardiovascolari. In altre parole laddove la durata media della vita è bassa, altre sono le cause principali

di mortalità, mentre nei Paesi nei quali l’aspettativa di vita è elevata, le malattie dell’apparato cardiovascolare

rappresentano la prima causa di morte.

Prima di trattare i Sintomi delle malattie cardiovascolari è necessario sottolineare l’importanza determinante

dell’anamnesi, che già di per sé può indirizzare verso un approfondimento “mirato” dell’esame clinico, al fine di

giungere ad una precisa diagnosi.

I sintomi più significativi imputabili ad una patologia dell’Apparato Cardiovascolare sono:

1) La Dispnea.

2) L’Astenia.

3) Il Dolore toracico.

4) Le Palpitazioni, definite anche Cardiopalmo.

5) La Nicturia.

LA DISPNEA

Dalla lingua greca (dus= cattivo e pneuma=respiro) è l’espressione di una difficoltà respiratoria che può

insorgere durante uno sforzo fisico (dispnea da sforzo) o addirittura comparire a riposo. Le sue manifestazioni

più gravi sono l’ortopnea, la dispnea parossistica notturna e l’edema polmonare acuto (vedi più avanti).

Quando non imputabile a cause specifiche respiratorie, la dispnea indica il coinvolgimento del circolo polmonare

da parte di una patologia del cuore sinistro: l’aumento della pressione in atrio sinistro o della pressione

diastolica del ventricolo sinistro provoca inevitabilmente un aumento della pressione nei capillari polmonari e

nel circolo polmonare a monte degli stessi. Una pressione idrostatica eccessiva nei capillari provoca

trasudazione di liquido dapprima nell’interstizio polmonare (edema interstiziale) e quindi negli alveoli (edema

alveolare).

La Dispnea può insorgere e manifestarsi sia in forma acuta che cronica, per una patologia che può coinvolgere

l’apparato respiratorio o l’apparato cardiovascolare; la dispnea cardiaca è uno dei sintomi più significativi

insieme all’astenia, al dolore anginoso e alle palpitazioni, utilizzati per la valutazione clinica di gravità di uno

scompenso.

Questi sintomi sono alla base della classificazione proposta dalla New York Heart Association (N.Y.H.A.), utile

per inquadrare tutti i gradi di scompenso in relazione alla insorgenza della dispnea per sforzi sempre più lievi o

addirittura a riposo. Essa è così strutturata:

Classe I: comprende pazienti con una patologia cardiaca i quali non hanno alcuna limitazione della propria

attività fisica. L’attività non causa dispnea, né affaticabilità, né dolore anginoso.

Classe II: comprende pazienti con patologia cardiaca nei quali è presente una scarsa limitazione dell’attività

fisica. Questi soggetti stanno bene a riposo, ma possono avere disturbi (dispnea, affaticabilità, palpitazioni o

dolore anginoso) per una attività fisica usuale.

Classe III: comprende pazienti con patologia cardiaca che hanno una marcata limitazione dell’attività fisica.

Stanno bene a riposo, ma possono presentare i disturbi sopra indicati per un’attività fisica anche inferiore a

quella usuale.

Classe IV: comprende pazienti con patologia cardiaca che li rende incapaci di effettuare qualsiasi attività fisica

senza presentare i disturbi sopra indicati, che possono essere presenti anche in condizioni di riposo.

La forma più grave di dispnea che possa presentarsi nel cardiopatico è l’edema polmonare acuto, che si realizza

quando la pressione all’interno dei capillari polmonari supera il valore della pressione colloido-osmotica. Nel

capillare, infatti, agiscono due forze contrapposte: la pressione idrostatica, che tende a far fuoriuscire il liquido

dal vaso, e quella oncotica, esercitata dalla proteine non diffusibili, che tende a trattenere il liquido all’interno; il

valore di quest’ultima è 25-30 mm Hg. Se la pressione idrostatica nei capillari polmonari supera tale valore, è

inevitabile una ultrafiltrazione di plasma, associata, per rotture microvascolari, ad alcuni globuli rossi.

Fuoriuscendo dai vasi, il liquido si riversa dapprima nell’interstizio, da dove il sistema linfatico cerca di

rimuoverlo; successivamente, quando la capacità di drenaggio del sistema linfatico viene superata, il fluido

invade gli alveoli polmonari, e mescolandosi all’aria forma una schiuma, talora rosata, che invade le vie aeree

ed interferisce gravemente con l’efficienza degli scambi gassosi, tanto da poter portare a morte. All’ascoltazione

del torace, in questa situazione drammatica, quando dalla fase interstiziale si passa a quella alveolare, si assiste

alla comparsa di rantoli prima a piccole poi a grosse bolle, che iniziano dalle basi polmonari e giungono

rapidamente a coprire l’intero distretto respiratorio. Il soggetto è in posizione eretta e mette in funzione tutti i

muscoli respiratori accessori nella disperata ricerca di riuscire ad effettuare atti respiratori utili.

L’ASTENIA

E’ l’espressione di una ridotta portata cardiaca e si manifesta con la difficoltà a compiere le usuali attività

motorie (adinamia) o addirittura con un grave senso di spossatezza ancor prima di iniziare una qualunque

attività fisica.

IL DOLORE TORACICO

Il dolore ischemico presenta caratteristiche peculiari che vanno dalla modalità di insorgenza, al tipo di dolore,

alla sede dello stesso, alla sua irradiazione. E’ questo il sintomo più importante nell’angina ed in genere delle

sindromi coronariche acute, compreso l’infarto miocardico.

Nei quadri clinici riferibili ad angina pectoris, la presenza di dolore è “condicio sine qua non” per definire il

quadro clinico. Nell’angina da sforzo stabile il dolore insorge durante uno sforzo fisico, è di tipo costrittivo od

oppressivo e nel 75% dei casi è localizzato alla regione retrosternale bassa, con varie possibili irradiazioni, delle

quali abbastanza comune è quella al lato ulnare del braccio sinistro, e in misura minore, al giugulo. Più

raramente vengono interessati l’emitorace di destra e il braccio destro o l’epigastrio. Il dolore cessa usualmente

dopo poco la cessazione dello sforzo e recede rapidamente con l’assunzione di nitroderivati. Nell’infarto

miocardico acuto, il dolore con le caratteristiche sopra descritte persiste in genere ben oltre i pochi minuti e può

durare addirittura diverse ore.

Il dolore toracico non è soltanto indicativo di ischemia miocardica (angina pectoris, sindromi coronariche acute)

ma può essere indicativo di numerose altre patologie cardiovascolari quali la pericardite, la dissezione aortica,

l’ipertensione polmonare, l’embolia polmonare, e può anche dipendere da patologie di altri organi e sistemi,

come lesioni esofagee o pleuriche oppure interessamento (compressivo, infiltrativo o flogistico) di nervi

intercostali.

LE PALPITAZIONI O CARDIOPALMO

La percezione del proprio battito cardiaco è già un sintomo. La normale azione del cuore, infatti, decorre in

maniera del tutto asintomatica, sia di giorno che di notte, per tutta la vita. Esistono due tipi fondamentali di

cardiopalmo: quello tachicardico, in cui il soggetto riferisce un’azione cardiaca rapida e continua, e quello

extrasistolico, caratterizzato dall’avvertire improvvisamente un “tonfo” o “tuffo” oppure la “sensazione del cuore

che si ferma” (vedi Capitolo 33). Anche se in condizioni di impegno fisico od emozionale è frequente sentire il

proprio battito cardiaco, non vi è dubbio che la perdita di ritmicità è un fenomeno che difficilmente sfugge.

Talora tale sintomo viene vissuto in maniera allarmante più del dovuto, come nel caso di extrasistolia isolata o

sporadica.

L’aritmia percepita, responsabile del cardiopalmo, può essere di scarso rilievo clinico, o al contrario

estremamente importante. E’ pur vero che le aritmie più gravi, quali la fibrillazione ventricolare o l’asistolia,

possono portare a morte senza alcun sintomo premonitore, ma è innegabile che talora “salve di extrasistoli” o

brevi episodi di tachicardia, e dall’altra parte episodi parossistici di blocco A-V con transitoria asistolia, possono

risultare sintomatici e quindi diagnosticabili in tempo per essere trattati con pacemaker o defibrillatore,

evitando eventi gravi o fatali.

LA SINCOPE

Può essere definita come: “Perdita improvvisa e transitoria della coscienza e del tono posturale, dovuta ad una

grave ipossia o ad una anossia cerebrale acuta”. Talora può essere accompagnata da perdita di urine e/o di feci.

Un tempo si distingueva la lipotimia come perdita momentanea del tono posturale e talora anche dello stato di

coscienza, preceduta in genere da prodromi descritti come “senso di mancamento, nausea, appannamento della

vista, sudorazione, pallore”. Oggi si preferisce parlare di sincope e di presincope. La sincope può riscontrarsi in

varie situazioni di patologia cardiaca (vedi Capitolo 41).

LA NICTURIA

E’ uno dei sintomi che accompagna l’insufficienza cardiaca, e consiste in una riduzione della diuresi durante il

giorno con aumento della diuresi stessa durante la notte. Il fenomeno può essere dovuto al riassorbimento

notturno degli edemi soprattutto declivi, che possono realizzarsi durante la stazione eretta nel paziente con

scompenso cardiaco congestizio, o anche perchè durante il riposo notturno il fabbisogno di sangue da parte dei

muscoli è minimo, per cui una parte relativamente elevata della portata cardiaca può giungere al rene, il quale

aumenta la produzione di urina.

Capitolo 2. I Segni delle Malattie Cardiovascolari, Mario Mariani

CONCETTI GENERALI

Nei pazienti con Malattie dell’apparato cardiovascolare, i segni rilevabili all’esame clinico costituiscono ancora

oggi un importante capitolo perché tutte le innovazioni tecnologiche, che hanno apportato un grande progresso

nell’inquadramento diagnostico e nella terapia, trovano una loro logica applicazione solo sulla base di una

corretta valutazione dei segni peculiari di ogni forma di cardiopatia.

I principali segni presenti nei pazienti affetti da patologie cardiovascolari sono rilevabili con un accurato esame

obiettivo che trova i suoi capisaldi nei presìdi offerti dalla classica Semeiotica fisica: Ispezione, Palpazione,

Percussione, Ascoltazione.

Tra queste, la Percussione ha perso del tutto la sua utilità, nel campo della Semeiotica Cardiovascolare, grazie

ai progressi tecnologici che hanno reso molto più precisa la determinazione delle dimensioni cardiache. Gli altri

tre capisaldi semeiologici (Ispezione, Palpazione ed Ascoltazione, soprattutto quest’ultima) conservano la loro

validità e servono ad indirizzare, verso l’uso corretto delle tecniche diagnostiche strumentali.

I segni di una cardiopatia si possono riscontrare all’esame obiettivo dell’apparato cardiovascolare mediante le

seguenti manovre:

1) L’osservazione del volto e delle estremità per rilevare la presenza di cianosi.

2) L’osservazione del polso venoso giugulare.

3) L’ispezione delle arterie e la palpazione del polso arterioso.

4) L’ispezione e la palpazione della zona precordiale.

5) La palpazione dell’addome per ricercare l’eventuale presenza di epatomegalia o di pulsazioni abnormi.

6) La ricerca di eventuali edemi declivi.

7) L’ascoltazione del cuore, volta ad evidenziare anomalie dei toni e/o la comparsa di soffi o sfregamenti.

CIANOSI

Si definisce cianosi il colorito bluastro assunto dalla pelle e dalle mucose visibili quando il contenuto di

emoglobina ridotta nel sangue capillare supera i 5 grammi per decilitro.

La cianosi può essere centrale o periferica. La cianosi centrale è per lo più dovuta alla presenza di uno shunt

destro-sinistro o a gravi difetti della funzione respiratoria.

La cianosi periferica si realizza quando, a causa di una vasocostrizione in alcuni distretti circolatori, si determina

una desaturazione locale, con aumento dell’emoglobina ridotta in quelle zone. La cianosi periferica può

evidenziarsi, fra l’altro, in presenza di una ridotta portata cardiaca con aumento delle resistenze periferiche.

OSSERVAZIONE DEL POLSO VENOSO

Il polso venoso meglio valutabile è quello giugulare con il paziente in posizione seduta, reclinato a 45° (rispetto

ai 90° normali per la posizione seduta).

Il polso venoso normale presenta tre onde positive e due depressioni. Le onde positive sono denominate onde

a, c e v, mentre le depressioni sono denominate x e y. Un’attenta osservazione del polso venoso giugulare, può

fornire precise indicazioni circa la funzione delle camere destre del cuore.

Un’evidente accentuazione dell’onda a è espressione di un aumento della pressione in atrio destro (Stenosi

tricuspidale, Anomalia di Ebstein ecc..) o della pressione diastolica ventricolare destra, come si verifica nella

Miocardiopatia restrittiva (vedi Capitolo 30), o nella Pericardite costrittiva, (vedi Capitolo 32).

Un’accentuazione dell’onda v è talora espressione di una insufficienza tricuspidale.

ISPEZIONE DELLE ARTERIE E PALPAZIONE DEL POLSO ARTERIOSO

Con l’ispezione si possono evidenziare pulsatilità arteriose anormali (come per esempio l’eccessiva pulsazione

delle carotidi, osservabile al collo in presenza di insufficienza aortica o di altre situazioni di circolo ipercinetico).

Con l’ascoltazione possono evidenziarsi soffi vascolari. La manovra semeiologica più utilizzata per l’esplorazione

del polso arterioso è la palpazione, con la quale si possono valutare:

a) la frequenza: numero delle sistoli in un minuto;

b) il ritmo: regolarità o irregolarità delle pulsazioni;

c) l’ampiezza: entità del sollevarsi della parete arteriosa sotto il dito che palpa, carattere che è direttamente

correlato alla gittata sistolica;

d) la tensione: entità della forza che devono esercitare le dita che palpano per sopprimere la pulsazione,

espressione anche del livello pressorio;

e) la simmetria: uguale ampiezza dei polsi corrispondenti, palpati simultaneamente dai due lati dell’organismo

(per esempio, i due polsi radiali, i due polsi femorali, etc).

Le variazioni dei caratteri sopradescritti del polso arterioso, possono risultare indicativi di particolari situazioni

morbose. Ecco alcuni esempi.

A – Un polso di ridotta ampiezza (piccolo) e con picco ritardato (tardo) si riscontra nella stenosi aortica (vedi

Capitolo 16).

B – Un polso ampio e celere (con picco precoce) è presente nell’insufficienza aortica (vedi Capitolo 17) o negli

stati circolatori ipercinetici;.

C- Un polso filiforme (frequenza notevolmente aumentata, tensione e ampiezza nettamente ridotte) è tipico

dello shock (vedi Capitolo 22).

D – Il polso paradosso è l’esagerazione patologica di una riduzione della pressione durante una inspirazione

profonda. Tale riduzione è presente anche in condizioni fisiologiche, ma non supera di solito i 10 mm di

mercurio, mentre in presenza di pericardite costrittiva o in situazioni nelle quali esiste una grave riduzione del

riempimento ventricolare, si può avere una caduta di oltre 20-30 mm di mercurio.

ISPEZIONE E PALPAZIONE DELLA ZONA PRECORDIALE

L’ispezione e la palpazione possono consentire di localizzare l’itto della punta del cuore, cioè la sede della

massima pulsazione visibile o palpabile, che normalmente si trova al quarto spazio intercostale sinistro circa 1

centimetro all’interno della linea emiclaveare. In condizioni patologiche, l’itto della punta può essere dislocato

anche in sedi molto diverse dal normale: nell’insufficienza aortica grave, per esempio, può essere spostato in

basso e a sinistra fino al sesto spazio intercostale sulla linea ascellare anteriore o anche media.

Possono essere apprezzabili alla palpazione della zona precordiale fremiti, i quali costituiscono il corrispettivo

palpatorio dei soffi particolarmente intensi (4/6 o più della scala Levine, vedi più avanti) o (più di rado) degli

sfregamenti pericardici in corso di pericardite.

PALPAZIONE DELL’ADDOME PER RICERCARE L’EVENTUALE PRESENZA DI EPATOMEGALIA O DI

PULSAZIONI ABNORMI

Epatomegalia è presente nelle forme di scompenso che coinvolgono il cuore destro primitivamente o

secondariamente a difetti interessanti inizialmente il cuore sinistro (per esempio valvulopatie mitraliche e/o

aortiche). E’ apprezzabile con le comuni manovre palpatorie l’aumento di volume dell’organo che può sporgere

per oltre due, tre dita traverse o più dall’arcata costale. In genere l’organo palpato risulta dolente.

Alla palpazione dell'addome si possono apprezzare pulsazioni abnormi riferibili alla presenza di aneurismi

dell'Aorta addominale

EDEMI DECLIVI

Si sviluppano inizialmente nelle parti molli degli arti inferiori (piedi, zone pretibiali, etc.) nei soggetti che

rimangono per ore in stazione eretta o seduta. Nei pazienti costretti a letto gli edemi sono più evidenti nella

regione pre-sacrale. Quando si ha un imponente stato anasarcatico, gli edemi sono diffusi e si accompagnano

anche a versamenti nelle grandi sierose (versamento pleurico, ascite, etc.).

ASCOLTAZIONE DEL CUORE

L’ascoltazione rappresenta la manovra più importante dell’esame obiettivo del cuore, ed è basata sull’analisi dei

toni e sul riconoscimento di eventuali soffi.

I Toni

I toni cardiaci normali sono il I e il II; il III tono può essere ascoltato in assenza di patologia nei bambini o in

giovani adulti con parete toracica particolarmente sottile.

Il I tono è provocato essenzialmente della chiusura delle valvole atrio-ventricolari, mentre il II si deve alla

chiusura delle semilunari aortiche e polmonari (Figura 1).

Il I tono può risultare rinforzato in caso di stenosi mitralica (vedi Capitolo 14) o di stenosi della valvola

tricuspide, mentre è spesso indebolito nell’insufficienza mitralica.

Figura 1 I e II tono cardiaco. A2 = componente aortica del II tono. P2 = componente polmonare del II tono.

Il II tono è costituito dalle 2 componenti, aortica e polmonare (A2 e P2), che nella maggior parte dei casi sono

così ravvicinate da generare un tono unico, anche se la chiusura della valvola aortica precede di poco quella

della polmonare (Figura 1). A volte, però, anche in condizioni fisiologiche, le due componenti del II tono

possono essere ascoltate distinte l’una dall’altra, per cui il II tono si presenta sdoppiato. Tale sdoppiamento,

però, e variabile con le fasi del respiro: A2 e P2 appaiono separate solo durante l’inspirazione, mentre nella fase

espiratoria sono unite (Figura 2A). Ciò dipende dal fatto che con l’inspirazione aumenta il ritorno venoso per

l’incremento della vis a fronte: il ventricolo destro, perciò, riceve più sangue e la sua sistole è leggermente

prolungata, tanto da ritardare la chiusura della valvola polmonare; con l’espirazione, invece, questo fenomeno

non è più presente, e la chiusura delle due valvole semilunari è presso a poco simultanea.

Figura 2 A: sdoppiamento variabile del II tono legato alle fasi del respiro.

B: Sdoppiamento paradosso del II tono in presenza di blocco di branca sinistra. A2 = componente aortica del II

tono. P2 = componente polmonare del II tono

Lo sdoppiamento del II tono può essere fisso (Figura 3) in presenza di un difetto del setto interatriale, che

comporta uno shunt sinistro-destro (vedi Capitolo 51). In questa situazione la gittata del ventricolo destro è

sempre aumentata: in inspirazione per l’aumentato ritorno venoso dalle vene cave, in espirazione per lo shunt

attraverso il setto interatriale.

Figura 3 Sdoppiamento fisso del II tono nel difetto del setto interatriale.

Infine, lo sdoppiamento del II tono può essere “paradosso”: in questo caso si avvertono le due componenti

separate in espirazione mentre il tono appare unico durante l’inspirazione (Figura 2B). Questo fenomeno è

principalmente causato da un eccessivo ritardo di A2. come accade in caso di blocco di branca sinistra (vedi

Capitolo 3) o stenosi aortica grave. In queste situazioni, il II tono è sdoppiato poiché la chiusura della valvola

aortica è ritardata per motivi elettrici (blocco di branca) o meccanici, ed è la polmonare a chiudersi prima.

Quando, durante l’inspirazione, si verifica un fisiologico ritardo della chiusura della polmonare, legato

all’aumentato ritorno venoso, A2 e P2 diventano simultanee, mentre in espirazione non vi è il ritardo di P2, per

cui il II tono appare sdoppiato.

Il II tono può risultare rinforzato in presenza di un aumento dei valori pressori sistemici nella sua componente

aortica (A2) o in presenza di un’ipertensione polmonare, nella sua componente polmonare (P2). In queste

condizioni, il livello della pressione che fa chiudere la valvola semilunare è maggior del normale, per cui le

vibrazioni che la valvola genera nel chiudersi sono particolarmente ampie.

Il III tono (Figura 4) corrisponde alla fase diastolica di riempimento rapido (protodiastole), e può risultare ben

evidente in caso di aumentato riempimento ventricolare o in presenza di disfunzione ventricolare, come nello

scompenso cardiaco. Normalmente il III tono si ascolta soltanto nei bambini o nei soggetti con parete toracica

particolarmente sottile.

Il IV tono (Figura 4) corrisponde alla sistole atriale (telediastole o presistole), e dipende dalle vibrazioni

provocate dal sangue che, spinto dalla contrazione dell’atrio, penetra nel ventricolo. Normalmente questo

fenomeno non dà luogo a un tono ascoltabile sia perché le vibrazioni indotte dalla sistole atriale, a bassa

frequenza, sono quasi in continuità con quelle, a frequenza ben più alta, del I tono, sia perché la loro ampiezza

è molto bassa. Vi sono essenzialmente due condizioni che favorisono l’ascoltazione del IV tono: il blocco A-V di I

grado e la ridotta distensibilità ventricolare. Nel primo caso si allunga l’intervallo P-R (vedi Capitolo 40), per cui

la sistole atriale non è seguita da quella ventricolare immediatamente, ma dopo un tempo più lungo del

normale, per cui in IV tono è ben separato dal I. Nella seconda circostanza la ridotta distensibilità delle pareti

ventricolari, come avviene nella stenosi aortica o nella cardiopatia ipertensiva, fa sì che aumenti l’ampiezza

delle vibrazioni generate dal sangue che l’atrio spinge nel ventricolo.

Quando il III o il IV tono si ascoltano in presenza di un aumento della frequenza cardiaca, si può generare un

ritmo a tre tempi (ritmo di galoppo). A volte sono contemporaneamente presenti in III e il IV tono; se la

frequenza cardiaca è aumentata, si ha il cosiddetto galoppo di sommazione.

Figura 4 Oltre al I e al II tono, vengono rappresentati il III tono (protodiastolico) e il IV tono (presistolico o

telediastolico).

I Toni aggiunti

A parte i toni descritti, è possibile ascoltare, in particolari condizioni, patologiche, i seguenti toni aggiunti.

1) I click sistolici, che comprendono il click del prolasso mitralico (Figura 5) (vedi Capitolo 15) e i click eiettivi

aortico e polmonare, apprezzabili a volte in presenza di stenosi aortica o polmonare.

Figura 5 A: click mesosistolico del prolasso mitralico.

B: il clock è seguito da un soffio mesotelesistolico.

2) Gli schiocchi d’apertura della mitrale o della tricuspide, che si determinano al momento dell’apertura di una

valvola stenotica. Normalmente non si generano vibrazioni udibili all’aprirsi delle valvole A-V, ma quando queste

divengono stenotiche la loro apertura provoca un tono aggiunto a tonalità alta, detto appunto schiocco

d’apertura (Figura 6).

Figura 6 Quadro ascoltatorio nella stenosi mitralica. Il I tono è di intensità aumentata, e dopo il secondo

tono compare lo schiocco d’apertura della mitrale (SAM) seguito dal soffio diastolico (SD)

I Soffi

Un soffio è il rumore che si genera quando il flusso del sangue diventa turbolento, e può essere ascoltato col

fonendoscopio non solo in corrispondenza del cuore, ma anche sui vasi. In condizioni ideali, il flusso del sangue

dovrebbe essere laminare (in base al numero di Reynolds), ma in realtà non lo è quasi mai; la turbolenza

marcata del flusso, tale da generare vortici che poi si ascoltano come “soffi” si deve a vari motivi, inclusa la

stessa viscosità del sangue. I soffi cardiaci dipendono essenzialmente da: a) un ostacolo anormale al flusso,

come per esempio quello rappresentato da una valvola stenotica; b) un flusso non fisiologico, come per

esempio quello che si genera nel difetto del setto interventricolare, nel quale vi è un flusso “innaturale” del

sangue da un ventricolo all’altro; c) un’aumentata velocità e/o un’aumentata quantità del flusso, come si

verifica per esempio nell’insufficienza aortica “pura” dove, in assenza di stenosi valvolare, si può ascoltare sul

focolaio aortico un soffio sistolico quando la gittata sistolica ventricolare sinistra è notevolmente aumentata

(vedi Capitolo 17).

I soffi cardiaci si distinguono in base alla loro cronologia (cioè alla fase del ciclo cardiaco in cui si ascoltano), al

timbro, alla intensità, alla sede di ascoltazione e alla irradiazione.

Una prima importante distinzione è fra soffi sistolici, diastolici e continui; questi ultimi occupano tutto il ciclo

cardiaco, mentre i primi sono limitati a una sola delle due fasi. All’interno delle categorie dei soffi sistolici e

diastolici, poi, se ne trovano alcuni che occupano tutta la sistole (soffio olosistolico) o tutta la diastole (soffio

olodiastolico) e altri la cui durata è minore, che vengono definiti con i prefissi proto, meso o tele (protosistolici,

protodiastolici, etc) secondo che occupino solo la parte iniziale della fase (sistole o diastole) in cui si ascoltano,

oppure la parte intermedia o quella finale.

Per quanto riguarda il timbro, i soffi vengono tradizionalmente definiti impiegando termini come dolce, rude,

aspro, aspirativo, raspante, e altri fra cui è molto diffuso quello di “rullio” per indicare il soffio diastolico della

stenosi mitralica, che viene assimilato a un rullio di tamburi.

La sede di ascoltazione di un soffio cardiaco è il punto del precordio dove il soffio ha la massima intensità.

I quattro “classici” focolai dell’ascoltazione sono quello mitralico (alla punta del cuore), tricuspidalico (all’incirca

alla base dell’apofisi ensiforme), aortico (sulla margino-sternale destra, al secondo spazio intercostale) e

polmonare (sulla margino-sternale sinistra, al secondo spazio intercostale).

L’irradiazione del soffio è la direzione in cui, partendo dalla sede, è ancora possibile ascoltarlo bene. E’

caratteristica l’irradiazione all’ascella del soffio dell’insufficienza mitralica e l’irradiazione al giugulo del soffio

della stenosi aortica.

L’intensità dei soffi viene in genere valutata solo per quelli sistolici, secondo la scala a 6 gradini proposta da

Levine, la quale tiene anche conto del fatto che quando un soffio è molto intenso, le vibrazioni generate dalla

turbolenza del flusso si possono non solo ascoltare, ma anche palpare come fremiti, appoggiando la mano sul

precordio.

• 1/6 è quel soffio che non si avverte immediatamente, ma solo quando si ascolta il cuore con grande

attenzione

• 2/6 è un soffio che si ascolta immediatamente, ma è relativamente debole

• 3/6 è un soffio forte ma non accompagnato da fremito

• 4/6 è un soffio forte accompagnato da fremito

• 5/6 è un soffio fortissimo, accompagnato da fremito, ma che non si ascolta più se si solleva il

fonendoscopio a 1 cm dalla cute

• 6/6 è un soffio fortissimo, accompagnato da fremito, che si continua ad ascoltare anche se si solleva il

fonendoscopio a 1 cm dalla cute

I soffi sistolici, inoltre, possono essere distinti in eiettivi e da rigurgito. Questa distinzione ha molta importanza

da un punto di vista clinico perché mentre i soffi eiettivi possono essere sia organici, determinati cioè da una

lesione anatomica (per esempio, una stenosi valvolare aortica), che funzionali, legati a motivi differenti da

un’alterazione strutturale (per esempio, un’aumentata velocità del flusso), i soffi da rigurgito sono sempre

organici, espressione di un’alterazione anatomica.

I soffi eiettivi (Figura 7) iniziano a una certa, anche se breve, distanza dal I tono. Prendiamo come esempio il

soffio eiettivo della stenosi aortica: all’inizio della sistole il ventricolo sinistro si contrae e fa chiudere la valvola

mitrale, dando origine al I tono; in questa fase, che prende il nome di contrazione isometrica (o isovolumetrica)

l’eiezione del sangue dal ventricolo non è ancora iniziata. Solo quando la pressione endoventricolare cresce e

supera quella vigente in aorta (circa 80 mm Hg in condizioni normali) la valvola aortica si apre e ha inizio il

flusso attraverso la valvola e con esso il soffio, assumendo che la valvola sia stenotica. Questo soffio, perciò,

inizierà a una certa distanza dal I tono, non simultaneamente ad esso.

Figura 7 Soffio sistolico eiettivo (SS).

Osserviamo ora il soffio da rigurgito della insufficienza mitralica (Figura 8). Questo inizia senza alcun ritardo

rispetto al I tono, ma contemporaneamente ad esso; infatti appena la valvola mitrale si chiude e si genera il I

tono inizia il rigurgito di sangue in atrio sinistro, ben prima che la pressione intraventricolare aumenti al di

sopra di quella aortica e la valvola aortica si apra. In definitiva, il soffio sistolico da rigurgito inizia attaccato al I

tono, mentre il soffio sistolico eiettivo è staccato dal I tono.

Figura 8 Soffio sistolico da rigurgito nell’insufficienza mitralica. In B è anche presente il III tono

I soffi sistolici da eiezione hanno in generale la caratteristica di essere in crescendo-decrescendo, assumendo

una morfologia “a diamante” (Figura 7), mentre i soffi da rigurgito hanno un aspetto “a nastro” conservando la

stessa intensità per tutta la loro durata.

I soffi sistolici da rigurgito sono quelli dell’insufficienza mitralica, dell’insufficienza tricuspidale, del difetto del

setto interventricolare; quelli eiettivi possono essere organici, legati alla stenosi aortica (Capitolo 16) o alla

stenosi polmonare (Capitolo 18), ma possono anche essere soltanto di natura funzionale, espressione di una

stenosi relativa, dovuti non a riduzione dell’ostio valvolare, ma semplicemente ad aumento del flusso con

un’area valvolare normale.

I soffi diastolici sono quasi sempre organici, e comprendono il soffio (rullio) diastolico della stenosi mitralica

(Figura 6) (Capitolo 14), quello della stenosi tricuspidalica (Capitolo 18), il soffio dell’insufficienza aortica

(Figura 9) (Capitolo 17) e quello dell’insufficienza polmonare (Capitolo 18).

Figura 9 A: soffio diastolico in decrescendo dell’insufficienza aortica.

B: al soffio diastolico si associa un soffio sistolico eiettivo.

I soffi continui sono sempre legati ad una anormale connessione fra il circolo arterioso e quello venoso, con

shunt artero-venoso che dura per tutto il ciclo cardiaco. Il prototipo del soffio continuo è quello generato dalla

pervietà del dotto arterioso di Botallo (Figura 10) (Capitolo 51), che si ascolta in sede sottoclaveare sinistra.

Figura 10 Soffio continuo nella pervietà del dotto arterioso. Il soffio copre tutto il ciclo cardiaco (sistole e

diastole) ed ha il suo acme il corrispondenza del II tono.

Gli Sfregamenti

Relativamente simili ai soffi sono gli sfregamenti pericardici, che si ascoltano in alcuni soggetti affetti da

pericardite (Capitolo 32). Normalmente i foglietti pericardici viscerale e parietale sono lisci e scorrono l’uno

sull’altro senza alcuna frizione, ma in seguito all’infiammazione il movimento dei foglietti, divenuti rugosi,

genera gli sfregamenti, che spesso si ascoltano sia in sistole che in diastole.

Sezione II. Le indagini strumentali

Capitolo 3. L’Elettrocardiogramma, Giuseppe Oreto, Francesco Luzza, Maria Pia Calabrò

L’attività elettrica del cuore

Le fibrocellule miocardiche sono polarizzate in condizioni di riposo, cioè possiedono una elettronegatività sulla

faccia interna della membrana cellulare, mentre la faccia esterna è carica positivamente. Per contrarsi, ogni

cellula deve prima essere depolarizzata, cioè attivata elettricamente: durante la depolarizzazione s’inverte la

polarità della membrana, la cui faccia interna diviene carica positivamente. Completatasi la depolarizzazione, la

cellula ritorna allo stato iniziale: si realizza quindi la ripolarizzazione, al termine della quale la cellula diviene

nuovamente eccitabile, cioè può andare incontro a una nuova depolarizzazione. I processi elettrici delle

fibrocellule miocardiche si realizzano mediante il movimento di ioni (particelle cariche elettricamente) i quali

attraversano la membrana passando attraverso specifici canali.

LE ONDE DELL’ELETTROCARDIOGRAMMA

L’Elettrocardiogramma (ECG) è una registrazione grafica dell’attività elettrica del cuore, ed è formato da diverse

onde, le quali si ripetono, normalmente con lo stesso ordine, in ogni ciclo cardiaco, e vengono denominate P, Q,

R, S, T ed U (Figura 1). Non necessariamente sono presenti tutte le onde, poiché anche in condizioni

fisiologiche una o più di esse possono non essere evidenti o mancare. Nella Figura 1B per esempio, dopo la P

compaiono le onde Q ed R ma non la S.

Figura 1/1A/1B Le onde dell’Elettrocardiogramma. A e B sono due diverse derivazioni registrate

simultaneamente.

L’onda P corrisponde alla depolarizzazione atriale, mentre le onde Q, R ed S sono l’espressione della

depolarizzazione ventricolare; l’onda T rappresenta la ripolarizzazione ventricolare. Il significato dell’onda U è

meno chiaro, e la sua genesi è ancora discussa. Fra un ciclo cardiaco e l’altro (cioè fra una serie di onde

PQRSTU e la successiva) vi è generalmente una fase più o meno lunga in cui il cuore è elettricamente silente,

cioè non vi sono onde. In questo periodo l’elettrocardiogramma registra una linea piatta, detta isoelettrica.

Le onde P, T ed U possono essere positive, cioè rivolte in alto (Figura 1A) o negative, cioè rivolte in basso

(Figura 1B); per quanto riguarda il complesso ventricolare (QRS), invece, un’onda positiva è sempre

denominata R, mentre le onde negative si definiscono Q oppure S a seconda che compaiano prima o dopo

un’onda R.

La carta su cui viene registrato il tracciato elettrocardiografico presenta un fine reticolato di linee ortogonali che

formano dei quadrati. Esistono linee spesse, che distano l’una dall’altra 5 mm, e linee sottili, separate da una

distanza di 1 mm; le prime formano quadrati con lati di 5 mm, le seconde quadrati con lati di 1 mm. Ogni

quadrato “grande” contiene perciò 25 quadrati “piccoli” (Figura 2). Le linee servono come punti di riferimento

per misurare sia l’ampiezza (cioè il voltaggio) delle onde che la loro durata. Sull’asse verticale si misura

l’altezza (ampiezza) della deflessione, partendo dall’isoelettrica. Per esempio, nella Figura 3 l’onda P ha

un’altezza di 2 mm, l’onda q di 1 mm, l’onda R di 13 mm, l’onda S di 2 mm e la T di 2,5 mm. Poiché in una

registrazione elettrocardiografica standard 10 mm corrispondono a 1 mV, potremo affermare che l’onda P ha

un’ampiezza di 0,2 mV, la Q di 0,1 mV, la R di 1,3 mV, etc. Mentre la dimensione verticale serve per misurare il

voltaggio delle onde, quella orizzontale consente di valutare la durata delle varie deflessioni. Con la velocità

tradizionale di scorrimento della carta (25 mm al secondo), un secondo corrisponde a 5 quadrati grandi o, ciò

che è lo stesso, a 25 quadrati piccoli. Di conseguenza, ogni quadrato grande equivale a 0,2 secondi (200

millisecondi) e ogni quadrato piccolo a 0,04 secondi (40 millisecondi). Proviamo ora a determinare la durata

delle varie onde misurandone la larghezza. Nella Figura 3 l’onda P ha una larghezza di 2 quadrati piccoli, per

cui la sua durata sarà 0,08 sec (0,04x2); anche il QRS occupa lo spazio di 2 quadrati piccoli, cioè ha una durata

di 0,08 secondi (80 millisecondi). Oltre alla durata delle varie onde, si misurano anche alcuni intervalli,

particolarmente il P-Q (o P-R) e il QT. Nella Figura 3 il P-Q (dall’inizio della P all’inizio del QRS) misura circa

0,17 secondi e il QT (dall’inizio del QRS alla fine della T) 0,39 secondi.

Figura 2 La carta dell’Elettrocardiografo.

Figura 3 L’onda P, il complesso QRS e l’onda T. Le linee della carta dell’elettrocardiografo consentono di

misurare l’ampiezza (voltaggio) e la durata (secondi) delle diverse onde.

LE DERIVAZIONI DELL’ELETTROCARDIOGRAMMA

L’elettrocardiogramma tradizionale comprende 12 derivazioni. Ciascuna di esse descrive lo stesso fenomeno (i

processi di depolarizzazione e di ripolarizzazione del cuore) visto, però, da diversi punti di osservazione. La

presenza di più derivazioni serve a ricostruire rapidamente l’andamento dei fenomeni elettrici del cuore. Allo

stesso modo, se noi vogliamo studiare le caratteristiche architettoniche di un edificio, dobbiamo girarci intorno

per analizzarlo da diverse angolazioni: l’edificio è sempre lo stesso, ma cambia la parte che di volta in volta

vediamo. Perciò ogni derivazione contiene le stesse onde (P,Q,R,S,T,U) nella stessa sequenza, ma la polarità

(positiva o negativa), il voltaggio e la durata delle deflessioni saranno più o meno diversi nelle differenti

derivazioni. Tuttavia, se noi riusciamo a mettere insieme le informazioni che le 12 derivazioni ci offrono,

apparirà alla nostra mente l’intera sequenza degli eventi elettrici del cuore, e potremo allora discriminare la

normalità dalla patologia, e nell’ambito di quest’ultima distinguere diversi aspetti.

Le 12 derivazioni sono:

Periferiche (degli arti):

Bipolari (Figura 4): I (o D1) - Polo positivo braccio sn, polo negativo braccio dx

II (o D2) - Polo negativo braccio dx, polo positivo gamba sn

III (o D3) - Polo negativo braccio sn, polo positivo gamba sn

Unipolari:aVR - Polo positivo braccio dx

aVL - Polo positivo braccio sn

aVF - Polo positivo gamba sn

Figura 4 Le tre derivazioni bipolari dagli arti (I, II, III).

Precordiali o toraciche

(Figura 5):V1 IV - spazio intercostale dx, sulla marginosternale

V2 IV - spazio intercostale sn, sulla marginosternale

V3 - A metà strada fra V2 e V4

V4 V - spazio intercostale sn, sull’emiclaveare

V5V - spazio intercostale sn, sull’ascellare anteriore

V6 V - spazio intercostale sn, sull’ascellare media

Figura 5 Posizione dell’elettrodo esplorante nelle derivazioni precordiali.

Le prime 6 derivazioni vengono registrate con elettrodi posti sugli arti e vengono perciò dette periferiche (o

derivazioni degli arti), mentre le seconde 6 si ottengono ponendo gli elettrodi sul torace, nella regione

precordiale, da cui il nome di derivazioni precordiali. Inoltre, fra le derivazioni periferiche le prime tre sono

bipolari e le seconde tre unipolari.

IMPIEGO CLINICO DELL’ELETTROCARDIOGRAMMA

Due sono i campi principali di applicazione dell’ECG: da un lato lo studio del ritmo cardiaco e la diagnosi della

aritmie, e dall’altro il riconoscimento di alcune condizioni patologiche del cuore (per esempio, l’infarto

miocardico) che alterano in modo caratteristico l’attività elettrica cardiaca. Mentre per le aritmie, però, l’ECG è

insostituibile e rappresenta la metodica di riferimento, per molte altre condizioni esistono tecniche più adatte a

rivelare il processo patologico, per cui l’ECG passa in secondo piano. Per esempio, l’ipertrofia miocardica viene

definita con maggiore accuratezza dall’Ecocardiografia che dall’ECG poiché la prima è in grado di valutare la

massa miocardica, mentre il secondo può solo indicare le eventuali anomalie elettriche che l’ipertrofia induce, e

quindi rivela questa condizione solo indirettamente.

A parte che per lo studio delle aritmie, l’ECG viene impiegato in clinica per diagnosticare l’ingrandimento degli

atri, l’ipertrofia dei ventricoli, i disturbi di conduzione intraventricolare (blocchi di branca e fascicolari),

l’ischemia miocardica e le sue diverse manifestazioni, alcune disionie, l’effetto di alcuni farmaci sul cuore. L’ECG

è anche molto importante per riconoscere alcune condizioni spesso congenite, a volte su base genetica, che

possono condurre ad aritmie anche letali (Preeccitazione, QT lungo o corto, Fenomeno di Brugada), e fornisce

anche informazioni utili per il riconoscimento di malattie quali la pericardite, le cardiomiopatie, il cuore

polmonare cronico, l’embolia polmonare.

LA DETERMINAZIONE DELL’ASSE DI QRS (ÂQRS)

L’ECG rappresenta sotto forma di onde i vettori prodotti dalla depolarizzazione e dalla ripolarizzazione cardiaca.

Il cuore genera, istante per istante, numerose forze elettriche che possono essere espresse da vettori; la

somma di tutti i vettori che compaiono in un determinato momento rappresenta il vettore medio istantaneo;

sommando tutti i vettori medi istantanei che si succedono durante la depolarizzazione ventricolare si ottiene il

vettore medio del QRS o asse del QRS (ÂQRS). La direzione di questo vettore può essere calcolata nei tre piani

dello spazio: piano frontale, piano orizzontale o trasverso, piano sagittale; in pratica, però, l’ÂQRS viene

determinato solo sul piano frontale, e il calcolo della sua direzione è semplice in base all’analisi delle derivazioni

periferiche (derivazioni degli arti). Per questo scopo, possiamo immaginare la genesi dell’ECG assumendo che in

ogni piano il cuore sia il centro di una circonferenza, e che da esso si originino le forze, espresse come vettori:

le varie onde da cui è formato il tracciato elettrocardiografico non sono altro che le proiezioni dei vettori sui

diametri della circonferenza.

Analizziamo solo il piano frontale: ogni derivazione corrisponde a un diametro, con un estremo positivo e uno

negativo. Per descrivere la posizione dei diversi diametri si usa una schematizzazione geometrica, dove la

definizione in gradi identifica l’estremità positiva di ogni derivazione. Il piano frontale presenta le direzioni alto,

basso, sinistra e destra (Figura 6). Per convenzione, il punto più a sinistra viene definito 0°, quello più basso

+90°, quello più in alto –90° e quello più a destra ±180°; i vettori diretti nella metà inferiore della

circonferenza (in basso) vengono espressi con segni positivi (per esempio, +70°), mentre i vettori diretti in alto

hanno segno negativo (per esempio, -40°).

Figura 6 La circonferenza rappresenta il piano frontale del cuore. Il punto più a sinistra viene definito 0°,

quello più basso +90°, quello più in alto –90° e quello più a destra +/-180°.

Ciascuna derivazione periferica (del piano frontale) ha una sua linea, corrispondente a un diametro della

circonferenza, e viene identificata in base al suo polo positivo (Figura 7). Nel nostro approccio semplificato,

tuttavia, utilizzeremo solo una coppia di derivazioni ortogonali: I e aVF. Nell’osservare ogni derivazione, bisogna

tenere in considerazione la posizione della linea di derivazione e il diametro perpendicolare ad essa.

Figura 7 Le 6 derivazioni del piano frontale (derivazioni periferiche) corrispondono ai diametri di una

circonferenza. Ogni derivazione ha un polo positivo (evidenziato in rosso) e un polo negativo.

Esaminando la I derivazione, la cui linea va da 0° (polo positivo) a ±180° (polo negativo), osserviamo che il

diametro perpendicolare alla linea di derivazione va da –90° a +90° (Figura 8). La linea della I derivazione può

essere divisa in due metà: la parte che va dal centro della circonferenza al polo positivo è l’emilinea positiva e

quella che va dal centro al polo negativo l’emilinea negativa.

Figura 8 La linea della I derivazione, che ha il polo positivo a 0° e quello negativo a +/-180°, è divisa in due

parti: la metà positiva va dal centro della circonferenza al polo positivo e la metà negativa dal centro al polo

negativo.

Facciamo ora partire dei vettori dal centro della circonferenza (Figura 9): il vettore A proietterà sulla metà

positiva della linea della derivazione, il vettore B proietterà sull’emilinea negativa, mentre il vettore C è

perpendicolare alla linea e la sua proiezione su di essa sarà un punto. Tradotti in termini di ECG, questi

fenomeni significano che il vettore A darà luogo ad una deflessione positiva, cioè rivolta verso l’alto, mentre il

vettore B originerà un’onda negativa, diretta in basso, e il vettore C non genererà alcuna onda, visto che la sua

proiezione sulla linea è puntiforme, cioè nulla. L’ampiezza dell’onda sarà direttamente proporzionale alla

lunghezza della proiezione del vettore sulla linea di derivazione. Se noi suddividiamo la linea in unità arbitrarie,

ci rendiamo conto che la proiezione del vettore A misura 5,5 unità e quella del vettore B 3,5 unità. Ciò trova

immediato riscontro nel tracciato: l’onda generata dal vettore A è alta 5,5 mm, mentre quella dovuta al vettore

B misura 3,5 mm. Esprimendoci più correttamente, diremo che l’ampiezza di A è 0.55 mV (millivolt) e quella di

B 0.35 mV.

Figura 9 Viene rappresentata la proiezione dei vettori A, B e C sulla linea della I derivazione. A destra

compare l’espressione elettrocardiografica degli stessi vettori.

Consideriamo ora il vettore A (Figura 10). Sappiamo che in I derivazione esso dà una deflessione positiva, ma

non possiamo, con questa sola informazione, calcolarne la direzione. Si può soltanto affermare, visto che esso

proietta sull’emilinea positiva della I derivazione, che è diretto a sinistra, compreso nell’angolo piatto segnato in

verde nella figura.

Figura 10 Proiezione del vettore A sulla linea della I derivazione, ed espressione elettrocardiografica del

vettore.

Analizziamo ora aVF (Figura 11), il cui polo positivo è a +90°: il vettore A proietta sulla metà positiva della

linea di questa derivazione, il che vuol dire che esso è diretto nell’angolo piatto segnato in verde nella figura

(fra 0° e ±180°). In altri termini, aVF ci dice che il vettore A è diretto in basso. Se adesso mettiamo insieme le

informazioni provenienti dalle due derivazioni fin qui studiate (Figura 12), ci accorgiamo che è possibile

circoscrivere la direzione del vettore nell’angolo retto che va da 0° a +90° (segnato in verde), poiché l’ECG

mostra un’onda positiva sia in I derivazione che in aVF: il vettore, perciò, dev’essere diretto in basso e a

sinistra.

Figura 11 Proiezione del vettore A sulla linea della derivazione aVF, ed espressione elettrocardiografica del

vettore.

Figura 12 Dal paragone fra gli elettrocardiogrammi registrati nelle derivazioni I e aVF si desume che il vettore

A è diretto nell’angolo retto compreso fra 0° e +90° (segnato in verde).

L’ÂQRS normale è diretto in basso e a sinistra; per questo motivo in un ECG normale il complesso QRS è

positivo sia in I derivazione che in aVF (Figura 13A). La deviazione assiale sinistra, invece è caratterizzata da

un ÂQRS diretto nel quadrante superiore sinistro, cioè in alto e a sinistra (Figura 13B); in questa situazione il

complesso QRS sarà negativo in aVF (il vettore proietterà sulla metà negativa della linea di derivazione) e

positivo in I. Nella deviazione assiale destra, invece, il vettore medio di QRS è diretto verso destra nel

quadrante inferiore destro (Figura 14A) o in quello superiore destro (Figura 14B). Ciò che contraddistingue la

deviazione assiale destra, comunque, è la negatività del complesso QRS in I derivazione; quando l’ÂQRS è

diretto a destra e in basso, il QRS è positivo in aVF (Figura 14A), mentre se è diretto a destra e in alto

(cosiddetta deviazione assiale destra estrema, Figura 14B) sia la I derivazione che aVF presentano un

complesso ventricolare negativo (Tabella I).

Figura 13 A: ÂQRS normale, diretto fra 0° e + 90°, il QRS è positivo in I e in aVF. B: ÂQRS deviato a sinistra,

diretto fra -90° e 0°: il QRS è positivo in I e negativo in aVF.

Figura 14 A: ÂQRS deviato a destra, diretto fra 90° e +/-180; il QRS è negativo in I e positivo in aVF. B:

ÂQRS con deviazione assiale destra estrema, diretto fra +/-180 e -90°: il QRS è negativo in I e in aVF.

Tabella 1

L’INGRANDIMENTO DEGLI ATRI

Ingrandimento atriale sinistro. L’ingrandimento dell’atrio sinistro si esprime con aumento di durata dell’onda P,

che raggiunge o supera 0,12 secondi, con la comparsa di onde P bifide in alcune derivazioni (per esempio, I, II

o precordiali da V2 a V6) e di un’onda P difasica positivo/negativa in V1, caratterizzata da una componente

negativa rallentata (ECG 01, ECG 06, ECG 07, ECG 11).

Ingrandimento atriale destro. L’ingrandimento dell’atrio destro viene suggerito da onde P con durata normale,

ma alte, con voltaggio 0,25 mV (2,5 mm) e appuntite nelle derivazioni II, III, aVF, e da onde P positive o

prevalentemente positive e appuntite in V1 (ECG 02, ECG 03, ECG 04, ECG 05).

L’IPERTROFIA DEI VENTRICOLI

L’ incremento della massa ventricolare si esprime con numerose alterazioni, di cui le più importanti sono

l’aumentato voltaggio del QRS, le alterazioni della ripolarizzazione (anomalie del tratto ST e dell’onda T) e, per

l’ipertrofia ventricolare destra, la deviazione assiale.

Ipertrofia ventricolare sinistra. Per diagnosticare l’ipertrofia ventricolare sinistra attraverso l’aumento del

voltaggio sono stati proposti molti indici, il più noto dei quali è l’indice di Sokolov, basato sulla somma dall’onda

S in V1 più l’onda R in V5 o V6. Quando questa somma raggiunge o supera 35 mm (3,5 mV) si può

diagnosticare l’ipertrofia ventricolare. Molto importanti, nell’ipertrofia ventricolare sinistra, sono le alterazioni

secondarie di ST-T (Figura 15), caratterizzate da un tratto ST sottoslivellato e da una T negativa asimmetrica

nelle derivazioni in cui il QRS è positivo. Casi di ipertrofia ventricolare sinistra si osservano nelle Figure ECG 06,

ECG 07, ECG 08.

Figura 15 A: QRS normale (Derivazione V5 o V6). B: Ipertrofia ventricolare sinistra, caratterizzata da

aumento di voltaggio dell’onda R, scomparsa dell’onda q e alterazioni secondarie di ST-T.

Ipertrofia ventricolare destra. L’ipertrofia ventricolare destra si esprime all’ECG in primo luogo con una

deviazione assiale destra (Figura 14); la deviazione dell’ÂQRS a destra è normale nel neonato e nel bambino

piccolo mentre è un fenomeno anormale nell’adulto ed esprime quasi sempre l’ipertrofia del ventricolo destro.

Un altro segno è rappresentato dalle onde R alte nelle precordiali destre (V1,V2), con rapporto R/S>1. Casi di

ipertrofia ventricolare sinistra si osservano nelle Figure ECG 03, ECG 04, ECG 05.

I DISTURBI DELLA CONDUZIONE INTRAVENTRICOLARE

Il sistema di conduzione intraventricolare è costituito dalle branche e dalle loro diramazioni (il nodo A-V e il

fascio di His fanno, invece, parte della giunzione atrio-ventricolare). In condizioni fisiologiche l’impulso nasce

nel nodo del seno, attraversa gli atri e giunge al nodo A-V e da qui al fascio di His, da dove raggiunge

simultaneamente le due branche e, percorrendo le diramazioni di queste raggiunge la rete di Purkinje, la quale

permette la rapida distribuzione dell’impulso a un gran numero di cellule. La funzione del sistema di conduzione

intraventricolare è consentire l’attivazione (e di conseguenza la contrazione) simultanea dei due ventricoli,

fenomeno di grande importanza da un punto di vista fisiologico. Poiché la branca sinistra si suddivide

precocemente in due fascicoli (anteriore e posteriore), da un punto di vista elettrocardiografico, il sistema di

conduzione è costituito da 3 fascicoli: la branca destra, il fascicolo anteriore e quello posteriore (Figura 16).

Numerosi processi patologici possono alterare la conduzione in una o più sezioni del sistema di conduzione

intraventricolare; si distinguono, quindi, i blocchi di branca (blocco di branca destra, blocco di branca sinistra), i

blocchi fascicolari (blocco fascicolare anteriore, blocco fascicolare posteriore, definiti anche come emiblocco

anteriore ed emiblocco posteriore), i blocchi bifascicolari (blocco di branca destra + blocco fascicolare anteriore,

blocco di branca destra + blocco fascicolare posteriore) e quelli trifascicolari, nei quali tutti e tre i fascicoli sono

compromessi.

Figura 16 Il sistema di conduzione atrio-ventricolare e intraventricolare. NAV = Nodo atrio-ventricolare. HIS

= Fascio di His. BD = Branca destra. BS = Branca sinistra,

Blocco di branca destra

E’ caratterizzato da complessi con onda r (o R) terminale in V1 (morfologia rSr’, rSR’, rR’) e da complessi con

onda S larga in I e V6. La durata del QRS è aumentata e raggiunge o supera 0,12 secondi nel blocco di branca

destra completo, mentre è minore nella forma incompleta. Un blocco di branca destra si osserva nell’ ECG 10.

Blocco di branca sinistra

In questo blocco il complesso QRS è molto caratteristico nelle derivazioni I e V6, dove è intieramente positivo,

con morfologia “a M” o “R con plateau”, il tratto ST è sottoslivellato e la T negativa. Come nel blocco di branca

destra, la durata del QRS è aumentata, e raggiunge o supera 0,12 secondi nel blocco di branca sinistra

completo, mentre è minore nella forma incompleta. Casi di blocco di branca sinistra si osservano nelle Figure

ECG 11 ed ECG 12.

Blocco fascicolare anteriore (Emiblocco anteriore)

Si riconosce per la presenza di deviazione assiale sinistra (ÂQRS a -30° o più in alto, testimoniato da complessi

QRS positivi in I, negativi in aVF e isodifasici o negativi in II derivazione) associata a complessi qR in I e aVL ed

a complessi rS in III e aVF (ECG 13).

Blocco fascicolare posteriore (Emiblocco posteriore

E’ un disturbo di conduzione estremamente raro quando isolato, ed è caratterizzato da deviazione assiale destra

associata a complessi qR in II, III, aVF. Per affermare la presenza di un blocco fascicolare posteriore, è

necessario escludere un’ipertrofia ventricolare destra.

Blocco di branca destra + blocco fascicolare anteriore

Presenta i caratteri del blocco di branca destra isolato (complessi rSr’, rSR’, rR’ in V1, complessi con onda S

larga in I e V6) insieme alla deviazione assiale sinistra, come nel blocco fascicolare anteriore.

Elettrocardiogrammi tipici di blocco di branca destra associato a blocco fascicolare anteriore si osservano nelle

Figure ECG 14 ed ECG 15.

Blocco di branca destra + blocco fascicolare posteriore

Presenta i caratteri del blocco di branca destra isolato (complessi rSr’, rSR’, rR’ in V1, complessi con onda S

larga in I e V6) insieme alla deviazione assiale destra, come nel blocco fascicolare posteriore. Un esempio tipico

di blocco di branca destra associato a blocco fascicolare posteriore si osserva nell’ ECG 16.

LA CARDIOPATIA ISCHEMICA

L’ischemia miocardica si esprime all’ECG con una serie di anomalie che riguardano principalmente il segmento

ST, l’onda T e il complesso QRS. Esiste un considerevole disaccordo riguardo la nomenclatura delle alterazioni

ischemiche dell’ECG: i classici trattati di Elettrocardiografia impiegano i termini di “ischemia”, “lesione” e

“necrosi” per indicare rispettivamente le modificazioni ischemiche dell’onda T, del tratto ST e del complesso

QRS; questi termini, tuttavia, non sono esatti da un punto di vista fisiopatologico: per esempio, l’alterazione di

T nota come “ischemia” è in realtà un fenomeno postischemico, cioè si manifesta al cessare dell’ischemia.

Conserveremo in questo libro la nomenclatura consacrata dall’uso (ischemia, lesione, necrosi) pur nella

coscienza della sua inesattezza.

La lesione

Nella cardiopatia ischemica, il tratto ST può essere sopraslivellato (lesione subepicardica) o sottoslivellato

(lesione subendocardica); in realtà nessuna di queste due alterazioni è specifica dell’ischemia miocardica,

poiché si può riscontrare (specialmente il sottoslivellamento di ST) in molte altre condizioni indipendenti

dall’ischemia. Le modificazioni ischemiche del tratto ST, tuttavia, specialmente il sopraslivellamento, possiedono

ancora oggi un ruolo diagnostico cruciale in molte situazioni cliniche, nonostante siano disponibili metodiche

strumentali ben più sofisticate e costose.

La lesione subepicardica si riscontra prevalentemente nell’infarto miocardico acuto e nell’angina di Prinzmetal

(vedi ECG 20, ECG 21, ECG 22). Il sopraslivellamento di ST può essere a concavità superiore o a convessità

superiore (Figura 17). Solitamente è a concavità superiore nelle fasi inizialissime dell’infarto, quando non si

sono ancora verificate alterazioni significative del QRS, e allora il complesso ventricolare somiglia a un

potenziale d’azione monofasico (Figura 17a), mentre assume convessità superiore in una fase successiva, se

pure acuta, dell’infarto, quando cioè si delineano le onde q e la T inizia a divenire negativa (Figura 17b). Un

carattere importante della lesione subepicardica è la sua evolutività: nell’infarto essa si manifesta soprattutto

durante la fase iniziale e persiste solo per ore o giorni. Cessata la fase acuta, l’ST ritorna gradualmente verso

l’isoelettrica, la T si negativizza e compare in genere un’onda q patologica nelle derivazioni interessate (Figura

18).

La lesione subendocardica (il sottoslivellamento “ischemico” del tratto ST) è a volte difficilmente distinguibile

dalle alterazioni secondarie osservabili in presenza di ipertrofia o blocco di branca, e ancora più difficilmente

separabile dalle anomalie di ST indotte da farmaci o da quelle alterazioni che vanno sotto il nome di “alterazioni

non specifiche della ripolarizzazione”. La situazione migliore per studiare la lesione subendocardica è il test

ergometrico, poiché in questa situazione si può paragonare l’ST in condizioni di riposo con quello osservato

durante lo sforzo. Quando il test è positivo, cioè indicativo di ischemia miocardica, compare un

sottoslivellamento di ST (Figura 19) che ha di solito un andamento dapprima ascendente (schema b), poi

rettilineo o piatto (c) e quindi discendente (d); quest’ultimo stadio si accompagna a negativizzazione dell’onda

T, o meglio a T bifasica negativo/positiva che può permanere anche quando, con la cessazione dell’esercizio, il

tratto ST si normalizza (e). In linea di massima, l’aspetto morfologico più tipico della lesione subendocardica è il

sottoslivellamento rettilineo del tratto ST (c); tuttavia non vi sono indicatori che consentano di discriminare con

certezza, solo sulla base della morfologia, l’alterazione ischemica da quella non ischemica di ST. Un dato

rilevante è offerto dall’evolutività del sottoslivellamento di ST: nel test ergometrico “positivo” l’ECG diviene

progressivamente anormale e poi torna alle condizioni basali entro breve tempo. Parimenti, nell'angina pectoris,

il sottoslivellamento di ST si riduce al migliorare della sintomatologia, mentre la persistenza dell’alterazione per

ore o giorni testimonia un infarto subendocardico. Elettrocardiogrammi caratteristici di lesione subendocardica

sono presentati nei casi ECG 18, ECG 19; in particolare l’ ECG 19b mostra la normalizzazione del tratto ST al

risolversi dell’angina.

Figura 17 Lesione subepicardica nella fase inizialissima dell’infarto miocardico acuto (a) e dopo alcune ore o

giorni (b). Il sopraslivellamento di ST è a concavità superiore in a e a convessità superiore in b, dove si osserva

anche l’onda q e l’onda T negativa.

Figura 18 I diversi stadi evolutivi dell’infarto miocardico.

Figura 19 Comportamento del tratto ST e dell’onda T durante un test ergometrico positivo.

La necrosi

La necrosi è un’alterazione del QRS generalmente conseguente ad un infarto miocardico. Nella maggior parte

dei casi, la necrosi si esprime con la comparsa di onde q patologiche o con la scomparsa di onde r, per cui si

osservano in alcune derivazioni complessi QS. Si afferma comunemente che le onde q, per essere indicative di

necrosi, debbano avere una durata di almeno 0.04 secondi e un voltaggio non inferiore a ¼ della R successiva.

Tuttavia, questo è un criterio non sempre utilizzabile: è a volte difficile distinguere un’onda q “di necrosi” da

un’onda q “normale”, anche perché l’estensione della zona necrotica è variabile, e in alcuni casi è così piccola da

non provocare un disordine elettrico tale da esprimersi con onde q di ampiezza sufficiente. Elettrocardiogrammi

dimostrativi di necrosi vengono presentati negli ECG 21, ECG 23, ECG 24.

L’Ischemia

In condizioni normali, l’onda T è positiva nelle derivazioni in cui il QRS è positivo, e viceversa. Nell’ischemia

subepicardica, invece, le onde T si presentano invertite rispetto a quanto atteso, cioè con una polarità opposta

rispetto a quella del QRS, e hanno una morfologia simmetrica, con uguale pendenza delle due branche, ed

apice appuntito (Figura 20a). Questi ultimi caratteri della T ischemica la rendono differente dalla T normale,

dove la branca prossimale è più lenta di quella distale, e l’apice è arrotondato. Un’altra configurazione

caratteristica, anche se meno comune, della T ischemica è quella difasica positivo/negativa, con componente

terminale negativa appuntita (Figura 20b).

Figura 20 Diverse morfologie dell’onda T “ischemica”.

Nell’infarto miocardico, le onde T “ischemiche” non si manifestano nella fase iperacuta, ma solo dopo ore o, a

volte, giorni. Si può affermare che la T “ischemica” sia in realtà un fenomeno post-ischemico, che compare cioè

quando la fase acuta dell’ischemia si è conclusa. Il problema diagnostico, cioè la corrispondenza o meno fra le

onde T “ischemiche” e la cardiopatia ischemica, si pone quando il quadro ECG dell’ischemia subepicardica

compare in assenza di infarto miocardico o al di fuori di una situazione clinica che deponga chiaramente per

cardiopatia ischemica. In un paziente con pregresso infarto è possibile non di rado osservare onde T ischemiche

anche molti anni dopo l'episodio acuto (ECG 23, ECG 24) ma, in assenza di dati che attestino l’esistenza di una

cardiopatia ischemica, il quadro ECG definibile come ischemia subepicardica non è di per sé dimostrativo di una

vera ischemia, neanche quando è morfologicamente tipico, cioè caratterizzato da onde T invertite simmetriche e

appuntite.

LE ALTERAZIONI DELL’EQUILIBRIO ELETTROLITICO

Le disionie, in particolare le alterazioni riguardanti il potassio e il calcio, influenzano l’ECG. L’iperkaliema (ECG

25, ECG 26) provoca aumentata durata (allargamento) del QRS e comparsa di onde T alte e appuntite, mentre

l’ipokaliema (ECG 27) induce sottoslivellamento di ST, appiattimento dell’onda T, comparsa di onda U e

allungamento del QT (vedi più avanti).

Anche l’ipocalcemia può essere responsabile di un allungamento del QT (ECG 28), ma in questa situazione la T

è pressoché normale mentre si allunga l’intervallo fra l’inizio del QRS e l’inizio della T.

L’INTERVALLO QT E I SUOI PROBLEMI

L’intervallo QT esprime la durata globale dell’attività elettrica ventricolare, e comprende sia la fase di

depolarizzazione che quella di ripolarizzazione; la misurazione del QT, tuttavia, viene impiegata esclusivamente

per valutare la ripolarizzazione ventricolare. Ciò dipende dal fatto che mentre è semplice determinare l’inizio e il

termine della depolarizzazione, non è altrettanto immediato riconoscere l’inizio della ripolarizzazione. Alcune

cellule ventricolari, infatti, iniziano a ripolarizzarsi mentre altre si stanno ancora depolarizzando, per cui è

pressoché impossibile valutare la durata esatta del processo di recupero, e si preferisce esprimere la durata

totale della “sistole elettrica”, appunto l’intervallo QT, che va misurato dall’inizio del complesso QRS alla fine

dell’onda T.

Si tratta di un parametro molto importante, poiché numerose condizioni patologiche, e soprattutto l’effetto di

svariati farmaci, si manifestano con variazioni dell’intervallo QT, in genere con l’allungamento di esso, ed

eccezionalmente con l’accorciamento.

Il QT si modifica notevolmente con il variare della frequenza cardiaca, essendo più breve a frequenze alte e più

lungo per frequenze basse. Diviene perciò indispensabile correggere il QT per la frequenza cardiaca, ed è

quanto solitamente si fa con la formula di Bazett, in base alla quale il QT corretto (QTc) è uguale al rapporto fra

il QT e la radice quadrata dell’intervallo R-R (entrambe le misure vengono espresse in secondi). Da questa

formula si evince che il QTc è uguale al QT se la frequenza cardiaca è di 60 al minuto, poiché a questa

frequenza l’intervallo RR misura 1 secondo, e la radice quadrata di 1 è 1. Per frequenze maggiori di 60 il QTc è

sempre maggiore del QT, mentre per frequenze minori di 60 il QTc è minore del QT.

Il QT lungo

L’allungamento del QT (QTc > 0.45 secondi negli uomini, > 0,46 secondi nei bambini di ambo i sessi, > 0.47

secondi nelle donne) può conseguire ad un’anomalia congenita, cioè ad una malattia dei canali ionici dipendente

da un’alterazione cromosomica (vedi Capitolo…), o essere di natura acquisita. Diversi geni sono stati

riconosciuti come responsabili della malattia, e differenti forme sono state identificate; le Figure ECG 33 ed

ECG 34 riportano tracciati elettrocardiografici di pazienti con Sindrome da QT lungo congenito. Il QT lungo

acquisito riconosce una serie di cause; fra queste le disionie (Ipokaliemia, Ipocalcemia), numerosi farmaci,

particolarmente gli antiaritmici (Sotalolo, Amiodarone, Ibutilide, Chinidina, Disopiramide) diversi antidepressivi

e alcuni farmaci gastrointestinali; anche l’ischemia miocardica e il blocco A-V (ECG 35) rientrano fra le possibili

cause del QT lungo. L’allungamento del QT è temibile perché può provocare aritmie gravi, particolarmente la

tachicardia ventricolare a torsione di punte (vedi Capitolo…) e la fibrillazione ventricolare.

Il QT corto

L’accorciamento dell’intervallo QT è molto più raro dell’allungamento. In linea di massima dipende, allo stesso

modo del QT lungo, da malfunzionamento su base genetica dei canali ionici, e può associarsi ad aritmie gravi e

a morte improvvisa (vedi Capitolo…). L’accorciamento acquisito del QT è di natura disionica (ipercalcemia) o

farmaco-indotta. L’ ECG 36 riporta un caso di Sindrome da QT corto.

LA PREECCITAZIONE

Si definisce con questo termine la condizione in cui una zona miocardica viene attivata prima di quanto sarebbe

avvenuto se l’impulso fosse stato condotto solo attraverso le normali vie di conduzione. Responsabile della

preeccitazione è sempre una via accessoria, cioè un fascio anomalo che connette, a parte rare eccezioni, gli atri

ai ventricoli; poiché la velocità di conduzione attraverso il fascio accessorio è maggiore di quella attraverso la

via normale (Nodo A-V, Fascio di His, etc.) la zona cui si distribuisce la via anomala viene attivata in anticipo,

cioè preeccitata. L’ECG di un paziente portatore di una via accessoria (nella maggior parte dei casi definita

come “Fascio di Kent”) può presentare i seguenti caratteri: 1) Onda delta, rappresentata da un rallentamento

iniziale del complesso QRS; 2) P-R corto; 3) QRS largo; 4) Alterazioni secondarie della ripolarizzazione.

L’importanza della preeccitazione dipende dal fatto che la coesistenza di due vie di conduzione atrio-ventricolare

(quella nodo-hissiana e il fascio di Kent) rappresenta il presupposto per l’instaurarsi di un circuito di rientro, che

può dar luogo a una tachicardia parossistica da rientro atrio-ventricolare. La condizione in cui la preeccitazione

si associa a tachicardia parossistica da rientro viene definita “Sindrome di Wolff-Parkinson-White” (vedi

Capitolo…). Le Figure ECG 37 ed ECG 38 presentano casi di preeccitazione ventricolare.

IL FENOMENO DI BRUGADA

Risale all’ultimo decennio del secolo scorso la descrizione di una nuova Sindrome, caratterizzata da morte

improvvisa per fibrillazione ventricolare e da un particolare quadro elettrocardiografico caratterizzato dalla

presenza, nelle derivazioni precordiali destre, di un’onda terminale positiva definita come “onda J”, associata a

un tratto ST sopraslivellato. L’onda J somiglia in qualche modo all’onda R’ del blocco di branca destra, e per

questo motivo era stato in un primo tempo ritenuto che il blocco di branca destra facesse parte del quadro ECG

associato alla “Sindrome di Brugada”.

Dopo la descrizione iniziale, sono stati riconosciuti numerosi soggetti nei quali era evidente il “Fenomeno di

Brugada” cioè il quadro elettrocardiografico caratteristico. E’ ancora oggetto di discussione l’iter diagnostico per

identificare, nella coorte di coloro che presentano all’ECG il Fenomeno di Brugada, quelli che sono a rischio di

morte improvvisa. Le Figure ECG 39 ed ECG 40 presentano esempi tipici del Fenomeno di Brugada. Si ritiene

che alla base del Fenomeno sia una malattia dei canali ionici, precisamente un malfunzionamento del canale del

sodio; è stata anche riscontrata nel 20% dei soggetti affetti un’alterazione del gene SCN5A, ma le conoscenze

sulla genetica della Sindrome di Brugada non sono ancora sufficientemente progredite da permettere un

inquadramento clinico affidabile.

L’IPOTERMIA

In soggetti che siano andati accidentalmente incontro a ipotermia, si riscontra un quadro ECG caratteristico.

Con l’abbassarsi della temperatura corporea compaiono diverse alterazioni elettrocardiografiche (bradicardia

sinusale, blocco A-V di I o di II grado, anomalie di ST-T, allungamento del QT, aumento della durata del QRS)

ma soprattutto l’onda J, detta anche onda di Osborn, che è il segno patognomonico dell’ipotermia. Si tratta di

una piccola deflessione positiva e relativamente larga che segue l’onda R ed è in diretta continuità con questa,

intervenendo fra il QRS e il tratto ST. L’onda J dell’ipotermia è simile a quella osservabile nel fenomeno di

Brugada, ma in quest’ultima condizione l’onda J si osserva solo in V1-V2 o al massimo in V3, mentre

nell’ipotermia essa è presente in numerose derivazioni. Un caso tipico di ipotermia è presentato nell’ ECG 41.

LA PERICARDITE

Per quanto il pericardio non sia sede di attività elettrica, e quindi non contribuisca direttamente alla genesi

dell’elettrocardiogramma, la pericardite può provocare alterazioni dell’ECG perché l’infiammazione dell’epicardio

si accompagna quasi inevitabilmente ad interessamento flogistico degli strati miocardici subepicardici, ed anche

perché la presenza del versamento pericardico o dell’ispessimento fibro-calcifico dei foglietti sierosi altera la

trasmissione delle forze elettriche cardiache. Nella pericardite acuta l’ECG mostra spesso un sopraslivellamento

di ST a concavità superiore nelle derivazioni con QRS prevalentemente positivo, onde T relativamente alte e

appuntite, e non di rado un tratto P-R sottoslivellato. Successivamente il punto J ritorna all’isoelettrica,

scompare il sottoslivellamento del P-R, la T si riduce di voltaggio e quindi si negativizza, per normalizzarsi poi

tardivamente. Esempi di elettrocardiogrammi suggestivi di pericardite acuta si osservano nelle Figure ECG 42

ed ECG 43.

Quando la pericardite si accompagna ad abbondante versamento pericardico, può comparire la riduzione del

voltaggio di tutte le onde dell’ECG (il liquido pericardico è un cattivo conduttore di elettricità) e l’alternanza

elettrica, caratterizzata da un alternarsi di onde più ampie e meno ampie (ECG 44).

LE CARDIOMIOPATIE

Cardiomiopatia Ipertrofica

L’ECG è normale solo nel 7-15% dei pazienti affetti, mentre negli altri si può osservare: aumento del voltaggio

di QRS (ipertrofia ventricolare sinistra), alterazioni di ST-T, onde q anormali (apparente necrosi), alterazioni

della conduzione intraventricolare, ingrandimento atriale. Elettrocardiogrammi con quadri caratteristici di

cardiomiopatia ipertrofica vengono presentati nelle Figure ECG 45 ed ECG 46.

Cardiomiopatia dilatativa

In questa forma è molto comune il blocco di branca sinistra, ed è anche possibile osservare ipertrofia

ventricolare sinistra ed ingrandimento atriale sinistro.

Cardiomiopatia restrittiva

Il quadro più comune è rappresentato da ingrandimento atriale (spesso biatriale). I complessi QRS hanno a

volte basso voltaggio, sono presenti alterazioni di ST-T e spesso aspetti di apparente necrosi (pseudonecrosi).

Un caso tipico di questa malattia viene presentato nell’ ECG 47.

Cardiomiopatia/displasia aritmogena del ventricolo destro

A parte le aritmie, che sono quasi la regola in questa malattia, è possibile osservare all’ECG anomalie dell’onda

P, blocco di branca destra, onde T negative nelle derivazioni precordiali destre (o anche in tutte le precordiali),

ed a volte onde epsilon, espressione di attivazione ritardata di alcune zone del ventricolo destro (ECG 48).

L’ENFISEMA E IL CUORE POLMONARE CRONICO

Enfisema

L’aumento del contenuto aereo polmonare, caratteristico dell’enfisema, influenza l’ECG soprattutto perché,

essendo l’aria un cattivo conduttore di elettricità, si realizza una difficoltà nella trasmissione dei potenziali

elettrici cardiaci alla superficie del corpo, con conseguente riduzione dei voltaggi delle onde

elettrocardiografiche. L’ECG nel paziente enfisematoso presenta, perciò, complessi ventricolari di basso

voltaggio, specialmente nelle derivazioni periferiche. Per convenzione, si considera basso il voltaggio dei

ventricologrammi quando la somma di tutte le onde del QRS nelle tre derivazioni periferiche bipolari (I, II, III)

non supera 15 mm. Un tracciato elettrocardiografico tipico si osserva nell’ ECG 49.

Cuore polmonare cronico

Nella maggior parte dei casi, il cuore polmonare cronico consegue ad una broncopneumopatia ostruttiva

enfisematica. In tale situazione l’ECG riflette sia i segni dell’enfisema che quelli del cuore polmonare,

rappresentati dall’ipertrofia ventricolare destra, associata quasi invariabilmente all’ingrandimento atriale destro.

L’anomalia dovuta all’enfisema è fondamentalmente la riduzione dei voltaggi di tutte le onde dell’ECG, mentre il

sovraccarico pressorio che grava sul cuore destro si esprime con i segni dell’ipertrofia ventricolare (deviazione

di ÂQRS a destra, aumento del voltaggio di R in V1 con rapporto R/S >1) e con quelli dell’ingrandimento atriale

destro (onde P appuntite nelle derivazioni inferiori, con voltaggio aumentato, onde P prevalentemente positive e

aguzze in V1-V2). L’ ECG 03 è stato registrato in un soggetto con cuore polmonare cronico.

L’EMBOLIA POLMONARE

Le embolie polmonari di entità modesta non si associano ad alterazioni emodinamiche di rilievo né, tanto meno,

a modificazioni dell’ECG. Solo un’embolia polmonare massiva può dare segno di sé, provocando un inatteso

sovraccarico del ventricolo destro (cuore polmonare acuto), che si riflette anche sull’elettrocardiogramma. In

questa condizione, l’ECG può mostrare: 1) blocco di branca destra, completo o, più spesso, incompleto, a volte

associato a sopraslivellamento di ST e/o T positiva in V1; 2) onde T negative nelle derivazioni precordiali; 3)

S1Q3T3, cioè onda S in I derivazione e onda q associata a T negativa in III. L’ ECG 50A e l’ ECG 50B mostrano

un caso di embolia polmonare.

Capitolo 4. L’Ecocardiogramma, Maria Penco, Eleonora De Luca, Simona Fratini, Sergio Severino, Pio Caso,

Raffaele Calabrò

INTRODUZIONE

L’ecocardiografia è la metodica che permette di eseguire uno studio anatomico e funzionale del cuore mediante

gli ultrasuoni. I primi tentativi di utilizzare gli ultrasuoni in medicina iniziarono appena dopo la seconda Guerra

Mondiale e si concretizzarono nel 1953 con la segnalazione, da parte di Hertz ed Hedler, della possibilità di

visualizzare strutture cardiache in movimento, in particolare la valvola mitrale. Da allora, i notevoli sviluppi

della tecnica, hanno fatto sì che l’ecocardiografia diventasse una metodica diagnostica di grande rilievo per lo

studio morfologico e funzionale dell’apparato cardiovascolare.

L’ecocardiografia è la metodica diagnostica che, insieme all’elettrocardiografia, è presente nella stragrande

maggioranza, se non nella totalità, dei percorsi clinici di un paziente cardiopatico o a rischio di cardiopatie.

Poche metodologie hanno subito un’applicazione così vasta ed una diffusione così capillare nella pratica clinica

come la diagnostica con ultrasuoni in generale, e come l’ecocardiografia in ambito cardiologico, in particolare.

Ciò è dovuto, da una parte, alla semplicità e sicurezza della metodica e dall’altra alla ricchezza ed immediatezza

dei risultati ottenibili. I continui progressi tecnologici, con il miglioramento della qualità delle immagini e la

disponibilità di apparecchi portatili, amplieranno ulteriormente lo spettro di applicazione, e quindi di richiesta,

della metodica.

Per una sua applicazione ottimale e per una corretta interpretazione dei dati ottenuti, servono una tecnica

adeguata e solide basi culturali, considerando che uno dei principali limiti dell’Ecocardiografia è il fatto di essere

operatore-dipendente. In ogni caso, il risultato dell’esame ecocardiografico va interpretato alla luce dei dati

anamnestici e del contesto clinico.

Le principali informazioni che si possono ottenere dall’esame ecocardiografico sono:

• Studio dell’anatomia cardiaca in fisiologia ed in patologia (dimensioni, spessori, cavità, valvole,

pericardio, aorta, arteria polmonare e suoi rami principali).

• Studio della funzione degli apparati valvolari e della funzione sistolica e diastolica dei ventricoli

• Studio della funzione contrattile globale e segmentaria delle pareti ventricolari

PRINCÍPI DELL’ECOCARDIOGRAFIA

Il suono è una forma di energia che attraversa la materia comprimendo e rarefacendo alternativamente le

molecole. E’ rappresentato graficamente da una sinusoide la cui dimensione orizzontale è il tempo, quella

verticale l’intensità o ampiezza. Si caratterizza per la lunghezza d’onda (che rappresenta la distanza tra due fasi

consecutive del ciclo) e per la frequenza (che esprime il numero di compressioni ed espansioni che subiscono le

particelle nell’unità di tempo). La frequenza del suono è espressa in cicli al secondo o Hertz (Hz) (Figura 1).

L’orecchio umano percepisce suoni tra i 16 e 20.000 Hz; oltre quel limite si parla di ultrasuoni. Le frequenze

attualmente utilizzate in cardiologia variano da 1 milione ad oltre 10 milioni di Hertz (MHz), tali da permettere

l’attraversamento dei tessuti con una velocità costante di 1540 m/sec. La velocità del suono è il prodotto della

frequenza per la lunghezza d’onda. Esiste dunque tra queste due componenti un rapporto inverso:

all’aumentare di una diminuisce l’altra.

Figura 1

CARATTERISTICHE FISICHE DEGLI ULTRASUONI

Gli ultrasuoni possono essere utilizzati nell’imaging diagnostico poiché, come la luce, sono orientabili e,

attraversando i tessuti, subiscono alcune modificazioni: attenuazione, riflessione e rifrazione

• Attenuazione: è un fenomeno di riduzione di intensità del raggio ultrasonoro e dipende

dall’assorbimento, dalla riflessione e dalla dispersione da parte del tessuto esaminato. Aumenta

all’aumentare della frequenza.

• Riflessione: una parte del raggio ultrasonoro viene riflesso a livello dell’interfaccia tissutale. L’onda

sonora che torna indietro, avvicinandosi alla sorgente, costituisce un’eco e viene utilizzata per

visualizzare l’immagine ultrasonora.

• Rifrazione: è la deviazione subita dall’onda quando passa da un mezzo ad un altro, cambiando velocità di

propagazione.

L’impedenza acustica (Z) è il prodotto della densità del mezzo che gli ultrasuoni attraversano (P) per la velocità

(C) dell’ultrasuono, e definisce le caratteristiche acustiche del mezzo stesso. I tessuti molli sono più densi ed

hanno maggiore impedenza acustica, perché la velocità di propagazione resta invariata. La superficie di

separazione tra due mezzi ad impedenza acustica diversa viene chiamata interfaccia acustica. Ad ogni

interfaccia acustica, una parte degli ultrasuoni viene riflessa e una parte viene rifratta nel mezzo adiacente

(Figura 2); l’intensità della componente riflessa dipende dalla differenza di impedenza acustica dei mezzi e

dall’angolo di incidenza: essa è, cioè, tanto maggiore quanto più la direzione del fascio ultrasonoro è

perpendicolare alla superficie. Se la superficie di contatto non è piana ma irregolare, una parte dell’energia non

sarà riflessa ma diffratta, cioè dispersa in tutte le direzioni.

Figura 2 Riflessione e rifrazione degli ultrasuoni.

Il potere di risoluzione è la capacità di distinguere fra loro due strutture distinte poste una dopo l’altra o una

accanto all’altra lungo la direzione del fascio ultrasonoro. E’ direttamente proporzionale alla frequenza

dell’ultrasuono.

Il potere di penetrazione del raggio ultrasonoro è, invece, inversamente proporzionale alla frequenza. Perciò

sonde che lavorano con ultrasuoni ad alte frequenze hanno un elevato potere di risoluzione ma una bassa

capacità di penetrazione nei tessuti.

La diagnostica ecocardiografica utilizza trasduttori che lavorano con frequenze di almeno 2MHz.

La qualità delle immagini ottenute migliora con la modalità “harmonic imaging” (seconda armonica),

caratterizzata dal fatto che la sonda invia ultrasuoni ad una certa frequenza e li riceve ad una frequenza doppia.

Ciò consente una migliore qualità delle immagini.

IL TRASDUTTORE

Gli ultrasuoni vengono prodotti da un trasduttore. Esso è costituito da elettrodi e da un cristallo piezoelettrico la

cui struttura ionica, sfruttando le capacità di alcuni materiali (come il quarzo o la ceramica), si deforma se

esposta al passaggio di corrente elettrica generando onde sonore. Lo stesso cristallo piezoelettrico poi, per

effetto dell’energia meccanica generata da onde sonore riflesse, subisce una deformazione che genera un

segnale elettrico rilevato da elettrodi. Ciò significa che il trasduttore riceve e invia contemporaneamente segnali

ultrasonori (Figura 3).

Figura 3 Schema di un trasduttore.

SISTEMI DI RAPPRESENTAZIONE ECOCARDIOGRAFICA

La ricostruzione dell’immagine ecocardiografica si basa sul calcolo della distanza tra una data struttura

anatomica ed il trasduttore. Il trasduttore emette un fascio ultrasonoro che si dirige verso il cuore e procede in

linea retta fino a quando non raggiunge un’interfaccia tra strutture con diversa impedenza acustica. A questo

punto parte dell’energia viene riflessa, parte viene dispersa, e la parte restante continua il proprio percorso

rifratta. Il sangue non genera echi riflessi.

L’energia riflessa che torna verso il trasduttore costituisce il fondamento dell’immagine ecocardiografica. Poiché

la velocità di propagazione degli ultrasuoni nei tessuti molli è costante nel tempo (circa 1540 m/s), il traduttore

è in grado di calcolare la distanza tra esso e la struttura esaminata valutando l’intervallo temporale tra l’invio

degli ultrasuoni e la ricezione dell’eco riflesso. Sul monitor, alla distanza corrispondente, viene visualizzato il

punto appena esaminato. I moderni ecocardiografi (Figura 4) consentono di eseguire tutte le tecniche

ecocardiografiche, da quelle tradizionali a quelle più moderne, e sono dotati di diverse sonde, adatte alle varie

metodiche (Figura 5). I sistemi di rappresentazione dell’immagine con l’ecocardiografia transtoracica

attualmente in uso sono:

• Sistema Mono-dimensionale (M-Mode)

• Sistema Bidimensionale

ECOCARDIOGRAFIA MONODIMENSIONALE

Il sistema monodimensionale permette di visualizzare le modificazioni dell’impulso ultrasonoro nel tempo (asse

orizzontale) e la profondità della struttura che riflette gli ultrasuoni (asse verticale). Ad ogni interfaccia

strutturale, gli ultrasuoni vengono riflessi e visualizzati alla distanza corretta sotto forma di punti la cui intensità

varia al variare della composizione del tessuto esaminato. Poiché queste strutture sono in movimento, il

trasduttore ricostruisce il movimento della struttura nel tempo. Il sistema M-Mode è dotato di un elevato potere

di risoluzione temporale, e risulta molto utile per studiare il movimento delle valvole e per ottenere misure di

cavità e spessori.

In corrispondenza della valvola mitrale, la struttura cardiaca più vicina al trasduttore è la parete libera del

ventricolo destro; seguono poi la cavità ventricolare destra (VD), il setto interventricolare (SIV), la cavità

ventricolare sinistra e la parete posteriore del ventricolo sinistro (Figura 6). In questa proiezione è possibile

valutare le dimensioni del ventricolo sinistro ed anche lo spessore del setto (ECO 34) e della parete posteriore.

Orientando il fascio ultrasonoro verso la valvola mitrale si valuta l’escursione dei lembi valvolari, l’anteriore in

corrispondenza del setto interventricolare, e il posteriore in corrispondenza della parete posteriore del ventricolo

sinistro (Figura 7) .

Il movimento del lembo anteriore mitralico presenta una morfologia a M con un massimo nel punto E (l’apertura

protodiastolica della valvola). La distanza dal punto E al setto interventricolare non deve superare, nel soggetto

normale, i 3 mm. La mobilità della valvola è rispecchiata dalla rapidità del movimento di chiusura nella proto-

mesodiastole fino al punto F (pendenza EF). In fase telediastolica i lembi si riaprono, in corrispondenza della

contrazione atriale (punto A). La valvola, quindi, si chiude e i lembi coaptano (punto C).

Il movimento del lembo posteriore mitralico ha una forma a W, speculare rispetto al lembo anteriore.

Lo studio della valvola mitrale è stata una delle prime applicazioni diagnostiche dell’ecocardiografia. Tra le

principali anomalie ecocardiografiche descritte sono l’aumento dello spessore, della densità e del numero di echi

riflessi in conseguenza dell’ispessimento fibroso e/o calcifico dell’apparato valvolare; e inoltre la scomparsa del

caratteristico movimento di apertura a M e W dei lembi, sostituito da un plateau più o meno rettilineo e

parallelo ai due lembi (ECO 01).

Orientando il fascio ultrasonoro in senso supero-mediale si visualizza l’atrio sinistro, la valvola aortica, con la

cuspide coronarica destra e la non coronarica, la radice dell’aorta ed il tratto prossimale dell’aorta ascendente

(Figura 8).

Le dimensioni dell’atrio sinistro si misurano in telesistole, quelle della radice aortica in telediastole. Il

movimento sistolico di apertura delle cuspidi aortiche si visualizza come un parallelogramma i cui lati superiore

e inferiore corrispondono rispettivamente al movimento della cuspide coronarica destra e di quella non

coronarica. In caso di stenosi aortica, si nota un ispessimento dei lembi con aumento dell’intensità e del numero

degli echi e una riduzione dell’apertura sistolica delle cuspidi (ECO 15). La Tabella I riporta i valori normali dei

parametri ecocardiografici M-mode in soggetti adulti.

Tabella 1

ECOCARDIOGRAFIA BIDIMENSIONALE

Il sistema bidimensionale permette di visualizzare l’immagine corrispondente ad una sezione delle cavità

cardiache sfruttando la capacità dei trasduttori di ricevere e trasmettere più linee di scansione in modo

indipendente.

Gran parte delle sonde attualmente in uso è costituita da una serie di cristalli (da 32 a 128), ciascuno dei quali

è in grado di ricevere e di trasmettere, allineati in una singola fila, sono attivati secondo una precisa sequenza

temporale in modo da provocare la fusione delle onde generate dai singoli elementi e ottenere un unico fascio

la cui direzione dipende dalla sequenza di attivazione dei singoli cristalli. L’immagine ottenuta viene convertita

in formato digitale: ad ogni punto, in base alla sua intensità, viene assegnato un valore numerico che

corrisponde a livelli di grigio per altrettanti elementi di visualizzazione (pixel) allineati lungo assi cartesiani x ed

y.

L’esame ecocardiografico si realizza con 4 posizioni standard del trasduttore: parasternale, apicale, subxifoidea

e soprasternale. Le prime due si realizzano con il paziente in decubito laterale sinistro, le altre con il paziente

supino.

SEZIONE ASSE LUNGO

In genere l’esame inizia dalla proiezione parasternale asse lungo: si posiziona il trasduttore a livello del terzo-

quarto spazio intercostale sulla linea margino-sternale di sinistra con la scanalatura di repere rivolta verso la

spalla destra del paziente in modo tale che il piano di scansione sia parallelo ad una linea di congiunzione tra la

spalla destra con il fianco sinistro. L’immagine è orientata in modo tale che l’aorta sia disposta a destra e l’apice

cardiaco a sinistra, ed è ottimale quando si visualizza contemporaneamente l’apertura della valvola mitrale e

della valvola aortica (Figura 9, Figura 10, Figura 11, Figura 12). Questa proiezione consente uno studio

accurato dell’anatomia e del movimento delle valvole del cuore sinistro, di cui è facile rilevare l’ispessimento e

la calcificazione in caso di stenosi mitralica o aortica (ECO 13).

Mantenendo il trasduttore nello stesso spazio ed imprimendogli una inclinazione inferomediale e una leggera

rotazione in senso orario si ottiene una sezione asse lungo del ventricolo e dell’atrio destro (Figura 13, Figura

14)

Figura 9 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione asse lungo.

Figura 13 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione asse lungo dell’atrio e del ventricolo

destro.

Figura 10 Ecocardiogramma bidimensionale in proiezione asse lungo e schema anatomico corrispondente.

SEZIONE ASSE CORTO

Ruotando la testa del trasduttore in senso orario per 90 gradi, in modo tale che il piano di scansione sia

ortogonale a quello dell’asse lungo parasternale, si ottiene la proiezione parasternale asse corto a livello dei

grossi vasi. In questa posizione la scanalatura di repere è orientata verso la fossa sopraclaveare destra e il

piano di scansione è parallelo ad una linea che congiunge la spalla sinistra con il fianco destro del paziente

(Figura 15, Figura 16)

Da questa posizione si visualizza la valvola aortica al centro con le sue tre cuspidi, l’atrio sinistro e quello destro

separati dal setto interatriale, la valvola tricuspide, il tratto di efflusso del ventricolo destro, la valvola

polmonare, il tronco dell’arteria polmonare con i suoi due rami, destro e sinistro (Figura 17, Figura 18).

Questa proiezione è utile per studiare la valvola aortica, in particolare per determinare se questa ha, come di

norma, 3 cuspidi, oppure è bicuspide (ECO 20) o quadricuspide (ECO 21).

Alzando la coda del trasduttore, è possibile visualizzare la sezione asse corto a livello della valvola mitrale. Sono

ben evidenti i lembi valvolari con il classico aspetto “a bocca di pesce” in diastole e le rispettive commissure. Da

questa posizione è possibile calcolare l’area planimetrica della mitrale in caso di stenosi (Figura 19, Figura 20,

Figura 21, Figura 22, ECO 05).

Un ulteriore movimento verso l’alto della coda della sonda, e si visualizzano i due muscoli papillari del ventricolo

sinistro (Figura 20, Figura 22), e quindi l’apice del ventricolo.

Figura 15 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione asse corto.

Figura 17 Ecocardiogramma bidimensionale in proiezione asse corto e schema anatomico corrispondente.

Figura 20 Ecocardiogramma bidimensionale in proiezione asse corto a livello dei muscoli papillari e schema

anatomico corrispondente.

SEZIONE APICALE

Il trasduttore viene posto in corrispondenza dell’itto della punta, con la scanalatura di repere orientata verso il

fianco sinistro del paziente. Il fascio ultrasonoro è diretto superiormente e medialmente verso la scapola destra

del paziente.

Da questa posizione si visualizzano le quattro camere cardiache (proiezione apicale quattro camere). Alla destra

dello schermo si visualizzano le sezioni sinistre, e alla sinistra quelle destre. Il ventricolo destro, di forma

triangolare, si riconosce per l’impianto più alto della tricuspide, per la presenza della banda moderatrice

all’apice e per il muscolo papillare.

Gli atri, separati dal setto interatriale, sono visualizzati in basso; i ventricoli, separati dal setto interventricolare,

in alto (Figura 23, Figura 24, Figura 25). Da questa posizione riusciamo a visualizzare il SIV posteriore.

Inclinando la coda del trasduttore verso il basso visualizziamo la valvola aortica, il tratto di efflusso del

ventricolo sinistro e il setto interventricolare anteriore (proiezione apicale cinque camere (Figura 26).

Figura 23 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione 4 camere apicale.

Figura 24 Schema anatomico della proiezione 4 camere apicale.

Ruotando la testa del trasduttore di 90 gradi circa si ottiene la sezione due camere apicale da cui è possibile

studiare la parete inferiore e quella anteriore del ventricolo sinistro e a volte visualizzare l’auricola sinistra

(Figura 27, Figura 28, Figura 29).

Figura 27 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione 2 camere apicale.

Figura 28 Ecocardiogramma bidimensionale in proiezione 2 camere apicale e schema anatomico

corrispondente.

Con un’ulteriore minima rotazione del trasduttore si ottiene la sezione tre camere apicale in cui si visualizza la

parete postero-laterale del ventricolo sinistro, il setto interventricolare anteriore, la valvola aortica (Figura30).

L’ecocardiografia bidimensionale dalle sezioni apicali permette di valutare la funzione sistolica globale del

ventricolo sinistro attraverso la misurazione della Frazione di Eiezione (FE) espressa dalla formula:

FE(%) = Volume telediastolico –Volume Telesistolico/Volume telediastolico x 100

Sono diverse le metodiche correntemente utilizzate per la stima della FE; il più utilizzato è il metodo di Simpson

in base al quale, dopo che l’operatore ha accuratamente delineato il bordo endocardico del ventricolo sinistro ,

la macchina suddivide automaticamente il ventricolo stesso in un numero noto di cilindri di uguale altezza. Il

volume di ogni cilindro è calcolato automaticamente e poi sommato a quello degli altri per ottenere il volume

totale che corrisponde al volume totale del ventricolo. Tale stima viene effettuata in sistole ed in diastole in

sezione apicale 4 e 2 camere, permettendo di ottenere il valore della FE (Figura31).

Figura 31 Schema del metodo di Simpson per il calcolo della frazione d’eiezione.

Dalle sezioni apicali è possibile, inoltre, valutare la cinetica segmentaria del ventricolo sinistro e, in caso di

cardiopatia ischemica, ricercare e documentare alterazioni morfofunzionali causate dall’ischemia, definire la

sede e l’estensione del danno ischemico, valutare la funzione cardiaca regionale e globale.

L’analisi segmentaria della cinetica ha lo scopo di quantificare l’estensione del danno ischemico e di identificare

la coronaria interessata in base al territorio in cui si verifica l’anomalo movimento della parete. Esempi di

alterazioni della cinetica ventricolare dovuti a un infarto miocardico vengono presentati nelle immagini ECO 26,

ECO 27, ECO 28, ECO 29.

L’American Society of Echocardiography ha proposto un modello a sedici segmenti, nel quale il ventricolo

sinistro è diviso in 3 regioni in senso longitudinale (basale: dall’anello mitralico all’estremità dei papillari;

media: dall’estremità alla base dei papillari; apicale: distalmente all’inserzione dei muscoli papillari). Le regioni

basali e medie sono ulteriormente suddivise in 6 segmenti: anteriore, laterale, posteriore, inferiore, setto

inferiore e setto anteriore. L’apice è diviso in 4 segmenti (anteriore, laterale, inferiore e settale). Per una

valutazione semiquantitativa l’analisi della cinetica segmentaria può essere integrata attribuendo un punteggio

da 1 a 4: 1 = normale o ipercinesia, 2 = ipocinesia, 3 = acinesia, 4 = discinesia. Sommando i singoli punteggi e

dividendo per il numero di segmenti analizzati, si ottiene un indice di cinesi globale definito “Wall Motion Score

Index” (WMSI) o un punteggio indicizzato della cinetica parietale che combina la stima della gravità del danno

con quella della sua estensione spaziale (Figura32, Figura33).

Figura 32

Figura 33 Rappresentazione schematica della relazione fra arterie coronarie e segmenti del ventricolo

sinistro.

SEZIONE SOTTOCOSTALE O SUBXIFOIDEA

E’ particolarmente utile nei pazienti con elevata impedenza acustica del torace, come obesi e

broncopneumopatici. Si ottiene con il paziente in decubito supino posizionando il trasduttore immediatamente al

di sotto della linea sottocostale con la scanalatura di repere orientata verso il fianco sinistro del paziente e la

testa del trasduttore inclinata lievemente in basso (Figura34). A volte, per ottenere un’immagine ottimale del

cuore, è necessario invitare il paziente a fare un respiro profondo e a trattenere l’aria.

Figura 34 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione 4 camere sottocostale.

Da questa posizione si ottiene un’immagine simile a quella apicale, con le sezioni destre al di sotto del fegato,

gli atri in basso e i ventricoli in alto ma, poiché il fascio ultrasonoro è maggiormente perpendicolare al setto

interventricolare ed interatriale, tale approccio è particolarmente utile per lo studio di queste strutture

(Figura35). Ruotando il trasduttore in senso orario e inclinandolo verso l’alto si visualizza l’aorta e i rapporti di

essa con la mitrale ed il ventricolo sinistro. Un’ulteriore rotazione in senso orario ed inclinazione verso l’alto, e si

ottiene una sezione in asse corto simile a quella ottenibile in parasternale asse corto; angolando

opportunamente la sonda si visualizzano il tratto di efflusso del ventricolo destro, l’arteria polmonare, la vena

cava inferiore e le vene sovraepatiche. Da questo approccio può essere, inoltre, studiata l’aorta addominale.

Figura 35 Ecocardiogramma bidimensionale in proiezione 4 camere sottocostale e schema anatomico

corrispondente.

SEZIONE SOPRASTERNALE

Si ottiene ponendo il trasduttore nella fossetta soprasternale con la scanalatura di repere rivolta verso la testa

del paziente o verso la regione sovraclaveare destra (Figura36).

Figura 36 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione soprasternale.

Si possono studiare : l’aorta ascendente, l’arco, l’origine dei tronchi brachiocefalici, l’aorta toracica discendente

(Figura37) ed il ramo destro dell’arteria polmonare visualizzato in asse corto al di sotto dell’ arco; ancora più

in basso c’è l’atrio sinistro.

Ruotando il trasduttore in senso orario si visualizza l’aorta in asse corto, il ramo destro della polmonare

immediatamente sotto, nel suo asse lungo, e ancora più in basso l’atrio sinistro con le vene polmonari

(Figura38, Figura39). Con una ulteriore rotazione in senso orario può essere visualizzata la vene cava

superiore a destra dell’ aorta.

Figura 38 Schema delle strutture visualizzabili dalla proiezione soprasternale.

In sintesi, l’Ecocardiografia bidimensionale consente un approccio approfondito all’anatomia e alla funzione del

cuore, permettendo non solo di valutare lo spessore delle pareti cardiache e la loro cinetica, le dimensioni delle

cavità, la struttura e il movimento delle valvole, ma anche di riconoscere masse intracardiache (trombi,

vegetazioni, tumori), che non di rado sarebbero decorse sconosciute senza l’indagine ultrasonica (ECO 39, ECO

41, ECO 42, ECO 43, ECO 45), come pure di rilevare un versamento pericardico (ECO 46, ECO 47). Nel

campo delle Cardiopatie congenite, infine, l’Ecocardiografia bidimensionale, insieme all’Ecocardiografia Doppler,

ha segnato un tale progresso nella diagnostica da mettere spesso in secondo piano il Cateterismo cardiaco e

l’Angiocardiografia, che avevano rappresentato per decenni il “gold standard” nello studio di queste malattie.

ECOCARDIOGRAFIA DOPPLER

Le misurazioni Doppler della velocità dei flussi ematici nel cuore e nei grossi vasi si basano sull’effetto Doppler,

descritto dal fisico austriaco Christian Doppler nel 1942. Il principio Doppler afferma che quando un segnale

sonoro (o luminoso) colpisce un oggetto in movimento, la frequenza del segnale si modifica in modo

proporzionale alla velocità e alla direzione dell’oggetto in movimento.

Quindi, quando un fascio ultrasonoro a frequenza nota viene inviato verso il cuore o i grossi vasi, è riflesso dai

globuli rossi. La frequenza degli ultrasuoni riflessi aumenta all’avvicinarsi dei globuli rossi alla sorgente sonora e

viceversa si riduce quando le emazie si allontanano. Il cambiamento di frequenza tra suono emesso e suono

riflesso dipende dalla frequenza degli ultrasuoni emessi, dalla velocità del bersaglio e dall’angolo tra direzione

del fascio e direzione del movimento delle emazie.

Se il fascio ultrasonoro è parallelo alla direzione del flusso ematico si ottiene la massima velocità; se il fascio

ultrasonoro è perpendicolare alla direzione del flusso, non si misura alcuna velocità. La visualizzazione dello

spettro Doppler è ottenuta attraverso un analizzatore di velocità (Fast Fourier Trasform) con rappresentazione

delle velocità dei flussi ematici sull’asse delle Y e del tempo sull’asse delle X. Tutti i flussi in avvicinamento al

trasduttore vengono visualizzati in alto, quelli in allontanamento in basso (Figura40).

Figura 40

Lo studio dei flussi può essere effettuato mediante tre sistemi:

-Doppler ad onda pulsata

-Doppler ad onda continua

-Color Doppler

DOPPLER AD ONDA PULSATA

Lo stesso cristallo piezoelettrico invia e riceve impulsi (Figura41). L’invio di un nuovo impulso è possibile solo

dopo l’analisi di quello precedentemente inviato. La frequenza di emissione degli ultrasuoni è definita PRF (pulse

repetition frequency). La massima variazione di frequenza (e dunque la massima velocità) determinabile con il

Doppler ad onda pulsata è la metà del PRF ed è chiamata limite di Nyquist. L’esaminatore ha la possibilità di

definire il punto esatto dell’analisi Doppler. Tale punto viene chiamato volume campione. La PRF varia

inversamente al volume campione: più il volume campione è vicino al trasduttore, più elevate saranno la PRF

ed il limite di Nyquist; in altri termini sarà possibile registrare velocità più alte.

Quando la velocità dell’onda riflessa è maggiore di quella inviata (quando, cioè, si supera il limite di Nyquist) si

ottiene un fenomeno noto come aliasing: lo spettro Doppler si interrompe, e una parte di esso compare sul

lato opposto della linea di base, cosicché sembra che il flusso sia contemporaneamente in avvicinamento ed in

allontanamento (Figura42). L’impossibilità di analizzare alte velocità rappresenta dunque il principale limite del

Doppler pulsato.

IL DOPPLER PIULSATO NELLO STUDIO DELLA FUNZIONE DIASTOLICA VENTRICOLARE SINISTRA

La valutazione dei diversi quadri velocimetrici del flusso transmitralico con il Doppler pulsato ha permesso di

comprendere che in diverse forme di cardiopatia si realizza, accanto alla disfunzione sistolica o anche in assenza

di questa, una disfunzione diastolica ventricolare sinistra. Il pattern flussimetrico normale (Figura43) è

caratterizzato da un’onda E, espressione del riempimento rapido protodiastolico, e da un’onda A che

corrisponde al flusso transmitralico telediastolico legato alla sistole atriale. La velocità del flusso protodiastolico

è maggiore di quella telediastolica, per cui il rapporto E/A è maggiore di 1.

Negli stadi precoci di disfunzione, l’alterato rilasciamento del ventricolo sinistro causa, in condizioni di riposo,

una riduzione del riempimento diastolico precoce a parità di pressioni di riempimento. Questo effetto si traduce

in un iniziale riduzione della velocità dell’onda E, in un prolungamento del tempo di decelerazione dell’onda E ed

in un incremento della percentuale di riempimento ventricolare dovuto alla contrazione atriale; il rapporto E/A

diviene, perciò, minore di 1 (Figura44). Con il progredire della disfunzione diastolica, la pressione atriale

sinistra aumenta, aumentando a sua volta il gradiente pressorio attraverso la valvola mitrale. A questa mutata

situazione emodinamica si accompagna un graduale incremento della velocità dell’onda E ed una ridotta durata

dell’effettivo rilasciamento ventricolare attivo: ne conseguono un accorciamento del tempo di decelerazione

dell’onda E ed un aumento del rapporto E/A. Negli stadi più avanzati della disfunzione, gli ulteriori incrementi

delle pressioni di riempimento, determinano più alti rapporti E/A e ad ancor più ridotti tempi di decelerazione

dell’onda E (Figura45).

DOPPLER A ONDA CONTINUA

Il trasduttore ha due cristalli: uno invia continuamente impulsi e l’altro li riceve sempre (Figura46). Non esiste

quindi il limite di Nyquist, e può essere misurata qualsiasi velocità. L’analisi viene effettuata sull’intera linea del

fascio ultrasonoro esplorante e non in un punto preciso come nel caso del Doppler pulsato

COLOR DOPPLER

Si basa sui principi del Doppler ad onda pulsata e misura le velocità in diversi punti per molteplici linee di

scansione su tutto il settore dell’immagine, al fine di creare una rappresentazione dinamica e spazialmente

corretta del sangue in movimento nel cuore e nei vasi. Usando speciali filtri, viene analizzata solo la velocità del

flusso ematico, che poi viene trasformata, mediante il confronto con linee adiacenti, (autocorrelazione) in

segnali colorati (Figura47). I flussi in avvicinamento al trasduttore vengono codificati in rosso, quelli in

allontanamento in blu (Figura48, Figura49) e l’aliasing ha in genere un aspetto a mosaico di colore,

caratterizzato dalla commistione di pixel con colore e tonalità diverse in rapporto alla velocità e alla turbolenza

del flusso (ECO 02, ECO 08). L’Ecocardiogramma Color Doppler è estremamente utile nell’identificare i rigurgiti

valvolari (ECO 06, ECO 08, ECO 18, ECO 24, ECO 35) o gli shunt intracardiaci (ECO 30, ECO 50), così come

per evidenziare il flusso turbolento attraverso valvole stenotiche (ECO 02, ECO 14)

Figura 47

IL CALCOLO DEI GRADIENTI

Una delle applicazioni più importanti dell’ecografia Doppler è rappresentata dal calcolo dei gradienti pressori

attraverso l’equazione di Bernoulli. Quest’ultima afferma che il gradiente di pressione attraverso una stenosi è

dovuto alla perdita di energia causata da tre fenomeni: accelerazione del flusso che attraversa l’orifizio

(accelerazione convettiva), intervento delle forze inerziali (accelerazione di flusso), e resistenza al flusso

all’interfaccia tra sangue ed orifizio (attrito viscoso). Pertanto il gradiente pressorio a livello di qualunque orifizio

può essere calcolato come somma di queste tre variabili (Figura50).

Figura 50 Calcolo di un gradiente di pressione con l’Equazione di Bernoulli.

Nella maggior parte dei casi è possibile trascurare l’accelerazione di flusso e l’attrito viscoso, per cui il gradiente

pressorio può essere calcolato conoscendo la velocità del sangue prossimalmente all’orifizio attraverso la

formula:

gradiente = 4 x (velocità prossimale )2- (velocità di picco)2.

Se la velocità del sangue prossimalmente alla stenosi è ridotta (<1m/s) anche questa componente può essere

ignorata, per cui a formula diventa:

gradiente: 4 x velocità di picco2.

Tale metodo viene utilizzato per il calcolo dei gradienti in caso di stenosi mitralica, aortica (ECO 16, ECO 17) o

polmonare. Può essere applicato, se c’è insufficienza tricuspidale, per il calcolo della pressione sistolica in

arteria polmonare. La velocità del flusso di rigurgito tricuspidalico permette di calcolare il gradiente fra

ventricolo e atrio destro (Figura51); se a questo si aggiunge la pressione telediastolica in ventricolo destro,

che corrisponde alla pressione atriale destra, si ottiene la pressione arteriosa polmonare. La pressione in atrio

destro viene stimata indirettamente in base alle dimensioni della vena cava e al suo grado di collassabilità con

l’inspirazione. La formula per il calcolo della pressione in arteria polmonare è:

PAPS: 4 x (velocità del rigurgito attraverso la tricuspide)2+ pressione in atrio destro

Tale calcolo, tuttavia, non è possibile se è presente un ostacolo all’efflusso ventricolare destro, come in

presenza di stenosi valvolare polmonare.

ECOCARDIOGRAFIA TRANSESOFAGEA

L’ecocardiografia transesofagea studia il cuore attraverso l’esofago.

Il trasduttore è posto alla punta di una sonda flessibile che, introdotta attraverso l’orofaringe raggiunge la parte

medio-distale dell’esofago dove entra in diretto contratto con le strutture cardiache, permettendone uno studio

più completo ed accurato (Figura52, ECO 09, ECO 22, ECO 23, ECO 40, ECO 44, ECO 49). Non necessita di

anestesia ma solo di una blanda sedazione. Questa tecnica è particolarmente utile in caso di:

• Studio delle valvole native e delle valvole protesiche

• Sospetta endocardite

• Cardiopatie congenite

• Difetti interatriali

• Ricerca di fonti emboligene di natura cardica

NUOVE TECNOLOGIE

Negli ultimi anni l’ecocardiografia si è arricchita di tecniche in grado di effettuare una valutazione quantitativa

della funzione miocardia e di studiare fenomeni che si sviluppano anche all’interno del miocardio. Una delle

nuove tecniche è il Doppler Tissutale (Figura53), che studia le velocità intramiocardiche. Tuttavia, esso è

influenzato dal movimento cardiaco globale, dalla rotazione cardiaca e dal trascinamento di segmenti adiacenti.

Da qui lo sviluppo di metodiche (Figura54) in grado di studiare la deformazione miocardica regionale: lo Strain

(quantità totale di deformazione, Figura55), lo Strain rate (la velocità con cui la deformazione avviene) e lo

Strain 2D (che non è una metodica Doppler dipendente e dunque è angolo-indipendente)

Altre metodiche sono il Backscatter Integrato (che analizza le variazioni della reflettività miocardica in decibel )

e l’ Ecocontrastografia Miocardica (Figura56), che studia la cinetica delle microbolle del contrasto ultrasonico a

livello intramiocardico.

La più recente metodica ecocardiografica introdotta in Clinica è l’ecocardiografia tridimensionale (Eco 3D)

(Figura57, ECO 10, ECO 11)

L’eco 3D supera gli attuali limiti dell’ecocardiografia bidimensionale, permettendo un’analisi accurata e

riproducibile della morfologia e della funzione delle strutture cardiache.

I pricipali campi applicativi dell’Eco 3D sono: patologie valvolari, cardiopatie congenite, endocardite infettiva,

masse cardiache, cardiomiopatie.

Capitolo 6. Metodiche Nucleari, Pasquale Perrone Filardi, Massimo Chiariello

DEFINIZIONE

Le metodiche nucleari impiegate nella diagnostica cardiologica si basano sulla somministrazione endovenosa di

traccianti che emettono particelle radioattive (fotoni e positroni). Il tracciante raggiunge il cuore e penetra nelle

cellule miocardiche; intanto una gamma camera misura la radioattività cardiaca e un computer provvede a

costruire immagini che rispecchiano la concentrazione dell’isotopo nelle diverse aree miocardiche. E’ così

possibile, utilizzando determinate tecniche, esplorare sia la perfusione che la funzione miocardica. Le metodiche

attualmente in uso sono la tomografia ad emissione di fotone singolo (SPECT) e la tomografia ad emissione di

positroni (PET).

TOMOGRAFIA AD EMISSIONE DI FOTONE SINGOLO (SPECT)

La miocardioscintigrafia è una tecnica che ha per obiettivo la valutazione semiquantitativa dalla perfusione

miocardica attraverso l’analisi di immagini tomografiche che riportano la distribuzione di un tracciante di

perfusione miocardica. In aggiunta, grazie all’impiego degli attuali traccianti tecneziati, è possibile anche la

valutazione della funzione contrattile regionale e globale, basata sulla acquisizione di immagini sincronizzate

(gated) sull’elettrocardiogramma, in maniera da consentire una ricostruzione affidabile del ciclo cardiaco. La

SPECT è un esame di valutazione di perfusione e funzione sistolica regionale e globale del ventricolo sinistro,

che consente una visualizzazione del ventricolo sinistro in movimento in varie proiezioni, in maniera da

esplorare tutte le pareti miocardiche (Figura 1).

I traccianti radionucleari di uso corrente

Tallio. Il tallio è stato il primo tracciante ad essere impiegato nell’uomo per la valutazione della perfusione

miocardica. Si tratta di un tracciante a bassa energia, che viene avidamente estratto dal miocardio in maniera

proporzionale al flusso regionale. Iniettando il tallio all’acme di uno sforzo, esso viene captato dalla varie regioni

miocardiche, e si accumula più nelle zone irrorate da coronarie normali che nei territori dipendenti da coronarie

stenotiche. Successivamente, il tallio ritorna dalle cellule nel torrente ematico e può quindi penetrare nelle

regioni in cui il flusso era ridotto all’acme dello sforzo. Questo processo, determinato dalla libera circolazione del

tracciante in relazione al flusso, rappresenta il fondamento del fenomeno della redistribuzione che è peculiare di

questo tracciante, e consente ai territori miocardici dipendenti da vasi stenotici che abbiano ricevuto una minore

quantità di tracciante nella fase di inadeguato aumento del flusso in risposta allo stress di colmare questo deficit

una volta terminata la fase di aumentata richiesta di flusso, o anche in condizioni di riposo quando, anche in

presenza di lesioni coronariche severe (fino all’80%), il flusso coronarico è normale. Il fenomeno della

redistribuzione si appalesa con la reversibilità a distanza dallo sforzo (generalmente dopo 3-4 ore) di un iniziale

difetto di perfusione presente durante l’esercizio, che consente di diagnosticare una stenosi coronarica

significativa. La mancata scomparsa di un iniziale difetto di perfusione nelle immagini a distanza, invece, è

espressione di tessuto miocardio necrotico, nel quale il flusso è praticamente assente in ogni momento.

L’impiego del tallio prevede dunque un’unica somministrazione di tracciante per ogni esame scintigrafico.

Traccianti marcati con 99Tecnezio. I due traccianti attualmente impiegati marcati con 99Tc,ovvero il

sestamibi e la tetrafosmina hanno in Italia largamente sostituito il tallio. Rispetto a quest’ultimo possiedono una

maggiore energia, che consente una migliore visualizzazione delle immagini con minore attenuazione, ed una

minore esposizione radioattiva (circa la metà rispetto al tallio). Ma la differenza principale consiste nella cinetica

di questi traccianti che, dopo essere stati iniettati in circolo, vengono captati passivamente dalle cellule

miocardiche in proporzione lineare al flusso ed intrappolati in maniera pressoché irreversibile dai mitocondri.

Rispetto al tallio, dunque, i traccianti tecneziati non circolano liberamente tra esterno ed interno della

membrana cellulare e non subiscono il fenomeno della redistribuzione. Al contrario, essi rappresentano nelle

immagini lo stato della perfusione miocardica al momento della iniezione. La comparazione tra immagini a

riposo e immagini al momento dello sforzo, quindi, potrà avvenire solo con due distinte somministrazioni di

tracciante, preferibilmente effettuate in giorni diversi (Figura 2).

Il valore clinico della miocardioscintigrafia

Diagnosi di cardiopatia ischemica. Come per tutte le metodiche diagnostiche, l’accuratezza della

miocardioscintigrafia è influenzata da una serie di variabili che la rendono differente da soggetto a soggetto e

che solo in parte dipendono dalla tecnica. In generale, l’accuratezza predittiva è fortemente influenzata,

secondo il teorema di Bayes, dalla prevalenza della malattia nella popolazione studiata, ovvero dalla probabilità

pre-test di malattia nel soggetto da studiare. Il secondo rilevante fattore di influenza sulla accuratezza è legato

alla possibilità di artefatti tecnici, ovvero di apparenti deficit di perfusione in alcune regioni miocardiche. Tali

deficit apparenti possono essere dovuti a difetti da attenuazione dei fotoni lungo il passaggio dal cuore alla

gamma camera attraverso i tessuti del corpo. Questo giustifica la presenza di falsi positivi in alcuni territori

come la parete inferiore nell’uomo, per effetto della interposizione del diaframma, e la parete anterolaterale

nella donna per l’interposizione del tessuto mammario, così come la presenza di falsi positivi in soggetti obesi di

entrambi i sessi.

Stratificazione prognostica. La miocardioscintigrafia rappresenta attualmente la tecnica più largamente

convalidata nella stratificazione prognostica di pazienti affetti da cardiopatia ischemica nota o sospetta, per la

predittività a breve-medio termine (generalmente 1-2 anni) di eventi cardiaci quali morte e infarto del

miocardio. La negatività del test è associata a una percentuale di eventi cardiaci maggiori estremamente bassa,

sovrapponibile a quella della popolazione generale (<1% all’anno).

TOMOGRAFIA AD EMISSIONE DI POSITRONI (PET)

La PET consente una valutazione del flusso e del metabolismo regionale del glucosio e degli acidi grassi, nonché

del consumo di ossigeno, e rappresenta una metodica estremamente sofisticata e di grande ausilio per la

ricerca in vivo. A differenza della SPECT, è basata sulla emissione di particelle ad elevata energia, i positroni

(511 kEv), e le immagini provenienti dai tessuti del corpo (immagini di emissione) vengono sempre corrette

attraverso la acquisizione di una seconda scansione (immagini di trasmissione) ottenuta senza

somministrazione di tracciante al paziente, per il grado di attenuazione che le particelle radioattive subiscono

nell’attraversamento delle strutture corporee. Per la complessità di gestione e gli elevati costi la PET ha tuttora

un uso clinico limitato pressoché esclusivamente nei pazienti con cardiopatia ischemica e dilatazione

ventricolare per la ricerca di aree di tessuto miocardio disfunzionante ma vitale. In tali pazienti, la presenza di

attività metabolica residua in un territorio disfunzionante, valutata comparando la captazione di un analogo del

glucosio (18F-fluorodesossiglucosio) in proporzione al flusso (valutato con Rubidio82 o NH3), è predittiva di

recupero funzionale dopo rivascolarizzazione (Figura 3).

Limiti delle metodiche nucleari

Il principale, e spesso trascurato, limite di queste tecniche è rappresentato dalla necessità di esposizione a

particelle ionizzanti per il paziente. Sebbene l’impiego di traccianti tecneziati abbia fortemente ridotto la

dosimetria rispetto al tallio, è bene ricordare che una SPECT con traccianti marcati con tecnezio99 corrisponde,

in termini di radiazioni assorbite, ad alcune centinaia (da 300 a 500) di radiografie standard del torace. Questo

aspetto, ed il rischio stocastico tra esposizione radioattiva e insorgenza di neoplasie devono dunque sempre

essere considerati nella scelta diagnostica di indagini radionucleari.

Capitolo 7. Risonanza Magnetica Nucleare, Sabino Iliceto, Martina Marra Perazzolo, Luisa Cacciavillani

INTRODUZIONE (VANTAGGI, POTENZIALITÀ, CONTROINDICAZIONI)

La Risonanza Magnetica Cardiaca (RMC) rappresenta una metodica di imaging avanzato che per le sue peculiari

caratteristiche sta trovando sempre più spazio nella pratica clinica quotidiana, a completamento di altre indagini

ormai codificate ed applicate. Pur nascendo come indagine di secondo livello le sue più recenti applicazioni, in

particolare nello studio della cardiopatia ischemica cronica e nelle cardiomiopatie, ne stanno facendo emergere

l’utilità di impiego anche in prima battuta, trattandosi di una metodica di integrazione tra informazioni funzionali

e di caratterizzazione tissutale. I vantaggi dell’impiego della RMC risiedono essenzialmente nella sua non

invasività. Il basso impatto biologico di questa metodica risiede nel fatto che il principio fisico su cui si basa non

coinvolge gli elettroni, notoriamente coinvolti nei processi radianti e responsabili delle alterazioni del DNA. In

RMC infatti l’interazione richiesta per la formazione delle immagini risiede a livello del nucleo atomico, in

particolare nei nuclei di idrogeno. Un secondo vantaggio della RMC risulta dalla presenza di un elevato contrasto

naturale tra il circolo sanguigno e le strutture cardiovascolari, con conseguente ottima definizione

dell’endocardio. Da non dimenticare infine la multiplanarità di questa metodica, ovvero la possibilità di

rappresentare le strutture anatomiche secondo qualsiasi piano, non solo in quello assiale come per la TAC.

Come conseguenza di quanto esposto, la RMC offre un’ottima risoluzione spaziale dei piani esplorati, il che

rappresenta il presupposto perché la RMC si proponga come gold standard per una corretta definizione dei

volumi, massa e funzione miocardica senza necessità di assunzioni geometriche. Ancor più affascinanti e di

interesse nella pratica clinica risultano le potenzialità della RMC dopo somministrazione di mezzo di contrasto:

infatti l’analisi della cinetica di distribuzione del gadolinio nel miocardio consente di ottenere una

caratterizzazione tissutale che eleva questa metodica di imaging ad una sorta di anatomia patologica in

vivo.Accanto a tali aspetti vanno annoverati quelli che, invece, controindicano l’esame ed essenzialmente

risiedono nelle caratteristiche del paziente: severa claustrofobia (in Letteratura viene riportata un’incidenza pari

al 2%), portatori di pacemaker, defibrillatori, clip per aneurismi (in particolare cerebrali). Relativa risulta la

controindicazione che riguarda le alterazioni del ritmo cardiaco (per esempio, fibrillazione atriale o bradicardia

severa) che rendono difficile l’esecuzione tecnica dell’esame e di scarsa qualità le immagini ottenute. Non

esistono al momento attuale delle linee guida precise sull’applicazione della RMC: la Tabella I riporta le

indicazioni più validate. Un protocollo di studio standard con risonanza magnetica cardiaca con mezzo di

contrasto prevede generalmente i seguenti step:

• immagini preliminari per localizzare la posizione del cuore e dei grandi vasi all’interno del torace;

• immagini in movimento per la valutazione della funzione cardiaca, secondo gli assi ortogonali del cuore

(Figura 1, Figura 2);

• immagini per la caratterizzazione tissutale prima della somministrazione di mezzo di contrasto (edema

miocardico nell’area a rischio di un infarto miocardico (Figura 3); valutazione dell’infiltrazione adiposa

nella cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro (Figura 4)

• immagini dopo somministrazione di mezzo di contrasto : in questo caso dopo circa 10 minuti

dall’infusione endovenosa del mezzo di contrasto le zone fibrotiche o necrotiche appaiono iperintense

(>500% rispetto al segnale basale), (zona bianca, late enhancement), consentendo una netta distinzione

rispetto al miocardio normale (nero) (Figura 5)

Tabella 1

MEZZO DI CONTRASTO: IL GADOLINIO

I mezzi di contrasto utilizzati in risonanza magnetica vengono definiti indiretti in quanto agiscono alterando lo

stato di magnetizzazione dei protoni circostanti. Generalmente si utilizza il gadolinio che, in quanto altamente

tossico viene chelato con una molecola molto tenace, costituendo un prodotto a bassa tossicità. Il gadolinio è

un mezzo di contrasto paramagnetico inerte che si localizza preferenzialmente a livello della matrice

extracellulare e non nelle cellule intatte con membrana cellulare integra. Infatti i miociti normocontrattili

risultano disposti in modo da ridurre al minimo la densità con scarsa sostanza intercellulare fibrotica: pertanto il

miocardio normale , così come quello danneggiato da insulti ischemici, ma ancora vitale non mostra depositi di

gadolinio ed appare nero.

Nell’ambito dell’infarto miocardico il gadolinio si deposita nel miocardio secondo due meccanismi: in entrambi i

casi il risultato è un’area di hyperenhancement tardivo, cioè visibile come tale dopo 10-15 minuti dall’iniezione

del mezzo paramagnetico (Figura 6)

In fase acuta la perdita dell’integrità di membrana dovuta alla miocitolisi associata all’edema della reazione

infiammatoria acuta permette al gadolinio di diffondere passivamente attraverso le membrane cellulari

danneggiate, invadendo quello che prima era spazio intracellulare ed aumentando così la sua concentrazione

tissutale.

Nella fase post-acuta si assiste alla formazione della cicatrice post-infartuale povera di miociti, ricca di fibre

collagene e matrice extracellulare: il gadolinio quindi si accumula a questo livello trovando nell’aumento del

terzo spazio il suo naturale tropismo.

Per quanto concerne la tossicità dei mezzi di contrasto utilizzati in risonanza, essa è legata per la maggior parte

a fenomeni allergici; essendo ad eliminazione prevalentemente renale, cautela va adoperata nei pazienti con

clearance < 30 ml/min.

RUOLO DELLA RISONANZA MAGNETICA CARDIACA NELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA

Infarto in fase acuta Nella fase acuta di un infarto miocardico la RMC permette di identificare l’estensione

dell’area a rischio grazie alla valutazione dell’edema miocardico (Figura 3). La maggiore applicazione tuttavia

risiede nell’analisi delle immagini dopo somministrazione di mezzo di contrasto: infatti grazie all’impiego del

gadolinio è possibile una netta demarcazione spaziale tra area di necrosi e miocardio vitale. La RMC permette di

identificare i diversi gradi di transmuralità della necrosi permettendo di distinguere infarti transmurali (late

enhancement >75% dello spessore ventricolare) (Figura 5) da quelli subendocardici (late enhancement <75%

dello spessore ventricolare) (Figura 7). Il segnale iperintenso del mezzo di contrasto permane evidente a

distanza di mesi dall’evento acuto, anche nel caso di piccoli infarti subendocardici. La RMC con mezzo di

contrasto (late enhancement) si è dimostrata molto sensibile soprattutto nell’identificare piccoli infarti sub-

endocardici, quando la perfusione valutata con la SPECT risulta invece normale (Figura 8).

La RMC permette di identificare con ottima risoluzione spaziale non solo la sede e l’estensione dell’infarto,

mediante l’analisi dell’ hyperenhancement, ma anche di individuare alterazioni del microcircolo nella zona sede

di necrosi.

In RMC le alterazioni microcircolatorie nell’area di necrosi sono definite come una zona di hypoenhancement

all’interno delle aree di necrosi già definite come late hyperenhancement. Le alterazioni del segnale da

disfunzione microcircolatoria sono già visibili al primo passaggio del gadolinio nel miocardio alterato (“first-pass

”, Figura 9). In alcuni casi inoltre, dopo 10-15 minuti, le alterazioni del microcircolo osservate in fase precoce

persistono in fase tardiva: queste appaiono come zone scure (hypoenhnacement tardivo, “dark zones”) nel

contesto di aree di necrosi transmurale (Figura 9). Quest’ ultimo reperto corrisponderebbe, secondo diversi

studi sperimentali, ad un’area di severa ostruzione microcircolatoria ed in alcuni casi anche ad emorragia. In

alcuni studi questi reperti di RMC avrebbero un impatto negativo sulla prognosi.

Infarto in fase subacuta o cronica La valutazione dell’estensione del danno miocardico è strettamente

correlata con la diagnosi di vitalità, intesa come presenza di tessuto miocardico con disfunzione contrattile, in

grado di recuperare spontaneamente o dopo rivascolarizzazione. Il miocardio disfunzionante ma vitale è distinto

in “miocardio ibernato ” (stato di persistente deficit funzionale da ridotto flusso coronarico, che può essere in

parte o del tutto risolto migliorando il flusso coronarico) e “miocardio stordito ” (prolungata disfunzione post-

ischemica di tessuto vitale dopo riperfusione, a risoluzione spontanea). La presenza di tessuto miocardico vitale

in un soggetto con disfunzione ventricolare regionale e globale è di grande importanza clinica, in quanto

permette di identificare i pazienti che maggiormente beneficeranno di un trattamento di rivascolarizzazione.

Studi con RMC hanno dimostrato come l’estensione dell’ hyperenhancement sia in grado di predire, in pazienti

con infarto acuto, il recupero della funzione contrattile ventricolare regionale dopo rivascolarizzazione

percutanea o chirurgica, identificando come limite per un recupero soddisfacente della funzione ventricolare un

valore di transmuralità compreso tra il 25% e il 50%.

LA RISONANZA MAGNETICA CARDIACA NELLE CARDIOMIOPATIE

Cardiomiopatia dilatativa (distinzione dalla Cardiopatia ischemica)Nell’ambito della cardiomiopatia

dilatativa la risonanza magnetica, accanto alle informazioni funzionali, analoghe a quelle dell’ecocardiografia,

apporta come valore aggiunto la caratterizzazione tissutale, resa possibile dall’impiego dei mezzi di contrasto.

In particolare permette di distinguere le forme primitive, in cui il late enhancement è assente o comunque con

distribuzione di tipo non ischemico (intramurale Figura 10) da quelle post-ischemiche (aree di necrosi

subendocardiche o transmurali). Inoltre alcuni pazienti con dilatazione ventricolare non di origine ischemica è

possibile rilevare late enhancement di tipo diffuso (patchy) o epicardico, indicativo di probabile pregressa

miocardite

Cardiomiopatia ipertroficaNella cardiomiopatia ipertrofica la RMC permette una precisa definizione della sede

e del grado di ipertrofia, anche in forme con localizzazione difficilmente espolarabile all’ecocardiogramma

transtoracico (ad esempio all’apice del ventricolo sinistro). Interessante anche da un punto di vista prognostico

risulta l’analisi del late enhancement, localizzato preferenzialmente a livello del setto nelle zone di maggior

ipertrofia, la cui entità sembra correlare con il rischio aritmico nel follow-up (Figura 11).

Cardiomiopatia/Displasia aritmogena del ventricolo destro

Poiché questa patologia si caratterizza per delle alterazioni soprattutto a livello del ventricolo destro, camera

difficilmente esplorabile all’ecocardiogramma transtoracico, la RMC si propone come gold standard per la

valutazione delle sezioni destre del cuore. In particolare, secondo quanto indicato nei Criteri Diagnostici di

McKenna, è possibile un’analisi della dilatazione e della disfunzione del ventricolo destro, valutando le anomalie

della cinetica regionale (Figura 12). Si può, inoltre, eseguire uno studio per la presenza di infiltrazione

adiposa: il tessuto adiposo mostra un’alta intesità di segnale, che contrasta con il tessuto miocardico ipointenso

(Figura 4). Infine negli ultimi anni nel valutare i pazienti con sospetta cardiomiopatia aritmogena del ventricolo

destro si è valorizzato il ruolo del gadolinio che si è dimostrato in grado di evidenziare segni di late

enhancement spesso presente in questa patologia, sia a livello del ventricolo destro che sinistro (Figura 13).

ALTRE APPLICAZIONI DELLA RISONANZA MAGNETICA CARDIACA

MiocarditiLa RMC trova una importante applicazione nelle miocarditi soprattutto nella diagnosi iniziale. La

RMC, grazie alla elevata risoluzione spaziale ed all’impiego del gadolinio rende possibile identificare specifici

pattern di late enhancement a distribuzione ora epicardica (soprattutto nei casi di miopericardite), ora focale a

spot diffusi (Figura 14).Masse miocardicheLe potenzialità della RMC nello studio delle masse miocardiche

trova la sua naturale applicazione nella valutazione della loro morfologia, dimensioni, localizzazione, estensione

e rapporti topografici con le strutture viciniori (Figura 15). Accanto a ciò va aggiunta la capacità di

caratterizzazione tissutale, utile nel caso di formazioni lipomatose. Ulteriori informazioni si possono ottenere

dalla somministrazione del mezzo di contrasto che si raccoglierà maggiormente e più velocemente nelle

formazioni a più elevata vascolarizzazione.

Capitolo 9. Test Cardiopolmonare, Marco Guazzi

DEFINIZIONE

Il test da sforzo cardiopolmonare permette di misurare in modo preciso la capacità di un soggetto a compiere

esercizio fisico. La metodica trova ampia applicazione in campo fisiologico, medico e sportivo, oltre che nella

valutazione di molteplici stati morbosi che interessano apparato cardiocircolatorio e polmonare. Per il

cardiologo, l’indicazione principale del test è lo studio e la cura dell’insufficienza cardiaca.

Il test cardiopolmonare è volto a determinare la risposta antomo-funzionale di polmone, cuore e muscolo da cui

dipendono rispettivamente lo scambio, il trasporto e l’utilizzazione dell’ossigeno (O2). Proprio la misura del

consumo di O2, la produzione di anidride carbonica (VCO2), la risposta ventilatoria e i suoi determinanti,

costituiscono le variabili centrali su cui il test si articola e da cui si elabora una serie di variabili derivate. A

completamento della prova è utile registrare una serie di variabili aggiuntive ed, in particolare, effettuare il

monitoraggio continuativo dell’elettrocardiogramma e dei parametri emodinamici ed emogasanalitici (Tabella

I).

Tabella 1

L’interpretazione del test avviene mediante analisi integrata delle variabili registrate, seguendo l’andamento dei

principali parametri, riportati in 9 grafici principali (Figura 1). L’interpretazione sistematica dei dati permette di

determinare il grado di limitazione funzionale e, soprattutto, di identificare l’organo o i sistemi coinvolti nella

ridotta capacità funzionale.

Figura 1 Grafici Interpretativi del Test da Sforzo Cardiopolmonare.

(Esempio di un soggetto sano, non allenato, di anni 48 anni).

Abbreviazioni: VE= ventilazione; FC= frequenza cardiaca; VO2= consumo di O2; VCO2= produzione di CO2;

VC= volume corrente; QR= quoziente respiratorio; PetO2= pressione tele-espiratoria dell’O2; PetCO2=

pressione tele-espiratoria della CO2.

METODOLOGIA

Indipendentemente dal tipo di esercizio e dal protocollo utilizzato, il soggetto in esame deve essere collegato

mediante maschera facciale o boccaglio e stringinaso ad un tubo valvolato, dotato di valvola “non-rebreathing”,

tale, cioè, da permettere che l’aria espirata non si disperda nell’ambiente ma venga diretta all’apparecchio

analizzatore. L’acquisizione e l’analisi dei dati si basa sul sistema “breath-by-breath” o atto per atto

respiratorio. La pressione tele-espiratoria dei gas espirati (PETO2 e PETCO2) e il volume corrente respiratorio

vengono registrati in continuo, e agli analizzatori di O2 e CO2 perviene una quota variabile di aria espirata ad

una frequenza costante tra i 200 e i 500 ml/min. Ulteriori aspetti metodologici riguardano il tipo di esercizio,

l’incremento del carico lavorativo e la familiarizzazione con la metodica.

I due tipi di esercizio comunemente impiegati (tappeto rotante e cicloergometro) coinvolgono un numero

differente di unità muscolari: la diversa spesa energetica che ne consegue (circa il 10% in più per il tappeto

all’apice dello sforzo) giustifica, insieme alla mancanza di una precisa standardizzazione dei protocolli, la

discordanza tra test eseguiti in laboratori differenti. L’esercizio più fisiologico si ottiene incrementando

gradualmente il carico di lavoro (rampa) così che lo sforzo massimale abbia una durata complessiva tra i 10 e i

12 minuti. Si rende, pertanto, necessario personalizzare preliminarmente il carico lavorativo in base a una

valutazione indiretta che tenga conto della condizione fisica e dell’abilità a compiere sforzo.

APPLICAZIONE NEL PAZIENTE CON INSUFFICIENZA CARDIACA

L’intolleranza all’esercizio costituisce una caratteristica peculiare del malato con insufficienza cardiaca, che

spesso presenta sintomi quali dispnea e fatica muscolare. Pur essendo ovvio che il grado di compromissione

funzionale e sintomatologico tende a crescere con il progredire dello scompenso, la limitazione funzionale e

l’insorgenza di sintomi si manifestano fin dagli stadi iniziali, e costituiscono il campanello di allarme in quei casi

in cui, pur in assenza di sintomatolgia rilevante, è già presente disfunzione ventricolare sinistra e attivazione

neuroormonale. In questo contesto, il test da sforzo cardiopolmonare offre un ampio bagaglio di informazioni

per la stadiazione e il follow-up clinico-prognostico del malato con insufficienza cardiaca.

Il malato cardiaco non sempre e non solo riconosce nel ridotto incremento della gittata cardiaca, per difetto

cronotropo o contrattile, la causa di limitazione funzionale: è sempre più evidente che alterazioni specifiche del

controllo ventilatorio, modificazioni funzionali e strutturali del muscolo scheletrico, oltre che la presenza di

anemia, cui consegue alterato trasporto e rilascio di O2 ai muscoli, giochino un ruolo di prim’ordine.

Il massimo consumo di O2 ottenibile all’apice di uno sforzo massimale (VO2 max) è il parametro di riferimento

più immediato per riconoscere se esista o meno limitazione funzionale e se la risposta dinamica ottenuta

raggiunga quella predetta. Per il malato cardiaco, tuttavia, il VO2 max rimane un valore teorico, e al suo posto

si considera il VO2 massimale (VO2 di picco), che corrisponde al consumo di O2 più elevato ottenuto all’apice

dello sforzo. Il VO2 di picco (Figura 1, grafico 3) si esprime generalmente come consumo di O2 al minuto

rapportato al peso corporeo, ed è stato proposto con successo quale elemento di classificazione dello

scompenso cardiaco. Il valore di VO2 di 20 ml/min/kg è il limite al di sopra del quale inizia il range di normalità

(Classe A), mentre il valore di 10 ml/min/kg (classe D) è quello al di sotto del quale la compromissione è tale

che una prova ergodinamica non è proponibile; tra questi due valori si inseriscono le classi B (VO2 di picco tra i

15 e i 20 ml/min/kg) e C (VO2 di picco tra i 10 e i 15 ml/min/kg). Studi pionieristici degli anni ’90 e successive

dimostrazioni su ampi numeri hanno permesso di identificare un valore di VO2 di picco di 10 ml/min/kg quale

cutoff di riferimento per inserire il paziente in lista attiva per trapianto di cuore. Occorre, tuttavia, che il

soggetto abbia raggiunto e superato il punto di soglia anaerobia in cui inizia la produzione di acido lattico e

intervengono i meccanismi di compenso, isocapnico prima e ventilatorio successivamente. In questo contesto,

oltre al VO2 di picco è stata recentemente dimostrata l’utilità di un altro importante parametro ottenuto con la

registrazione dei gas espirati, cioè la pendenza della relazione ventilazione (VE) versus VCO2 (Figura 1, grafico

4). Il comportamento peculiare di questi malati è che, per una data produzione di CO2, l’entità della risposta

ventilatoria da sforzo risulta eccessiva: il grado di “inefficienza ventilatoria” è predittivo di morbidità e mortalità.

L’incremento della pendenza della relazione VE/VCO2 è documentabile anche nei quadri iniziali di insufficienza

cardiaca, e il suo potere predittivo è esteso anche ai pazienti con preservata funzione contrattile ma alterate

proprietà di rilasciamento diastolico. Nuove prospettive emerse propongono la necessità di utilizzare questa

variabile per meglio stratificare, rispetto al VO2 di picco, la compromissione clinica e i benefici della terapia nel

paziente scompensato.

Capitolo 10. Tecniche di Valutazione del Sistema Nervoso Neurovegetativo, Federico Lombardi

DEFINIZIONE

Il sistema neurovegetativo è definito come la parte del sistema nervoso responsabile dell’innervazione

viscerale, ed è caratterizzato da una localizzazione periferica dei gangli da cui originano le fibre nervose

efferenti dirette ai vari organi. Il sistema comprende neuroni postgangliari, gangli, neuroni pregangliari e fibre

nervose afferenti viscerali che possono essere riuniti in tre gruppi principali: craniali, toracolombari e sacrali.

Tale sistema viene anche definito col termine Sistema Nervoso Autonomo e include due principali sistemi di

controllo: il Sistema Simpatico e Parasimpatico. Negli organi con doppia innervazione (ad esempio, il cuore), i

sistemi sono generalmente antagonisti; negli organi con sola innervazione simpatica, invece, lo stesso sistema

provvede ad entrambe le funzioni: nel caso dei vasi arteriosi, per esempio, il simpatico induce sia la

vasodilatazione che la vasocostrizione. La funzione di controllo viene svolta attraverso due principali modalità di

scarica delle fibre nervose efferenti: 1) un’attività tonica responsabile del controllo e della stabilità (omeostasi)

di parametri come, ad esempio, la frequenza cardiaca o la pressione arteriosa sistolica, e 2) un’attività fasica in

grado di modificare rapidamente tali parametri in seguito a stimoli interni (ad es. ischemia miocardica, dolore) o

esterni (ad es. stress, emozioni). E’ presente, inoltre, una continua interazione con altri sistemi di controllo

come, ad esempio, il Sistema Renina-Angiotensina-Aldosterone.

Il controllo nervoso della frequenza cardiaca è un tipico esempio dell’antagonismo e della complessa e continua

interazione tra i trasmettitori nervosi delle fibre postganglionari simpatiche (noradrenalina) e vagali

(acetilcolina) e le caratteristiche di risposta delle cellule pacemaker. Tale caratteristica è alla base di due delle

più importanti metodiche di studio del sistema nervoso autonomo: l’analisi della variabilità della frequenza

cardiaca e lo studio della sensibilità barocettiva.

Il sistema nervoso autonomo opera prevalentemente attraverso segnali che possono modificare il flusso di

Calcio e di altri ioni. I recettori adrenergici e colinergici, che appartengono al sistema di recettori accoppiati alle

proteine G, sono in grado di avviare un processo di trasduzione che inizia con il legame dell’agonista al sito

recettoriale e culmina nell’attivazione, attraverso la fosforilazione di proteine intracellulari. A livello cardiaco, i

recettori beta-adrenergici sono prevalentemente del sottotipo beta1, mentre il sottotipo beta2, che prevale a

livello extracardiaco, costituisce solo il 20% dei beta recettori cardiaci. I recettori alfa-adrenergici utilizzano un

differente sistema di trasduzione ed hanno un ruolo determinante nel regolare il flusso di calcio nella

muscolatura vascolare liscia.

LA FREQUENZA CARDIACA

Può sembrare sorprendente che la misura della frequenza cardiaca possa fornire valide e importanti

informazioni prognostiche sia nella popolazione sana sia in differenti condizioni cliniche. La frequenza cardiaca

istantanea è, con ogni probabilità, il più semplice indicatore dell’equilibrio autonomico e quindi può fornire

importanti informazioni sull’interazione simpato-vagale e sulla capacità di risposta del nodo del seno alla

modulazione autonomica. Una frequenza cardiaca elevata è un importante fattore prognostico negativo sia nella

popolazione generale sia in pazienti con differenti patologie cardiovascolari. Anche se è verosimile che i

meccanismi che possono determinare un aumento della frequenza cardiaca a riposo non possano essere

ricondotti al solo sistema neurovegetativo, quest’ultimo ne rimane il principale determinante. Informazioni sul

controllo autonomico possono essere anche ricavate dall’analisi delle variazioni di frequenza cardiaca indotte sia

nelle prime fasi di un esercizio fisico sia nel recupero. Un eccessivo aumento della frequenza cardiaca nei primi

minuti di esercizio e una scarsa riduzione nelle prime fasi di recupero sono state interpretate come segni di un

alterato equilibrio simpato-vagale ed associate ad un aumento di mortalità in pazienti con cardiopatia ischemica

e insufficienza cardiaca.

L’ANALISI DELLA VARIABILITÀ DELLA FREQUENZA CARDIACA

Questa metodica si basa sul fatto che anche in condizioni di riposo la frequenza cardiaca istantanea ha una

variabilità battito-battito che può essere facilmente messa in evidenza se si analizza una serie temporale di

intervalli RR (tacogramma). La misura di queste oscillazioni può essere fatta con semplici metodi statistici,

come il calcolo della media o della deviazione standard, o con metodiche spettrali che permettono di identificare

e misurare l’ampiezza delle principali componenti oscillatorie. Nell’analisi del breve periodo (5-30 minuti)

l’analisi spettrale (Figura 1) mostra due principali componenti oscillatorie a bassa (LF) e ad alta frequenza (HF)

che riflettono rispettivamente la modulazione simpatica e parasimpatica del nodo del seno. Il rapporto LF/HF è

comunemente utilizzato come indice dell’interazione simpato-vagale, e nel soggetto sano ha un valore inferiore

a 2. Un’attivazione simpatica come quella indotta dall’ortostatismo passivo si associa ad un aumento della

componente LF e ad una riduzione della componente HF. Un aumento della variabilità dei cicli cardiaci legato

all’attività respiratoria si associa ad un aumento della componente HF. L’analisi di lunghi periodi, come quelli

rilevabili nelle registrazioni Holter, è caratterizzata da numerose macro-oscillazioni, che possono essere

determinate dalla sequenza sonno veglia, dal livello di attività fisica e da altri fattori neuro-umorali. In questo

caso l’analisi spettrale indica che meno del 10% della potenza totale è ascrivibile alle componenti LF e HF,

mentre predominano le componenti a più basse frequenze che riflettono i fenomeni sopraindicati.

Nella pratica clinica la disponibilità di uno strumento in grado di misurare l’interazione simpato-vagale ha

trovato numerose applicazioni, soprattutto nella cardiopatia ischemica, nell’ipertensione arteriosa e

nell’insufficienza cardiaca. Il riconoscimento di un’alterazione del fisiologico equilibrio simpato-vagale nel post-

infarto ha permesso di identificare pazienti con un elevato rischio di morte cardiaca aritmica.

Attualmente tutti i sistemi di lettura dell’elettrocardiogramma dinamico, registrato per 24 ore (Holter) sono in

grado di fornire parametri come la deviazione standard degli intervalli RR normali (SDNN), che può essere

utilizzata nella stratificazione non invasiva del rischio di morte cardiovascolare. L’analisi spettrale delle 24 ore

fornisce, invece, informazioni di maggior difficoltà interpretativa, e recentemente è stata affiancata da ulteriori

elaborazioni del segnale di variabilità RR basate sull’analisi di dinamiche non lineari, che tuttavia vengono

utilizzate prevalentemente nei laboratori di ricerca.

L’ANALISI DELLA SENSIBILITÀ BAROCETTIVA

Questa metodica si basa su un modello stimolo risposta e quantifica l’aumento di durata degli intervalli RR in

risposta ad un aumento di pressione arteriosa indotta dalla somministrazione di una sostanza vasoattiva come

la fenilefrina (Figura 2). L’inclinazione della curva che descrive tale metodica si esprime in msec/mmHg, e in

soggetti sani ha un valore superiore a 12 msec/mmHg. Questa metodica fornisce quindi una misura della

capacità di risposta dei meccanismi nervosi di controllo, e riflette la capacità d’incremento dell’attività vagale

efferente e la capacità d’inibizione dell’attività simpatica efferente diretta al cuore. Va ricordato che tra i due

sistemi di controllo esiste una continua interazione che modula la capacità di risposta di ciascuna componente

del sistema nervoso neurovegetativo. Una ridotta sensibilità barocettiva caratterizza pazienti con un’elevata

mortalità sia nel post-infarto sia nello scompenso cardiaco.

Figura 2 Calcolo della sensibilità barocettiva durante test alla fenilefrina. Nella parte superiore vengono

illustrate le modificazioni battito-battito della pressione arteriosa sistolica e dell’intervallo RR durante

l’incremento pressorio indotto dal farmaco vasoattivo. Nella parte inferiore è rappresentata la correlazione

pressione/RR che permette di calcolare l’intercetta come misura della sensibilità barocettiva.

L’ANALISI DELLA TURBOLENZA CARDIACA (HRT)

L’HRT è una metodica che si basa sull’analisi delle modificazioni di durata del ciclo cardiaco che seguono la

pausa compensatoria indotta da un battito prematuro ventricolare (Figura 3). In un soggetto sano questo

fenomeno è caratterizzato da un iniziale accorciamento di durata dell’intervallo RR e quindi da un graduale

allungamento che in 5-7 cicli cardiaci riporta la durata dell'intervallo RR ai valori precedenti il battito prematuro

ventricolare. L’iniziale accorciamento viene indicato come T0 e ha in un soggetto normale un valore inferiore

allo 0% (determinato dal rapporto percentuale tra l’intervallo RR post-pausa compensatoria e il valore medio

degli intervalli RR precedenti il battito prematuro ventricolare) La graduale decelerazione viene indicata con il

termine TS è ha in un soggetto normale un valore > 2,5 msec/RR. Si ritiene che l’accelerazione iniziale sia

dovuta ad un aumento dell’attività simpatica diretta al cuore mediata da una deattivazione barorecettiva legata

alla diminuzione di pressione arteriosa post-extrasistolica, mentre la successiva decelerazione riflette un

meccanismo di tipo barocettivo: incremento della pressione sistolica ed allungamento della durata degli

intervalli RR.

Questa metodica è stata utilizzata con successo nel post infarto e in pazienti con differenti tipi di

cardiomiopatia, ma necessita che la registrazione sui cui viene effettuata l’analisi presenti un numero adeguato

(non inferiore a 20) di battiti prematuri ventricolari.

Figura 3 Analisi della turbolenza cardiaca (HRT). Nella parte superiore è rappresentata la serie temporale

degli intervalli RR che precedono e seguono la pausa compensatoria indotta da un battito prematuro

ventricolare. Nella parte inferiore viene indicato dove e come si calcolano i due parametri che descrivono tale

metodica: TO e TS.

CONCLUSIONI

Lo studio del Sistema Neurovegetativo non è limitato al laboratorio di fisiopatologia, ma ha importanti risvolti

applicativi anche in Clinica. Alterazioni del sistema neurovegetativo con aumento della modulazione simpatica e

riduzione dell’attività vagale caratterizzano condizioni patologiche come la cardiopatia ischemica, l’insufficienza

cardiaca, l’ipertensione arteriosa. Tali alterazioni non solo riflettono la severità della patologia sottostante ma

sono fattori spesso determinanti per la progressione della malattia e in grado di provocare un’instabilità

elettrica del miocardio. L’analisi della variabilità della frequenza cardiaca, della sensibilità barocettiva e della

HRT ha permesso di identificare nel post-infarto pazienti ad alto rischio e può quindi guidare le nostre strategie

terapeutiche per ridurre la mortalità aritmica.

Capitolo 11. Cateterismo Cardiaco e Angiocardiografia, Germano Di Sciascio, A. Dambrosio

DEFINIZIONE

Il cateterismo cardiaco e l’angiocardiografia forniscono una valutazione dettagliata dell’anatomia e della

fisiologia del cuore e del sistema vascolare. La metodica è stata applicata per la prima volta nell’uomo da

Werner Forssmann nel 1929, ma è stata ampliata ai fini diagnostici da André Cournard e Dickinson Richards:

questi tre ricercatori nel 1956 hanno ricevuto per la loro scoperta il premio Nobel per la medicina. La

coronarografia selettiva è stata introdotta da Mason Sones nel 1963 ed ulteriormente modificata da Melvin

Judkins.

Il cateterismo cardiaco consiste nell'inserimento, attraverso un vaso periferico, di un catetere sottile e

flessibile che viene poi sospinto fin dentro le cavità cardiache. Si distingue un cateterismo cardiaco destro (o

venoso) e sinistro (o arterioso). Il primo viene effettuato introducendo il catetere in una vena periferica

(femorale, brachiale, succlavia o giugulare) ed avanzandolo nelle sezioni destre del cuore e nel circolo

polmonare. Il cateterismo cardiaco sinistro viene realizzato raggiungendo le cavità sinistre del cuore per via

retrograda, dall’arteria femorale, brachiale o radiale.

Durante le varie manovre è possibile misurare le pressioni e le tensioni d’ossigeno presenti nei vari distretti,

collegando il catetere ad un trasduttore di pressione. Inoltre, mezzo di contrasto iodato può essere iniettato

attraverso i cateteri per visualizzare radiograficamente le cavità cardiache ed i vasi (angiocardiografia);

infine, può essere studiato il tempo di circolo del sangue, ricavando altri dati utili sulla funzionalità

cardiocircolatoria. Attraverso il catetere è possibile anche effettuare biopsie del muscolo cardiaco (biopsia

endomiocardica).

L’angiocardiografìa delle coronarie o coronarografia consiste nella visualizzazione selettiva dell’albero

coronarico in corso di cateterismo cardiaco.

TECNICA

Il cateterismo cardiaco viene eseguito in una sala sterile attrezzata con un sistema radiografico ad alta

risoluzione, apparecchi poligrafici per il monitoraggio continuo e la registrazione dei parametri fisiologici (traccia

ECG, onda pressoria e pulsossimetria transcutanea), un carrello con farmaci per le emergenze ed un

defibrillatore per il trattamento delle aritmie ventricolari. Inoltre, la sala deve essere dotata di un iniettore per il

mezzo di contrasto, un sistema per l’acquisizione di film cineangiografico con la possibilità di elaborazione

digitale delle immagini ed archiviazione successiva.

Il paziente deve essere a digiuno e leggermente sedato, ma sveglio. La procedura viene effettuata con

metodica percutanea, nella maggior parte dei casi attraverso l’arteria e la vena femorale; l’approccio brachiale

o radiale viene utilizzato in presenza di vasculopatia periferica che precluda l’accesso dagli arti inferiori o

l’avanzamento dei cateteri in aorta addominale oppure quando si vuole consentire una deambulazione precoce

del paziente dopo la procedura.

La Figura 1 illustra la tecnica di puntura vasale percutanea. L’arteria e/o la vena periferica vengono punte con

un ago, previa anestesia locale della cute e sottocute: l’ago ha un calibro tale da consentire l’inserimento

all’interno dello stesso di una guida metallica flessibile che può essere avanzata nel vaso (Figura 1A, Figura

1B). A questo punto l’ago viene rimosso, e con la punta di un bisturi viene effettuata una piccola incisione di

cute e sottocute al fine di consentire il passaggio dell’introduttore (Figura 1C). La guida lasciata in situ

permette l’inserimento nel vaso periferico di una cannula (detta introduttore), inizialmente dotata di svasatore

(Figura 1D, Figura 1E): quest’ultimo viene rimosso assieme alla guida quando l’introduttore è posizionato

completamente all’interno del vaso (Figura 1F). Il calibro dell’introduttore è variabile, a seconda della

procedura che viene eseguita; in genere, è dell’ordine di alcuni millimetri (da 4 a 8 French, considerato che 1

French = 0.3 mm, il calibro varia da 1.2 a 2.5 mm). Terminata la procedura di cateterismo, l’introduttore viene

rimosso e si ottiene l’emostasi locale mediante compressione manuale o mediante dispositivi meccanici per 15-

20’: la compressione sarà applicata a monte del sito di inserzione nel caso di puntura arteriosa, a valle nel caso

di puntura venosa.

Nella procedura di cateterismo cardiaco sinistro, un catetere pre-formato - ovvero, che presenta curvatura

predefinita all’estremità distale, al fine di essere agevolmente introdotto nelle cavità cardiache – viene avanzato

per via retrograda sotto controllo dei raggi X (fluoroscopia) nell’arteria periferica fino all’aorta ascendente e poi

in ventricolo sinistro, attraverso la valvola aortica, ed eventualmente in atrio sinistro, attraversando per via

retrograda la valvola mitrale. A tutti i livelli (distretto vascolare e camere cardiache) è possibile misurare

attraverso il catetere i parametri emodinamici, così come effettuare prelievi per determinare le saturazioni

d’ossigeno. Le forme d’onda pressoria (tensiogrammi) possono essere visualizzate su monitor e stampate su

carta o memorizzate su di un supporto informatico.

Nei casi in cui non sia possibile eseguire un cateterismo retrogrado delle camere sinistre del cuore (ad esempio:

stenosi aortica serrata, protesi valvolare aortica), si può procedere per via trans-settale dalle sezioni destre. Un

catetere speciale (di Brockenbrough e Braunwald), introdotto per via percutanea dalla vena femorale destra,

viene passato dall’atrio destro al sinistro dopo aver punto il setto con un ago ricurvo nelle regione della fossa

ovale. Dall’atrio sinistro il catetere viene poi avanzato nel ventricolo sinistro attraverso la valvola mitrale.

Per la procedura di cateterismo cardiaco destro viene generalmente utilizzato il catetere a palloncino flottante di

Swan Ganz (Figura 2). Il catetere, sotto controllo fluoroscopico e dopo aver gonfiato il palloncino all’estremità

distale, viene avanzato (Figura 3) attraverso la vena periferica nella vena cava (inferiore o superiore, a

seconda dell’approccio iniziale) e quindi in successione nell’atrio destro, nel ventricolo destro e in uno dei due

rami principali dell’arteria polmonare, fino ad “occludere” transitoriamente un ramo periferico di quest’ultima. In

questa posizione è possibile registrare la pressione di “incuneamento capillare polmonare”, la quale riflette

quasi sempre in maniera accurata la pressione striale sinistra.

Il catetere di Swan Ganz consente il cateterismo destro a letto dell’ammalato anche senza necessità di

radioscopia: l’uso di tale indagine si è esteso alle Unità di Terapia Intensiva Coronarica, per il monitoraggio

emodinamico di pazienti in condizioni critiche. Il termistore posto alla estremità del catetere consente di

misurare la gittata cardiaca mediante metodica diluizionale, fornendo quindi un quadro sufficientemente

completo della funzione cardiocircolatoria del paziente.

La ventricolografia sinistra viene eseguita di routine in corso di cateterismo cardiaco sinistro. Essa prevede

l’introduzione in ventricolo per via retrograda di un catetere particolare, denominato “pig-tail”, in quanto

presenta all’estremità distale un ricciolo che ricorda il codino del suino, ed è dotato di diversi fori a questo

livello. La specifica conformazione del catetere permette l’agevole introduzione nella camera cardiaca - senza

risultare traumatico per le pareti cardiache e quindi evitando di stimolare l’insorgenza di aritmie ventricolari – e

l’adeguata opacizzazione della stessa mediante iniezione di circa 40-50 ml di mezzo di contrasto radiopaco ad

alta velocità ed in pochi secondi (Figura 4). In tal modo è possibile osservare le dimensioni del ventricolo

sinistro, la contrazione ed il rilasciamento delle pareti e l’eventuale presenza di insufficienza della valvola

mitrale, evidenziabile come rigurgito sistolico di mezzo di contrasto in atrio sinistro attraverso la valvola.

La coronarografia viene eseguita portando a livello del piano valvolare aortico cateteri con curve preformate

all’estremità distale che permettono l’incannulazione selettiva dell’ostio coronario destro e sinistro.

Successivamente vengono iniettati pochi millilitri di mezzo di contrasto all’interno della coronaria e viene

registrato il riempimento e successivo svuotamento della coronaria. In genere, vengono utilizzate diverse

proiezioni radiografiche (oblique anteriori destre e sinistre, craniali e caudali), ruotando il tubo radiogeno

attorno al paziente, al fine di visualizzare le coronarie epicardiche principali e le loro ramificazioni lungo tutto il

loro decorso.

INDICAZIONI

Il cateterismo cardiaco viene effettuato per determinare la natura e l’estensione di un sospetto problema

cardiaco in un paziente nel quale si intenda effettuare un intervento chirurgico o una terapia interventistica

percutanea. Tale metodica serve anche per escludere patologie significative in presenza di risposte equivoche

ad altri esami non invasivi, quali test da sforzo o ecocardiogramma, oppure quando, in un paziente fortemente

sintomatico, l’acquisizione di una diagnosi definitiva sia rilevante ai fini del trattamento. Il cateterismo cardiaco

permette di:

• misurare direttamente le pressioni intravascolari (circolo arterioso sistemico e polmonare) ed intracavitarie a

livello della sezione destra e sinistra del cuore;

• visualizzare con mezzo di contrasto radiopaco sia i grossi vasi che le cavità cardiache, in particolare il

ventricolo sinistro, al fine di valutare la funzione contrattile globale, e la cinetica regionale del ventricolo e la

continenza valvolare aortica e mitralica.

La misurazione diretta dei gradienti transvalvolari è fondamentale nella valutazione dei pazienti con

valvulopatia: le Figura 5 e Figura 6 illustrano i tracciati pressori registrati in caso di stenosi aortica e stenosi

mitralica.

Anche dopo l’introduzione della TC coronarica, la coronarografia continua ad essere l’unica metodica in grado di

definire in maniera accurata la gravità e l’estensione della coronaropatia: è pertanto esame essenziale nella

valutazione dei pazienti per i quali venga presa in considerazione la rivascolarizzazione, sia essa percutanea

(angioplastica coronarica) o chirurgica (mediante intervento di by-pass aorto-coronarico). Le Figura 7 e Figura

8 mostrano rispettivamente un quadro coronarografico privo di lesioni ed uno con stenosi significativa.

CONTROINDICAZIONI, RISCHI E COMPLICANZE

Il cateterismo cardiaco è una procedura relativamente sicura, ma trattandosi di una tecnica invasiva, si associa

ad un rischio di morbilità e mortalità ben definito.

Esiste una sola controindicazione assoluta all’esecuzione di un cateterismo cardiaco: la presenza di

apparecchiature e personale non adeguati alla procedura. Le seguenti rappresentano controindicazioni relative:

sanguinamento acuto gastrointestinale con anemizzazione, diatesi emorragica incontrollata, anticoagulazione

efficace (INR>2), alterazioni dell’equilibrio idroelettrolitico (in particolare l’ipopotassimeia, che predispone alle

aritmie), infezioni e febbre, intossicazione da farmaci (ad esempio: digitale, fenotiazina), gravidanza, recente

evento cerebrovascolare (< 1 mese), insufficienza renale, scompenso cardiaco instabile, ipertensione arteriosa

non controllata, aritmie, paziente non collaborante.

Uno studio prospettico di 5 anni condotto nel 1968 riportava un’incidenza cumulativa di complicanze (incluse:

perforazione cardiaca, aritmie maggiori, emorragie, ipotensione severa, trombosi vascolare, ictus embolico,

infarto miocardico e morte) nei pazienti di tutte le età pari al 3.6%. Successivamente, il miglioramento

progressivo delle tecniche, l’esperienza sempre maggiore degli operatori e l’uso di cateteri più flessibili e di

mezzi di contrasto meno nefrotossici, ha determinato una riduzione notevole dell’incidenza di complicanze,

permettendo un’applicazione sempre più estesa di questa tecnica diagnostica al fine di ottenere una precisa

diagnosi anatomo-funzionale cardiovascolare in vista di un’indicazione terapeutica.

Le complicanze legate al cateterismo cardiaco si possono distinguere in maggiori e minori. Le prime hanno

un’incidenza globale approssimativamente del 0.1-0.2% e sono elencate di seguito, con incidenza media

indicata tra parentesi: morte (0.11%), infarto miocardico acuto (0.05%), evento ischemico cerebrale (0.07%),

tachicardia o fibrillazione ventricolare o aritmie maligne (0.38%), complicanze vascolari (0.43%), reazioni al

mezzo di contrasto (0.37%), complicanze emodinamiche (0.26%), perforazione delle camere cardiache

(0.03%). Le complicanze minori si osservano in circa il 4% dei pazienti sottoposti a cateterismo cardiaco; le più

comuni sono le lievi reazioni vaso-vagali (ipotensione arteriosa e bradicardia transitorie, secondarie alla puntura

vasale ed all’uso di mezzo di contrasto) e gli episodi di angina che durano meno di 10 minuti.

Capitolo 12. Diagnostica Vascolare, Alberto Balbarini, R. Di Stefano

INTRODUZIONE

La diagnostica vascolare può essere classificata in modi diversi, sulla base di molteplici criteri, fra cui i seguenti:

• Diagnostica invasiva o non invasiva.

• Diagnostica di primo livello per lo screening e diagnostica di secondo livello più sofisticata o complessa,

per approfondimento o ricerca.

• Diagnostica per lo studio del flusso a riposo o per lo studio emodinamico.

A monte di ogni scelta sul tipo di esame, devono essere note le informazioni che si possono ottenere, oltre che

il rapporto costo/beneficio, in modo da richiedere indagini di secondo livello solo quando ne esista la reale

indicazione.

L’approccio diagnostico vascolare verrà presentato separatamente per i seguenti distretti :

- Distretto Carotideo

- Distretto Periferico

- Microcircolo

DIAGNOSTICA VASCOLARE DEL DISTRETTO CAROTIDEO

Le principali metodiche utilizzate nella diagnostica della malattia carotidea sono:

• L’ ecografia color Doppler

• l’ angioTC

• l’ angioRNM

La diagnostica invasiva viene attuata solo su casi selezionati, mediante arteriografia. Per il distretto carotideo la

metodica diagnostica ottimale dovrebbe fornire dati affidabili sulla sede della placca, sulla composizione

istologica (emorragia, fibrosi, contenuto lipidico) e la morfologia (superficie liscia o ulcerata). Nella realtà clinica

nessuna metodica è in grado di fornire allo stesso tempo e con la stessa precisione tutte queste informazioni.

ECOCOLORDOPPLER

E’ la metodica di riferimento che consente, eventualmente in associazione a studio angio TC o angio RNM e a

Doppler transcranico, di pianificare interventi chirurgici di correzione di stenosi emodinamiche senza la

necessità di ricorrere ad una arteriografia preoperatoria.

La metodica eco Doppler si basa sull’utilizzo di un trasduttore posizionato con angolo di 90° a livello cutaneo

che agisce sia da trasmittente di emissioni di ultrasuoni che da ricevente degli echi trasmessi originati dalle

varie interfacce che vengono elaborati e convertiti in punti luminosi in grado di ricostruire l’immagine anatomica

del vaso o le caratteristiche della placca da analizzare.

Il colore permette di determinare l’orientamento spaziale del flusso e la relazione spaziale tra quest’ultimo e le

strutture anatomiche è visualizzata in tempo reale .

Tutti i sistemi color Doppler codificano la direzione del flusso in due colori, rosso e blu: la direzione del flusso in

avvicinamento al trasduttore è codificata in rosso, quella in allontanamento in blu. La metodica color, utilissima

nella localizzazione spaziale dei flussi e nella determinazione diretta di alcune patologie, non fornisce, però, una

stima accurata della velocità. Per la determinazione della velocità è preferibile ricorrere alla modalità B-mode

(che codifica le strutture secondo una scala di grigi), utilizzando il Doppler pulsato dove, mediante un cursore,

viene selezionato un campione di circa 1-2mm³ all’interno del vaso ed eseguita un’analisi spettrale per la

determinazione del flusso.

La caratterizzazione ecografica della stenosi carotidea prevede l’analisi combinata del segnale Doppler (velocità

di picco sistolica e diastolica in corrispondenza della stenosi) e dell’ imaging bidimensionale: dallo studio del

segnale Doppler possiamo avere informazioni sull’entità della stenosi e le sue ripercussioni emodinamiche;

l’imaging bidimensionale consente di valutare, in maniera analoga all’angiografia, la percentuale di stenosi

lineare o planimetrica determinata dalla placca (Figura 1).

Se l’ indagine ecografica è la metodica di prima scelta per discriminare l’ entità della stenosi (percentuale), la

localizzazione (carotide comune, interna o esterna) e l’estensione, altri parametri importanti che rendono la

placca instabile, ovvero ad elevato rischio di eventi clinici, sono di più difficile acquisizione. I principali parametri

che sono risultati correlati all’ instabilità della placca sono :

- irregolarità di superficie o ulcerazione

- abbondante componente lipidica

- emorragia.

Questi dati sono oggi acquisibili con tecniche diagnostiche ecografiche più sofisticate, di secondo livello, basate

sull’ analisi densitometrica della placca ottenuta con l’ acquisizione della scala dei grigi ( back-scattering ) .

ANGIO TC

La metodica angio TC, in particolare la TC spirale che consente di ottenere immagini tridimensionali ad alta

risoluzione, ha una sua particolare sensibilità e specificità nell’ identificare le percentuale di stenosi superiori al

70% per il distretto carotideo extracranico e soprattutto per la diagnosi delle occlusioni. Un’altra peculiarità

della angio TC è la capacità di identificare eventuali ulcerazioni della placca con una sensibilità e specificità che

supera il 90%.

ANGIO RNM

La risonanza, analogamente alla TC , trova indicazione nella diagnostica della stenosi carotidee nei casi in cui l’

ecografia risulti dubbia. Rispetto all’ angio TC, offre il vantaggio di non richiedere l’uso di mezzo di contrasto

iodato e di avere una sensibilità nell’ identificare le stenosi superiori al 70 %.

DIAGNOSTICA VASCOLARE DEL DISTRETTO PERIFERICO

La diagnostica vascolare non invasiva nel paziente con sospetta arteriopatia periferica si basa sull’utilizzo degli

ultrasuoni, che coprono da soli gran parte della diagnostica vascolare anche in questo distretto. L’ arteriografia

mantiene un ruolo fondamentale nei pazienti per i quali, sulla base dei dati eco -Doppler, si ritenga indicato un

intervento di rivascolarizzazione chirurgica.

ECOGRAFIA COLOR DOPPLER

La diagnostica ecografica è finalizzata a individuare :

-dilatazioni aneurismatiche

-compressioni estrinseche

-alterazioni di parete (stenosi ,occlusioni) comprese le valutazioni sulle caratteristiche della placca, come già

detto per il distretto carotideo e con gli stessi limiti già descritti

-trombi endoluminali

Anche per il distretto periferico l’ esame ecodoppler ha dei limiti tra cui la difficoltà, determinata da rapporti

anatomici, ad esplorare alcuni tratti dell’asse arterioso, come ad esempio il distretto di gamba specialmente nei

pazienti diabetici o con stenosi multiple, o la difficoltà legata alla presenza di “coni d’ ombra” che

accompagnano placche calcifiche fortemente ecogene rendendo l’ area non esplorabile. Tuttavia per la maggior

parte delle placche o stenosi l’ indagine ecocolordoppler costituisce la metodica di prima scelta, fornendo dati

analoghi a quelli dell’ arteriografia (Figura 2).

ABI (Ankle/brachial index ) o indice di Winsor

In condizioni fisiologiche la pressione sistolica agli arti inferiori è maggiore di quella rilevabile agli arti superiori,

con valori che oscillano fra 12±8 mm Hg e 24±9 mm Hg. In presenza di una stenosi che restringa il vaso per

almeno il 50% , si ha distalmente un calo pressorio determinato dalla riduzione compensatoria delle resistenze

periferiche. Per primo Winsor propose di registrare in contemporanea i valori pressori della caviglia e del

braccio, ottenendo un rapporto che in condizioni di normalità è uguale o maggiore di 1 (Figura 3).

L’ ABI costituisce il più rapido esame diagnostico per lo screening e il follow up di pazienti con arteriopatia

obliterante degli arti inferiori. Il limite fondamentale è dato dalla impossibilità di valutare arterie incomprimibili

per sclerosi calcifica della media, quale si ha ad esempio nei pazienti diabetici o con insufficienza renale grave,

e le lesioni emodinamicamente non significative a riposo che sono diagnosticabili solo con opportuni tests da

sforzo.

Treadmill Test

Il test viene eseguito per valutare la presenza di stenosi che non sono rilevabili a riposo. L’ esercizio determina,

infatti, una dilatazione dei vasi di resistenza ed un aumento di flusso a livello muscolare: in condizioni normali,

per la presenza di basse resistenze a livello delle grandi arterie non si verificano fenomeni di furto dalle zone più

distali dell’ arto, mentre in presenza di un’occlusione o di una stenosi emodinamicamente significativa il flusso

muscolare dopo esercizio è ostacolato dalle alte resistenze presenti nel circolo collaterale e dalla dilatazione

arteriolare distale alla lesione.

L’ esame prevede la determinazione dell’ABI in condizioni di riposo e immediatamente dopo un periodo di

deambulazione a velocità ed inclinazione costante su un treadmill sino alla comparsa di claudicatio o per un

tempo definito; la misurazione dell’ ABI viene eseguita fino al recupero dei valori basali. Al termine dello sforzo

la pressione arteriosa nell’ arto superiore aumenta, nell’ arto inferiore in cui è presente una arteriopatia scende

per poi tornare ai valori basali. Il test da sforzo ha la sua indicazione quando esiste un sospetto clinico non

confermato dai valori di ABI a riposo o per valutare il peso funzionale di una lesione.

DIAGNOSTICA DEL MICROCIRCOLO

La valutazione della microcircolazione cutanea si basa su metodiche che consentono una valutazione diretta, di

tipo morfologico, della rete capillare (capillaroscopia), oppure una valutazione indiretta, di natura metabolica

(tensiometria transcutanea di O2 e CO2 ) o funzionale (flussimetria laser-doppler).

Queste metodiche rivestono un ruolo nella diagnostica dei pazienti affetti dai gradi più severi di arteriopatia, in

particolare quelli con ischemia critica cronica che presentano dolore a riposo, necrosi cutanee e gangrena

Capillaroscopia

La capillaroscopia consente uno studio selettivo del circolo nutrizionale che costituisce circa il 10 % del flusso

cutaneo , responsabile delle lesioni trofiche.

La capillaroscopia si basa sull’ utilizzo di uno stereomicroscopio collegato ad un sistema di rilevazione dell’

immagine. I distretti normalmente esplorati sono la piega ungueale, la cute e la congiuntiva bulbare.

In condizioni normali, il capillare studiato a livello della plica ungueale assume un aspetto a “forcina”, con una

parete arteriosa e una venosa ben distinguibili; le anse capillari sono di colorito roseo, parallele e separate da

spazi regolari. In condizioni patologiche si possono avere variazioni di numero, caratteristiche e distribuzione

(Figura 4).

Tensione transcutanea di Ossigeno (TCpO2) e di Anidride Carbonica (TCpCO2)

Lo studio del plesso cutaneo più profondo sub papillare, destinato alla funzione termoregolatoria,

viene eseguito con paziente a riposo, in posizione supina, in ambiente a climatizzazione controllata, sia in

condizioni basali che dopo stress provocativi.

Nata dall’osservazione che nei neonati è possibile misurare le variazioni dell’ossigenazione in maniera incruenta

tramite sensori applicati sulla cute, la metodica è stata applicata in angiologia grazie alla messa a punto di un

elettrodo polarografico (elettrodo di Clark) che permette di eseguire misurazioni continue dell’ ossigeno.

Nelle arteriopatie, la TCpO2 valuta in modo non invasivo le conseguenze tissutali delle alterazioni

macrocircolatorie. In clinica la misurazione ossimetrica viene eseguita con sensore riscaldato a 44C° posizionato

sul I spazio intermetatarsale del piede sintomatico. Nel paziente con ischemia critica cronica i valori ossimetrici

, rilevati al piede sintomatico , non superano rispettivamente i 10 e 45 mmHg in posizione supina e declive.

Negli ultimi anni si è resa possibile anche la misurazione della concentrazione transcutanea di anidride

carbonica , mediante un sensore combinato per O2 e CO2 e questo parametro costituisce un più sensibile

indicatore di acidosi metabolica indotta dal danno ischemico .

Flussimetria Laser Doppler

La flussimetria laser Doppler è una metodica per lo studio funzionale del microcircolo basata sull’utilizzo dell’

effetto doppler. E’ una tecnica in atto più idonea ai fini di ricerca che clinici.

Sezione III. Malattie delle Valvole Cardiache

Capitolo 13. Malattia Reumatica, Luigi Meloni, Massimo Ruscazio

DEFINIZIONE

La malattia reumatica è un processo morboso infiammatorio multifocale, a patogenesi autoimmune, che si

manifesta in seguito ad un’infezione faringea da streptococco emolitico del gruppo A. La malattia interessa

principalmente le articolazioni, il cuore, il sistema nervoso centrale, la cute e il sottocutaneo. Il 50 % circa dei

pazienti colpiti dalla malattia reumatica sviluppa negli anni un danno cardiaco permanente, responsabile delle

varie forme di valvulopatia reumatica cronica.

EPIDEMIOLOGIA

L’incidenza della malattia reumatica è diminuita drasticamente nei paesi industrializzati grazie soprattutto alle

migliorate condizioni socio-economiche e alla disponibilità della penicillina per il trattamento della faringite

streptococcica. La malattia è ancora presente in forma endemica nei paesi in via di sviluppo e tra le popolazioni

in cui sussistono condizioni ambientali e socio-sanitarie sono precarie (povertà, malnutrizione, eccessivo

affollamento, insufficiente prevenzione ed assistenza sanitaria).

Sebbene possa interessare tutte le fasce di età, la malattia reumatica colpisce principalmente i bambini e gli

adolescenti. La prevalenza della valvulopatia reumatica, al contrario, aumenta con l’età e raggiunge un picco tra

i 25 e i 34 anni.

PATOGENESI

La faringo-tonsillite da streptococco emolitico del gruppo A, non adeguatamente trattata con antibiotici, è

l’evento che precipita la malattia reumatica.

Sebbene l’esatto meccanismo che associa l’infezione streptococcica alla flogosi reumatica sia ancora incerto, la

malattia reumatica è comunemente considerata il risultato di una esagerata risposta immunitaria alle

componenti antigeniche dello streptococco. Le similitudini molecolari e immunologiche tra gli antigeni batterici e

i tessuti dell’organismo (mimetismo antigenico) sarebbero poi responsabili della successiva risposta crociata di

tipo autoimmune che scatena l’attacco acuto di malattia reumatica (Figura 1).

L’interesse nei confronti della patogenesi autoimmune è riemerso recentemente con la dimostrazione che

diversi antigeni della superficie batterica condividono affinità strutturali con le componenti tessutali degli organi

e dei sistemi coinvolti nella malattia reumatica. L’acido ialuronico contenuto nella capsula dello streptococco

possiede una struttura chimica identica a quella dell’acido ialuronico presente nel tessuto articolare dell’uomo.

Un’altra componente della parete cellulare dello streptococco, la N-acetilglucosamina, si ritrova in alte

concentrazioni nelle valvole cardiache; gli anticorpi diretti contro la proteina-M della membrana cellulare

batterica interagiscono anche con la miosina cardiaca; altre proteine umane, la vimentina (tessuto sinoviale) e

la cheratina (tessuto cutaneo), mostrano una reattività crociata con la proteina-M streptococcica. Infine,

esistono evidenze a sostegno dell’affinità strutturale tra gli elementi somatici dello streptococco e alcune

componenti del tessuto nervoso dell’uomo (gangliosidi).

Pertanto, i principali quadri clinici associati alla malattia reumatica sarebbero espressione di un danno

infiammatorio locale, indotto da una abnorme risposta immunologica di tipo crociato.

Figura 1

ANATOMIA PATOLOGICA

Sul versante istopatologico, la fase acuta della malattia si caratterizza per una reazione essudativa e

proliferativa del tessuto connettivo. La cardite reumatica è una vera e propria pancardite perché interessa

l’endocardio, il miocardio e il pericardio. Nel miocardio si osserva edema ed infiltrazione cellulare del tessuto

interstiziale con frammentazione delle fibre collagene (miocardite). Successivamente, nella fase proliferativa

compaiono i noduli di Aschoff, lesioni granulomatose patognomoniche della malattia, riscontrabili anche nelle

valvole cardiache e nel pericardio. La flogosi reumatica dei foglietti pericardici (pericardite) è di tipo

sierofibrinoso e si risolve, solitamente, senza complicazioni. La componente più significativa del danno cardiaco

è l’infiammazione delle valvole cardiache (valvulite), responsabile della manifestazione clinica più importante

dell’attacco acuto di malattia reumatica, l’insufficienza valvolare. La valvulite reumatica colpisce

prevalentemente la valvola mitrale e la valvola aortica, raramente la valvola tricuspide e quasi mai la valvola

polmonare. Il tessuto valvolare è interessato da edema ed infiltrazione cellulare. Si possono osservare piccole

formazioni verrucose sulla superficie valvolare, in prossimità delle aree di coaptazione dei lembi valvolari. Il

processo cicatriziale della valvulite porta lentamente, negli anni, a fibrosi dei lembi e a fusione delle commissure

e delle corde tendinee, a cui corrispondono sul piano funzionale stenosi o insufficienza valvolare (valvulopatia

reumatica).

Pertanto, il coinvolgimento del cuore durante la fase attiva della malattia reumatica (cardite reumatica), deve

essere distinto dal danno valvolare residuo che fa seguito alla risoluzione dell’episodio acuto (valvulopatia

reumatica).

MANIFESTAZIONI CLINICHE

Dal quadro clinico della malattia emergono 5 elementi fondamentali per la diagnosi: la cardite, la poliartrite,

la corea, l’eritema marginato e i noduli sottocutanei. Questi elementi possono presentarsi singolarmente o

in combinazione tra loro e costituiscono nel loro insieme i cosiddetti criteri maggiori di Jones. Altri reperti,

come la febbre, le artralgie, la positività dei test ematochimici di flogosi acuta, l’allungamento dell’intervallo P-R

all’ECG, sono considerati invece manifestazioni minori della malattia (Tabella I).

Tabella 1

Secondo lo schema proposto da Jones, la presenza di 2 manifestazioni maggiori oppure di una manifestazione

maggiore e 2 minori in un paziente con evidenza di infezione streptococcica recente (positività del tampone

faringeo, titolo antistreptolisinico elevato) indica un’alta probabilità di malattia reumatica acuta.

Il periodo di latenza tra la faringite streptococcica e l’inizio dei sintomi varia da 1 a 5 settimane. Nel 75 % dei

casi, la febbre e la poliartrite rappresentano i segni clinici iniziali dell’attacco di malattia reumatica. L’artrite

interessa prevalentemente le grandi articolazioni degli arti (ginocchia, gomiti, polsi e anche) in modo

asimmetrico e migrante, risponde prontamente all’aspirina e si risolve senza reliquati. A differenza dell’artrite

reumatoide, sono risparmiate le piccole articolazioni delle mani e dei piedi. Al quadro clinico della poliartrite si

sovrappone spesso quello della cardite, e in generale la gravità dei sintomi articolari è inversamente

proporzionale all’interessamento cardiaco: nei pazienti con forme gravi di artrite, le manifestazioni cliniche della

cardite tendono ad essere attenuate e viceversa.

La cardite, presente nel 50% circa dei pazienti con malattia reumatica acuta, è associata quasi sempre ad un

soffio cardiaco secondario alla valvulite. Il reperto ascoltatorio più frequente è un soffio olosistolico apicale, ad

alta frequenza, irradiato all’ascella, indicativo di un’insufficienza della valvola mitralica. Il soffio dell’insufficienza

valvolare aortica, se presente, si associa quasi sempre a quello dell’insufficienza mitralica. Quest’ultima

rappresenta pertanto l’elemento clinico più caratteristico della cardite reumatica.

Le ripercussioni emodinamiche della valvulite sono di entità variabile. Nelle forme più gravi di insufficienza

mitralica, compaiono i segni e i sintomi dello scompenso cardiaco. Più spesso, gli effetti acuti della valvulite

sono poco rilevanti sul piano clinico, e talora può essere difficile, all’ascoltazione cardiaca, cogliere i segni delle

lesioni valvolari. In questi casi, l’indagine ecocardiografica, coadiuvata dall’esame color Doppler, può essere

utile per confermare il sospetto di malattia reumatica.

Gli sfregamenti pericardici e il rilievo ecocardiografico di versamento pericardico documentano la presenza della

pericardite. L’interessamento flogistico del tessuto miocardico (miocardite) e del pericardio (pericardite) non

compare mai isolatamente, ma è sempre associato alle manifestazioni della valvulite. Pertanto, un quadro

clinico di pericardite o di miocardite con disfunzione sistolica del ventricolo sinistro difficilmente potrà avere una

patogenesi reumatica se l’ascoltazione cardiaca e l’ecocardiogramma escludono la presenza di un’insufficienza

della valvola mitrale o aortica.

La corea, secondaria all’interessamento flogistico del sistema nervoso centrale, è la terza manifestazione clinica

della malattia reumatica (15-30 % dei casi). Chiamata anche corea di Sydenham o ballo di San Vito, esordisce

più tardivamente, quando le altre manifestazioni della malattia sono scomparse o in via di risoluzione, e si

caratterizza per la presenza di movimenti irregolari e involontari, senza finalità, che scompaiono con il sonno e

con la sedazione. I sintomi neurologici hanno una durata variabile e, in genere, si risolvono spontaneamente.

Le manifestazioni cutanee della malattia reumatica sono decisamente più rare (meno del 10% dei casi). I

noduli sottocutanei compaiono a distanza di diverse settimane dalla cardite, si localizzano in corrispondenza

delle articolazioni principali e delle prominenze ossee, sono indolori, mobili e si risolvono spontaneamente.

L’eritema marginato è un rash cutaneo caratterizzato da margini rosati e serpiginosi che circoscrivono aree

centrali di aspetto normale. Si osserva prevalentemente sul tronco e sulle porzioni prossimali degli arti, migra

da una sede all’altra e non risponde alla terapia antinfiammatoria.

ESAMI DI LABORATORIO

La diagnosi di malattia reumatica è spesso non facile, non solo per la variabilità del quadro clinico, ma anche

per la mancanza di un test diagnostico sicuro e definitivo.

Gli indici di flogosi appaiono costantemente alterati nella fase acuta della malattia. La velocità di

eritrosedimentazione (VES) e la proteina-C reattiva (PCR) sono marcatori affidabili, ma aspecifici, della risposta

autoimmune e dell’infiammazione associata alla cardite o alla poliartrite.

In tutti i casi di sospetta malattia reumatica è indispensabile documentare, ai fini diagnostici, una recente

infezione streptococcica (vedi criteri di Jones). I test più utilizzati sono la ricerca di anticorpi diretti contro

alcune componenti dello streptococco (streptolisina O, desossoribonucleasi B) e l’esame colturale faringeo

(tampone faringeo).

La positività del tampone faringeo deve essere interpretata con cautela perché molti individui normali possono

ospitare streptococchi del gruppo A nelle vie aeree superiori. D’altra parte, la negatività dell’esame colturale

non permette di escludere in modo assoluto un episodio antecedente di infezione streptococcica. L’aumento del

titolo anticorpale antistreptococcico, specie se progressivo, è invece un reperto provvisto di maggiore

affidabilità nell’evidenziare una recente infezione streptococcica. A tal proposito, giova ricordare che il titolo

antistreptolisina O (ASLO) e antidesossiribonucleasi aumenta entro 1 mese dall’inizio dell’infezione

streptococcica, raggiunge un plateau per 3-6 mesi, quindi si riduce progressivamente.

Oltre alla tachicardia sinusale, l’ECG può mostrare un blocco atrioventricolare di primo grado, secondario

all’infiammazione dei tessuti perinodali. Il blocco atrioventricolare, riconoscibile in base all’allungamento

dell’intervallo P-R, non è, da solo, diagnostico di cardite reumatica (Tabella I), non influisce sulla prognosi né

predice lo sviluppo di sequele valvolari (valvulopatia reumatica).

DECORSO E PROGNOSI

La malattia si risolve spontaneamente entro 3 mesi dall’esordio acuto. Sebbene siano stati descritti casi isolati

di edema polmonare acuto fulminante, la mortalità della fase acuta è bassa e la prognosi dipende

fondamentalmente dalla gravità delle lesioni valvolari che fanno seguito al primo episodio della malattia

reumatica e/o alle recidive.

La malattia reumatica tende a recidivare. I pazienti che hanno sofferto di un precedente attacco di malattia

reumatica e che sviluppano successivamente nuovi episodi di faringite streptococcica sono ad alto rischio di una

recidiva della malattia. L’infezione streptococcica ricorrente, specie se sostenuta da ceppi virulenti, riattiva la

risposta autoimmune dell’organismo, favorendo così l’instaurarsi o il peggioramento del danno anatomico

valvolare (Figura 1).

CENNI DI TERAPIA E PREVENZIONE

Non esiste un trattamento specifico della malattia reumatica. Gli agenti anti-infiammatori sopprimono

rapidamente il dolore articolare e altri segni e sintomi della flogosi acuta, ma non curano la malattia né

prevengono la sua successiva evoluzione. Anche la terapia antibiotica con penicillina, obbligatoria nella fase

acuta per sradicare l’infezione streptococcica, non modifica il decorso dell’attacco acuto della malattia reumatica

né impedisce lo svilupparsi della cardite.

L’aspirina ad alte dosi è indicata nella poliartrite acuta, mentre l’impiego dei corticosteroidi è riservato ai casi

con cardite grave complicata da insufficienza cardiaca.

PREVENZIONE

La prevenzione primaria della malattia reumatica acuta si identifica nella diagnosi precoce e nel trattamento

antibiotico della faringo-tonsillite streptococcica. Il trattamento antibiotico se tempestivo e mirato (penicillina)

elimina quasi completamente il rischio di malattia reumatica. La prevenzione secondaria è rivolta agli

individui che hanno già avuto un attacco documentato di malattia reumatica acuta o che soffrono di recidive

dopo un’infezione streptococcica. Il caposaldo è rappresentato dalla profilassi antibiotica continua delle recidive

di infezione streptococcica, potenzialmente capaci di innescare nuovi attacchi di malattia reumatica. La

profilassi antimicrobica continua è necessaria perché il trattamento antibiotico di una nuova infezione

streptococcica, anche se ottimale, non protegge il paziente con precedenti anamnestici di malattia reumatica

dal rischio di una recidiva reumatica.

Lo schema terapeutico più efficace è costituito dalla benzilpenicillina somministrata in dose singola per via

intramuscolare ogni 4 settimane. La durata della profilassi antibiotica deve essere adattata nel singolo paziente

a seconda del rischio di recidiva. Il rischio di ricorrenze reumatiche diminuisce con l’aumentare dell’età e con

l’aumentare del tempo trascorso dall’ultimo attacco. I pazienti che non sviluppano la cardite durante il loro

primo attacco sono meno esposti al rischio di recidive reumatiche, e quando queste si verificano hanno minori

probabilità di manifestare una cardite. I pazienti che hanno sviluppato una cardite nel corso dell’attacco acuto

sono invece ad alto rischio di recidiva di cardite, con possibilità di ulteriore danno valvolare in occasione di ogni

ricorrenza (Figura 1).

Capitolo 14. Stenosi Mitralica, Giuseppe Oreto, Francesco Saporito

DEFINIZIONE

La stenosi mitralica è una malattia caratterizzata da alterazioni della valvola mitrale (fusione e

retrazione delle corde, ispessimento e adesione dei lembi) con esito in riduzione dell'area valvolare.

La valvola stenotica rappresenta un ostacolo al passaggio del sangue dall'atrio al ventricolo sinistro, per cui la

pressione atriale sinistra aumenta, e tale aumento si riflette a monte sul circolo polmonare, ed infine sul

ventricolo destro.

EZIOLOGIA

La malattia reumatica rappresenta la più importante e pressoché l'unica causa di stenosi mitralica. Per quanto,

infatti, esistano forme congenite di stenosi mitralica, i casi ad eziologia non reumatica sono talmente rari da

risultare trascurabili ai fini pratici. La malattia reumatica consegue ad infezione da streptococco ß-emolitico del

gruppo A, agente responsabile di infezioni spesso localizzate nelle tonsille; qualche settimana dopo l’inizio del

processo infettivo compaiono, nelle forme tipiche, manifestazioni infiammatorie a carico di numerosi organi,

comprendenti le grandi articolazioni, il cuore e il rene. Tali alterazioni non dipendono da localizzazione dello

streptococco negli organi bersaglio, ma conseguono ad un processo autoimmunitario del quale il germe è solo

l’avviatore. Il cuore viene solitamente interessato in toto, e si manifesta un’endocardite associata spesso a

miocardite e pericardite.

ANATOMIA PATOLOGICA

Il reperto anatomico prevalente durante la fase acuta dell'endocardite reumatica è rappresentato da piccoli

noduli verrucosi osservabili lungo la linea di chiusura dei foglietti, sul versante atriale di essi. Queste formazioni

infiammatorie scompaiono con la risoluzione del processo carditico, ed occorrono diversi anni prima che si

determinino le alterazioni caratteristiche della stenosi mitralica. Al danno valvolare iniziale consegue

un'alterazione del flusso transvalvolare, che determina nel tempo ispessimento, fibrosi, saldatura e

calcificazione dei lembi e dell'apparato sottovalvolare. In altri termini, la lesione reumatica iniziale avvia un

processo automatico di lenta e graduale alterazione della valvola; il trauma provocato dal flusso turbolento

rappresenta verosimilmente il principale responsabile delle lesioni evolutive.

La valvola mitrale stenotica presenta corde fuse e retratte, mentre i foglietti sono ispessiti e parzialmente

aderenti fra loro; nella maggior parte dei casi coesistono calcificazioni sia dei lembi che delle corde (Figura 1).

L'area valvolare, che nel normale misura da 4 a 6 cm2, è più o meno significativamente ridotta sia per

l'adesione dei foglietti che per l'obliterazione dei cosiddetti «orifici secondari» (gli spazi compresi fra le corde

tendinee), conseguente alla fusione delle corde. Nel complesso, la valvola stenotica ha un aspetto a imbuto con

la base rivolta verso l'atrio, che si presenta dilatato e spesso sede di trombi, particolarmente a livello

dell'auricola. Le vene polmonari sono dilatate e possono coesistere alterazioni ostruttive delle arteriole

polmonari, caratterizzate da iperplasia della media e dell'intima. In diversi casi si rileva dilatazione del

ventricolo e dell'atrio destro, e segni di stasi venosa sistemica cronica, particolarmente a carico del fegato.

Queste modificazioni conseguono all'ipertensione polmonare, che induce sovraccarico e dilatazione del

ventricolo destro, insufficienza tricuspidale, ed infine scompenso congestizio.

FISIOPATOLOGIA

Quando l'area valvolare mitralica si riduce, la progressione del sangue dall'atrio al ventricolo sinistro è in

qualche modo ostacolata. Per consentire un normale riempimento ventricolare durante la diastole diventa allora

necessario un aumento della pressione atriale, così che il sangue riesca a passare dall'atrio al ventricolo

nonostante l'impedimento rappresentato dalla valvola stenotica. Nel normale non esiste alcuna differenza

significativa fra la pressione diastolica del ventricolo sinistro e quella vigente in atrio sinistro (Figura 2A ). Il

flusso diastolico atrioventricolare, infatti, avviene senza un'apprezzabile differenza di pressione fra le due

camere perché la valvola mitrale normale non offre alcuna resistenza alla progressione del sangue. Nella

stenosi mitralica, invece, si realizza per tutta la fase diastolica un gradiente di pressione fra atrio e ventricolo

sinistro, ed è in virtù di questo gradiente che il flusso può essere mantenuto (Figura 2B ).

Figura 2 Curve pressorie simultanee nell’atrio (in azzurro) e nel ventricolo sinistro (in rosso). In A (condizione

normale) non è presente alcun gradiente pressorio, durante la diastole, fra l’atrio e il ventricolo, mentre in B”

(Stenosi mitralica) la pressione atriale è aumentata, ed è presente un gradiente atrio-ventricolare (area grigia)

per tutta la durata della diastole.

L’entità del gradiente transvalvolare dipende da due fattori: l'area mitralica e la velocità del flusso attraverso la

valvola. Quanto minore è la superficie valvolare e quanto maggiore è la velocità del flusso, tanto più elevato

sarà il gradiente. L'area valvolare misura nel normale da 4 a 6 cm2; la riduzione di essa fino a 2,5 cm2 non

comporta alterazioni emodinamiche di rilievo. In rapporto all'entità della riduzione dell'area valvolare, si

definisce la stenosi lieve quando l’area è compresa tra 2,5 e 1,5 cm2, moderata se l’area è tra 1,5 e 1 cm2, e

severa (serrata) se l'area è minore di 1 cm2.

La velocità del flusso attraverso la valvola è in relazione diretta con la portata cardiaca e la frequenza.

Aumentando la portata, infatti, una maggior quantità di sangue deve attraversare l'orificio valvolare nell'unità di

tempo, per cui è richiesta una maggiore velocità di flusso. Anche la tachicardia incrementa la velocità di flusso,

poiché aumentando la frequenza cardiaca si riduce la durata della diastole, cioè il tempo disponibile per il

passaggio del sangue dall'atrio al ventricolo.*

Più è breve il periodo diastolico, maggiore deve essere la velocità del flusso per permettere ad una determinata

quantità di sangue di attraversare l'ostio valvolare stenotico.

L’aumento della pressione atriale sinistra genera un incremento pressorio a monte, cioè in tutte le sezioni del

circolo polmonare: vene, venule, capillari, arteriole, arterie. L’anello più debole di questa catena è il capillare;

quando la pressione s’incrementa oltre 25 mm Hg, viene superata la capacità che le proteine plasmatiche hanno

di trattenere i fluidi all’interno del vaso (pressione oncotica), e inizia la trasudazione: il liquido invade dapprima

l’interstizio polmonare e successivamente l’alveolo, generando disturbi respiratori che vanno dalla dispnea da

sforzo fino all’edema polmonare acuto.

In molti soggetti con stenosi mitralica lieve o moderata, la pressione nell’arteria polmonare non è di solito molto

elevata a riposo, e l'incremento di essa è direttamente correlato all'aumento della pressione capillare: poiché il

capillare non sopporta pressioni >25 mm Hg (valori più alti si accompagnano a sintomi evidenti), in arteria

polmonare si riscontrerà una pressione non maggiore di 35-40 mm Hg (Figura 3A ). In alcuni pazienti, invece,

la pressione in arteria polmonare è nettamente più alta di quanto ci si aspetterebbe in base alla pressione

atriale sinistra. Il motivo di ciò è che si realizza un incremento delle resistenze precapillari (arteriolari)

polmonari, per cui l'ipertensione arteriosa che ne deriva è molto maggiore di quella richiesta per generare il

gradiente transvalvolare mitralico (Figura 3C ): in casi del genere non è impossibile riscontrare in arteria

polmonare pressioni elevate fino a 100 mm Hg o più. In una fase precoce della malattia, questa ipertensione

polmonare dipende da vasocostrizione delle arteriole polmonari, ed è perciò un fenomeno funzionale, ma

successivamente consegue ad alterazioni anatomiche obliterative del letto vascolare polmonare (vasculopatia

polmonare).

Figura 3 Regime pressorio nelle varie sezioni dell’apparato cardiocircolatorio in condizioni normali (A), nella

stenosi mitralica (B) e nella stenosi mitralica con vasculopatia polmonare (C). Nello schema B la valvola mitrale

è fortemente ispessita e aumenta la pressione in atrio sinistro e nel circolo polmonare. Nello schema C

coesistono alterazioni obliterative del letto vascolare polmonare (ispessimento della parete delle arteriole) che

induce aumento della pressione arteriosa polmonare.

Lo sviluppo dell'ipertensione polmonare modifica il quadro della stenosi mitralica: un eccessivo carico di

pressione grava sul ventricolo destro, che non è assuefatto a lavorare contro elevate resistenze, e per sopperire

al maggior lavoro si ipertrofizza e quindi si dilata. Alla dilatazione ventricolare consegue insufficienza

tricuspidalica, dilatazione dell'atrio destro e congestione venosa sistemica. In questa situazione, la presenza di

un significativo ostacolo al deflusso ventricolare destro (aumento delle resistenze precapillari) riduce la portata

cardiaca, ed impedisce il raggiungimento di una pressione capillare troppo elevata. Di conseguenza il paziente

andrà incontro meno facilmente a dispnea da sforzo ed edema polmonare acuto (fenomeni dipendenti

dall'ipertensione capillare), mentre prevarranno i segni della ridotta gittata (astenia) e le manifestazioni della

stasi venosa sistemica (turgore giugulare, epatomegalia, edemi declivi, ascite).

(* La durata della fase sistolica è pressoché fissa (intorno a 0,3 secondi) e indipendente dalla frequenza cardiaca. Perciò per una

frequenza cardiaca di 60 al minuto ciascun ciclo cardiaco dura 1 secondo (0,3 secondi di sistole e 0,7 secondi di diastole): la durata

complessiva della diastole sarà, perciò, 0,42 secondi. Se la frequenza si raddoppia (120/m’) ciascun ciclo durerà 0,5 secondi (0,3

secondi di sistole e 0,2 di diastole), per cui la durata della diastole sarà 0,24 secondi.)

SINTOMI

I più precoci e più evidenti sintomi legati alla stenosi mitralica sono quelli determinati dalla congestione

polmonare: dispnea da sforzo, ortopnea, dispnea parossistica notturna, edema polmonare acuto. Tutte queste

manifestazioni dipendono da ipertensione capillare polmonare, con trasudazione di liquido nell’interstizio e negli

alveoli. Quando la capacità del sistema linfatico di drenare il trasudato diventa insufficiente, si determina la

congestione polmonare. La compliance polmonare è allora ridotta, ed il lavoro respiratorio aumenta, cosicché il

soggetto va incontro a dispnea, particolarmente quando si trova in posizione supina. La trasudazione massiva di

liquido negli alveoli provocata da un improvviso aumento della pressione capillare è responsabile dell'edema

polmonare; questa manifestazione viene spesso scatenata da incremento della portata e/o della frequenza

cardiaca (fibrillazione atriale parossistica, malattie febbrili acute, interventi chirurgici, gravidanza, etc.).

Un altro sintomo con cui può presentarsi la stenosi mitralica è l'emoftoe, la quale dipende da ipertensione nelle

vene bronchiali: le comunicazioni fra sistema venoso polmonare e sistema venoso bronchiale fanno sì che

l'aumento pressorio nelle vene polmonari si rifletta anche sulle vene bronchiali, nelle quali possono determinarsi

piccole dilatazioni, la cui rottura produce emissione attraverso la bocca di sangue proveniente dalle vie

respiratorie. La congestione delle vene bronchiali, con la conseguente iperemia della mucosa bronchiale è anche

responsabile dell'iperproduzione di muco, da cui deriva la suscettibilità alla bronchite dei pazienti con stenosi

mitralica.

Il decorso della malattia è pressoché inevitabilmente caratterizzato dall'insorgenza della fibrillazione atriale.

L'aritmia consegue alla dilatazione dell'atrio sinistro ed alle alterazioni strutturali della parete atriale, consistenti

in un aumento del connettivo fino alla fibrosi. La disorganizzazione della muscolatura atriale che ne deriva si

traduce in disomogeneità dei periodi refrattari: un impulso prematuro in fase vulnerabile può, perciò, scatenare

la fibrillazione atriale. L'aritmia può avere inizialmente andamento parossistico, e in questo caso è responsabile

di palpitazioni, ma poi diviene cronica. L'insorgenza della fibrillazione atriale è legata alle dimensioni dell'atrio

sinistro, e dipende anche dall’età: l'aritmia è più frequente quando l'atrio è dilatato e nei pazienti in cui la

malattia data da maggior tempo.

Alla fibrillazione atriale è legata un'altra fra le manifestazioni cliniche caratteristiche della stenosi mitralica:

l'embolia sistemica, la quale consegue a formazione di trombi parietali in atrio sinistro, specialmente

nell’auricola, con successiva immissione di materiale trombotico nel circolo sistemico. L'embolia non è correlata

con la gravità della stenosi, potendosi osservare anche nelle forme lievi, e rappresenta a volte la prima

manifestazione della malattia. Nel 50-75% dei casi la localizzazione dell'embolo è nelle arterie cerebrali.

SEGNI CLINICI

I pazienti con stenosi mitralica rilevante e bassa portata cardiaca possono presentare la cosiddetta «facies

mitralica», caratterizzata da cianosi alle labbra con rossore ai pomelli. L'esame obiettivo del cuore è assai

caratteristico nei casi tipici, ed il quadro ascoltatorio comprende 1° tono forte, schiocco d'apertura mitralico,

soffio (rullio) diastolico (Figura 4A); in presenza di ipertensione polmonare non lieve, la componente

polmonare del secondo tono può essere aumentata d’intensità. Il soffio diastolico consegue alla turbolenza del

flusso transvalvolare, determinata dall’ostacolo che la valvola stenotica rappresenta; si tratta di un soffio a

bassa frequenza, che viene denominato “rullio” perché ricorda lontanamente il rullare di un tamburo. Nei

soggetti a ritmo sinusale il rullio presenta un rinforzo presistolico che manca nei pazienti in fibrillazione atriale

(Figura 4B).Il rinforzo del soffio è dovuto all’aumento del flusso transvalvolare causato in telediastole dalla

contrazione dell’atrio; poiché nella fibrillazione atriale l’attività meccanica dell’atrio è praticamente assente, con

l’insorgenza dell’aritmia scompare il rinforzo presistolico del soffio della stenosi mitralica. Tuttavia, alcuni o

anche tutti i segni ascoltatori caratteristici della stenosi mitralica possono non essere apprezzabili: il segno

ascoltatorio più importante per la diagnosi clinica di stenosi mitralica è lo schiocco d'apertura, che si

caratterizza per la cronologia protodiastolica, il timbro a tonalità elevata, la sede di ascoltazione alla punta ed al

mesocardio.

Nei pazienti con scompenso del ventricolo destro, infine, si manifestano i caratteristici segni della congestione

venosa sistemica, rappresentati da edemi declivi, epatomegalia, ascite, idrotorace, ecc.

Figura 4 Quadro ascoltatorio nella stenosi mitralica. A: Ritmo sinusale. B: Fibrillazione atriale. I: primo tono.

II: secondo tono. A2: componente aortica del secondo tono. P2: componente polmonare del secondo tono.

SAM: schiocco d’apertura della mitrale. Rullio: soffio diastolico.

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

Nei pazienti con stenosi mitralica l'Elettrocardiogramma mostra i segni dell'ingrandimento atriale sinistro, fra

i quali spicca l’onda P bifida, con durata aumentata (( 0.11 sec) (Figura 5);nei soggetti con ipertensione

polmonare si può anche riscontrare il quadro elettrocardiografico dell'ipertrofia ventricolare destra. L'esame

radiologico fornisce una serie di elementi caratteristici, fra i quali particolarmente importanti sono i segni di

ingrandimento dell'atrio e dell'auricola sinistra, e quelli che testimoniano le modificazioni del circolo polmonare.

Figura 5 Elettrocardiogramma caratteristico di stenosi mitralica. Le onde P sono bifide in II derivazione e in

V2, mentre in V1 la P è difasica positivo/negativa con componente negativa ampia e rallentata. Il quadro è

indicativo di ingrandimento atriale sinistro (Vedi Capitolo…).

L'Ecocardiografia ha rivoluzionato la diagnostica della stenosi mitralica: l'ecocardiogramma bidimensionale

permette non solo un'accurata valutazione dell’anatomia e del movimento valvolare (Figura 6, Figura 7), ma

anche lo studio dell'apparato sottovalvolare ed il calcolo dell'area mitralica; l'ecocardiogramma Doppler (Figura

8) fornisce dati emodinamici riguardanti sia il gradiente pressorio attraverso la valvola che l'area valvolare, ed

anche informazioni indirette sulla pressione polmonare; l’ecocardiogramma tridimensionale, di recente

introduzione, consente una visione quasi «anatomica» della mitrale; l’ecocardiogramma transesofageo, eseguito

collocando il transduttore nell’esofago, in immediata prossimità del cuore, senza l’interposizione del tessuto

polmonare, che rende difficile il passaggio degli ultrasuoni, consente di studiare la morfologia valvolare nei

dettagli e di analizzare anche parti del cuore di difficile approccio con la tecnica transtoracica. Nei pazienti con

stenosi mitralica, l’esplorazione transesofagea può svelare la presenza di trombi in atrio, particolarmente

nell’auricola, elemento che riveste grande rilevanza clinica perché è associato ad elevato rischio di embolia

sistemica. Il cateterismo cardiaco fornisce numerosi dati fisiopatologici, in particolare l’area valvolare, il

gradiente transvalvolare (Figura 2), e la pressione polmonare; questi parametri, tuttavia, possono essere

ottenuti anche attraverso metodiche non invasive, per cui in molti pazienti, soprattutto giovani, il cateterismo

cardiaco non è indispensabile per stabilire l'indicazione all'intervento, e neppure per determinare il tipo di

intervento da preferire. Il cateterismo conserva, tuttavia, ancora un ruolo molto importante nei pazienti con

stenosi mitralica, per la possibilità di eseguire una valvuloplastica tranacatetere.

CENNI DI TERAPIA

Il trattamento dei pazienti con stenosi mitralica può essere farmacologico, interventistico* chirurgico.

La terapia farmacologica della stenosi mitralica si basa sui seguenti principi: 1) profilassi delle recidive di

reumatismo; 2) prevenzione delle embolie sistemiche; 3) terapia della fibrillazione atriale; 4) mantenimento di

una frequenza ventricolare accettabile in presenza di fibrillazione atriale cronica; 5) terapia dei disturbi legati

alla congestione venosa polmonare.

La profilassi delle recidive di reumatismo prevede la somministrazione prolungata di antibiotici e

antinfiammatori. La prevenzione delle tromboembolie sistemiche va effettuata nei pazienti con atrio sinistro

dilatato e in tutti quelli con fibrillazione atriale. I farmaci di scelta sono gli anticoagulanti orali dicumarolici.

Se insorge la fibrillazione atriale, è opportuno tentare di ripristinare il ritmo sinusale somministrando farmaci

antiaritmici, o, in alternativa, con la cardioversione elettrica. Restaurato il ritmo sinusale, si può eventualmente

proseguire un trattamento profilattico a lungo termine con farmaci antiaritmici, per evitare finché possibile le

recidive dell'aritmia. Se l’insorgenza della fibrillazione non è recentissima, la cardioversione deve essere

preceduta da una valutazione dell'atrio sinistro, e in particolare dell’auricola, mediante ecocardiografia

transesofagea, perché la presenza di trombosi atriale controindica qualunque manovra volta a convertire la

fibrillazione, per il rischio che, al ripristino del ritmo, si verifichi un’embolia. Se la fibrillazione data da diversi

giorni o mesi, è necessario un lungo periodo di anticoagulazione (almeno 1 mese) prima di procedere alla

cardioversione.

Nei pazienti con fibrillazione atriale cronica è spesso necessaria una terapia volta a mantenere una frequenza

cardiaca non troppo elevata; per questo scopo viene spesso utilizzata la digitale, oppure i ß-bloccanti o i

calcioantagonisti. Questi farmaci aumentano il periodo refrattario del nodo A-V, diminuendo la risposta

ventricolare alla fibrillazione atriale, cioè il numero di impulsi atriali che raggiungono i ventricoli.

In casi particolari, nei quali risulti impossibile ottenere con i farmaci un accettabile controllo della frequenza

ventricolare, si può eseguire l’ablazione del nodo A-V associata all’impianto di un pacemaker ventricolare.

L’ablazione si ottiene erogando, attraverso un apposito elettrocatetere, energia a radiofrequenza in

corrispondenza del nodo: l’energia aumenta la temperatura del tessuto, provocando una lesione irreversibile cui

consegue il blocco A-V; l’attivazione dei ventricoli diviene così indipendente da quella degli atri, governata solo

dal pacemaker artificiale o da un segnapassi di scappamento posto a valle del blocco. Un particolare intervento

di ablazione transcatetere può anche essere eseguito con lo scopo di abolire il substrato che sottende lo

scatenamento e il mantenimento della fibrillazione atriale.

I sintomi legati a congestione polmonare (dispnea, ortopnea, edema polmonare acuto) vanno trattati con i

diuretici e la limitazione dell’apporto dietetico di sodio. I pazienti che presentano questi disturbi, tuttavia, sono

quasi sempre in III classe funzionale NYHA, per cui vanno quasi sempre avviati alla terapia chirurgica o alla

valvuloplastica percutanea. Questo intervento si esegue inserendo nell’atrio destro attraverso la vena femorale

un catetere con palloncino: dopo puntura del setto interatriale, eseguita con apposito ago, il catetere viene

spinto per via transettale in atrio sinistro ed attraversa la valvola mitrale, in maniera tale che il palloncino si

trovi a cavallo della valvola. Gonfiando quindi ripetutamente il palloncino per brevi periodi si esercita sui lembi

della valvola stenotica una pressione sufficiente a separarne i foglietti, fusi in corrispondenza delle commissure,

così da ridurre significativamente l’ostacolo al flusso ematico.

La stenosi mitralica può essere corretta chirurgicamente sia mediante un intervento conservativo

(commissurotomia) che sostituendo la valvola con una protesi. La commissurotomia viene ormai eseguita in

circolazione extracorporea e sotto visione diretta, mentre l’intervento “a cielo coperto”, che si esegue senza

arrestare il cuore, è una procedura ormai non più impiegata.

(*Il trattamento interventistico prevede un intervento, cioè un’azione volta a modificare l’anatomia

o la struttura del cuore; l’intervento viene, però, eseguito senza ricorrere alla chirurgia tradizionale,

ma agendo sull’organo attraverso cateteri introdotti nel sistema vascolare e guidati fino al cuore

sotto controllo radioscopico o ecografico.)

Capitolo 15. Insufficienza Mitralica, Paolo Marino

DEFINIZIONE

L’insufficienza mitralica è una malattia caratterizzata da perdita della coordinata azione di una o più delle

componenti (anulus, lembi valvolari, corde tendinee, muscoli papillari) dell’apparto valvolare, con esito in

imperfetto collabimento dei lembi in sistole. La valvola insufficiente comporta un reflusso di sangue, in sistole,

dal ventricolo all’atrio sinistro, capace di causare aumento della pressione atriale dipendente dalla quantità di

sangue rigurgitato e dalle caratteristiche fisiche della parete atriale. Se l’aumento della pressione atriale non

viene compensato da un corrispondente aumento di volume dell’atrio, l’ipertensione si riflette a monte sul

circolo polmonare ed infine sul ventricolo destro.

EZIOLOGIA

La degenerazione mixomatosa della valvola (nota anche con il termine di prolasso valvolare mitralico, vedi più

avanti) rappresenta la causa più frequente di insufficienza mitralica. Essa provoca incontinenza poiché i lembi

valvolari allungati e ridondanti protrudono eccessivamente all’interno dell’atrio sinistro durante la sistole

ventricolare, piuttosto che opporsi reciprocamente come fanno normalmente. La malattia coronarica

rappresenta un’altra causa importante di insufficienza mitralica, poiché può generare disfunzione temporanea o

permanente di un muscolo papillare, interferendo con la chiusura valvolare. L’endocardite infettiva può causare

insufficienza mitralica poiché l’infezione può indurre perforazione valvolare o rottura delle corde infette. Anche

la malattia reumatica rientra nell’eziopatogenesi dell’insufficienza mitralica, se si accompagna ad eccessivo

accorciamento e retrazione delle corde. Infine la cardiomiopatia ipertrofica, malattia caratterizzata da

un’abnorme ed asimmetrica ipertrofia ventricolare (vedi Capitolo…), provoca una ostruzione dinamica

endoventricolare cui corrisponde imperfetta chiusura valvolare e significativa insufficienza mitralica.

Anche la significativa dilatazione ventricolare, comunque generata, può causare insufficienza mitralica

funzionale attraverso 2 meccanismi che interferiscono con la chiusura dei lembi valvolari: 1) la separazione

spaziale tra i due muscoli papillari è aumentata e 2) l’anulus mitralico è sovradisteso. Altra causa di

insufficienza mitralica è la calcificazione dell’anulus, che immobilizza la porzione basale dei lembi valvolari,

interferendo con la loro normale escursione e la coaptazione sistolica.

ANATOMIA PATOLOGICA

Nel prolasso valvolare mitralico le cuspidi sono iperdistese e le corde allungate. Nelle forme più gravi c’è

espansione dei lembi che assumono conformazione cupoliforme (Figura 1). Vista dal lato atriale, la valvola con

degenerazione mixomatosa dimostra un variabile interessamento delle cuspidi: nella maggior parte dei casi

sono coinvolti uno o più segmenti del lembo posteriore o, meno frequentemente, entrambi i foglietti. L’esame

istologico rivela la sostituzione della struttura fibrosa con tessuto mixomatoso, ricco di mucopolisaccaridi acidi e

mastociti. La rottura delle corde (Figura 2), nei pazienti affetti da insufficienza mitralica, può essere il risultato

dell’eccessivo stress meccanico a cui le stesse sono sottoposte (come nel caso della degenerazione mixomatosa

dei lembi) o la conseguenza di un insulto infettivo, come nell’endocardite (Vedi Capitolo 34). In questo caso, si

possono anche notare lembi perforati e frastagliati, con frequenti formazioni vegetanti. La calcificazione anulare

rappresenta un’altra condizione causa di insufficienza mitralica, con un’incidenza che tende ad aumentare con il

crescere dell’età del soggetto, ma che raramente si manifesta, macroscopicamente, prima dei 70 anni. La

dilatazione anulare è un’altra delle cause di insufficienza mitralica. Tale fenomeno può essere primario o

secondario a condizioni di sovraccarico volumetrico. Infine, nei pazienti con un grave deficit ventricolare

sinistro, il rigurgito mitralico può essere presente indipendentemente dallo sfiancamento valvolare o da

alterazioni dell’anulus. In questi casi, la conformazione globosa del ventricolo sposta l’asse di trazione dei

muscoli papillari rispetto alle cuspidi (Figura 3); la correzione del deficit ventricolare comporta il recupero della

conformazione fisiologica che, a sua volta, ripristinando il normale asse di trazione, risolve il rigurgito.

FISIOPATOLOGIA

Nell’insufficienza mitralica una frazione della gittata sistolica è eiettata, in via retrograda, nella cavità atriale, la

quale è una camera a bassa pressione (Figura 4). La gittata anterograda in aorta, perciò, risulta minore della

gittata ventricolare, costituita dalla somma della gittata anterograda normale più quella, patologica, retrograda.

All’insufficienza mitralica consegue un incremento della pressione e del volume atriale sinistro, una riduzione

della gittata anterograda in aorta ed un sovraccarico di volume ventricolare poiché in diastole il volume

rigurgitato ritorna in ventricolo assieme al sangue refluo proveniente dai polmoni. Per far fronte alla normale

domanda ed espellere il volume addizionale, la gittata sistolica ventricolare aumenta grazie al meccanismo di

Frank-Starling dove l’aumentato stiramento miofibrillare, causato dall’aumentato volume ventricolare in

diastole, determina un aumento del volume eiettato. Ovviamente, la conseguenza emodinamica

dell’insufficienza mitralica varia a seconda della severità del rigurgito e dalla sua durata nel tempo. La gravità

del rigurgito dipende dalla dimensione dell’orifizio rigurgitante in sistole e dal gradiente di pressione sistolico tra

atrio e ventricolo sinistro. La frazione di rigurgito nell’insufficienza mitralica è definita dal rapporto tra il volume

rigurgitante e la gittata ventricolare totale, rapporto che dipende, a sua volta, dall’entità delle resistenze

periferiche che si oppongono flusso anterogrado e dalla compliance dell’atrio sinistro. Ad esempio, l’ipertensione

o la presenza di una coatazione aortica aumenterà la frazione di rigurgito. L’entità dell’incremento della

pressione atriale sinistra in risposta al volume rigurgitante dipende dalla compliance atriale sinistra (la

compliance è una misura della relazione tra volume e pressione endocavitaria, definibile come variazione di

volume per una data variazione in pressione). Nell’insufficienza mitralica acuta (dovuta, ad esempio,

all’improvvisa rottura di una corda) la compliance atriale sinistra subisce un’improvvisa riduzione. Questo è

dovuto al fatto che l’atrio sinistro è una camera relativamente rigida, e quando si determina improvvisamente il

rigurgito l’aumento del volume atriale si realizza solo attraverso un importante incremento della sua pressione

endocavitaria (Figura 5). Questo aumento in pressione contribuisce a prevenire l’ulteriore incremento del

rigurgito. Va detto però che l’elevata pressione atriale sinistra si trasmette alla circolazione polmonare,

provocando rapida congestione fino all’edema.Nell’insufficienza mitralica acuta la curva pressoria atriale sinistra

o dei capillari polmonari (stima indiretta della pressione atriale sinistra), mostra un’onda v prominente, la quale

riflette l’aumentato riempimento atriale sinistro che si realizza, in modo del tutto anomalo, durante la sistole

ventricolare (Figura 5).

Figura 5 Curve pressorie simultanee nell'atrio (in azzurro) e nel ventricolo sinistro (in rosso). In A (condizione

normale) l'onda v è modesta, mentre in B, in presenza di insufficienza mitralica acuta, si osserva un'onda c+v

molto ampia, che corrisponde ad una pressione atriale di circa 70 mm Hg.

Nell’insufficienza mitralica cronica il ventricolo accomoda il sovraccarico volumetrico grazie al meccanismo di

Starling, come sopra accennato. L’aumento di volume ventricolare genera un aumento compensatorio della

gittata sistolica, in modo da far sì che alla fine della sistole il volume ventricolare sinistro si mantenga entro

valori normali, almeno fino a che il cuore mantiene il compenso, oltre ad un incremento delle pressioni di

riempimento. Lo svuotamento sistolico del cuore sinistro è favorito dal fatto che il cuore stesso può “sfiatare” in

una cavità a bassa impedenza, e cioè l’atrio, rispetto alla grande resistenza offerta dall’aorta.Diversamente che

nella forma acuta, lo sviluppo graduale dell’insufficienza mitralica cronica consente all’atrio sinistro di andare

incontro a modificazioni compensatorie che attenuano l’effetto del rigurgito sul circolo polmonare. La

compliance atriale, infatti, aumenta grazie alla proliferazione parietale, e consente all’atrio di accogliere un

volume aumentato di sangue senza un corrispettivo aumento di pressione. In questo modo l’effetto sulla

pressione polmonare viene ad essere in parte neutralizzato, benché l’atrio rischi di diventare una sorta di

serbatoio a bassa pressione dove gran parte del volume eiettato si accumula. In tale processo di

cronicizzazione, con l’aumentare del grado di rigurgito, i sintomi lamentati dal paziente passano da quelli dettati

dalla congestione polmonare a quelli legati alla bassa portata. La progressiva, cronica dilatazione dell’atrio

predispone, inoltre, allo sviluppo della fibrillazione atriale.Nell’insufficienza mitralica cronica anche il ventricolo,

così come l’atrio, va incontro ad una graduale dilatazione compensatoria in risposta al sovraccarico di volume.

Rispetto all’insufficienza mitralica acuta l’aumentata compliance ventricolare accomoda il sovraccarico

volumetrico pur mantenendo delle pressioni relativamente normali. Nel corso degli anni, però il sovraccarico

cronico induce un progressivo deterioramento della funzione sistolica, con la comparsa, in fase terminale, di un

quadro di insufficienza ventricolare sinistra.

SINTOMI

I pazienti con insufficienza mitralica acuta si presentano generalmente con sintomi di congestione polmonare. I

sintomi dell’insufficienza mitralica cronica, invece, sono prevalentemente quelli della bassa portata,

particolarmente durante lo sforzo. I soggetti nei quali la funzione contrattile tende a scadere lamentano dispnea

fino all’ortopnea ed alla dispnea parossistica notturna. Nell’insufficienza mitralica cronica grave possono

comparire anche i sintomi legati all’insufficienza ventricolare destra.

SEGNI CLINICI

Nell’insufficienza mitralica, l’ascoltazione del cuore rivela un soffio olosistolico apicale (soffio da rigurgito, vedi

Capitolo 2) che si irradia generalmente all’ascella sinistra, anche se questa regola riconosce molte eccezioni.

Oltre al soffio sistolico, la presenza di un III tono è frequente nell’insufficienza mitralica rilevante, così come il

poter palpare un itto lateralizzato a causa dell’ingrandimento cardiaco.

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

L’ECG tipicamente dimostra segni di ingrandimento atriale sinistro ed ipertrofia ventricolare sinistra (vedi

Capitolo 3); anche la radiografia del torace può mostrare l’ingrandimento delle camere cardiache sinistre, e a

volte rivela calcificazioni anulari. L’ecocardiogramma può rivelare la causa strutturale dell’insufficienza mitralica

e graduarne la severità mediante l’impiego del Color-Doppler (Figura 6, Figura 7), ed anche mettere in luce

sia la dilatazione atriale e ventricolare che l’ipercinesia delle pareti ventricolari.

Il cateterismo cardiaco è utile per identificare una causa ischemica di insufficienza mitralica e per graduarne la

severità. La caratteristica alterazione emodinamica è rappresentata dalla presenza, nella curva di pressione

atriale, di una onda v, la cui ampiezza dipende dall’entità del rigurgito e dalla compliance dell’atrio (Figura 5).

Figura 6

PROLASSO VALVOLARE MITRALICO

Il prolasso valvolare mitralico rappresenta una condizione ereditaria nell’ambito di un disordine autosomico

dominante o può verificarsi come manifestazione cardiaca nel contesto di malattie connettivali, più

frequentemente riscontrabile nelle donne giovani, specie quelle con habitus longilineo. Esso rappresenta una

condizione frequentemente asintomatica, ma che talora può accompagnarsi a precordialgie e cardiopalmo.

Viene identificato anche con il termine della sindrome del click e del soffio mesotelesistolico. L’apparato

valvolare ridondante, messo in tensione dalla sistole ventricolare, è responsabile del click (vedi Capitolo 2),

mentre l’incontinenza della valvola è causa del soffio che caratteristicamente occupa la mesotelesistole.

Tra le indagini strumentali è l’ecocardiografia la diagnostica più importante, e può evidenziare la ridondanza di

uno od entrambi i lembi valvolari, che prolassano in atrio sinistro durante la mesotelesistole. A poco serve

invece l’elettrocardiogramma, che risulta, così come la radiografia del torace, sostanzialmente normale, a parte

l’eventuale presenza di battiti ectopici e/o, se l’insufficienza mitralica è importante, dei segni di ingrandimento

atriale e ventricolare sinistro.

Il decorso clinico è sostanzialmente benigno, giacché la condizione non richiede trattamento specifico, a parte la

necessità della profilassi dell’endocardite batterica in caso di prolasso con rigurgito significativo od in presenza

di strutture valvolari e cordali particolarmente ridondanti ed ispessite. Tra le complicanze, oltre alla già citata

infezione della valvola, va segnalata la possibile rottura di una o più corde, con il generarsi di una insufficienza

mitralica acuta, ed il rischio tromboembolico, legato alla deposizione di piastrine sulla superficie valvolare. Da

ultimo va ricordata la possibile presenza di manifestazioni aritmiche, che raramente mostrano carattere di

malignità.

CENNI DI TERAPIA

La storia naturale dell’insufficienza mitralica è legata alla sua eziopatogenesi, con un decorso molto lento come

nel caso dell’eziologia reumatica o molto rapido come nel caso di un improvviso aggravamento di una forma

cronica a causa della rottura di una o più corde tendinee.

Lo scopo della terapia è quello di ridurre l’entità del rigurgito e di accrescere la portata anterograda, attenuando

i sintomi ed i segni di congestione polmonare e quelli legati alla bassa portata. I diuretici ed i vasodilatatori

trovano spazio nel trattamento dell’insufficienza mitralica acuta. L’uso dei vasodilatatori, come gli inibitori del

sistema renina-angiotensina è limitato, nell’insufficienza mitralica cronica, ai casi caratterizzati da un

concomitante incremento dei livelli tensivi in aorta.

L’insufficienza mitralica può subdolamente sconfinare in un quadro di scompenso cardiaco legato al cronico,

inarrestabile deterioramento della funzione contrattile associato alla persistenza del sovraccarico di volume. La

chirurgia cardiaca appare indicata prima che un tale evento possa verificarsi. A più di 30 anni dai primi impianti

valvolari, l’esatto timing dell’intervento sostitutivo valvolare mitralico nell’insufficienza mitralica rimane una tra

le decisioni cliniche più difficili per il cardiologo clinico. Una strategia interessante è l’atteggiamento chirurgico

conservativo, capace cioè di riparare (e non sostituire) la valvola eliminando molti dei problemi propri delle

protesi valvolari (vedi Capitolo 62). Nei pazienti così trattati la sopravvivenza postoperatoria appare nettamente

migliore rispetto al paziente non operato. In generale l’intervento riparativo appare particolarmente indicato per

i pazienti giovani, con malattia degenerativa della valvola, mentre l’intervento sostitutivo trova indicazione

principalmente negli anziani, con malattia valvolare estesa e non suscettibile di riparazione.

Capitolo 16. Stenosi Aortica, Francesco Pizzuto, Francesco Romeo

DEFINIZIONE

La stenosi della valvola aortica è il restringimento dell'orifizio valvolare conseguente a processi patologici che

colpiscono i lembi, le commissure o l'anello valvolare. La valvola ristretta ostacola lo svuotamento del ventricolo

sinistro in sistole, e rende necessario che aumenti la pressione intraventricolare perché si instauri fra il

ventricolo sinistro e l’aorta un gradiente pressorio sufficiente a garantire un normale flusso anterogrado. Come

conseguenza del sovraccarico di pressione, il ventricolo sinistro va incontro ad ipertrofia.

EZIOLOGIA

La stenosi valvolare aortica può essere congenita ed evidenziarsi già alla nascita (vedi Capitolo 51) o acquisita;

anche in quest’ultimo caso la malattia, pur manifestandosi nell’adulto o nell’anziano, dipende a volte da

un’anomalia congenita, la valvola aortica bicuspide (Figura 1). La bicuspidia aortica è presente nel 2% della

popolazione, e di per sé non comporta un significativo ostacolo all'efflusso ventricolare sinistro. I lembi valvolari

anomali, tuttavia, determinano una turbolenza del flusso, che nel tempo può provocare una fibrosi valvolare,

con esito in progressivo restringimento dell’ostio. Anche la normale valvola a tre cuspidi può andare incontro a

processi degenerativi, legati soprattutto all’invecchiamento ma anche a processi degenerativi: la stenosi aortica

degenerativa (o senile) è caratterizzata dalla presenza di cuspidi rese ipomobili dal deposito di calcio lungo le

commissure (Figura 2).

L’eziologia reumatica della stenosi aortica è relativamente rara, ed è più frequente nei casi di un vizio

combinato mitro-aortico. La stenosi aortica reumatica risulta dall’adesione e fusione delle commissure e delle

cuspidi, con retrazione e irrigidimento dei bordi liberi e presenza su entrambe le superfici delle cuspidi di noduli

calcifici che riducono l’orificio (Figura 3).

Figura 1 Cause di stenosi aortica in rapporto all’età. L’incidenza di stenosi aortica secondaria a valvola aortica

bicuspide è maggiore al di sotto dei settanta anni, mentre la stenosi aortica su base degenerativa è

maggiormente presente al di sopra dei settanta anni.

FISIOPATOLOGIA

Il progressivo restringimento valvolare rappresenta un ostacolo all’eiezione del sangue dal ventricolo sinistro.

Per vincere questa resistenza e mantenere un flusso anterogrado normale, la pressione sistolica nel ventricolo

sinistro deve sempre superare quella presente in aorta; la differenza pressoria tra ventricolo sinistro ed aorta,

definita gradiente pressorio, è proporzionale all’entità dell'ostruzione (Figura 4).

L’area valvolare aortica normale nell'adulto è compresa tra 1.6 e 2.6 cm2. Quando l’ostio della valvola si riduce

a meno di un quarto del normale, il gradiente supera 50 mmHg. Il sovraccarico pressorio che grava sul

ventricolo sinistro stimola, come meccanismo compensatorio, l’ipertrofia ventricolare, e induce un aumento più

o meno marcato dello spessore delle pareti e del setto interventricolare, mentre la cavità ventricolare non si

dilata. L’ipertrofia ventricolare che si realizza in seguito al sovraccarico di pressione, come nella stenosi aortica,

è concentrica, caratterizzata dalla replicazione dei sarcomeri “in parallelo” all’interno della fibra, per cui questa

aumenta il suo spessore ma non diviene più lunga. Al contrario, il sovraccarico di volume quale si realizza, per

esempio, nell’insufficienza aortica, induce un’ipertrofia eccentrica, poiché i nuovi sarcomeri si dispongono “in

serie” e la fibrocellula si allunga anziché ispessirsi. Nella stenosi aortica, l’ipertrofia concentrica consente al

ventricolo sinistro di compiere un maggior lavoro, e anche di mantenere a valori quasi normali lo stress di

parete.

Secondo la legge di Laplace, lo stress di parete o postcarico (omega) è uguale al prodotto della pressione

endocavitaria (P) per il raggio della cavità (r), diviso per il doppio dello spessore della parete (h), secondo la

formula:

omega=Pr/2h.

Nella stenosi aortica, il ventricolo sinistro va incontro ad un aumento dello stress di parete per aumento della

pressione, mentre l’incremento dello spessore parietale riduce lo stress e quindi il postcarico. Il meccanismo di

compenso rappresentato dall’ipertrofia, però, comporta degli svantaggi perchè:

• l’aumento della massa muscolare determina un aumento del consumo miocardico di O2;

• l’incremento della pressione endocavitaria ostacola la perfusione miocardica, esercitando un’aumentata

compressione sui vasi coronarici;

• la distensibilità (compliance) del ventricolo sinistro diminuisce, alterando il rilasciamento del ventricolo

sinistro ed ostacolandone il riempimento diastolico, che diventa pertanto sempre più dipendente dal

contributo della sistole atriale.

Lo sforzo può mettere in crisi questi precari meccanismi di compenso in quanto produce:

• un aumento del consumo di O2 da parte del miocardio, non controbilanciato da una corrispondente

aumento della perfusione miocardica, con possibile comparsa di angina;

• un notevole aumento della pressione ventricolare sinistra necessaria per mantenere il flusso richiesto

dall’esercizio muscolare, con una accentuata stimolazione dei meccanocettori ventricolari (recettori

sensibili alle variazioni dello stiramento) che possono innescare a loro volta una vasodilatazione

periferica riflessa, provocando una sincope. Un aumento del postcarico, con conseguente aumento della

pressione ventricolare sinistra sotto sforzo cosicché il ventricolo sinistro, che già in condizioni di riposo

lavora a pressioni superiori alla norma, riduce la sua funzione contrattile e non riesce ad espellere il

sangue ricevuto in diastole. Si produce così un aumento della pressione in atrio sinistro, che a sua volta

determina un aumento della pressione a monte, nel circolo polmonare, con conseguente congestione

polmonare fino all’edema polmonare.

Figura 4 Misurazione contemporanea della pressione in ventricolo sinistro ed in aorta ascendente, ottenuta

mediante cateterismo cardiaco. La pressione massima in ventricolo sinistro è di 220 mm Hg, la pressione

massima in aorta ascendente è di 138 mm Hg. Il gradiente di picco VS-AO e di 82 mm Hg, il gradiente

istantaneo massimo è di 110 mm Hg.

QUADRO CLINICO

Sintomi. Il paziente con stenosi aortica è asintomatico per molti anni, nonostante la malattia si aggravi

progressivamente. Quando la valvulopatia diviene critica compaiono i sintomi: dispnea (scompenso cardiaco),

angina e sincope. Se, da quando insorgono i sintomi, la malattia decorre non trattata, il peggioramento è

progressivo e la sopravvivenza media è 2 anni nei pazienti con scompenso, 3 nei soggetti con sincope e 5 anni

in quelli con angina.

Nella maggior parte dei casi il primo sintomo è la dispnea da sforzo, seguita eventualmente da ulteriori

manifestazioni di insufficienza ventricolare sinistra (ortopnea, dispnea parossistica notturna, edema

polmonare). L’angina è presente in circa 2/3 dei casi, ed è simile a quella dei pazienti con coronaropatia,

venendo scatenata dallo sforzo e scomparendo con il riposo. La sincope insorge tipicamente durante sforzo

(per la risposta inappropriata dei barocettori del ventricolo sinistro), ma può anche essere la conseguenza di

aritmie.

Segni Fisici. La palpazione della zona precordiale può evidenziare un fremito sistolico, espressione di un flusso

aortico particolarmente turbolento, dovuto a un notevole gradiente tra ventricolo sinistro ed aorta.

L’ascoltazione rivela un soffio sistolico eiettivo con epicentro al 2° spazio intercostale destro sulla linea

marginosternale (focolaio d’ascoltazione aortico) ed irradiazione verso i vasi del collo, cioè nel senso del flusso.

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

Nei pazienti con stenosi aortica, la radiografia del torace può mostrare un allargamento del margine sinistro

dell’ombra cardiaca, dovuto all'ipertrofia del ventricolo sinistro, ma anche un ingrandimento del primo arco di

destra (dilatazione dell’aorta ascendente) e una congestione degli ili polmonari (soprattutto nelle fasi avanzate

della malattia, in presenza di scompenso cardiaco). L'elettrocardiogramma rappresenta il test diagnostico non

invasivo maggiormente utilizzato per confermare la diagnosi clinica. Il segno elettrocardiografico principale è

l’ipertrofia ventricolare sinistra, presente nell'80% circa dei pazienti con stenosi aortica severa (Figura 5).

L'ecocardiogramma integrato (M-mode, bidimensionale e Doppler) rappresenta il test diagnostico non invasivo

più utile e completo per la valutazione dei pazienti con stenosi aortica (Figura 6). Permette, infatti, di

quantificare l'entità del vizio aortico, determinando sia il grado di ipertrofia del ventricolo sinistro e la sua

funzione (ecocardiografia M-mode e bidimensionale) che l'entità del gradiente transvalvolare aortico e l'area

valvolare (ecocardiografia Doppler).

Il Cateterismo Cardiaco ha rappresentato per molti decenni l’accertamento diagnostico più importante per

valutare la stenosi aortica, consentendo la misurazione di tutti i parametri utili per diagnosticare e quantizzare

la valvulopatia, come il gradiente aortico, l'area valvolare e le pressioni polmonari. Tuttavia, l'introduzione

dell'ecocardiografia Doppler ha notevolmente ridotto la necessità di ricorrere allo studio invasivo per la

valutazione della stenosi aortica, limitando il cateterismo cardiaco ai casi dubbi, oppure quando è possibile

effettuare una terapia non chirurgica della valvulopatia (valvuloplastica aortica o impianto percutaneo di una

protesi valvolare).

Figura 5 Elettrocardiogramma di un paziente con stenosi aortica severa: ipertrofia ventricolare sinistra (onde

R alte nelle precordiali sinistre, sottolivellamento del tratto S-T in I, II, aVL, V5, V6).

CENNI DI TERAPIA

I pazienti con stenosi aortica asintomatica non necessitano di trattamento; nei sintomatici la terapia è

chirurgica e consiste nella sostituzione della valvola aortica con protesi meccanica o biologica (vedi Capitolo

62). La sostituzione valvolare aortica con trattamento percutaneo (tramite cateterismo cardiaco) è ancora in

fase iniziale, e benché i risultati ottenuti finora siano incoraggianti, necessita di ulteriori conferme ed al

momento attuale viene riservata soltanto a quei pazienti che, pur necessitando della sostituzione valvolare, non

possono essere sottoposti all’intervento chirurgico.

Capitolo 17. Insufficienza Aortica, Corrado Vassanelli

DEFINIZIONE

L'insufficienza aortica è una malattia della valvola aortica, la quale diviene incontinente per anomalie dei lembi

valvolari, delle strutture di supporto (radice aortica ed annulus) o di entrambi. Si verifica, di conseguenza, un

flusso retrogrado (rigurgito) di sangue dall'aorta al ventricolo sinistro durante la diastole.

EZIOLOGIA ED ANATOMIA PATOLOGICA

L'insufficienza aortica può essere provocata da anomalie congenite dei lembi (valvola aortica bicuspide, stenosi

subaortica con difetto del setto interventricolare e prolasso di una cuspide), oppure da alterazioni di origine

infiammatoria o degenerativa, fra cui quelle determinate dalla malattia reumatica (Figura 1), dall'endocardite

infettiva (Figura 2) o dalle malattie del connettivo. I lembi valvolari, inoltre, possono essere danneggiati da

traumi chiusi della parete del torace o da lesioni da getto conseguenti a stenosi subaortica dinamica o fissa. Le

patologie dell'annulus o della radice aortica comprendono la dilatazione idiopatica della radice aortica, l'ectasia

annuloaortica, la sindrome di Marfan, la sindrome di Ehlers-Danlos, l'osteogenesi imperfetta, la dissezione

aortica, l'aortite luetica, e varie malattie del connettivo, fra cui la spondilite anchilosante. Una valvola aortica

bicuspide si accompagna spesso a dilatazione della radice aortica e a conseguente insufficienza (Tabella I).

Una causa non infrequente della malattia è la degenerazione strutturale di una bioprotesi valvolare.

L'insufficienza aortica cronica grave, di qualsiasi eziologia, può provocare dilatazione della radice aortica, che

esita in progressivo peggioramento del rigurgito valvolare. Le cause più frequenti di insufficienza aortica acuta

(più rara, ma a prognosi peggiore) sono l'endocardite infettiva, la dissezione aortica o un trauma chiuso del

torace.

Tabella 1

FISIOPATOLOGIA

Le conseguenza fisiopatologiche della valvulopatia variano a seconda che il rigurgito si stabilisca

improvvisamente e sia massivo (insufficienza aortica acuta) o sia inizialmente lieve e progredisca lentamente

nel tempo. Nell'insufficienza aortica acuta grave, un notevole volume ematico di rigurgito diastolico va a

sovraccaricare improvvisamente un ventricolo sinistro di normali dimensioni, che non ha avuto il tempo per

adattarsi. L' aumento del volume telediastolico fa incrementare drammaticamente la pressione telediastolica

ventricolare sinistra e la pressione atriale sinistra: poiché la camera ventricolare non è in grado di dilatarsi in

modo compensatorio, ne consegue una riduzione della gittata sistolica anterograda. La tachicardia riflessa, che

si instaura nel tentativo di mantenere una portata cardiaca adeguata, è spesso insufficiente, ed i pazienti

possono andare incontro a edema polmonare o shock cardiogeno. L'insufficienza aortica acuta è particolarmente

mal tollerata nei pazienti con ventricolo sinistro ipertrofico piccolo e poco distensibile, come accade quando il

rigurgito consegue a dissezione aortica in pazienti ipertesi, o ad endocardite infettiva in soggetti con stenosi

aortica preesistente. Questi pazienti possono anche manifestare segni e sintomi di ischemia miocardica, poiché

si riduce la pressione di perfusione nel letto coronarico a causa del progressivo incremento della pressione

telediastolica ventricolare sinistra, che tende a eguagliare la pressione diastolica aortica e quella coronarica.

Nell'insufficienza aortica cronica grave, il sovraccarico al ventricolo sinistro è sia di volume che di pressione. Il

ventricolo sinistro aumenta di volume perché deve accogliere non solo il sangue che proviene dalle vene

polmonari, ma anche quello che refluisce dall’aorta durante la diastole. Il sovraccarico di volume è conseguenza

della quota rigurgitante, ed è direttamente correlato alla gravità del rigurgito. Nelle fasi precoci, il ventricolo

sinistro si adatta al sovraccarico di volume con una ipertrofia eccentrica, in cui i sarcomeri si allineano in serie

ed i miofilamenti si allungano: ne consegue un incremento della forza di contrazione, in accordo alla legge di

Starling. La gittata sistolica è aumentata, e con essa la pressione sistolica. L'ipertensione sistolica può

contribuire alla progressiva dilatazione della radice aortica che a sua volta peggiora l'insufficienza aortica. Nelle

fasi più avanzate, la progressiva dilatazione del ventricolo sinistro può produrre una grave disfunzione

ventricolare, peggiorata dalla progressiva riduzione della distensibilità del ventricolo, causata dall’ipertrofia e

dalla fibrosi.

SINTOMI

I sintomi dell'insufficienza aortica dipendono dalla velocità con cui si realizza il danno valvolare, e sono tipici

dello scompenso cardiaco sinistro. Se il rigurgito aortico si instaura acutamente, non vi è tempo perché il

ventricolo sinistro possa mettere in atto i meccanismi compensatori dell'ipertrofia e della dilatazione, per cui

l’insufficienza ventricolare sinistra si manifesta rapidamente, anche con l’edema polmonare acuto.

I pazienti con insufficienza aortica cronica, invece, sono solitamente asintomatici ed hanno una buona tolleranza

allo sforzo per anni, fino a che, con il deficit del ventricolo sinistro, compaiono dispnea da sforzo, astenia e

talora ortopnea e dispnea parossistica notturna. Il paziente può anche avvertire palpitazioni a causa della

percezione dell'attività cardiaca dovuta all'ingrandimento del ventricolo. Anche in assenza di malattia

coronarica, le aumentate richieste di ossigeno da parte del ventricolo sinistro possono causare angina pectoris,

soprattutto nelle ore notturne.

SEGNI CLINICI

L'esame obiettivo nell' insufficienza aortica cronica è caratterizzato dallo stato iperdinamico della malattia. La

pressione arteriosa sistolica è aumentata, per l’incremento della gittata sistolica ventricolare sinistra, mentre la

pressione diastolica è ridotta sia per la vasodilatazione periferica, ma soprattutto per il flusso retrogrado verso il

ventricolo sinistro; la pressione differenziale, perciò, risulta notevolmente più ampia del normale. Queste

variazioni dipendono grossolanamente dall’entità della insufficienza: si ritiene che, in assenza di scompenso

cardiaco, questo vizio valvolare sia poco significativo quando la pressione diastolica non è <70 mm Hg.

Alla palpazione, il polso è scoccante (ampio e celere), poiché da un lato la gittata sistolica è aumentata, e

dall’altro la valvola aortica insufficiente non trattiene il sangue nel letto arterioso: l'effetto è una pulsazione che

sembra schioccare bruscamente contro le dita e scomparire altrettanto rapidamente (polso a martello

pneumatico). L'impulso apicale è ipercinetico, di ampia superficie, spesso dislocato in basso ed a sinistra

rispetto al normale.

Il rigurgito diastolico del sangue attraverso la valvola aortica provoca un soffio: poiché il flusso retrogrado è

elevato quando la pressione nella radice aortica è al suo massimo, e declina quando la pressione aortica cade, il

soffio dell’insufficienza aortica è massimo in protodiastole e quindi decresce (Figura 3). Il soffio ha timbro

dolce, aspirativo, e si ascolta meglio con il paziente seduto, durante espirazione forzata; la sua intensità è

massima lungo la parte inferiore della linea margino-sternale sinistra. La durata del soffio indica

grossolanamente la gravità della malattia: nei casi lievi esso si ascolta solo quando il gradiente tra aorta e

ventricolo sinistro è elevato, cioè in protodiastole; con l’aumentare della gravità, il soffio diventa olodiastolico.

Con la comparsa dello scompenso, poi, l'incremento della pressione telediastolica ventricolare sinistra e il rapido

calo della pressione diastolica aortica riducono il gradiente di rigurgito, e il soffio torna ad accorciarsi.

Nell'insufficienza aortica acuta, il soffio diastolico può essere addirittura assente a causa del rapido equilibrio tra

le pressioni aortica e ventricolare sinistra.

Sul focolaio aortico è rilevabile quasi sempre un soffio sistolico eiettivo, dovuto all'eccessivo flusso anterogrado,

che può mimare una stenosi aortica (Figura 3B).

Il secondo tono è di solito singolo. Un tono aggiunto eiettivo aortico (click da eiezione) può essere ascoltato

soprattutto in presenza di valvola aortica bicuspide

Figura 3 A: soffio diastolico in decrescendo dell’insufficienza aortica. B: al soffio diastolico si associa un soffio

sistolico eiettivo, che non è necessariamente indicativo di concomitante stenosi della valvola.

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

L'ECG mostra spesso ipertrofia ventricolare sinistra, caratterizzata da onde R alte nelle derivazioni precordiali

sinistre ed S profonde nelle destre, sottoslivellamento di ST e T invertite in I , aVL e V5-V6. (vedi Capitolo 3).

La radiografia del torace mostra cardiomegalia che, associata alla dilatazione dell'aorta ascendente e dell'arco

aortico, conferisce al cuore la caratteristica configurazione “a scarpa”.

L'esame diagnostico più importante nella valutazione dell' insufficienza aortica è l'ecocardiogramma che

permette di: 1) valutare l'anatomia dei lembi valvolari e della radice aortica, 2) rilevare la presenza e stimare la

gravità del rigurgito (con il color-Doppler) (ECO 18), 3) caratterizzare la dimensione, la massa e la funzione del

ventricolo sinistro. Il cateterismo cardiaco, l'aortografia e l'angiografia coronarica sono raramente necessari,

soprattutto nei casi acuti, e dovrebbero essere eseguiti solo quando la diagnosi non può essere fatta altrimenti

o nei pazienti con coronaropatia nota o elevata probabilità di malattia coronarica.

CENNI DI TERAPIA

In caso di insufficienza aortica acuta, l'intervento cardiochirurgico immediato è necessario poiché il sovraccarico

improvviso di volume è potenzialmente fatale. In questi casi la correzione chirurgica è urgente poiché la terapia

medica usuale fallisce: i vasodilatatori utilizzati per incrementare il flusso anterogrado peggiorano l'ipotensione,

l'ischemia e la disfunzione ventricolare sinistra, ed i farmaci che incrementano la pressione aumentano le

resistenze periferiche e peggiorano il rigurgito.

La terapia medica non è in grado di ridurre significativamente il volume di rigurgito nell' insufficienza aortica

cronica grave poiché l'area di rigurgito è relativamente fissa e la pressione diastolica già bassa: una ulteriore

riduzione di questa peggiorerebbe la perfusione coronarica. L'obiettivo principale della terapia medica è quindi

quello di ridurre l’ipertensione sistolica, al fine di diminuire lo stress parietale e migliorare la funzione del

ventricolo sinistro. Per questo possono essere usati farmaci vasodilatatori quali ACE-inibitori o calcio-antagonisti

diidropiridinici (vedi Capitolo 57).

Nei pazienti con insufficienza aortica isolata cronica, la sostituzione valvolare (o a volte la plastica valvolare ) è

indicata solo nei casi gravi, mentre nei soggetti sintomatici ma con insufficienza aortica lieve devono essere

escluse altre cause di disfunzione ventricolare come coronaropatia, ipertensione o cardiomiopatia. I migliori

risultati chirurgici si ottengono prima che il diametro telediastolico del ventricolo sinistro superi i 55 mm e che

la frazione di eiezione scenda al di sotto del 55%.

In presenza di concomitante malattia della radice aortica, alla sostituzione valvolare dovrebbe essere associata

la ricostruzione della radice e dell'aorta prossimale se il diametro dell'aorta supera i 5.0 cm.

Sezione IV. Scompenso Cardiaco

Capitolo 19. Fisiopatologia dello Scompenso Cardiaco, Livio Dei Cas, Marco Metra, Savina Nodari, Tania

Bordonali

DEFINIZIONE

Lo scompenso cardiaco si presenta con un quadro clinico estremamente variabile, per cui ne sono state

proposte numerose definizioni. La più tradizionale, di tipo fisiopatologico, descrive lo scompenso cardiaco come

una sindrome in cui il cuore non è in grado di mantenere una portata cardiaca adeguata alle

richieste dei tessuti oppure, nel caso vi riesca, questo è ottenuto attraverso un aumento delle pressioni di

riempimento ventricolari.

La Società Europea di Cardiologia ha definito lo scompenso cardiaco come una sindrome caratterizzata dai

seguenti aspetti: sintomi e/o segni tipici (dispnea e/o astenia, a riposo e/o da sforzo, e/o edemi

declivi) ed evidenza obiettiva (generalmente mediante ecocardiografia) di una disfunzione cardiaca

sistolica e/o diastolica.

L’importanza dell’attivazione neuroumorale e delle controrisposte dei vari organi nel determinare la

progressione dello scompenso cardiaco fa ritenere necessario includere anche questi fattori nella definizione.

Per scompenso cardiaco si deve quindi intendere una sindrome in cui ad un calo, assoluto o relativo, della

portata cardiaca, comunque determinato ma conseguente ad una causa cardiaca, corrisponde una

risposta multiorganica con attivazione cronica neuroumorale in grado di deteriorare ulteriormente

la funzione miocardica, nonostante una controrisposta di fattori tendenti al ripristino dell’omeostasi

circolatoria.

EPIDEMIOLOGIA

A causa del progressivo invecchiamento della popolazione e del migliorato trattamento della maggior parte delle

malattie cardiovascolari, la prevalenza dello scompenso cardiaco è in continua crescita. La prevalenza di

scompenso sintomatico è del 0.5-2% della popolazione generale: nei paesi europei sono quindi affette da

scompenso cardiaco sintomatico più di 12 milioni di persone. Un numero simile di pazienti, inoltre, sarebbe

portatore di disfunzione sistolica ventricolare sinistra asintomatica, ed altrettanti sarebbero affetti da

scompenso cardiaco con conservata funzione sistolica ventricolare. La prognosi dello scompenso cardiaco è

spesso sfavorevole: la forma acuta di scompenso è la più importante causa di ospedalizzazione per i soggetti di

età superiore ai 65 anni. Circa la metà dei pazienti affetti da scompenso cardiaco è destinata a morire in un

tempo medio di 4 anni dal momento della diagnosi, e la durata della vita può accorciarsi ad un solo anno per il

50% dei pazienti con scompenso severo. Recenti dati indicano, tuttavia, un miglioramento della prognosi

dovuto all’applicazione di terapie con evidenza di efficacia.

CAUSE

Lo scompenso cardiaco è la via finale comune di tutte le patologie in grado di compromettere la funzione

cardiaca. Può essere causato da una disfunzione miocardica (condizione più frequente) ma anche da

valvulopatie, malattie del pericardio o disturbi del ritmo. L’ischemia miocardica acuta, o più raramente l’anemia,

la disfunzione tiroidea, l’insufficienza renale o la somministrazione di farmaci inotropi negativi possono

peggiorare o qualche volta causare lo scompenso cardiaco.

Nei paesi occidentali, nei pazienti di età inferiore ai 75 anni, lo scompenso cardiaco è spesso caratterizzato da

una compromissione della funzione sistolica: la cardiopatia ischemica, spesso con concomitante ipertensione

arteriosa, ne è la causa più frequente. Nei pazienti di età superiore ai 75 anni, invece, è più frequente

l’insufficienza cardiaca con conservata funzione sistolica. Non di rado questi soggetti hanno una storia

d’ipertensione arteriosa, spesso sistolica isolata, ed un’ipertrofia ventricolare sinistra concentrica.

Oltre alla cardiopatia ischemica ed all’ipertensione arteriosa, le cardiomiopatie, in particolare la cardiomiopatia

dilatativa, e le valvulopatie sono altre importanti cause di scompenso cardiaco.

MECCANISMI FISIOPATOLOGICI ALLA BASE DELL’ALTERATA FUNZIONE MIOCARDICA

Determinanti della funzione cardiaca. I principali determinanti della funzione cardiaca sono la frequenza

cardiaca, il precarico, il postcarico e la contrattilità.

Il precarico è il carico a cui è sottoposto il cuore prima dell’iniizio della contrazione (telediastole). Viene

misurato dal volume o, meglio, dallo stress telediastolico. L’aumento del precarico causa un aumento della forza

di contrazione miocardica (legge di Starling) per migliore sovrapposizione tra actina e miosina. Il cuore

insufficiente è generalmente dilatato a tal punto da avere un esaurimento della riserva di precarico così che le

variazioni di quest’ultimo non comportano più variazioni della gettata cardiaca.

Il postcarico è il carico cui è sottoposto il cuore durante la contrazione. Viene misurato dallo stress sistolico, ed

è correlato all’impedenza aortica ed alle resistenze periferiche. Lo stress sistolico è direttamente proporzionale

al raggio ed alla pressione intraventricolare ed inversamente proporzionale allo spessore parietale (legge di

Laplace). L’aumento della pressione arteriosa comporta quindi un aumento del postcarico. Il cuore insufficiente

è criticamente dipendente dal postcarico.

La contrattilità è la capacità del miocardio di contrarsi indipendentemente dalle condizioni di carico. Il deficit di

contrattilità miocardica è l’alterazione fondamentale dello scompenso. Spesso questa non comporta alterazioni

della potata cardiaca e delle pressioni di riempimento ventricolari a riposo. Sotto sforzo, tuttavia, il cuore

insufficiente presenterà sempre una ridotta capacità di far fronte alle aumentate richieste dei tessuti periferici

con insufficiente incremento della contrattilità e della portata cardiaca ed aumento delle pressioni di

riempimento intraventricolari.

Vengono qui di seguito riassunti i principali meccanismi responsabili del deficit di contrattilità.

Ipertrofia Miocardica

L’ipertrofia miocardica si verifica in risposta ad un aumento dello stress parietale. Questo può essere dovuto sia

a sovraccarico pressorio (per esempio, ipertensione, stenosi aortica) che di volume (per esempio, rigurgito

mitralico oppure aortico). Il ruolo svolto dall'ipertrofia miocardica nella patogenesi dello scompenso cardiaco è

tradizionalmente ritenuto fondamentale: l’ipertrofia è vista come lo stadio intermedio tra un qualsiasi danno

miocardico iniziale e la successiva insufficienza miocardica. Tuttavia, nonostante numerose dimostrazioni

sperimentali, pochi studi clinici sono stati finora in grado di confermare questa ipotesi.

L’ipertrofia comporta modificazioni di tutte le componenti del miocardio che ne favoriscono, a loro volta, la

degenerazione con dilatazione ed ipocinesia ventricolare. A livello dei miociti, si verifica un aumento del numero

dei sarcomeri, che avviene in parallelo, con ispessimento delle fibre miocardiche, nel caso di un sovraccarico

pressorio (ipertrofia concentrica) o in serie, con loro allungamento (ipertrofia eccentrica), nel sovraccarico

volumetrico. In ogni caso, il volume delle fibre miocardiche aumenta in misura maggiore rispetto al numero dei

capillari, e all’interno di ciascuna cellula il numero dei sarcomeri aumenta in misura maggiore rispetto ai

mitocondri, così che il miocita viene a trovarsi in una condizione di relativa carenza di ossigeno e di energia.

L’ipertrofia comporta, inoltre, un’accelerazione dei processi di morte cellulare (apoptosi) ed alterazioni

qualitative, con aumento della sintesi di proteine di tipo fetale che contribuiscono alla genesi della disfunzione

cardiaca. La fibrosi miocardica viene a compromettere ulteriormente l’apporto di ossigeno e substrati alle cellule

miocardiche e la capacità delle arteriole coronariche a dilatarsi.

Accelerata morte cellulare

Può verificarsi con i meccanismi sia della necrosi che dell’apoptosi. La necrosi si realizza nei pazienti affetti da

cardiopatia ischemica sia sotto forma di infarto clinicamente evidente che di microinfarti. E’ infatti possibile

rilevare un aumento della troponina plasmatica in pazienti con scompenso cardiaco ma senza sindrome

coronarica acuta. Questa evenienza può verificarsi anche in pazienti senza coronaropatia, a causa del relativo

deficit di apporto di ossigeno ai miociti favorito dall’ipertrofia, aumento dello stress miocardico e della pressione

telediastolica ventricolare.

Differentemente dalla necrosi, l’apoptosi è un processo attivo, energia dipendente, in cui l’attivazione di uno

specifico programma genetico porta ad una cascata di eventi con esito in degradazione del DNA cellulare.

Questo processo, normalmente presente solo in un piccolissimo numero di cellule miocardiche, è attivato in

corso di scompenso cardiaco, contribuendo al deficit di contrattilità.

Alterato rapporto fra le isoforme della miosina

Esistono due principali isoforme della catena pesante della miosina (MHC, myosin heavy chain). Una rapida, ad

elevata attività ATPasica, codificata dal gene alfa-MHC, prevalente nella vita adulta, ed una lenta, a bassa

attività ATPasica, codificata dal gene beta-MHC, prevalente nella vita fetale. Nel cuore insufficiente si verifica la

riespressione di geni normalmente attivi durante la vita fetale, con maggiore sintesi di beta-MHC.

Queste alterazioni si correlano con la riduzione della contrattilità miocardica e sono antagonizzate, nella

maggioranza dei pazienti, dalla terapia beta-bloccante.

Ridotto contenuto miocardico di substrati ad alto contenuto energetico

Lo scompenso cardiaco si associa a riduzione dell’apporto di ossigeno e substrati alla cellula miocardica ed a

compromissione dei meccanismi di produzione dei substrati ad alto contenuto energetico. Questi comprendono

alterazioni nell’utilizzazione dei substrati (glucosio ed acidi grassi), nella fosforilazione ossidativa e nel

trasferimento ed utilizzazione dell’ATP. Vi è anche un’importante compromissione dell’immagazzinamento di

energia sotto forma di creatin-fosfato (CP). Il rapporto CP/ATP è un indice della disponbilità di energia a livello

miocardico e la sua riduzione in corso di scompenso, valutabile mediante risonanza magnetica nucleare e

spettroscopia, predice un’elevata mortalità nei pazienti.

Alterato metabolismo del calcio

Indipendentemente dalle alterazioni presenti a livello dei meccanismi di produzione di energia e dell’apparato

contrattile miocardico, la cellula miocardica mantiene una normale risposta contrattile alla somministrazione di

calcio. E’quindi logico ritenere che le alterazioni del metabolismo del calcio siano tra i principali fattori

responsabili dell’alterata funzione sistolica e/o diastolica del cuore insufficiente.

Nei pazienti con scompenso cardiaco è ridotta l’attività dell’ATPasi calcio-dipendente del reticolo

sarcoplasmatico (SERCA), responsabile della ricaptazione del calcio durante la diastole. A questo consegue una

compromissione del rilasciamento miocardico ed un ridotto accumulo di calcio all’interno del reticolo

sarcoplasmatico. Ciò determina la liberazione di una minore quantità di calcio nella sistole successiva, con

conseguente riduzione della contrattilità.

Un’altra alterazione riguarda l’iperfosforilazione del fosfolambano con conseguente maggiore perdita di calcio

dal reticolo sarcoplasmatico al citoplasma durante la diastole.

Fibrosi interstiziale

A carico del tessuto connettivo del cuore insufficiente si verificano modificazioni a livello sia della componente

cellulare (fibroblasti) che intercellulare. I fibroblasti vanno incontro ad iperplasia, con un aumento di sintesi di

collagene sproporzionato rispetto alla componente miocitaria (fibrosi interstiziale). Si verificano anche

modificazioni qualitative del collagene, consistenti in aumentata sintesi di collagene tipo I, più rigido, con

maggiore suscettibilità alle fratture del collagene, scivolamento delle fibre miocardiche le une sulle altre,

disorganizzazione della normale architettura del ventricolo sinistro, che assume una conformazione sferica.

Questa comporta un aumento dello stress parietale e minore efficienza contrattile.

La fibrosi interstiziale rappresenta, insieme alla compromissione dei processi di ricaptazione del calcio da parte

della SERCA, il maggiore meccanismo responsabile delle alterazioni della funzione diastolica del cuore

insufficiente.

ATTIVAZIONE NEURO-ORMONALE

Nello scompenso cardiaco entrano in gioco da protagonisti alcuni meccanismi (sistemi simpato-adrenergico e

renina-angiotensina-aldosterone, in particolare) la cui azione consiste essenzialmente nel determinare

vasocostrizione periferica, ritenzione idro-salina ed ipertrofia e/o iperplasia cellulare. Questi meccanismi

favoriscono la progressione dello scompenso cardiaco e, anche alla luce dei risultati degli studi clinici con

specifici antagonisti, sono da ritenerne i principali responsabili.

Attivazione simpato-adrenergica

I pazienti con scompenso cardiaco presentano, rispetto ai soggetti normali, un'aumentata eliminazione urinaria

di catecolamine ed elevate concentrazioni plasmatiche di norepinefrina. L'incremento dell'attività simpatica non

interessa in modo uniforme tutti gli organi, ma si verifica soprattutto a livello renale e cardiaco; qui le

concentrazioni di norepinefrina sono aumentate di 5-20 volte rispetto al normale. L'attivazione

simpatoadrenergica è un fenomeno precoce nell'evoluzione dello scompenso, ed è già presente nei pazienti con

disfunzione ventricolare sinistra asintomatica. Lo squilibrio neuroendocrino interessa globalmente tutto il

sistema neurovegetativo, poiché all'aumento dell'attività simpatica è associata la riduzione di quella

parasimpatica.

L’importanza della stimolazione simpatoadrenergica nella progressione dello scompenso cardiaco è dimostrata

dal valore prognostico indipendente dei livelli di norepinefrina plasmatica e dall’effetto estremamente favorevole

sulla prognosi della terapia beta-bloccante.

Numerosi sono i meccanismi con cui la stimolazione simpatoadrenergica può avere effetti dannosi sulla cellula

miocardica. Essa porta ad una progressiva riduzione del numero dei beta1 recettori miocardici, per cui il

rapporto tra beta1 e beta2 recettori miocardici si sposta dai valori normali di 80:20 a valori di 60:40. Ciò causa

una ridotta risposta cardiaca alla stimolazione simpatica che può, ad esempio, contribuire al ridotto incremento

della portata cardiaca ed alla ridotta tolleranza allo sforzo dei pazienti..

La norepinefrina ha anche effetti dannosi diretti sulle fibre miocardiche, stimolando apoptosi ed alterazioni

dell’espressione genica nei cardiomiociti (aumento della beta-MHC, riduzione dell’alfa-MHC e della SERCA). Essa

può favorire l’ischemia e la necrosi miocardica attraverso l’aumento della frequenza e della contrattilità,

condizioni entrambe in grado di incrementare il consumo di ossigeno.

Altri effetti sfavorevoli della stimolazione simpatica sono: 1) la vasocostrizione periferica, sia diretta che

indiretta, per stimolazione del sistema renina-angiotensina, con conseguente aumento del postcarico e

riduzione della gittata sistolica; 2) l’induzione di aritmie ventricolari, potenzialmente fatali; e 3) l’attivazione del

sistema renina-angiotensina.

Sistema renina angiotensina aldosterone

L’attività reninica plasmatica aumenta soprattutto nei pazienti con più grave compromissione emodinamica e

funzionale. La sua importanza è dimostrata dagli effetti favorevoli degli ACE inibitori e degli antagonisti dei

recettori dell’angiotensina II sulla prognosi.

I meccanismi con cui l’angiotensina II può influenzare negativamente l’evoluzione dello scompenso sono

molteplici. In primo luogo, essa causa vasocostrizione periferica, aumento del postcarico e calo della gittata

sistolica. In secondo luogo, stimola la secrezione di aldosterone causando ritenzione idro-salina e quindi

aumento del precarico, edemi declivi e congestione venosa sistemica. Similmente alla norepinefrina, anche

l’angiotensina II ha un effetto tossico diretto sul miocardio (apoptosi).

L’aldosterone, la cui secrezione è stimolata dall’angiotensina II, oltre a causare ritenzione idro-salina ed

ipokaliemia, provoca anche ipertrofia e fibrosi miocardica, aumento della stimolazione simpatica cardiaca e

disfunzione endoteliale. Tutti questi effetti contribuiscono alla progressione dello scompenso e rendono conto

degli effetti favorevoli dei farmaci antialdosteronici sulla prognosi.

Vasopressina

Da molti anni è stata segnalata, in corso di scompenso cardiaco, la presenza di elevate concentrazioni

plasmatiche di vasopressina, la cui secrezione, però, sembra essere stimolata meno frequentemente che quella

di renina, aldosterone o norepinefrina.

La vasopressina agisce su due diversi recettori, V1 e V2. La stimolazione dei recettori V1 determina

vasocostrizione periferica con diminuzione della gittata sistolica, mentre la stimolazione dei recettori V2 provoca

ritenzione di acqua libera per permeabilizzazione all’acqua del tubulo collettore renale.

Differentemente che nel caso dei precedenti sistemi, in questo caso la somministrazione di antagonisti della

vasopressina non ha determinato variazioni nella sopravvivenza.

Fattori natriuretici

La famiglia dei fattori natriuretici comprende il peptide natriuretico A o atriale (ANP), il peptide natriuretico B o

cerebrale (BNP), così chiamato perché isolato per la prima volta nelle cellule del sistema nervoso centrale di

maiale, il peptide natriuretico C (CNP), prodotto e secreto prevalentemente dal sistema nervoso centrale e dai

vasi periferici.

La sintesi di ANP e di BNP risulta estremamente limitata nel soggetto adulto normale. In corso di scompenso

cardiaco, viceversa, l’aumento dello stress parietale miocardico causa l’espressione di geni attivi nella vita fetale

con conseguente produzione di ANP e BNP. Il BNP viene sintetizzato sotto forma di pro-ormone (proBNP), che

viene quindi clivato a livello citoplasmatico con formazione di BNP attivo e di un frammento N-terminale (NT-

proBNP). Entrambi vengono rapidamente immessi nel torrente circolatorio.

L’ANP e il BNP vengono prodotti e secreti sia a livello atriale che ventricolare: la concentrazione di ANP è

maggiore a livello atriale mentre quella di BNP è maggiore a livello ventricolare. Per questo motivo, oltre che

per la più rapida risposta della secrezione del BNP in condizioni di sovraccarico, si impiega attualmente nella

pratica clinica il dosaggio del BNP o del NT-ProBNP per la valutazione diagnostica e prognostica dei pazienti con

socmpenso cardiaco.

I fattori natriuretici causano vasodilatazione periferica, inibiscono l’attivazione simpatica e la secrezione di

renina e di aldosterone, e favoriscono la natriuresi. La loro secrezione si verifica precocemente nello scompenso

cardiaco. È quindi probabile che i fattori natriuretici abbiano un ruolo importante nel mantenere un normale

equilibrio idro-salino. Nelle fasi inziali dello scompenso cardiaco, essi riuscirebbero a controbilanciare gli effetti

dell’attivazione dei sistemi simpatoadrenergico e renina-angiotensina-aldosterone.

Prostaglandine

Le prostaglandine PgE2 e Pgi2 hanno un’azione vasodilatatrice e giocano, a livello dell’arteriola afferente renale,

un ruolo importante, dimostrato indirettamente dall’osservazione che l’inibizione della loro sintesi con

antiinfiammatori non steroidei determina un netto peggioramento della funzione renale, per vasocostrizione

dell’arteriola afferente glomerulare, e talvolta anche del compenso emodinamico, nei pazienti con scompenso

cardiaco.

Ossido nitrico

L’ossido nitrico (NO) è il più potente vasodilatatore endogeno conosciuto. Una riduzione della vasodilatazione

NO-dipendente è stata dimostrata in numerose condizioni patologiche tra cui lo scompenso cardiaco.

Endotelina

Le endoteline sono peptidi dotati di una potente e prolungata azione vasocostrittrice. La loro sorgente più

importante sembrano essere le cellule endoteliali. Oltre a presentare una potente e prolungata attività

vasocostrittrice, le endoteline stimolano il rilascio di catecolamine ed aldosterone, favoriscono l’ipertrofia

miocardica e la proliferazione delle cellule muscolari lisce.

Nei pazienti con scompenso cardiaco è stato dimostrato un incremento significativo delle concentrazioni di ET-1,

rispetto ai soggetti normali. Tuttavia, la somministrazione di antagonisti dei recettori dell’endotelina non ha

avuto effetti favorevoli né nei confronti del rimodellamento ventricolare sinistro, né sui sintomi e la prognosi dei

pazienti con scompenso acuto.

Stress ossidativo

Esistono numerose evidenze di un aumento dello stress ossidativo sia a livello miocardico che a livello vascolare

sistemico nei pazienti con scompenso cardiaco. La produzione di radicali liberi riduce la capacità di dilatazione

vascolare periferica e stimola l’ipertrofia dei miociti, la riespressione dei fenotipi fetali e l’apoptosi.

Citochine

I livelli circolanti di citochine pro-infiammatorie, incluse TNF-a e IL-6, sono aumentati nei pazienti con

scompenso cardiaco, rispetto ai soggetti normali, e sono correlati con la severità della sintomatologia e con la

prognosi. Gli effetti negativi dei mediatori infiammatori sulla progressione dello SC sono molteplici e

comprendono un’attività inotropa negativa, l’induzione di un genotipo fetale e di apoptosi a livello dei

cardiomiociti, la cachessia e l’ipotrofia della muscolatura scheletrica. Tuttavia, nonostante questi presupposti

fisiopatologici, l’impiego di antagonisti specifici delle citochine non ha modificato l’evoluzione dei pazienti con

scompenso, e nessuna terapia antiinfiammatoria ha permesso di migliorare la prognosi dei pazienti.

RITENZIONE IDRO-SALINA ED AUMENTO DEL PRECARICO

La ritenzione idro-salina è dovuta, nello scompenso cardiaco, a due meccanismi fondamentali: le modificazioni

dell'emodinamica renale e l’attivazione neuro-ormonale.

Flusso ematico renale e filtrazione glomerulare

Nello scompenso cardiaco, l’attivazione simpatica determina una redistribuzione della portata cardiaca con

riduzione del flusso ematico renale. A questo fa riscontro una relativa conservazione della filtrazione

glomerulare, con aumento della frazione di filtrazione. Infatti, l'angiotensina II determina una vasocostrizione

maggiore nell'arteriola efferente che in quella afferente, per cui la pressione all'interno dei capillari glomerulari

aumenta. La filtrazione glomerulare, perciò, diminuisce in misura minore rispetto al flusso plasmatico renale, e

la frazione di filtrazione aumenta.

Ritenzione idrico-salina

La riduzione del flusso plasmatico renale e l'aumento della frazione di filtrazione determinano ipoperfusione dei

capillari peritubulari, con conseguente calo della pressione idrostatica ed aumento della concentrazione di

proteine e della pressione oncotica al loro interno. Queste modificazioni dell’equilibrio tra pressione idrostatica

ed oncotica intratubulare e nei capillari peritubulari portano ad un maggior riassorbimento di sodio cui

consegue, per osmosi, anche un maggior riassorbimento idrico.

L’iperattività simpatica e del sistema renina-angiotensina causano ritenzione idrosalina anche con altri

meccanismi. L’attivazione simpatica determina redistribuzione del flusso ematico intrarenale dai nefroni corticali

e quelli iuxtamidollari, dotati di più lunghe anse di Henle e quindi in grado di maggior riassorbimento salino.

L’angiotensina II stimola la secrezione di aldosterone, con maggior riassorbimento di sodio, in scambio con il

potassio, a livello del tubulo distale e del collettore. Infine, la vasopressina rende permeabile all’acqua il tubulo

collettore e favorisce il riassorbimento di acqua. Il riassorbimento di acqua può verificarsi in misura maggiore

del riassorbimento di sodio con conseguente iposodiemia da diluizione.

La ritenzione idro-salina viene tradizionalmente vista come una meccanismo finalistico, attraverso il quale

l’organismo cerca di mantenere un adeguato volume ematico in condizioni in cui la portata cardiaca e la

pressione di perfusione tessutale tendono a calare per effetto della ridotta contrattilità miocardica. Queste

modificazioni sono, tuttavia, dannose per l’evoluzione dello scompenso cardiaco e rappresentano la principale

causa di molti sintomi lamentati dal paziente (edemi, dispnea) oltre che delle ospedalizzazioni per

peggioramento dello scompenso.

Modificazione del precarico

La ritenzione idro-salina è alla base della formazione di edema e comporta, a livello cardiaco, un aumento del

precarico. L’aumento di precarico può inizialmente comportare una maggior gittata sistolica attraverso il

meccanismo di Frank-Starling. Tuttavia, il cuore insufficiente esaurisce ben presto la propria riserva di precarico

(vedi sopra). L’aumento del volume ventricolare continua, invece, a determinare un aumento dello stress

parietale miocardico e quindi, per la legge di Laplace, anche del postcarico e del consumo miocardico di

ossigeno.

VASOCOSTRIZIONE PERIFERICA ED AUMENTO DEL POSTCARICO

Nello scompenso cardiaco, l’aumento delle resistenze vascolari periferiche è dovuto all’attivazione dei

meccanismi neuroumorali ad azione vasocostrittrice ed alle alterazioni di sistemi locali (NO, endotelina, etc).

Questi fenomeni determinano vasocostrizione arteriolare e riduzione del diametro e della compliance delle

grosse e medie arterie.

Il ventricolo normale è in grado di mantenere una normale gittata sistolica anche in presenza di incremento del

postcarico. All’opposto, il cuore insufficiente è criticamente dipendente dal post-carico, così che anche minime

variazioni dello stesso comportano un’importante riduzione della gittata sistolica. Questo motivo ha guidato

l’introduzione della terapia vasodilatatrice nello scompenso cardiaco.

RIDUZIONE DELLA TOLLERANZA ALLO SFORZO

La ridotta tolleranza allo sforzo è uno dei sintomi fondamentali del paziente con scompenso cardiaco.

Fattori emodinamici

La riduzione della capacità funzionale è innanzitutto conseguenza della compromissione emodinamica del

paziente con scompenso cardiaco. Nessun parametro emodinamico, valutato a riposo, tuttavia, è correlato con

la capacità funzionale. La risposta allo sforzo, a differenza dell’emodinamica a riposo, è strettamente correlata

con la capacità funzionale. Una correlazione significativa è stata osservata soprattutto con gli indici di funzione

sistolica ventricolare sinistra (portata cardiaca, indice di lavoro del ventricolo sinistro).

Flusso ematico muscolare scheletrico

Nei pazienti con scompenso cardiaco è stata osservata una ridotta capacità dilatatrice dei vasi della muscolatura

scheletrica. La riduzione della portata cardiaca e della vasodilatazione muscolare fanno sì che il muscolo si

venga a trovare, sotto sforzo, in una condizione di relativa ipoperfusione responsabile, a sua volta, di più

precoce comparsa di metabolismo anaerobio e di riduzione della tolleranza allo sforzo.

A questa ridotta capacità di dilatazione dei vasi della muscolatura scheletrica contribuiscono sia l'attivazione

neuroumorale che alterazioni di sistemi locali (NO, endotelina, citochine).

Caratteristiche biochimiche e funzionali della muscolatura scheletrica

Il 25-40% dei pazienti con scompenso cardiaco può presentare una riduzione della capacità funzionale, con

precoce comparsa di metabolismo muscolare anaerobio nonostante un normale incremento del flusso ematico

durante sforzo. In questi pazienti la muscolatura scheletrica sembra essere la principale responsabile della

ridotta capacità funzionale.

In corso di scompenso cardiaco, i muscoli scheletrici vanno incontro a modificazioni morfologiche (ipotrofia,

fibrosi interstiziale, depositi lipidici, riduzione della densità dei capillari) e biochimiche (riduzione degli enzimi

responsabili del metabolismo aerobio, con normale o aumentata attività degli enzimi della glicolisi anaerobia).

Similmente alla riduzione della capacità dilatatrice dei vasi, anche le alterazioni della muscolatura scheletrica

possono essere considerate come il risultato di un processo di decondizionamento muscolare. L’importanza di

questo meccanismo è dimostrata dalla possibilità di ottenere un significativo miglioramento della capacità

funzionale con l'allenamento fisico.

Diffusione alveolo-capillare

Anche la diffusione alveolo-capillare dell'ossido di carbonio, valutata a riposo, è correlata con la massima

capacità lavorativa. Nello scompenso cardiaco, una riduzione della capacità di diffusione alveolo-capillare può

determinare incremento dello spazio morto fisiologico e del rapporto tra spazio morto polmonare e capacità

vitale (Vd/Vt).

Risposta ventilatoria allo sforzo

I pazienti con scompenso cardiaco presentano, durante sforzo, un respiro più rapido e più superficiale, con

maggiore incremento della ventilazione (VE), a parità di carico lavorativo, rispetto ai soggetti normali.

Capitolo 20. Quadri Clinici dello Scompenso Cardiaco Acuto, Francesco Fedele

DEFINIZIONE

L’insufficienza cardiaca è la situazione in cui il cuore è incapace di pompare sangue in quantità adeguata alle

esigenze metaboliche dell’organismo, oppure può far questo soltanto mediante un aumento delle pressioni di

riempimento (vedi Capitolo 19).

L’insufficienza cardiaca acuta, definita come la comparsa improvvisa di segni e sintomi secondari a disfunzione

cardiaca sistolica o diastolica, può essere associata ad una malattia cardiaca pre-esistente, ad anomalie del

ritmo o ad un “mismatch” del pre e del post-carico; questa condizione rappresenta una minaccia per la vita e

necessita di un trattamento di emergenza.

L’insufficienza cardiaca acuta può presentarsi come prima manifestazione di malattia in pazienti senza

disfunzione cardiaca conosciuta precedentemente, o come riacutizzazione di un’insufficienza cardiaca cronica.

Perciò, l’insufficienza cardiaca acuta comprende tre differenti gruppi di pazienti: 1) pazienti con un’insufficienza

cardiaca “de novo” secondaria ad un fattore precipitante, come ad esempio un esteso infarto del miocardio o un

improvviso aumento della pressione arteriosa in presenza di un ventricolo sinistro deficitario; 2) pazienti con

peggioramento di un’insufficienza cardiaca cronica sistolica o diastolica; 3) pazienti che presentano

un’insufficienza cardiaca avanzata o all’ultimo stadio, e vanno rapidamente incontro a deterioramento, con

disfunzione ventricolare prevalentemente sistolica, scarsa risposta alla terapia medica e necessità di trattamenti

non farmacologici.

EPIDEMIOLOGIA

L’insufficienza cardiaca è la principale causa di morbilità e mortalità nel mondo occidentale. La causa più

comune di insufficienza cardiaca acuta è la malattia coronarica (~70%).

I pazienti con insufficienza cardiaca acuta hanno una prognosi severa: la mortalità è particolarmente elevata

(30% a 12 mesi) nell’infarto miocardico acuto associato ad insufficienza cardiaca grave. Dati simili sono stati

riportati per l’edema polmonare acuto. Circa la metà dei pazienti ospedalizzati per insufficienza cardiaca acuta

vengono nuovamente ricoverati almeno una volta (e il 15% almeno due volte) entro un anno. In questa

popolazione, ogni evento acuto determina una riduzione progressiva della capacità funzionale (Figura 1), per

cui gli sforzi terapeutici devono essere rivolti anche ad un’azione di cardioprotezione.

Figura 1

QUADRI CLINICI

I sintomi e i segni nel paziente con insufficienza cardiaca acuta sono riconducibili: 1) alla diminuzione della

portata cardiaca a riposo, fino a livelli che comportano ipoperfusione tissutale e riduzione del flusso renale; 2)

all’aumento delle pressioni di riempimento ventricolari destre e sinistre con conseguente congestione sistemica

e polmonare. Tali sintomi e segni, sommandosi in vario modo, compongono i diversi quadri clinici, correlati

anche alle differenti cause di base, agli eventi scatenanti, alla rapidità di insorgenza e alla gravità (Figura 2).

Figura 2

LA DISPNEA

Sintomo base dello scompenso acuto del ventricolo sinistro è la dispnea, che consiste in una sensazione di

sforzo o fatica nel respirare e può essere associata a fame d’aria. È la conseguenza della congestione

polmonare, dovuta alle aumentate pressioni intracavitarie nelle sezioni sinistre del cuore, che provoca aumento

del contenuto idrico extravascolare polmonare, riducendo la distensibilità polmonare e aumentando il lavoro dei

muscoli respiratori. Nell’insufficienza cardiaca acuta la dispnea assume spesso le caratteristiche di ortopnea e

dispnea parossistica notturna.

L’ortopnea è la necessità di mantenere il torace in posizione eretta per evitare l’insorgenza della dispnea o

ridurne l’entità. La posizione supina, infatti, aumenta il ritorno venoso al cuore e quindi peggiora la congestione

polmonare. La dispnea parossistica notturna è caratterizzata da manifestazioni accessionali, durante le quali il

paziente avverte una sensazione di mancanza di aria ed è costretto a sedersi sul letto con i piedi penzoloni o a

portarsi alla finestra alla ricerca di aria. In alcuni casi compare tosse stizzosa e respiro sibilante dovuto a

broncostenosi (asma cardiaco).

L’EDEMA POLMONARE

L’edema polmonare è il quadro più grave dello scompenso cardiaco acuto, e viene provocato dall’accumulo di

liquido nello spazio extravascolare polmonare. Il passaggio di liquido dal capillare all’interstizio e viceversa è, in

condizioni normali, governato da due fattori: la pressione idrostatica del sangue capillare, che tende a far

fuoriuscire la parte liquida del sangue, e la pressione osmotica delle proteine plasmatiche, (pressione oncotica)

che tende, invece, a trattenere il liquido dentro il vaso. Quest’ultima corrisponde a una pressione di circa 25

mm Hg. Quando la pressione all’interno dei capillari polmonari aumenta al di sopra dei 25 mmHg, si realizza

dapprima la trasudazione e l’accumulo di liquido nell’interstizio (edema interstiziale); il sistema linfatico si

adopera quindi ad allontanare il trasudato, ma quando la sua capacità di drenaggio viene superata il liquido

invade gli alveoli (edema alveolare), compromettendo la funzione polmonare, sia da un punto di vista

meccanico che degli scambi gassosi.

La compromissione respiratoria genera ipossiemia e acidosi, le quali provocano un ulteriore peggioramento

della funzione cardiaca, riducendo la portata ed aumentando la pressione capillare polmonare. La riduzione

della portata cardiaca, inoltre, attiva il sistema adrenergico che, attraverso la vasocostrizione cutanea,

muscolare e splancnica, tende a mantenere un’adeguata perfusione cerebrale e cardiaca, ma d’altro canto

induce tachicardia, ipertensione, pallore e contrazione della diuresi. L’aumento delle resistenze vascolari

periferiche determina un incremento del carico di lavoro in un cuore già insufficiente, e peggiora la performance

cardiaca provocando un’ulteriore riduzione della portata; si innesca quindi un circolo vizioso, sino a quando la

portata crolla al di sotto dei valori minimi necessari per mantenere una normale perfusione cardiaca e

cerebrale, e s’instaura il quadro dello shock cardiogeno (vedi Capitolo 22).

Il paziente affetto da edema polmonare acuto non sta disteso ma seduto sul letto, fortemente agitato, madido

di sudore, dispnoico e tachipnoico, con respiro rumoroso e gorgogliante; la sua cute è fredda e sudata, e può

essere presente cianosi alle labbra e alle estremità. Al torace si ascoltano alle basi polmonari rantoli crepitanti,

che con l’aumentare della quantità di liquido trasudato arrivano ad interessare tutto l’ambito polmonare, come

una “marea montante”, accompagnati da escreato schiumoso ed eventualmente rosato. Se non si interviene

con un trattamento tempestivo, l’edema polmonare tende a peggiorare progressivamente sino all’arresto del

respiro, oppure evolve verso lo shock (shock cardiogeno) e l’arresto di circolo, con esito fatale.

L’esame fisico del paziente con insufficienza cardiaca acuta permette di rilevare segni a carico dell’apparato

cardiovascolare, dell’apparato respiratorio, del fegato e dell’addome, della cute, dei reni.

La pressione arteriosa può essere elevata, soprattutto la diastolica, per effetto della vasocostrizione arteriolare.

Quando però la gittata sistolica è diminuita, anche i valori tensivi sistemici si riducono, sino a raggiungere valori

minimi nello shock cardiogeno. La pressione venosa centrale è solitamente elevata: si può valutare osservando

il grado di turgore delle vene giugulari con il paziente in posizione semiseduta (a 45°).

La cute può apparire pallida, umida di sudore e fredda per la costrizione dei vasi cutanei come meccanismo

compensatorio dell’ipoperfusione periferica; nei casi più gravi può comparire cianosi.

I segni di ipoperfusione renale sono rappresentati dall’oliguria (meno di 500-600 ml nelle 24 ore) unitamente

all’aumento dell’azotemia e della creatininemia. Quando la gittata cardiaca è gravemente ridotta, si può arrivare

fino all’anuria (< 100 ml nelle 24 ore).

L’edema periferico può essere presente soprattutto nei casi di peggioramento di una condizione cronica; esso è

dovuto all’aumento di pressione venosa sistemica, ma anche e soprattutto alla ritenzione idrosalina.

L’esame obiettivo cardiaco può mostrare i segni della cardiopatia che sta alla base dello scompenso. La

frequenza cardiaca è solitamente elevata (per effetto dell’ipertono simpatico) e all’ascoltazione è spesso

presente un ritmo di galoppo, dovuto alla presenza di un III tono cardiaco, meno spesso di un IV tono (vedi

Capitolo 2). Altro segno ascoltatorio cardiaco nello scompenso può essere un soffio olosistolico puntale da

insufficienza mitralica acuta. All’esame del torace, quando l’aumento della pressione nelle vene e nei capillari

polmonari provoca trasudazione di liquido nel tessuto interstiziale polmonare, si possono ascoltare rumori umidi

(rantoli crepitanti) . Il reperto obiettivo toracico coinvolge dapprima i campi polmonari basali, diffondendosi

progressivamente ai campi superiori in seguito all’aggravarsi della condizione clinica ed in assenza di adeguato

trattamento.

Sfruttando i segni e i sintomi dei quadri clinici dell’insufficienza cardiaca acuta è stata formulata la

classificazione di Killip, che suddivide i pazienti in quattro classi in base alla presenza di segni di congestione

polmonare e periferica, segni di bassa portata, e segni di aumentato volume telediastolico ventricolare. La

classe I è caratterizzata dall’assenza di segni clinici di insufficienza cardiaca. I criteri diagnostici per la II classe

includono il riscontro di rantoli nella metà inferiore dei campi polmonari, terzo tono e ipertensione venosa

polmonare. La classe III include pazienti con insufficienza cardiaca severa (rantoli estesi a tutti i campi

polmonari o edema polmonare franco). La classe IV include i pazienti in shock cardiogeno, con pressione

arteriosa sistolica = 90 mmHg, vasocostrizione periferica, oliguria e cianosi.

Un’altra classificazione, basata sulla temperatura corporea (cute calda o fredda) e sul reperto ascoltatorio

toracico (il paziente viene definito “umido” o “secco” a seconda che presenti rantoli o no), distingue quattro

gruppi di crescente gravità clinica: il gruppo A comprende pazienti “caldi e secchi”, il gruppo B pazienti “caldi e

umidi”, il gruppo L pazienti “freddi e secchi” e il gruppo C pazienti “freddi e umidi” (Figura 3).

Lo shock cardiogeno può essere il quadro di esordio, soprattutto in caso di infarto miocardico, oppure la fase

terminale di un’insufficienza cardiaca in rapido peggioramento: si manifesta quando la portata cardiaca scende

al di sotto dei valori minimi necessari a mantenere la funzione degli organi vitali (vedi Capitolo 22).

Figura 3

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

Tra le indagini di laboratorio, durante un episodio di insufficienza cardiaca acuta, bisognerà sempre eseguire,

oltre agli esami di routine, la ricerca degli indici di necrosi miocardica. Può essere, inoltre, dosato il peptide

natriuretico di tipo B (Brain Natriuretic Peptide-BNP, vedi Capitolo 14), che viene rilasciato dai ventricoli in

risposta allo stiramento delle pareti e al sovraccarico di fluidi, ed è stato utilizzato per escludere o identificare la

presenza di scompenso cardiaco congestizio.

Di notevole importanza è l’emogasanalisi, che rivela dati sugli scambi gassosi e sullo stato metabolico del

paziente.

La radiografia del torace fornisce informazioni sia sulle dimensioni e la morfologia cardiaca, ma soprattutto sulla

distribuzione del flusso polmonare.

L’elettrocardiogramma può essere normale, ma spesso mostra aritmie o alterazioni dipendenti dalla cardiopatia

di base.

L’esame principe nell’inquadramento del paziente con insufficienza cardiaca acuta è l’ecocardiogramma, che

valuta le dimensioni e i volumi delle cavità cardiache, gli spessori parietali, la cinesi globale e segmentale, la

frazione di eiezione e la contrattilità. Si può analizzare la morfologia e la funzione degli apparati valvolari e di

altre strutture quali il pericardio, il tratto prossimale dell’aorta e la vena cava inferiore. Inoltre si può esaminare

la funzione diastolica, impiegando la registrazione con il Doppler pulsato del flusso transmitralico (Figura 4).

Figura 4

PRINCIPI DI TERAPIA

Gli obiettivi del trattamento a breve termine dei pazienti con insufficienza cardiaca acuta sono migliorare i

sintomi e l’emodinamica, preservando la funzione renale e proteggendo il tessuto miocardico. La terapia dell’

insufficienza cardiaca acuta si prefigge, quindi, diverse finalità: ridurre la congestione, ridurre il postcarico,

migliorare l’assetto neurormonale, migliorare la funzione cardiaca (Figura 5).

I diuretici sono farmaci che aumentano l’eliminazione di sodio e acqua e perciò riducono la massa liquida

circolante e il volume di liquido interstiziale. I diuretici più usati sono quelli dell’ansa ad azione rapida,

(furosemide e torasemide), spesso in associazione con i risparmiatori di potassio.

Tra i farmaci che riducono il precarico vi sono i vasodilatatori venosi, che ridistribuendo il volume ematico

aumentano la capacità del distretto venoso, e sequestrano in questa sede parte della massa circolante,

riducendo il riempimento cardiaco. I vasodilatatori venosi più importanti sono la nitroglicerina e il

nitroprussiato, che ha un effetto anche sul versante arterioso.

Gli ACE-inibitori sono farmaci che oltre a ridurre il precarico, favorendo anche una minor ritenzione di acqua e

sali, migliorano l’assetto neuro-ormonale. Sono poco usati nello scompenso acuto. Al contrario, i farmaci che

stimolano l’inotropismo, soprattutto dopamina, dobutamina e glicosidi digitatici, possono essere di grande aiuto

nella fase acuta.

Le due amine simpaticomimetiche, dopamina e dobutamina, agiscono soprattutto sui recettori beta-adrenergici,

migliorando la contrattilità miocardica. La dopamina, precursore naturale della noradrenalina, è utile nel

trattamento degli stati ipotensivi; a dosaggi molto bassi induce vasodilatazione dei vasi renali e mesenterici, per

stimolazione dei recettori dopaminergici, aumentando così la diuresi e l’escrezione di sodio. A dosaggi più

elevati la dopamina stimola i recettori ß1 miocardici, provocando una modesta tachicardia riflessa, mentre a

dosaggi elevati stimola anche i recettori a-adrenergici, innalzando i valori tensivi sistemici. La dobutamina

agendo sui recettori ß1, ß2 e a, possiede un potente effetto inotropo, abbassa le resistenze periferiche e

determina un aumento di gittata cardiaca.

I glicosidi digitalici agiscono bloccando la pompa sodio/potassio ATP-dipendente delle fibre miocardiche, con

l’effetto ultimo di aumentare la disponibilità di calcio intracellulare per la contrazione. Oltre a ciò, riducono la

frequenza cardiaca e rallentano la conduzione atrioventricolare (soprattutto per aumento del tono vagale), per

cui sono utili in presenza di tachiaritmie sopraventricolari, soprattutto in corso di fibrillazione atriale.

Recenti prospettive farmacologiche sono rappresentate dai nuovi inotropi come il levosimendan, che agisce

tramite un duplice meccanismo di azione: aumenta la sensibilità delle miofibrille al calcio, tramite il legame con

la troponina C, determinando quindi un effetto inotropo positivo senza aumentare il consumo miocardio di

ossigeno, e attiva i canali vascolari del potassio ATP-dipendenti, provocando una vasodilatazione periferica.

Figura 5

Capitolo 21. Quadri Clinici dello Scompenso Cardiaco Cronico, Livio Dei Cas, Marco Metra, Savina Nodari

QUADRI CLINICI

Sono state proposte numerose classificazioni dello scompenso cardiaco. Pur peccando di un’eccessiva

semplificazione e, spesso, di scarsa aderenza alla realtà, queste mantengono un loro valore soprattutto

didattico.

La distinzione più importante è quella tra scompenso cardiaco acuto e cronico. (vedi capitolo 20). Nell’ambito

dello scompenso cardiaco cronico, mantengono un loro valore le distinzioni tra scompenso anterogrado e

retrogrado, sinistro e destro, sistolico e diastolico.

Secondo la teoria anterograda dello scompenso, l’origine dei sintomi e segni è da ricercarsi nell’inadeguata

portata cardiaca con insufficiente perfusione dei tessuti periferici. Viceversa, secondo la teoria retrograda, la

causa dei sintomi e segni è da ricercarsi nell’incompleto svuotamento dei ventricoli. Questo causa un aumento

della pressione intraventricolare che si ripercuote a monte sulle pressioni atriale, dei vasi venosi tributari ed,

infine, intracapillari. L’aumento della pressione intracapillare causa trasudazione di liquido ed edema

interstiziale e, nel caso del circolo polmonare, edema alveolare.

La distinzione tra scompenso cardiaco sinistro e destro è un’estensione della precedente teoria retrograda.

Nello scompenso sinistro predominano i sintomi da accumulo di fluidi a monte del ventricolo sinistro con

congestione ed edema polmonare. Nello scompenso destro si ha, invece, congestione venosa sistemica ed

epatica.

La distinzione tra scompenso cardiaco sistolico e diastolico è essenzialmente basata sul riscontro o meno di

bassi valori di frazione d’eiezione (<50%) in pazienti con sintomi di scompenso cardiaco. Tuttavia, anche nei

pazienti con frazione d’eiezione normale sono presenti alterazioni di altri indici di funzione sistolica ventricolare

sinistra e, viceversa, alterazioni della funzione diastolica sono costantemente presenti anche nei pazienti con

bassa frazione d’eiezione. Per queste ragioni, si preferisce usare il termine di scompenso cardiaco con

normale frazione d’eiezione piuttosto che quello di scompenso diastolico. I pazienti con normale frazione

d’eiezione possono corrispondere a più del 50% dei pazienti ricoverati per scompenso cardiaco e la loro

prognosi è sovrapponibile, o solo leggermente migliore, rispetto a quella dei pazienti con bassa frazione

d’eiezione. I pazienti con normale frazione d’eiezione sono più spesso anziani, di sesso femminile ed affetti da

ipertensione arteriosa.

SINTOMI

Dispnea. La dispnea rappresenta, insieme all’astenia, il sintomo più suggestivo di scompenso cardiaco. Nelle

fase iniziali della malattia compare prevalentemente durante sforzi fisici, successivamente si presenta anche a

riposo con le caratteristiche dell’ortopnea, della dispnea parossistica notturna e dell’edema polmonare acuto

(vedi Capitolo 1).

La dispnea viene descritta come una spiacevole sensazione di difficoltà nel respirare. Viene comunemente

avvertita da qualsiasi persona in occasione di uno sforzo fisico intenso. Nel paziente con scompenso cardiaco vi

è una riduzione del grado di attività associata con questo disturbo. Tanto maggiore è la severità dello

scompenso cardiaco, tanto minore è l’entità dello sforzo che causa la dispnea. Su questo è basata la

classificazione della New York Heart Associaton (Tabella I).

La dispnea del paziente con scompenso cardiaco viene tradizionalmente attribuita all’aumento delle pressioni

capillari polmonari con edema interstiziale ed alveolare. In realtà la correlazione con la compromissione della

funzione ventricolare sinistra, soprattutto a riposo, è scarsa o nulla. Meccanismi che contribuiscono a causare

dispnea nei pazienti con scompenso cardiaco sono l’insufficiente incremento della portata cardiaca sotto sforzo

con ipoperfusione dei muscoli scheletrici, che eseguono lo sforzo, ed ipoperfusione dei muscoli respiratori,

decondizionamento della muscolatura scheletrica, ridotta compliance polmonare, aumento della resistenza delle

vie aeree, eccessiva risposta ventilatoria allo sforzo.

Ortopnea. L’ortopnea viene definita come la comparsa di dispnea in posizione supina con sua regressione

sollevando la testa, in posizione seduta. Compare rapidamente, entro pochi minuti dall’assunzione della

posizione supina. E’ dovuta alla ridistribuzione del volume ematico, con aumento del ritorno venoso e del

precarico e congestione polmonare.

Dispnea parossistica notturna. Differentemente dall’ortopnea, essa compare durante il sonno, causando il

risveglio del paziente con una sensazione di soffocamento e fame d’aria. Questi sintomi spesso si riducono con

la posizione seduta, spesso sul bordo del letto. Obiettivamente, sono spesso presenti fischi espiratori da

broncospasmo per edema della mucosa bronchiale e compressione dei bronchioli per edema interstiziale.

Edema polmonare acuto (vedi Capitolo 20)

Astenia e affaticabilità. Astenia e facile affaticabilità sono secondari all’insufficiente incremento della portata

cardiaca sotto sforzo. La ridotta risposta vasodilatatrice periferica, le alterazioni biochimiche ed istologiche e

l’ipotrofia della muscolatura scheletrica sono altri meccanismi patogenetici. L’importanza relativa dei

meccanismi muscolari scheletrici, “periferici”, rispetto al meccanismo “centrale”, la riduzione della portata

cardiaca, varia da paziente a paziente.

Così come anche la dispnea, astenia ed affaticabilità sono sintomi non specifici, che possono essere causati da

numerose malattie non cardiovascolari.

Nicturia ed oliguria. La nicturia (eliminazione di urina prevalentemente nelle ore notturne), è dovuta

all’aumento di perfusione renale durante la notte, col decubito supino. L’oliguria è un sintomo delle fasi

avanzate dello scompenso cardiaco, secondario ad ipoperfusione renale.

Sintomi gastroenterici. L’aumento della pressione venosa sistemica, presente soprattutto quando vi è

disfunzione ventricolare destra, determina epatomegalia con conseguente distensione della capsula epatica e

dolenzia all’ipocondrio destro, talvolta descritta come tensione addominale e senso di pienezza dopo i pasti.

Questi pazienti possono avere anche anoressia, difficoltà digestive e nausea.

Sintomi cerebrali. L’ipoperfusione cerebrale cronica secondaria alla bassa portata cardiaca può causare

vertigini, cefalea, sonnolenza, insonnia o altri sintomi cerebrali. Questi sono più frequenti nei pazienti anziani

con coesistente aterosclerosi cerebrale.

Tabella 1 Classificazione della New York Heart Association (NYHA)

SEGNI CLINICI

La maggior parte dei segni clinici sono conseguenza della ritenzione idrico-salina. Alcuni di essi (stasi giugulare,

ritmo di galoppo) hanno un importante valore prognostico.

Aspetto generale. E’ normale nella maggior parte dei pazienti con scompenso cardiaco cronico;. nelle fasi più

avanzate di scompenso, tuttavia, il paziente potrà essere dispnoico a riposo e presentare ortopnea e segni di

attivazione adrenergica come cute pallida, fredda, sudata e cianotica.

Obiettività cardiaca. Il reperto di un terzo tono (galoppo proto diastolico) all’auscultazione è indicativo di un

aumento della pressione atriale sinistra con brusca decelerazione del sangue all’interno del ventricolo sinistro

immediatamente dopo la fase di riempimento rapido (vedi Capitolo 2). E’ molto raramente udibile in soggetti

normali adulti. Un soffio olosistolico da insufficienza mitralica e/o da insufficienza tricuspidale è spesso udibile.

In caso d’ipertensione polmonare si può anche evidenziare un’accentuazione della componente polmonare del

2° tono.

Polsi periferici. La pressione arteriosa sistolica e l’ampiezza dei polsi periferici, espressione della pressione

differenziale, tendono ad essere ridotte nei pazienti con scompenso cardiaco severo e bassa portata cardiaca.

Stasi polmonare. L’edema alveolare causa la comparsa di rantoli a piccole bolle, crepitanti. Questi si

evidenziano generalmente alle basi di entrambe i polmoni oppure, inizialmente, soltanto alla base destra. Nei

casi di maggiore gravità tendono ad estendersi verso gli apici fino ai reperti dell’edema polmonare.

Versamento pleurico. Anche questo si evidenzia ad entrambe le basi o, nei casi meno gravi, solo alla base

destra. Dato che le vene pleuriche drenano sia nelle vene polmonari che in quelle sistemiche, la sua comparsa è

frequente soprattutto nei casi d’ipertensione di entrambe questi distretti venosi.

Stasi giugulare. L’ispezione del polso venoso giugulare è il migliore metodo non strumentale per valutare la

presenza di ipertensione venosa sistemica. L’ispezione va eseguita dal lato destro del collo in quanto qui vena

giugulare interna ed anonima si continuano, in modo pressoché rettilineo, nella vena cava superiore, favorendo

la trasmissione delle onde sfigmiche originate dall’atrio destro. Per esaminare il polso giugulare, la testa del

paziente deve essere adagiata su un cuscino ed il tronco inclinato di 45° (vedi Capitolo 2).

Il reflusso epato-giugulare (distensione delle vene del collo dopo compressione per almeno un minuto in

ipocondrio destro) è segno di congestione epatica con, nello stesso tempo, incapacità del ventricolo destro a

ricevere ed eiettare l’ aumentato ritorno venoso.

Epatomegalia. E’ dovuta a congestione venosa epatica ed è apprezzabile alla palpazione e percussione

dell’ipocondrio destro.

Ascite. È un segno tardivo di grave ipertensione venosa sistemica, dovuto ad un aumento della pressione nelle

vene epatiche ed in quelle drenanti il peritoneo con possibile associato aumento della permeabilità dei capillari

peritoneali.

Edema. Gli edemi compaiono piuttosto tardivamente. Per avere la loro comparsa, si deve verificare l’accumulo

di almeno 4 litri di volume extracellulare in eccesso. Gli edemi dello scompenso cardiaco sono simmetrici e si

manifestano nelle parti declivi del corpo dove maggiore è la pressione idrostatica nei vasi venosi (piedi, caviglie,

zona pre-tibiale). Inizialmente, compaiono soprattutto alla sera, dopo che il paziente è rimasto in piedi durante

il giorno, e regrediscono con il riposo notturno. Nei pazienti costretti a letto compaiono a livello sacrale. Nelle

fasi avanzate l’edema tende a generalizzarsi (anasarca).

Cachessia cardiaca. Compare nelle fasi avanzate di scompenso ed è associata con una prognosi severa. La

genesi di tale fenomeno è multifattoriale: congestione epatica ed intestinale con malassorbimento intestinale

per grassi e proteine; aumentato metabolismo basale per maggiore lavoro respiratorio, aumento del consumo

miocardico di ossigeno; elevate concentrazioni plasmatiche di citochine.

ESAMI STRUMENTALI

Elettrocardiogramma. Un ECG normale non è frequente in un paziente con scompenso cardiaco cronico, ma

non esiste alcun quadro elettrocardiografico che indichi, di per sé, la presenza di scompenso; tuttavia un QRS

con durata >120 ms, specialmente associato a un blocco di branca sinistra, suggerisce la probabilità di una

disfunzione ventricolare .

Radiografia del torace. La radiografia del torace è utile nell’evidenziare cardiomegalia, congestione

polmonare ed eventuali patologie polmonari associate.

Esami di laboratorio. La valutazione di routine include: emocromo, elettroliti sierici, creatininemia, glicemia,

enzimi epatici ed esame delle urine. La funzione tiroidea può essere valutata se indicata in base ai reperti

clinici.

Gli esami ematochimici hanno un importante significato prognostico. L’anemia è presente in un 20-30% dei

pazienti,. ed è più frequente nei pazienti con scompenso cardiaco più grave . La sua patogenesi è

multifattoriale: insufficienza renale, terapia con ACE inibitori, attivazione infiammatoria cronica, etc.

L’iposodiemia è dovuta a dliluizione con ritenzione idrica maggiore di quella salina. E’ almeno parzialmente

dovuta ad aumentata secrezione di vasopressina. L’ipokaliemia può verificarsi come conseguenza della terapia

con diuretici dell’ansa o tiazidici, oltre che per aumentata secrezione di aldosterone. Va corretta in quanto

possibile causa di aritmie, anche fatali. L’iperkaliemia può svilupparsi per insufficienza renale e/o terapia con

antagonisti del sistema renina-angiotensina-aldosterone.

L’insufficienza renale con aumento della creatininemia ed azotemia è secondaria ad ipoperfusione renale. Può

essere favorita dalla terapia medica (diuretici, antiinfiammatori non steroidei, aspirina, antagonisti del sistema

renina-angiotensina-aldosterone).

Le concentrazioni plasmatiche di BNP e di NT-proBNP sono utili nella diagnosi di scompenso cardiaco.

Concentrazioni normali di peptici natriuretici in un paziente non trattato rendono la diagnosi di scompenso poco

probabile. Oltre allo scompenso cardiaco, altre condizioni cliniche, come l’ipertrofia ventricolare sinistra,

l’ischemia miocardica, l’ipertensione e l’embolia polmonare possono causare un rialzo dei livelli plasmatici di

peptici natriuretici.

Ecocardiografia Doppler. E’ la procedura diagnostica di prima scelta per documentare una disfunzione

cardiaca. Il parametro più importante di funzione ventricolare è la frazione d’eiezione ventricolare sinistra,

misurata dal rapporto fra la gittata sistolica e il volume telediastolico. In pratica, si sottrae dal volume

telediastolico il volume telesistolico, ottenendo la gittata sistolica, e si divide questa per il volume telediastolico.

La frazione di eiezione viene utilizzata per discriminare i pazienti con disfunzione ventricolare sinistra sistolica

da quelli con conservata funzione sistolica. L’aumento dei volumi telesistolico e telediastolico ventricolare

sinistro è un’altra caratteristica dei pazienti con scompenso cardiaco dovuto a disfunzione ventricolare sistolica.

La misurazione combinata del flusso trans-mitralico e della velocità di spostamento dell’anulus mitralico

mediante Eco-Doppler tessutale cardiaco permette una valutazione della severità della disfunzione diastolica

ventricolare sinistra. Più spesso, la funzione diastolica è valutata mediante lo studio del solo flusso trans

mitralico. I tre quadri di riempimento mitralico, alterato rilasciamento, pseudo-normale e restrittivo,

corrispondono rispettivamente, ad una disfunzione diastolica di grado lieve, moderato e grave (vedi capitolo 4).

Oltre allo studio della funzione ventricolare, l’eco-Doppler permette anche di evidenziare un’eventuale

insufficienza mitralica e/o tricuspidale, frequentemente presenti in questi pazienti, o anche altre alterazioni (es.

una stenosi aortica) che possono avere causato lo scompenso cardiaco.

Risonanza magnetica (RM) cardiaca. E’ una tecnica estremamente accurata e riproducibile per la

valutazione dei volumi ventricolari destro e sinistro, della funzione ventricolare sinistra globale e regionale, dello

spessore miocardico, della rigidità di parete, della massa miocardica e delle valvole cardiache (vedi Capitolo 7)..

E’ limitata dalla sua attuale non applicabilità ai portatori di pacemaker o di defibrillatore automatico.

Prove di funzionalità respiratoria. La spirometria è utile nell’escludere cause polmonari della dispnea e nel

valutare la gravità di una patologia polmonare concomitante.

Coronarografia. E’ indicata nei pazienti con concomitante angina, o, comunque, segni d’ischemia miocardica.

Test da sforzo cardiopolmonare. E’ utile per quantificare la severità della malattia e nella valutazione

prognostica. (vedi Capitolo 9)

PRINCIPI DI TERAPIA

Obiettivi. La terapia si propone di migliorare i sintomi e la qualità di vita e/o di migliorare la prognosi

(riduzione della mortalità e delle ospedalizzazioni). Un altro fondamentale obiettivo è la prevenzione della

disfunzione cardiaca nei pazienti a rischio (esiti d’infarto, ipertensione arteriosa, valvulopatie, diabete, etc) e la

prevenzione dello scompenso cardiaco conclamato (comparsa dei sintomi) nei pazienti con disfunzione cardiaca.

Il trattamento dello scompenso cardiaco cronico si basa su farmaci da somministrarsi per migliorare la prognosi

e farmaci volti al miglioramento dei sintomi. Alla prima categoria appartengono gli inibitori del sistema renina-

angiotensina-aldosterone ed i beta-bloccanti, alla seconda i diuretici e la digitale.

ACE inibitori. Gli ACE inibitori sono raccomandati come terapia di prima scelta nei pazienti con disfunzione

ventricolare sinistra sistolica, con o senza sintomi. L’indicazione a questi farmaci è basata su ampi studi

controllati con placebo che hanno dimostrato un miglioramento della sopravvivenza, sintomi, capacità

funzionale ed una riduzione delle ospedalizzazioni nei pazienti trattati con questi farmaci. I loro effetti favorevoli

sembrano essere principalmente ascrivibili al rallentamento, se non inibizione, dei fenomeni di rimodellamento

ventricolare sinistro ed, in minore misura, alla prevenzione di nuovi eventi ischemici e delle aritmie.

Beta-bloccanti. In assenza di controindicazioni, i beta-bloccanti devono essere somministrati a tutti i pazienti

con scompenso cardiaco cronico, in condizioni di stabilità clinica. La loro efficacia è stata dimostrata in pazienti

con scompenso cardiaco di grado lieve, moderato e severo (classe NYHA dalla II alla IV), dovuta a cardiopatia

ischemica o non-ischemica e con ridotta frazione d’eiezione ventricolare sinistra, già in trattamento con diuretici

e ACE inibitori, nonché in pazienti con disfunzione ventricolare sinistra postinfartuale, con o senza sintomi di

scompenso. In questi pazienti, gli studi clinici controllati hanno dimostrato una riduzione della mortalità,

ospedalizzazioni ed episodi di peggioramento dello scompenso cardiaco ed un miglioramento della classe

funzionale con la terapia beta-bloccante, rispetto al placebo.

Antialdosteronici. Gli antagonisti dell’aldosterone sono raccomandati, in aggiunta all’ACE-inibitore, al beta-

bloccante e al diuretico, nello scompenso cardiaco avanzato (NYHA III-IV) per migliorare la sopravvivenza,

morbilità e classe funzionale.

Bloccanti dei recettori dell’Angiotensina II. I bloccanti dei recettori dell’Angiotensina II hanno effetti simili

o equivalenti agli ACE inibitori sulla mortalità e sulla morbilità dei pazienti con scompenso cardiaco cronico e dei

pazienti con recente infarto. Possono essere quindi usati in alternativa agli ACE inibitori nei casi di intolleranza a

questi (tosse, edema angioneurotico). Hanno avuto anche effetti favorevoli sulle ospedalizzazioni e sulla

mortalità in associazione agli ACE inibitori in pazienti ancora sintomatici per scompenso.

Diuretici. I diuretici sono essenziali per il trattamento sintomatico dello scompenso cardiaco in presenza di

ritenzione idrica con congestione polmonare e/o congestione venosa giugulare e/o edemi declivi. Eccetto che

nelle forme di scompenso cardiaco lieve, in cui si possono impiegare anche i tiazidici, vanno preferiti i diuretici

dell’ansa (furosemide, torasemide, bumetanide). Vanno somministrati alle dosi minime necessarie per

mantenere il paziente libero da segni di ritenzione idrico-salina. La loro somministrazione favorisce l'attivazione

dei sistemi renina-angiotensina-aldosterone e simpatoadrenergico, il peggioramento della funzione renale ed

alterazioni elettrolitiche (ipokaliemia), tutti effetti potenzialmente dannosi per il paziente con scompenso

cardiaco.

I diuretici risparmiatori di potassio (amiloride, triamterene, spironolattone) possono essere associati agli altri

diuretici per il trattamento dell’ipokaliemia. Lo spironolattone ha altri effetti favorevoli indipendenti da quello

diuretico (vedi sopra).

Glucosidi digitalici. Sono indicati nei pazienti con fibrillazione atriale e scompenso cardiaco sintomatico. Nei

pazienti in ritmo sinusale la digossina non ha effetti sulla mortalità ma riduce le ospedalizzazioni, in particolare

quelle per scompenso cardiaco.

Altri farmaci. Altri farmaci frequentemente impiegati nei pazienti con scompenso cardiaco sono i nitrati, per il

trattamento dell’ischemia miocardica e migliorare i sintomi, gli anticoagulanti, specialmente nei pazienti con

concomitante fibrillazione atriale o precedenti episodi embolici, gli antiaggreganti piastrinici, nei casi con

cardiopatia ischemica, l’amiodarone, per il trattamento o profilassi delle tachiaritmie.

L’impianto del defibrillatore automatico e la terapia di resincronizzazione ventricolare con pacemaker

biventricolare sono indicati in pazienti selezionati.

Sezione V. Shock cardiogeno

Capitolo 22. Lo Shock Cardiogeno, Gian Paolo Trevi, Serena Bergerone, Claudio Chirio, Davide Castagno

DEFINIZIONE

Lo shock cardiogeno è una condizione di ipotensione arteriosa e inadeguata perfusione tissutale con

ipossia causata da disfunzione cardiaca, più frequentemente di natura ischemica, in presenza di un

adeguato volume intravascolare. Questa situazione di ipossia tissutale va distinta in una forma transitoria,

cui consegue il rapido ripristino di normali valori di pressione sistemica, chiamata collasso cardiocircolatorio,

e una forma che si protrae a lungo, con danni ipossici più marcati, che rappresenta lo shock cardiogeno vero

e proprio.

I criteri diagnostici per lo shock cardiogeno comprendono:

• pressione sistolica inferiore a 80 mm Hg per almeno 30 minuti, non incrementata dalla

somministrazione di liquidi endovena;

• segni di ipoperfusione (estremità fredde), alterato stato di coscienza, agitazione psico-motoria;

• diuresi oraria inferiore a 20 ml;

• indice cardiaco inferiore a 1,8 l/min/m2;

• pressioni di riempimento ventricolare sinistro elevate (pressione capillare polmonare > 18 mm Hg).

EPIDEMIOLOGIA

Lo shock cardiogeno rappresenta la causa più comune di morte per causa cardiovascolare dopo l’infarto

miocardico.

L’incidenza di shock cardiogeno negli anni precedenti la diffusione delle metodiche di rivascolarizzazione

(farmacologica e meccanica) era pari al 20% di tutti gli infarti miocardici acuti con sopraslivellamento del tratto

ST (STEMI). Dalle più recenti casistiche si stima che lo shock si verifichi oggi nel 7% dei pazienti con STEMI e

nel 3% dei pazienti con infarto miocardico acuto senza sopraslivellamento del tratto ST (NSTEMI).

Quando lo shock cardiogeno non è secondario ad un fattore modificabile (per esempio aritmie, bradicardia,

alterazioni meccaniche) la mortalità a breve termine è dell’80%.

EZIOLOGIA

Lo shock cardiogeno può essere dovuto alle seguenti condizioni (Tabella I):

• deficit di eiezione ventricolare: un deficit acuto della funzione ventricolare sistolica può derivare dalla

compromissione grave di una grande parte della massa miocardica. Tra le cause principali di questa

situazione va menzionato innanzitutto l’infarto esteso del miocardio; tuttavia, anche infarti miocardici di

piccole dimensioni, soprattutto quando si verificano in pazienti con preesistente compromissione del

ventricolo sinistro, possono evolvere in shock cardiogeno. Un deficit di eiezione può essere, peraltro,

sostenuto anche da aritmie ventricolari o da insufficienze valvolari ad insorgenza acuta;

• difetti di riempimento ventricolare: possono essere dovuti a:

• cause estrinseche, quali tamponamento cardiaco, pericardite costrittiva;

• cause intrinseche, quali trombi o mixomi atriali, embolia polmonare massiva, stenosi mitralica serrata.

Tabella 1 Cause dello shock cardiogeno

FISIOPATOLOGIA

La brusca riduzione della pressione sistolica al di sotto di 80 mm Hg induce la stimolazione dei barocettori (i

principali sono quelli del seno carotideo e del seno aortico), determinando:

• vasocostrizione delle arteriole e delle meta-arteriole attraverso una stimolazione del sistema

nervoso simpatico;

• aumento della frequenza cardiaca attraverso l’inibizione del sistema nervoso parasimpatico.

• La caduta della pressione sistemica induce:

• aumento della stimolazione dei chemocettori (i principali sono situati nell’arco aortico e alla

biforcazione delle carotidi), determinando:

• iperventilazione, per migliorare l’ossigenazione del sangue;

• tachicardia riflessa (il riflesso tachicardizzante è di origine polmonare, prodotto

dall’iperventilazione);

• aumento dei livelli di catecolamine circolanti, responsabili della vasocostrizione arteriosa e venosa;

• attivazione dell’asse renina-angiotensina-aldosterone, quale risposta renale all’ipoperfusione

sistemica, con conseguente ritenzione di sodio e di liquidi.

Tali risposte hanno come effetto l’aumento della pressione telediastolica e dei volumi del ventricolo sinistro.

Sebbene ciò compensi parzialmente la riduzione della funzione ventricolare sinistra, un’elevata pressione

telediastolica del ventricolo sinistro determina edema polmonare, con alterazione degli scambi gassosi

polmonari. La conseguente acidosi respiratoria aumenta ulteriormente l’ischemia miocardica, la disfunzione

ventricolare sinistra e la trombosi intravascolare (Figura 1).

Figura 1 Meccanismi di compenso nello shock cardiogeno

Se la causa che ha provocato il collasso cardiocircolatorio è reversibile e agisce per breve tempo, la crisi può

risolversi con il ripristino di normali valori di pressione sistemica. Quando, invece, questa reazione

compensatoria è insufficiente a far fronte all’ipotensione, si innesca una spirale discendente che conduce,

attraverso il perpetuarsi di una condizione di ischemia miocardica, ad un progressivo peggioramento della

funzione cardiaca, fino alla morte (Figura 2).

Figura 2 Il circolo vizioso dello shock cardiogeno

In caso di shock cardiogeno secondario a infarto miocardico acuto, le porzioni di miocardio non ischemiche

diventano ipercontrattili ed aumentano il loro consumo di ossigeno. Le conseguenze di questa risposta

dipendono dall’estensione del danno e dal precedente stato del miocardio, dalla gravità della patologia

coronarica sottostante, dalla presenza di altre patologie valvolari.

Si possono verificare tre condizioni:

• compenso: ripristino della normale pressione arteriosa e normale pressione di perfusione miocardica

• compenso parziale: stato di pre-shock con portata cardiaca e pressione arteriosa moderatamente ridotte

e conseguente aumento della frequenza cardiaca ed elevata pressione telediastolica ventricolare sinistra

• shock: si sviluppa rapidamente e determina una marcata ipotensione e peggioramento dell’ischemia

miocardica globale. Senza un’immediata riperfusione, i pazienti in questa condizione presentano una

limitata possibilità di sopravvivenza.

SINTOMI E SEGNI CLINICI

A fronte di un elevato numero di segni clinici, lo shock cardiogeno può teoricamente manifestarsi in assenza di

sintomi avvertiti dal paziente; quando questi sono presenti, si tratta per lo più dei sintomi di un infarto

miocardico acuto (dolore toracico, dispnea, cardiopalmo, nausea, vomito, astenia).

Il paziente in shock cardiogeno presenta solitamente alterazioni dello stato di coscienza, come risultato della

ridotta perfusione cerebrale; altri segni di ipoperfusione d’organo conseguenti alla ridotta gittata cardiaca sono

la contrazione della diuresi, l’insufficienza epatica, la cianosi, la marezzatura delle estremità. Queste alterazioni

cliniche di shock conclamato non si manifestano abitualmente sino a che l’indice cardiaco (cioè la gittata

cardiaca rapportata alla superficie corporea) non scende sotto il valore di 2,2 l/min/m2.

L’esame obiettivo mostra cute pallida ipotermica e sudata, distensione giugulare, aumentata frequenza

cardiaca. Il polso arterioso è iposfigmico, irregolare in presenza di aritmie; un polso paradosso compare se la

causa dello shock è il tamponamento cardiaco (vedi Capitoli 2 e 32). L’ascoltazione del torace rivela rantoli se è

presente edema polmonare alveolare.

L’obiettività cardiaca presenta spesso un ritmo di galoppo (terzo e/o quarto tono); se lo shock cardiogeno

deriva dalle complicanze meccaniche di un infarto miocardico, possono essere udibili anche i soffi da

insufficienza mitralica (vedi Capitolo 15) o da difetto del setto interventricolare.

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

Per la diagnosi di shock cardiogeno è necessario confermare la presenza di disfunzione cardiaca o di eventuali

ostacoli meccanici al riempimento ventricolare (per esempio tamponamento cardiaco, pericardite costrittiva,

trombi o mixomi striali, embolia polmonare massiva, stenosi mitralica serrata). E’ altresì importante escludere

altre potenziali cause di grave ipotensione come l’ipovolemia, l’emorragia e la sepsi.

L’iter diagnostico, partendo dall’anamnesi e dall’esame obiettivo del paziente, procede considerando i seguenti

esami diagnostici:

Elettrocardiogramma:

Può mostrare segni di infarto miocardico acuto o di precedenti cardiopatie, o mettere in luce aritmie. Un

ECG normale, tuttavia, non esclude la diagnosi di shock cardiogeno.

Radiografia del torace

E’ utile nel valutare le dimensioni cardiache, la presenza di congestione polmonare o di altre eventuali

patologie polmonari. Fornisce inoltre una stima approssimativa delle dimensioni del mediastino e della

radice aortica, utili per escludere una dissezione dell’aorta.

Esami ematochimici

La determinazione dei marker di necrosi miocardica può essere fondamentale per diagnosticare un infarto

miocardico acuto quale causa di shock cardiogeno nei casi in cui il tracciato elettrocardiografico non sia

interpretabile. E’ anche utile misurare la concentrazione dei gas ematici nel sangue arterioso

(emogasanalisi arteriosa), dal momento che la presenza di acidosi può avere effetti particolarmente

dannosi sul miocardio.

Ecocardiogramma

Permette di ottenere informazioni circa la funzione sistolica globale e segmentaria dei ventricoli e consente

di giungere rapidamente al riconoscimento delle cause meccaniche di shock, quali rottura di un muscolo

papillare con insufficienza mitralica acuta, rottura acuta del setto interventricolare o della parete libera

ventricolare con tamponamento cardiaco, malfunzionamento di apparati valvolari protesici.

Monitoraggio invasivo e cateterismo cardiaco destro.

L’incannulamento di un’arteria permette il monitoraggio invasivo della pressione arteriosa, mentre quello di

una vena, incuneando un catetere (catetere di Swan-Ganz, vedi Capitolo 11) a livello dei capillari

polmonari, permette di ottenere parametri emodinamici fondamentali per la diagnosi, quali la portata

cardiaca e le pressioni di riempimento ventricolare.

GESTIONE INIZIALE DEL PAZIENTE

Il trattamento dello shock cardiogeno ha innanzitutto lo scopo di migliorare la funzione cardiaca. L’approccio

iniziale al paziente con shock cardiogeno dovrebbe includere:

1) Gestione delle vie aeree

Il paziente in stato di shock ha spesso un diminuito livello di coscienza che lo rende incapace di proteggere

adeguatamente le proprie vie aeree e di provvedere spontaneamente alla respirazione. In questi casi

l’intubazione endotracheale e la ventilazione meccanica sono provvedimenti obbligati. Se il paziente è ancora in

grado di ventilare in maniera adeguata è comunque indispensabile fornirgli ossigeno ad alti flussi, utilizzando

maschere, per avvicinarsi quanto più possibile al 100% di ossigeno inspirato.

2) Reperimento di un accesso venoso

Può essere un accesso venoso periferico o, meglio, un accesso venoso centrale (vena femorale, giugulare o

succlavia). Attraverso questa via possono essere somministrati liquidi e farmaci. L’introduzione dei fluidi deve

essere effettuata con attenzione, in modo da assicurare un adeguato precarico e ottimizzare la funzione

ventricolare (specialmente in presenza di infarto ventricolare destro), evitando l’eccessiva somministrazione di

liquidi, che potrebbe condurre all’edema polmonare.

3) Monitoraggio elettrocardiografico

Tachicardie e blocchi atrioventricolari possono ridurre in maniera significativa la gittata cardiaca. Il loro

tempestivo riconoscimento e trattamento è un elemento di estrema importanza.

4) Monitoraggio emodinamico

Consente il controllo continuo della pressione di riempimento (pressione diastolica ventricolare sinistra)

attraverso la misurazione della pressione atriale sinistra “indiretta”, ottenibile mediante misurazione della

pressione polmonare con catetere di Swan Ganz (vedi Capitolo 11).

5)Posizionamento di un catetere vescicale

E’ di estrema importanza il monitoraggio della diuresi oraria, essendo la contrazione della diuresi uno dei primi

segni di bassa portata cardiaca.

CENNI DI TERAPIA

Terapia farmacologica

• Morfina: nell’infarto miocardico può alleviare l'intenso dolore toracico, contribuire a ridurre gli elevati

livelli di catecolamine circolanti e diminuire il precarico e il postcarico. La risposta deve essere

attentamente monitorata perché la morfina causa depressione respiratoria, provoca dilatazione venosa e

può ridurre la pressione arteriosa.

• Agenti inotropi: se la pressione arteriosa sistemica è inferiore a 80-90 mm Hg, è necessario infondere un

agente pressorio come la dopamina. A dosi relativamente basse, 2-5 µg/kg per minuto, il farmaco induce

aumento della gittata sistolica e della gittata cardiaca, mediato dalla stimolazione ß-adrenergica, e

incremento del flusso renale mediato da recettori specifici dopaminergici. Gli effetti vasocostrittori a-

adrenergici si manifestano a dosi superiori ai 5 µg/kg per minuto.

Se si rendono necessarie alte dosi di dopamina per mantenere una perfusione adeguata, si deve prendere in

considerazione il passaggio all’infusione di noradrenalina. Questo farmaco è un potente costrittore arteriolare e

venoso, la cui azione è mediata attraverso una stimolazione a-adrenergica, mentre la stimolazione ß-

adrenergica è relativamente modesta.

Quando la pressione arteriosa sistemica è 90 mm Hg o superiore, il farmaco di scelta è la dobutamina, che può

produrre un aumento della pressione sistemica attraverso l’incremento della gittata cardiaca.

• Vasodilatatori: visto che questi farmaci riducono la pressione arteriosa, il loro impiego deve essere

associato a quello di un agente inotropo. Il farmaco principalmente utilizzato è il nitroprussiato di sodio,

il quale riduce sia il precarico che il postcarico del ventricolo sinistro.

• Diuretici: il loro impiego è riservato ai casi di shock cardiogeno con edema polmonare acuto. I diuretici

più utilizzati sono quelli dell’ansa (per esempio, furosemide), associati ai risparmiatori di potassio (per

esempio, spironolattone).

Supporto meccanico

La stabilizzazione del paziente in shock cardiogeno può essere ottenuta mediante un supporto circolatorio

meccanico, cioè con l’impiego del contropulsatore aortico. Questo consiste in un palloncino montato su un

catetere vascolare e collegato tramite un tubo ad una consolle di comando che è in grado di monitorizzare l'ECG

e la curva di pressione arteriosa, sincronizzando l'insufflazione e la desufflazione del palloncino con il ciclo

cardiaco. Il catetere viene inserito per via percutanea attraverso l'arteria femorale, e la sua punta è posizionata

in aorta discendente 1-2 centimetri sotto l'emergenza della arteria succlavia di sinistra e sopra l'origine delle

arterie renali (Figura 3).

Il gonfiaggio del pallone del contropulsatore avviene precocemente in diastole, determinando un notevole

aumento della pressione aortica diastolica fin quasi ai livelli della pressione aortica sistolica, e aumentando di

conseguenza il flusso sanguigno coronarico. Inoltre, lo sgonfiaggio del pallone all’inizio della sistole riduce la

pressione aortica, con conseguente diminuzione del consumo di ossigeno da parte del miocardio e delle

resistenze periferiche (postcarico). La contropulsazione aortica è generalmente riservata ai pazienti in shock

cardiogeno dovuto a una condizione potenzialmente reversibile, o nei quali si prenda in considerazione il

trapianto cardiaco (Tabella II). Tali condizioni comprendono l’infarto miocardico ancora in evoluzione e l’infarto

associato a una grave complicanza meccanica (insufficienza mitralica o difetto del setto interventricolare).

In caso di shock cardiogeno secondario a infarto miocardico acuto, il ripristino del flusso ematico coronarico è la

terapia più efficace per salvare i pazienti che non rispondono all’infusione di liquidi o al trattamento

farmacologico. Le possibilità comprendono l’angioplastica e il by-pass aorto-coronarico. Nei casi in cui, invece,

lo shock cardiogeno è causato da una complicanza meccanica dell’infarto miocardico, la terapia chirurgica di

riparazione della lesione e/o sostituzione valvolare è la sola strada percorribile.

Tabella 2 Impiego del contropulsatore aortico.

Sezione VI. Cardiopatia Ischemica

Capitolo 23. Fisiopatologia dell’Ischemia Miocardica, Filippo Crea, Gaetano A. Lanza

METABOLISMO DELLE CELLULE MIOCARDICHE

Per svolgere la loro funzione contrattile, le cellule miocardiche necessitano di un apporto continuo di ossigeno. Il

loro metabolismo, infatti, è prettamente aerobico e già di base comporta l’estrazione di circa il 70%

dell'ossigeno dal sangue durante il suo passaggio nel circolo coronarico. Ne deriva che un aumento significativo

della richiesta di ossigeno può essere soddisfatto solo da un adeguato incremento del flusso coronarico.

Poiché la maggior parte dell’energia richiesta dalle cellule miocardiche è impiegata nel processo di contrazione,

la frequenza cardiaca (FC) costituisce il fattore principale del consumo miocardico di ossigeno. Di fatto, un

raddoppio della sola FC (ad esempio, durante pacing atriale) comporta un raddoppio del consumo miocardico di

ossigeno.

Altri fattori che influenzano in modo significativo il consumo miocardico di ossigeno sono la pressione arteriosa

(PA, postcarico), la pressione e il volume ventricolare in diastole (precarico) e l’inotropismo cardiaco.

Durante esercizio, l’incremento della FC, della PA, dell’inotropismo cardiaco e del ritorno venoso (precarico)

contribuiscono tutti ad aumentare il consumo miocardico di ossigeno, e quindi la richiesta di un aumento del

flusso coronarico. Mentre la misurazione precisa del consumo miocardico di ossigeno richiederebbe metodi

invasivi, una valutazione non invasiva approssimata, ma attendibile, è data dal prodotto FC x PA sistolica

(doppio prodotto), largamente utilizzato nella pratica clinica per stimare il consumo miocardico di ossigeno, in

particolare il suo incremento durante sforzo.

LA CIRCOLAZIONE ARTERIOSA CORONARICA

Dal punto di vista fisiologico, la circolazione arteriosa coronarica può essere distinta in tre principali

compartimenti, collegati in serie (Figura 3).

Il compartimento prossimale è costituto dalle arterie di capacitanza epicardiche, che hanno funzione conduttiva

e non oppongono resistenza significativa al flusso, per cui la pressione rimane sostanzialmente costante lungo il

loro decorso. Durante la contrazione miocardica il sangue viene spinto in senso retrogrado dai vasi

intramiocardici verso i vasi epicardici, il cui contenuto aumenta quindi di circa il 25%. L'energia elastica

accumulata durante la sistole si trasforma in energia cinetica durante la diastole, contribuendo a garantire un

adeguato flusso coronarico in questa fase. Le arterie coronarie di conduttanza modificano il loro tono in risposta

a variazioni di flusso, il cui aumento causa una dilatazione endotelio-dipendente dei vasi, e per effetto di

sostanze vasoattive locali o circolanti e di stimoli neurogeni.

I vasi distali sono vasi di resistenza ed hanno dimensioni inferiori a 0.5 mm. Per le loro dimensioni, questi vasi

non sono visibili all’angiografia coronarica e costituiscono la vasta area del microcircolo coronarico. Dal punto di

vista funzionale, le piccole arterie cardiache possono essere divise in due distretti, uno prossimale,

rappresentato dalle prearteriole, ed uno distale, rappresentato dalle arteriole.

Le prearteriole hanno dimensioni di 100-500 µm e contribuiscono per il 25-30% alla resistenza coronarica

totale. La loro funzione principale è di mantenere la pressione di perfusione all'origine delle arteriole a livelli

ottimali. A tale scopo vanno incontro a vasocostrizione miogena in presenza di un aumento, e a vasodilatazione

in caso di riduzione, della pressione arteriosa sistemica.

Le arteriole hanno dimensioni <100 µm di diametro e contribuiscono per il 40% circa alla resistenza

coronarica. Esse sono la sede della regolazione metabolica del flusso coronarico. Per la loro posizione, infatti,

esse risentono dell’attività metabolica delle cellule miocardiche, modificando il loro tono vasale in modo da

adattare il flusso coronarico alle richieste energetiche. Così, le arteriole si dilatano in caso di un aumento del

metabolismo cardiaco, che comporta un’aumentata richiesta di ossigeno, consentendo un adeguato aumento di

flusso. Nei casi di maggiore richiesta di ossigeno miocardico, la riduzione massimale della resistenza coronarica

consente un aumento anche di 4-5 volte del flusso coronarico, e quindi dell’apporto di ossigeno, come nel caso

di sforzi intensi. La capacità di aumento massimale del flusso coronarico rispetto al basale costituisce la

cosiddetta riserva coronarica (che è espressa matematicamente come rapporto tra flusso durante

vasodilatazione massimale e flusso basale). Oltre che dallo stato metabolico delle cellule miocardiche,

comunque, il tono delle arteriole è anch’esso modulato da fattori autacoidi locali, da sostanze vasoattive

circolanti e da stimoli neurogeni.

Figura 3 Schema dei vasi che compongono la

circolazione arteriosa coronarica (in alto) e loro

effetto sulla pressione arteriosa di perfusione (in

basso). La caduta di pressione (e quindi la

resistenza) è massima nelle arteriole, mentre i vasi

di conduttanza, in condizioni normali, non offrono

resistenza apprezzabile al flusso. Le prearteriole

offrono una resistenza significativa al flusso, anche

se minore di quella delle arteriole. La differenza tra

prearteriole ed arteriole, oltre che nelle dimensioni,

risiede nel fatto che solo le ultime sono a contatto

con le cellule miocardiche e sono, quindi,

influenzate dai metaboliti miocardici.

CONTROLLO DEL FLUSSO CORONARICO

Diversi fattori contribuiscono alla complessa regolazione del flusso coronarico.

Forze meccaniche extravascolari

Una caratteristica esclusiva del cuore è che esso stesso genera la pressione di perfusione del suo sistema

arterioso. Durante la sistole le forze extravascolari intramiocardiche superano quella intravascolari: i vasi

intramiocardici vengono, quindi, occlusi e il sangue in parte addirittura espulso verso i vasi epicardici. Il flusso

anterogrado è quindi praticamente abolito durante la sistole, soprattutto negli strati subendocardici, che

ricevono quindi sangue esclusivamente in diastole (Figura 4).

Regolazione del tono vascolare coronarico

I fattori che contribuiscono a regolare il tono vascolare coronarico, e quindi il flusso coronarico, sono numerosi e

possono variare nei diversi compartimenti arteriosi.

a) La regolazione miogenica fa sì che il tono vasale arterioso aumenti quando la pressione arteriosa aumenta,

mentre si riduce quando la pressione decresce, ed ha, quindi, lo scopo di mantenere costante il flusso in

proporzione alle variazioni della pressione di distensione del vaso. Essa sembra esplicarsi soprattutto nelle

prearteriole.

b) La regolazione metabolica del tono vascolare avviene a livello delle arteriole. L’aumento della domanda di

ossigeno causa il rilascio, da parte dei miocardiociti, di sostanze vasodilatatrici che determinano dilatazione

arteriolare, consentendo così l’aumento del flusso. Tra le sostanze implicate nella regolazione del flusso

coronarico, un ruolo rilevante sembra essere svolto dall'adenosina, che, con l'aumento del metabolismo

energetico, viene prodotta in maggiori quantità dai miocardiociti, in seguito alla maggiore scissione delle

molecole di adenosin trifosfato (ATP). L’adenosina agisce sui recettori adenosinici A2 delle cellule muscolari lisce

vascolari, attivando l'adenilato-ciclasi intracellulare, che determina la produzione di AMP ciclico. Altri fattori,

tuttavia, possono contribuire alla vasodilatazione metabolica (pressione tissutale di ossigeno, pH,

concentrazione di potassio, pressione osmotica, attivazione dei canali ATP-sensibili del potassio, bradichinina).

L'aumento del flusso conseguente alla vasodilatazione arteriolare può continuare ad essere garantito grazie

anche alla vasodilatazione flusso-mediata, in larga parte endotelio-dipendente, che si determina nei vasi

prossimali, in particolare nelle pre-arteriole, come conseguenza dell’aumento della velocità di flusso.

c) La regolazione neurogenica del tono vasale è dovuta agli effetti esplicati sui vasi dal sistema nervoso

autonomo simpatico e parasimpatico.

La stimolazione simpatica causa un aumento del tono vasomotore e della resistenza coronarica tramite

stimolazione dei recettori 1 2 da parte della noradrenalina. Un -tono sembra presente già in condizioni di

riposo, in quanto la somministrazione di -bloccanti causa un aumento di circa il 10% del flusso coronarico

basale. D’altro canto, la stimolazione dei recettori ß1 e ß2 determina una vasodilatazione, con riduzione del 20-

30% della resistenza coronarica. L’effetto complessivo della stimolazione adrenergica in vivo (ad esempio,

durante uno sforzo) è comunque quello di un aumento del flusso coronarico. Ciò è soprattutto secondario

all'aumento del consumo miocardico di ossigeno che essa determina, con conseguente vasodilatazione

metabolica.

Il ruolo del sistema nervoso parasimpatico nella regolazione del circolo coronarico non è completamente chiaro:

in vivo la stimolazione vagale tende a determinare un aumento del tono vasomotore, soprattutto come effetto

secondario alla bradicardia ed alla conseguente riduzione del consumo miocardico di ossigeno.

d) Un ruolo molto importante è svolto dalla regolazione endotelio-mediata del circolo coronarico, diventata

evidente in anni recenti. Molti studi hanno infatti dimostrato che l'endotelio può essere considerato come un

vero e proprio organo endocrino, in grado di produrre numerose sostanze, alcune delle quali svolgono un ruolo

cruciale nella regolazione del flusso sanguigno (vedi Capitolo 47).

Le principali sostanze prodotte dall’endotelio hanno anzitutto attività vasodilatatrice, e comprendono

l'endothelium-derived relaxing factor (EDRF), la prostaciclina (PGI2) e l'endothelium-derived hyperpolarizing

factor (EDHF) (Figura 5, Figura 6).

L'EDRF ha emivita breve (5 secondi) ed è stato identificato con l'ossido nitrico (NO). Esso agisce attivando la

guanilato-ciclasi delle cellule muscolari lisce, che risulta nella fomazione di guanosin-monofosfato ciclico

(cGMP). L’EDRF sembra avere un ruolo nel determinare il tono vascolare basale; la somministrazione

dell’inibitore NG-monometil-L-arginina, infatti, riduce il flusso ematico a vari livelli. Molte sostanze vasoattive

(ad esempio, acetilcolina, serotonina, bradichinina) esercitano il loro effetto vasodilatatore determinando il

rilascio di EDRF da parte delle cellule endoteliali (vasodilatazione endotelio-mediata). L'EDRF, inoltre, sembra

essere la sostanza principalmente responsabile della vasodilatazione che si ottiene in risposta all'aumento del

flusso coronarico (vasodilatazione flusso-mediata).

La PGI2 è una prostaglandina, derivata dall'acido arachidonico. Ha anch’essa emivita breve (10 secondi) ed è

rilasciata in risposta alla pressione pulsatile e a diverse sostanze (ad esempio., bradichinina, trombina,

serotonina). Sembra contribuire anch'essa al tono vasale basale e alla vasodilatazione flusso mediata.

L'EDHF non è stato ancora ben identificato chimicamente; probabilmente deriva anch'esso dall'acido

arachidonico ed ha emivita breve. Dati sperimentali suggeriscono che esso causi vasodilatazione mediante

apertura dei canali del potassio e conseguente iperpolarizzazione delle cellule muscolari lisce. Sembra venire

anch'esso rilasciato in risposta allo shear stress ed al flusso pulsatile, oltre che a diverse sostanze (ad es.,

acetilcolina, sostanza P, bradichinina, CGRP).

Le cellule endoteliali, tuttavia, sintetizzano anche sostanze vasocostrittrici, in particolare l'endotelina-1 (ET-1),

l'angiotensina II, l'endothelium-derived contracting factor (EDCF) e la prostaglandina H2, oltre ai radicali liberi

dell'ossigeno (Figura 5, Figura 6). Se queste sostanze abbiano un qualche ruolo nella regolazione fisiologica

del circolo coronarico non è chiaro. Viceversa, l’attività vasocostrittrice dell’endotelio (attivazione dell’endotelio)

può aumentare in alcune condizioni patologiche (per esempio, ipertensione arteriosa, diabete, aterosclerosi,

ischemia miocardia, scompenso cardiaco), contribuendo ai loro effetti negativi.

L’ET-1, in particolare, è il più potente vasocostrittore conosciuto nell'uomo, agisce su due tipi di recettori

principali, ETA ed ETB. L’azione vasocostrittrice è svolta mediante stimolazione dei recettori ETA sulle cellule

muscolari lisce. La stimolazione di recettori ETB sulle cellule endoteliali, d’altro canto, induce rilascio di NO ed

inibisce quello di ET-1, tendendo a contrastare così gli effetti vasocostrittori dell’ET-1.

Figura 5 Funzioni vasomotorie dell’endotelio. In condizioni normali (A) l’endotelio ha prevalente azione

vasodilatatrice, grazie alla sintesi di tre principali sostanze (NO, PGI2, EDHF) in grado di determinare

rilasciamento della muscolatura liscia vasale in risposta a vari tipi di stimoli neuro-umorali e anche fisici. In

condizioni patologiche o in presenza di insulti in grado di causare un danno endoteliale (B), le cellule endoteliali

possono mostrare una riduzione della capacità di produrre sostanze vasodilatatrici e possono anche essere

indotte a sintetizzare e rilasciare prevalentemente sostanze vasocostrittrici (cosiddetta attivazione

dell’endotelio).

Figura 6 Oltre che per la funzione vasomotoria, l’endotelio normale (A) ha un ruolo fondamentale nel

mantenimento della fluidità del sangue, impedendo l’attivazione del sistema della coagulazione. Ciò avviene

grazie alla sua carica elettrica superficiale negativa e al rilascio di sostanze antiaggreganti (NO, PGI2),

anticoagulanti (eparan solfato, trombomodulina) e profibrinolitiche (t-PA e u-PA). In condizioni patologiche o in

presenza di fattori in grado di danneggiarlo (B), l’endotelio può perdere queste funzioni ed esprimere recettori

di superficie di adesione per leucociti e piastrine, oltre che produrre sostanze in grado di facilitare, in vario

modo, la coagulazione, come il tissue factor, l’endotelina-1 e l’inibitore dell’attivatore tissutale del plasminogeno

(PAI-I).

Integrità della parete vasale

Lo svolgimento di un normale flusso coronarico comporta l’integrità della parete vasale. Ancora una volta, è

soprattutto l'endotelio a garantire questa integrità. Esso, infatti, previene la diffusione di sostanze aterogene

nella parete arteriosa, produce costituenti della lamina basale e della matrice extracellulare dell'intima (che

possono riparare danni vasali), ed inibisce la crescita e la migrazione cellulare mediante la sintesi di eparan-

solfato ed NO (Figura 6). L'endotelio ha inoltre un ruolo chiave nel preservare la fluidità del sangue, in quanto

il suo rivestimento interno con proteoglicani forma una barriera elettronegativa che previene l'adesione delle

piastrine e delle altre cellule circolanti. La sintesi di NO e PGI2, inoltre, ostacola l'adesione e l'aggregazione

piastrinica. Infine, le cellule endoteliali secernono diverse sostanze con attività anticoagulante, come l'eparan-

solfato, che catalizza l'inattivazione della trombina da parte dell'antitrombina III, e la trombomodulina, che si

lega a trombina e proteina C, e sostanze in grado di attivare il plasminogeno, e quindi la fibrinolisi, come lo

urokinase type plasminogen activator (u-PA) ed il tissue type plasminogen activator (t-PA).

DEFINIZIONE

L’ischemia miocardica si verifica quando il flusso coronarico risulta inadeguato a soddisfare le richieste di

ossigeno e sostanze metaboliche necessarie alle cellule miocardiche per svolgere le proprie funzioni. Quando

sufficientemente grave e prolungata, l’ischemia determina la necrosi delle cellule stesse. Questa, in caso di

occlusione acuta di un vaso coronarico, interessa progressivamente prima gli strati subendocardici, più sensibili

al danno ischemico (vedi più avanti) e solo più tardivamente quelli subepicardici.

L’ischemia miocardica può essere causata da due principali meccanismi, che possono, tuttavia, combinarsi tra

loro nel determinare gli episodi ischemici: (1) impossibilità di aumentare in modo adeguato il flusso coronarico

per soddisfare un aumento della domanda miocardica di ossigeno, in genere a causa della presenza di una

stenosi coronarica, e (2) riduzione primaria del flusso coronarico, dovuta a vasocostrizione, spasmo o trombosi

coronarica.

STENOSI CORONARICHE EPICARDICHE

Le stenosi coronariche epicardiche, causate da placche aterosclerotiche, sono il substrato più frequente

dell’ischemia miocardica. Una stenosi coronarica è emodinamicamente significativa quando è in grado di

opporre, già a riposo, una resistenza al flusso ematico, tale da determinare una caduta della pressione a valle.

Ciò comincia a verificarsi, in genere, quando il diametro del lume viene ridotto del 50%. Oltre questa riduzione

critica, ogni ulteriore aumento della stenosi causa una sempre maggiore riduzione della pressione a valle, con

una relazione di tipo esponenziale. La relazione tra caduta pressoria e flusso a livello di una stenosi, tuttavia,

non è semplicemente lineare, essendo la riduzione del flusso superiore a quella predetta dalla riduzione della

pressione (Figura 7).

Figura 7 Relazione tra incremento di flusso e caduta

della pressione di perfusione a livello di una stenosi

coronarica di varia entità. Una caduta della pressione

arteriosa, per quanto piccola, comincia ad apprezzarsi

a livello di una stenosi quando essa riduce il diametro

del lume vasale del 50% circa, ed aumenta con

l’aumentare dell’entità dell’ostruzione. Con l’aumento

del flusso, la caduta della pressione a livello della

stenosi aumenta in modo tanto maggiore quanto

maggiore è la gravità dell’ostruzione. La relazione

attesa tra flusso e caduta pressoria è lineare (linee

tratteggiate). In pratica, tuttavia, la caduta pressoria è

maggiore di quella attesa con l’aumento del flusso

(linee continue), a causa della sempre maggiore

turbolenza che si crea a livello della stenosi, che

determina una perdita di energia sempre più alta.

Poiché la pressione di perfusione è il principale determinante del flusso, la sua riduzione a valle di una stenosi

tende a ridurre il flusso. In condizioni basali, tuttavia, in corrispondenza di una stenosi non si osserva riduzione

del flusso coronarico, in quanto la caduta della pressione è compensata dalla riduzione della resistenza

coronarica a valle, come conseguenza della dilatazione delle arteriole coronariche. Questa vasodilatazione

compensatoria, tuttavia, riduce la riserva coronarica, vale a dire la capacità di aumento massimo del flusso in

risposta all’aumento del fabbisogno metabolico del miocardio. Il livello di lavoro cardiaco oltre il quale non è più

possibile incrementare il flusso per soddisfare le richieste metaboliche, per cui si sviluppa ischemia, è definito

soglia ischemica.

L'ischemia miocardica da discrepanza che si sviluppa in un paziente è tipicamente limitata agli strati

subendocardici, che, per varie ragioni, presentano una minore riserva coronarica, e sono quindi più suscettibili

all’ischemia, rispetto agli strati subepicardici. Infatti, il consumo di ossigeno delle cellule subendocardiche è di

base maggiore di quello delle cellule subepicardiche, a causa del maggiore stress sistolico parietale cui sono

soggette. Come risultato, il flusso subendocardico è di base del 15-20% superiore a quello subepicardico,

nonostante sia sottoposto a maggiori forze compressive extramurali, con conseguente minore capacità di

incremento relativo durante aumento della domanda di ossigeno (Figura 8).

Oltre queste condizioni sfavorevoli, altri fattori, in presenza di una stenosi, possono contribuire a facilitare

l'ischemia subendocardica in caso di aumento del lavoro cardiaco, come l’accorciamento della diastole (durante

una tachicardia) e un aumento ulteriore delle forze extravascolari (per esempio, in caso di aumento della

pressione telediastolica ventricolare sinistra).

Un meccanismo particolare di ischemia miocardica è costituito dal furto coronarico transmurale, che si verifica

quando, in presenza di un vaso con una stenosi, in genere molto critica, il flusso ematico si ridistribuisce dal

subendocardio al subepicardio come conseguenza della vasodilatazione massimale dei vasi di resistenza

subepicardici. Infatti, poiché la riserva coronarica subendocardica e’ inferiore a quella subepicardica, una volta

che la riserva subendocardica si esaurisce (per vasodilatazione massimale dei vasi subendocardici), un’ulteriore

vasodilatazione epicardica comporterà un’ulteriore caduta della pressione post-stenotica, con conseguente

riduzione della perfusione subendocardica, che diventera’ insufficiente per le richieste metaboliche del

subendocardio (Figura 9).

Figura 9 Fenomeno del furto coronarico transmurale (vedi anche il testo per la descrizione). A) In presenza di

una stenosi significativa di un vaso epicardico la pressione distale alla stenosi (P2) è ridotta, e questo induce

una vasodilatazione arteriolare significativa a livello endocardico (Endo), al fine di garantire un flusso ematico

sufficiente; ciò causa, però, una riduzione della riserva coronarica subendocardica. B) Uno stimolo

vasodilatatore arteriolare moderato determina un moderato aumento del flusso coronarico (Q), ma con ulteriore

riduzione della pressione distale alla stenosi e vasodilatazione arteriolare massimale a livello subendocardico; il

flusso subendocardico, in queste condizioni, può essere mantenuto grazie alla limitata dilatazione arteriolare

epicardica. C) Uno stimolo vasodilatatore arteriolare più intenso tende a determinare un ulteriore aumento del

flusso coronarico (Q), ma con un’ulteriore riduzione della pressione distale alla stenosi e vasodilatazione

arteriolare massimale anche a livello subepicardico; ciò comporta una diversione importante del flusso (furto)

verso il subepicardio, dove la pressione extravasale è inferiore, creando così una riduzione del flusso ed

un’ischemia a livello del subendocardio.

Nella pratica clinica l’importanza emodinamica di una stenosi è in genere valutata all’angiografia coronarica

visivamente o usando metodi di misurazione quantitativa. La semplice valutazione del grado di una stenosi

coronarica all’angiografia, tuttavia, ha diverse limitazioni. Altri fattori, infatti, possono avere importanza nel

determinare le conseguenze emodinamiche della stenosi, come il diametro del vaso originario, la lunghezza e la

concentricità o eccentricità della stenosi e la presenza di altre stenosi nel vaso. Le conseguenze emodinamiche

della stenosi possono ancora essere influenzate dalla modulazione dinamica del tono vasale a livello della

stenosi e di quello del microcircolo distale, dalla presenza ed estensione di vasi collaterali e dalla resistenza

extravascolare.

In particolare, le stenosi coronariche sono spesso dinamiche; presentano, cioè, variazioni vasomotorie del lume

in grado di modificare il grado di stenosi, e quindi la riserva coronarica, dando origine ad un pattern anginoso

caratterizzato da una significativa variabilità della la soglia ischemica, in contrasto con la stabilità e predicibilità

della soglia ischemica nei casi di stenosi coronariche fisse. La dinamicità di una stenosi può essere valutata

saggiando la risposta vasomotoria alla somministrazione intracoronarica di sostanze vasodilatatrici e

vasocostrittrici.

Inoltre, un fattore importante in grado di influenzare gli effetti di una stenosi coronarica è lo sviluppo di una

circolazione coronarica collaterale verso il territorio ischemico. I collaterali possono svilupparsi sia da vasi

anastomotici preesistenti, sia, più limitatamente, come piccoli vasi di nuova formazione. Lo sviluppo e l'entità di

una circolazione collaterale varia consistentemente da paziente a paziente, e il flusso nei vasi collaterali è

influenzato sia da fattori nervosi e umorali, sia da sostanze vasoattive autacoidi locali.

TROMBOSI CORONARICA

I fenomeni trombotici costituiscono il meccanismo fisiopatologico principale dell’ischemia miocardica nelle

sindromi coronariche acute (Figura 10). Quando transitoria, la trombosi causa solo un’ischemia temporanea;

se prolungata o persistente, tuttavia, essa determina la necrosi di una parte più o meno estesa di tessuto

miocardico.

I meccanismi responsabili della trombosi coronarica sono complessi e ancora non del tutto chiariti. I trombi,

tuttavia, si formano in genere a livello di placche aterosclerotiche complicate (ad esempio, da rottura,

fissurazione o emorragia), che espongono al sangue una superficie vasale non più in grado di contrastare

efficacemente, come avviene normalmente, l’attivazione di processi proaggreganti e procoagulanti, e, quindi,

trombotica (vedi Capitolo 45).

In almeno il 30% circa dei casi, tuttavia, trombi coronarici sono riscontrati a livello di placche non fissurate ed

esenti da stenosi di rilievo e da apparenti danni della parete vasale. In questi casi, la formazione di un trombo è

probabilmente facilitata da lesioni microscopiche (erosioni) e/o da alterazioni funzionali dell'endotelio,

secondarie a stimoli di varia natura (meccanici, anossici, chimici, infettivi, immunologici), in grado di

compromettere in modo rilevante le funzioni antitrombotiche e vasodilatatrici delle cellule endoteliali, che sono

anzi stimolate a produrre potenti sostanze vasocostrittrici ed esporre recettori di adesione leucocitaria e

piastrinica (attivazione dell’endotelio).

Le alterazioni dell’endotelio sono più frequenti in vasi con flusso turbolento (ad es., a livello di stenosi), e

possono essere causate da molteplici fattori, meccanici (alterato shear stress), chimici (LDL ossidate), infettivi

(virus, batteri), e immunologici (anticorpi contro antigeni di superficie, linfociti sensibilizzati). In anni recenti,

inoltre, è stata accumulata evidenza che un'importante componente patogenetica della formazione di trombi

intracoronarici, e quindi delle sindromi coronariche acute, è costituita da processi infiammatori delle placche

aterosclerotiche, che ne favoriscono le complicanze e stimolano localmente sia meccanismi trombotici che

vasocostrittori.

Indipendentemente dai meccanismi, la prima fase della formazione di un trombo è costituita dall’adesione di

piastrine alla parete vascolare danneggiata, seguita da una serie di meccanismi che portano alla formazione di

un trombo piastrinico, che, in presenza di stenosi critiche, può di per sé causare subocclusione o occlusione del

vaso (e quindi, rispettivamente, ischemia subendocardica o transmurale). Più frequentemente, soprattutto in

presenza di stenosi meno gravi, il trombo murale piastrinico viene seguito dalla formazione di un trombo più

stabile, per l’attivazione del sistema emostatico, che porta a deposizione anche di rilevanti quantità di fibrina,

globuli rossi e leucociti, insieme alle piastrine, con finale occlusione del vaso.

Gli effetti fisiopatologici e clinici di un trombo coronarico dipendono, oltre che da quanto esso riduce il lume,

dalla sua evoluzione. Il suo destino naturale è, infatti, variabile. Esso può lisarsi spontaneamente in poco

tempo, per cui causa solo un'ischemia più o meno prolungata. Altre volte esso si risolve solo parzialmente,

rimanendo in parte adeso alla parete, per cui si organizza e causa la progressione della preesistente stenosi con

successiva riduzione della soglia ischemica. Altre volte, infine, subisce una rapida crescita che causa l'occlusione

totale del vaso, con grave ischemia e necrosi miocardica. Il destino finale del trombo è il frutto di una

complessa interazione tra fattori protrombotici e antitrombotici, che coinvolge anche fattori emodinamici,

vasomotori e fibrinolitici.

Va osservato come trombi, sia ostruttivi sia non ostruttivi, possono dare origine a microembolie distali che

causano aree di ischemia o necrosi miocardica circoscritta. Va infine ricordato come una trombosi può

localmente complicare uno spasmo coronarico, facilitando l'occlusione e l'infarto miocardico in pazienti con

angina vasospastica.

Figura 10

SPASMO CORONARICO

Lo spasmo coronarico consiste in un’improvvisa, intensa contrazione delle cellule muscolari lisce di un segmento

di un’arteria coronaria epicardica, che occlude o riduce in modo critico il lume del vaso, con conseguente

ischemia miocardica, in genere transmurale. Esso può verificarsi sia in vasi stenotici sia in vasi completamente

normali e, dal punto di vista clinico, è anzitutto il meccanismo responsabile dell’angina variante di Prinzmetal

(Figura 11).

Il substrato che rende un vaso coronarico suscettibile allo spasmo non è noto. E’ probabile, tuttavia, che esso

risieda in una o più alterazioni delle vie intracellulari post-recettoriali di trasmissione e modulazione dei segnali

che regolano la contrazione delle cellule muscolari lisce vasali, determinando una loro iperreattività agli stimoli

vasocostrittori. Ciò è suggerito dal fatto che lo spasmo può essere indotto, in genere, da vari stimoli

vasocostrittori (catecolamine, acetilcolina, alcalosi, ergonovina, serotonina, istamina) che agiscono su recettori

differenti (Figura 12).

Figura 12 Meccanismi fisiopatologici dello spasmo coronarico. L’alterazione centrale è costituita da una

iperreattività del segmento spastico a stimoli vasocostrittori di varia natura (sinistra). L’aumentata responsività

contrattile ai vari agenti vasocostrittori delle cellule muscolari lisce vasali del segmento spastico è dovuta ad

un’alterazione di uno o più sistemi intracellulari che regolano la contrazione ed il rilasciamento delle miofibrille

(destra). Il substrato patogenetico responsabile delle modificazioni della responsività del segmento vascolare

spastico rimane, tuttavia, fondamentalmente sconosciuto (in alto).

DISFUNZIONE DEL MICROCIRCOLO CORONARICO

Diversi dati, in anni recenti, hanno suggerito come alterazioni del flusso coronarico a livello dei piccoli vasi

coronarici di resistenza (prearteriole e arteriole), che non sono visibili all’angiografia coronarica, possano essere

responsabili di un’ischemia miocardica. Ad esempio, è stato osservato che l'infusione intracoronarica di

neuropeptide Y o di alte dosi di acetilcolina in soggetti con arterie coronarie epicardiche normali può indurre

ischemia miocardica in assenza di variazioni significative delle arterie epicardiche, ma in presenza di una diffusa

vasocostrizione dei rami distali e di un lento run off del mezzo di contrasto, indicativo di un’intensa

vasocostrizione microvascolare.

Una disfunzione microvascolare sembra implicata nei meccanismi che causano ischemia miocardica in alcune

condizioni cliniche. In pazienti con occlusione totale isolata di un vaso epicardico la somministrazione di

ergonovina può causare riduzione del flusso collaterale in assenza di modificazioni dei vasi epicardici,

suggerendo che variazioni rilevanti della soglia ischemica siano conseguenti a variazioni del tono dei vasi di

resistenza. In pazienti con stenosi isolata di un vaso coronarico, trattata con intervento di rivascolarizzazione

percutaneo, la persistenza di sintomi anginosi e di alterazioni ischemiche dell’ECG durante sforzo, a dispetto del

successo della procedura, suggerisce una causa microvascolare, come indicato da anomalie nell’incremento del

flusso coronarico in risposta a stimoli vasodilatatori (Figura 13). Alterazioni della resistenze coronariche sono

state, inoltre, dimostrate distalmente a stenosi coronariche in pazienti con cardiopatia ischemica stabile o

instabile, in vasi non stenotici di pazienti con stenosi ostruttive in altri rami coronarici epicardici, e in pazienti

con fattori di rischio per malattia coronarica ma con arterie epicardiche angiograficamente normali. Infine, una

disfunzione microvascolare è ritenuta essere responsabile della sindrome X cardiaca, una condizione clinica

caratterizzata da episodi anginosi, indotti prevalentemente dallo sforzo, in presenza di arterie coronarie

angiograficamente normali.

I meccanismi della disfunzione dei piccoli vasi arteriosi coronarici sono al momento poco noti, ma sono

verosimilmente molteplici e differenti non solo nelle diverse condizioni cliniche, ma anche all’interno di uno

stesso gruppo di pazienti. In pazienti con evidenza di malattia coronarica, la disfunzione microvascolare è in

genere attribuita all'aterosclerosi ed alle alterazioni neuroumorali e vasali (ad es., fibrosi perivascolare,

ipertrofia della media) associate ad eventuali malattie sistemiche concomitanti (ad es., ipertensione, diabete).

Di contro, nei pazienti con sindrome X cardiaca, in cui non sono presenti ostruzioni epicardiche, sono state

riportate alterazioni strutturali dei piccoli vasi coronarici solo in alcuni casi, mentre sono state descritte diverse

alterazioni in grado di determinare disfunzione del microcircolo ed ischemia miocardica. Uno schema dei

meccanismi potenzialmente coinvolti nella sindrome X è riportato nella Figura 14.

Figura 13 Risposta del flusso coronarico alla

papaverina dopo angioplastica coronarica efficace.

L’aumento del flusso coronarico alla vasodilatazione

con papaverina aumenta, rispetto a prima

dell’angioplastica, nei pazienti sottoposti alla

procedura, ma l’entità dell’incremento rimane al di

sotto di quella rilevabile nei soggetti di controllo

senza malattia coronarica evidente, nonostante

l’eliminazione della stenosi. Questo effetto può

rappresentare la persistenza di alterazioni

funzionali (o strutturali) del microcircolo).

Figura 14 Schema dei meccanismi patogenetici e alterazioni funzionali che possono variamente contribuire

alla disfunzione microvascolare nei pazienti con sindrome X cardiaca.

Capitolo 24. Sindromi Coronariche Croniche, Mario Marzilli

DEFINIZIONE

Le sindromi coronariche croniche si identificano con l’angina stabile o angina cronica, termine che definisce una

sindrome caratterizzata da attacchi di ischemia miocardica che si producono in circostanze simili, relativamente

prevedibili e riproducibili, generalmente associate a sforzo fisico.

Meno della metà degli episodi ischemici si accompagna a sintomatologia dolorosa e la gran parte degli attacchi

ischemici è quindi silente.

L’esordio dell’angina pectoris rappresenta sempre, per definizione, un momento di instabilità: successivamente

la forma, se non evolve verso eventi coronarici maggiori, può entrare nella forma cosiddetta “stabile”.

L’aggettivo stabile che caratterizza questa sindrome coronarica deve essere inteso:

• come espressione della costanza e ripetibilità delle condizioni in cui si produce l’episodio ischemico

• come espressione della stabilità nel tempo della frequenza e della severità degli episodi di angina.

Questa sindrome ischemica è caratterizzata da una bassa incidenza di eventi maggiori (morte improvvisa,

infarto miocardico) a breve e medio termine.

Il livello di attività a cui compare l’angina o l’ischemia viene definito soglia del dolore o dell’ischemia. La soglia

del dolore può essere calcolata empiricamente, dal racconto del paziente, sulla base della comparsa dei sintomi

e del momento di inizio e del tipo di attività fisica che ha provocato l’angina, oppure può essere definita da

parametri ergometrici (minuti di esercizio, doppio prodotto, carico di lavoro) al momento della comparsa di

ischemia elettrica (sottoslivellamento di ST) o del dolore.

Quando le variazioni della soglia sono particolarmente evidenti, l’angina perde la sua caratteristica di stabilità

sintomatica (angina a soglia variabile) ma può mantenere la stabilità clinica e la scarsa incidenza di eventi

maggiori nel follow up a breve e medio termine.

PATOGENESI

Il meccanismo patogenetico più comune dell’angina stabile è l’aumento del consumo miocardico di ossigeno,

per lo più dovuto ad esercizio fisico, non accompagnato da un parallelo aumento del flusso coronarico. Pertanto

l’angina cronica stabile è generalmente una angina da sforzo.

L’incapacità di aumentare il flusso coronarico in maniera adeguata all’aumento delle richiesta metaboliche del

miocardico può dipendere da una molteplicità di fattori tra cui: presenza di una stenosi coronarica severa che

riduce marcatamente la riserva coronarica, risposta vasocostrittiva del microcircolo distalmente ad una placca

aterosclerotica, alterazioni del metabolismo energetico miocardico, etc

In qualche caso, l’angina può comparire in condizioni di riposo muscolare, quando, per altri meccanismi, si

verifica comunque un aumento della frequenza cardiaca e/o della pressione arteriosa.

DIAGNOSI CLINICA

In pazienti che si presentano con dolore toracico, una anamnesi accurata, un esame obiettivo mirato ed una

valutazione dei fattori di rischio coronarico consentono, nella maggior parte dei casi, una attendibile definizione

diagnostica.

Il dolore anginoso

Un dolore toracico può aver origine da numerose strutture (cuore, pericardio, grossi vasi, polmone, pleura,

esofago, stomaco) e dipendere da patologie osteo-articolari, nervose o muscolo-cutanee della parete toracica.

L’anamnesi rappresenta il primo e spesso anche il più utile approccio nella diagnosi di angina

pectoris.

Il dolore anginoso tipico è definito coi termini di costrizione, oppressione, peso, bruciore, ed è frequentemente

associato a malessere generale ed ansia. La sede tipica è retrosternale con irradiazione lungo il lato ulnare

dell’avambraccio sinistro e la mano, oppure alla mandibola, al collo, ad entrambe le braccia ed ai polsi o al

dorso. Altre sedi del dolore sono l’epigastrio o l’emitorace destro con irradiazione all’avambraccio omolaterale.

Tipicamente il dolore insorge gradualmente, raggiunge la massima intensità entro un minuto e recede

spontaneamente dopo 2-10 minuti con la cessazione del fattore scatenante o con la somministrazione sub-

linguale di nitrati. Altre condizioni che possono determinare l’insorgenza di angina sono il rapporto sessuale, gli

stress emotivi, l’esposizione al freddo, un pasto abbondante o una associazione di questi fattori (Figura 1).

Pertanto in alcune condizioni l’attacco anginoso può manifestarsi anche indipendentemente da uno sforzo fisico.

Anche se un dolore anginoso tipico si associa generalmente ad una o più stenosi coronariche, è importante

tener presente che si può avere angina da sforzo anche in pazienti con valvulopatia, miocardiopatia ipertrofica,

ipertensione, miocardiopatia dilatativa ed in soggetti senza evidenti anomalie miocardiche o coronariche

(sindrome X).

In ciascun paziente, in caso di recidiva anginosa, la sintomatologia tende a riprodursi sempre con le stesse

caratteristiche di sede, irradiazione, etc, anche a distanza di molto tempo.

Pur essendo la sintomatologia anginosa il cardine della diagnosi di angina, bisogna sempre tener presente che

gli episodi ischemici possono manifestarsi con sintomi diversi dal dolore come dispnea e facile stancabilità, e

che oltre la metà degli episodi ischemici possono essere privi di sintomi (ischemia silente).

Le più comuni forme morbose da considerare in diagnosi differenziale con l’angina stabile sono: l’aneurisma

dell’aorta toracica, l’ernia hiatale con esofagite da reflusso, lo spasmo o reflusso esofageo da sforzo, la

distensione diaframmatica, l’ipertensione polmonare, il pneumotorace, le patologie osteo-articolari o neuro-

muscolari della parete toracica.

Esame obiettivo

L’esame obiettivo di un paziente con angina stabile non evidenzia di solito reperti diagnostici. Si possono,

tuttavia, identificare elementi che aumentano la probabilità di coronaropatia, come la presenza di vasculopatia

aterosclerotica sistemica, l’ipertensione arteriosa, i depositi lipidici cutanei. L’esame obiettivo eseguito durante

un episodio ischemico può evidenziare reperti significativi come la comparsa di 3° o 4° tono, di soffio da

rigurgito mitralico, uno sdoppiamento paradosso del 2° tono (vedi Capitolo II) o di rantoli basilari che

scompaiono poco dopo la cessazione dell’episodio anginoso.

DIAGNOSI STRUMENTALE

In un paziente con dolore toracico, il momento diagnostico più importante rimane l’anamnesi, che condizionerà

la successiva strategia. In un uomo con fattori di rischio e storia di dolore tipico, nessuna ulteriore indagine

negativa potrà ridurre significativamente la probabilità di malattia; la richiesta di indagini aggiuntive può essere

giustificata dall’esigenza di completare la diagnosi di malattia con informazioni relative alla gravità, sede ed

estensione della ischemia miocardica. In un paziente con bassa probabilità (donna giovane, dolore toracico

atipico, assenza di fattori di rischio) un test diagnostico positivo modifica di poco la probabilità di malattia, ma

può innescare una interminabile e spesso inutile serie di esami aggiuntivi.

Le modificazioni transitorie dell’attività elettrica e contrattile cardiaca e della perfusione miocardica che si

accompagnano ad episodi ischemici provocati in laboratorio possono essere documentate con adeguate

metodologie. Questa documentazione costituisce la base della diagnosi strumentale di angina da sforzo.

Metodiche strumentali per la diagnosi di angina stabile

ECG basale

L’elettrocardiogramma a riposo è generalmente non diagnostico nei pazienti con angina stabile, anche se

nell’inquadramento clinico e prognostico del paziente è importante il rilievo di pregresso infarto miocardico,

ipertrofia ventricolare sinistra o anomalie della ripolarizzazione ventricolare.

ECG da sforzo

L’elettrocardiografia da sforzo è la metodica diagnostica di prima scelta in quanto indagine semplice, ovunque

disponibile, a basso costo, relativamente sicura. Il criterio elettrocardiografico più significativo di ischemia

miocardica è rappresentato dalle modificazioni del tratto ST (vedi Capitolo 26).

Una prova da sforzo è considerata positiva quando induce dolore tipico e/o sottoslivellamento discendente o

orizzontale di ST uguale o superiore a 1 mm 0.08 secondi dopo il punto J. L’innalzamento del tratto ST di

almeno 0.5 mm, peraltro piuttosto raro durante test ergometrico nei pazienti senza pregressa necrosi, è di

solito espressione di ischemia transmurale per ostruzione organica o per vasospasmo. Al contrario, il

sopraslivellamento di ST da sforzo nei pazienti con pregressa necrosi deve essere considerato non specifico per

ischemia.

È importante ricordare che talora un test ergometrico mostra alterazioni significative di ischemia non durante o

al picco dello sforzo, ma in fase di recupero.

ECG dinamico.

La registrazione Holter è di scarsa utilità diagnostica nella angina stabile. L’ECG dinamico può essere riservato

alla determinazione, in pazienti già noti, del carico ischemico totale quotidiano, in considerazione della

frequente sovrapposizione di attacchi sintomatici e non.

Metodiche di imaging

Stimoli diversi dall’esercizio fisico impiegati per indurre ischemia in laboratorio sono rappresentati dal test al

dipiridamolo, all’adenosina o alla dobutamina (vedi Capitolo 26). Questi stressor hanno dimostrato di

possedere, quando associati ad un test di immagine, un’accuratezza diagnostica per malattia coronarica

comparabile a quella ottenuta con test da sforzo.

Un test di immagine è indicato:

1) quando il test ergometrico non è fattibile o non interpretabile o controindicato,

2) in pazienti con media-bassa probabilità pre-test di malattia in caso di positività ECG ad alto carico in assenza

di angor,

3) in pazienti con media-bassa probabilità pre-test di malattia in caso di angor durante test ergometrico in

assenza di modificazioni ECG.

Coronarografia.

Sebbene l’angiografia coronarica (vedi Capitolo 11) non rappresenti una metodica utile per la diagnosi di angina

stabile, una coronarografia è indicata quando ogni tentativo diagnostico strumentale per confermare o

escludere un sospetto clinico sia risultato inefficace.

La coronarografia si rende indispensabile anche quando, una volta raggiunta la diagnosi di angina stabile, il

paziente, sulla base dei dati raccolti, sia definito ad alto rischio e quindi siano indicate procedure di

rivascolarizzazione oppure queste si rendano necessarie per inefficacia della terapia.

STRATIFICAZIONE PROGNOSTICA

Premessa

Nella stratificazione prognostica dei pazienti con angina stabile è importante tener presente che il rischio di

andare incontro a eventi cardiovascolari gravi è basso: in questi pazienti l’incidenza di morte cardiaca è stata

calcolata fra l’1,5 e il 2% ad un anno, e quella dell’infarto non fatale intorno all’1% per anno.

La clinica

Nei pazienti con sindromi coronariche croniche, il rischio aumenta con l’aumentare della gravità dell’angina e

con il peggiorare della funzione ventricolare sinistra secondo la classe NYHA, con la comparsa di sintomi e segni

di insufficienza di pompa durante sforzo o angor, e se sono presenti episodi sincopali, eventualmente associati

allo sforzo o all’angina.

La prognosi peggiora inoltre con l’età avanzata, se il paziente ha nella storia un infarto miocardico, se soffre di

ipertensione arteriosa, se continua a fumare.

ECG ed Ecocardiogramma di base

La presenza di un ECG di base alterato è considerata segno prognostico sfavorevole. Un esame ecocardiografico

in condizioni di base è utile per definire l’eventuale presenza e grado di disfunzione ventricolare sinistra, segno

prognostico rilevante.

ECG da sforzo

Il test da sforzo rimane la modalità di valutazione più frequentemente utilizzata nella gestione del paziente

ischemico.

Il test, analizzato in termini quantitativi relativamente al momento di comparsa e alla entità delle alterazioni

ECG, all’andamento dei parametri emodinamici e clinici rilevabili durante esercizio, consente di ottenere

informazioni prognostiche sufficienti per un corretto inquadramento clinico del paziente.

L’entità del sottoslivellamento di ST si correla con la gravità della coronaropatia: maggiore è il grado di

sottoslivellamento di ST più alta è la prevalenza di stenosi del tronco comune o di malattia trivasale. Anche il

sottoslivellamento asintomatico di ST è prognosticamente importante, indipendentemente dalla presenza o

assenza di angina: la gravità della coronaropatia e la mortalità a distanza dei pazienti con sottoslivellamento

asintomatico di ST sono analoghe a quelle dei pazienti che manifestano angina durante sforzo.

Il mancato incremento della pressione arteriosa o la sua riduzione durante esercizio individua pazienti con

coronaropatia estesa ed è indicativo di un rischio elevato di eventi cardiaci gravi. La comparsa di sintomi e/o

segni di ischemia per bassi carichi di lavoro identifica pazienti a rischio elevato.

Coronarografia

La prognosi è peggiore nei pazienti con malattia del tronco comune dell’arteria coronaria sinistra, nei pazienti

con malattia coronarica multivasale o con lesione critica sul tratto prossimale dell’arteria discendente anteriore,

nei pazienti con depressa funzione ventricolare sinistra.

CENNI DI TERAPIA

Gli obiettivi della strategia terapeutica nell’angina stabile sono il miglioramento della qualità della vita

attraverso la riduzione dei sintomi, l’aumento della tolleranza all’esercizio fisico e il prolungamentro della

sopravvivenza attraverso la riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori (morte, infarto miocardico non

fatale). Il primo obiettivo è solitamente raggiungibile con i farmaci convenzionali. Non vi sono invece evidenze

cliniche certe che essi possano influenzare favorevolmente la prognosi di questi pazienti. Per contro, il

trattamento aggressivo dei fattori di rischio (ipertensione arteriosa, diabete mellito, obesità, tabagismo,

dislipidemia) e la profilassi antiaggregante si sono dimostrati in grado di ridurre la mortalità e di prevenire gli

eventi coronarici maggiori nel follow-up.

Il trattamento farmacologico classico dell’angina stabile si basa sull’impiego di nitrati, betabloccanti e

calcioantagonisti (vedi Capitolo 57).

I nitrati sono vasodilatatori endotelio-indipendenti che riducono il consumo d’ossigeno miocardico e migliorano

la perfusione miocardica. Ai dosaggi comunemente impiegati, la diminuzione del consumo d’ossigeno è legata

prevalentemente ad una riduzione del volume ventricolare sinistro e della pressione arteriosa secondari

soprattutto ad una riduzione del precarico.

I nitrati sono farmaci di prima scelta nel trattamento dell'attacco anginoso (nella formulazione sublinguale) e

sono raccomandati nel trattamento cronico dell'angina stabile, particolarmente nei pazienti con disfunzione

ventricolare sinistra.

I betabloccanti sono farmaci che agiscono bloccando gli effetti della stimolazione beta-adrenergica sul cuore e

sui vasi. Ne deriva una riduzione della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa e della contrattilità

miocardica, ovvero dei maggiori determinanti il consumo di ossigeno miocardico.

I calcioantagonisti sono farmaci che inibiscono la contrazione delle cellule muscolari lisce attraverso il blocco dei

canali lenti del Ca . Il risultato è una vasodilatazione arteriosa (sia coronarica che periferica). Gli effetti

antianginosi sono principalmente legati alla vasodilatazione dei vasi coronarici epicardici e del microcircolo

coronarico con riduzione delle resistenze ed aumento del flusso coronarico. L'azione vasodilatante arteriosa

periferica concorre all'effetto favorevole mediante una riduzione del post-carico. Inoltre il modesto effetto

cronotropo negativo di alcuni di essi (verapamil e diltiazem) è in grado di contenere il consumo di ossigeno a

riposo e durante sforzo.

Un’alternativa ai farmaci tradizionali è offerta da farmaci come la trimetazidina e la ranolazina, che non hanno

effetti apprezzabili sul flusso coronarico nè sul consumo d’ossogeno miocardico ma modulano il metabolismo

energetico della cellula miocardica interferendo con la betaossidazione degli acidi grassi.

Capitolo 25. Sindromi Coronariche Acute, Raffaele Bugiardini, Carmine Pizzi, Marco Ciccone

DEFINIZIONE

Le sindromi coronariche acute (SCA) sono un gruppo di manifestazioni cliniche imputabili ad ischemia

miocardica acuta, la cui causa è generalmente la rottura di una placca aterosclerotica coronarica “vulnerabile”

con successiva aggregazione piastrinica, sovrapposizione trombotica e riduzione o arresto del flusso.

In base all’entità della stenosi/occlusione ed alla sua persistenza, si determina uno dei seguenti quadri clinici.

• Angina instabile : ischemia miocardica acuta senza significativa necrosi miocardica.

• Infarto miocardico acuto senza sopraslivellamento del tratto ST (non ST-segment elevation myocardial

infarction, NSTEMI): ischemia miocardica acuta associata a necrosi miocardica subendocardica.

• Infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST (ST-segment elevation myocardial

infarction, STEMI): ischemia miocardica acuta associata a necrosi miocardica transmurale.

SEGNI E SINTOMI

Il sintomo principale è il dolore anginoso oppressivo o costrittivo. Il malato descrive in genere il dolore come

una sensazione di pesantezza, di compressione, di soffocamento o di costrizione toracica. Il dolore ha

tipicamente sede retrosternale, più raramente è avvertito all’epigastrio o solo nelle sedi di irradiazione (il lato

ulnare dell’avambraccio sinistro, il braccio e la spalla sinistra, l’epigastrio, il collo, la mandibola, il braccio

destro, il dorso).

Il dolore insorge spesso a riposo, e se compare durante uno stress psico-fisico non regredisce con il cessare

dell’attività. Nell’angina instabile il dolore ha di solito durata inferiore a 20 minuti; se persiste per oltre 20

minuti è verosimile che si associ anche necrosi del miocardio, cioè che si determini un infarto. Nello STEMI, in

assenza della riapertura del vaso occluso, il dolore si protrae per diverse ore, con intensità variabile.

La sintomatologia dolorosa si associa frequentemente a sudorazione fredda, sensazione di angoscia, nausea e

vomito. Tali sintomi (detti neurovegetativi) possono essere talvolta gli unici presenti; il dolore, infatti, è assente

in oltre il 30% dei casi, soprattutto nei soggetti in età avanzata e nei diabetici. Alcuni pazienti hanno una SCA in

assenza di qualsiasi sintomo; in questi la malattia viene diagnosticata a posteriori mediante ECG, scintigrafia o

ecografia, oppure in seguito ad una complicanza acuta, la più temibile delle quali è la morte improvvisa per

fibrillazione ventricolare.

ELETTROCARDIOGRAMMA

L'ECG è un’indagine chiave nella diagnosi delle sindromi coronariche acute. I reperti variano notevolmente in

base a quattro fattori principali:

1) durata del processo ischemico (acuto, in evoluzione, cronico);

2) estensione del processo ischemico (transmurale o subendocardico);

3) localizzazione del processo ischemico (parete anteriore, laterale, infero-posteriore, o ventricolo destro);

4) presenza di altre alterazioni che possono mascherare o modificare il classico quadro ECG (per esempio:

blocco di branca sinistra, preeccitazione).

Il segno iniziale e caratteristico di una SCA è il sottoslivellamento o il sopraslivellamento del segmento ST.

Tuttavia, un ECG completamente normale in un paziente con dolore toracico non esclude la possibilità di SCA,

poiché dall’1% al 6% dei pazienti con SCA hanno un ECG normale.

Elettrocardiogramma nello STEMI

L’alterazione ECG caratteristica dell’infarto transmurale è il sopraslivellamento del tratto ST >1 mm con

convessità in genere rivolta verso l’alto (onda di lesione subepicardica). L’evoluzione del tracciato ECG può

essere sintetizzata nelle seguenti fasi:

• Fase acuta: tratto ST sopraslivellato, con entità che tende a ridursi progressivamente (schemi a,b,c).

• Fase subacuta: comparsa di onda Q patologica; persistenza del sopraslivellamento del tratto ST; onda T

difasica (positivo/negativa) o negativa (schemi d,e).

• Fase cronica: normalizzazione del tratto ST; persistenza dell’onda Q patologica (schema f).

Le Figure ECG 20, ECG 21, ECG 22 riportano elettrocardiogrammi caratteristici di STEMI.

ECG. 20 - Lesione subepicardica. Infarto miocardico acuto anteriore

Questo ECG, registrato in un paziente affetto da infarto miocardico acuto dovuto a occlusione dell’arteria

discendente anteriore, mostra un netto sopraslivellamento di ST in I, aVL e da V1 a V5.

ECG. 21 - Lesione subepicardica. Infarto miocardico acuto anteriore

Questo ECG, registrato in un paziente affetto da infarto miocardico acuto anteriore, mostra un marcato

sopraslivellamento di ST in I, aVL e da V1 a V6; nelle derivazioni II, III e aVF, invece, il tratto ST è

sottoslivellato (alterazione reciproca). Sono anche presenti segni di necrosi, rappresentati dai complessi

intieramente negativi (QS) in aVL e da V1 a V4.

ECG. 22 - Lesione subepicardica. Infarto miocardico acuto inferiore

In questo tracciato, appartenente a un paziente affetto da infarto miocardico acuto inferiore provocato da

un’occlusione prossimale dell’arteria coronaria destra, si osserva un notevole sopraslivellamento del tratto ST in

II, III e AVF, con sottoslivellamento reciproco di ST in I e aVL. E’ anche evidente un sottoslivellamento di ST in

V1-V3, suggestivo di infarto posteriore, e un sopraslivellamento di ST in V6, che indica un infarto della parete

laterale. Le derivazioni precordiali destre addizionali (V3R, V4R) presentano anch’esse un sopraslivellamento di

ST, che dimostra come l’infarto interessi anche il ventricolo destro.

Elettrocardiogramma nel NSTEMI e nell’angina instabile

L’alterazione dell’ECG caratteristica in caso di angina instabile o NSTEMI è il sottoslivellamento del tratto ST >1

mm, di tipo orizzontale o discendente (ECG 18, ECG 19). Questa alterazione della ripolarizzazione ventricolare

deve essere sempre valutata nel contesto clinico; in particolare, per essere considerata espressione di ischemia

miocardica deve essere transitoria e/o associata a dolore toracico. Il sottoslivellamento di ST, infatti, si

riscontra spesso in condizioni diverse dall’ischemia miocardica, per esempio nell’ipertrofia ventricolare o nel

blocco di branca.

ECG. 18 - Lesione subendocardica

In questo ECG il tratto ST si presenta sottoslivellato in I, II, III, aVF e da V3 a V6. E’ il quadro della lesione

subendocardica, e corrisponde da un punto di vista fisiopatologico a un’ischemia acuta non transmurale. Il

paziente presentava un infarto miocardico acuto senza sopraslivellamento del tratto ST.

ECG. 19 - Lesione subendocardica

L’ECG, registrato in un paziente affetto da cardiopatia ischemica durante un episodio di angina, mostra un

evidente sottoslivellamento del tratto ST in I, II, III, aVF e da V3 a V6. Da un punto di vista

elettrocardiografico, questa alterazione può essere definita come “lesione subendocardica”. Nel tracciato 19-B,

registrato dopo la fine della crisi anginosa, il sottoslivellamento di ST è quasi del tutto scomparso.

Elettrocardiogramma e prognosi

Oltre ad avere un ruolo centrale nella diagnosi di SCA e a condizionarne la terapia, l’ECG fornisce importanti

informazioni prognostiche. La mortalità dei pazienti con infarto anteriore è maggiore di quella dei pazienti con

infarto inferiore; in quest’ultimo gruppo la mortalità aumenta quando l’infarto coinvolge anche il ventricolo

destro. In generale, maggiore è il numero di derivazioni con il sotto- o sopraslivellamento del segmento ST,

maggiore è il rischio di morte per il paziente.

I pazienti con SCA che presentano anche aritmie (per esempio, tachicardia ventricolare sostenuta o blocco

atrioventricolare di III grado oppure di II grado tipo Mobitz 2 ) hanno una prognosi peggiore di quelli in cui non

si manifestano aritmie.

MARKER DI NECROSI MIOCARDICA

Per la diagnosi di infarto miocardico acuto è necessario un aumento, seguito da una diminuzione graduale, dei

marcatori biochimici di necrosi associato ad una delle seguenti condizioni: 1) sintomi suggestivi di ischemia

miocardica, 2) alterazioni ECG indicative di ischemia, 3) comparsa di onde Q patologiche.

I miociti che vanno incontro a necrosi liberano alcune sostanze (enzimi o proteine) il cui riscontro nel siero è

indispensabile per porre diagnosi di infarto miocardico acuto; le più utilizzate sono la troponina e la

creatinchinasi.

Troponina (Tn). La Tn è una proteina ad alto peso molecolare presente specialmente nel tessuto muscolare,

ed è costituita da 3 sub-unità. La TnC si trova sia nel muscolo cardiaco che nel muscolo scheletrico, mentre TnT

e TnI sono presenti solo nel cuore e rappresentano marcatori sensibili e specifici per il riconoscimento del danno

miocardico. Sono dosabili nel sangue dopo 2-4 ore dall'inizio dei sintomi, ed il picco è raggiunto dopo 8-12 ore.

La curva enzimatica di questo marker è simile a quella della CK-MB.

Creatinchinasi (CK). La CK è un enzima costituito da due monomeri, M e B. L’isoenzima MB è contenuto in

maggior quantità nel cuore, l’isoenzima BB nel rene e nel cervello, l’isoenzima MM nel muscolo scheletrico. Il

dosaggio del CK-MB è considerato patologico, quando è maggiore del 6-10% del CK totale, che a sua volta deve

essere almeno il doppio del normale. La Figura 2 rappresenta le concentrazioni dei marker di miocardio-necrosi

in relazione al tempo.

La latticodeidrogenasi (LDH) è utile nella diagnosi di infarto miocardico, quando il paziente giunge

all’osservazione tardivamente, in quanto è dosabile fino a 14 giorni dall’evento acuto.

COMPLICANZE DELL’INFARTO MIOCARDICO ACUTO

Le complicanze di un infarto possono essere suddivise in tre gruppi:

• Complicanze aritmiche.

• Complicanze emodinamiche (compromissione della funzione di pompa; rottura di muscoli papillari, setto,

o parete libera del ventricolo sinistro; aneurisma ventricolare).

• Complicanze ischemiche (estensione della necrosi, angina precoce postinfartuale).

COMPLICANZE ARITMICHE

Le complicanze aritmiche sono estremamente comuni durante una SCA ed in particolare durante le prime ore

dell’infarto acuto. Extrasistoli ventricolari o sopraventricolari si osservano pressoché nel 100% dei pazienti, ma

nella maggior parte dei casi non hanno significato sfavorevole. Alcune aritmie (tachicardia ventricolare

sostenuta, fibrillazione ventricolare, blocco atrioventricolare di III grado) mettono a serio rischio la

vita del paziente e richiedono un intervento terapeutico immediato.

La fibrillazione e il flutter atriale sono frequenti, e possono determinare, se la risposta ventricolare è

elevata, una riduzione della gittata cardiaca ed un aumento del consumo miocardico di O2. La tachicardia

ventricolare non sostenuta è comune ed in genere ben tollerata, e non richiede necessariamente un

trattamento, mentre la tachicardia ventricolare sostenuta (vedi Capitolo 40) può degenerare in fibrillazione

ventricolare. In questi casi la lidocaina è abitualmente il farmaco di prima scelta se non vi è compromissione

emodinamica, nel qual caso è necessaria la cardioversione elettrica; in alternativa alla lidocaina si può usare

l’amiodarone.

La fibrillazione ventricolare è l’aritmia più temuta, e porta al decesso il paziente in pochi minuti, se non si

interviene immediatamente con la defibrillazione (vedi Capitolo 44).

Un blocco atrioventricolare di I grado o di II grado tipo Wenckebach (Mobitz 1) è comune nell’infarto

inferiore, ma raramente causa compromissione emodinamica, e può essere trattato, se necessario, con

atropina. Il blocco atrioventricolare di II grado tipo Mobitz 2 (vedi Capitolo 41) ed il blocco

atrioventricolare di III grado rappresentano indicazioni all’inserimento di un elettrocatetere per eseguire la

stimolazione ventricolare con un pace-maker esterno.

COMPLICANZE EMODINAMICHE

Insufficienza ventricolare sinistra

In corso di SCA, numerose condizioni possono indurre un’insufficienza del ventricolo sinistro, che può essere

strettamente legata all’estensione dell’area ischemica (un’area ischemica vasta determina un marcato deficit di

contrazione), o anche essere la conseguenza di aritmie o della disfunzione valvolare mitralica provocata

dall’infarto. Le manifestazioni cliniche dell’insufficienza ventricolare sinistra consistono in dispnea, tachicardia

sinusale, comparsa di terzo tono e di rantoli polmonari inizialmente localizzati alle basi. L’esame obiettivo

consente di classificare la gravità dell’insufficienza ventricolare utilizzando le classi di Killip: la classe 1 si

caratterizza per l’assenza di rumori umidi polmonari, la classe 2 per la presenza di rantoli in meno del 50% dei

campi polmonari, nella classe 3 i rantoli si ascoltano in più del 50% dei campi polmonari, e i pazienti in classe 4

presentano il quadro dello shock cardiogeno (vedi Capitolo 22), caratterizzato da ipoperfusione generalizzata: il

soggetto ha una pressione sistolica <90 mmHg, oligo-anuria (diuresi <20 ml/ora), agitazione psico-motoria,

tachicardia sinusale, pallore, sudorazione e cianosi.

Rottura del cuore

Questa complicanza dell’infarto acuto può interessare la parete libera del ventricolo sinistro, il setto

interventricolare o i muscoli papillari. In genere si verifica nelle prime 24 ore dall’esordio dell’infarto, ma può

avvenire anche a distanza di giorni, ed è più frequente nelle donne anziane con infarto anteriore. La rottura

della parete libera provoca un emopericardio con tamponamento cardiaco (vedi Capitolo 32). Clinicamente

esordisce con dolore toracico, shock cardiogeno e dissociazione elettromeccanica (persistenza per qualche

minuto di un’attività elettrica ordinata e regolare in assenza di attività meccanica del cuore). Non risponde alle

misure di rianimazione cardiopolmonare, e la mortalità è quasi del 100%. Raramente la rottura può

determinare uno pseudoaneurisma, quando si manifesta non un emopericardio massivo ma uno stillicidio

ematico nel cavo pericardico, con tendenza all’autolimitazione.

La rottura del setto interventricolare è generalmente apicale ed avviene in corso di infarto antero-settale o

infero-posteriore; il difetto acquisito del setto interventricolare provoca, così come accade nelle forme

congenite, uno shunt sinistro-destro, poiché la pressione è maggiore nel cuore sinistro. Questa condizione

provoca la comparsa di un soffio mesocardico rude accompagnato da fremito, dispnea e rapida evoluzione verso

l’edema polmonare e lo shock. L’ecocardiogramma color Doppler consente di riconoscere rapidamente la

perforazione settale (ECO 30). La rottura totale o parziale di un muscolo papillare determina una grave

insufficienza mitralica acuta, rivelata da un soffio olosistolico puntale irradiato all'ascella (vedi Capitolo 15). Si

manifesta tipicamente come un peggioramento improvviso del quadro, spesso con edema polmonare e shock. A

parte la rottura, anche una disfunzione ischemica del muscolo papillare può provocare un’insufficienza mitralica.

COMPLICANZE ISCHEMICHE

Il paziente con infarto miocardico acuto può andare incontro ad angina postinfartuale precoce (nuovo

ripresentarsi del dolore dopo che questo era cessato, ma senza segni biochimici o ECG di necrosi) o anche ad

estensione dell’infarto, con ulteriore incremento dei marker dopo che questi erano già in diminuzione, e

modificazioni dell’ECG tali da suggerire un’ischemia ulteriore sovrapposta al quadro infartuale (per esempio,

aumento del sopraslivellamento di ST a distanza di qualche giorno dalla fase iperacuta). Probabilmente in

questa situazione l’arteria coronaria che dopo un’occlusione transitoria si era riaperta è tornata ad occludersi,

provocando una nuova ischemia, oppure si è verificata l’occlusione di un ramo coronarico precedentemente non

interessato. Questi pazienti vanno immediatamente avviati a coronarografia ed angioplastica.

ALTRE COMPLICANZE DELL’INFARTO ACUTO

Pericardite. Nell’infarto miocardico acuto si possono riscontrare due forme di interessamento pericardico: una

è la conseguenza diretta della necrosi transmurale, dovuta a deposizione di fibrina all’interno del pericardio che

ricopre la zona infartuale, mentre l’altra dipende da una reazione autoimmune post-infartuale (pericardite di

Dressler). Nel primo caso i segni e i sintomi compaiono in 2 -6 giornata. Il paziente lamenta una ripresa del

dolore toracico, che però varia con i movimenti del torace e/o gli atti respiratori, e l’ascoltazione del cuore

mette in evidenza sfregamenti pericardici. L’ECG può mostrare un persistente sopraslivellamento del tratto ST

in più derivazioni, l’ecocardiogramma evidenzia talvolta un versamento pericardico, in genere di lieve entità. La

pericardite di Dressler si manifesta dopo 2-4 settimane dall’episodio acuto. Ai segni e sintomi sopra descritti

possono associarsi febbre e versamento pleurico.

Tromboembolia. In pazienti con infarto esteso, specialmente anteriore, l’acinesia della zona infartuata può

favorire il formarsi di un trombo intracavitario, il quale può, a sua volta, provocare un’embolia sistemica.

L’incidenza di questo evento si è drasticamente ridotta da quando si impiega la terapia anticoagulante ed

antiaggregante nei pazienti con SCA.

CENNI DI TERAPIA

Numerosi farmaci possono essere impiegati nelle Sindromi Coronariche Acute: fra questi l’ossigeno, gli

antiaggreganti piastrinici, gli anticoagulanti, i fibrinolitici, i betabloccanti, gli ACE-inibitori, i calcioantagonisti, gli

analgesici. La distinzione fra STEMI, e NSTEMI/angina instabile è di primaria importanza per il trattamento

d’emergenza. In particolare, nei pazienti con STEMI, il rapido ripristino del flusso nell'arteria occlusa, tramite

terapia fibrinolitica o mediante interventi percutanei di rivascolarizzazione coronarica è determinante per la

prognosi. Nei pazienti con NSTEMI/angina instabile, invece, la terapia fibrinolitica è controindicata.

Ossigeno

La somministrazione di O2 è utile durante la fase iniziale di una SCA, in particolare nei pazienti con STEMI .

Aspirina

Numerosi studi hanno dimostrato i potenti benefici dell’aspirina nelle SCA; il farmaco inibisce l’aggregazione

piastrinica, contrastando il meccanismo della trombosi endoluminale attraverso il blocco irreversibile della

formazione di trombossano A2.

Altri anti-aggreganti

Le tienopiridine sono farmaci antiaggreganti il cui meccanismo d’azione consiste nell’antagonizzare i recettori

dell’adenosina difosfato a livello piastrinico. L’effetto antiaggregante è irreversibile, e si realizza dopo 2-3 giorni

di terapia.

Il clopidogrel è una tienopiridina entrata solo recentemente nella pratica clinica. Il suo maggiore impiego è nei

pazienti con SCA, in associazione all’aspirina. La doppia antiaggregazione piastrinica (aspirina e clopidogrel)

riduce maggiormente gli eventi cardiovascolari rispetto alla sola aspirina.

La ticlopidina è tra le tienopiridine quella da più tempo in commercio; è usata con successo nei pazienti che non

tollerano l’aspirina.

Antagonisti del recettore GP IIb/IIIa piastrinica. Durante l’attivazione piastrinica, il recettore

glicoproteico IIb/IIIa delle piastrine subisce un cambiamento di conformazione ed aumenta la propria affinità

per il fibrinogeno, favorendo l'aggregazione piastrinica. Gli antagonisti dei recettori GP IIb/IIIa inibiscono

l'aggregazione piastrinica per diverse ore (da 4 a 8 ore).

Eparina

La terapia anticoagulante è un punto fondamentale nella terapia delle SCA: si esegue con l’eparina non

frazionata o l’eparina a basso peso molecolare. L’effetto anticoagulante dell'eparina non frazionata si esplica

mediante il potenziamento dell’attività dell’antitrombina (conseguente all’inattivazione del fattore IIa) e

parzialmente mediante l'inattivazione del fattore Xa. Il farmaco richiede il monitoraggio dell'effetto

anticoagulante mediante la determinazione del tempo di tromboplastina parziale attivata (aPTT).

L'eparina a basso peso molecolare accelera l'azione di un enzima proteolitico che inattiva i fattori Xa, IXa, e IIa.

Questo farmaco offre il vantaggio di non dover monitorare l’effetto anticoagulante.

La combinazione di eparina e terapia anti-aggregante è un cardine della terapia delle SCA in quanto riduce

significativamente gli eventi ischemici e il numero di interventi di rivascolarizzazione coronarica.

Nitrati

La nitroglicerina è un vasodilatatore ed è tra i farmaci di prima scelta nel sospetto di una sindrome coronarica

acuta, soprattutto per ridurre o far cessare il dolore toracico. La vasodilatazione venosa che essa determina

comporta un aumento del sequestro (pooling) di sangue in periferia, e quindi una riduzione del ritorno venoso

al cuore e, in definitiva, del precarico. In accordo con la legge di Laplace, la diminuzione del diametro

ventricolare riduce la tensione (stress) parietale, e anche il consumo di O2, che allo stress parietale è

direttamente correlato. La nitroglicerina ha effetti modesti sul post-carico; diminuisce, però, la pressione

arteriosa sistemica, ed anche con questo meccanismo riduce il consumo di O2.

Beta-bloccanti

I beta-bloccanti antagonizzano gli effetti delle catecolamine sui recettori beta delle membrane cellulari.

L'inibizione dei recettori beta-1 riduce la contrattilità miocardica (effetto inotropo negativo), la frequenza di

scarica dell’impulso da parte del nodo del seno (effetto cronotropo negativo) e la velocità di conduzione dello

stimolo (effetto dromotropo negativo). Queste azioni consentono una riduzione del consumo di O2 da parte del

miocardio.

ACE-Inibitori

Gli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina I in angiotensina II sono in grado di ridurre la mortalità

nei pazienti con SCA. L'inibizione dell'enzima di conversione ha come conseguenza una diminuita

concentrazione dell’angiotensina II, la quale è il più potente costrittore delle arteriole. Per effetto del farmaco

cade il tono arteriolare, cioè si riduce il post-carico, ovvero la pressione arteriosa, con conseguente riduzione

del consumo di ossigeno. A livello cellulare, gli ACE-I antagonizzano gli effetti mitogeni esercitati

dall'angiotensina II, responsabili, dopo un infarto miocardico, di alterazioni sfavorevoli (rimodellamento

ventricolare).

Calcio-antagonisti

I calcio-antagonisti non diidropiridinici (verapamil e diltiazem) possono essere utilizzati, in assenza di

insufficienza ventricolare sinistra, nei pazienti con angina instabile/STEMI che presentino ischemia ricorrente ed

in cui è controindicato l’uso dei beta-bloccanti.

Morfina

Nei pazienti con STEMI i cui sintomi non sono alleviati dalla nitroglicerina, a scopo antidolorifico ed in assenza di

controindicazioni quali ipotensione, è consigliata la morfina.

Terapia fibrinolitica

I farmaci fibrinolitici (streptochinasi, reteplase, alteplase, tenecteplase, etc.) trasformano il plasminogeno in

plasmina, la quale degrada la fibrina e disgrega il trombo, con conseguente ricanalizzazione dell’arteria

coronarica occlusa. Il ripristino di un flusso normale varia in base alla precocità del trattamento (inizio ideale

entro 2 ore), alla risposta del paziente e al farmaco utilizzato.

Angioplastica primaria

Sebbene la trombolisi sia un trattamento semplice, rapido e consolidato, non sempre è pienamente efficace nel

ricanalizzare il vaso occluso, per cui si è diffusa l’angioplastica primaria, cioè la ricanalizzazione meccanica, con

o senza impianto di stent, del vaso responsabile dell’infarto nei pazienti con STEMI (vedi Capitolo 59).

Numerose ricerche hanno dimostrato che l’angioplastica primaria offre notevoli vantaggi rispetto alla trombolisi

in termini di eventi (mortalità, reinfarto, stroke, angina). Inoltre, maggiore è il rischio dei pazienti, maggiore è il

beneficio osservato. Gli svantaggi che l’angioplastica primaria offre rispetto alla trombolisi sono legati a

limitazioni tecnico-logistiche (non tutte le unità coronariche dispongono di una sala di emodinamica) ed

economiche (la procedura è molto più costosa del trattamento medico).

Capitolo 26. Diagnostica Strumentale, Carmen Spaccarotella, Ciro Indolfi

DEFINIZIONE

La diagnostica strumentale della cardiopatia ischemica è basata su tutte quelle indagini che permettono di

dimostrare la presenza di un’ischemia miocardica. In questo senso l’Elettrocardiografia, l’Ecocardiografia, la

Scintigrafia miocardica, la Coronarografia, la Tomografia computerizzata, la Risonanza magnetica, La TC

coronarica, etc possono mettere in luce diversi fenomeni suggestivi o dimostrativi dell’ischemia. Nel presente

Capitolo vengono esaminati soltanto alcuni aspetti relativi a: 1) il riconoscimento della cardiopatia ischemica nei

casi in cui questa non sia accertata, ma soltanto possibile in base ai dati clinici; 2) la valutazione del rischio di

eventi maggiori (infarto miocardico, morte improvvisa) in soggetti con cardiopatia ischemica già nota. Per gli

scopi suddetti vengono impiegati test volti a provocare un’ischemia miocardica, in particolare il test ergometrico

e l’eco-stress; la scintigrafia miocardica viene trattata nel Capitolo 6.

IL TEST DA SFORZO

E’ basato sulla registrazione dell’ECG prima a riposo e poi mentre il soggetto compie uno sforzo; l’eventuale

ischemia viene suggerita dalle modificazioni caratteristiche dell’ECG, associate o meno a sintomi, che si

verificano durante l’attività fisica. Questa indagine è in grado di identificare un’ischemia miocardica assente a

riposo e di stratificare il rischio in pazienti con angina stabile da sforzo.

Il test ergometrico viene effettuato di solito al cicloergometro o al treadmill (tappeto rotante); nel primo caso il

torace e le braccia del paziente sono relativamente stabili, permettendo di registrare una traccia

elettrocardiografica senza troppi artefatti. Il test al treadmill, tuttavia, sarebbe preferibile perchè consente di

effettuare uno sforzo più fisiologico, potendosi adattare la velocità e l’inclinazione del tappeto rotante all’agilità

del paziente. Il protocollo più utilizzato per quest’ultimo test è quello di Bruce, che prevede un aumento di

velocità e di inclinazione del tappeto ogni tre minuti.

Lo scopo dello sforzo è quello di incrementare gradualmente la frequenza cardiaca fino a raggiungere la

frequenza massimale (220 meno l’età del soggetto); in caso di test ergometrico effettuato dopo infarto

miocardico, tuttavia, viene solitamente utilizzato un protocollo sottomassimale (85% della frequenza massima

teorica). Il test è divenuto ormai pratica corrente perché utile nel predire il successivo andamento della

malattia; un test da sforzo positivo identifica il paziente ad alto rischio e rappresenta un’indicazione ad eseguire

un esame coronarografico.

I parametri più importanti deducibili dal test ergometrico sono la massima capacità di esercizio, l’entità del

sottoslivellamento o del sopraslivellamento del tratto ST, il tempo di recupero delle alterazioni

elettrocardiografiche (tempo necessario affinché le alterazioni dell’ECG indotte dallo sforzo regrediscano), il

numero di derivazioni in cui compaiono le anomalie del tratto ST, la soglia a cui compare il dolore anginoso e le

aritmie che si manifestano durante l’esercizio.

L’esercizio fisico provoca una complessa serie di eventi:

• Aumenta il ritorno venoso al cuore destro per l’azione di pompa dei muscoli delle gambe e l’aumentata

pressione negativa intratoracica nell’inspirazione profonda, con conseguente aumento della portata

cardiaca).

• Aumenta la frequenza cardiaca.

• Aumenta la gittata sistolica.

• Aumenta sia la forza di contrazione miocardica (per l’aumento del ritorno venoso, cioè del precarico, in

accordo con la legge di Frank-Starling) che la contrattilità, per l’incremento delle catecolamine circolanti.

L’ischemia miocardica è dovuta ad uno squilibrio fra apporto e richiesta miocardica di ossigeno. Questa è

principalmente influenzata dalla frequenza cardiaca, dalla tensione di parete e dallo stato contrattile. In

presenza di stenosi coronariche, il flusso si mantiene costante almeno fino ad un certo grado di stenosi, grazie

al meccanismo di autoregolazione coronarica (vedi Capitolo 23). In condizioni di riposo, il flusso coronarico si

riduce drasticamente solo quando la stenosi diventa molto serrata (> 90 %), mentre una stenosi del 75% non

riduce il flusso in condizioni basali. L’esercizio fisico provoca un incremento del consumo miocardico di O2, e fa

sì che il flusso coronarico divenga insufficiente a mantenere un normale metabolismo già in presenza di una

stenosi del 50%. Per tale motivo, lo sforzo può essere utilizzato per diagnosticare una stenosi coronarica.

INDICAZIONI E CONTROINDICAZIONI AL TEST DA SFORZO

Il test da sforzo può essere indicato per motivi diagnostici, prognostico-valutativi o di screening.

• Indicazioni Diagnostiche:

- cardiopatia ischemica sospetta in base ai dati clinico-anamnestici;

- pazienti con angina instabile a basso rischio (12-24 ore dall’ultimo sintomo);

- pazienti con angina instabile a rischio intermedio (2-3 giorni dall’ultimo sintomo);

- diagnosi differenziale in soggetti con sintomi da sforzo quali sincope, palpitazioni o vertigini;

- aritmie ricorrenti durante lo sforzo;

- diagnosi di ipertensione precoce borderline.

• Indicazioni prognostico-valutative:

• dopo infarto miocardico acuto (alla dimissione del paziente colpito da infarto, per la stratificazione del

rischio);

• angina cronica stabile dopo rivascolarizzazione miocardica (angioplastica o by-pass aortocoronarico);

• nell’insufficienza cardiaca cronica;

• nella valutazione dell’efficacia della terapia antianginosa ed antiaritmica.

• Indicazioni per screening:

• follow-up nei pazienti con cardiopatia ischemica nota;

• maschi oltre i 40 anni con attività lavorativa ad elevata responsabilità sociale, oppure con due o più

fattori di rischio coronarico maggiore, o che intraprendono attività fisica intensa;

• ipertesi asintomatici che intraprendono attività fisica intensa;

• per scopi assicurativi.

Sono controindicazioni all’esecuzione di un test ergometrico:

• L’infarto miocardico acuto.

• La miocardite o pericardite acuta.

• L’angina instabile.

• Le tachicardie ventricolari o atriali osservate subito prima dell’esecuzione del test.

• Il blocco AV di secondo o terzo grado.

• La stenosi severa, già nota, del tronco comune della coronaria sinistra.

• I tumori cardiaci.

• Lo scompenso cardiaco acuto.

• La sospetta embolia polmonare.

• L’ anemia severa, le infezioni gravi, l’ipertiroidismo.

• I disturbi importanti della deambulazione.

Controindicazioni relative sono: la stenosi aortica (se di grado severo il test è controindicato, se di grado

moderato deve essere eseguito con cautela); l’ipertensione grave (il test può essere eseguito se l’ipertensione è

controllabile farmacologicamente); l’ostruzione rilevante del tratto di efflusso del ventricolo sinistro

(cardiomiopatia ipertrofica nelle sue varie forme); il marcato sottoslivellamento del tratto ST già in condizioni

basali; gli squilibri elettrolitici.

CRITERI DI INTERRUZIONE DEL TEST DA SFORZO

Il test da sforzo deve essere interrotto quando si verifica :

• Angina ingravescente.

• Associazione del dolore con alterazioni significative del tratto ST.

• Aritmie minacciose (extrasistoli ventricolari con carattere di ripetitività (coppie) o tachicardia

ventricolare).

• Fibrillazione o flutter atriale.

• Blocco atrio-ventricolare di secondo o terzo grado.

• Riduzione della frequenza cardiaca o della pressione arteriosa nonostante la prosecuzione dello sforzo (in

particolare repentina diminuzione della pressione sistolica > 10 mmHg).

• Dolore muscolo-scheletrico importante.

• Sintomi da bassa gittata (pallore, vasocostrizione e sudorazione).

• Estremo aumento della pressione arteriosa .

• Raggiungimento della frequenza cardiaca massimale (220 meno l’età).

INTERPRETAZIONE DEL TEST DA SFORZO

Il test ergometrico viene interpretato in relazione a parametri clinici e strumentali. I parametri clinici sono i

sintomi (dolore toracico, dispnea, sincope) e i segni (pallore, cianosi, terzo tono, rantoli) dell’ischemia

miocardica da sforzo. Altri parametri importanti sono la capacità funzionale, cioè la capacità massima di

compiere lavoro muscolare, la risposta cronotropa, espressa dall’incremento della frequenza cardiaca

correlato allo sforzo, la risposta pressoria, e il doppio prodotto, rappresentato dal prodotto della frequenza

cardiaca per la pressione arteriosa sistolica.

L’analisi dell’elettrocardiogramma si concentra sulle alterazioni del tratto ST. Sono indicative di ischemia le

seguenti alterazioni:

• Il sottoslivellamento del tratto ST. Indica positività della prova da sforzo un sottoslivellamento

orizzontale del tratto ST > 1mm (0.1 mV) 80 msec dopo il punto J in almeno tre complessi consecutivi

(Figura 1B). Il sottoslivellamento discendente (Figura 1C) è un indicatore più netto di positività,

mentre il sottoslivellamento ascendente (Figura 1D, Figura 2) viene considerato diagnostico di

ischemia in caso di depressione persistente a 80 msec.

• Il sopraslivellamento del tratto ST è diagnostico se > 1 mm (0.1 mV) 80 msec dopo il punto J in almeno

tre complessi consecutivi (Figura 1E).

Figura 1 A. ECG normale.

B. Sottoslivellamento orizzontale di ST.

C. Sottoslivellamento discendente di ST.

D. Sottoslivellamento ascendente di ST.

E. Sopraslivellamento di ST.

Figura 2 A. Elettrocardiogramma a riposo.

B. All’acme dello sforzo, l’Elettrocardiogramma mostra un sottoslivellamento orizzontale-ascendente del tratto

ST nelle derivazioni anteriori.

L’ECO-STRESS

L’ecocardiografia da stress è una metodica alternativa al tradizionale ECG da sforzo. Il principio alla base è che

l’ischemia miocardica altera l’attività meccanica del cuore: il paragone fra la cinetica ventricolare in condizioni

basali (Figura 3) e quella osservata durante stress può suggerire la presenza di una stenosi coronarica, se lo

stress si accompagna a un peggioramento contrattile (Figura 4). Lo stress può essere fisico (in genere

effettuato al cicloergometro) o farmacologico; in questo caso è possibile impiegare farmaci inotropi come la

dobutamina, che aumenta il consumo miocardico di ossigeno attraverso l’incremento della frequenza e della

contrattilità, o farmaci vasodilatatori come il dipiridamolo e l’adenosina, che aumentano la perfusione dei tessuti

irrorati da coronarie sane e riducono la perfusione dei territori irrorati da coronarie stenotiche: un fenomeno

definito “furto coronarico”.

L’eco-stress trova indicazione soprattutto nei pazienti con alterazioni dell’ECG a riposo, (blocco di branca

sinistra, sottoslivellamento del tratto ST>1mm, ritmo da pacemaker o sindrome di Wolff-Parkinson-White) e in

quelli con ECG da sforzo non dirimente.

LA TOMOGRAFIA ASSIALE COMPUTERIZZATA MULTISTRATO

È una metodica non invasiva per la diagnosi di coronaropatia che va rapidamente estendendosi come indicazioni

cliniche. Un’applicazione emergente della TC è la valutazione del paziente con dolore toracico, in particolare

nella diagnosi differenziale tra sindrome coronarica acuta, dissezione aortica e trombo-embolia polmonare,

nonché nella distinzione di queste dalle malattie pleuriche o polmonari. La TC è in grado di identificare le

placche coronariche, specialmente quelle calcifiche, e di valutarne la morfologia; in caso di occlusioni

coronariche croniche, può dare informazioni sulla lunghezza dell’occlusione, e sulla presenza di calcificazioni.

CARATTERISTICHE TECNICHE

La “sfida” nella TC è rappresentata essenzialmente dalle dimensioni delle arterie coronarie (2-4 mm), dal loro

decorso complesso, tortuoso, e soprattutto, dal loro continuo movimento.

Requisiti fondamentali ed imprescindibili di una metodica diagnostica non invasiva nello studio del circolo

coronarico sono l’elevata risoluzione spaziale e temporale, l’elevata velocità di esecuzione, tale da consentire

l’acquisizione dei dati durante una singola apnea e ridurre così gli artefatti da movimenti respiratori, e la

corretta sincronizzazione delle immagini ricostruite con il ciclo cardiaco.

Nel caso di frequenze cardiache superiori a 65 battiti per minuto, è possibile impiegare algoritmi multi-

segmentali, ottenendo i dati necessari per la ricostruzione delle immagini da cicli cardiaci contigui e non da un

singolo ciclo.

E’ consigliabile, pertanto, studiare pazienti con frequenza cardiaca <65, impiegando in caso di frequenze

superiori ed in assenza di controindicazioni farmaci ß-bloccanti, somministrabili per os 45-60 minuti prima

dell’esame TC o per via endovenosa poco prima dell’acquisizione TC.

LIMITI ATTUALI

Le aritmie, la capacità di apnea del paziente ed il tempo necessario per il post-processing e l’adeguata

valutazione delle immagini costituiscono, sino ad ora, le principali limitazioni della TC coronarica.

A tali limitazioni vanno aggiunte quelle che riguardano la valutazione del lume coronarico in caso di marcata

ateromasia calcifica, e la valutazione della pervietà/stenosi dei bypass e delle loro anastomosi distali in caso di

elevato numero di clip chirurgiche lungo il decorso dei graft arteriosi; la valutazione del lume degli stent è

invece legata in parte alle loro dimensioni: è difficile analizzare stent con diametro inferiore ai 3 mm, come

accade per la maggior parte di quelli impiantati in segmenti coronarici non prossimali.

INDICAZIONI CLINICHE

In attesa delle imminenti innovazioni, è possibile ipotizzare per la TC un ruolo diagnostico concreto come:

- alternativa all’angiografia in pazienti con precedente stress-test equivoco;

- alternativa a stress-test o all’angiografia in pazienti con rischio basso-intermedio di malattia ischemica;

- follow-up in individui con sintomatologia atipica e precedentemente sottoposti ad intervento chirurgico di

rivascolarizzazione miocardica per lo studio dei by-pass;

- definizione delle anomalie coronariche.

Lo studio dei by-pass aortocoronarici (Figura 5) rappresenta attualmente la più indiscussa applicazione della

tomografia assiale computerizzata cardiaca

Sezione VII. Cardiomiopatie

Capitolo 27. Definizione e Classificazione, Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Fulvio Camerini

INTRODUZIONE

Il problema riguardante la definizione e la classificazione delle cardiomiopatie (CMP) rappresenta uno dei punti

maggiormente controversi nell’ambito della cardiologia.

L’introduzione nel linguaggio medico del termine “Cardiomiopatie” (= “Malattie del Muscolo Cardiaco”) risale a

circa mezzo secolo fa, ma è solo nel 1980 che venne pubblicato – da parte di un gruppo di esperti nominato

dalla World Health Organization e dalla International Society and Federation of Cardiology (WHO/ISFC) – il

primo documento ufficiale in tema di definizione e classificazione delle CMP. In quel documento, le CMP

venivano definite come malattie del muscolo cardiaco “da causa sconosciuta”; la loro natura “idiopatica” ne

rappresentava, pertanto, uno dei caratteri distintivi fondamentali da altre malattie cardiache ad eziopatogenesi

nota quali le cardiopatie ischemica, ipertensiva, valvolare, ecc.

Tuttavia, i progressi compiuti dalla ricerca – soprattutto nel campo della genetica – e la sempre più ampia

diffusione di nuove metodiche d’indagine non invasive, in particolare l’ecocardiografia, hanno condotto negli

anni successivi ad un significativo incremento delle conoscenze sulle CMP, rendendo inadeguato il documento

del 1980. Pertanto, nel 1995 la WHO e la ISFC hanno redatto congiuntamente un nuovo report che tuttora

costituisce il documento di riferimento in materia di definizione e classificazione delle CMP (Tabella I).

Gli aspetti salienti di tale documento sono:

1) la nuova definizione delle CMP come Malattie del Muscolo Cardiaco “associate a disfunzione cardiaca” sia

sistolica che diastolica. La precedente espressione “da causa sconosciuta” veniva soppressa, essendo divenuta

nel frattempo impropria alla luce delle nuove acquisizioni eziopatogenetiche;

2) la sottoclassificazione delle CMP in 4 tipi o forme principali: la CMP dilatativa (CMPD), la CMP ipertrofica

(CMPI), la CMP restrittiva (CMPR) e la CMP/displasia aritmogena del ventricolo destro (CMP/DAVD).

L’importanza del primo punto risiede nell’esplicito riconoscimento che, accanto ai casi “idiopatici” di CMP, ne

esistono altri in cui è viceversa possibile identificare la causa della malattia (ad esempio, nella quasi totalità dei

casi di CMPI ed in circa un terzo dei casi di CMPD è oggi documentabile un’eziologia genetica).

L’importanza del secondo punto è dovuta invece al fatto che la sottoclassificazione delle CMP viene operata sulla

base di quadri morfo-funzionali di semplice riconoscimento (in tal senso, un ruolo fondamentale è svolto

dall’indagine ecocardiografica), quali la dilatazione/ipocinesia ventricolare sinistra (CMPD), l’ipertrofia

ventricolare sinistra (CMPI), la severa compromissione di tipo “restrittivo” del riempimento diastolico (CMPR), il

prevalente coinvolgimento del ventricolo destro associato a spiccata aritmogenicità (CM/DAVD). Tale approccio

classificativo si rivela di grande utilità nella pratica clinica perché richiama immediatamente gli aspetti essenziali

e caratteristici di ciascuna CMP, orientando il cardiologo verso la corretta diagnosi e l’impiego appropriato delle

strategie terapeutiche attualmente disponibili.

Restano indubbiamente margini di incertezza classificativa che riguardano disordini aritmogeni “isolati” dovuti

ad alterazioni di funzione dei canali ionici o forme con interessamento miocardico ma difficilmente iscrivibili nei

4 gruppi principali come il “miocardio non compatto”, la “cardiomiopatia peripartum” e la “malattia tako-tsubo”.

A differenza di quanto proposto nel documento del 1995 della WHO/ISFC, non andrebbero invece utilizzati

termini fuorvianti come “cardiomiopatia ischemica”, “cardiomiopatia valvolare” e “cardiomiopatia ipertensiva”.

(Tabella I)

Tabella 1

Capitolo 29. Cardiomiopatia Dilatativa, Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Andrea Di Lenarda

DEFINIZIONE

La cardiomiopatia dilatativa (CMPD) viene definita come “Malattia del Muscolo Cardiaco caratterizzata da

dilatazione e ridotta contrattilità del ventricolo sinistro o di entrambi i ventricoli” e rappresenta – assieme alle

forme ipertrofica, restrittiva ed alla displasia aritmogena del ventricolo destro – uno dei quattro sottotipi

principali di Cardiomiopatia.

EPIDEMIOLOGIA

La prevalenza della CMPD nella popolazione generale è stimata essere di circa 1 caso ogni 2.500 abitanti e

l’incidenza pari a 4-8 nuovi casi/100.000 individui/anno. Tuttavia, la sua reale frequenza è certamente

superiore, considerando che la maggior parte dei soggetti ancora asintomatici ma già con le “stimmate” della

malattia (dilatazione e disfunzione ventricolare sinistra) non vengono identificati sino a che non compaiono i

primi sintomi e segni riferibili a scompenso cardiaco o a turbe del ritmo e della conduzione.

ANATOMIA PATOLOGICA

Il fondamentale reperto anatomo-patologico macroscopico della CMPD è rappresentato dalla più o meno

cospicua dilatazione di una od entrambe le camere ventricolari; anche gli atri, specialmente nelle fasi avanzate

della malattia, sono dilatati.

La progressiva dilatazione delle camere cardiache associata all’insufficienza contrattile del miocardio

comportano fenomeni di stasi che facilitano la formazione di trombi endocavitari, di riscontro non infrequente in

sede autoptica e documentabili prevalentemente a carico delle sezioni cardiache di sinistra.

La dilatazione delle camere cardiache e l’ipocinesia delle loro pareti frequentemente concorrono anche a

determinare l’allargamento degli osti atrio-ventricolari e lo stiramento delle corde tendinee da diastasi dei

muscoli papillari, con conseguente insufficienza valvolare “funzionale” mitralica e/o tricuspidale.

Per definizione, il circolo coronarico appare angiograficamente indenne o privo di stenosi “critiche” a carico dei

grossi vasi epicardici.

Il reperto isto-morfologico è aspecifico, le alterazioni principali essendo rappresentate da degenerazione

miocellulare e diminuzione del numero delle miocellule, ipertrofia dei miociti residui, fibrosi sostitutiva ed

interstiziale, infiltrati flogistici di tipo linfo-istiocitario in genere sparsi e presenti nell’interstizio.

EZIOPATOGENESI

Accanto ai casi “idiopatici” di CMPD, ve ne sono altri per i quali è possibile identificare con precisione la causa.

Come per le altre forme di cardiomiopatia, anche per la CMPD i maggiori progressi in termini di conoscenze

eziopatogenetiche riguardano il campo della genetica. A differenza di quanto si riteneva in passato, le forme

familiari di CMPD sono piuttosto frequenti (circa 1/3 dei casi). Le diverse modalità di trasmissione ereditaria

(autosomica dominante, autosomica recessiva, legata al cromosoma X) e di presentazione clinica (in relazione

al grado di penetranza, all’età di insorgenza, all’interessamento isolato o meno del miocardio, ecc) della CMPD

familiare indicano l’esistenza di una marcata eterogeneità genotipica e fenotipica. L'analisi del tipo di

trasmissione genetica, del fenotipo e, quando disponibili, dei dati di genetica molecolare ha importanza non solo

conoscitiva ma anche clinica perché le differenti forme possono non solo avere differente quadro clinico ma

anche differente prognosi e differente rischio di malattia per i familiari.

Fattori infettivi/immunitari potrebbero rivestire un ruolo importante nel determinismo della CMPD, anche se i

meccanismi con cui in questo caso si realizza il danno miocardico non sono del tutto chiariti. I virus possono

indurre un effetto citolitico diretto correlato alla loro virulenza come pure attivare una reazione autoimmune

secondaria a “mimetismo” molecolare tra epitopi virali e costituenti normali del miocardio ad essi simili.

QUADRO CLINICO

La CMPD può manifestarsi in pazienti di tutte le età, ma nella maggior parte dei casi l’esordio avviene tra i 20

ed i 50 anni. La malattia colpisce prevalentemente il sesso maschile, con un rapporto maschi/femmine di circa

3:1.

Dal punto di vista clinico, la CMPD si manifesta più frequentemente con scompenso cardiaco od aritmie

ventricolari o sopraventricolari. In oltre il 50% dei pazienti, la presentazione clinica è rappresentata da un

quadro di scompenso cardiaco sinistro; in una minore percentuale di casi, possono essere prevalenti i segni di

scompenso destro.

Le aritmie sono un’evenienza frequente nella CMPD e non di rado costituiscono le prime manifestazioni cliniche;

tuttavia, solo raramente sincope e morte improvvisa rappresentano l'esordio della malattia.

Un dolore toracico, per lo più da sforzo e talora con le caratteristiche di un’angina, rappresenta il sintomo

principale d’esordio della CMPD nel 10-20% dei casi; in questi pazienti, è stata dimostrata una minore riserva

coronarica.

Nel 2-4% dei casi, usualmente con avanzata compromissione della funzione ventricolare e marcata

cardiomegalia, la manifestazione clinica iniziale è costituita da un episodio embolico sistemico o polmonare.

Talvolta, il sospetto di CMPD viene posto a paziente asintomatico. Si tratta di casi scoperti fortuitamente in

occasione di una visita medica (ad esempio, per riscontro di un soffio cardiaco) o di un’indagine strumentale (ad

esempio, per il riscontro di blocco di branca sinistra all’elettrocardiogramma o di cardiomegalia alla radiografia

del torace) effettuate per altri motivi.

DIAGNOSI

Di fronte ad una presentazione clinica suggestiva per CMPD, è necessario integrare i dati anamnestici e clinici

con le opportune indagini strumentali e di laboratorio.

Elettrocardiogramma. La tachicardia sinusale è un dato di frequente riscontro all’ECG standard. Possono

essere presenti anche turbe della conduzione atrio-ventricolare ed intra-ventricolare, in particolare il blocco di

branca sinistra (vedi Capitolo 3), e anche onde Q di “pseudo-necrosi” in sede anteriore, in associazione con

estesa fibrosi di questa regione. Anche le alterazioni della ripolarizzazione sono di frequente riscontro, come

pure l’intero spettro delle aritmie sopraventricolari e ventricolari.

Radiogramma toracico. La cardiomegalia (rapporto cardio-toracico > 0.5) è di comune riscontro, come pure i

segni di redistribuzione a carico del circolo polmonare. Congestione interstiziale ed alveolare sono spesso

documentabili nelle forme più avanzate.

Ecocardiogramma. L’anamnesi, l’esame obiettivo, l’ECG e la radiografia del torace non sono in grado di fornire

elementi specifici che consentano con sicurezza una diagnosi di CMPD, la quale richiede la presenza di alcuni

criteri evidenziabili solamente con l’esecuzione di un ecocardiogramma.

La CMPD è classicamente caratterizzata, da un punto di vista ecocardiografico, dalla presenza di una dilatazione

globale del ventricolo sinistro associata a diffuse alterazioni della cinetica parietale con ridotta funzione di

pompa (frazione di eiezione < 45%). Nei casi in fase avanzata, il ventricolo sinistro, oltre che essere di volume

notevolmente aumentato, assume una geometria caratterizzata da una morfologia più globosa e quindi meno

ellissoidale che di norma. L’ecocardiogramma è anche in grado di documentare eventuali asincronie nella

contrazione inter- ed intra-ventricolare (conseguenti a disturbi di conduzione, in particolare il blocco di branca

sinistra), che possono contribuire a peggiorare la funzione di pompa cardiaca.

Un’insufficienza mitralica “funzionale”, cioè in assenza di alterazioni strutturali dei lembi, è un reperto frequente

nella CMPD, e l’ecocardiogramma rappresenta l’indagine di elezione per confermarne la presenza e

quantificarne la rilevanza emodinamica.

Metodiche invasive. La coronarografia rimane un’indagine di fondamentale importanza per la diagnosi

differenziale tra CMPD e cardiopatia ischemica in fase dilatativo-ipocinetica. E’ indicata soprattutto nei pazienti

di sesso maschile ed età > 35 anni, con uno o più fattori di rischio coronarico e/o indicatori clinico-strumentali

suggestivi di coronaropatia (angina, alterazioni segmentarie della cinetica ventricolare all’ecocardiogramma,

ischemia miocardica alla scintigrafia miocardica od all’ecocardiogramma da stress).

Il cateterismo cardiaco consente uno studio emodinamico dettagliato con la misurazione delle pressioni di

riempimento ventricolare e della portata cardiaca, e mantiene un ruolo importante nella valutazione della

gravità e nella stratificazione prognostica dei pazienti con CMPD.

DIAGNOSI DI CMPD FAMILIARE

Lo studio di una famiglia con CMPD si basa su un’accurata costruzione dell’albero genealogico e della storia

familiare (volta ad individuare il possibile pattern di trasmissione della malattia) e sullo screening clinico-

strumentale (ECG, ecocardiogramma) di tutti i parenti di primo grado (genitori, fratelli/sorelle, figli) del

probando (primo individuo affetto di una famiglia che giunge all’osservazione). La valutazione clinico-

strumentale andrebbe ripetuta periodicamente non solo nei familiari affetti anche in quelli sani per escludere

un’evoluzione tardiva della malattia dovuta alla bassa penetranza.

La CMPD viene definita familiare: 1) in presenza di due o più individui affetti in una famiglia o 2) in presenza di

un parente di primo grado di un paziente con CMPD che abbia avuto una morte improvvisa, documentata ed

inaspettata, ad una età inferiore di 35 anni.

PROGNOSI

La prognosi della CMPD è caratterizzata da una elevata mortalità (all’inizio degli anni ’80 era stimata essere del

50% a 2 anni dalla diagnosi), risultando in linea di massima tanto peggiore quanto maggiori sono le alterazioni

morfo-funzionali a carico del ventricolo sinistro (marcata dilatazione, bassa frazione di eiezione) e quanto più

severi sono i sintomi (avanzata classe NYHA). Studi recenti hanno tuttavia dimostrato che una diagnosi precoce

ed un altrettanto precoce impiego di farmaci efficaci come gli ACE-inibitori ed i betabloccanti possono

significativamente contribuire a modificare favorevolmente la storia naturale dei pazienti con CMPD

(sopravvivenza libera da trapianto cardiaco del 60% a 10 anni dalla diagnosi).

CENNI DI TERAPIA

Non sono attualmente disponibili terapie specifiche per la CMPD. Gli obiettivi principali del trattamento

consistono nel limitare la progressione dello scompenso cardiaco e nel controllare le aritmie. Tra le misure

generali sono incluse l’educazione del paziente, la restrizione dell’apporto di sale e fluidi con la dieta con

limitazione dell’introito alcolico, il controllo del peso corporeo e l’esecuzione di un moderato esercizio fisico

aerobico.

Terapia medica. La terapia medica si avvale degli agenti farmacologici comunemente impiegati nel

trattamento del modello dilatativo-ipocinetico di scompenso cardiaco. Fra questi, i più importanti sono gli ACE-

inibitori, gli antagonisti recettoriali dell’angiotensina (sartani), i betabloccanti, i diuretici tiazidici e/o dell’ansa,

gli antagonisti recettoriali dell’aldosterone.

Gli ACE-inibitori ed i betabloccanti sono efficaci nei pazienti con scompenso cardiaco da lieve a severo (NYHA II-

IV); gli ACE-inibitori lo sono anche in quelli con disfunzione ventricolare ancora in fase asintomatica (classe

NYHA I). Nei casi in cui vi sia intolleranza agli ACE-inibitori, appare giustificato l’impiego dei sartani.

I diuretici tiazidici e/o dell’ansa vanno impiegati con l’obiettivo di controllare il fenomeno della ritenzione idro-

salina, modulando le dosi in funzione del grado di congestione polmonare e periferica. Gli antagonisti

recettoriali dell’aldosterone sono indicati solo nello scompenso cardiaco moderato-severo.

La digitale è utile per il controllo della frequenza ventricolare nei pazienti con fibrillazione atriale e in quelli in

ritmo sinusale con scompenso persistente nonostante la terapia con antagonisti neuro-ormonali e diuretici.

Nelle fasi avanzate della malattia possono essere impiegati farmaci inotropi per via endovenosa,

particolarmente la dobutamina (farmaco simpaticomimetico con effetto predominante beta1-agonista) o gli

inibitori delle fosfodiesterasi (amrinone, milrinone ed enoximone) che sono allo stesso tempo inotropi e

vasodilatatori. Dati recenti suggeriscono l’efficacia del levosimendan, un farmaco sensibilizzatore al calcio con

proprietà anche di vasodilatazione.

Il trattamento anticoagulante, volto a prevenire l’embolia polmonare o sistemica, viene raccomandato nei

pazienti con fibrillazione atriale o in quelli a ritmo sinusale ma con trombosi endocavitaria e/o pregressa

embolia, e anche nei soggetti con marcata dilatazione ventricolare e frazione di eiezione < 20-25%.

Terapia meccanica. L’impiego di “device” meccanici nel trattamento dei pazienti con CMPD, sia per quanto

riguarda la prevenzione della morte improvvisa (defibrillatore impiantabile) che per il ripristino della sincronia

della contrazione cardiaca (terapia di resincronizzazione cardiaca mediante pace-maker biventricolare), trova

indicazione in selezionati sottogruppi di pazienti.

Assistenza ventricolare meccanica e cardiochirurgia. Sono state proposte procedure chirurgiche

complementari alla sostituzione cardiaca, nell’ottica di “ponte al trapianto” od a questo alternative. In pazienti

selezionati, è possibile limitare la progressione della malattia correggendo l’insufficienza mitralica mediante

valvuloanuloplastica.

Nel corso di episodi di severa riacutizzazione della malattia oppure nei pazienti in attesa di trapianto, giunti allo

stadio terminale dello scompenso cardiaco, è possibile utilizzare dispositivi meccanici che sostituiscono

temporaneamente la funzione di pompa del cuore (assistenza ventricolare meccanica). L’assistenza ventricolare

meccanica consente il ripristino di un’emodinamica normale e di una perfusione tissutale adeguata sostituendo

la funzione di pompa del cuore con dispositivi meccanici di vario tipo. Sono in corso di valutazione nuove

prospettive per un’assistenza meccanica a lungo termine potenzialmente alternativa alla sostituzione cardiaca.

Trapianto cardiaco. La sostituzione cardiaca con organo di un donatore compatibile rimane allo stato attuale

la soluzione più efficace per i pazienti con scompenso cardiaco severo, refrattario ad ogni forma di terapia

medica (vedi Capitolo 66). La sopravvivenza ad 1 anno, 5 anni e 10 anni si è attestata rispettivamente intorno

all’80, 68 e 56%. Il problema maggiore è costituito dalla carenza di donazioni.

Capitolo 30. Cardiomiopatia Restrittiva, Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Rossana Bussani,

Andrea Perkan

DEFINIZIONE

Le cardiomiopatie restrittive (CMPR) sono un gruppo eterogeneo di malattie del muscolo cardiaco accomunate

dal fatto che il ventricolo sinistro (o, più di rado, entrambi i ventricoli) presenta(no) un pattern di riempimento

diastolico di tipo restrittivo con volume diastolico generalmente ridotto, pareti incostantemente aumentate di

spessore e funzione sistolica normale o modicamente ridotta. L’espressione “pattern restrittivo” indica che

durante la diastole vi è un ostacolo al riempimento del ventricolo, il quale non riesce ad accogliere il sangue

perché le sue pareti sono rigide e poco distensibili. Di conseguenza, la pressione diastolica ventricolare aumenta

e tale incremento si riflette a monte per cui si manifesta ipertensione anche nell’atrio, nelle vene tributarie

dell’atrio, nei capillari, ecc.

Il termine CMPR deve essere riservato esclusivamente a quelle patologie cardiache in cui il pattern restrittivo

costituisce l'elemento caratterizzante il quadro fisiopatologico.

EZIOPATOGENESI ED ANATOMIA PATOLOGICA

Esistono forme primitive e secondarie di CMPR. Tra le prime vanno incluse la cosiddetta CMPR idiopatica

(talvolta familiare con trasmissione di tipo autosomico dominante), la sindrome di Löffler e la fibrosi

endomiocardica. Le forme secondarie comprendono le CMPR infiltrative (amiloidosi, sarcoidosi, ecc) e quelle da

accumulo (emocromatosi, ecc).

Ognuna di queste condizioni presenta specifici quadri istopatologici. Tuttavia, in linea generale, il reperto

macroscopico è quello di un cuore con atri marcatamente dilatati e spesso sede di trombi, mentre i ventricoli

appaiono grossolanamente normali.

QUADRO CLINICO

Nella maggior parte dei casi, le prime manifestazioni cliniche sono rappresentate da sintomi e segni di

scompenso cardiaco quali ridotta tolleranza allo sforzo, astenia, dispnea da sforzo, dispnea parossistica

notturna ed ortopnea, edemi declivi ed ascite. La comparsa di fibrillazione atriale è un evento frequente nei

soggetti con forme idiopatiche o secondarie ad amiloidosi; circa un terzo dei pazienti può presentare episodi

tromboembolici. Nonostante la relativamente bassa frequenza di aritmie minacciose (blocco atrio-ventricolare di

III grado o tachicardia ventricolare), la morte improvvisa rappresenta comunque un evento possibile.

L'esame obiettivo consente di rilevare valori di pressione arteriosa normali o ridotti con tendenza all'ipotensione

ortostatica in una significativa percentuale di pazienti. E' spesso presente tachicardia a riposo. Il I ed il II tono

sono in genere normali, ma si ascoltano spesso un III e/o un IV tono. E' possibile rilevare un soffio olosistolico

da rigurgito mitralico o tricuspidale. Particolarmente nelle fasi avanzate, il fegato si presenta aumentato di

volume e le vene giugulari sono distese.

DATI DI LABORATORIO E STRUMENTALI

In generale, nelle CMPR idiopatiche non sono presenti significative alterazioni dei parametri ematochimici. Il

riscontro di indici di flogosi alterati e di ipereosinofilia orienta verso un’endocardite di Löffler. Nelle forme da

amiloidosi possono essere presenti diverse alterazioni quali anemia, leucocitosi, elevazione della velocità di

eritrosedimentazione e della proteina C-reattiva, ipofibrinogenemia, iposideremia, monoclonalità

all’immunoelettroforesi proteica o segni di compromissione della funzione renale ed epatica.

La radiografia del torace può mettere in evidenza un aumento delle dimensioni dell’ombra cardiaca, segni di

congestione interstiziale od alveolare e versamento pleurico.

Le possibili anomalie elettrocardiografiche includono i bassi voltaggi dei complessi QRS nelle derivazioni

periferiche, le onde Q di “pseudonecrosi” nelle derivazioni antero-settali, il sottolivellamento del tratto ST; sono

frequentemente descritti anche segni di ingrandimento atriale (ECG 47), di ipertrofia ventricolare sinistra ed

aritmie di vario tipo. Nei pazienti con amiloidosi, le alterazioni del sistema di conduzione non sembrano

particolarmente frequenti, mentre in quelli con CMPR idiopatica sono spesso documentabili blocchi atrio-

ventricolari ed intra-ventricolari.

ECG. 47 - Miocardiopatia restrittiva

Questo elettrocardiogramma è stato registrato in una paziente di 11 anni affetta da miocardiopatia restrittiva

primitiva. Le alterazioni maggiori riguardano l’onda P, il cui voltaggio è notevolmente aumentato, e suggerisce

in prima istanza un ingrandimento atriale destro. La durata della P, però, è aumentata e raggiunge 0,10

secondi, tanto da far sospettare un contemporaneo ingrandimento anche dell’atrio sinistro.

Nelle derivazioni V4R e V1 l’onda P è bifasica +/- con componente positiva appuntita che raggiunge un

voltaggio di quasi 0,5 mV; contrasta con la notevole ampiezza della P la piccolezza del complesso QRS, il cui

voltaggio in V1 supera appena 0,3 mV. Le onde T presentano alterazioni diffuse non specifiche nelle derivazioni

periferiche e anche nelle precordiali sinistre.

L’ecocardiogramma è l’indagine diagnostica cardine, mediante la quale è possibile evidenziare un ventricolo

sinistro non ingrandito, con spessori parietali normali o solo lievemente aumentati e con funzione di pompa

normale o quasi. L'ispessimento e l’aspetto granulare delle pareti del ventricolo sinistro ed in particolare del

setto interventricolare ("a vetro smerigliato") è caratteristico delle forme amiloidosiche. Il ventricolo destro può

presentarsi dilatato, specie nei casi con ipertensione polmonare. E’ pressoché costantemente documentabile

una dilatazione biatriale. Le valvole atrio-ventricolari appaiono frequentemente ispessite, e spesso si associa un

rigurgito mitralico e/o tricuspidale. Lo studio del riempimento ventricolare sinistro mediante analisi Doppler del

flusso a livello della valvola mitrale documenta un pattern di tipo “restrittivo” (ECO Figura45).

L’ecocardiogramma transesofageo può essere utile per ricercare in modo più accurato l’eventuale presenza di

trombi endocavitari.

Sebbene l'integrazione degli dati ottenibili dalla valutazione clinica e dagli esami strumentali non invasivi

consenta nella maggior parte dei casi di porre correttamente la diagnosi, il cateterismo cardiaco e la biopsia

endomiocardica conservano un ruolo importante nello studio della CMPR.

In corso di cateterismo cardiaco, l’aspetto emodinamico caratteristico è il “segno della radice quadrata” (“dip

and plateau”), che si apprezza nella curva della pressione protodiastolica ventricolare ed è dovuto ad una ripida

discesa della pressione ventricolare all’inizio della diastole seguita da un brusco incremento e da un plateau in

protodiastole. La pressione sistolica e la pressione di riempimento ventricolare destro possono essere elevate.

Le pressioni di riempimento nelle sezioni di sinistra sono usualmente maggiori di 5 mmHg rispetto alle sezioni di

destra, e la pressione capillare polmonare (“pressione di incuneamento”) è in genere elevata.

La biopsia endomiocardica è particolarmente utile nella differenziazione istologica, immunoistichimica ed

ultrastrutturale delle diverse CMPR.

Nelle forme idiopatiche, i reperti sono sostanzialmente aspecifici con ipertrofia cellulare e fibrosi interstiziale in

assenza, tranne che per quel che riguarda la sindrome di Loffler, di infiltrati cellulari.

La presenza di amiloide nel miocardio è confermata dalla positività per il rosso Congo, che conferisce al tessuto

una tipica birifrangenza all'esame con luce polarizzata. L'indagine immunoistochimica consente di differenziare i

vari tipi di amiloide (catene leggere immunoglobuliniche in corso di mieloma, transitiretina, lisozima, beta2

microglobulina, fattori natriuretici).

La biopsia endomiocardica consente inoltre di definire la causa di altre forme meno frequenti di CMPR da

accumulo miocardico. L’accumulo di ferro intramiocardico è facilmente evidenziabile con la colorazione di

Pearls; nella sindrome di Löffler, la biopsia endomiocardica evidenzia un quadro di marcata infiltrazione

eosinofila dell’endocardio e del miocardio; nella fibrosi endomiocardica è dimostrabile la presenza di ampie

deposizioni di tessuto collageno e di connettivo che interessano l’endocardio, il subendocardio ed il miocardio.

Studi scintigrafici mirati o metodiche di risonanza magnetica cardiaca con gadolinio possono contribuire alla

diagnosi e caratterizzazione di alcune di queste forme

DIAGNOSI DIFFERENZIALE

La CMPR presenta spesso aspetti clinici indistinguibili dalla pericardite costrittiva, con problemi di diagnosi

differenziale difficili da risolvere (vedi Capitolo 32). Una storia di pericardite acuta, pregressa infezione

tubercolare, trauma toracico, intervento cardiochirurgico o terapia radiante del mediastino può orientare verso

la diagnosi di pericardite costrittiva. All’indagine invasiva, il rilievo di una pressione telediastolica del ventricolo

sinistro inferiore di almeno 5 mmHg rispetto alla pressione telediastolica del ventricolo destro, di una pressione

sistolica del ventricolo destro 50 mmHg ed di un rapporto pressione telediastolica/pressione sistolica del

ventricolo destro 0.33 orienta verso una pericardite costrittiva.

La tomografia computerizzata e la risonanza magnetica sono in grado di fornire informazioni più complete su

eventuali alterazioni del pericardio e sulla struttura della parete miocardica. Anche la biopsia endomiocardica

può essere di ausilio nella differenziazione della CMPR dalla pericardite costrittiva, particolarmente nei casi in

cui è possibile riscontare un’infiltrazione miocardica.

CENNI DI TERAPIA

In generale, la terapia farmacologica delle CMPR si avvale dei diuretici per una terapia sintomatica della

congestione secondaria allo scompenso cardiaco diastolico. Il dosaggio dei diuretici deve essere stabilito con

cautela, per evitare una sindrome da bassa portata conseguente ad eccessiva riduzione del precarico. Nei

pazienti affetti da amiloidosi cardiaca devono essere evitati la digitale e i calcio-antagonisti in quanto questi

farmaci possono causare fenomeni tossici anche con dosaggi generalmente ritenuti terapeutici.

In caso di fibrillazione atriale, è necessario tentare di ristabilire il ritmo sinusale perché l’assenza del contributo

atriale al riempimento ventricolare comporta un sostanziale peggioramento della disfunzione diastolica. A

questo scopo, sono indicati sia la cardioversione elettrica che quella farmacologica mediante l’impiego di agenti

antiaritmici, in particolare l’amiodarone. In casi di difetti di conduzione atrio-ventricolare di grado avanzato può

rendersi necessario l’impianto di un pace-maker.

Il trattamento anticoagulante orale appare indicato nei pazienti con rischio tromboembolico, in particolare in

quelli con riscontro ecocardiografico di trombi endocavitari, marcata dilatazione atriale, episodi ricorrenti di

fibrillazione atriale parossistica o fibrillazione atriale cronica.

Non esiste al momento la possibilità di migliorare l’evoluzione delle forme idiopatiche con trattamenti

farmacologici specifici e, nelle fasi avanzate, il trapianto cardiaco rappresenta l’unica valida opzione terapeutica.

Capitolo 31. Cardiomiopatia/Displasia Aritmogena del Ventricolo Destro, Luciano Daliento, Barbara

Bauce, Cristina Basso, Alessandra Rampazzo, Gaetano Thiene, Andrea Nava

DEFINIZIONE

La cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro è una malattia caratterizzata, dal punto di vista morfologico,

da una sostituzione fibro-adiposa di tratti più o meno estesi del ventricolo destro, con un non raro

interessamento del ventricolo sinistro.

Le alterazioni anatomiche sono responsabili di modificazioni morfofunzionali delle pareti ventricolari,

riconoscibili mediante le tecniche di imaging, e fungono da substrato per l’instaurarsi di aritmie da rientro. La

malattia è di origine genetica, nella maggior parte dei casi con trasmissione autosomica dominante; sono stati

finora identificati diversi geni-malattia. L’espressione clinica può essere diversa da soggetto a soggetto, sia per

quanto riguarda le modificazioni morfo-funzionali cardiache che per il grado di instabilità elettrica, anche in

pazienti portatori di un’identica mutazione.

QUADRO CLINICO

La presenza, in giovani adulti, di aritmie ventricolari con morfologia tipo blocco di branca sinistra,

associate ad alterazioni morfo-funzionali del ventricolo destro, soprattutto delle zone che definiscono il

cosiddetto “triangolo della displasia” (la regione sottotricuspidale, la punta e la regione dell’infundibolo)

caratterizzano il quadro clinico e rendono possibile la diagnosi. Prevalgano in genere le forme di malattia con

estensione lieve, e raramente il processo di sostituzione fibro-adiposa è così diffuso da provocare importante

cardiomegalia o severa riduzione della funzione di pompa. Il fatto che venga interessato soprattutto il ventricolo

destro spiega perché i pazienti affetti siano capaci, nella maggior parte dei casi, di ottime prestazioni funzionali;

molti di essi, anzi, svolgono attività sportiva e spesso gli eventi aritmici maggiori si avverano proprio durante

una intensa attività fisica. Non è raro, infatti, che la morte improvvisa sia la prima manifestazione clinica nei

giovani pazienti.

DIAGNOSI

Una Task Force della Società Europea di Cardiologia ha definito i criteri diagnostici per la Cardiomiopatia

aritmogena, basati oltre che sui dati clinico-anamnestici anche sulle modificazioni morfo-funzionali individuate

con le varie tecniche di imaging (Tabella I).

Nello studio clinico di un soggetto con aritmie ventricolari è fondamentale eseguire un’attenta e completa

anamnesi familiare riguardo la presenza, nel gentilizio, di morti precoci ed inattese o episodi sincopali. Le

metodiche di imaging (ecocardiogramma, risonanza magnetica cardiaca ed angiografia) sono indubbiamente le

più valide per la definizione diagnostica delle alterazioni morfo-funzionali delle pareti ventricolari;

l’elettrocardiogramma, l’esame Holter delle 24 ore e l’elettrocardiogramma ad alta amplificazione, assieme allo

studio elettrofisiologico e alla ricostruzione della mappa elettroanatomica ventricolare destra, sono utili

soprattutto per la stratificazione del rischio aritmico.

Elettrocardiogramma

L’ECG è normale in circa il 20% dei soggetti con diagnosi clinica di cardiomiopatia aritmogena; in questi è

generalmente presente una scarsa sostituzione fibro-adiposa. La maggior parte dei pazienti, invece, presentano

onde T negative nelle precordiali destre (Figura 1), ed in alcuni sono anche evidenti in queste derivazioni

onde epsilon, piccole deflessioni presenti nel tratto ST o nell’onda T che esprimono la depolarizzazione

estremamente ritardata di alcune zone del ventricolo destro (Figura 2).

Figura 1 Elettrocardiogramma di un paziente con sospetto clinico di cardiomiopatia aritmogena. In tutte le

derivazioni si osserva una riduzione dell’ampiezza del QRS; le onde T sono invertite nelle precordiali destre.

Figura 2 Complesso QRS con evidenti alterazioni all’inizio della fase di ripolarizzazione (tratto ST)

Extrasistoli ventricolari o tachicardia ventricolare con morfologia tipo blocco di branca sinistra sono molto

comuni nella cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro; esistono anche forme con aritmie ventricolari

ripetitive polimorfe, associate ad un maggior rischio di morte improvvisa. La morfologia dei complessi ectopici

somiglia a quella del blocco di branca sinistra poiché le aritmie nascono nel ventricolo destro. L’impulso ectopico

genera un’attivazione non simultanea dei ventricoli: dapprima si depolarizza il ventricolo destro, sede in cui

l’impulso nasce, e poi il processo di attivazione si comunica al ventricolo sinistro; questa sequenza di diffusione

dell’impulso nei ventricoli è identica a quella che si realizza nel blocco di branca sinistra. In quest’ultimo caso,

però, il meccanismo da cui essa dipende è l’incapacità della branca sinistra a condurre l’impulso, per cui il

processo di depolarizzazione si realizza prima nel ventricolo destro, la cui branca è integra, e solo tardivamente

il fronte d’onda si trasmette anche al ventricolo sinistro.

All’elettrocardiogramma amplificato si registrano potenziali tardivi nella quasi totalità dei pazienti che

presentano forme severe di cardiomiopatia aritmogena, nel 70-80 % dei pazienti con forme moderate e in poco

più del 50% dei pazienti con forme lievi.

Il test ergometrico viene utilizzato non tanto per misurare la capacità funzionale, quanto per osservare il

comportamento delle aritmie e la loro eventuale scomparsa o insorgenza durante lo sforzo.

Metodiche di imaging

L’ecocardiografia, la risonanza magnetica nucleare e la cineventricolografia sono metodiche idonee alla diagnosi

anche nelle forme con scarsa compromissione parietale. La presenza di un bulging (rigonfiamento) diastolico o

di discinesie sistoliche della parete infero-basale del ventricolo destro, giusto sotto la inserzione del lembo

posteriore della valvola tricuspide, la disomogeneità della architettura trabecolare, la dilatazione

dell’infundibolo, l’alterata configurazione dei margini della parete libera, soprattutto dell’apice, sono segni

caratteristici della malattia.

Riguardo la risonanza magnetica, si dà ormai più importanza al riscontro di alterazioni della cinetica dei

ventricoli che all’aumento del segnale riferibile a grasso. Dati incoraggianti stanno arrivando dall’utilizzo del

mezzo di contrasto gadolinio, capace di identificare le aree miocardiche che presentano fibrosi (vedi Capitolo 7).

Al momento attuale, l’indagine di imaging a maggior grado di sensibilità e specificità rimane la

cineventricolografia. La presenza di bulging diastolici della parete anteriore e sottotricuspidale, associata a

trabecole disposte trasversalmente, ispessite e intervallate da profonde fessure, raggiungono la più elevata

sensibilità e specificità diagnostica. L’interessamento del ventricolo sinistro è più frequente di quanto non si

ritenesse in passato e solitamente lo si ritrova nei soggetti adulti.

Biopsia endomiocardica

La biopsia endomiocardica rappresenta un valido supporto sia per la diagnosi, quando è presente nel prelievo

sostituzione fibro-adiposa, sia per la stratificazione del rischio aritmico, poiché la presenza di una significativa

componente infiammatoria o necrotica o di elementi apoptosici possono essere messi in relazione con una fase

attiva della malattia, in cui l’instabilità elettrica è particolarmente spiccata.

GENETICA

Sono stati finora riconosciuti 11 loci di mutazione genetica associati alla cardiomiopatia aritmogena. Una forma

autosomica recessiva associata a keratoderma palmo-plantare e capelli ricci è stata descritta in pazienti che

vivono nell’isola greca di Naxos. Questa forma è causata da una mutazione del gene della Plakoglobina,

localizzato nel cromosoma 17q21, che codifica per un componente chiave dei desmosomi. In pazienti che

presentavano criteri clinico-diagnostici per la cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro sono state

identificate mutazioni del gene della Desmoplakina e della Desmogleina-2, proteine presenti nei desmosomi,

dove svolgono un ruolo fondamentale nell’assicurare la giunzione tra una cellula e l’altra.

In una famiglia con alta ricorrenza di morte improvvisa giovanile, aritmie ventricolari polimorfe, e lievi

alterazioni morfo-funzionali del ventricolo destro è stata identificata una mutazione del gene RyR2 che regola

l’attività del recettore rianodinico cardiaco. Questo gene è fra i più grandi del genoma umano, essendo

costituito da 106 esoni, e codifica per il recettore rianodinico, che regola l’omeostasi intracellulare del calcio. La

mutazione di questo gene provoca un aumento della concentrazione di ioni calcio all’interno del miocita e

favorisce l’insorgenza delle aritmie ventricolari durante sforzo.

Sulla base delle conoscenze genetiche, si può ipotizzare che la patogenesi molecolare di questa malattia risieda

nel fatto che il danno della parete ventricolare con successivo processo riparativo sia la conseguenza di una

debolezza del sistema delle giunzioni desmosomiali. Dato che i desmosomi sono presenti in tutto il miocardio, le

alterazioni della proteine desmosomiali nei soggetti con mutazione genica sono espresse sia a livello del

miocardio ventricolare destro che sinistro. Il fatto che in questa malattia siano prevalenti le alterazioni

morfologiche a carico del ventricolo destro è verosimilmente dovuto al diverso spessore della parete

ventricolare, molto più sottile a destra rispetto al versante sinistro. Gli studi più recenti, eseguiti con risonanza

magnetica ed iniezione di gadolinio, un mezzo di contrasto che individua la fibrosi miocardica, supportano

questa spiegazione, mostrando a livello dell’epicardio ventricolare sinistro la presenza di fibrosi, che in genere

non comporta alterazioni della cinetica ventricolare sinistra.

CENNI DI TERAPIA

Nella maggior parte dei casi l’intervento terapeutico è rivolto alla prevenzione della morte improvvisa attraverso

il controllo delle aritmie ventricolari. In presenza di aritmie complesse, soprattutto se queste sono polimorfe o si

aggravano sotto sforzo, il primo provvedimento è quello di limitare l’attività fisica ed iniziare un trattamento

antiaritmico farmacologico. In presenza di episodi ripetuti di tachicardia ventricolare sostenuta o di importanti

sintomi aritmici si ricorre all’impianto di un defibrillatore automatico. Esiste inoltre l’opzione dell’ablazione con

radiofrequenza (vedi Capitolo 60) in presenza di una lesione localizzata, se durante lo studio elettrofisiologico

endocavitario si dimostra essere questa la fonte primaria dell’aritmia ventricolare.

Sezione VIII. Pericarditi, Miocarditi, Endocarditi

Capitolo 32. Pericarditi, Antonio Barsotti, Gian Marco Rosa

DEFINIZIONE

Si tratta di affezioni acute o croniche interessanti il foglietto parietale e viscerale del pericardio, la cui eziologia

può essere infettiva, infiammatoria, neoplastica, immunitaria. Tra le malattie del pericardio possono essere

enucleate le forme seguenti :

• Pericarditi acute e subacute

• Pericardite cronica essudativa

• Tamponamento cardiaco

• Pericardite cronica costrittiva

PERICARDITI ACUTE E SUBACUTE

Sono processi infiammatori del pericardio a decorso acuto o subacuto, distinguibili in forme fibrinose,

caratterizzate da abbondante formazione di fibrina e scarso versamento, e forme essudative, caratterizzate da

formazione di versamento.

Eziologia

Il pericardio può essere interessato da infezioni virali, batteriche, micotiche o tubercolari; le forme virali sono di

gran lunga le più frequenti (virus Coxackie A e B, echovirus, virus parotitico, citomegalovirus, herpes simplex,

varicella, adenovirus, epstein barr e virus influenzali). (Tabella I)

Una pericardite acuta si può anche sviluppare come conseguenza dell’invasione diretta del pericardio da parte di

una neoplasia di organi adiacenti (neoplasie polmonari, della mammella o linfomi). Altre condizioni morbose

come patologie metaboliche (uremia o mixedema) e le collagenopatie (lupus eritematoso sistemico,

sclerodermia, artrite reumatoide, dermatomiosite, poliartrite nodosa) possono interessare il pericardio. Sono

state segnalate pericarditi da farmaci (Isoniazide, Procainamide, Idralazina e Antracicline), su base

verosimilmente immunitaria. L’infarto miocardico acuto può essere complicato dalla pericardite epistenocardica

(II-IV giornata) o dalla sindrome di Dressler, pericardite autoimmune ad insorgenza più tardiva. Altre forme di

infiammazione asettica del pericardio sono le post-pericardiotomiche, che si osservano dopo interventi

cardiochirurgici.

Tra le patologie pericardiche sono incluse anche forme caratterizzate da raccolta di liquido di tipo trasudatizio,

come accade nello scompenso cardiaco e nella sindrome nefrosica. Nel pericardio si può formare una raccolta

ematica (emopericardio) se si verifica rottura di strutture vascolari o cardiache. Anche la terapia radiante ad

alte dosi può essere associata a interessamento pericardico, quando le radiazioni siano dirette sul mediastino.

Fisiopatologia

Normalmente la cavità pericardica contiene 25-50 ml di liquido sieroso, ed al suo interno vige una pressione

negativa. Quando un agente patogeno di tipo chimico, fisico, batterico o virale lede l’integrità funzionale dei

foglietti pericardici, la quantità di liquido aumenta. Il liquido pericardico può essere sieroso, siero-fibrinoso,

ematico, purulento, colesterolico, chiloso (Tabella II).

Il versamento pericardico può essere di tipo trasudativo o essudativo. Il trasudato presenta bassa densità,

basso contenuto proteico, e scarse cellule mesoteliali, mentre l’ essudato è più denso, contiene maggior

quantità di proteine e numerose cellule infiammatorie e mesoteliali. Con la formazione del versamento, la

pressione intrapericardica aumenta, cosicché viene limitato il rilasciamento delle camere cardiache, aumentano

le pressioni di riempimento ventricolare, ed è ostacolato il ritorno venoso. La pressione intrapericardica dipende

dalla quantità di liquido e dalla sua rapidità di formazione. Se il versamento pericardico si forma lentamente,

senza che si realizzi un tamponamento cardiaco, la pressione intrapericardica subisce solo un modesto

incremento, e la gittata sistolica, la portata cardiaca, e la pressione arteriosa sono mantenute nei limiti della

norma. Solo se la pressione intrapericardica aumenta ulteriormente, il riempimento diastolico e la gittata

sistolica diminuiscono. In questa situazione la portata cardiaca è mantenuta entro limiti normali dall’aumento

della frequenza cardiaca.

Tabella 1

Tabella 2

Quadro clinico

Il quadro clinico è condizionato dalla gravità del processo infiammatorio, dalla quantità di liquido e dalla velocità

con cui questo si accumula. In genere, dopo due–tre settimane da un episodio di tipo influenzale, compaiono i

sintomi della pericardite acuta. Il dolore precordiale è uno dei sintomi più caratteristici: presenta irradiazione

verso il collo, verso il margine del muscolo trapezio e verso la spalla sinistra; talvolta può avere localizzazione

epigastrica tanto da simulare un addome acuto. La sua intensità può variare, esacerbandosi con l’ inspirazione,

la posizione supina, la tosse, la deglutizione, mentre si riduce in alcune posizioni antalgiche (la posizione seduta

o quella genupetturale oppure flettendo il torace in avanti). Il dolore ha di solito durata protratta (giorni), e si

riduce o scompare quando compare il versamento.

Esame obiettivo

Gli sfregamenti pericardici sono i segni più caratteristici della pericardite acuta: essi originano dall’attrito tra i

foglietti pericardici, resi scabri dalla deposizione di fibrina. I rumori da sfregamento sono solitamente variabili,

transitori e, quando presenti, consentono di porre diagnosi sicura di pericardite; possono accentuarsi con la

compressione esercitata dal fonendoscopio oppure facendo inclinare in avanti il paziente .

Indagini di laboratorio

Sono spesso presenti segni aspecifici di flogosi quali leucocitosi, elevazione della PCR, rialzo della VES. I reperti

di laboratorio possono essere utili per la diagnosi di pericardite uremica (azotemia e creatininemia) o per la

diagnosi di mixedema (FT3, FT4, TSH). Si può a volte riscontrare una fluttuazione del titolo anticorpale contro il

virus responsabile. L’intradermoreazione alla tubercolina è utile nella diagnosi di pericardite tubercolare. La

determinazione del titolo degli anticorpi antinucleo e del fattore reumatoide va eseguita nel caso si sospetti una

malattia autoimmune. L’esame del liquido prelevato con la pericardiocentesi (reazione di Rivalta) può essere

molto indicativo: si tratta di un trasudato nelle sindromi edemigene, di un essudato nelle forme infettive, di un

liquido emorragico in caso di neoplasie, tubercolosi, sindrome di Dressler.

Esami strumentali

Elettrocardiogramma: nella pericardite acuta l’ECG mostra sopralivellamento del tratto ST, generalmente a

concavità superiore, nelle derivazioni con QRS positivo; le onde T appaiono alte ed appuntite e il PR può

risultare sottoslivellato (Figura 1). Successivamente il sopralivellamento di ST regredisce, e l’onda T diventa

negativa e simmetrica. Segno fondamentale per la diagnosi differenziale elettrocardiografica con le alterazioni

in corso di infarto miocardico è l’assenza di onde q di necrosi. Quando la pericardite si accompagna ad

abbondante versamento pericardico si verifica riduzione di voltaggio di tutte le onde dell’ECG, e a volte

alternanza elettrica (vedi Capitolo 3).

Figura 1 ECG registrato in un paziente di 35 anni con pericardite acuta. In tutte le derivazioni in cui i

complessi ventricolari sono positivi, è presente un netto sopraslivellamento del tratto ST a concavità superiore.

Le onde T sono appuntite e di voltaggio relativamente elevato. Il tratto PR appare sottoslivellato nelle

derivazioni inferiori e da V3 a V6, e sopraslivellato in aVR. Queste alterazioni sono indicative di pericardite

acuta: la diagnosi è suggerita dalla mancanza di alterazioni reciproche del tratto ST, che sono, invece, di

comune riscontro nel sopraslivellamento di ST dovuto a ischemia miocardica.

Esame radiologico: le pericarditi acute prevalentemente fibrinose, con scarso versamento, non sono

evidenziabili utilizzando i metodi radiografici tradizionali standard. L’RX del torace può essere utile solo se la

raccolta di liquido è superiore a 200-250 ml: in questa situazione l’ ombra cardiaca perde la normale

configurazione ed assume aspetto a “fiasca” (Figura 2).

Figura 2 Radiografia del torace di un paziente con versamento pericardico. Si noti la presenza dell’aspetto a

“fiasca” dell’ombra cardiaca

Ecocardiogramma: è l’esame più specifico e sensibile in presenza di versamento pericardico (vedi Capitolo 4).

L’Ecocardiogramma monodimensionale mostra uno spazio ecoprivo compreso tra il pericardio posteriore e la

parete posteriore del ventricolo sinistro; a volte, in caso di versamenti maggiori, è presente uno spazio analogo

tra il pericardio parietale anteriore e la parete anteriore del ventricolo destro. L’indagine bidimensionale

permette di visualizzare in modo più completo il pericardio (Figura 3).

Risonanza magnetica nucleare: la RMN cardiaca fornisce precisi dati anatomici sullo stato del pericardio,

permettendo una miglior evidenziazione dei recessi pericardici superiori e dei versamenti posteriori, spesso

misconosciuti.

Diagnosi differenziale

Il quadro può essere confuso con quello dell’ infarto miocardico acuto per il dolore precordiale e per la presenza

di alterazioni elettrocardiografiche. Gli sfregamenti pericardici, i reperti ecocardiografici, l’assenza di aumento

nel siero dei marker di necrosi miocardica (vedi Capitolo 24) permettono di dirimere il dubbio.

Complicanze

Si dividono in precoci (recidive precoci e miocarditi) e tardive (recidive tardive e pericardite costrittiva). La più

importante complicanza dei versamenti pericardici è il tamponamento cardiaco (vedi più avanti).

PERICARDITE CRONICA ESSUDATIVA

Si diagnostica in presenza di versamento pericardico persistente da almeno sei mesi. Tutti i processi infettivi

cronici, le collagenopatie, le malattie metaboliche, lo scompenso cardiaco congestizio, i tumori pericardici

possono provocare versamenti pericardici ad andamento cronico.

Quadro clinico

I pazienti possono essere asintomatici o paucisintomatici dal punto di vista cardiaco, pur presentando

versamento pericardico all’ ecocardiogramma. I principali sintomi consistono in ridotta tolleranza all’esercizio

fisico e nella dispnea da sforzo. Versamenti massivi possono accompagnarsi a sintomi come tosse, disfagia,

disfonia dovuti alla compressione delle strutture mediastiniche. All’ascoltazione cardiaca i toni risultano ovattati

e si possono apprezzare a volte sfregamenti pericardici . Il decorso clinico della pericardite cronica essudativa

dipende prevalentemente dalla malattia di base e dalla presenza di cardiopatia sottostante. E’ possibile

l’evoluzione verso la forma costrittiva .

Diagnosi

L’ ecocardiogramma è l’esame di scelta per la diagnosi di pericardite cronica essudativa. L’elettrocardiogramma

può essere normale, ma spesso evidenzia QRS di basso voltaggio e alterazioni aspecifiche della ripolarizzazione.

Il radiogramma del torace può evidenziare aumento dell’ ombra cardiaca.

TAMPONAMENTO CARDIACO

E’ una sindrome caratterizzata da segni e sintomi di bassa portata associati ad ipertensione venosa, che si

verifica quando il versamento comporta un aumento della pressione intrapericardica tale da produrre una grave

limitazione del riempimento del cuore in diastole.

Eziologia:

Le cause più frequenti sono:

• pericardite acuta o recidiva

• sanguinamento nello spazio pericardico per interventi cardiochirurgici, cateterismo cardiaco, impianto di

pacemaker, traumi toracici, complicanze della terapia trombolitica e anticoagulante;

• rottura del cuore o di aneurismi disseccanti dell’ aorta nel sacco pericardico;

• versamento pericardico di origine tubercolare o neoplastica

Fisiopatologia

Il tamponamento cardiaco si sviluppa quando la quantità di liquido che si raccoglie supera la capacità di

distensione del pericardio. Ne consegue aumento della pressione intrapericardica cui fa seguito progressiva

riduzione del rilasciamento diastolico fino all’adiastolia (uguaglianza delle pressioni diastoliche in ventricolo

sinistro, atrio sinistro, capillari polmonari e sezioni destre), compressione del cuore e limitazione dell’ afflusso di

sangue ai ventricoli. Fattori determinanti sono la distensibilità del sacco pericardico, la rapidità con cui si forma

il versamento, la compliance diastolica dei ventricoli e la volemia: anche modeste quantità di liquido (per

esempio, 150 ml) formatesi rapidamente possono determinare tale complicanza.

Le principali conseguenze fisiopatologiche del tamponamento sono:

1) Riduzione della gittata sistolica a causa del ridotto riempimento ventricolare durante la diastole.

2) Aumento della pressione venosa centrale: l’ostacolato svuotamento atriale incrementa la venosa pressione a

monte degli atri.

Intervengono, inoltre, meccanismi di compenso che conseguono all’aumentato tono adrenergico: tachicardia e

vasocostrizione periferica. L’aumentata frequenza cardiaca cerca di opporsi alla riduzione della portata, e

l’incremento delle resistenze periferiche tende a mantenere la pressione arteriosa nella norma. Quando i

meccanismi di riserva cardiaca non sono più efficaci e la perfusione tessutale tende a ridursi, si verifica un vero

e proprio stato di shock cardiogeno (vedi Capitolo 22).

Quadro clinico

E’ dominato dalla bassa portata cardiaca, dalla ipotensione e dai segni di elevata pressione venosa, con

obiettività cardiaca muta. E’ una condizione di urgenza, da risolversi rapidamente con la rimozione del liquido

(pericardiocentesi). Il paziente appare sofferente, con obnubilamento del sensorio, stato ansioso, sudorazione

fredda, pallore, oliguria. E’ presente tachicardia, all’ascoltazione i toni cardiaci risultano ovattati, la pressione

sistolica è ridotta, il polso arterioso è frequente e “piccolo”, e può comparire il polso paradosso, cioè

l’accentuazione della fisiologica riduzione di ampiezza del polso e della pressione arteriosa durante l’inspirazione

(vedi Capitolo 2 ).

Esami strumentali

L’elettrocardiogramma mostra tachicardia sinusale e bassi voltaggi dei QRS. L’ecocardiogramma evidenzia un

versamento pericardico abbondante, sia in sede anteriore che posteriore, e numerosi altri segni fra cui un

collasso diastolico della parete libera del ventricolo destro: la riduzione del diametro telediastolico del ventricolo

destro al di sotto di 7 mm è un segno molto indicativo di tamponamento cardiaco.

PERICARDITE CRONICA COSTRITTIVA

Affezione che può conseguire a malattie pericardiche acute o croniche, caratterizzata da un addensamento

sclerocicatriziale del pericardio che, riducendo di molto la compliance del sacco pericardico, interferisce con il

normale riempimento diastolico del cuore.

Eziologia

Una pericardite cronica costrittiva può complicare qualsiasi forma di pericardite acuta o cronica. Le principali

cause di pericardite cronica costrittiva sono : le pericarditi idiopatiche ed infettive, specie la forma tubercolare,

le neoplasie, la terapia radiante, gli interventi cardiochirurgici e l’emopericardio.

Fisiopatologia

Alcune malattie del pericardio, soprattutto le pericarditi fibrinose o siero fibrinose, hanno come esito la

formazione di tessuto fibroso denso e calcifico. Si forma, perciò, un involucro rigido che avvolge il cuore e

ostacola gravemente il riempimento dei ventricoli. Gli effetti della costrizione pericardica si manifestano

essenzialmente in fase meso e telediastolica, mentre il riempimento protodiastolico può essere normale. In

protodiastole la pressione ventricolare è bassa, ma subito s’innalza notevolmente perché l’afflusso del sangue ai

ventricoli è limitato dall’astuccio rigido che avvolge il cuore. La curva pressoria di entrambi i ventricoli, perciò,

assume un aspetto a radice quadrata (dip and plateau). Il riempimento ventricolare avviene principalmente in

protodiastole, mentre nelle fasi seguenti è ridotto al minimo e la pressione telediastolica tende ad essere

equivalente in tutte le cavità cardiache (> 15-20 mmHg nelle forme più gravi). Gli effetti della costrizione

pericardica sono più marcati a carico delle sezioni destre. Il meccanismo di Frank Sktarling non è operante,

essendo il volume telediastolico dei ventricoli fisso, mentre le modificazioni della gittata cardiaca dipendono

quasi esclusivamente dalle modificazioni della frequenza cardiaca.

Quadro clinico

La malattia ha un esordio insidioso e può decorrere misconosciuta per molti anni. Il quadro clinico della

pericardite costrittiva simula quello di uno scompenso cardiaco congestizio, da deficit del ventricolo destro. I

sintomi sono la dispnea da sforzo e l’astenia (da attribuirsi alla riduzione del flusso anterogrado) mentre

raramente si verificano dispnea a riposo e ortopnea. L’astenia è il sintomo prevalente. I toni cardiaci sono di

intensità normale o ridotta, si può a volte ascoltare un tono aggiunto protodiastolico (pericardial knock), da

attribuirsi al brusco impedimento diastolico dell’espansione ventricolare ad opera della costrizione pericardica).

Sono presenti segni di ipertensione venosa periferica e di congestione viscerale sistemica: epatosplenomegalia,

edemi declivi, ascite, turgore delle giugulari. Può anche essere presente polso paradosso (vedi Capitolo 2).

Diagnosi

Non sono presenti alterazioni elettrocardiografiche specifiche, ma di solito i complessi QRS sono di basso

voltaggio e le onde P slargate e bifide, a indicare ingrandimento atriale (vedi Capitolo 3), e nel 20-30 % dei casi

si può riscontrare una fibrillazione atriale cronica. All’RX del torace l’ombra cardiaca appare di normali

dimensioni, ed è frequente il rilievo di calcificazioni pericardiche. All’ecocardiogramma si nota un ingrandimento

atriale con dimensioni ventricolari normali, l’ispessimento del pericardio, la dilatazione delle vene epatiche e

della vena cava inferiore; l’esame doppler mostra anomalie del riempimento ventricolare. Il cateterismo

cardiaco si rende necessario quando i sintomi e i reperti strumentali non permettono una diagnosi certa. La TAC

e la risonanza magnetica cardiaca vengono considerate il gold standard per la diagnosi.

Diagnosi differenziale

La pericardite costrittiva va distinta, sulla base dei reperti obiettivi e dei dai ecocardiografici, dallo scompenso

cardiaco congestizio secondario a valvulopatie acquisite (specie tricuspidali). La diagnosi differenziale con la

cardiomiopatia restrittiva (vedi Capitolo 30) è difficile: l’esame emodinamico è dirimente giacché nella

cardiomiopatia restrittiva la pressione telediastolica è maggiore nelle sezioni sinistre che in quelle destre,

mentre nella pericardite costrittiva tende ad essere uguale in entrambe le camere ventricolari. La diagnosi

differenziale con il cuore polmonare cronico, la cirrosi epatica e l’ infarto del ventricolo destro è semplice, e si

basa sull’anamnesi, sul quadro clinico ed sui principali esami strumentali.

CENNI DI TERAPIA DELLE PERICARDITI

La terapia delle pericarditi acute e del versamento pericardico dipende dalla loro eziologia: per esempio, nelle

forme uremiche il trattamento necessario è quello dialitico, nelle forme tubercolari quello specifico con farmaci

chemioterapici. Nelle pericarditi acute virali ed in quelle postpericardiotomiche, l’approccio terapeutico è dato

dai FANS che debbono essere somministrati per lungo tempo (almeno 6 mesi) per impedire la comparsa di

recidive. Anche la terapia corticosteroidea appare efficace ma aumenta in maniera significativa la frequenza

delle recidive entro un anno dalla risoluzione del versamento. Nelle forme lievi con versamento modesto si

consiglia l’ utilizzo dei FANS, mentre nelle forme associate a versamento pericardico importante si possono

utilizzare anche i cortisonici. Nelle forme postinfartuali sono controindicati i farmaci corticosteroidei, che

possono indebolire la formazione della cicatrice infartuale. Il trattamento del tamponamento cardiaco è

costituito dalla rimozione del liquido pericardico mediante pericardiocentesi oppure drenaggio chirurgico con

creazione della finestra pleuropericardica.

Capitolo 33. Miocarditi, Antonello Ganau, Pier Sergio Saba

DEFINIZIONE

Le miocarditi rappresentano le malattie infiammatorie del tessuto miocardico. Sebbene abbiano frequentemente

una evoluzione benigna, recenti dati autoptici le hanno chiamate in causa nella genesi della morte improvvisa

dei giovani adulti, poiché in una percentuale compresa tra l’8% e il 12% dei casi l’esame istologico del

miocardio di giovani deceduti improvvisamente ha mostrato i caratteristici aspetti infiammatori. In ampi studi

prospettici, le miocarditi sono state anche implicate nella genesi della cardiomiopatia dilatativa in circa il 10%

dei casi.

EZIOLOGIA

I potenziali agenti eziologici delle miocarditi sono molto numerosi (Tabella I). La causa più frequente è una

infezione virale, spesso da enterovirus ed in particolare da virus Coxsackie del serotipo B. Altri ceppi virali

identificati come possibili cause di miocardite sono gli adenovirus, il virus dell’epatite C (HCV) e il virus

dell’immunodeficienza acquisita (HIV). Anche alcuni batteri, miceti, protozoi e parassiti possono agire come

agenti patogeni.

Numerosi farmaci, tra cui gli antibiotici (sulfonamidi, cefaloslosporine, penicilline), i diuretici, la digossina, gli

antidepressivi triciclici e gli antipsicotici possono indurre miocardite mediante reazioni da ipersensibilità. Tra le

malattie autoimmunitarie, anche la celiachia può determinare una miocardite.

PATOGENESI

Gran parte delle conoscenze sulla patogenesi delle miocarditi deriva da modelli animali che hanno identificato

tre fasi. Nella prima fase si verifica l’invasione diretta del miocardio da parte di virus cardiotropi o di altri agenti

infettivi. Dopo la risoluzione o l’attenuazione della infezione virale può insorgere la seconda fase di attivazione

immunologica, nella quale si osserva una espansione clonale di linfociti B, che determina ulteriore miocitolisi,

aggravamento della infiammazione locale e produzione di anticorpi circolanti anti-muscolo cardiaco. La terza e

ultima fase è conseguenza del danno virale e autoimmunitario, ma può continuare autonomamente dopo

l’insulto iniziale. E’ caratterizzata da infiltrazione miocardica da parte di cellule infiammatorie, compresi i

macrofagi e le Natural Killer, con la conseguente espressione di citochine pro-infiammatorie come la

interleukina-1, la interleukina-2, il tumor necrosis factor (TNF), e l’interferone- . Il TNF, in particolare, attiva le

cellule endoteliali, recluta ulteriori cellule infiammatorie, incrementa la produzione di citochine e ha un effetto

inotropo negativo diretto.

MANIFESTAZIONI CLINICHE

Le miocarditi si possono presentare con quadri che vanno dalle semplici anomalie elettrocardiografiche

asintomatiche allo shock cardiogeno. I pazienti possono lamentare sintomi prodromici attribuibili ad una

infezione virale, quali febbre, mialgie, sintomi respiratori o gastroenterici, prima della comparsa di sintomi e

segni di insufficienza cardiaca acuta (vedi Capitolo…). La manifestazione clinica più drammatica è la dilatazione

cardiaca ad insorgenza acuta, con grave disfunzione sistolica del ventricolo sinistro e rapida insorgenza di

scompenso.

Talora la miocardite simula una sindrome coronarica acuta. In questi casi si osserva un aumento dei marcatori

di necrosi miocardica (CK-MB, Troponina) e modificazioni elettrocardiografiche tipiche dell’ischemia miocardica,

quali sopraslivellamento del tratto ST, inversione dell’onda T, comparsa di onde Q patologiche o

sottoslivellamento diffuso del tratto ST. L’ecocardiogramma evidenzia spesso anomalie della cinetica

ventricolare sinistra, pur in presenza di coronarie indenni da lesioni all’esame coronarografico.

Le miocarditi possono inoltre produrre variabili effetti sul sistema di conduzione e sul ritmo cardiaco, e sono in

grado di provocare blocchi di branca (vedi Capitolo…), blocco A-V (vedi capitolo…), battiti ectopici (vedi

Capitolo…) o tachicardie. La tachicardia ventricolare (vedi Capitolo…) si presenta raramente all’esordio della

malattia, ma si osserva frequentemente durante il follow-up a lungo termine di questi pazienti.

VALUTAZIONE DIAGNOSTICA

La diagnosi di miocardite può essere sospettata sulla base dei sintomi, dell’elettrocardiogramma, di valori

elevati della proteina C reattiva e dei marker di danno miocardico (troponina o CK-MB) e di aumento delle IgM

specifiche per virus a tropismo miocardico, ma la diagnosi di certezza si basa sulla istologia.

Elettrocardiogramma

I quadri elettrocardiografici più comuni sono caratterizzati da una diffusa inversione dell’onda T, ma può anche

comparire sopraslivellamento del tratto ST, soprattutto nelle forme di miocardite con interessamento

pericardico ( Figura 1).

Figura 1 Elettrocardiogramma di un giovane paziente di 25 anni affetto da miocardio-pericardite acuta. Sono

presenti tachicardia e sopralivellamento diffuso del tratto ST

Marcatori di infiammazione e di necrosi.

La VES, la proteina C reattiva ed altri marcatori di infiammazione appaiono alterati in caso di miocardite, ma

sono del tutto aspecifici e non si sono dimostrati particolarmente utili nella valutazione diagnostica e

prognostica dei pazienti con miocardite. I marcatori di necrosi miocardica vengono misurati nei pazienti con

sospetta miocardite, anche se la loro sensibilità diagnostica è risultata in genere bassa e variabile.

Ecocardiogramma

In tutti i pazienti con sospetta miocardite dovrebbe essere eseguito un ecocardiogramma per la ricerca di

anomalie della contrattilità ventricolare sinistra. Il reperto iniziale più comune è il riscontro di alterazioni della

cinetica parietale del ventricolo sinistro, in assenza di significativa dilatazione della camera. La disfunzione del

ventricolo destro è meno frequente.

Risonanza magnetica nucleare

La metodica più promettente per la diagnosi delle miocarditi è la risonanza magnetica nucleare con contrasto di

gadolinio. Tale tecnica è in grado di individuare le aree miocardiche interessate dall’infiltrazione infiammatoria e

consente l’effettuazione di biopsie mirate per la conferma della diagnosi ( Figura 2).

Biopsia endomiocardica

La biopsia endomiocardica è tuttora considerata il gold standard per una diagnosi di certezza della miocardite. Il

tipico quadro istologico mostra l’interstizio miocardico occupato da edema e infiltrato infiammatorio, ricco di

linfociti e macrofagi, e la presenza di quadri di necrosi focale di miociti ( Figura 3) Tuttavia, le classificazioni

istopatologiche proposte attualmente forniscono informazioni clinicamente utili soltanto in una minoranza dei

casi. Per tale motivo la biopsia endomiocardica è generalmente riservata ai pazienti con una cardiomiopatia

rapidamente progressiva e refrattaria alla terapia standard o con una cardiomiopatia di origine sconosciuta

associata a progressiva alterazione del sistema di conduzione o aritmie ventricolari minacciose per la vita.

STORIA NATURALE

La storia naturale delle miocarditi è variabile, così come la presentazione clinica. Le miocarditi che simulano un

infarto del miocardio evolvono, nella stragrande maggioranza dei casi, verso il completo recupero. I pazienti che

esordiscono con scompenso cardiaco possono presentare una moderata disfunzione miocardica (frazione di

eiezione 40-50%), che gradualmente migliora nel giro di settimane o mesi. In una piccola percentuale di

soggetti, tuttavia, la miocardite può avere inizio con una funzione sistolica gravemente depressa (frazione di

eiezione del ventricolo sinistro minore del 35%) e in tal caso la metà circa dei pazienti evolve verso lo

scompenso cardiaco cronico, il 25% va incontro al trapianto o alla morte, e solo nel rimanente 25% si assiste

ad un progressivamente miglioramento della funzione ventricolare.

Il tasso di mortalità delle miocarditi varia dal 20 al 56%, ma raggiunge l’80% a 5 anni nelle forme che alla

biopsia mostrano un quadro istologico a cellule giganti. La presentazione clinica caratterizzata da sincope,

disturbo della conduzione intraventricolare (blocchi di branca) o frazione di eiezione minore del 40% è gravata

da un maggior rischio di morte o di evoluzione verso il trapianto.

TERAPIA

La terapia della miocardite è principalmente di supporto. Solo i pazienti che si presentano con un quadro di

scompenso cardiaco grave hanno necessità di trattamenti aggressivi, e in essi è indicato l’uso di farmaci

inotropi positivi, diuretici, e vasodilatatori. Dopo la stabilizzazione emodinamica iniziale, la terapia dovrebbe

includere un ACE-inibitore e un ß-bloccante e, nei casi di grave disfunzione sistolica (III e IV classe funzionale

NYHA), un diuretico.

Risultati non ancora univoci suggeriscono l’impiego di farmaci immunosoppressori nelle miocarditi. Al momento

questo tipo di terapia non è da considerare di scelta nella gestione routinaria di questi pazienti, sebbene dati

incoraggianti siano stati ottenuti in quelli con miocardite a cellule giganti.

Capitolo 34. Endocardite Infettiva, Sergio Dalla Volta

DEFINIZIONE

Questa malattia è stata nota, per molti decenni, con i termini di endocardite lenta o di endocardite batterica

subacuta, che definiscono il primo l’andamento abitualmente, ma non necessariamente, torpido ed il secondo

l’eziologia batterica della maggior parte dei casi.

Si tratta di una forma morbosa che si sviluppa nell’endotelio del cuore già precedentemente leso, per lo più

sulle valvole cardiache sia native che protesiche, su cui si impiantano dapprima le piastrine, che penetrano

attraverso la lesione stessa (endocardite abatterica). In presenza di batteriemia per penetrazione di

microrganismi da varie fonti (cavità orale in particolare), i germi colonizzano sulle piastrine (endocardite

infettiva) e formano le cosiddette vegetazioni, arricchite poi da eritrociti, leucociti, e cellule infiammatorie. Oltre

che sulle valvole, le colonie si localizzano nei difetti del setto interventricolare, nel dotto arterioso di Botallo o

sull’endocardio murale; quest’ultima evenienza è possibile solo in caso di applicazione di dispositivi intracardiaci

come cateteri o piccoli strumenti per chiudere difetti.

Particolari condizioni, come la tossicodipendenza, le diminuite resistenze immunitarie, e l’emodialisi favoriscono

la malattia, la cui frequenza è oggi stimabile tra il 2,5 ed il 6,0 per 100.000 persone.

EZIOLOGIA

Anche se molti microrganismi, non solo batterici, ma anche fungini, possono essere causa della malattia, non

più di una decina di agenti è responsabile del 90% dei casi.

Sulle valvole native o nei difetti intracardiaci, l’85% è costituito da streptococchi, pneumococchi o enterococchi;

nei tossicodipendenti lo stafilococco aureo è presente nel 90% dei casi; tra i funghi prevale la candida.

I microrganismi entrano nel torrente ematico da mucose, siti di infezioni focali, meno spesso cute. Essi

aderiscono ai trombi nella quasi totalità dei casi, eccetto lo stafilococco aureo che può colpire direttamente

l’endotelio sano. Una patologia cardiaca preesistente è abitualmente necessaria per l’impianto dei germi, ma la

frequenza di complicanze endocarditiche nelle singole patologie cardiovascolari è variabile: il rischio è massimo

nell’insufficienza valvolare aortica o mitralica, seguite dalla persistenza del dotto arterioso e dai difetti del setto

ventricolare, mentre è minima nella stenosi mitralica o nel prolasso isolato della valvola mitralica. Nei portatori

di protesi valvolari, il rischio è più o meno simile per ogni tipo di cardiopatia che ha richiesto l’inserzione della

protesi, specie se meccanica; nei tossicodipendenti che fanno uso di siringhe non sterili con trasferimento della

droga a più persone, la sede iniziale è spesso la tricuspide, ma le forme più gravi sono la localizzazione mitralica

od aortica.

I microrganismi penetrano per lo più in seguito a manovre strumentali sulla bocca (estrazioni dentarie) o dopo

endoscopia digestiva, cateterismo delle vie urinarie, cateterismo cardiaco, emodialisi, aghi a permanenza nelle

vene, raramente a causa di infezioni cutanee o ustioni.

ANATOMIA PATOLOGICA

I germi si localizzano nelle strutture sopra ricordate in presenza di endotelio non normale (quello intatto è assai

resistente all’impianto di microrganismi) dal lato della cavità a minore pressione (per esempio, sulla faccia

atriale dei lembi mitralici). Si depositano inizialmente le piastrine e quindi giungono i batteri, che formano le

“colonie”, mescolati a globuli rossi e bianchi, fibrina e materiale di distruzione del tessuto valvolare. A volte i

germi si moltiplicano in modo violento, formando vere e proprie ulcerazioni, ma più spesso la moltiplicazione è

lenta.

Poiché le vegetazioni (Figura 1) sono costituite da materiale friabile, la loro rottura è frequente, comportando

la reimmissione in circolo del materiale che comprende i microrganismi (batteriemia), e provocando nuove

localizzazione in vari organi e tessuti: cute, mucose, reni, milza, cervello.

PATOGENESI

Le caratteristiche del quadro clinico e gli studi sperimentali hanno dimostrato che le manifestazioni della

malattia ed i sintomi e segni clinici sono la conseguenza di tre meccanismi attivi simultaneamente: 1) le

conseguenze della infezione; 2) le metastasi trombo-emboliche; 3) le alterazioni immunologiche. Le

conseguenze dell’infezione sono legate alla tossicità dei microrganismi ed alla intensità della loro propagazione

ai vari organi; le manifestazioni emboliche, dipendenti dalla friabilità delle vegetazioni, colpiscono in modo

particolare alcuni distretti; i fenomeni autoimmuni sono la conseguenza della stimolazione del sistema

immunitario da parte dei germi, con formazione di autoanticorpi.

QUADRO CLINICO

I sintomi e i segni della infiammazione sono precoci e numerosi, anche se aspecifici: tra quelli generali la febbre

di tipo continuo, quasi mai con brividi, con valori inferiori a 39°, compare nell’80-90% dei casi, mancando solo

negli immunocompromessi o nei grandi anziani. Essa si accompagna ad inappetenza, perdita di peso e

malessere; meno comuni sono sudorazione e cefalea. L’ascoltazione cardiaca può rivelare la comparsa di nuovi

soffi o la modificazione di soffi preesistenti in oltre l’80% dei casi, ed indica la valvola interessata. La tachicardia

è presente nella metà dei casi. La splenomegalia, oggi che la terapia antibiotica è disponibile, è rilevabile in non

più del 50% dei casi, essendo un segno non precoce. Nella metà dei casi, sono riscontrabili petecchie nelle

congiuntive, nella bocca, nella mucosa del palato, alle estremità; meno frequentemente si osservano i noduli di

Osler, noduli teneri, piccoli come capocchie di spillo, ben visibili alle estremità delle dita e di durata da molte

ore a pochi giorni. Le conseguenze emboliche della malattia comprendono: le macchie di Janeway,

manifestazioni eritematose od emorragiche sulle palme delle mani o le piante dei piedi (7-10% dei malati),

l’embolia splenica, l’infarto renale, l’occlusione embolica dell’arteria retinica; più rari gli ascessi embolici

cerebrali con sindrome neurologica di focolaio.

Tra le manifestazioni da immunocomplessi le più importanti sono le lesioni renali (insufficienza renale da

glomerulonefrite con ematuria e iperazotemia), la presenza di anticorpi specifici per il fattore reumatoide o di

anticorpi antisarcolemmatici ed antiendocardio.

Altre manifestazioni sono l’insufficienza cardiaca da rottura di corde tendinee, l’emorragia cerebrale da rottura

di emboli micotici, lo shock settico, l’insufficienza renale, che può riconoscere più meccanismi, compresa la

terapia antibiotica in eccesso o con farmaci nefrotossici.

Il laboratorio mostra reperti aspecifici quali gradi variabili di anemia, leucocitosi neutrofila, aumento della

velocità di sedimentazione. Di estrema utilità è l’esecuzione di ripetute emoculture, volte all’isolamento del

germe responsabile. L’emocultura conferma che si tratti di endocardite infettiva con batteriemia e permette di

iniziare una terapia antibiotica mirata. Di solito i germi patogeni abituali danno positività della emocultura, ma

in taluni casi, specie nelle forme su protesi valvolari da germi spesso poco patogeni, l’emocultura può non

essere positiva inizialmente o esserlo in ritardo.

Dati di notevole importanza offre l’ecocardiografia, per via transtoracica e sopratutto transesofagea: tale esame

è oggi obbligatorio in ogni caso sospetto di endocardite infettiva. Esso mostra la presenza delle vegetazioni

aderenti alle valvole o alle altre sedi della infezione, sotto forma di ammassi translucidi (ECO 39,ECO 40,ECO

41,ECO 42,ECO 43). L’ecografia transtoracica dà positività in circa il 65% dei casi, per cui è la prima ricerca da

eseguire, quella transesofagea dà positività vere in oltre il 90%, per cui è obbligatoria nel sospetto fondato di

endocardite se l'ecocardiografia transtoracica è negativa. Il significato prognostico delle vegetazioni è piuttosto

controverso, anche se il rischio embolico è particolarmente frequente se le vegetazioni sono voluminose.

Durante il decorso, le vegetazioni mostrano, quando la malattia tende alla guarigione, una riduzione, sino alla

loro scomparsa nella metà dei casi, mentre restano invariate, anche a lungo termine, negli altri. In presenza di

complicanze, ascessi dell'anello valvolare, aneurismi micotici dei seni di Valsalva, fistole, e così via,

l'ecocardiografia è di grande valore.

Elettrocardiogramma, radiografia del torace, immagini da TAC o RMN non forniscono di solito dati utili alla

diagnosi dell’endocardite infettiva.

Riconoscimento della malattia. Gli aspetti polimorfi della endocardite, specie oggi, visto che la terapia

antibiotica ha modificato il quadro clinico, hanno sempre fornito difficoltà non piccole, per cui si è presto ricorsi

alla ricerca di criteri di certezza. Oggi i criteri della Duke University (Tabella I), che classifica i dati disponibili in

maggiori e minori, sono seguiti quasi senza eccezioni: due criteri maggiori o uno maggiore e tre minori o, in

modo meno attendibile, cinque minori, sono considerati necessari per la diagnosi definiva. La difficoltà di

riconoscimento della malattia, favorita dalla dimenticanza del postulato di Osler “qualsiasi processo febbrile che

dura più di 5 giorni in un cardiopatico può essere endocardite infettiva” rende spesso tardivo il riconoscimento,

per cui la diagnosi viene raggiunta dopo oltre due mesi, anche per la difficoltà di distinguere la malattia da altre

patologie infettive e no, tra cui il lupus eritematoso, la brucellosi, la tubercolosi polmonare, le glomerulonefriti,

le vasculiti, i tumori.

Decorso, prognosi. La malattia è stata radicalmente modificata nel suo andamento e nella prognosi

dall’avvento della terapia antibiotica e, in casi particolari, dalla chirurgia cardiaca. In assenza di trattamento,

l’endocardite infettiva porta alla morte in circa il 90% dei casi; oggi oltre l’80% dei malati può guarire se la

terapia, medica o chirurgica, è ben condotta. Chiaro è che una terapia iniziata tardivamente può portare alla

compromissione della situazione cardiaca, soprattutto a un aggravamento di lesioni valvolari preesistenti.

CENNI DI TERAPIA

La terapia antibiotica è basata sulla identificazione del microrganismo responsabile e sulla dimostrazione

della sensibilità del germe all’antibiotico. Il trattamento iniziale dovrebbe essere condotto con i dosaggi massimi

del farmaco e per via endovenosa, in modo da assicurare una concentrazione costante per tutte le 24 ore. In

caso di risposta positiva, la terapia va condotta per 4 settimane, e a partire dalla seconda è possibile il

trattamento orale. In caso di endocardite ad emocultura negativa, si può iniziare una terapia empirica a largo

spettro, che comprenda un macrolide ed un antibiotico attivo sui gram negativi a dosi elevate e, possibilmente,

sostituito dalla terapia più adatta quando l’emocultura ha chiarito il microrganismo responsabile.

La terapia chirurgica ha ben precise indicazioni, e può essere impiegata nelle seguenti condizioni:

• infezioni incontrollate dai farmaci, dopo due settimane, in presenza di germi particolari, quali stafilococco

aureo nei tossicodipendenti con grave endocardite o lo pseudomonas o talune infezioni fungine;

• mancata risposta alla terapia antibiotica per presenza di grave insufficienza cardiaca;

• lesione valvolare mitralica aortica o di entrambe le valvole con decorso tempestoso;

• ascessi anulari, batteriemia persistente nonostante una terapia medica massimale, embolie ricorrenti;

• vegetazioni molto grandi in sede valvolare.

Profilassi: poiché la malattia compare spesso dopo manovre mediche comportanti batteriemia (vedi sopra),

queste dovrebbero essere precedute e seguite immediatamente da profilassi con antibiotici attivi sui gram

positivi o negativi secondo le sede della manovra. La profilassi non risolve definitivamente il problema del

rischio, ma ne riduce le probabilità: pertanto essa dovrebbe essere eseguita in tutti i casi in cui la possibilità di

una batteriemia è consistente. Per le manovre sull’apparato respiratorio o dentario, l’amoxacillina è

abitualmente adeguata, ma può essere sostituita con la vancomicina o la clindamicina in caso di intolleranza:

per le manovre comportanti il rischio di germi gran negativi, la gentamicina è il farmaco più largamente

impiegato.

Sezione IX. Tumori del Cuore

Capitolo 35. I Tumori del Cuore, Gaetano Thiene, Cristina Basso, Marialuisa Valente

I TUMORI DEL CUORE

Anche il cuore, seppur raramente, può essere colpito da tumori, ma la loro malignità è legata più a fattori

emodinamici che biologici.

Va detto innanzitutto che le neoplasie secondarie (metastasi al cuore) sono molto più frequenti che le neoplasie

primitive, con un rapporto di circa 10:1. I tumori maligni che più frequentemente metastatizzano al cuore sono

il cancro del polmone, seguito da quello renale, del laringe, della mammella, del fegato e dai linfomi-leucemie.

L’interessamento del cuore nel carcinoma polmonare avviene per lo più sotto forma di diffusione pericardica

(“carcinosi pericardica”) e la diagnosi può essere fatta con un esame citologico del liquido pericardico.

Per quanto concerne i tumori primitivi del cuore, le forme benigne sono di gran lunga più frequenti (90%)

rispetto a quelle maligne (10%).

Fra i tumori benigni, primeggia il mixoma: tre su quattro neoplasie benigne del cuore e del pericardio sono

costituite da mixomi.

Il mixoma è una neoformazione endocardica a crescita endocavitaria, di origine da una cellula indifferenziata

che tende a produrre una matrice mixoide e strutture vascolari (“endotelioma mixomatoso”). Sede prediletta è

l’atrio sinistro (75%), seguito dall’atrio destro (20%), dal ventricolo destro (3%) ed eccezionalmente dal

ventricolo sinistro (1%). È per questa ragione che è conosciuto anche con il nome di mixoma atriale.

Colpisce le donne nei due terzi dei casi, per lo più in una fascia d’età fra i 40 e i 70 anni. Rari sono i mixomi in

età pediatrica.

La presentazione clinica è varia. Prevalgono i sintomi di ostruzione al transito ematico, con dispnea e sincope

nei mixomi atriali sinistri (Figura 1) e perfino morte improvvisa in quelle masse che si impegnano e si

intrappolano nell’orifizio mitralico. La superficie friabile, specie nelle forme villose, può dar luogo ad embolie,

che possono essere il sintomo di esordio (Figura 2) anche in neoplasie di piccole dimensioni. Il peso può

variare da una decina a oltre 100 grammi, e le dimensioni essere tali da occupare quasi tutta la cavità atriale.

La produzione da parte del tumore di interleuchina rende ragione dei cosidetti sintomi costituzionali: febbricola,

astenia, dolori osteo-articolari, malessere.

Infine, esistono i mixomi cosiddetti “silenziosi” che non danno segni di sé e rappresentano un reperto

occasionale autoptico o, oggi molto più frequentemente, ecocardiografico incidentale. L’evoluzione naturale di

questi mixomi silenziosi può essere con gli anni la trasformazione calcifica (“litomixoma”).

La diagnosi di mixoma è facilmente e rapidamente eseguibile con l’ecocardiografia transtoracica. Possono

simulare un mixoma atriale sinistro i trombi complicanti le valvulopatie reumatiche della mitrale (compreso il

cosiddetto “trombo a palla”) e neoplasie maligne, primitive o secondarie, a prevalente crescita endocavitaria.

La terapia è costituita dalla resezione chirurgica in circolazione extracorporea. L’asportazione della base di

impianto del setto interatriale previene la possibilità di recidive.

Il papilloma endocardico, detto anche fibroelastoma papillare, rappresenta la seconda più frequente

neoplasia cardiaca benigna (Figura 3). Tumore prevalentemente di piccole dimensioni (1-2 cm), è costituito da

papille con asse fibroelastico, per cui a differenza del mixoma non è friabile. Cresce più spesso dall’endocardio

delle valvole cardiache, ma anche da quello murale, ed ha una crescita endocavitaria. La sintomatologia è

dovuta alla potenzialità emboligena, soprattutto per le stratificazioni trombotiche che si sovrappongono. Se

localizzato nelle cuspidi sigmoidi aortiche, può incunearsi negli osti coronarici e dare morte improvvisa.

La diagnosi è ecocardiografica, ma può non essere visibile se di piccole dimensioni. Se situato nel settore

sinistro del cuore, l’asportazione chirurgica è d’obbligo per la potenzialità emboligena.

Un tumore cardiaco benigno tipico dell’infanzia è il rabdomioma. Presenta una crescita più frequentemente

intramurale ma anche endocavitaria con sintomatologia ostruttiva neonatale ed è da considerarsi un amartoma,

in quanto costituito da cardiomiociti carichi di glicogeno. Diagnostica è la cosiddetta “spider cell”, ovvero

l’aspetto a ragno del cardiomiocita con accumulo di glicogeno e dispersione a ragnatela dei miofilamenti.

Frequente è l’associazione del rabdomioma con la sclerosi tuberosa.

Il fibroma è un’altra tipica forma di tumore cardiaco benigno. È classicamente a crescita intramurale e può

assumere anche dimensioni gigantesche, che possono impedire la sua enucleazione chirurgica e imporre un

trapianto (Figura 4). Trattasi di una fibromatosi del cuore in quanto la proliferazione connettivale ingloba i

miociti residui. Caratteristiche all’istologia sono le calcificazioni. La sintomatologia può anche essere ostruttiva

quando le grosse dimensioni obliterano la cavità. Frequenti le aritmie da circuito di rientro, con rischio di morte

improvvisa elettrica.

Da segnalare, fra gli altri tumori benigni del cuore, il lipoma del setto interatriale e il tawarioma, ovvero il

tumore cistico del nodo atrioventricolare (nodo di Tawara), di derivazione celomatica pericardica, che si può

manifestare con blocco atrioventricolare.

Le neoplasie maligne primitive del cuore (sarcomi) sono rare e si originano sia dalla componente parenchimale

che mesenchimale. Sono per lo più a crescita intramurale infiltrante (angiosarcoma, rabdomiosarcoma), ma

possono anche avere una prevalente crescita endocavitaria e simulare un mixoma (leiomiosarcoma,

fibroistiocitoma). Si impone in questi casi l’esame istologico di tutte le masse resecate chirurgicamente, anche

quelle che mimano un mixoma, perché possono riservare sorprese con aspetti di malignità ed avere pertanto

una prognosi infausta. Nelle neoplasie a crescita endocavitaria, la diagnosi può essere conseguita senza

toracotomia chirurgica, attraverso la biopsia endomiocardica.

Il controllo istologico delle masse resecate chirurgicamente o prelevate con la biopsia può rivelare una natura

diversa da quella neoplastica: trombi (compresa la endocardite fibroplastica parietale di Loeffler della sindrome

eosinofila) o infezioni (batteriche, fungine, protozoarie quali le cisti da echinococco).

Sezione X. Aritmie

Capitolo 36. Definizione e Meccanismi delle Aritmie, Giuseppe Oreto, Marco Cerrito

DEFINIZIONE

Le Aritmie sono state classicamente definite come alterazioni della formazione e/o della conduzione

dell’impulso. Secondo una definizione più recente Aritmia è ogni situazione non classificabile come ritmo

cardiaco normale, inteso come ritmo ad origine dal nodo del seno, regolare e con normale frequenza e

conduzione.

CLASSIFICAZIONE

Una task force Italiana, incaricata nel 1999 di rivedere la classificazione delle Aritmie, ha affermato

l’opportunità di abbandonare definitivamente la vecchia nomenclatura, che divideva la aritmie in ipercinetiche e

ipocinetiche. Questi termini non andrebbero più impiegati per due ordini di motivi: da un lato essi utilizzano la

parola “cinetica”, che di solito esprime il movimento delle pareti del cuore più che il ritmo stesso, per cui

possono essere fonte di confusione, e dall’altro divergono nettamente da quelli utilizzati oltre i confini d’Italia,

rendendo meno semplice la comunicazione fra gli Italiani ed il resto del mondo.

La classificazione attuale delle Aritmie prevede 3 categorie: Tachicardie, Bradicardie, Battiti ectopici.

Le tachicardie vengono suddivise in sopraventricolari e ventricolari, e ciascuna di queste classi ha diverse forme

(Tabella I). Le bradicardie comprendono la bradicardia sinusale, il blocco seno-atriale e il blocco atrio-

ventricolare. I battiti ectopici possono essere sopraventricolari (atriali e giunzionali) o ventricolari.

MECCANISMI ELETTROGENETICI

Vi sono meccanismi differenti per le tachicardie e i battiti ectopici da un lato, e le bradicardie dall’altro. Nelle

tachicardie e anche nei battiti ectopici prematuri (extrasistoli) gli impulsi nascono quasi sempre al di fuori dal

nodo del seno e sono anticipati rispetto al normale ritmo sinusale, per cui il problema fondamentale è l’alterata

formazione dell’impulso. Nelle bradicardie, invece, il disordine principale riguarda (tranne che nella bradicardia

sinusale) la conduzione più che la formazione dell’impulso.

Le tachicardie e le extrasistoli condividono i tre seguenti meccanismi aritmogeni: 1) L’aumentato automatismo,

2) Il rientro, 3) I postpotenziali.

L’AUTOMATISMO

Esistono nel cuore due popolazioni fondamentali di cellule: quelle segnapassi e quelle di lavoro. Soltanto le

prime possiedono la capacità dell’automatismo, cioè sono in grado di iniziare il processo di depolarizzazione,

che poi si trasmette alle altre cellule. In altri termini, durante la fase 4 il potenziale di riposo di queste cellule

non è costante, a circa -90 mV, ma diviene gradualmente meno negativo fino a raggiungere il potenziale soglia,

in corrispondenza del quale scatta la depolarizzazione rapida (fase 0 del potenziale d’azione). In altri termini,

mentre le cellule di lavoro si attivano solo quando vengono raggiunte da un impulso esterno, quelle segnapassi

(denominate anche cellule pacemaker) vanno incontro a depolarizzazione diastolica spontanea durante la fase

4. La frequenza con cui le cellule segnapassi generano gli impulsi dipende dalla pendenza della fase 4 di

depolarizzazione diastolica spontanea.

Un segnapassi può incrementare la propria frequenza di scarica con tre diversi meccanismi: l’aumentata

pendenza della fase 4, lo spostamento del livello massimo di polarizzazione diastolica verso valori meno

negativi, lo spostamento del potenziale soglia verso valori più negativi (Figura 1). In alto (pannello 1) è

rappresentata l’aumentata pendenza della fase 4: il potenziale b (tratteggiato) ha una maggiore pendenza

rispetto ad a, e di conseguenza la frequenza di formazione degli impulsi aumenta.

Nel pannello di mezzo (2) viene presentata la differenza fra una cellula polarizzata a -90 mV (potenziale a, linea

continua) e una in cui la polarizzazione è minore, per esempio, -75 mV (potenziale b, linea tratteggiata). La

seconda raggiungerà il potenziale soglia più in fretta, poiché è minore il percorso che separa il potenziale

iniziale dalla soglia, e avrà una frequenza di scarica maggiore rispetto a quella dell’altra.

In basso (3) si può osservare l’effetto dello spostamento della soglia verso valori meno negativi. Se la soglia si

sposta da -60 mV (a) a circa -70 mV (b, linea tratteggiata) la cellula raggiungerà più in fretta il potenziale

soglia e la sua frequenza di scarica aumenterà.

Nel cuore vi sono numerosi pacemaker, ciascuno con il proprio automatismo, espresso dalla frequenza di

scarica potenziale; i segnapassi sono soprattutto contenuti nel sistema di conduzione, particolarmente in alcune

zone degli atri, nel fascio di His, nelle branche e nelle loro diramazioni, nelle cellule di Purkinje; il nodo del seno

è normalmente il segnapassi dominante perché è il più rapido, e il suo impulso, diffondendosi per tutto il cuore,

scarica tutte le altre cellule pacemaker prima che il loro impulso “maturi”, cioè raggiunga la soglia. Il ritmo

fisiologico è, perciò, sinusale.

In condizioni patologiche, altri pacemaker possono prendere il comando perché il loro automatismo, per uno dei

meccanismi sopra descritti, diventa maggiore di quello del nodo del seno: ecco generarsi un battito ectopico,

se il segnapassi diverso dal nodo del seno riesce a guadagnare il comando del cuore una sola volta, o un ritmo

ectopico, nel caso in cui tale segnapassi riesca a depolarizzare il cuore per diversi battiti consecutivi. Vi sono

molte condizioni patologiche in cui l’automatismo di un segnapassi ectopico può essere esaltato; fra queste la

stimolazione simpatica, l’ischemia, l’acidosi, gli squilibri elettrolitici. Inoltre, anche una cellula che normalmente

non ha attività pacemaker, può assumerla in determinate circostanze, per esempio in corso d’infarto

miocardico.

IL RIENTRO

Inteso in senso “classico”, il rientro è il fenomeno in cui un impulso generatosi in una camera torna indietro a

riattivare la camera da cui proveniva. In realtà lo stesso termine si applica quando un impulso torna a riattivare

il tessuto da cui proveniva, indipendentemente dal concetto di “camera”.

Perché il rientro abbia luogo, è necessario che siano contemporaneamente presenti 3 elementi fondamentali: il

circuito, il blocco unidirezionale, la conduzione rallentata.

Il circuito rappresentato nella Figura 2 corrisponde approssimativamente a quello che si realizza nel nodo A-

V. Nello schema vi è una zona ineccitabile al centro (il disco) e due vie (a e ß) che si riuniscono in alto in una

via superiore comune (x) e in basso in una via inferiore comune (y). Un impulso proveniente dalla via superiore

comune penetra in entrambe le vie; poiché la via ß ha una elevata velocità di conduzione, l’impulso l’attraversa

in un tempo breve e raggiunge la via inferiore comune quando ancora la via a, che ha una bassa velocità di

conduzione, è stata percorsa solo in parte. L’impulso che proviene dalla via ß può, quindi, invadere la via a in

senso retrogrado e collidere con il fronte d'onda anterogrado che sta percorrendo questa via. In questo caso vi

è il circuito, ma il rientro non si realizza per la mancanza degli altri due elementi.

Il blocco unidirezionale viene schematizzato nella Figura 3. Esso si può realizzare perchè le due vie (a e ß),

oltre a possedere una diversa velocità di conduzione, hanno anche un differente periodo refrattario, che è più

lungo per la via rapida ß. Può sembrare strano che in un tessuto l’elevata velocità di conduzione si associ con

un lungo periodo refrattario, mentre un altro tessuto possiede bassa velocità conduttiva e breve periodo

refrattario. In realtà la velocità di conduzione dipende dalla pendenza (Vmax) della fase 0 del potenziale

d’azione, mentre la refrattarietà dipende dalla durata del potenziale d’azione, soprattutto dalle fasi 2 e 3. E’

quindi comprensibile che una via abbia lungo periodo refrattario ed elevata velocità di conduzione, mentre

l’altra ha periodo refrattario breve e bassa velocità di conduzione.

Nella Figura 3, un impulso prematuro (fulmine) raggiunge simultaneamente le due vie: la via ß è ancora

refrattaria, per cui l’impulso vi si blocca, mentre la via a è già uscita dalla refrattarietà, e riesce a condurre.

L’impulso raggiunge attraverso la via a la via inferiore comune (y), e da qui retroinvade la via ß. Giunto

all’estremità superiore della via ß, però, incontra ancora tessuto in periodo refrattario a causa della precedente

attivazione anterograda, e si blocca. Il rientro, perciò, non avviene, visto che solo due elementi (il circuito e il

blocco unidirezionale) sono presenti.

La conduzione rallentata, rappresentata nella Figura 4, consente infine il realizzarsi del rientro. Qui, a

somiglianza della Figura 3, l’impulso prematuro proveniente dalla via superiore comune si blocca nella via ß e

viene condotto dalla via a; raggiunta la via inferiore comune, poi, retroinvade la via ß. Diversamente da quanto

accadeva nella Figura 3, però, qui l’impulso viene condotto così lentamente che, al momento in cui esso giunge

alla parte prossimale della via ß, questa è già uscita dalla refrattarietà. Questo impulso, perciò, può “rientrare”

nella via x, cioè nel tessuto dal quale proveniva, e contemporaneamente ripercorrere in senso anterogrado la

via a. Il rientro può essere unico, oppure l’impulso può percorrere ininterrottamente il circuito, dando luogo a

una tachicardia da rientro (Figura 4).

Il rientro si può verificare in qualsiasi sede del cuore, tanto negli atri che nella giunzione A-V e nei ventricoli. Il

nodo A-V è la struttura ideale per il realizzarsi del rientro, poiché possiede già in condizioni fisiologiche 2 vie con

diversa refrattarietà e velocità di conduzione. Altra situazione in cui si verifica il rientro è la Sindrome di Wolff-

Parkinson-White, nella quale il circuito di rientro comprende una via accessoria di conduzione atrio-ventricolare

(vedi Capitolo 38). Anche il flutter atriale è un’aritmia da rientro, dovuta a un macrocircuito che, nella maggior

parte dei casi, è contenuto nell’atrio destro.

Nei ventricoli, il rientro si realizza in presenza di fibrosi miocardica, soprattutto in seguito a un infarto:

l’esistenza di aree inattivabili (fibrotiche) all’interno di zone miocardiche eccitabili consente il formarsi di un

circuito, da cui può originare una tachicardia ventricolare.

I POSTPOTENZIALI (ATTIVITÀ TRIGGERATA)

Una forma particolare di automatismo caratterizza l'attività triggerata. Diversamente dall'automatismo

propriamente detto, nel quale la cellula segnapassi inizia la depolarizzazione autonomamente e senza

l'intervento di un evento esterno scatenante, nell’attività triggerata è necessario un potenziale estraneo

(trigger) che provochi la formazione dell'impulso prematuro. Il battito scatenante viene seguito da post-

potenziali che, in determinate circostanze, generano un nuovo potenziale d'azione. I post-potenziali sono

oscillazioni del potenziale di membrana che seguono un potenziale d'azione o si sovrappongono ad esso.

Sono stati descritti due tipi di post-potenziali: precoci e tardivi (Figura 5). I post-potenziali precoci si

manifestano nel corso della ripolarizzazione (fasi 2 e 3 del potenziale d'azione), prima che questa si completi.

Essi si osservano solitamente durante bradicardia o ripolarizzazione prolungata, ma possono anche essere

indotti dalle catecolamine e da tutta una serie di condizioni quali ipokaliemia, ipocalcemia, acidosi, ipossia,

somministrazione di alcuni farmaci.

I post-potenziali tardivi, che si osservano quando la ripolarizzazione si è completata (fase 4), sono

oscillazioni verso la positività del potenziale di membrana, che fanno seguito ad una temporanea

iperpolarizzazione (Figura 5). Quando il post-potenziale tardivo è sufficientemente ampio da raggiungere la

soglia, si genera un nuovo potenziale d'azione. La durata della ripolarizzazione influenza l'ampiezza dei post-

potenziali tardivi: quanto più prolungata è la ripolarizzazione tanto maggiore è il voltaggio dei post-potenziali

tardivi, e di conseguenza tanto più è probabile che si inneschi l'attività triggerata. I farmaci che prolungano il

potenziale d'azione, come la chinidina, possono aumentare l'ampiezza dei post-potenziali tardivi e rendere più

facile lo sviluppo dell'attività triggerata.

Fra le aritmie da post-potenziali vi sono la “Torsione di punte”, una tachicardia ventricolare che si associa in

genere a QT lungo, le aritmie da digitale, quelle da disionia e quelle indotte da catecolamine.

ELETTROGENESI DELLE BRADICARDIE

Le bradicardie possono conseguire a due meccanismi (vedi Capitolo 41): ridotta frequenza di formazione degli

impulsi o alterata conduzione di impulsi che si formano con frequenza normale. L’avviatore primario del cuore è

il nodo del seno (il segnapassi dotato di maggiore automatismo), e il sistema di conduzione trasmette il suo

impulso a tutte le cellule miocardiche secondo una sequenza prestabilita e costante. Diffondendosi per il

miocardio, l’impulso sinusale scarica tutti gli altri potenziali segnapassi più lenti, posti un pò dovunque, prima

che essi riescano ad emettere il loro impulso.

Se, tuttavia, il nodo del seno diviene deficitario, tanto da emettere impulsi a frequenza troppo bassa, i

segnapassi secondari possono intervenire, dando inizio alla depolarizzazione del cuore. Questo meccanismo

prende il nome di scappamento, e i complessi atriali e ventricolari così generati vengono detti appunto battiti

di scappamento (vedi Capitolo 37).

Altro possibile meccanismo delle bradicardie è la mancata conduzione degli impulsi sinusali. Il problema può

riguardare la conduzione fra il nodo del seno e l’atrio circostante (blocco seno-atriale) o la trasmissione

dell’impulso dagli atri ai ventricoli (blocco atrio-ventricolare). Anche in queste circostanze possono intervenire, a

depolarizzare il miocardio che l’impulso sinusale non riesce a raggiungere, i segnapassi di scappamento.

Capitolo 37. Battiti Ectopici, Francesco Luzza, Scipione Carerj, Sebastiano Coglitore

DEFINIZIONE

In condizioni normali, il ritmo cardiaco è governato dal nodo senoatriale, che rappresenta il naturale pacemaker

del cuore e, a intervalli regolari, emette impulsi elettrici che depolarizzano tutto il miocardio (Figura 1). In

particolari condizioni l’attivazione del cuore, o anche di parte di esso, può dipendere da un impulso che origina

in una sede diversa dal nodo senoatriale; in tali casi l’impulso è definito ectopico e il battito che ne deriva è un

battito ectopico.

L’emissione di un impulso ectopico può essere “anticipata” rispetto al momento in cui è atteso il complesso del

ritmo di base; in tali casi si generano dei battiti prematuri detti anche extrasistoli. A seconda della sede di

origine, le extrasistoli possono essere distinte in atriali, giunzionali e ventricolari.

Un battito ectopico può anche manifestarsi “in ritardo” rispetto al momento in cui era atteso un complesso del

ritmo di base; il fenomeno si può verificare quando viene meno il battito normale, per cui un pacemaker

secondario, solitamente “silente” perchè depolarizzato dalla scarica del segnapassi primario, dà origine a un

impulso che attiva il miocardio. Questi complessi ectopici si manifestano dopo un ciclo più lungo di quello di

base e sono definiti battiti di scappamento. Come le extrasistoli, anche i battiti di scappamento possono essere

atriali, giunzionali o ventricolari.

Figura 1 Ritmo sinusale regolare.

A. Rappresentazione schematica del cuore. L’impulso attiva gli atri, attraversa la giunzione atrioventricolare e si

diffonde ai ventricoli.

B. Rappresentazione schematica di un elettrocardiogramma; il ritmo è sinusale. Il diagramma a scala

sottostante raffigura gli atri (A), la giunzione atrioventricolare (AV) e i ventricoli (V). I punti rappresentano il

momento in cui il nodo senoatriale emette i propri impulsi. In A i numeri esprimono la durata dei cicli P-P

(ipotizzata pari a 100 centesimi di secondo), in AV quella del tempo di conduzione atrioventricolare (20) e, in V,

quella dei cicli R-R (100).

CRITERI GENERALI

Le extrasistoli sono un fenomeno molto frequente nella popolazione generale, e possono manifestarsi sia in

pazienti cardiopatici sia in soggetti clinicamente sani. Spesso non provocano sintomatologia alcuna e il loro

riscontro è assolutamente casuale; a volte, tuttavia, sono avvertite dal paziente e rappresentano la più

frequente causa di cardiopalmo. Nella maggior parte dei casi, il paziente percepisce non il battito anticipato

bensì il lungo intervallo che di solito segue il complesso prematuro (pausa postextrasistolica) e lo descrive come

una sensazione di “vuoto”, di “battito mancante” o di “cuore che si ferma”. In altre occasioni, invece, è il battito

del ritmo di base successivo all’extrasistole ad essere avvertito: la pausa postextrasistolica, infatti, determina

un prolungamento della diastole, cioè del tempo di riempimento ventricolare, che provoca un incremento della

gittata sistolica, per cui il battito cardiaco viene sentito dal paziente come un “colpo”, un “tonfo” o un “senso di

calore al volto”.

Alla palpazione del polso, l’extrasistole viene avvertita come un battito anticipato seguito da una pausa o, non

di rado, come un “battito mancante”; infatti, se l’extrasistole è molto precoce e la diastole è breve, il ventricolo

sinistro si contrae mentre contiene pochissimo sangue e la gittata sistolica è così ridotta da non generare

un’onda sfigmica apprezzabile al polso.

In presenza di battiti prematuri è necessario analizzare all’ECG alcuni elementi necessari per una diagnosi

corretta e una completa valutazione del fenomeno.

Morfologia del complesso prematuro

Le extrasistoli presentano generalmente una morfologia differente da quella dei battiti del ritmo di base.

L’attivazione della camera cardiaca in cui ha origine l’extrasistole, infatti, inizia in un punto diverso e procede

con una sequenza differente rispetto a quanto si verifica in condizioni normali; ciò determina nei complessi

prematuri un aspetto dell’onda P e/o del QRS differente rispetto a quello dei battiti sinusali. In molti casi, specie

in soggetti esenti da cardiopatia, i complessi prematuri sono uguali tra loro (extrasistoli monomorfe); non di

rado, però, la loro morfologia è variabile (extrasistoli polimorfe).

Intervallo di accoppiamento tra l’extrasistole e il precedente battito del ritmo di base

Questo intervallo, detto copula, è generalmente costante o presenta minime oscillazioni per battiti prematuri

che hanno la stessa origine; ciò suggerisce che l’emissione dell’impulso prematuro sia in qualche modo legata

alla precedente depolarizzazione dovuta al ritmo di base. Quando la copula è molto breve l’extrasistole è detta

precoce, in caso contrario è detta tardiva; se la durata della copula è solo di poco inferiore a quella del ciclo di

base, cosicché il complesso prematuro si manifesta appena prima del battito del ritmo di base, l’extrasistole si

definisce telediastolica. A volte, battiti prematuri con identica morfologia mostrano una copula notevolmente

variabile; in questi casi è molto probabile che l’impulso ectopico origini da un focus la cui attività sia

indipendente da quella del ritmo di base e proceda secondo un ritmo proprio. Il fenomeno è definito

parasistolia.

Intervallo tra l’extrasistole e il battito seguente del ritmo di base

Il ciclo cardiaco successivo a un complesso prematuro è generalmente più lungo di quello del ritmo di base ed è

definito pausa postextrasistolica. A seconda della durata, questa può essere compensatoria o non

compensatoria. Nel primo caso, frequente soprattutto nelle extrasistoli ventricolari, la somma tra la durata della

copula e quella della pausa equivale al doppio del ciclo di base, cosicché l’accorciamento del ciclo cardiaco

provocato dall’extrasistole è perfettamente “compensato” dalla pausa successiva.

Quando la pausa è non compensatoria la somma della sua durata con quella della copula è inferiore al doppio di

un ciclo di base. Il fenomeno è frequente nelle extrasistoli sopraventricolari, ma a volte si può osservare anche

dopo un battito prematuro ventricolare.

Modalità di comparsa dei complessi prematuri

I battiti ectopici possono manifestarsi sporadicamente o, al contrario, essere relativamente frequenti. Spesso

possono presentare un ritmo circadiano (ad esempio, incidenza elevata durante le ore diurne e scomparsa

pressoché totale durante il riposo notturno) o comparire in occasione di eventi specifici. A volte, inoltre,

possono manifestarsi con una cadenza regolare e dar luogo a sequenze più o meno prolungate di bigeminismo

(alternanza regolare di un complesso del ritmo dominante e di un’extrasistole), trigeminismo (ogni extrasistole

si manifesta dopo due complessi del ritmo di base), quadrigeminismo (un’extrasistole ogni tre complessi del

ritmo di base) e così via.

Nella maggior parte dei casi, le extrasistoli sono isolate (un solo complesso ectopico si manifesta tra due battiti

del ritmo dominante) ma, a volte, possono essere ripetitive e presentarsi sotto forma di coppia (due battiti

ectopici consecutivi non separati da complessi del ritmo di base) o di tripletta (tre extrasistoli consecutive). La

tripletta configura già una tachicardia non sostenuta (sopraventricolare o ventricolare).

EXTRASISTOLI ATRIALI

Sono riconoscibili per la presenza di:

• onda P prematura di morfologia differente da quella delle onde P sinusali;

• pausa postextrasistolica generalmente non compensatoria;

• QRS solitamente identico a quelli sinusali.

Gli impulsi atriali prematuri sono generalmente condotti ai ventricoli in modo analogo a quanto avviene nei

complessi di origine sinusale; tuttavia è possibile che, a causa della loro prematurità, trovino parte del sistema

di conduzione ancora in stato di refrattarietà e vadano incontro a un rallentamento o blocco della conduzione. Il

più delle volte è il nodo A-V a non avere ancora totalmente recuperato la propria eccitabilità e gli impulsi

prematuri atriali possono essere condotti ai ventricoli con un intervallo PR prolungato rispetto a quello dei

complessi di base o, se molto precoci, possono addirittura bloccarsi nella giunzione atrioventricolare e, in tal

caso, la P prematura non è seguita da un QRS (extrasistole atriale non condotta). In altre occasioni, invece, il

rallentamento o blocco della conduzione interessa il sistema di Purkinje e le extrasistoli atriali sono condotte con

un blocco di branca (extrasistoli atriali condotte con aberranza). (Figura 6)

I battiti prematuri atriali sono una delle cause più comuni di irregolarità del ritmo cardiaco, anche se spesso il

loro riscontro è casuale; in genere, richiedono un trattamento solo nei casi in cui sono scarsamente tollerati dal

paziente o quando costituiscono un potenziale meccanismo di innesco di aritmie maggiori, quali il flutter e/o la

fibrillazione atriale.

Figura 2 Extrasistole atriale isolata seguita da pausa non compensatoria.

A. Un impulso prematuro origina negli atri, li attiva, depolarizza il nodo senoatriale e si diffonde ai ventricoli.

B. L’ECG schematico mostra un’extrasistole atriale (freccia). Nel diagramma a scala l’impulso prematuro attiva i

ventricoli e depolarizza il nodo del seno. L’impulso sinusale successivo emerge dopo 110 centesimi di secondo,

(ciclo sinusale più il tempo impiegato dall’impulso ectopico per raggiungere e depolarizzare il nodo senoatriale).

Figura 3 Extrasistole atriale isolata; registrazione simultanea delle derivazioni V1 e V2.

L’extrasistole atriale è indicata con una freccia; la P prematura è ben visibile in V1, mentre in V2 è scarsamente

visibile perchè nascosta nella branca discendente dell’onda T precedente. La pausa postextrasistolica è non

compensatoria.

Figura 4 Extrasistoli atriali bigemine; II derivazione.

Il quarto e il sesto complesso sono extrasistoli atriali. Le P premature (indicate con frecce) si inscrivono

sull’apice dell’onda T dei complessi che precedono i QRS prematuri. Le extrasistoli atriali sono separate da un

solo battito sinusale e, pertanto, hanno cadenza bigemina.

Figura 5 Extrasistoli atriali ripetitive (tripletta); II derivazione.

Il quarto, quinto e sesto QRS sono una tripletta di extrasistoli atriali. La prima onda P prematura (freccia)

deforma l’onda T precedente, la due P premature successive sono meno evidenti perché nascoste nei complessi

che le precedono.

Figura 6 Extrasistole atriale a conduzione aberrante; II derivazione.

Il quarto QRS è anticipato e ha una morfologia differente rispetto ai complessi sinusali; è preceduto da un’onda

P prematura (freccia) e, pertanto, la diagnosi corretta è di extrasistole atriale con conduzione intraventricolare

aberrante.

EXTRASISTOLI GIUNZIONALI

Questi impulsi prematuri hanno origine nel fascio di His, prima della sua suddivisione nelle branche, e sono

considerati sopraventricolari dal momento che la diffusione dell’impulso all’interno dei ventricoli procede in

modo analogo a quella degli impulsi sinusali o atriali. (Figura 7)

Sono caratterizzate da:

• QRS prematuro uguale a quelli del ritmo di base;

• assenza di rapporti tra il QRS prematuro e la P sinusale. L’onda P, infatti, può precedere il QRS

extrasistolico, ma a una distanza più breve del normale e non compatibile con la conduzione A-V, oppure

può coincidere con il complesso ventricolare o anche manifestarsi immediatamente dopo di esso. In altri

casi, invece, l’impulso prematuro attiva gli atri prima dell’impulso sinusale e si manifesta un’onda P

dovuta alla retroconduzione dell’impulso giunzionale agli atri; in questo caso la P retrocondotta può

precedere, seguire o anche coincidere con il QRS prematuro.

Figura 7 Extrasistole giunzionale isolata.

A. Un impulso prematuro hissiano si diffonde ai ventricoli; in via retrograda, può collidere con l’impulso

sinusale.

B. Un’extrasistole giunzionale si manifesta dopo la terza P sinusale. Il QRS è dissociato dalla P precedente

(l’intervallo tra le due onde è più breve del normale e non compatibile con la normale conduzione). Nel

diagramma a scala, si osserva come l’impulso giunzionale può collidere con quello emesso dal nodo del seno.

EXTRASISTOLI VENTRICOLARI

La diagnosi si basa sui seguenti elementi:

• QRS prematuri, slargati, differenti da quelli del ritmo di base;

• mancanza di rapporti precisi tra i QRS prematuri e le onde P sinusali o, in alternativa, comparsa di onde

P retrocondotte che seguono i QRS extrasistolici;

• pausa postextrasistolica generalmente di tipo compensatorio.

La diagnosi delle extrasistoli ventricolari è meno semplice quando il ritmo di base è una fibrillazione atriale e le

onde P sono assenti. In questo caso, infatti, l’improvvisa comparsa di QRS larghi, differenti da quelli di base,

potrebbe essere l’espressione di una conduzione aberrante degli impulsi sopraventricolari e non di un’origine

ventricolare dei QRS.

A volte asintomatiche, le extrasistoli ventricolari sono in genere più facilmente causa di cardiopalmo di quelle

sopraventricolari soprattutto per la lunga pausa postextrasistolica che le caratterizza. La loro prognosi dipende

dal contesto clinico: generalmente è favorevole nei soggetti esenti da cardiopatia, nei quali può non essere

necessario alcun trattamento specifico, viceversa può essere sfavorevole in presenza di una cardiopatia, in

particolar modo nel corso di eventi ischemici acuti.

Figura 8 Extrasistole ventricolare seguita da pausa compensatoria.

A. Un impulso prematuro origina nei ventricoli e li attiva. L’impulso extrasistolico penetra solo parzialmente

nella giunzione atrioventricolare ancora refrattaria. L’impulso sinusale successivo si arresta a sua volta nella

giunzione atrioventricolare.

B. L’ECG schematico mostra un’extrasistole ventricolare (freccia). Nel diagramma a scala la barra orizzontale

nella giunzione AV esprime la durata del periodo refrattario seguente il passaggio dell’impulso ectopico.

Figura 9 Extrasistole ventricolare isolata; derivazione V6.

Il terzo complesso è un’extrasistole ventricolare (freccia); il QRS anticipato, slargato, non è preceduto da

un’onda P. Subito dopo il QRS prematuro, è riconoscibile l’onda P sinusale dissociata dal QRS extrasistolico. La

pausa è compensatoria.

Figura 10 Extrasistoli ventricolari monomorfe a cadenza bigemina; II derivazione.

Il terzo e il quinto complesso, prematuri, slargati sono extrasistoli ventricolari bigemine. La prima è

telediastolica, dissociata dalla precedente P sinusale; la seconda, viceversa, è più precoce e precede l’onda P

che si può riconoscere nel tratto ST del complesso extrasistolico.

I BATTITI DI SCAPPAMENTO

Si manifestano quando un pacemaker secondario, dotato di bassa frequenza di scarica e solitamente

depolarizzato dal segnapassi dominante, riesce a emettere il proprio impulso. Il fenomeno si osserva in caso di

un improvviso rallentamento del pacemaker dominante (conseguente a patologia intrinseca come nella malattia

del nodo del seno, ipertono vagale, effetto di farmaci, etc.) o anche per un disturbo di conduzione dell’impulso

del ritmo dominante (blocco senoatriale o A-V, vedi Capitolo 41). In alcuni casi anche una pausa

postextrasistolica particolarmente prolungata può causare l’insorgenza di un complesso di scappamento. I

battiti di scappamento non necessitano di terapia, ma spesso bisogna trattare la condizione che ne ha

determinato la comparsa.

Scappamento atriale

La diagnosi si basa sulla presenza di un’onda P differente da quella sinusale, che si inscrive al termine di un

intervallo più lungo del ciclo di base.

Scappamento giunzionale (Figura 11, Figura 12)

Può essere riconosciuto per la presenza di QRS identici a quelli del ritmo di base, che si manifestano al termine

di intervalli più lunghi di quello sinusale e non sono preceduti da un’onda P. A volte la P sinusale compare prima

dello scappamento giunzionale, ma con un intervallo molto breve, incompatibile con la conduzione A-V.

Figura 11 Scappamento giunzionale.

A. Il nodo del seno non scarica al momento atteso e un pacemaker hissiano prende il comando. L’impulso

giunzionale attiva i ventricoli e, in via retrograda, gli atri.

B. I primi due complessi sinusali sono seguiti da una pausa che è interrotta da un battito giunzionale; il QRS di

scappamento è seguito da una P retrocondotta (freccia). Nel diagramma sottostante, in A, il cerchio indica il

momento della mancata scarica senoatriale.

Figura 12 Extrasistole ventricolare seguita da uno scappamento giunzionale; derivazione V1. Al termine della

pausa postextrasistolica, un’onda P è seguita da un QRS, identico a quelli sinusali, a una distanza nettamente

inferiore alla durata dell’intervallo PR dei battiti sinusali. Ciò indica che P e QRS sono dissociati e che i ventricoli

sono stati attivati da un segnapassi secondario giunzionale.

Scappamento ventricolare (Figura 13)

E’ facilmente riconoscibile per la comparsa di un QRS largo, differente da quelli del ritmo di base, al termine di

un intervallo relativamente lungo, più del ciclo sinusale. Analogamente a quanto accade per lo scappamento

giunzionale, la P sinusale può essere riconoscibile ma appare dissociata dal QRS di scappamento, oppure

manca, ed è sostituita da una P retrocondotta.

Figura 13 Scappamento ventricolare.

A. L’impulso sinusale si blocca nella giunzione; un pacemaker secondario ventricolare prende il comando.

Nell’esempio, l’impulso di scappamento non retroattiva gli atri.

B. L’impulso corrispondente alla terza P va incontro a un blocco; la pausa seguente é interrotta da uno

scappamento ventricolare. Nel diagramma a scala, in V, un punto indica la scarica del pacemaker secondario; in

AV, la barra orizzontale esprime la durata del periodo refrattario seguente il passaggio dell’impulso di

scappamento.

Capitolo 38. Tachicardie Parossistiche Sopraventricolari, Rossella Troccoli, Matteo Di Biase

DEFINIZIONE

Si definisce tachicardia parossistica sopraventricolare (TPS) una sindrome clinica caratterizzata da una

tachicardia rapida e regolare, con improvviso inizio ed improvvisa interruzione. La maggior parte delle TPS è

dovuta ad un meccanismo di rientro (vedi Capitolo 36), che può realizzarsi nel nodo atrio-ventricolare

(tachicardia da rientro nodale) oppure in un circuito che include atri, ventricoli, il normale sistema di conduzione

(nodo AV, Fascio di His, Branche ) ed una connessione atrio-ventricolare anomala (tachicardia da rientro atrio-

ventricolare).

TACHICARDIA DA RIENTRO NODALE

La tachicardia da rientro nodale rappresenta i 2/3 circa di tutte le TPS e si riscontra nel 2-3% della popolazione

generale. La sua più comune manifestazione avviene nel quarto decennio di vita. Colpisce prevalentemente il

sesso femminile (rapporto 2:1).

Fisiopatologia

Alla base di questa tachicardia vi è un rientro intranodale dovuto alla dissociazione longitudinale del nodo in una

via rapida e una via lenta (Figura 1). Il rientro si può realizzare perché le due vie sono caratterizzate da una

diversa velocità di conduzione (nella via rapida la conduzione è più veloce) e un differente periodo refrattario,

che è più breve nella via lenta. Durante ritmo sinusale, l’impulso percorre entrambe le vie (Figura 2A). La via

rapida verrà attraversata in un tempo più breve e raggiungerà la via inferiore comune quando la via lenta è

stata attivata solo in parte. L’impulso che proviene dalla via rapida può, quindi, percorrere la via lenta in senso

retrogrado e collidere con il fronte d’onda anterogrado che sta percorrendo questa via (vedi Capitolo 36).

L’impulso sinusale, pertanto attiva i ventricoli soltanto attraverso la via rapida, e l’intervallo P-R, espressione

del tempo di conduzione atrio-ventricolare, sarà breve.

Un impulso prematuro (extrasistole) atriale può incontrare la via rapida nel periodo refrattario e bloccarsi,

mentre la via lenta, fuori dal periodo refrattario, è percorribile (Figura 2B). L’impulso che percorre la via lenta

raggiunge la via inferiore comune e può invadere in senso retrogrado la via rapida: a causa del lungo tempo

che l’impulso ha impiegato a percorrere la via lenta, la via rapida sarà uscita completamente dalla refrattarietà

e potrà, essere percorribile in senso retrogrado (Figura 2C). L’impulso può, quindi, raggiungere gli atri e

contemporaneamente invadere il fascio di His progredendo verso i ventricoli. Se questo meccanismo si

mantiene, si instaura una tachicardia da rientro nodale.

L’impulso atriale prematuro che scatena il rientro si associa ad un marcato allungamento dell’intervallo PR

(“salto” della conduzione dalla via rapida alla via lenta). La tachicardia da rientro con conduzione anterograda

lungo la via lenta e retrograda lungo la rapida viene definita di tipo “comune”.

Figura 2 Schema raffigurante il nodo A-V con le due vie, a (via lenta) e ß (via rapida).

A: l’impulso sinusale percorre entrambe le vie raggiungendo la via finale comune.

B: Un impulso prematuro (extrasistole) incontra la via rapida nel periodo refrattario e si blocca mentre la via

lenta, fuori dal periodo refrattario, è percorribile.

C: L’impulso che percorre la via lenta raggiunge la via inferiore comune dirigendosi verso i ventricoli ma invade

in senso retrogrado la via rapida.

Caratteristiche cliniche

I pazienti con una TPS da rientro nodale possono lamentare cardiopalmo ritmico ad insorgenza improvvisa, non

correlata con eventi particolari, ed interruzione altrettanto brusca. Talora presentano lipotimie o, in presenza di

elevata risposta ventricolare dispnea, angina, sincope. Un sintomo non infrequente è la poliuria pallida, dovuta

ad aumentata increzione di peptide natriuretico atriale durante la tachicardia.

Elettrocardiogramma

La tachicardia da rientro nodale è caratterizzata da QRS stretti con intervalli R-R costanti, a frequenza in genere

compresa tra 120 e 200/m’. Nella forma tipica l’onda P è nascosta nel QRS, poiché atri e ventricoli si attivano

simultaneamente, o può essere inscritta appena prima o appena dopo il complesso QRS simulando un’onda r’ in

V1 o una pseudo-s nelle derivazioni II, III e aVF (Figura 3).

La stimolazione atriale, eseguita durante studio elettrofisiologico transesofageo o intracavitario, permette di

indurre la tachicardia, caratterizzata dalla contemporanea attivazione degli atri e dei ventricoli.

Terapia

L’interruzione della tachicardia da rientro nodale si ottiene stimolando il vago in modo da indurre il blocco

dell’impulso in una parte del circuito. Poiché la persistenza della tachicardia dipende dall’ininterrotto circolare

dell’impulso, l’impossibilità del fronte d’onda a proseguire il suo percorso corrisponde al cessare della

tachicardia. Le manovre che incrementano il tono vagale come la manovra di Valsalva, il massaggio del seno

carotideo, il conato di vomito, l’immersione del viso in acqua fredda, sono utili e di solito rappresentano il primo

tentativo per l’interruzione dell’aritmia. Se le manovre vagali sono inefficaci si possono utilizzare farmaci

somministrati per via venosa, fra i quali l’adenosina, il Verapamil e gli antiaritmici della Classe 1C (vedi Capitolo

58).

Nel trattamento a lungo termine della tachicardia da rientro nodale l’approccio di scelta è l’ablazione

transcatetere (vedi Capitolo 61), ottenuta erogando energia a radiofrequenza sulla via nodale lenta attraverso

un catetere ablatore posto in corrispondenza del triangolo di Koch (area compresa tra seno coronarico, tendine

di Todaro e lembo settale della tricuspide).

TACHICARDIA DA RIENTRO ATRIO-VENTRICOLARE

Le vie anomale di conduzione atrio-ventricolare forniscono il substrato per queste tachicardie reciprocanti, che

vengono distinte in ortodromiche e antidromiche.

Fisiopatologia

Le vie accessorie sono connessioni atrio-ventricolari anomale congenite, derivanti da una incompleta

separazione dell’atrio dal ventricolo primitivo da parte dell’anello fibroso durante lo sviluppo embrionale del

cuore. Normalmente la comunicazione elettrica fra atri e ventricoli è affidata solo al sistema di conduzione

(nodo A-V, fascio di His, branche), mentre in alcuni soggetti esiste un’altra (a volte più di una) via di

conduzione che connette direttamente l’atrio al ventricolo: il fascio di Kent. La presenza di due vie crea un

circuito che comprende l’atrio, il nodo A-V, il fascio di His, una branca, un ventricolo e il fascio di Kent (Figura

4): è quindi possibile lo scatenarsi di una tachicardia da rientro, definita atrio-ventricolare poiché sia l’atrio che

il ventricolo fanno parte del circuito.

Il fascio di Kent è formato da miocardio comune, cioè da fibre rapide Na dipendenti, per cui possiede una

velocità di conduzione maggiore rispetto alla via nodo-hissiana, ed è in grado di trasmettere l’impulso sia in

senso anterogrado che retrogrado; in diversi casi, tuttavia, la conduzione è solo retrograda. Durante ritmo

sinusale, la via accessoria riesce a depolarizzare una parte più o meno grande dei ventricoli prima che questi

vengano raggiunti dall’impulso condotto attraverso il normale sistema di conduzione. Si realizza così il quadro

della preeccitazione, caratterizzata da intervallo P-R breve, onda delta e QRS largo (vedi Capitolo 3) (ECG

37). Quando a questi caratteri ECG si associa la tachicardia parossistica sopraventricolare da rientro A-V, si

delinea la sindrome di Wolff-Parkinson-White (WPW).

Le tachicardie da rientro A-V si distinguono in ortodromiche e antidromiche. Nelle prime la conduzione

anterograda avviene lungo il normale sistema di conduzione e quella retrograda lungo la via accessoria, mentre

nelle forme antidromiche la conduzione anterograda avviene lungo la via accessoria e quella retrograda

attraverso il normale sistema di conduzione. L’impulso proveniente dall’atrio si diffonde nei ventricoli mediante

il normale sistema di conduzione (branche e rete di Purkinje) nelle tachicardie ortodromiche, mentre nelle

antidromiche l’impulso raggiunge i ventricoli tramite la via accessoria, e quindi si diffonde attraverso il

miocardio comune. In quest’ultimo caso la tachicardia sarà a QRS larghi, mentre nelle forme ortodromiche i

complessi saranno stretti (tranne che non vi sia un blocco di branca), in accordo con la normale conduzione

intraventricolare dell’impulso.

Figura 4 Il circuito della tachicardia da rientro A-V ortodromica in presenza di un fascio di Kent sinistro.

Caratteristiche cliniche

La maggior parte dei pazienti con tachicardia sopraventricolare da rientro atrio-ventricolare non presenta

cardiopatie organiche sottostanti. Tuttavia, in circa il 20% dei bambini con preeccitazione è possibile riscontrare

una cardiopatia congenita (anomalia di Ebstein, vedi Capitolo 53).

I pazienti in genere lamentano cardiopalmo ritmico o aritmico, talora associato a dispnea o sincope. La

tachicardia, spesso correlata allo sforzo, insorge e si risolve improvvisamente.

ECG. 37 – Preeccitazione

Questo ECG mostra le caratteristiche tipiche della preeccitazione: il P-R corto, l’onda delta (il rallentamento

iniziale del QRS meglio visibile nell’ingrandimento di aVF e nel particolare a destra in basso dove l’onda delta è

colorata in rosso) e il QRS largo (in questo caso la durata del QRS è intorno a 0,13 secondi). Questi fenomeni

dipendono dalla presenza di un fascio di conduzione anomalo (il fascio di Kent) che unisce direttamente gli atri

ai ventricoli, senza passare per il nodo A-V. Il fascio di Kent conduce più rapidamente della via nodo-hissiana,

per cui una parte della massa ventricolare è “preeccitata”, cioè viene attivata prima di quanto sarebbe avvenuto

se l’impulso sinusale fosse stato condotto solo attraverso il normale sistema di conduzione.

Elettrocardiogramma

A ritmo sinusale l’ECG può presentare i segni della preeccitazione o essere normale. Durante tachicardia

ortodromica il QRS è generalmente stretto, gli intervalli RR sono regolari, e l’onda P si localizza nel tratto ST o

nell’onda T, con intervallo RP > 70 msec.

Durante tachicardia antidromica, invece, il QRS è largo come nelle tachicardie ventricolari, e la morfologia del

QRS è simile a quella che si ha durante preeccitazione massima.

In circa il 10% dei pazienti con Sindrome di WPW compare una fibrillazione atriale (Figura 5). In questi è

possibile che per la rapida conduzione degli impulsi di fibrillazione lungo la via accessoria si raggiunga un’alta

frequenza ventricolare, che può degenerare in fibrillazione ventricolare.

Figura 5 Fibrillazione atriale associata a pre-eccitazione: l’attività elettrica atriale, rapida e asincrona, è

condotta ai ventricoli mediante via accessoria, realizzando gradi variabili di preeccitazione (QRS larghi,

intervallo variabile tra i complessi, morfologia dei complessi differente da un battito all’altro).

Terapia

Farmaci in grado di bloccare la conduzione atrio-ventricolare, come l’adenosina e i calcio-antagonisti, bloccano

o rallentano la conduzione nel nodo A-V, parte del circuito, ed interrompono il rientro, arrestando la tachicardia

Nel trattamento a lungo termine sono efficaci i farmaci di classe I e III (vedi Capitolo 58). Nei pazienti

sintomatici, con TPS mal tollerata, oppure sincope o fibrillazione atriale pre-eccitata l’ablazione transcatetere

(vedi Capitolo 61) rappresenta la terapia di scelta. Questo trattamento viene attualmente indicato anche in tutti

i Pazienti paucisintomatici ed in tutti quelli che svolgono particolari attività lavorative (atleti, piloti, ecc.).

Capitolo 39. Fibrillazione e Flutter Atriale, Antonio Montefusco, Lucia Garberoglio, Alessandro Blandino,

Antonella Corleto, Fiorenzo Gaita

DEFINIZIONE

La fibrillazione atriale (FA) è un’aritmia nella quale il ritmo cardiaco non è governato dal nodo del seno, ma si

generano negli atri impulsi a frequenza elevata (fino a 600 al minuto), con cicli irregolari; solo alcuni di essi,

però, sono condotti i ventricoli, mentre un numero più o meno grande di impulsi atriali va incontro a un blocco

nel nodo atrio-ventricolare, per cui la frequenza ventricolare è molto minore di quella atriale.

EZIOLOGIA

Le cause della FA possono essere molteplici (Figura 1). In passato la patologia sottostante più frequente era

rappresentata da patologie valvolari (soprattutto a carico della valvola mitrale), mentre nell’ultimo ventennio le

malattie che più frequentemente determinano un aumento della pressione in atrio sinistro, con conseguente

aumento di volume atriale e quindi maggiore predisposizione alla FA, sono l’ipertensione arteriosa e le

cardiomiopatie. In circa il 30% dei casi non è identificabile nessuna patologia: in tali casi la FA viene definita

come idiopatica o “lone fibrillation”.

Figura 1 Cause di fibrillazione atriale. Nella popolazione con età < 50 anni è più frequente la fibrillazione

atriale parossistica isolata o associata a distiroidismo o a patologie dei canali ionici mentre nella popolazione

anziana più dell’ 80% delle forme di FA è a carattere persistente/permanente e si associa a cardiopatie

strutturali.

ELETTROGENESI E FISIOPATOLOGIA

Diversamente da altre aritmie, la FA non ha un meccanismo elettrogenetico unico, ma più fattori concorrono a

determinare la sua genesi e il suo mantenimento. Sono stati identificati, specialmente nelle vene polmonari,

segnapassi capaci di emettere impulsi a frequenza molto elevata, ed inoltre si realizzano negli atri multipli

circuiti di rientro, che operano indipendente gli uni dagli altri. Nella FA non esiste un unico fronte di attivazione

che, partendo dal nodo del seno, invada progressivamente in maniera ordinata tutta la massa atriale in un

tempo relativamente breve, ma si realizzano multipli fronti d’onda che, disordinatamente e in maniera

continuamente variabile, attivano ciascuno una regione più o meno limitata dell’atrio. Mentre nel ritmo sinusale

la depolarizzazione degli atri occupa solo una piccola parte del ciclo cardiaco (circa 70-90 millisecondi, come

espresso dalla durata dell’onda P normale), nella FA l’atrio si attiva ininterrottamente: in ogni momento del ciclo

cardiaco, infatti, vi sono aree atriali che si depolarizzano mentre altre zone si stanno ripolarizzando. Ciò spiega

la presenza di onde atriali (onde f, vedi più avanti) per tutto il ciclo cardiaco.

Da un punto di vista meccanico, la FA corrisponde ad una paralisi atriale: le singole fibrocellule si contraggono,

ma la loro contrazione non è efficace nel favorire la progressione del sangue perchè non vi è sincronismo

nell’attività delle diverse aree atriali, ciascuna delle quali si contrae in un momento diverso. La mancanza della

spinta atriale non necessariamente compromette il riempimento diastolico ventricolare, soprattutto se la

frequenza ventricolare non è elevata e se non vi è disfunzione ventricolare: anche quando il ritmo è sinusale,

infatti, la maggior parte del sangue passa dall’atrio al ventricolo durante la proto e mesodiastole, cioè

passivamente, e la contrazione dell’atrio interviene solo in telediastole a completare il riempimento ventricolare.

Quando, invece, la funzione diastolica del ventricolo sinistro è compromessa (per esempio, per via dell’ipertrofia

ventricolare) il ruolo della contrazione atriale diviene preminente nel favorire il riempimento ventricolare, per

cui la FA, con la perdita dell’attività meccanica atriale, può provocare una importante riduzione della gittata

cardiaca, ed essere causa determinante dello scompenso cardiaco.

EPIDEMIOLOGIA

La fibrillazione atriale è molto frequente nella pratica clinica, e la sua incidenza aumenta con l’età; circa il 5%

della popolazione con età maggiore di 65 anni ne è affetto. Pur non rappresentando sempre una condizione

clinica di emergenza, la FA è una importante causa di incremento di mortalità per malattie cardiovascolari ed è

associata ad un aumento di episodi di stroke ed a peggioramento della qualità di vita.

QUADRO CLINICO

La sintomatologia della FA è legata alla irregolarità del ritmo ed alla frequenza ventricolare media generalmente

elevata, ed è rappresentata dalle palpitazioni. In corso di FA vi è la perdita della contrazione atriale con

conseguente possibile riduzione della gittata cardiaca e per tale ragione essa può anche manifestarsi con

dispnea, affaticabilità, dolore toracico (Figura 2). In circa il 20% dei casi la FA è completamente asintomatica:

e questo avviene frequentemente in soggetti con condizioni fisiologiche (ipertono vagale) che rallentino la

conduzione atrio-ventricolare.

Con la palpazione del polso radiale è di solito possibile apprezzare la completa irregolarità del ritmo e la

variabile ampiezza dell’onda sfigmica. Quest’ultimo fenomeno esprime il rapporto tra gittata sistolica e durata

della diastole: durante una diastole lunga il ventricolo ha la possibilità di ricevere una elevata quantità di

sangue, per cui la gittata sistolica è abbondante e il polso è ampio; dopo una diastole breve, invece, il

ventricolo è relativamente vuoto di sangue quando si contrae, e di conseguenza la gittata sistolica è modesta e

il polso piccolo. Quando la diastole diventa brevissima, come in caso di elevata risposta ventricolare, in alcune

(o in molte) delle contrazioni il ventricolo contiene così poco sangue da non riuscire provocare l’apertura delle

cuspidi aortiche; in questo caso non si genera un’onda sfigmica e al polso il battito è del tutto assente. In

questa situazione, la frequenza cardiaca valutata al polso è minore di quella reale (“deficit cuore-polso”): in

pazienti con FA, perciò, la frequenza cardiaca va rilevata non solo al polso ma anche mediante ascoltazione

cardiaca sul focolaio della punta.

La frequenza ventricolare durante FA è influenzata in modo significativo dal tono del sistema nervoso

autonomo: può diventare molto rapida quando aumenta il tono simpatico e diminuisce il tono parasimpatico,

come accade durante esercizio fisico.

Le complicanze della FA possono essere dovute alla sua irregolarità, alla elevata frequenza cardiaca e alla

perdita della contrazione atriale. L’irregolarità e l’elevata frequenza cardiaca possono provocare una riduzione

della funzione contrattile ventricolare sinistra, che in presenza di altre patologie concomitanti può esitare in

scompenso cardiaco. La perdita della contrazione atriale, inoltre, determina un rallentamento del flusso ematico

che facilita la formazione di trombi all’interno degli atri, specialmente nelle auricole. I trombi sono

generalmente adesi alla parete atriale, ma possono anche staccarsi, specialmente quando, col ripristino del

ritmo sinusale, l’atrio riprende a contrarsi. Un trombo formatosi nell’atrio sinistro può quindi, attraverso la

circolazione sistemica, embolizzare in qualsiasi distretto periferico: non di rado viene colpito l’encefalo e si

manifesta un ictus. La comparsa di scompenso, ma soprattutto le complicanze tromboemboliche, sono la causa

dell’aumentata mortalità nei pazienti con FA.

Figura 2 Sintomi più frequenti nei pazienti con fibrillazione atriale.

ELETTROCARDIOGRAMMA

L'ECG mostra l’assenza delle onde P (che sono l’espressione dell’attività elettrica atriale normale) e la presenza

delle caratteristiche onde fibrillatorie rapide (onde f), le quali appaiono come irregolari ondulazioni della linea

isoelettrica (Figura 3), e sono continue, durando per tutto il ciclo cardiaco. La loro frequenza varia tra 380 e

600 al minuto; l’ampiezza e la morfologia mostrano notevole variabilità da momento a momento. Le onde

fibrillatorie possono essere di basso voltaggio e quindi scarsamente visibili (FA ad onde fini, Figura 3A), oppure

di voltaggio più elevato (FA ad onde grossolane Figura 3B).

Gli intervalli fra i complessi ventricolari (intervalli R-R) sono irregolari, essendo molti stimoli bloccati a livello del

nodo atrio-ventricolare che funge da “filtro” nel passaggio degli impulsi elettrici tra atri e ventricoli.

Figura 3 L’Elettrocardiogramma della fibrillazione atriale. A: FA ad onde fini. B: FA ad onde grossolane.

CLASSIFICAZIONE

Sono stati proposti diversi schemi di classificazione clinica della FA, ma nessuno comprende in modo completo

tutti gli aspetti dell’aritmia. Dal punto di vista clinico (Figura 4) è utile distinguere un primo episodio

documentato indipendentemente dai sintomi e dalla durata. Nel caso in cui il paziente presenti 2 o più episodi,

la FA è considerata ricorrente. Se l’aritmia termina spontaneamente, la recidiva di FA viene definita

parossistica; mentre se dura più di 7 giorni, la FA viene detta persistente. Nella FA persistente, il ripristino

del ritmo sinusale (cardioversione) si ottiene con farmaci o con mezzi elettrici (vedi più avanti). La categoria

della FA permanente comprende i soggetti nei quali la cardioversione è fallita o non è stata tentata.

Figura 4 Classificazione clinica della fibrillazione atriale basata sul numero e sulla durata degli episodi.

TRATTAMENTO

Profilassi degli eventi cardioembolici

Poiché la FA aumenta significativamente il rischio di eventi tromboembolici, esiste unanime consenso sul fatto

che tutti i pazienti con patologia cardiaca valvolare e FA richiedano l’anticoagulazione con dicumarolici. In

pazienti con FA non valvolare l’indicazione al trattamento anticoagulante dipende dal rischio tromboembolico

(Figura 5) calcolato in base ai fattori di rischio (scompenso cardiaco, ipertensione arteriosa, età > 75 anni,

diabete mellito, precedente storia di ictus o TIA). E’ necessario comunque conoscere che la terapia

anticoagulante con dicumarolici comporta un rischio di stroke emorragico pari all’1% per anno.

Cardioversione

Con tale termine si definisce l’interruzione della FA, con ripristino del ritmo sinusale. Quando la cardioversione

non avviene spontaneamente, un episodio di FA persistente può essere interrotto eseguendo una cardioversione

elettrica o farmacologica.

La cardioversione elettrica (CVE) consiste nella somministrazione di una scarica elettrica per mezzo di due

piastre applicate al torace del paziente, cui consegue l’azzeramento del potenziale di azione di tutte le cellule

cardiache e quindi l’interruzione dell’aritmia.

Numerosi farmaci antiaritmici possono essere utilizzati per eseguire una cardioversione farmacologica;

tra questi il propafenone, la flecainide e l’amiodarone sono quelli maggiormente efficaci. Il successo della CV

farmacologica dipende dalla durata della FA, raggiungendo l’80% in caso di FA con durata minore di 24 ore,

mentre la percentuale di successo è inferiore al 35% in caso di FA persistente.

Un rischio della cardioversione, indipendente dal fatto che il ripristino del ritmo sinusale sia spontaneo o indotto

elettricamente o con farmaci, è che si verifichi un’embolia arteriosa sistemica. Se, infatti, durante il periodo in

cui l’aritmia è stata presente si è formato un trombo in atrio sinistro, la ripresa della contrazione atriale

favorisce il distacco del trombo, che migra quindi nel circolo sistemico. Per questo motivo si può cardiovertire

elettricamente la FA se questa è insorta da meno di 48 ore, mentre se l’episodio di FA ha una durata maggiore,

la cardioversione, sia elettrica che farmacologica, deve essere preceduta da un periodo di anticoagulazione

efficace di almeno 4 settimane.

Controllo del ritmo e controllo della frequenza

Nei pazienti con FA, la terapia farmacologica può avere come scopo il mantenimento del ritmo sinusale

(controllo del ritmo) o, nella FA permanente, il mantenimento di una frequenza ventricolare media accettabile

(controllo della frequenza). La prima strategia viene scelta solitamente in soggetti giovani o molto sintomatici o

con deterioramento emodinamico dovuto alla fibrillazione atriale. La seconda è generalmente preferita in

pazienti anziani o paucisintomatici.

Per il controllo del ritmo i farmaci antiaritmici più utilizzati (vedi Capitolo 58) sono quelli della classe I

(chinidina, flecainide, propafenone) e III (sotalolo, amiodarone, dronedarone, azimilide). Tali farmaci hanno

una efficacia nel mantenere il ritmo sinusale ad un anno che va dal 45-50% per quelli della classe I al 70-75 %

per i farmaci della classe III. Purtroppo l’incidenza di importanti effetti collaterali coinvolge quasi un quarto dei

pazienti trattati. In caso di inefficacia e/o di effetti collaterali della terapia farmacologica, la strategia del

controllo del ritmo può essere perseguita utilizzando metodiche di ablazione transcatetere o chirurgiche che

consistono nell’isolamento elettrico delle vene polmonari e nell’esecuzione di lesioni lineari (Figura 6).

Per quanto riguarda il controllo della frequenza, evidenze cliniche hanno dimostrato come, soprattutto nei

pazienti anziani, tale strategia possa risultare una valida alternativa terapeutica. Essa può essere raggiunta con

l’impiego di tre diversi farmaci: la digossina più utilizzata nei pazienti con scompenso cardiaco, i ß-bloccanti

generalmente più efficaci per il loro effetto nel controllo della frequenza sotto sforzo e i Calcio-antagonisti.

DEFINIZIONE

Il flutter atriale è un’aritmia caratterizzata da un’attivazione atriale regolare e rapida con una frequenza

generalmente compresa tra i 240 e i 300/m’. La risposta ventricolare, cioè il numero di impulsi atriali che

raggiungono i ventricoli, dipende dal nodo atrio-ventricolare, che funge da filtro, impedendo che la frequenza

ventricolare raggiunga livelli troppo elevati. Generalmente la conduzione atrio-ventricolare avviene con un

rapporto 2:1 (solo un impulso atriale su due è condotto ai ventricoli) ma talora può presentare rapporti di

conduzione diversi (3:1, 4:1, 3:2).

L’incidenza del flutter atriale nella popolazione generale è stimata in 88 su 100000 abitanti. Molto spesso il

flutter atriale si associa a fibrillazione atriale; la maggior parte dei casi si verifica in presenza di una condizione

predisponente o di una malattia cardiaca strutturale.

ELETTROGENESI

Il meccanismo elettrogenetico del flutter atriale è il rientro (vedi Capitolo 36). Si tratta, nelle forme tipiche, di

un circuito posto nell’atrio destro, delimitato dall’anello tricuspidalico, dalla crista terminalis e dalla valvola di

Eustachio. Il fronte d’onda può percorrere il circuito in direzione antioraria (flutter comune) o oraria (flutter non

comune) dando luogo a due quadri diversi da un punto di vista dell’Elettrocardiogramma. La zona critica per

l’innesco ed il mantenimento dell’aritmia è rappresentata dall’istmo cavo-tricuspidale, compreso fra l’anulus

della tricuspide e l’orificio della vena cava inferiore. Sono possibili altri macrocircuiti di rientro sia nell’atrio

destro che in quello sinistro; quando la sede del circuito è diversa da quella classica, il flutter atriale viene

definito atipico.

QUADRO CLINICO

I sintomi del flutter atriale sono simili a quelli della fibrillazione atriale e dipendono in larga misura dalla

frequenza ventricolare: il disturbo più comune è la palpitazione, ma possono anche verificarsi vertigini, dispnea,

debolezza, e raramente angina o sincope.

CLASSIFICAZIONE

Il flutter atriale si presenta all’ECG con una serie di onde atriali (onde F) regolari, a frequenza intorno a 300 al

minuto; il numero dei complessi ventricolari è quasi sempre minore, dato che solo alcuni impulsi atriali vengono

condotti ai ventricoli. In base alla morfologia delle onde F, il flutter si distingue in tipico ed atipico.

Nel flutter atriale tipico le onde F hanno un aspetto a dente di sega, e si susseguono senza interruzione, non

essendo separate da linea isoelettrica (Figura 7); nel flutter atipico, invece, le onde F non hanno morfologia a

denti di sega e sono separate da linea isoelettrica (Figura 8). Nel flutter tipico comune (antiorario) le onde F

sono negative nelle derivazioni inferiori (II, III, aVF) e positive in V1, mentre nella forma non comune (oraria)

hanno polarità positiva nelle derivazioni inferiori e negativa in V1.

TRATTAMENTO

Il trattamento del flutter atriale può avere come scopo il mantenimento di una frequenza ventricolare non

troppo elevata oppure l’interruzione dell’aritmia. I calcioantagonisti e i beta-bloccanti (vedi Capitolo 58) sono

farmaci di prima scelta per rallentare la frequenza ventricolare, poiché essi aumentano la refrattarietà del nodo

A-V e quindi diminuiscono il numero degli impulsi atriali che raggiungono i ventricoli. Per far cessare il flutter

atriale e ripristinare il ritmo sinusale, viene comunemente impiegata l’ibutilide somministrata per via

endovenosa .

Un altro metodo efficace per interromper il flutter è la cardioversione elettrica (vedi il paragrafo “Trattamento”

della sezione Fibrillazione atriale). Come per la fibrillazione, anche i pazienti con flutter atriale che dura da più

di 48 ore richiedono un opportuno periodo di scoagulazione. Anche la stimolazione elettrica atriale può

efficacemente porre fine al flutter; essa si esegue con un elettrocatetere introdotto nell’atrio destro per via

venosa oppure con un elettrodo inserito nell’esofago e posto a stretto contatto con l’atrio sinistro, che si trova

in immediata continuità con l’esofago. Gli stimoli elettrici ad elevata frequenza, erogati da un apposito

stimolatore, possono far cessare il flutter perché rendono refrattaria una parte del circuito di rientro, impedendo

l’ulteriore progressione dell’impulso e quindi il perpetuarsi dell’aritmia.

E’ possibile curare il flutter atriale radicalmente, rendendo inagibile in modo definitivo il circuito di rientro

mediante un intervento di ablazione transcatetere (vedi Capitolo 61). Nel flutter tipico l’ablazione viene eseguita

inserendo un elettrocatetere nel cuore destro ed inducendo, con erogazioni di energia a radiofrequenza, una

lesione stabile a livello dell’istmo cavo-tricuspidalico. Quando questo tessuto diventa incapace di condurre

l’impulso, l’aritmia non può più essere scatenata per l’impossibilità che l’impulso percorra il circuito, una parte

del quale è divenuta ineccitabile in seguito al trattamento.

Capitolo 40. Tachicardie Ventricolari, Stefano Favale, Pierangelo Basso, Franceso Capestro,

Valentina D’Andria, Annalisa Fiorella

DEFINIZIONE

Si definisce tachicardia ventricolare (TV) una successione di almeno 3 battiti ectopici di origine ventricolare con

frequenza =100 al minuto. La TV viene classificata come sostenuta se ha durata >30 secondi o, pur avendo

durata inferiore, richiede un immediato intervento terapeutico per l’insorgenza di grave compromissione

emodinamica, e non sostenuta se ha durata inferiore a 30 secondi. In base alla morfologia dei complessi

ventricolari all’elettrocardiogramma, la TV si definisce monomorfa se tutti i QRS sono identici e polimorfa

quando sono evidenti variazioni nella configurazione del QRS. Si distinguono, inoltre, le forme seguenti: TV

Iterativa (episodi di TV non sostenuta a regressione spontanea, generalmente a frequenza <150 b/m), TV

Incessante (persistente per oltre l'80% della giornata), TV lenta (a frequenza compresa tra 100 e 150 b/m).

ELETTROGENESI

La genesi delle TV è dovuta alla presenza di un anomalo generatore di impulsi nei ventricoli, da ricondurre a

uno dei seguenti meccanismi: rientro, esaltato automatismo, attività triggerata (vedi Capitolo 36).

Un esempio paradigmatico di rientro è dato dalla tachicardia ventricolare post-infartuale. Il miocardio

ventricolare andato incontro ad infarto è costituito da aree cicatriziali frammiste ad aree di miocardio ancora

vitale che nell’insieme costituiscono un circuito fibrocellulare chiuso, con disomogeneità dei periodi refrattari in

vari punti di esso. Un extrastimolo precoce può subire un blocco unidirezionale nella zona con periodo

refrattario più lungo (quindi ancora ineccitabile) e percorrere con rallentamento della conduzione la zona con

periodo refrattario più corto, e che quindi è già eccitabile. Una volta percorsa l’area di miocardio eccitabile,

l’impulso può rientrare in senso opposto nella zona precedentemente ineccitabile (che nel frattempo ha

recuperato dalla refrattarietà) e percorrere l’intero circuito. In questo modo il fronte d’onda trova sempre

davanti a sé tessuto eccitabile e ciò consente l’automantenimento dell’aritmia che si è generata.

EZIOLOGIA

Le TV possono verificarsi in presenza o in assenza di alterazioni anatomiche macroscopicamente evidenti del

cuore. In quest’ultimo caso esiste un’alterazione anatomica di dimensioni troppo piccole per essere messa in

evidenza dai comuni presidi diagnostici (tachicardie cosiddette idiopatiche) o esiste un difetto funzionale dei

canali ionici, generalmente su base congenita (per esempio, sindrome del QT lungo congenito, Sindrome di

Brugada). Le forme idiopatiche costituiscono circa il 10% di tutte le TV. Le TV che si associano ad una

alterazione anatomica del cuore possono complicare, talora con significato di evento terminale, tutte le

cardiopatie, alcune in particolare.

TV ASSOCIATA AD ALTERAZIONI ANATOMICHE DEL CUORE

La Cardiopatia ischemica rappresenta il principale fattore eziologico della TV: nell’infarto miocardico acuto

una TV sostenuta si presenta nel 5-10% dei casi, ed è frequente anche in pazienti con pregresso infarto

miocardico. In seguito alla necrosi miocardica, infatti, si creano aree adiacenti non omogenee costituite da

tessuto fibroso e miocardio vitale, che rappresentano il substrato ideale per il rientro.

Nella Cardiomiopatia dilatativa, la TV fa parte della storia naturale (vedi Capitolo 29). La morte improvvisa,

in questi pazienti, è prevalentemente tachiaritmica (80%) nelle classi NYHA meno avanzate (II-III), mentre

nelle fasi più avanzate incidono anche le bradicardie, la dissociazione elettromeccanica e le tromboembolie. La

frazione d’eiezione ridotta e la comparsa di sincope sono i fattori maggiormente predittivi di morte improvvisa

nella cardiomiopatia dilatativa.

Nella Cardiomiopatia ipertrofica la presenza, oltre che di ipertrofia ventricolare, di malallineamento dei

miociti (disarray) rappresenta il substrato per la genesi di aritmie ventricolari (vedi Capitolo 28). Non raramente

questa cardiopatia si manifesta per la prima volta con sincope o con morte improvvisa aritmica in pazienti

prevalentemente giovani e peraltro asintomatici. La presenza di una marcata ipertrofia ventricolare sinistra, di

una storia familiare di morte improvvisa, di sincope, risultano altamente predittivi del rischio di morte

improvvisa in questi pazienti.

La Cardiomiopatia/Displasia aritmogena del ventricolo destro si manifesta essenzialmente con aritmie

ventricolari maligne e in particolare con TV sostenuta con morfologia tipo blocco di branca sinistra (vedi

Capitolo 31).

Nella Stenosi aortica circa il 20% dei pazienti muore improvvisamente per aritmie ventricolari maligne (vedi

Capitolo 16).

Anche il Prolasso valvolare mitralico, quando è di entità severa, con rilevante insufficienza valvolare, può

dare luogo alla comparsa di aritmie, inclusa la TV (vedi Capitolo 15).

TV IN ASSENZA DI ALTERAZIONI ANATOMICHE DEL CUORE

Può verificarsi per difetto funzionale dei canali ionici (Sindrome del QT lungo, Sindrome di Brugada), per

l’effetto di farmaci, squilibri elettrolitici o ipossia.

La Sindrome del QT lungo (LQTS) è una malattia su base genetica, caratterizzata da alterazioni strutturali dei

canali ionici, in grado di provocare un’anomalia nella ripolarizzazione delle cellule cardiache (vedi Capitolo 43).

In questi pazienti, la sincope, che può esitare in morte improvvisa, è causata dall’insorgenza di una “torsione di

punta”, una tachicardia ventricolare polimorfa, caratterizzata da complessi QRS di ampiezza variabile e con

progressiva inversione di polarità. La morte improvvisa può essere determinata dalla degenerazione della

torsione di punta in una fibrillazione ventricolare.

La Sindrome di Brugada è una malattia elettrica primaria su base genetica, in cui all’alterazione di un canale

ionico consegue l’accorciamento del potenziale d’azione, soprattutto a livello epicardico, per cui si crea un

gradiente elettrico dopo la completa attivazione del miocardio ventricolare. Ciò è responsabile di alcune

alterazioni dell’ECG di base (onda J, sopraslivellamento di ST in V1 e V2) e della possibilità di innesco di

tachicardia ventricolare. (vedi Capitolo 43).

Alcuni Farmaci, ad esempio digitale, simpaticomimetici, antiaritmici ed alcuni Squilibri idroelettrolitici come

Ipokaliemia, iperkaliemia, ipercalcemia, possono provocare una TV.

CONSEGUENZE EMODINAMICHE

I principali fattori che incidono nel deterioramento emodinamico indotto dalla TV sono: 1) la frequenza, 2) il

mancato coordinamento fra gli atri e i ventricoli, 3) l’attivazione eccentrica del miocardio.

Per frequenze elevate, la fase di riempimento diastolico risulta compromesso e diviene insufficiente per

permettere l’adeguato riempimento ventricolare, per cui la portata si riduce la pressione arteriosa tende a

cadere. Nella TV, inoltre, vi è in circa il 50% dei casi la dissociazione fra l’attivazione atriale e quella

ventricolare, mentre nel restante 50% l’impulso ventricolare viene retrocondotto agli atri. In questi casi, la

contrazione atriale si verifica sempre (retroconduzione) o spesso (dissociazione) a valvole AV chiuse, con

aumento della pressione atriale, inversione del flusso dall’atrio alle vene e perdita totale del contributo atriale al

riempimento ventricolare.

Un altro fenomeno che caratterizza le TV è l’attivazione eccentrica del miocardio. L’attivazione del miocardio

ventricolare secondo le normali vie di conduzione del segnale elettrico è necessaria per una contrazione efficace

dei ventricoli. Nella TV, invece, l’attivazione ventricolare è abnorme: dal punto di origine dell’ aritmia (circuito o

focus ) l'impulso segue vie non fisiologiche, con il risultato di una desincronizzazione tra le varie parti dei

ventricoli, in grado di compromettere l’efficacia della contrazione

La funzione ventricolare sinistra e l'eziologia della TV ne influenzano in modo determinante le manifestazioni

cliniche. In un cuore sano, con normale frazione di eiezione, il quadro emodinamico è compromesso solamente

per le caratteristiche intrinseche della TV (frequenza, dissociazione ed eccentricità). Una TV in un paziente con

severa disfunzione ventricolare sinistra (bassa frazione di eiezione), invece, può determinare importanti

riduzioni di portata cardiaca anche a frequenze non molto elevate.

QUADRO CLINICO

La sintomatologia della TV è estremamente variabile, e si possono osservare tanto pazienti asintomatici quanto

pazienti che arrivano a presentare sincope o arresto cardiocircolatorio. I fattori fondamentali nel determinare la

sintomatologia sono la frequenza dell’aritmia, la durata della stessa e la cardiopatia di base. La sensazione più

comunemente riportata dai pazienti è quella del cardiopalmo, legata all’aumento della frequenza delle

contrazioni ventricolari. In certi casi il paziente può riferire angor legato in questo caso alla discrepanza

(squilibrio tra richiesta e apporto di O2) soprattutto nei pazienti che presentano di base una cardiopatia

ischemica. Altro sintomo può essere la dispnea, associata alla slatentizzazione di un sottostante scompenso

cardiaco.

All’esame obiettivo va posta particolare attenzione al polso che si presenterà frequente, piccolo e ritmico. Un

dato non raro, e generalmente sottovalutato, è la variabilità dell’ampiezza del polso, che si rileva in presenza di

dissociazione atrio-ventricolare, cioè in circa il 50% dei casi. Quando l’attività ventricolare è dissociata da quella

atriale, la contrazione degli atri potrà avvenire in qualunque momento del ciclo cardiaco; se essa cade a valvole

A-V chiuse non ci sarà alcun contributo dell’atrio al riempimento ventricolare, mentre quando gli atri si

contraggono poco prima della sistole ventricolare, nella fase in cui le valvole A-V sono aperte, aumenterà il

riempimento ventricolare, e con esso la gittata sistolica di quel battito. In questa circostanza anche l’ampiezza

del polso sarà maggiore rispetto a quando gli atri si contraggono a valvole A-V chiuse, e poiché la corretta

sincronizzazione A-V (onda P poco prima del QRS) è casuale, si avrà ogni tanto una pulsazione più ampia, pur

mantenendosi ritmico il polso. L’ascoltazione cardiaca evidenzierà toni ritmici e tachicardici, con a volte variabile

intensità del I tono (la genesi di questo fenomeno è identica a quella che governa la variabile ampiezza del

polso), mentre quella polmonare potrà essere silente o evidenziare rumori umidi (rantoli a piccole o medie

bolle) nel caso in cui la tachicardia ventricolare porti ad un quadro di edema polmonare.

Infine, a seconda della compromissione emodinamica, subentrano quelli che sono i sintomi legati alla bassa

portata quali l’ipotensione (sudorazione, pallore, etc.), le vertigini o la sincope (per ipoperfusione della sostanza

reticolare).

ELETTROCARDIOGRAMMA

La diagnosi di Tachicardia Ventricolare si avvale fondamentalmente dell’elettrocardiogramma, che mette in

evidenza:

- una sequenza di 3 o più battiti ventricolari consecutivi;

- complessi QRS di durata uguale o superiore a 0.12 sec;

- la possibile dissociazione atrio-ventricolare (Figura 1).

Il QRS, in corso di TV, ha una durata sempre (0.12 sec, mentre la sua morfologia assumerà un aspetto tipo

blocco di branca destra o sinistra a seconda del ventricolo in cui insorge l’aritmia. Nella TV, infatti, il ventricolo

da cui nasce l’aritmia si attiva prima del controlaterale, che viene raggiunto dal processo di depolarizzazione

tardivamente; lo stesso sfasamento si realizza nel blocco di branca, dove il ventricolo la cui branca è incapace

di condurre si attiva in ritardo. Perciò quando la TV nasce nel ventricolo destro la morfologia del QRS somiglierà

a quella di un blocco di branca sinistra (prima si attiva il ventricolo destro, poi il sinistro), e una TV originatasi

nel ventricolo sinistro avrà un aspetto simile a un blocco di branca destra. Bisogna fare attenzione alla non

semplice diagnosi differenziale fra le TV e le tachicardie sopraventricolari a QRS largo per conduzione aberrante

frequenza-dipendente o per blocco di branca preesistente; inoltre anche le tachicardie sopraventricolari

condotte ai ventricoli attraverso una via anomala hanno QRS larghi (vedi Capitolo 38).

Particolare è il quadro elettrocardiografico in caso di Torsione di Punta dove, su un ritmo di base solitamente

bradicardico e con QT allungato (soprattutto nei casi di ipokalemia), si osserva una sequenza di

ventricologrammi con continua e graduale variazione della polarità, che diviene da positiva a negativa e

viceversa.

Altri mezzi diagnostici sono una registrazione più dettagliata dell’attività atriale tramite l’ECG transesofageo

(registrato ponendo un sondino munito di un elettrodo a livello esofageo) che permette di valutare meglio il

rapporto atrio-ventricolare, e l’ECG endocavitario, registrato tramite cateteri in atrio e in ventricolo.

Figura 1 Tachicardia ventricolare con dissociazione A-V. Le onde P sinusali indipendenti dai complessi QRS

sono molto evidenti in II derivazione (frecce).

CENNI DI TERAPIA

Bisogna innanzitutto differenziare la terapia da effettuare in acuto rispetto a quella volta a prevenire le recidive.

Nei casi di TV con compromissione emodinamica trovano spazio innanzitutto presidi elettrici quali il DC Shock

sincronizzato (scariche di defibrillatore a 200-250 joules) o il pacing ventricolare (stimolazione a frequenze

superiori a quelle dell’aritmia nel tentativo di interromperla). Per quanto riguarda l’approccio farmacologico, il

farmaco più comunemente usato in acuto è la Lidocaina. In alternativa, è possibile usare l’Amiodarone, la

Mexiletina o il Propafenone a seconda dell’eziologia della TV e dalla cardiopatia di base del paziente.

Per la prevenzione delle recidive va innanzitutto chiarita l’eziologia della TV (strutturale o idiopatica) e va fatta

un’attenta valutazione del paziente, comprendente un Holter (ECG dinamico delle 24 ore) e, se necessarie,

indagini invasive (studio elettrofisiologico, coronarografia). La profilassi delle recidive verrà condotta

esclusivamente con terapia farmacologia (amiodarone, mexiletina, ß-bloccanti) nei pazienti a minor rischio,

mentre i farmaci verranno affiancati da supporti elettrici (defibrillatore impiantabile) nei pazienti con rischio più

elevato di recidive, soprattutto in quelli con grave disfunzione ventricolare.

Capitolo 41. Bradicardie, Francesco Arrigo, Giuseppe Andò

DEFINIZIONE

Ogni ritmo cardiaco diverso dalla fisiologica cadenza degli impulsi regolata del NSA, con frequenza e conduzione

normali, si definisce aritmia. Secondo la nomenclatura oggi condivisa, le alterazioni del ritmo che si manifestano

con riduzione della frequenza cardiaca vengono definite bradicardie. Nel capitolo delle bradicardie sono tuttavia

incluse alcune manifestazioni aritmiche che non si accompagnano necessariamente a riduzione della FC, come

l’aritmia sinusale, il segnapassi migrante, il blocco A-V (BAV) di I grado (Tabella I).

Le aritmie con riduzione della frequenza cardiaca sono causate da deficit dell’automatismo o da compromissione

della conduzione e sono riconducibili a due grandi gruppi, le disfunzioni sinusali e i BAV.

Legenda degli acronimi impiegati nel testo

AV - atrio-ventricolare

BAV - blocco atrio-ventricolare

BSA - blocco seno-atriale

bpm - battiti per minuto

ECG - elettrocardiogramma

FC - frequenza cardiaca

MAS - Sindrome di Morgagni-Adams-Stokes

NAV - nodo atrio-ventricolare (nodo di Tawara)

NSA - nodo seno-atriale (nodo di Keith e Flack).

SSS - sick sinus syndrome, sindrome del seno malato.

MECCANISMI ELETTROFISIOLOGICI

I meccanismi che possono indurre bradicardia sono fondamentalmente la depressione dell’automatismo e le

alterazioni della conduzione seno-atriale ed atrio-ventricolare (AV).

La stimolazione regolare e continua del cuore è assicurata da fibrocellule specializzate, poste principalmente nel

NSA, ma anche - in misura sempre minore - nel tessuto di conduzione e nel miocardio di lavoro. Queste cellule

sono dotate di automatismo, cioè della proprietà di depolarizzarsi spontaneamente a riposo (depolarizzazione in

fase 4): il potenziale di riposo decresce gradualmente fino a raggiungere il potenziale soglia che innesca il

potenziale d’azione (vedi Capitolo 40). Le fibrocellule specializzate poste nel NSA (cellule P) sono immerse in

una matrice fibrosa e circondate da un alone di cellule di transizione (cellule T o tessuto perinodale) nelle quali

la trasmissione dell’impulso è rallentata. La depolarizzazione cardiaca, iniziata dalle cellule del NSA, si estende

poi attraverso vie di conduzione specifiche prima al miocardio atriale e, attraverso il NAV, al sistema di

conduzione intraventricolare (fascio di His e branche) ed al miocardio di lavoro (Figura 1).

La frequenza di depolarizzazione del NSA è posta sotto il controllo dell’equilibrio autonomico tra il sistema

nervoso simpatico ed il parasimpatico e presenta nelle diverse specie animali una grossolana correlazione

inversa con le dimensioni corporee. Nell’uomo adulto, la FC viene convenzionalmente definita normale quando è

compresa tra 60 e 100 bpm; pertanto una FC inferiore a 60 bpm è definita bradicardia, una FC superiore a 100

bpm è definita tachicardia.

Una FC inferiore a 60 bpm è un reperto comune nella pratica clinica e, pur essendo spesso un riscontro

occasionale e del tutto benigno, può talora determinare una sensibile riduzione della portata cardiaca con

conseguenze cliniche di rilievo. Occorre tenere ben presente che la FC varia fisiologicamente da individuo a

individuo in base all’età, al grado di allenamento fisico ed al momento dell’osservazione. Ad esempio, negli

atleti allenati è facile osservare una FC a riposo inferiore a 40 bpm, senza che ciò abbia un significato

patologico. Anche durante il sonno, specie durante la fase REM, una FC inferiore a 40 bpm è del tutto normale.

Un importante aspetto per la valutazione di una FC bassa è la risposta cronotropa allo sforzo fisico, ovvero la

capacità del cuore di aumentare la frequenza in base al grado di esercizio. Una risposta cronotropa inadeguata

(incompetenza cronotropa), insieme all’incapacità di raggiungere la FC massima teorica prevista per l’età del

soggetto al picco dello sforzo (definita in bpm dalla formula 220 - età in anni) suggeriscono fortemente

l’esistenza di un’alterata funzione sinusale che richiede attenzione clinica.

In conclusione, anche se scolasticamente è definita come una FC inferiore a 60 bpm, la bradicardia può essere

meglio caratterizzata come una frequenza inappropriatamente bassa in relazione all’età, al livello di attività

fisica ed al grado di allenamento. Pertanto, la bradicardia deve essere oggetto di ulteriori approfondimenti

diagnostici o di una terapia specifica solo quando è associata a sintomi acuti o cronici di bassa portata cardiaca,

a riposo o durante esercizio fisico.

Le fasi necessarie per la definizione della natura fisiologica o “patologica” della bradicardia e per una corretta

gestione clinica del paziente bradicardico sono dunque:

• la comprensione del meccanismo fisiopatologico (alterazione della formazione e/o della conduzione dello

stimolo) responsabile della bassa o inappropriata frequenza cardiaca;

• l’identificazione delle cause, reversibili o irreversibili, della bradicardia;

• la valutazione del rischio di potenziali conseguenze infauste come la sincope, l’insufficienza cardiaca, le

tachicardie , i fenomeni trombo-embolici e la morte improvvisa per asistolia prolungata;

• la scelta di una terapia individualizzata.

ASPETTI CLINICI

Le bradicardie possono essere congenite o acquisite. Le disfunzioni sinusali congenite sono estremamente rare,

mentre il BAV congenito è spesso associato ad altre cardiopatie. Fra le forme acquisite, le più frequenti sono

quelle legate a fenomeni degenerativi senili ed alla cardiopatia ischemica. Altre cause frequenti sono le

cardiomiopatie infiltrative, come la sarcoidosi, l’amiloidosi e l’emocromatosi. Più rari sono oggi i BAV dovuti a

malattia reumatica. Particolare attenzione va posta alle forme iatrogene causate sia da farmaci che deprimono

la conduzione, in particolare i glucosidi della digitale, sia dalle procedure interventistiche cardiache che possono

provocare lesioni del sistema di conduzione.

La presenza di manifestazioni cliniche dipende dal grado e dalla rapidità di riduzione della portata cardiaca.

Finché l’aumento compensatorio della gittata sistolica controbilancia la diminuzione della frequenza, anche i

pazienti con bradicardia spiccata possono rimanere asintomatici e la loro bradicardia essere scoperta

occasionalmente. All’altro estremo dello spettro clinico, il paziente può presentarsi con un’ampia varietà di segni

e sintomi. Le bradicardie sono associate a due quadri fisiopatologici principali, la sindrome da ipoperfusione

cerebrale e la sindrome da bassa portata.

Tra questi la sincope (vedi Capitolo 42), cioè la perdita di coscienza che segue un arresto cardiaco prolungato, è

il più drammatico. Brevi periodi di arresto della durata di pochi secondi possono, infatti, passare inosservati, ma

se l'arresto cardiaco si prolunga, per 5-6 secondi in posizione eretta e per 8-10 secondi in posizione supina, in

assenza di un ritmo di scappamento che possa mantenere l'attività cardiaca, si verifica l’improvvisa perdita

della coscienza con caduta a terra per mancanza del tono posturale. Fortunatamente, nella maggior parte dei

casi, quando si verifica un arresto per disfunzione sinusale o per mancata conduzione dell'impulso dagli atri ai

ventricoli, centri automatici inferiori si depolarizzano spontaneamente e danno luogo a ritmi di scappamento

che mantengono un'attività cardiaca emodinamicamente sufficiente anche se a bassa frequenza. Pertanto la

condizione essenziale perché si verifichi un arresto cardiaco sintomatico in corso di bradicardia è la mancata

attivazione di un centro ectopico vicariante.

Gli episodi sincopali maggiori dovuti a bradicardie parossistiche sono stati definiti come Sindrome di Morgagni-

Adams-Stokes (MAS), dal nome degli autori che per primi hanno descritto questo quadro: perdita improvvisa

della coscienza, con caduta ed eventuali fasi convulsive con scosse tonico-cloniche, non preceduta da alcun

sintomo ed indipendente dalla posizione o da altre situazioni note per indurre sincope. Si ha anche la perdita del

controllo degli sfinteri e compaiono cianosi, gasping respiratorio e morte, in caso di prolungamento della

asistolia.

Altre volte, i sintomi della bradicardia possono essere non specifici ed avere un andamento cronico: le vertigini

transitorie, lo stato confusionale, la sensazione di “testa vuota” sono fenomeni che riflettono uno stato di

ipoperfusione cerebrale relativa dovuta alla ridotta portata cardiaca; gli episodi di facile stancabilità e la

debolezza muscolare con intolleranza all’esercizio fisico sono espressione del mancato o insufficiente aumento

dell’apporto ematico ai muscoli scheletrici.

La bradicardia può inoltre essere percepita soggettivamente sotto forma di palpitazioni, particolarmente se

intervengono battiti prematuri, a causa della maggiore gittata sistolica del battito che segue quello prematuro e

del più energico itto della punta. Chiare manifestazioni di insufficienza cardiaca, a riposo o durante sforzo,

possono anch’esse essere determinate da bradicardia spiccata, specialmente nei pazienti con ridotta funzione

ventricolare sinistra.

LA DISFUNZIONE SINUSALE

Eziologia

La degenerazione fibrosa è considerata la più comune se non l’unica causa di disfunzione del NSA. Infatti, le

modificazioni strutturali si associano alla progressiva riduzione della frequenza intrinseca di scarica del NSA che

si verifica con l’invecchiamento. La malattia coronarica è molto frequente nei pazienti con disfunzione sinusale e

l’ischemia della regione del NSA probabilmente contribuisce alla genesi delle bradiaritmie (ed anche delle

tachicardie nella sindrome bradicardia-tachicardia).

Aspetti diagnostici

bradicardia sinusale. E’ definita dalla presenza di depolarizzazioni sinusali ad una frequenza inferiore a 60

bpm.

La bradicardia sinusale è un reperto fisiologico negli atleti allenati, che spesso hanno una frequenza a riposo da

svegli tra 40 e 50 bpm e possono avere una frequenza durante il sonno anche di 30 battiti al minuto; l’elevato

tono vagale di questi soggetti può determinare anche pause sinusali o fasi di BAV di II grado tipo Wenckebach

che producono pause asistoliche finanche di 3 secondi. In altri casi va posta molta cura nell’escludere cause

farmacologiche attraverso un’accurata anamnesi.

aritmia sinusale. In presenza di ritmo sinusale, gli intervalli P-P sono relativamente costanti, con variazioni da

un intervallo dell'altro che non eccedono 0,16 secondi . Quando la differenza tra il ciclo più lungo e quello più

corto è superiore a 0,16 secondi si parla di aritmia sinusale. Generalmente le onde P sono normali per asse e

morfologia e l'intervallo PR resta costante, nonostante l’irregolarità dei cicli.

La forma più frequente di aritmia sinusale è correlata all'attività respiratoria, con un accorciamento

dell’intervallo P-P durante l'ispirazione per inibizione del tono vagale (aritmia sinusale respiratoria). Si tratta

di una variante di normalità tipica dei giovani, senza alcun significato patologico. L’aritmia sinusale non

respiratoria (Figura 2A) è invece caratterizzata da variazioni irregolari dell'intervallo P-P non correlate

all'attività respiratoria e può essere espressione di una disfunzione sinusale.

Arresto sinusale, blocco seno-atriale e sindrome bradicardia-tachicardia. La pausa sinusale (definita

come un’assenza di attività elettrica più lunga del 150% di un ciclo cardiaco sinusale basale) può essere dovuta

alla mancata formazione dell’impulso nel NSA (arresto sinusale) o ad un difetto nella conduzione dell’impulso

dal NSA al tessuto atriale circostante (BSA).

La manifestazione elettrocardiografica è in entrambi i casi l’assenza di un’onda P sinusale; nel BSA l’intervallo P-

P durante la pausa è generalmente, ma non sempre, un multiplo dell’intervallo P-P normale (Figura 2C),

mentre nell’arresto sinusale (Figura 2B) non è possibile dimostrare alcun rapporto numerico tra la durata del

ciclo P-P basale e la durata della pausa.

Le pause sinusali di durata inferiore a 3 secondi non hanno un significato clinico, ma l’emergenza di un ritmo di

scappamento da un segnapassi atriale o giunzionale può favorire l’insorgenza di tachiaritmie atriali, come la

fibrillazione atriale o il flutter atriale. Pause più lunghe possono invece causare episodi sincopali.

La sindrome bradicardia-tachicardia è una manifestazione della disfunzione sinusale che determina sintomi

importanti ed è caratterizzata dalla coesistenza di fasi di bradicardia o asistolia e di tachiaritmie atriali. La

coesistenza dei due tipi di aritmia non è casuale, in quanto da un lato la spiccata bradicardia o le pause

prolungate dovute ad arresto sinusale o a BSA possono facilitare l'innesco di una tachiaritmia atriale; dall’altro

un’aritmia rapida atriale deprime l'automatismo del NSA di modo che alla sua cessazione la ripresa dell'attività

spontanea sinusale è lenta e possono manifestarsi bradicardia molto spiccata o pause prolungate, dette pause

pre-automatiche (Figura 2D).

Figura 2 Manifestazioni ECG della disfunzione sinusale.

A) Aritmia sinusale. Si osserva la continua variabilità degli intervalli R-R, espressa in secondi, dovuta alla

continua variabilità degli intervalli tra le onde P, che a loro volta vengono normalmente condotte ai ventricoli.

B) Arresto sinusale. Questo ECG mostra un ritmo sinusale alla frequenza di 62 bpm. Si osserva l’improvvisa

mancanza di un’onda P che determina una pausa di circa 2,9 secondi.

C) Blocco seno-atriale. In questo caso si osserva una pausa la cui durata è circa il doppio di un ciclo P-P,

ovvero di un ciclo R-R, in quanto la conduzione AV è normale. Pertanto è possibile interpretare il fenomeno

come un blocco seno-atriale tipo Mobitz.

D) Pausa pre-automatica. Questo ECG mostra l’interruzione di una tachicardia parossistica a QRS larghi e

frequenza di circa 220 bpm. Si osserva una lunga pausa (pausa pre-automatica) che precede l’emergenza della

prima onda P sinusale. Le pause pre-automatiche possono rappresentare una delle manifestazioni della

disfunzione sinusale.

Aspetti fisiopatologici e clinici

Le manifestazioni cliniche delle disfunzioni sinusali risultano spesso dalla combinazione di più tipi di aritmia e

sono riportabili a due quadri specifici, la sindrome del seno malato e la sindrome del seno carotideo. La

bradicardia sinusale isolata è un reperto generalmente benigno, di osservazione clinica frequente, e solo in casi

selezionati necessita di trattamento.

La sindrome del seno malato (sick sinus syndrome, SSS, o malattia aritmica atriale) è una delle cause più

frequenti di bradicardia nel soggetto anziano e comprende non solo una depressione dell’automatismo del NSA,

ma anche un’alterazione della conduzione seno-atriale ed intra-atriale ed aritmie atriali rapide tra cui

soprattutto la fibrillazione atriale. La SSS si esprime clinicamente con vari gradi di gravità che vanno dalle

forme più semplici di bradicardia sinusale o di FC inappropriata, generalmente benigna ed asintomatica (1°

stadio), alle forme persistenti con bradicardia spiccata, arresto sinusale o BSA e sintomi di bassa portata o di

ipoperfusione cerebrale e sincope (2° stadio), alle forme con alternanza di bradicardia e tachicardia (sindrome

bradicardia-tachicardia o bradi-tachi) per lo più fortemente sintomatiche, anche con episodi sincopali maggiori.

Per il corretto inquadramento diagnostico e per operare scelte terapeutiche mirate è di fondamentale

importanza mettere in relazione eventuali sintomi con le suddette aritmie, finalità per la quale spesso l’ECG

convenzionale non è sufficiente, poiché gli episodi aritmici sono intermittenti: nello stesso paziente ed in diversi

momenti di osservazione possono essere presenti manifestazioni aritmiche differenti. In questi casi, la

diagnostica strumentale deve essere integrata con l’ECG dinamico (Holter), i sistemi di registrazione

elettrocardiografica impiantabili e lo studio elettrofisiologico. In particolare, per rivelare la presenza di una

depressione dell'automatismo sinusale si ricorre alla stimolazione atriale rapida, mediante la quale viene

calcolato il cosiddetto tempo di recupero del NSA; con la stessa metodica può esser misurato il tempo di

conduzione seno-atriale.

Poiché la disfunzione sinusale può essere espressa da un’incompetenza cronotropa, l’esercizio fisico o uno

stress farmacologico possono rivelare l’incapacità del NSA di incrementare la frequenza; un incremento della FC

inferiore al 50% in risposta all'esercizio fisico ed inferiore al 30% dopo somministrazione di atropina sono indici

di disfunzione sinusale.

La sindrome del seno carotideo, nella sua variante cardio-inibitoria, consiste nella comparsa di episodi di

asistolia per arresto sinusale o BSA. Meno frequentemente il fenomeno è causato da un BAV parossistico. La

sindrome viene innescata dalla stimolazione del seno carotideo, anche meccanica, che induce una marcata

risposta vagale. Nella variante vaso-depressiva si osserva una diminuzione della pressione sistolica uguale o

superiore a 50 mmHg. I pazienti con sindrome del seno carotideo (vedi Capitolo 42) sono sintomatici per

sincopi o lipotimia, ma non sempre l'evento clinico è riferibile all'aritmia. Occorre anche in questo caso

dimostrare la coincidenza tra l’alterazione elettrocardiografica ed il fenomeno clinico, dimostrazione che può

essere ottenuta con relativa semplicità mediante l’esecuzione di un massaggio del seno carotideo o durante il

tilt test che si esegue per lo studio della sincope vaso-vagale. Nella forma puramente cardio-inibitoria la

stimolazione cardiaca permanente può risolvere i sintomi.

IL BLOCCO ATRIO-VENTRICOLARE

Lo stimolo generato dal NSA si diffonde agli atri, attraversa il nodo AV e viene condotto ai ventricoli per mezzo

del fascio di His e del sistema di conduzione intraventricolare. Tutto ciò avviene fisiologicamente in un tempo

compreso tra 0,12 e 0,20 secondi. Alterazioni organiche o funzionali del sistema di conduzione possono

determinare un rallentamento della conduzione dell’impulso atriale, con prolungamento dell’intervallo PR oltre

0,20 secondi (BAV di I grado), o un blocco parziale della conduzione, con la conseguenza che alcune onde P non

sono seguite da complessi QRS (BAV di II grado), o una completa interruzione della conduzione, per cui nessun

impulso sinusale viene condotto ai ventricoli (BAV di III grado o completo).

Il rallentamento o il blocco della conduzione possono verificarsi, in maniera transitoria o stabile, a livello di tutte

le componenti del sistema di conduzione, ovvero a livello del NAV (blocco intra-nodale o sopra-hisiano), a livello

del fascio di His (blocco intra-hisiano), o nelle branche (blocco sotto-hisiano). Di norma, i blocchi sotto-hisiani si

associano a complessi QRS larghi (superiori a 0,12 secondi), particolarmente se il ritmo di scappamento è

ventricolare. La distorsione della depolarizzazione ventricolare, espressa all’ECG dal QRS largo, determina

un’alterazione del sincronismo di contrazione ventricolare la quale produce effetti emodinamici negativi

indipendenti da quelli dovuti alla bradicardia ed alla dissociazione AV ed additivi rispetto ad essi; pertanto, i

blocchi sotto-Hisiani sono emodinamicamente tollerati peggio dei blocchi più prossimali.

Aspetti diagnostici

BAV di I grado. É riconoscibile all'elettrocardiogramma per il prolungamento dell’intervallo PR al di sopra di

0,20 secondi, con onde P sempre seguite da un complesso ventricolare. Dal punto di vista elettrofisiologico la

sede del ritardo può essere a tutti i livelli del sistema di conduzione (NAV, fascio di His o branche).

BAV di II grado. Del BAV di II grado si distinguono 4 diversi tipi.

1) BAV di II grado tipo 1 (o tipo Wenckebach). Questa forma è caratterizzata dal progressivo

allungamento dell’intervallo PR, fin quando un impulso si blocca e non viene condotto ai ventricoli, cioè un’onda

P non è seguita da un QRS, per cui si verifica una pausa. Subito dopo questa, l’intervallo PR è normale o

comunque più breve di quello del ciclo precedente il blocco, mentre nei battiti successivi il PR si allunga di

nuovo in maniera progressiva fino al blocco di un altro impulso, realizzando così dei periodismi, detti di Luciani-

Wenckebach (Figura 3A). Il BAV di II grado tipo Wenckebach è in genere dovuto ad una lesione, per lo più

reversibile, in sede nodale ed è particolarmente sensibile alle influenze vegetative (tono vagale) e

farmacologiche.

2) BAV di II grado tipo 2 (o tipo Mobitz). Questa forma è caratterizzata dall’improvviso blocco della

conduzione di un impulso, con una pausa asistolica uguale al doppio di un ciclo sinusale. Gli intervalli PR sono

costanti prima e dopo il ciclo bloccato, senza allungamento dell’intervallo PR nel ciclo che precede la P bloccata;

anche nel ciclo successivo all’impulso bloccato l’intervallo PR è identico a quello del ciclo precedente (Figura

3B). Il BAV di II grado tipo Mobitz è in genere dovuto ad una lesione intra-Hisiana, o sotto-Hisiana.

3) BAV di II grado 2: 1. Il BAV 2:1 è caratterizzato dall’alternanza di un impulso condotto e di un impulso

bloccato (Figura 3C).

4) BAV di II grado avanzato. È definito dal blocco di due o più onde P consecutive (Figura 3D).

BAV di III grado. Il BAV di III grado (o BAV completo) è caratterizzato dall’assenza della conduzione degli

impulsi atriali ai ventricoli e dalla completa dissociazione dell’attività atriale, più rapida e caratterizzata dalle

onde P sinusali, da quella ventricolare, che è governata da un ritmo di scappamento la cui analisi può fornire

un’indicazione sulla sede del blocco (Figura 4). La presenza di un ritmo stabile, con frequenza tra 40 e 50 e

complessi QRS stretti, suggerisce un ritmo di scappamento giunzionale; un ritmo di scappamento a complessi

QRS larghi e a frequenza inferiore a 40, invece, suggerisce un blocco a livello più distale (blocco sotto-hisiano)

e pertanto la necessità più urgente di un intervento terapeutico di elettrostimolazione cardiaca.

Dissociazione AV. Con il termine dissociazione AV si indica la condizione in cui gli atri ed i ventricoli si attivano

indipendentemente gli uni dagli altri; un segnapassi, in genere il NSA, attiva gli atri, un altro segnapassi, posto

a livello giunzionale, fascicolare o ventricolare attiva i ventricoli. La dissociazione AV rappresenta una

conseguenza implicita del BAV completo, ma non si identifica con esso in quanto è un fenomeno

elettrofisiologico che può essere riconosciuto in diverse manifestazioni aritmiche, come ad esempio nel BAV di II

grado o nella tachicardia ventricolare.

Figura 3 Manifestazioni ECG del blocco A-V di II grado.

A) BAV di II grado tipo Wenckebach. Questo ECG mostra ritmo sinusale a frequenza 72, espresso da una

regolare sequenza di onde P con morfologia normale. Il primo intervallo PR è normale, il secondo è allungato, e

la terza onda P non viene seguita da un QRS. La conduzione dell’impulso che segue la pausa (quarta onda P) è

nuovamente normale. Si verifica poi un progressivo allungamento dell’intervallo PR dopo la quinta e la sesta

onda P, mentre la settima P è nuovamente bloccata. Le pause durano meno del doppio di un ciclo sinusale.

B) BAV di II grado tipo Mobitz. Questo ECG mostra ritmo sinusale a frequenza 60. I primi tre impulsi

sinusali sono condotti normalmente ai ventricoli con intervalli P-R costanti; i complessi QRS sono larghi e

mostrano un blocco completo di branca sinistra. La quarta onda P non è seguita da un QRS, mentre la quinta è

condotta normalmente, con un P-R identico a quello dei primi tre battiti. Questo fenomeno indica un BAV di II

grado tipo Mobitz.

C) BAV di II grado 2:1. Ritmo sinusale a frequenza 70, con l’alternanza di onde P condotte ai ventricoli e

bloccate.

D) BAV di II grado avanzato. Questo ECG mostra ritmo sinusale a frequenza 90. Le prime tre onde P

vengono regolarmente condotte ai ventricoli. La quarta onda P non viene condotta e dà origine ad una serie di

tre onde P consecutive non condotte, seguite poi da un battito di scappamento ventricolare, dopo il quale

riprende la conduzione AV 1:1. Si tratta di un BAV parossistico di II grado avanzato, poiché tre onde P

consecutive non vengono condotte ai ventricoli.

Figura 4 Manifestazioni ECG del blocco A-V di III grado.

A) BAV di III grado con ritmo di scappamento ventricolare. Questo ECG mostra ritmo sinusale normale.

Tuttavia nessuna delle onde P è condotta ai ventricoli, che sono governati da un ritmo di scappamento a

frequenza di circa 30 con complessi QRS larghi (di durata molto maggiore di 0,12 secondi). Questo fenomeno è

l’espressione di un BAV di III grado con dissociazione AV completa.

B) BAV di III grado con ritmo di scappamento fascicolare. Questo ECG mostra tachicardia sinusale a

frequenza 115. Tuttavia nessuna onda P è condotta ai ventricoli, che sono governati da un ritmo di

scappamento a frequenza 35 con complessi QRS relativamente larghi (la durata del QRS è esattamente 0,12

secondi) e morfologia tipo blocco di branca destra. Questo fenomeno è l’espressione di un BAV di III grado con

dissociazione AV completa. I complessi QRS non sono eccessivamente larghi ed hanno morfologia da blocco di

branca destra, suggerendo che il ritmo di scappamento abbia origine dalla branca sinistra.

C) BAV di 3° grado con ritmo di scappamento giunzionale. Questo ECG mostra ritmo sinusale a frequenza

di circa 100, espresso dalla regolare sequenza delle onde P. E’ presente un BAV di III grado con dissociazione

AV completa. I ventricoli sono sotto il controllo di un segnapassi sussidiario che determina un ritmo di

scappamento a QRS stretti (di durata < 0,12 secondi) a frequenza di circa 40 e con morfologia pressoché

normale. Pertanto in questo caso la sede anatomica del BAV è verosimilmente localizzata a livello del NAV

(blocco sopra-Hisiano) ed il ritmo di scappamento è di origine giunzionale.

D) BAV di 3° grado parossistico con asistolia prolungata. Questo ECG mostra tachicardia sinusale a

frequenza 115. Le prime due onde P sono condotte regolarmente ai ventricoli. Dopo la terza onda P si verifica

un BAV parossistico di 3° grado con una serie di 20 onde P bloccate. La prolungata asistolia viene interrotta da

tre battiti di scappamento a QRS largo, di origine ventricolare.

Aspetti eziologici, fisiopatologici e clinici

Il BAV di I grado è presente nel 5% circa della popolazione apparentemente sana ed è un reperto

relativamente frequente anche fra i cardiopatici, poiché i fattori capaci di alterare la conduzione A-V, soprattutto

a livello del NAV, sono numerosi. In forma isolata, è spesso un reperto elettrocardiografico occasionale, poiché

nella maggior parte dei casi non determina sintomi e non necessita quindi di approfondimenti diagnostici

specifici, se non per il riconoscimento della eziologia, potendo essere la prima manifestazione di una malattia

reumatica passata inosservata, di una malattia infiltrativa cardiaca, di una disfunzione tiroidea, ecc. (Tabella

II). Quando si può stabilire con sicurezza l'insorgenza recente del blocco, se si tratta di un paziente giovane

occorre pensare a una malattia reumatica. In pazienti anziani con anamnesi di sincope ed in assenza di farmaci

che deprimono la conduzione AV, un BAV di I grado di recente insorgenza è fortemente suggestivo di BAV

parossistico di grado avanzato e richiede l'impianto di un pacemaker.

Generalmente, il BAV di I grado non ha alcuna conseguenza emodinamica di rilievo. E’ possibile tuttavia che

intervalli PR particolarmente lunghi, superiori a 0,30 secondi, possano determinare sintomi anche in assenza di

gradi maggiori di BAV. Infatti, a causa del ritardo elevato, la sistole atriale si può verificare durante la

protodiastole del ciclo cardiaco precedente o addirittura durante la sistole precedente, producendo una

contrazione atriale contro le valvole atrio-ventricolari chiuse. In questi casi, il riempimento ventricolare viene

compromesso, si perde il sincronismo atrio-ventricolare e possono conseguirne un aumento della pressione di

incuneamento nei capillari polmonari ed una riduzione della portata cardiaca.

Il BAV di II grado tipo 1 (Wenckebach) raramente si manifesta con sincope e più di frequente è un

riscontro ECG incidentale o associato a sintomi aspecifici. Nella quasi totalità dei casi è l’espressione di un

disturbo funzionale e reversibile della conduzione a livello del NAV, spesso causato dalla somministrazione di

farmaci attivi sul NAV come la digitale, i beta-bloccanti, i calcio-antagonisti non diidropiridinici. È frequente

l’associazione con l’infarto miocardico acuto inferiore, nel quale è in genere transitorio, non modifica la prognosi

e raramente richiede una terapia specifica (corticosteroidi endovena o elettrostimolazione temporanea).

I BAV di II grado tipo 2 (Mobitz), ed avanzato sono espressione di un danno organico del sistema di

conduzione sotto-hisiano e quasi sempre progrediscono improvvisamente verso il BAV completo. Per tali motivi,

queste forme di BAV di II grado richiedono in tutti i casi l’elettrostimolazione cardiaca permanente.

Il BAV di III grado provoca in genere evidenti segni e sintomi, dovuti alla riduzione della portata cardiaca. I

sintomi possono insorgere in maniera improvvisa con una sincope, o in maniera più lenta ed insidiosa, causando

ad esempio astenia marcata o dispnea da sforzo, soprattutto se il BAV ha sede nodale ed è presente un ritmo di

scappamento giunzionale che assicuri una portata cardiaca sufficiente a non determinare una importante

riduzione della perfusione cerebrale, ma incapace di garantire un buon adattamento allo sforzo o ad altre

situazioni in cui è richiesto un aumento della portata.

Tabella 2

PRINCIPI DI TRATTAMENTO DELLE BRADICARDIE

La decisione di trattare una bradicardia è basata soprattutto sulla presenza di sintomi attribuibili direttamente

ad essa.

Il primo approccio sta nel riconoscimento delle bradicardie reversibili, spesso indotte da farmaci o legate a

situazioni identificabili e clinicamente reversibili come gli squilibri elettrolitici o l’infarto miocardico acuto,

nell’eliminazione del meccanismo fisiopatologico e nella cura della causa scatenante. Ad esempio, nella malattia

di Lyme, il BAV è reversibile, come pure in presenza di iperpotassiemia. Al contrario, nelle malattie

neuromuscolari ed in alcune patologie infiltrative del miocardio, come la sarcoidosi e l’amiloidosi, l’impianto di

un pacemaker è da raccomandare anche quando il BAV sia stato transitorio, a causa della imprevedibile

possibilità di progressione del disturbo di conduzione.

Terapia farmacologica

Un intervento terapeutico non è quasi mai necessario nei pazienti con bradicardia sinusale, aritmia sinusale,

pause sinusali o arresti sinusali inferiori a 3 secondi. Per bradicardie più rilevanti l’atropina endovenosa

rappresenta un presidio terapeutico di emergenza che può essere impiegato per accelerare la frequenza

cardiaca sinusale e migliorare la conduzione AV, quando la sede del BAV sia chiaramente a livello nodale. Per la

cura del BAV completo è stato impiegato, in condizioni di emergenza, l’isoproterenolo endovena per aumentare

la frequenza di un eventuale segnapassi di scappamento ventricolare; tale farmaco è ormai poco usato per i

rischi connessi al suo potenziale aritmogeno e per la maggiore efficacia e sicurezza della elettrostimolazione

cardiaca temporanea. Pertanto, tutti i pazienti che si presentano con sintomi legati ad una disfunzione del nodo

del seno o a disturbi della conduzione AV dovrebbero essere presi in considerazione per l’impianto di un

pacemaker cardiaco temporaneo o definitivo.

I pacemaker cardiaci

I pacemaker cardiaci sono generatori di impulsi che erogano stimoli elettrici, trasmessi attraverso uno o più

elettrocateteri a determinate zone del cuore. L’impulso elettrico erogato dal generatore si propaga a tutto il

miocardio e ne determina la depolarizzazione. L’attivazione elettrica delle camere cardiache indotta dal

pacemaker non si propaga attraverso le normali vie di conduzione ma è trasmessa attraverso il miocardio di

lavoro, il che può avere delle importanti conseguenze elettriche e meccaniche, provocando dissincronia inter- ed

intra-ventricolare, e dissociazione AV in caso di sola stimolazione ventricolare.

La necessita di ottenere una stimolazione cardiaca “fisiologica” ha portato allo sviluppo di pacemaker che

mirano a preservare e/o ripristinare il normale sincronismo AV o interventricolare stimolando sequenzialmente

prima l’atrio destro e poi l’apice del ventricolo destro (pacemaker bicamerali) ed eventualmente anche la parete

laterale del ventricolo sinistro (pacemaker tricamerali). Inoltre sono stati messi a punto sensori che modulano

la frequenza di stimolazione cardiaca (pacemaker rate-responsive) in base all’attività del paziente in maniera da

simulare le variazioni fisiologiche del cronotropismo.

Date le ampie possibilità di scelta, la terapia di elettrostimolazione definitiva con pacemaker deve essere

adattata individualmente ad ogni singolo paziente tenendo conto del tipo di difetto di conduzione, della

condizione emodinamica del paziente e del suo livello di attività.

Principi di terapia della disfunzione sinusale

La disfunzione sinusale è una delle cause più frequenti di indicazione all’impianto di un pacemaker cardiaco;

tuttavia, pur permettendo un evidente miglioramento o la scomparsa dei sintomi dovuti alla bradicardia,

l’elettrostimolazione cardiaca permanente non è chiaramente associata ad un aumento della sopravvivenza.

Tutte le forme di disfunzione sinusale, inclusa la sindrome bradi-tachi, quando determinano sintomi

rappresentano un’indicazione assoluta alla elettrostimolazione cardiaca. Anche la bradicardia iatrogena che

consegue a trattamenti farmacologici a lungo termine, per i quali non esistano alternative (per esempio i beta-

bloccanti), rappresenta un’indicazione all’impianto di un pacemaker.

L’indicazione all’impianto è meno perentoria, ma tendenzialmente accettata, in pazienti sintomatici quando non

vi sia stata una chiara dimostrazione che i sintomi siano effettivamente dovuti alla bradicardia, ma la

disfunzione sinusale, spontanea o iatrogena, determina una FC inferiore a 40 bpm. Lo stesso criterio si applica

quando, a seguito di una sincope da causa inspiegata, venga dimostrata allo studio elettrofisiologico una

marcata anomalia della funzione sinusale, pur senza la coincidenza documentata con eventi clinici.

Principi di terapia del BAV

L’elettrostimolazione cardiaca permanente migliora non solo la qualità di vita dei pazienti con BAV ma

soprattutto la prognosi a lungo termine; le indicazioni all’impianto di un pacemaker in presenza di un BAV

dipendono dai sintomi e da semplici indicatori quali in primo luogo la durata del QRS e la durata delle pause.

Il BAV di III grado e il BAV di II grado avanzato hanno una indicazione assoluta all’impianto di pacemaker,

indipendentemente dalla sede elettrofisiologica del blocco, quando sono presenti sintomi dovuti alla bradicardia

oppure, in pazienti svegli ed asintomatici, pause superiori a 3 secondi o un ritmo di scappamento a frequenza

inferiore a 40 bpm.

Anche nei pazienti con BAV di II grado tipo Mobitz sintomatici l’indicazione all’impianto di pacemaker è

assoluta. L’indicazione è meno perentoria ma tendenzialmente accettata nei pazienti con BAV di II grado tipo

Mobitz asintomatici, specialmente se con QRS largo, per l’elevata probabilità di progressione verso gradi più

avanzati di blocco. In questi casi, l’indicazione alla cardiostimolazione potrebbe essere posta in dubbio solo se il

BAV fosse asintomatico e associato a QRS stretti, ma la sussistenza di entrambe le condizioni è di rarissima

osservazione clinica.

Il BAV 2: 1 può avere, come detto, una localizzazione sopra-Hisiana (nodale), intra-Hisiana o sotto-Hisiana, ma

in genere determina sintomi a causa dell’importante riduzione della frequenza cardiaca; pertanto richiede quasi

sempre l’impianto di pacemaker.

Il BAV di I grado isolato ed il BAV di II grado tipo Wenckebach con complessi QRS stretti sono in genere

manifestazione di una lieve alterazione della conduzione nodale e non hanno alcun significato prognostico

negativo. Inoltre queste forme di BAV, quando insorte in seguito ad infarto miocardico inferiore, ad interventi

cardiochirurgici o come effetto di farmaci, sono quasi sempre reversibili. Tuttavia, nei pazienti con BAV di II

grado tipo Wenckebach non dovuto a cause reversibili e sintomatici, l’indicazione all’impianto di pacemaker è

assoluta.

Sezione XI. Sincope e Arresto Cardiocircolatorio

Capitolo 42. Sincope, Luigi Padeletti, Alfonso Lagi

DEFINIZIONE

La sincope è una perdita improvvisa della coscienza e del tono muscolare, di breve durata e a risoluzione

spontanea. E’ la conseguenza dell’ischemia generalizzata di entrambi gli emisferi cerebrali e/o del tronco. La

sincope è un sintomo comune a molte malattie, al pari della febbre o dell’anemia. La sua importanza deriva da

due considerazioni: la prima, esclusivamente medica, che la sincope può essere anticipatrice di una morte

improvvisa nel futuro prossimo; la seconda, riguardante il grande impatto emotivo sull’individuo che ne soffre e

sulla famiglia, che la sincope rappresenta una vera interruzione della vita, anche se breve ed a risoluzione

spontanea, così da far pensare che l’esperienza si possa ripetere con risultati non altrettanto favorevoli. Se

l’etimologia della parola significa “interrompere” (dal greco) bisogna ben considerare che “the only difference

between syncope and sudden death is that in one you wake up”.

Il momento fisiopatologico determinate della sincope è la ipoperfusione dell’encefalo, ma ciò non significa che il

fenomeno dipenda necessariamente da una ipotensione acuta e transitoria. I fattori determinanti la pressione

arteriosa sono il volume circolante nel distretto arterioso, la gittata cardiaca, e le resistenze periferiche. Le

alterazioni di uno o più di questi parametri possono portare alla sincope.

La riduzione della gittata cardiaca può conseguire a diminuzione della gittata sistolica, a critiche variazioni della

frequenza cardiaca (tachicardie o bradicardie estreme ) o a diminuzione del volume circolante; la riduzione delle

resistenze periferiche è l’effetto di mediatori fisiologici o patologici (farmaci con azione simpaticolitica, eventi

riflessi, malattie neurologiche).

E’ fondamentale tener presente che varie malattie possono mimare la sincope, soprattutto le epilessie

generalizzate non convulsive (crisi di piccolo male), i disturbi del sonno e le forme psicogene (crisi di ansia

generalizzata).

EPIDEMIOLOGIA

La sincope è molto frequente. Si calcola che nel nostro paese vi siano oltre 100.000 casi/anno. Il 75% della

popolazione sana va incontro ad almeno un episodio sincopale in un arco di tempo di 26 anni; nei nostri

Ospedali la sincope rappresenta il 3% delle presentazioni, e nel 25 % dei casi si manifesta una recidiva.

La sincope colpisce tutte le età, con un’incidenza progressivamente crescente con il passare del tempo. La

ricorrenza della sincope è molto frequente, stimata al 30% della popolazione che già ne ha sofferto.

CLASSIFICAZIONE

La sincope è una fra le transitorie perdite di coscienza. Una adeguata classificazione deve prendere in

considerazione anche quelle affezioni che possono mimare la sincope, per poter avviare una adeguata diagnosi

differenziale. Queste situazioni vengono spesso indicate come “syncope like” La sincope può essere classificata

come segue.

• Neuromediata: vasovagale, situazionale, sindrome da ipersensibilità del seno carotideo, nevralgia

glossofaringea e trigeminale

• Ipotensione ortostatica: disautonomia, farmaci, deplezione di volume

• Aritmica

• Cardiopatia strutturale: cardiopatia ischemica, cardiomiopatie , cardiopatie con ostruzione all’efflusso

• Cerebrovascolare: furto della succlavia

Syncope like

• Epilessia generalizzata

• Sincope psicogena: attacchi di panico, ansia generalizzata

• Ipossiemia acuta transitoria: intossicazione da CO, esposizione a base concentrazioni di ossigeno

La sincope neuromediata è la forma più comune, e consegue ad un riflesso che può essere scatenato da

molteplici fattori (odori, dolore, emozioni, vista di episodi sgradevoli, prolungata stazione eretta). In genere si

accompagna ad un insieme di sintomi (nausea e/o vomito, pallore, sudorazione) la cui presenza permette un

alto grado di sospetto.

La sincope da ipersensibilità del seno carotideo (SSC), frequente nella popolazione anziana, è caratterizzata dal

fatto che uno stimolo anche lieve, portato nella zona del seno carotideo (massaggio del seno carotideo – MSC)

diventa efficiente nel provocare la sintomatologia. Questo ha un’evidente corrispondenza in clinica nella

comparsa degli episodi spontanei.

La sincope situazionale, più frequente nel giovane, permette una diagnosi di certezza solo su base anamnestica

(minzione, defecazione, deglutizione).

Marker diagnostico di tutte le forme neuromediate, quando esse sono colte dall’osservatore o provocate in

laboratorio durante il tilt test o il MSC, è la presenza di bradicardia e/o ipotensione da vasodilatazione, con

differente prevalenza dei due aspetti patogenetici

La sincope ortostatica è comune, e si manifesta a seguito dell’assunzione della posizione eretta. Può essere

accompagnata da sintomi che esprimono la riduzione più o meno rapida della pressione arteriosa in

ortostatismo (sensazione di testa vuota, vertigine, astenia) con recupero della sensazione di benessere alla

riassunzione della posizione seduta o distesa. Una disfunzione autonomica deve essere sospettata nell’anziano,

associata o meno a sintomi di malattie sistemiche (amiloidosi e diabete) o neurologiche degenerative (Morbo di

Parkinson). Altre cause sono l’uso di farmaci ipotensivi o di diuretici e alcune malattie endocrine

(Ipocorticosurrenalismo primitivo o secondario).

Le aritmie cardiache sono causa di sincope quando inducono un’eccessiva bradicardia o tachicardia. Entrambi i

fenomeni provocano la caduta della gittata cardiaca e quindi della perfusione cerebrale. Le bradicardie

secondarie a disfunzione del nodo del seno (sick sinus sindrome) e quelle legate a disturbi della conduzione

atrio-ventricolare (vedi Capitolo 40), sono le più frequenti, seguite dalle tachicardie ventricolari (vedi Capitolo

39). La perdita di coscienza si può verificare all’inizio dell’aritmia o alla fine, quando interrompendosi

improvvisamente il ritmo anomalo, si registra una pausa prolungata che precede il recupero del ritmo normale.

La sick sinus syndrome (SSS) esprime una combinazione di bradicardia (sinusale, pause sinusali, blocchi

senoatriali ) e di tachicardia, in genere flutter o fibrillazione atriale. I periodi di bradiaritmia sono considerati più

frequentemente in causa nella patogenesi della sincope. I disturbi della conduzione AV possono esser causa di

sincope. Si deve dare poca importanza al blocco AV di I grado e a quello di II grado tipo Mobitz I

(Wenckebach), mentre più frequente è la sincope in corso di blocco AV di II grado tipo Mobitz II o di blocco AV

di III grado.

La tachicardia ventricolare (vedi Capitolo 39) è una frequente causa di sincope. La sindrome del QT lungo

congenita o acquisita (vedi Capitolo 42) favorisce la comparsa di una tachicardia ventricolare a torsione di

punta, specialmente in associazione a periodi di bradicardia o in concomitanza di ipokaliemia. La tachicardie

sopraventricolari sono di rado causa di sincope, solo quando si associano a bassa gittata; in genere i soggetti

anziani sono quelli che presentano più frequentemente la sincope in corso di tachicardia sopraventricolare .

La malattie cerebrovascolari sono cause rare di sincope. In particolare il furto della succlavia (vedi Capitolo 53)

provoca, in condizione critiche, una ipoperfusione a livello del circolo cerebrale posteriore che rientra fra gli

attacchi ischemici transitori.

Le situazioni raggruppate sotto la dizione “syncope like” comprendono un’ampia varietà di condizioni morbose,

che vanno da crisi epilettiche generalizzate non convulsive associate a ipotonia muscolare (attacchi di piccolo

male), a episodi critici in corso di ansia generalizzata (crisi di panico), a disturbi del sonno, a episodi di amnesia

globale transitoria. Alcune di queste evenienze sono di facile diagnosi, se accadono in presenza di testimoni che

possono descrivere il comportamento dei paziente, ma sono di difficile inquadramento quando il paziente ne

soffre senza che alcuno sia presente all’episodio critico.

DIAGNOSI

L’obiettivo primario della strategia diagnostica è definire il profilo di rischio del paziente: l’obiettivo

fondamentale a cui devono mirare le indagini è l’esclusione di una patologia cardiaca. Quando questa possa

essere esclusa, l’identificazione della causa della sincope permetterà di mettere in atto una serie di

provvedimenti che migliorino la qualità di vita e riducano la morbilità associata. Una volta esclusa la patologia

aritmica (bradicardie o tachicardie critiche), il medico ha a che fare con una sincope anamnestica. E’ quindi

necessario un algoritmo diagnostico che miri alla individuazione delle cause cardiogene e, una volta escluse

queste, alla ricerca di altre malattie.

L’anamnesi è il momento diagnostico più importante poiché permette la diagnosi in oltre il 70% dei casi,

specialmente quando essa può essere confermata da un testimone. Nella pratica clinica, occorre richiedere al

paziente di concentrarsi e descrivere l’ultimo evento critico, poiché si presuppone che esso sia più facilmente

riferibile, e successivamente valutare e confrontare con l’ultimo gli episodi precedenti. Alcuni elementi sono

fortemente indicativi per la diagnosi: si devono valorizzare precedenti patologici quali la presenza di cardiopatia,

di malattie del sistema nervoso centrale, (per esempio, malattia di Parkinson, epilessia), di morte improvvisa

nella famiglia, della recente assunzione di farmaci, di malattie psichiatriche. Successivamente si deve ricercare

la presenza dei sintomi e segni elencati nella Tabella I come post critici, critici e pre critici in relazione al

periodo di comparsa.

Nel dare un peso ai sintomi e ai segni rilevabili durante la raccolta dell’anamnesi si deve ricordare che nelle

forme ospedalizzate la sincope neuromediata giustifica il 66% delle osservazioni, la forma cardiogena ne

comprende l’11% e le forme sincope-like rappresentano il 6% della casistica. La perdita di coscienza in soggetto

con età superiore a 54 anni, con meno di due episodi, in associazione a palpitazioni orienta per una forma

cardiogena, mentre l’associazione di nausea, sudorazione, visione confusa o sensazione di testa vuota che

precedono o seguono la sincope è indicativo di una forma neuromediata. La sincope cardiogena appare molto

probabile quando vi è rilievo anamnestico di cardiopatia, mentre l’assenza di cardiopatia anamnestica esclude la

sincope cardiogena nel 97% dei pazienti

STRATIFICAZIONE DEL RISCHIO

La sincope cardiogena è la prima diagnosi da confermare o escludere poiché può essere annunciatrice di morte

o di gravi complicanze. E’ quindi necessario per ogni paziente definire il profilo di rischio, cioè la probabilità di

essere affetto da una malattia potenzialmente letale.

I due più forti indicatori di sincope cardiogena sono l’anamnesi di cardiopatia strutturale e l’ECG

patologico. La registrazione dell’elettrocardiogramma tradizionale a 12 derivazioni è troppo breve per potere

cogliere aritmie significative, ma fornisce informazioni sul ritmo e sulla conduzione AV. La bradicardia sinusale,

l’intervallo PR prolungato (blocco A-V di I grado) o la presenza di un blocco di branca aumentano la possibilità

di una disfunzione sinusale o di un blocco atrio-ventricolare intermittente (vedi Capitolo 40) da cui la sincope

può dipendere. L’esame del complesso QRS può permettere di identificare un’onda delta, indice di una via

accessoria (vedi Capitoli 3 e 38) e di una sindrome di Wolff-Parkinson-White, potenzialmente responsabile della

sincope. Le malattie genetiche classificate oggi come canalopatie o malattie dei canali ionici (Sindrome del QT

lungo e Sindrome di Brugada, vedi Capitolo 42), possono essere identificate con l’ECG, come anche, in alcuni

casi, la cardiomiopatia/displasia aritmogena del ventricolo destro o altre cardiomiopatie; anche i segni di necrosi

miocardica, indicativi di un pregresso infarto, vengono rivelati dall’ECG. In tutte queste condizioni, la sincope

può essere provocata da una tachicardia ventricolare.

ITER DIAGNOSTICO SUCCESSIVO ALLA SINCOPE

In assenza di cardiopatia strutturale e di pregresse aritmie si deve considerare fortemente sospetta la forma

neuromediata (nei giovani) o da ipotensione ortostatica (negli anziani). In questi casi l’indagine diagnostica di

scelta è il tilt test (test all’ortostatismo passivo), eseguito ponendo il soggetto su un letto che viene poi

inclinato, in modo che la persona assuma una posizione ortostatica, con i piedi che poggiano su un’apposita

pedana. Quando un essere umano sta in piedi, muove necessariamente le gambe, e la contrazione dei muscoli

(pompa muscolare) favorisce il ritorno venoso al cuore. Quando, invece, l’ortostatismo viene mantenuto

passivamente per un certo tempo (in genere da 40 minuti a un’ora), si verifica un sequestro di sangue negli arti

inferiori, e il ritorno venoso si riduce. I ventricoli, perciò, si contraggono mentre sono relativamente vuoti di

sangue, e la portata cardiaca tende a diminuire: ciò provoca un incremento reattivo del tono simpatico, che

aumenta la contrattilità ventricolare; la vigorosa contrazione dei ventricoli che contengono poco sangue stimola

i meccanocettori delle pareti ventricolari, generando un riflesso vagale che esita infine in bradicardia e

ipotensione indotta dalla vasodilatazione arteriolare. Questi meccanismi (cardioinibizione e vasodepressione)

possono indurre la sincope, che può essere cardioinibitoria, vasodepressiva o mista, a seconda della prevalenza

di una componente sull’altra. Il tilt test è positivo per sincope neuromediata quando si verifica una perdita di

coscienza o comunque una condizione di pre-sincope associata a bradicardia e ipotensione; di contro

l’ipotensione ortostatica viene diagnosticata per la presenza di ipotensione senza bradicardia. La perdita di

coscienza durante tilt test in assenza di modificazioni significative della pressione arteriosa e/o della frequenza

cardiaca invece, indica una sincope psicogena.

Anche il massaggio del seno carotideo, manovra che induce una stimolazione vagale riflessa, trova indicazione

nei casi di sincope senza dimostrata cardiopatia strutturale, quando i dati anamnestici orientino verso la

diagnosi di sincope senocarotidea (sincope che fa seguito a bruschi movimenti del collo). Teoricamente la

manovra dovrebbe essere condotta in posizione semi-ortostatica per valutare sia la risposta cardioinibitoria, che

quella vasodepressiva, ma in pratica il test viene eseguito in posizione distesa, valorizzando solo la risposta

cardioinibitoria, che viene considerata patologica quando l’intervallo fra due battiti cardiaci supera 3,5 secondi .

L’Ecg da sforzo raramente trova indicazione nell’iter diagnostico della sincope, a meno che la sintomatologia

non abbia una stretta correlazione con l’attività fisica. In questi casi esiste la possibilità di una patologia

dell’efflusso dal ventricolo sinistro (cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva, vedi Capitolo 28) che in genere è

evidenziata con l’ecocardiogramma, ma esiste anche la possibilità di una cardiopatia ischemica o di una malattia

disautonomica.

La registrazione ambulatoriale dell’ECG (Holter-24 ore) viene spesso utilizzata in pazienti con sincope per

cogliere aritmie potenzialmente pericolose (tachicardia ventricolare sostenuta o non sostenuta, asintomatica o

sintomatica, bradicardia paucisintomatica). Se gli episodi sincopali sono rari, è possibile utilizzare registratori

che il paziente porta per periodi più lunghi di 24-48 ore. Esistono i “loop-recorder” esterni che permettono la

registrazione dell’elettrocardiogramma per diversi giorni e quelli impiantabili sottocute, che possono arrivare a

registrare fino a 18 mesi di attività cardiaca. Nelle sincopi la cui causa rimane indeterminata alla fine del

percorso diagnostico standard, il loop recorder impiantabile permette di giungere alla diagnosi fino al 43% dei

casi.

L’ecocardiogramma (vedi Capitolo 4) e l’esame Doppler dei tronchi sopraortici (vedi Capitolo 12) permettono di

individuare cardiopatie strutturali (per esempio, stenosi aortica, mixoma atriale) o anomalie vascolari che

giustifichino la sincope.

Lo studio elettrofisiologico (SEF, vedi Capitolo 60) valuta la funzione del nodo sinusale, la conduzione AV e la

suscettibilità a sviluppare tachicardie sopraventricolari o ventricolari.

Le malattie neurologiche, syncope like (vedi classificazione), richiedono accertamenti orientati e specifici. Esse

sono sospettate sulla base di sintomi focali che precedono o accompagnano la perdita di coscienza (aura,

parestesie, diplopia, disartria). I test da utilizzare in questi casi sono indagini neurologiche di tipo funzionale

(Elettroencefalogramma) e di imaging (TC ed RM dell’encefalo).

CENNI DI TERAPIA

A stretto rigore di termini dobbiamo parlare di prevenzione delle recidive sincopali piuttosto che di terapia della

sincope. I nostri sforzi sono diretti a prevenire nuovi episodi sincopali trattando la malattia e i meccanismi

patogenetici che sottendono la sincope.

La sincope neuromediata o vasovagle, di gran lunga la forma più frequente, ha poche possibilità di un’efficace

prevenzione. Molti sono infatti i fattori scatenanti che devono essere individuati ed evitati. Il paziente deve

essere educato ad evitare tutte le condizioni favorenti e scatenanti il riflesso patogeneticamente efficiente,

come gli ambienti affollati, i luoghi con temperatura eccessiva, le condizioni fisiche e farmacologiche che

favoriscono la disidratazione e l’ipovolemia. Egli dovrà essere sensibilizzato al riconoscimento dei sintomi

premonitori e dovrà conoscere le manovre che sono in grado di far abortire la crisi sincopale, prima fra tutte il

mettersi in posizione supina non appena egli avverte i sintomi premonitori. Il soggetto deve essere rassicurato

sulle sue condizioni di salute e reso edotto della benignità dell’evento di cui ha sofferto e della possibilità di una

recidiva, al fine di evitare gli aspetti psicologici, come ansia e depressione, che possono accompagnare uno o

più episodi sincopali. In caso di sincope vasovagale ricorrente e in pazienti molto motivati, la prescrizione di

periodi prolungati di postura eretta od altre manovre fisiche specificamente orientate possono essere utili nel

ridurre gli episodi ricorrenti. Scarsa indicazione trovano oggi, alla luce delle esperienze attuali, i numerosi

farmaci che sono stati proposti in passato quali i (-bloccanti e i vasocostrittori.

L’impianto di un pacemaker si è dimostrato efficace nella Sindrome del seno carotideo cardioinibitoria, di cui è

ormai diventato il trattamento di scelta. Lo stesso non si può dire per la sincope vasovagale, che è stata

oggetto di numerosi trial in cui il braccio terapeutico efficace era rappresentato da un pacemaker. Dopo alcuni

studi condotti su popolazioni limitate di pazienti e non in doppio cieco, è stata dimostrata la non superiorità del

trattamento con pacemaker rispetto al placebo. L’efficacia dei pacemaker, invece, è dimostrata in tutte le forme

da disfunzione del nodo sinusale o da blocco AV (vedi Capitolo 40).

Le tachicardie parossistiche sopraventricolari hanno indicazione all’uso di farmaci antiaritmici, ed in realtà molte

se ne giovano, anche se transitoriamente. L’uso sempre più diffuso delle tecniche di ablazione transcatetere

(vedi Capitolo 60) ha permesso il successo anche nei casi non sensibili ai farmaci, evitandone gli effetti

collaterali e rendendo permanente l’efficacia della terapia.

Quando è la tachicardia ventricolare a indurre la sincope, trova indicazione il trattamento farmacologico o

l’impiego di specifici device. I farmaci antiaritmici di Classe I (vedi Capitolo 58) non sono indicati per il loro

effetto inotropo negativo; l’amiodarone è invece il farmaco di scelta per la virtuale assenza di effetti inotropi

negativi. In alternativa, si può impiegare il defibrillatore impiantabile (ICD, implantable cardioverter

defibrillator), che riconosce la tachicardia e la fibrillazione ventricolare e la tratta con uno shock elettrico in

grado di interromperla (vedi Capitolo 43).

Capitolo 43. Morte Cardiaca Improvvisa, Lia Crotti, Peter J. Schwartz

DEFINIZIONE

Definizione

Con il termine “morte cardiaca improvvisa” si intende il decesso per cause naturali di origine cardiaca che

consegua ad una improvvisa perdita di coscienza entro un’ora dall’esordio dei sintomi. I soggetti possono anche

essere cardiopatici noti, ma la modalità e il momento dell’insorgenza della perdita di coscienza devono essere

inattesi.

EPIDEMIOLOGIA

Epidemiologia

Negli Stati Uniti la morte cardiaca improvvisa è all’origine di 300000-400000 vittime all’anno e nei paesi

industrializzati è la causa di morte più frequente per i soggetti in età produttiva (20-65 anni), in particolare di

sesso maschile. Nella stragrande maggioranza dei casi la morte cardiaca improvvisa è dovuta ad una

tachiaritmia fatale (fibrillazione ventricolare primaria o tachicardia ventricolare degenerante in fibrillazione

ventricolare). Nel 10-15% dei casi la causa è un’asistolia (assenza del battito cardiaco); più raramente una

dissociazione elettro-meccanica (presenza di attività elettrica in assenza di contrazione efficace del cuore). La

patologia coronarica è senz’altro la causa più frequente di morte cardiaca improvvisa e per tale motivo sia la

distribuzione sia i principali fattori di rischio sono comuni alle due condizioni.

L’incidenza della morte cardiaca improvvisa mostra un ritmo circadiano con una prevalenza tra le ore 6 del

mattino e mezzogiorno. Questo ritmo circadiano è molto simile a quello osservato per l’insorgenza di altri eventi

cardiaci acuti quali l’infarto del miocardio e l’ischemia miocardica transitoria. Anche se il meccanismo di questo

picco mattutino non è noto con certezza, è verosimile che dipenda almeno in parte dall’aumento di attività

simpatica che compare al risveglio. Infatti, nelle prime ore del mattino si osserva un aumento del tono

vasocostrittore coronarico, della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, delle catecolamine plasmatiche e

dell’adesività piastrinica. Esistono due picchi di incidenza della morte improvvisa; il primo nei primi sei mesi di

vita (Sudden Infant Death Syndrome o SIDS) e il secondo tra i 45 e 75 anni di età. Poiché la morte cardiaca

improvvisa nel primo anno di vita riconosce meccanismi fisiopatologici diversi rispetto alla morte improvvisa

dell’adulto, alla sua trattazione è riservato un paragrafo a parte.

FISIOPATOLOGIA

Fisiopatologia

La genesi della morte cardiaca improvvisa coinvolge una serie di fattori con ruoli diversi. Un modello efficace di

morte cardiaca improvvisa prevede l’esistenza di un substrato miocardico, di fattori scatenanti e di fattori

modulanti o favorenti che interagiscono a causare la tachicardia o fibrillazione ventricolare (la causa più

frequente di arresto cardiaco).

Con il termine substrato si intende la presenza di alterazioni strutturali o elettriche cardiache che favoriscono il

rischio aritmico: 1) alterazioni strutturali possono ad esempio essere rappresentate da una cardiopatia

congenita, da alterazioni conseguenti alla ipertrofia o alla fibrosi miocardica, che possono ad esempio seguire

ad un infarto del miocardio; 2) alterazioni elettriche sono tipicamente quelle presenti in cardiopatie aritmogene

ereditarie, legate a difetti di canali ionici cardiaci, quali la Sindrome del QT Lungo o la Sindrome di Brugada

(vedi Capitolo…).

Un fattore scatenante importante è costituito, ad esempio, da un episodio ischemico acuto. La frequente

assenza, nei vasi coronarici esaminati all’autopsia, di lesioni occlusive sottolinea la possibilità che a scatenare

l’episodio di arresto cardiaco sia una ischemia miocardica solo transitoria. In accordo con questa ipotesi è il

fatto che solo una minoranza dei soggetti risuscitati dopo arresto cardiaco sviluppa un infarto del miocardio.

Con il termine “fattore modulante” si intende un fattore variabile nel tempo, che possa in talune circostanze

presentarsi con caratteristiche tali da favorire l’insorgenza, la perpetuazione o la degenerazione di un’aritmia

ventricolare minacciosa. Esempi tipici sono rappresentati dalla presenza di alterazioni elettrolitiche quali

l’ipopotassiemia. Altre possibilità sono costituite da situazioni transitorie di ipossia o di acidosi o dall’utilizzo di

farmaci con potenziale effetto proaritmico. Un posto di primaria importanza nell’ambito dei fattori modulanti

spetta al sistema nervoso autonomo. Numerosi studi sperimentali hanno indicato l’effetto sfavorevole

rappresentato da una eccessiva attivazione simpatica nella genesi delle aritmie ventricolari maligne, in

particolare in occasione di ischemia miocardica acuta. Una eccessiva attivazione adrenergica esercita una serie

di effetti sfavorevoli sia nel senso di un aumento della gravità dell’ischemia (per aumento del consumo di

ossigeno e delle resistenze coronariche) sia di un aumento della probabilità di aritmie. Ciò si verifica per una

facilitazione sia delle aritmie da rientro (favorite dalla riduzione della refrattarietà ventricolare) sia di aritmie

scatenate da un alterato automatismo (vedi Capitolo…). L’attivazione parasimpatica si è dimostrata in grado di

antagonizzare efficacemente gli effetti sfavorevoli di una aumentata attività adrenergica. Questi concetti hanno

trovato applicazione nella pratica clinica, grazie all’utilizzo di indici autonomici, quali la sensibilità barocettiva e

la variabilità della frequenza cardiaca, che si sono dimostrati di estrema utilità per la stratificazione del rischio

nel post-infarto e per l’individuazione dei pazienti a maggior rischio di morte cardiaca improvvisa (vedi

Capitolo…).

PRINCIPALI CONDIZIONI PATOLOGICHE ASSOCIATE A MORTE CARDIACA IMPROVVISA

Principali condizioni patologiche associate a morte cardiaca improvvisa

La cardiopatia ischemica è responsabile di circa l’80% delle morti improvvise nei paesi occidentali e le

cardiomiopatie si rendono responsabili di un altro 10-15%. Tuttavia, la completa comprensione della morte

cardiaca improvvisa richiede il riconoscimento di altre cause, che sebbene più rare, sono importanti, da una

parte, per una miglior comprensione delle basi fisiopatologiche della morte improvvisa e dall’altra, per la

possibilità di agire a livello preventivo attraverso l’attuazione di adeguate misure terapeutiche. Tra l’altro molte

di queste “entità minori” sono tra le principali cause di morte improvvisa in adolescenti e giovani adulti in cui è

molto più bassa la prevalenza della aterosclerosi coronarica.

Ci sono inoltre dei casi in cui la causa della morte cardiaca improvvisa o della fibrillazione ventricolare

resuscitata non riesce ad essere identificata e si parla quindi di “Fibrillazione Ventricolare Idiopatica”. A cinque

anni di follow-up questi pazienti hanno un rischio del 30% di avere un nuovo arresto; per tale motivo esiste

un’indicazione assoluta all’impianto del defibrillatore automatico, un apparecchio simile ad un pace-maker, ma

in grado di riconoscere e trattare attraverso shock elettrico le aritmie ventricolari maligne.

Cardiopatia ischemica

Circa il 5% dei pazienti che giungono vivi in ospedale con un infarto miocardio acuto, ha un episodio di

fibrillazione ventricolare (FV) nelle prime 24 ore successive all’infarto. In generale l’occorrenza dell’episodio di

fibrillazione ventricolare non è giustificata né dall’estensione particolarmente importante dell’infarto né dalle

condizioni di particolare compromissione della funzione ventricolare sinistra. Da cosa dipenda questa

predisposizione a rispondere all’ischemia miocardica acuta con aritmie fatali è uno dei problemi maggiori ancora

irrisolti della cardiologia contemporanea. Il “Paris Prospective Study”, uno studio condotto su oltre 7500

dipendenti pubblici ha dimostrato che la morte cardiaca improvvisa di uno dei due genitori aumenta il rischio

relativo di tale evenienza nel soggetto di circa due volte e addirittura di nove volte se entrambi i genitori sono

morti improvvisamente. Due recenti studi clinici hanno confermato che la storia familiare di morte cardiaca

improvvisa è il principale predittore di FV durante la fase acuta di un infarto del miocardio, supportando l’ipotesi

che esista una predisposizione, almeno in parte geneticamente trasmessa, ad una aumentata instabilità

elettrica che possa favorire l’insorgenza di FV in presenza di un appropriato substrato clinico.

I pazienti sopravvissuti ad un infarto del miocardio sono quelli studiati più a fondo in senso prognostico, in

quanto è stato facile rendersi conto che molti di essi muoiono improvvisamente e che l’incidenza massima di

questo evento è nel primo anno successivo all’infarto. Diversi sono i fattori di rischio che sono stati identificati,

quali la riduzione della frazione di eiezione, la presenza di frequenti battiti ectopici ventricolari, un intervallo QT

costantemente prolungato ed un episodio di FV nella fase acuta di un infarto a sede anteriore. Negli ultimi anni

sono aumentati i dati che indicano uno stretto rapporto tra morte improvvisa e sistema nervoso autonomo. In

particolare nei pazienti con infarto del miocardio uno squilibrio autonomico caratterizzato da una ridotta attività

vagale e da una aumentata attività simpatica si associa in modo significativo ad un aumento della mortalità

cardiaca e di quella improvvisa. I parametri clinici più utilizzati per valutare il profilo autonomico sono la

variabilità della frequenza cardiaca e la sensibilità barocettiva, che si è rivelata predittiva anche nei soggetti con

frazione di eiezione conservata e anche oltre i 65 anni.

Dall’insieme di queste considerazioni dovrebbe essere chiaro che un notevole progresso è stato fatto nella

identificazione di quei soggetti che, dopo un infarto del miocardio, sono ad alto rischio di morte improvvisa. E’

anche chiaro però che stiamo parlando di morti improvvise non totalmente inattese.

Da un punto di vista pratico il problema dell’identificazione dei soggetti a rischio di morte improvvisa rimane

molto complesso. Infatti, non si può prescindere dal numero totale di eventi e dalla popolazione di pazienti nei

quali tali eventi si verificano. Se è vero che vi sono dei gruppi di pazienti, ad esempio quelli che hanno avuto un

episodio di tachicardia o FV dopo un infarto miocardico, con un rischio molto alto di morte cardiaca improvvisa,

è anche vero che il contributo in termini assoluti al numero totale delle vittime di morte improvvisa è

relativamente modesto. E’ infatti nella popolazione non selezionata, nella quale l’incidenza di morte cardiaca

improvvisa è estremamente ridotta (1-2 per mille per anno), che si verifica il numero maggiore di eventi. In

questi soggetti la morte improvvisa rappresenta generalmente la prima manifestazione della malattia (per lo più

coronarica) e si tratta quindi di morte cardiaca improvvisa totalmente inattesa.

Cardiomiopatie

Tre sono le principali cardiomiopatie che si associano al rischio di morte improvvisa:

• Cardiomiopatia dilatativa (vedi Capitolo…). E’ una malattia del miocardio caratterizzata da dilatazione

e da compromissione della funzione contrattile del ventricolo sinistro o di entrambi i ventricoli. La

cardiomiopatia dilatativa è rappresentata in prevalenza da forme primitive, ad etiologia non nota, le

cosiddette forme idiopatiche. La distribuzione per sesso ed età sembra privilegiare il sesso maschile fra la

terza e la quinta decade di vita. La morte improvvisa è responsabile di circa la metà delle morti dei

pazienti con questa patologia; tuttavia, tende a manifestarsi più tardivamente, quando sono spesso già

presenti sintomi da compromissione emodinamica.

• Cardiomiopatia ipertrofica (vedi Capitolo…). E’ una patologia primitiva del muscolo cardiaco, a

trasmissione autosomica dominante, caratterizzata da un’ipertrofia ventricolare sinistra e/o destra di

eziologia ignota, associata ad un aspetto istologico di disorganizzazione (disarray) delle fibrocellule

miocardiche. Tipicamente l’ipertrofia è asimmetrica ed il setto interventricolare è il distretto più

frequentemente interessato. Nel 70% circa dei casi la cardiomiopatia ipertrofica riconosce un andamento

familiare e sono stati identificati una serie di geni, codificanti per proteine del reticolo sarcoplasmatico,

alla base della malattia. In questa patologia il rischio di aritmie ventricolari maligne è elevato e la morte

improvvisa può essere la prima manifestazione della malattia. La cardiomiopatia ipertrofica è la prima

causa di morte improvvisa negli atleti al di sotto dei 35 anni di età.

• Cardiomiopatia-Displasia aritmogena del ventricolo destro. E’ una patologia primitiva del muscolo

cardiaco, caratterizzata da sostituzione fibroadiposa dei miocardiociti, che tipicamente interessa il

ventricolo destro e può successivamente andare ad interessare anche il ventricolo sinistro. Nel 30-50%

dei casi tale patologia sembra avere una distribuzione familiare, con modalità di trasmissione di tipo

autosomico dominante. Tale patologia si associa ad un elevato rischio di aritmie ventricolari sostenute,

tipicamente a partenza dal ventricolo destro, che possono anche portare alla morte improvvisa,

frequentemente indotta dall’esercizio fisico. Per tale motivo, specialmente nel Veneto dove questa

patologia ha un’elevata prevalenza, essa rappresenta una delle principali cause di morte improvvisa nei

giovani atleti.

Patologie valvolari

Se non trattata chirurgicamente, la stenosi valvolare aortica severa (vedi Capitolo…) si associa ad un elevato

rischio di morte cardiaca improvvisa. Dopo sostituzione valvolare, l’incidenza di morte improvvisa si riduce

moltissimo, tuttavia permane, data la possibilità di disfunzioni protesiche, aritmie o coesistenza di

coronaropatia.

E’ tuttora controverso se il prolasso della valvola mitrale (vedi Capitolo…) si correli con un incremento del

rischio di morte improvvisa. Considerata l’alta prevalenza di prolasso mitralico, è verosimile che il rilievo

anatomopatologico di prolasso nei soggetti deceduti improvvisamente rappresenti una coincidenza casuale più

che una condizione causale. Tuttavia, se il prolasso è complicato da insufficienza mitralica significativa,

disfunzione ventricolare sinistra o degenerazione mixomatosa della valvola, il rischio di eventi tromboembolici,

endocardite infettiva e morte improvvisa aumenta notevolmente.

Cardiopatie aritmogene ereditarie

Le cardiopatie aritmogene ereditarie, sono un gruppo di patologie geneticamente trasmesse che si associano ad

un rischio di morte cardiaca improvvisa per lo più in giovane età. In queste patologie il cuore risulta

strutturalmente normale, ma sono presenti difetti a carico di canali ionici cardiaci che favoriscono la genesi di

aritmie ventricolari maligne. Si riconoscono quattro principali cardiopatie aritmogene ereditarie:

• Sindrome del QT Lungo (LQTS). E’una cardiopatia a trasmissione per lo più autosomica dominante,

caratterizzata da un prolungamento dell’intervallo QT all’ECG di superficie (QTc>440 msec) e da un

elevato rischio di aritmie ventricolari maligne che tendono a manifestarsi più frequentemente in giovane

età e che sono tipicamente indotte da stress fisici od emotivi. Date le caratteristiche della LQTS, il caso

tipico non presenta particolari difficoltà dal punto di vista della diagnosi per il medico che ha familiarità

con questa malattia. Tuttavia, i casi borderline sono più complessi e richiedono l’attenta valutazione di

più variabili, oltre ovviamente all’anamnesi e all’intervallo QT, quali la storia familiare, le anomalie

morfologiche dell’onda T e la variabilità dell’intervallo QT durante le 24 ore e a seguito di test quali il test

ergometrico e quello all’iperventilazione. Lo screening molecolare è ormai un componente importante del

processo diagnostico, specialmente per i casi borderline. Tuttavia è bene ricordare che circa il 25-30% di

casi indubbi di LQTS sfuggono alla diagnosi molecolare. Un’area in cui lo screening molecolare dà un

apporto importante ed unico è nella diagnosi dei familiari con QT normale. Esistono tre varianti genetiche

principali di Sindrome del QT Lungo, pur essendo ad oggi noti ben 10 geni alla base della malattia. Nella

variante LQT1, dovuta a difetti sul gene KCNQ1, la maggior parte degli eventi si manifestano in

condizioni di stress fisico ed il nuoto è un’attività particolarmente rischiosa. In questi pazienti la terapia

beta-bloccante è estremamente efficace. I pazienti LQT2 hanno la maggior parte dei loro eventi in

condizioni di stress emotivo e tipicamente a seguito di rumori improvvisi specie se al risveglio; in questo

sottogruppo genetico l’efficacia dei beta-bloccanti è buona. I pazienti LQT3 sono quelli di più difficile

gestione. Essi hanno mutazioni sul gene SCN5A e la maggior parte dei loro eventi avviene a riposo o

durante il sonno. La terapia beta-bloccante è solo parzialmente efficace e spesso si devono considerare

misure terapeutiche aggiuntive quali il bloccante del sodio mexiletina, la denervazione simpatica cardiaca

di sinistra o l’impianto del defibrillatore. La morte improvvisa può essere la prima manifestazione della

malattia in un 10-12% dei casi di Sindrome del QT Lungo ed in uno studio recente mutazioni responsabili

della LQTS sono state identificate in ben il 20% delle morti improvvise di giovani con autopsia negativa

(9). Poiché in questa malattia esiste una terapia (farmaci beta-bloccanti) in grado di ridurre

significativamente il rischio di aritmie fatali, non vi sono giustificazioni per l’esistenza di pazienti

sintomatici senza diagnosi.

• Sindrome del QT Corto. E’ una cardiopatia a trasmissione autosomica dominante di recente

descrizione. E’ caratterizzata dalla presenza di un intervallo QT corto all’ECG di superficie (QTc<340

msec) e da un elevato rischio di aritmie ventricolari maligne. Purtroppo nessuna terapia farmacologia si è

dimostrata fino ad ora in grado di ridurre in maniera significativa il rischio aritmico, pertanto l’impianto di

un defibrillatore rimane per il momento l’opzione di scelta per la prevenzione della morte improvvisa.

• Sindrome di Brugada. E’ una cardiopatia caratterizzata all’ECG da un’onda terminale positiva larga

(onda J), che simula un blocco di branca destra completo o incompleto, e da un sopraslivellamento del

tratto ST da V1 a V3. Questa patologia si associa ad un significativo rischio di morte improvvisa, che

avviene tipicamente nel sonno o in condizioni di riposo. La distribuzione per sesso ed età sembra

privilegiare il sesso maschile fra la terza e la quinta decade di vita. Anche in questo caso l’unico

strumento di prevenzione della morte improvvisa è l’impianto del defibrillatore, che viene riservato a

quei pazienti con un elevato profilo di rischio (pregresso arresto cardiaco o sincope di verosimile origine

aritmica, pattern diagnostico spontaneo con inducibilità di aritmie ventricolari maligne allo studio

elettrofisiologico, familiarità per morte improvvisa)

• Tachicardia Ventricolare Catecolaminergica (CPVT). E’ una cardiopatia a trasmissione autosomica

dominante caratterizzata dallo sviluppo di tachicardie ventricolari polimorfe, tipicamente bidirezionali,

che possono degenerare in fibrillazione ventricolare e quindi morte improvvisa. Le aritmie sono

tipicamente indotte dall’esercizio fisico, pertanto per fare una diagnosi corretta è necessario effettuare un

test ergometrico od un ECG Holter delle 24 ore, mentre l’ECG di base è solitamente normale. Da uno

studio è emerso che mutazioni responsabili della CPVT sono state identificate nel 15% delle morti

improvvise di giovani con autopsia negativa. Anche per questa malattia esiste una terapia (beta-

bloccante) in grado di ridurre il rischio di aritmie fatali. Se la terapia beta-bloccante non è sufficiente

sono disponibili misure terapeutiche aggiuntive come la denervazione simpatica cardiaca di sinistra ed

eventualmente l’impianto del defibrillatore.

Cardiopatie Congenite

Un aumento del rischio di morte cardiaca improvvisa è stato descritto fondamentalmente in quattro condizioni,

e cioè nella tetralogia di Fallot, nella trasposizione delle grandi arterie, nella stenosi aortica e nell’ostruzione

vascolare polmonare (vedi Capitolo…). Il rischio persiste dopo l’intervento cardiochirurgico ed è presente anche

nell’ipertensione polmonare primitiva e secondaria. Nella tetralogia di Fallot la durata del QRS si correla con le

dimensioni del ventricolo destro e con il rischio di morte improvvisa.

Altre patologie cardiovascolari

Altre patologie cardiovascolari che possono associarsi al rischio di morte improvvisa sono l’embolia polmonare

(vedi Capitolo…), la dissezione aortica (vedi Capitolo…), e tutti quei processi infiammatori, infiltrativi, neoplastici

e degenerativi che possono interessare il miocardio. Alcuni esempi sono rappresentati dall’amiloidosi, dalla

sarcoidosi dall’emocromatosi e da tutte le possibili diverse forme di miocardite.

SIDS

Il termine “Sudden Infant Death Syndrome” (SIDS) identifica una morte improvvisa nel primo anno di vita che

risulta inaspettata in base alla storia clinica del soggetto ed in cui l’esame autoptico non riesce a dimostrare

un’adeguata causa di morte. La SIDS è la principale causa di morte infantile nei paesi occidentali e colpisce

circa 1 bambino ogni 2000 nati vivi. Esistono diverse ipotesi riguardo la genesi della SIDS, le due più

accreditate sono la teoria respiratoria e quella cardiaca. Già negli anni settanta era stato ipotizzato che alcuni

casi SIDS fossero legati a fibrillazione ventricolare ed era stato proposto che la Sindrome del QT Lungo potesse

essere responsabile di alcuni di questi casi. Questa ipotesi venne supportata dai risultati di uno studio

prospettico su 34442 neonati dimostranti che i neonati con un QTc > 440 ms avevano un rischio di SIDS 41

volte superiore a quelli con intervallo QT normale. La dimostrazione finale della validità dell’ipotesi per cui un

certo numero di casi di SIDS può dipendere dalla LQTS è giunta da uno studio molecolare in oltre 200 casi SIDS

ed un simile numero di controlli. E’ emerso che il 10% delle vittime SIDS ha mutazioni sui geni responsabili per

la Sindrome del QT Lungo. Questo dato indica che almeno una parte di queste tragedie con devastanti effetti

familiari può essere evitata, e pone l’attenzione sulla necessità di effettuare screening elettrocardiografici nel

primo mese di vita, per individuare il più precocemente possibile pazienti affetti da Sindrome del QT Lungo e

potenzialmente a rischio di morte cardiaca improvvisa, sia nel primo anno di vita che più avanti, se non

correttamente diagnosticati e trattati.

Sezione XII. Ipertensione arteriosa

Capitolo 45. L’ipertensione Arteriosa, Massimo Volpe, Sebastiano Sciarretta

DEFINIZIONE ED EPIDEMIOLOGIA

Definizione ed epidemiologia

Per “Ipertensione arteriosa” si intende una condizione clinica morbosa caratterizzata da un aumento anomalo

stabile, e non legato a normali variazioni fisiologiche, dei livelli di pressione arteriosa. Tale aumento riguarda

più frequentemente entrambe le pressioni sistolica e diastolica, ma esistono forme di ipertensione caratterizzate

da aumento solo della pressione sistolica (ipertensione sistolica isolata), condizione più frequente negli anziani,

o più raramente solo della diastolica.

In base alle ultime Linee Guida europee sulla gestione clinica del paziente iperteso, la presenza di ipertensione

arteriosa viene definita arbitrariamente da valori di pressione arteriosa > 140 mmHg per quanto riguarda la

pressione sistolica e/o > 90 mmHg per quanto riguarda la pressione diastolica. Sulla base dei livelli pressori

inoltre, la malattia ipertensiva può essere classificata in 3 diversi gradi di severità clinica (grado I: 140-159/90-

99 mmHg; grado II: 160-179/100-109 mmHg; grado III: > 180/>110 mmHg) che, come è intuibile, possono

avere un diverso impatto sulla storia naturale della malattia.

L’ipertensione arteriosa viene definita “essenziale” quando non è possibile risalire ad una eziologia chiaramente

identificabile alla base del suo sviluppo, e questa rende conto di oltre il 90% dei casi di ipertensione arteriosa.

Di contro, quando l’aumento dei valori pressori è secondario a disordini d’altra natura, l’ipertensione arteriosa

viene definita “secondaria”.

L’ipertensione arteriosa essenziale è una condizione di enorme rilevanza epidemiologica, pressoché ubiquitaria

nel nostro pianeta. Nella maggioranza dei casi, interessa soggetti adulti con prevalenza direttamente correlata

all’età. Si presume che nel mondo vi siano circa 690 milioni di soggetti attualmente affetti da ipertensione

arteriosa. La prevalenza nella popolazione generale è di circa il 20%, ma sale ad oltre il 50% nella popolazione

d’età superiore ai 60 anni. Per quanto riguarda il sesso, la prevalenza d’ipertensione è maggiore nei maschi

quando si considerano soggetti con età inferiore ai 50 anni, mentre è uguale tra i 2 sessi per età superiori. In

termini sociali, l’ipertensione arteriosa è più frequente nelle zone urbane rispetto a quelle rurali, in particolare

nei quartieri meno agiati, nonché nei Paesi industrializzati, mentre per quanto riguarda la razza, la prevalenza

d’ipertensione è maggiore in quella nera. In base a queste considerazioni si prevede che entro il 2025 vi

saranno nel mondo oltre 1 miliardo e 200 milioni di ipertesi, con un impatto di gran lunga superiore a

qualunque altra condizione in termini di “carico di malattia”.

EZIOPATOGENESI E FISIOPATOLOGIA

Eziopatogenesi e fisiopatologia

Se l’ipertensione di tipo secondario riconosce i suoi fattori eziopatogenetici nella malattia primitiva a cui è

associata, alla base dello sviluppo dell’ipertensione arteriosa essenziale vi sono molti fattori causali per lo più

non identificati. L’ipertensione arteriosa essenziale può essere definita una malattia multifattoriale, dove

elementi di tipo genetico ed ambientale agiscono sinergicamente su numerosi processi biochimici e metabolici

che a loro volta sono alla base del suo sviluppo. Tra i fattori ambientali, i più importanti sono legati allo stile di

vita e all’alimentazione, e sono la sedentarietà, lo stress psichico, l’abitudine tabagica, una dieta ipersodica ed

iperlipidica, ed il frequente ed eccessivo consumo di alcool e caffè. Tra i fattori genetici identificati e più

probabilmente coinvolti, vanno annoverati invece quelli determinanti una maggiore attività del sistema renina-

angiotensina-aldosterone, un aumento costituzionale del tono adrenergico, un aumento della risposta vascolare

a sostanze vasocostrittrici quali l’endotelina, una ridotta escrezione renale di sodio ed infine una ridotta sintesi

endoteliale di sostanza vasodilatanti (prostacicline, EDRF etc…).

Fisiologicamente la pressione arteriosa è determinata dal prodotto delle resistenze periferiche per la gittata

cardiaca, la quale è a sua volta la risultante del prodotto della frequenza cardiaca per la gittata sistolica.

Pertanto è proprio sulle resistenze periferiche, la frequenza cardiaca e la gittata sistolica che agiscono i

differenti meccanismi fisiologici che regolano la pressione arteriosa. Per esempio, le resistenze periferiche sono

condizionate dal sistema simpatico, che regola il tono vascolare, così come lo è la frequenza cardiaca, mentre la

gittata sistolica è prevalentemente regolata dalla contrattilità miocardica e dal precarico, a sua volta correlato

alla volemia. In generale, i meccanismi preposti al controllo della pressione arteriosa possono essere distinti in

meccanismi a breve, medio e lungo termine. Tra i meccanismi a breve termine possono essere annoverati i

sistemi baro- e chemo-recettoriali, che modificano in pochi secondi il tono simpatico modulando l’attività

cardiaca, il tono arteriolare e i livelli pressori. I meccanismi a medio termine sono invece quelli di tipo umorale

mediati principalmente dal sistema renina-angiotensina-aldosterone, dalla vasopressina e dal sistema delle

chinine. Il rene è invece deputato al controllo a lungo termine della pressione arteriosa, principalmente

attraverso la regolazione della volemia.

Pertanto qualsiasi alterazione patologica dei suddetti determinanti fisiologici della pressione arteriosa e dei suoi

meccanismi di regolazione può determinare l’insorgenza di uno stato ipertensivo. In particolare, tra i

meccanismi fisiopatologici responsabili dello sviluppo dell’ipertensione arteriosa essenziale quelli maggiormente

implicati sono legati ad un’alterata omeostasi elettrolitica soprattutto del sodio, al rimodellamento vascolare, ad

un’iperattività del sistema renina-angiotensina-aldosterone, ad una ridotta sensibilità insulinica ed in ultimo ad

una funzione endoteliale alterata.

Un aumento delle concentrazioni organiche di sodio è sicuramente coinvolto nella genesi della malattia

ipertensiva, in particolare attraverso un aumento del volume plasmatico ed un aumento delle resistenze

periferiche. Tuttavia studi clinici hanno mostrato come solo in una frazione (20-30%) dei soggetti ipertesi una

riduzione dell’introito di sodio determini una significativa riduzione dei valori pressori. Sulla base di tale risposta

individuale alla riduzione dell’introito di sodio è stata coniata la definizione di ipertensione arteriosa sodio-

sensibile.

Anche altri elettroliti sono coinvolti nella genesi dell’ipertensione arteriosa tra cui il potassio ed il calcio, le cui

concentrazioni sono inversamente associate ai valori pressori. Tuttavia diversi studi che hanno valutato gli

effetti di un aumento dell’assunzione dietetica di potassio e calcio sulla riduzione della pressione hanno fornito

finora risultati controversi.

L’ipertensione arteriosa è associata nella maggior parte dei casi ad un aumento delle resistenze periferiche, e se

nelle fasi iniziali del suo sviluppo tale aumento è spesso secondario ad una vasocostrizione arteriolare di origine

funzionale, dipendente da un aumentato stimolo da parte di sostanze vasoattive quali catecolamine,

angiotensina II o endoteline, o ad un’elevazione persistente della portata cardiaca, successivamente un

rimodellamento vascolare strutturale è implicato nel perpetuarsi di elevati valori pressori. Infatti l’incremento

della pressione ed il costante insulto meccanico sulle pareti dei vasi stimolano lo sviluppo di un’ipertrofia delle

cellule muscolari lisce vascolari, con ulteriore riduzione del lume arteriolare, ed il conseguente aumento delle

resistenze periferiche, le quali determinano la persistenza od anche il peggioramento dello stato ipertensivo,

anche quando i potenziali fattori causali iniziali vengano a mancare.

Tra i determinanti fisiologici del tono vascolare, ha un ruolo primario il sistema renina-angiotensina-

aldosterone, il quale esercita importanti azioni regolatorie sulla pressione arteriosa anche attraverso la

regolazione dell’omeostasi elettrolitica e del riassorbimento di sodio e acqua a livello tubulare; inoltre,

attraverso effetti di tipo autocrino e paracrino, in alcuni tessuti l’attività del sistema renina-angiotensina-

aldosterone regola la crescita e la differenziazione cellulare e favorisce lo sviluppo di fibrosi tissutale, in

particolare a livello vascolare. Pertanto, una disregolazione dell’attività del sistema renina-angiotensina-

aldosterone, ad esempio un’attività sproporzionata rispetto all’assunzione di sodio o ai livelli pressori stessi,

determina un aumento dei valori pressori e progressive modificazioni strutturali vascolari e cardiache, tali da

giustificare l’intervento farmacologico su questo sistema.

Anche l’insulina svolge delle azione regolatorie importanti sulla pressione arteriosa: legandosi ai recettori

tirosin-kinasici essa determina a livello endoteliale una cascata trasduzionale intracellulare che porta

all’aumentata trascrizione genica e successivamente alla sintesi dell’enzima ossido nitrico sintetasi, il quale

catalizza la produzione di ossido nitrico, sostanza con potente azione vasodilatatoria ed anti-infiammatoria.

Quindi nelle condizioni caratterizzate da una ridotta sensibilità insulinica a livello vascolare si assiste ad una

riduzione della sintesi di ossido nitrico con conseguente aumento delle resistenze periferiche e dei valori

pressori. Inoltre, l’aumento compensatorio delle concentrazioni di insulina negli stati di insulino-resistenza si

associa ad un incremento del tono simpatico con un ulteriore aumento del tono vascolare ed una riduzione della

funzionalità endoteliale.

Quest’ultima è sicuramente un altro importante elemento sottostante allo sviluppo di ipertensione arteriosa.

L’endotelio, infatti, svolge importanti azioni protettive a livello vascolare, attraverso la produzione di sostanze

vasodilatanti ad azione autocrina e paracrina quali l’ossido nitrico, le prostacicline e l’endothelium-derived

relaxing factor (EDRF), ed anche attraverso la produzione di sostanze antitrombotiche (vedi Capitolo 48).

Tuttavia quando questo è sottoposto all’azione dannosa dei diversi fattori di rischio quali fumo e diabete, si

realizza a livello vascolare e cellulare un’infiammazione subclinica ed un aumento dello stress ossidativo, i quali

danneggiano le cellule endoteliali e conseguentemente portano allo sviluppo della loro disfunzione. Quando si

instaura una disfunzione endoteliale vengono meno le suddette funzioni protettive collegate ad un endotelio

integro, con conseguente aumento della reattività vascolare, aumentata espressione di molecole d’adesione

leucocitaria che portano al perpetuarsi dell’infiammazione vascolare, ed in ultimo un’aumentata suscettibilità

alla evoluzione aterosclerotica e alla formazione di trombosi. Questi processi promuovono in ultima istanza lo

sviluppo di eventi aterotrombotici (vedi Capitolo 46).

IMPATTO CLINICO

Impatto clinico

Nella maggioranza dei casi, l’ipertensione arteriosa non determina lo sviluppo né di sintomi o disturbi, né di

complicanze a breve termine, bensì può decorrere asintomatica per molti anni, determinando progressive e

sempre più gravi alterazioni strutturali e funzionali a carico del sistema cardiovascolare, renale e cerebrale.

Complicanze anche molto gravi, spesso precedute da alterazioni di tipo pre-clinico, possono palesarsi

improvvisamente con eventi acuti e drammatici quali l’infarto del miocardio, l’ictus cerebrale e lo scompenso

cardiaco.

La relazione tra ipertensione arteriosa ed aumento dell’incidenza di patologie cardiovascolari fu illustrato in

maniera molto chiara dalle ormai mitiche tabelle elaborate dagli studi condotti da una compagnia assicurativa

nordamericana, la Metropolitan Life Insurance Company, che dimostravano come in una popolazione di uomini

di quarantacinque anni, valori pressori di 130/90 mmHg rispetto a valori pressori inferiori erano in grado di

determinare una riduzione dell’aspettativa di vita di 3 anni, e, se ci si spingeva fino a valori pressori di 140 su

95 mmHg l’aspettativa di vita si riduceva di 6 anni. Ancor più, se si consideravano uomini con valori pressori di

150 su 100 mmHg l’aspettativa di vita media si riduceva di 11.5 anni. Una conferma di questi dati ci è stata

fornita da diversi studi epidemiologici tra cui quello condotto da Wilhelmsen, nel quale veniva dimostrato come

l’aumento dei valori pressori anche se limitato a 10 mmHg, corrispondesse ad un brusco incremento della

incidenza di coronaropatia, anche nell’ambito del range dei valori pressori normali. La Prospective Studies

Collaboration ha comunque fornito le evidenze più importanti sulla relazione tra ipertensione arteriosa ed

aumento del rischio cardiovascolare. Questa analisi ha preso in esame circa 1 milione di pazienti in 61 studi

prospettici osservazionali per 12 anni. A partire da un’età compresa tra 40 e 69 anni, ogni aumento di 20

mmHg di pressione arteriosa o di 10 mmHg di pressione diastolica è risultato associato ad aumenti di 2 volte di

mortalità per cardiopatia ischemica e circa 4 volte per ictus. La mortalità vascolare risultava superiore al 50%

nella decade 80-89 anni, mentre il rischio relativo era maggiore nei soggetti più giovani, con un aumento di

circa 10 volte.

L’ipertensione arteriosa viene pertanto considerata un classico fattore di rischio per lo sviluppo di malattie

cardiovascolari.

Il significato ed il valore predittivo dei valori di pressione arteriosa nei confronti delle principali malattie

cardiovascolari quali la cardiopatia ischemica e l’ictus cerebrale è stato già identificato da alcuni decenni. E’

stato a tal proposito dimostrato che persino nell’ambito di popolazioni non ipertese il progressivo incremento dei

valori pressori corrisponde ad una graduale riduzione dell’aspettativa di vita. Se da un lato valori pressori

elevati sono associati ad un aumento del rischio cardiovascolare, parallelamente la loro riduzione è in grado di

prevenire lo sviluppo di una considerevole percentuale di complicanze soprattutto di natura cerebrovascolare.

La relazione tra ipertensione arteriosa e rischio cardiovascolare aumentato non è comunque secondaria solo alla

presenza di elevati valori pressori, bensì è una conseguenza anche di altri fattori di rischio cardiovascolari che

sono frequentemente presenti nel paziente iperteso, quali la dislipidemia, il diabete mellito, l’obesità ed il fumo.

La presenza contemporanea di fattori di rischio multipli è stata indagata nel corso dello studio di Framingham

che ha dimostrato come la presenza isolata d'ipertensione arteriosa si osservi solo nel 20% dei pazienti, mentre

nel 50% dei casi elevati valori pressori si associano a 2 o 3 fattori di rischio concomitanti. Questa frequente

associazione tra ipertensione arteriosa ed altre anomalie del profilo metabolico quali il diabete mellito e la

dislipidemia suggerisce come queste associazioni non siano casuali ma siano probabilmente legate alla presenza

di fattori eziopatogenetici comuni alla base dello sviluppo di tali anomalie.

Il riscontro di alterazioni del profilo lipidico caratterizza un'ampia percentuale della popolazione ipertesa e

contribuisce in maniera sostanziale allo sviluppo di complicanze cardiovascolari. L'alterazione del profilo lipidico

più frequentemente associata alla presenza di ipertensione è certamente l’ipercolesterolemia, presente in oltre il

40% dei pazienti con valori pressori francamente elevati e con una prevalenza progressivamente crescente al

crescere della gravità del quadro ipertensivo, supportando un’eventuale correlazione tra tali due fattori di

rischio anche in ambito patogenetico. Dislipidemia ed elevati valori pressori sono inoltre elementi costitutivi

della cosiddetta sindrome metabolica, condizione clinica frequentemente associata alla presenza di ipertensione

arteriosa. Questa sindrome è caratterizzata, da un punto di vista clinico, dalla presenza di più fattori di rischio

associati, mentre da un punto di vista fisiopatologico dalla presenza di un’obesità viscerale, particolarmente

aterogena, da una condizione di insulino-resistenza, ed infine da uno stato infiammatorio cronico subclinico.

Anche il diabete mellito di tipo 2 risulta associato frequentemente all’ipertensione arteriosa con la quale

condivide la responsabilità di una significativa quota della mortalità e morbilità cardiovascolare, nonché alcuni

importanti tratti fisiopatologici.

Le conseguenze patologiche dell’ipertensione arteriosa possono essere di tipo preclinico e clinico; le prime sono

caratterizzate da modificazioni strutturali e funzionali a carico degli organi bersaglio senza che queste si

manifestino con sintomi o segni clinici, le seconde consistono invece in alterazioni organiche più gravi che si

palesano con dei quadri clinici ben definiti, soprattutto l’infarto del miocardio, lo scompenso cardiaco e l’ictus

cerebri.

In generale la conseguenza patologica classica della malattia ipertensiva è lo sviluppo di aterosclerosi, che vede

maggiormente coinvolti il cuore con i vasi arteriosi, il rene ed il sistema nervoso centrale.

Le principali alterazioni precliniche cardiache associate all’ipertensione sono legate ai processi di rimodellamento

ventricolare sinistro in risposta allo stato ipertensivo e sebbene siano asintomatiche, configurano comunque una

condizione clinica fortemente predittiva di eventi cardiovascolari futuri, condizione identificata con il termine di

“cardiopatia ipertensiva”. Tali alterazioni cardiache riconoscono nell’ipertrofia ventricolare sinistra e nella

disfunzione diastolica le manifestazioni principali. La prima è caratterizzata dall’aumento della massa cardiaca

soprattutto in risposta all’aumento dello stress sistolico determinato dalla pressione elevata, e può essere di

tipo concentrico od eccentrico. Il primo tipo è caratterizzato dall’ispessimento delle pareti ventricolari per la

classica apposizione di nuovi sarcomeri “in parallelo”, senza un aumento della cavità ventricolare, il secondo

tipo è invece caratterizzato dall’aumento del diametro ventricolare consensuale all’aumento degli spessori

parietali, secondariamente all’apposizione, a livello miocardico, di nuovi sarcomeri “in serie”.

La prevalenza di ipertrofia ventricolare sinistra, diagnosticata all’ECG (vedi Capitolo 3) è del 3-8% nei pazienti

con ipertensione lieve-moderata, mentre all’esame ecocardiografico (vedi Capitolo 4) la massa ventricolare è

aumentata in ipertesi non selezionati dal 12 al 30%, e dal 20 al 60% nei centri di riferimento.

L’ ipertrofia ventricolare sinistra diagnosticata con l’ecocardiogramma è un potente fattore di rischio

indipendente per eventi avversi cardiovascolari maggiori, ed aumenti progressivi della massa ventricolare sono

correlati continuativamente con il rischio cardiovascolare sia negli uomini che nelle donne, come dimostrato in

numerosi studi.

Per disfunzione diastolica del ventricolo sinistro s’intende invece l’incapacità di questa camera cardiaca, durante

la diastole, di accogliere il sangue a basse pressioni di riempimento, per cui il ventricolo può raggiungere un

volume telediastolico tale da garantire un’adeguata gittata sistolica solo a spese di un’aumentata pressione

diastolica la quale, a sua volta, si riflette in un incremento della pressione in atrio sinistro e nelle vene

polmonari.

Dal punto di vista fisiopatologico, la disfunzione diastolica può essere conseguenza di alterazioni funzionali della

fase attiva del rilasciamento ventricolare in protodiastole, o essere secondaria ad alterazioni della geometria

ventricolare sinistra o dell’architettura miocardica tali da compromettere le fisiologiche proprietà elastiche del

ventricolo sinistro coinvolte nel riempimento telediastolico.

La prevalenza di disfunzione diastolica negli ipertesi anziani è stata stimata intorno al 25%, ed è stato

dimostrato come questa rappresenti un predittore indipendente di eventi cardiovascolari avversi.

Le manifestazioni cliniche cardiache più gravi e comuni dell’ipertensione arteriosa sono identificate invece nella

cardiopatia ischemica, rappresentando l’infarto del miocardio la più frequente causa di mortalità nel paziente

iperteso, e la complicanza meno efficacemente influenzata dal trattamento antiipertensivo. Le manifestazioni

ischemiche nell’ipertensione arteriosa sono per lo più secondarie alla presenza di placche aterosclerotiche

coronariche, ma spesso possono essere caratterizzate da una disfunzione del microcircolo subendocardico che

determina una riduzione della riserva coronarica.

La malattia ipertensiva si manifesta anche con lo scompenso cardiaco, di tipo sistolico o diastolico (vedi Capitolo

19). Il primo si verifica nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra sistolica insorta secondariamente alla

presenza di una cardiopatia ischemica o di una cardiopatia ipertensiva evoluta attraverso lo sviluppo di una

disfunzione contrattile (evoluzione ipocinetica), il secondo tipo si associa invece ad una normale funzione

contrattile ventricolare e sembra essere secondario alla presenza di una disfunzione diastolica.

In ultimo, altre complicanze cardiache comuni nell’ipertensione arteriosa sono le aritmie, in particolare la

fibrillazione atriale. Questa aritmia è considerata secondaria alle modificazioni strutturali dell’atrio sinistro

conseguenti all’ aumento cronico delle pressioni atriali solitamente secondario alla presenza di una disfunzione

diastolica. Complicanze aritmiche più temibili sono invece quelle ventricolari che possono precipitare in una

morte improvvisa. In questo contesto è verosimile che giochino un ruolo fenomeni di rientro elettrico

ventricolare causati da un progressivo disarrangiamento dell’architettura miocardica, caratterizzato soprattutto

da un aumento della fibrosi interstiziale, frequentemente osservabile nelle alterazioni della geometria

ventricolare sinistra.

L’ipertensione arteriosa ha effetti patologici importanti anche sui reni, infatti circa il 20% degli ipertesi è affetto

da insufficienza renale cronica. Tuttavia la progressione dall’ipertensione non complicata all’insufficienza renale

non è rapida, bensì dura anni, periodo nel quale si verificano progressive alterazioni strutturali a carico dei reni

che, se dapprima non hanno delle ripercussioni funzionali importanti, successivamente determinano una

progressiva riduzione del filtrato glomerulare e lo sviluppo di insufficienza renale.

Un indice precoce di danno renale preclinico, in particolare negli ipertesi diabetici, è la presenza di

microalbuminuria, che consiste in un’aumentata escrezione di albumina nelle urine, compresa per definizione

tra i 30 ed i 300 mg/die, infatti oltre i 300 mg questa si definisce invece macroalbuminuria. Un aumento

dell’escrezione di albumina può semplicemente rappresentare una conseguenza dell’aumento della pressione

idrostatica intraglomerulare, ma può anche derivare da un danno della barriera glomerulare, o da un’alterazione

del riassorbimento tubulare dell’albumina filtrata. Anche la microalbuminuria rappresenta un predittore di

rischio indipendente per eventi cardiovascolari maggiori, particolarmente negli ipertesi diabetici, ed è stato

dimostrato come un rischio aumentato sussiste già per valori di microalbuminuria al di sotto del “cut-off” di

normalità.

Se non trattata, l’ipertensione arteriosa determina con il tempo una progressione inesorabile del danno renale,

particolarmente quando si associa al diabete, verso una riduzione significativa del filtrato glumerulare con lo

sviluppo d’insufficienza renale cronica, che è anche conseguente all’aumento importante delle resistenze

vascolari intraparenchimali renali. Questa evoluzione spinge i valori pressori ad aumentare ulteriormente

rendendo ancor più grave il quadro clinico e più difficile il trattamento.

Infine, va sottolineato che il danno vascolare tipico dell’ipertensione coinvolge in modo significativo l’encefalo,

in conseguenza dell’accelerato processo di aterosclerosi, nonché attraverso lo stimolo meccanico costituito dagli

elevati valori pressori. Alterazioni relativamente precoci sono osservate a carico del distretto carotideo, e

possono essere caratterizzate da un lieve ispessimento del complesso intima-media carotideo, o da lesioni

aterosclerotiche non stenosanti, oppure da placche che determinano stenosi di variabile severità del lume

vascolare. Tutte queste alterazioni, anche quando ancora nello stato preclinico, sono associate ad un rischio

aumentato di sviluppare eventi acuti cerebrovascolari, e per tal motivo una loro precoce individuazione

permette una migliore stratificazione del rischio del paziente iperteso e di conseguenza la scelta corretta della

strategia terapeutica più efficace.

Quando si manifesta clinicamente, la cerebrovasculopatia ipertensiva può essere caratterizzata da un quadro di

emorragia cerebrale, o più frequentemente dall’ictus ischemico o da un attacco ischemico transitorio (TIA), da

un infarto lacunare, od in ultimo da un’encefalopatia acuta ipertensiva.

VALUTAZIONE CLINICO-STRUMENTALE E STRATIFICAZIONE DEL RISCHIO CARDIOVASCOLARE

Valutazione clinico-strumentale e stratificazione del rischio cardiovascolare

L'ipertensione arteriosa rappresenta una condizione clinica che comporta un incremento del rischio

cardiovascolare, sia di per sé, attraverso i valori pressori elevati, sia perché tipicamente associata alla presenza

di una serie complessa di altri fattori di rischio ed alterazioni morfo-funzionali i quali, presentandosi nello stesso

soggetto secondo diverse possibili combinazioni, contribuiscono a definirne il profilo di rischio globale. Pertanto

la classificazione dell'ipertensione arteriosa basata sulla sola valutazione dei valori pressori non permette

un'adeguata rappresentazione del rischio individuale della patologia, che è invece la risultante dell'interazione

tra incremento pressorio e profilo di rischio concomitante.

Negli ultimi anni è di conseguenza radicalmente mutato l’orientamento clinico nei confronti del paziente

iperteso, con un approccio non più mirato solo alla riduzione dei valori pressori, ma basato innanzitutto sulla

valutazione del rischio cardiovascolare globale il quale deve successivamente guidare la condotta terapeutica.

Nell'approccio razionale al rischio cardiovascolare nel paziente iperteso, uno degli elementi essenziali è

certamente rappresentato dalla possibilità di quantificare il rischio del paziente attraverso una valutazione

integrata del contributo relativo di ciascuno dei fattori di rischio prima elencati (Tabella I). Secondo questa

logica, in un paziente con un aumento lieve dei valori di pressione arteriosa, la presenza di altri fattori di rischio

associati determina una probabilità di sviluppo di complicanze cardiovascolari comparabile o addirittura

maggiore rispetto a quella che caratterizza i pazienti con un aumento pressorio più marcato, ma isolato (Figura

1).

Sulla base di tali considerazioni, l’obiettivo principale della valutazione clinico-strumentale del paziente iperteso

è dunque quello di definirne il profilo di rischio globale, sia attraverso una buona raccolta anamnestica, che

permetta di capire quali altri fattori di rischio sono associati alla presenza di ipertensione, sia attraverso il loro

riscontro diretto mediante esami ematochimici o strumentali. Attraverso gli esami strumentali possiamo

valutare soprattutto se sono già presenti segni di danno d’organo causato dallo stato ipertensivo, la cui

presenza, come già precedentemente discusso, identifica una condizione a rischio aumentato.

Anamnesi. Nella raccolta della storia clinica occorre porre particolare attenzione ad individuare tutti quegli

elementi che possono indicare un aumento del rischio cardiovascolare.

Anzitutto è importante una raccolta di informazioni sui fattori che possono determinare un aumento della

pressione arteriosa del soggetto in esame, quali l’età, il sesso, l’ereditarietà, la razza, il consumo di alcool e di

caffè e lo stress. Successivamente è fondamentale chiedere informazioni sulla presenza di altri elementi che

possono influenzare il profilo di rischio, quali il diabete, la dislipidemia, il fumo di sigaretta, lo stile di vita e la

familiarità per malattie cardiovascolari.

Durante la raccolta anamnestica si deve porre attenzione inoltre all’eventuale uso di farmaci che possono

determinare un aumento dei valori pressori, quali i FANS, gli spray nasali ed i cortisonici, ed escludere

l’assunzione di sostanze stupefacenti, in particolare i simpatico-mimetici indiretti come la cocaina e

l’anfetamina. Bisogna infine indagare se già si sono verificati degli eventi cardiovascolari maggiori, quali l’angina

o l’infarto, o l’ictus, perché in tal caso il rischio cardiovascolare del soggetto è molto elevato (Tabella II).

Esame obiettivo. Anche se la maggior parte dei pazienti risulta normale all’esame fisico, un’attenta valutazione

del paziente iperteso è necessaria al fine di scoprire se vi sono segni che facciano sospettare un’ipertensione

secondaria e per valutare l’eventuale presenza di complicanze cardiovascolari (Tabella III).

Un momento importante nella raccolta dei dati obiettivi durante la visita medica è la misura della pressione

arteriosa. Grande attenzione deve essere posta nell'ottenere una misurazione corretta, focalizzandosi in

particolare sui seguenti aspetti:

• il paziente non deve aver fumato o assunto caffeina nei 30 minuti precedenti la misurazione;

• il paziente deve essere seduto comodamente con il bracciale posto a livello del cuore;

• la misurazione deve essere effettuata dopo almeno 5 minuti di riposo;

• si devono misurare le pressioni sistolica e diastolica utilizzando rispettivamente il I e il V tono di

Korotkoff; va quindi effettuata la media fra due o più misurazioni, separate da un intervallo di almeno 2

minuti;

• devono essere impiegati sfigmomanometri a mercurio (tipo Riva-Rocci) o in alternativa apparecchi

aneroidi tarati di recente; i bracciali devono essere di dimensioni appropriate, cioè con un manicotto che

circondi il braccio del paziente completamente o almeno per l'80%; nei bambini e negli obesi è

opportuno utilizzare bracciali specifici.

Nella valutazione del paziente in esame, oltre all’ esame obiettivo generale e cardiovascolare, è importante

rilevare il peso e la distribuzione del grasso corporeo, in particolare mediante la misurazione della circonferenza

addominale. L'obesità addominale rappresenta, infatti, un riconosciuto fattore di rischio cardiovascolare. Inoltre

tra massa corporea e ipertensione arteriosa vi è una correlazione significativa che è indipendente dall'età e dal

sesso, e tale relazione è confermata anche quando vengono impiegate le tecniche più raffinate per lo studio del

grasso corporeo. A tal proposito i normotesi obesi hanno maggiori probabilità di diventare ipertesi e gli ipertesi

magri di diventare obesi. Infine, a conferma dell'importanza di questo fattore, è stato dimostrato che

diminuzioni del peso corporeo di 12 kg e 3 kg indurrebbero riduzioni pressorie sistolica e diastolica

rispettivamente di 21/13 mmHg e di 7/4 mmHg.

Esami ematochimici e strumentali. Anche nelle recenti Linee Guida è stato raccomandato di effettuare una serie

di esami bioumorali e strumentali, allo scopo non solo di definire la presenza di danno d'organo nel paziente, ma

anche di identificare altri eventuali fattori di rischio associati. Alcune di queste indagini devono essere orientate

da informazioni desunte dall'anamnesi e dall'esame obiettivo.

Esame emocromocitometrico: studia la crasi ematica, gli stati anemici, gli stati infettivi, etc…

- Creatininemia e clearance della creatinina: studio della funzione renale. Queste analisi permettono di scoprire

alterazioni renali che possono concorrere allo sviluppo di ipertensione o esserne una conseguenza. Se la

creatininemia inizia a elevarsi quando la funzione renale scende sotto i 50-45 ml/min, il calcolo della clearance

invece, fornisce informazioni più precise.

- Glicemia basale, colesterolemia totale e le sue frazioni LDL ed HDL, la trigliceridemia e l’uricemia: quando

alterati, questi parametri amplificano gli effetti lesivi dell'ipertensione costituendo ulteriori fattori di rischio

cardiovascolare.

- Potassiemia: in genere è marcatamente alterata (ipopotassiemia) nella sindrome di Conn, nella sindrome di

Cushing, nell'ipertensione nefrovascolare e durante l'assunzione non controllata di diuretici.

- Esame delle urine: può mostrare una microalbuminuria od una proteinuria franca, oppure la presenza di

cilindri, leucociti, emazie, etc.

- Elettrocardiogramma (vedi Capitolo 3): può evidenziare un sovraccarico o un'ipertrofia del ventricolo sinistro

mediante i criteri di Sokolow- Lyon (SV1+RV5 o V6 = 3,8 mV) o di Cornell-voltaggio (SV3+Ra Vl = 2,8 negli

uomini e 2,0 mV nelle donne). Rispetto all'ecocardiogramma è comunque un test molto meno sensibile anche

se specifico.

- Ecocardiogramma (vedi Capitolo 4): fornisce dati più affidabili su un'eventuale presenza di ipertrofia e sulla

geometria e funzionalità del ventricolo sinistro. Consente inoltre di determinare la presenza di una disfunzione

diastolica e di classificarla nei suoi 3 pattern di disfunzione a gravità crescente.

- Eco-Doppler arterioso (vedi Capitolo 12): per lo studio dei distretti arteriosi epiaortico e degli arti inferiori.

Particolarmente importante lo studio ecoDoppler delle arterie carotidi, per la quantificazione dello spessore del

complesso intima-media carotideo.

- Monitoraggio dinamico della pressione arteriosa per 24 ore (ABPM): consiste nella registrazione per 24 h dei

valori di pressione arteriosa campionati circa ogni 30 minuti. Può fornire importanti informazioni quando vi sono

marcate differenze fra i valori pressori riscontrati in più visite, o quando ci sono discordanze tra i livelli

riscontrati dal medico e quelli registrati dal paziente; è inoltre utile per verificare il ritmo circadiano della

pressione e l’efficacia della terapia antiipertensiva.

- Automisurazione della pressione arteriosa a domicilio dal paziente: consente la raccolta di valori pressori per

diversi giorni e offre la possibilità di ottenere la loro media anche su molti mesi, coinvolgendo il paziente nella

gestione del suo problema. La Tabella IV propone i valori di riferimento della popolazione normale con le

differenti tecniche di misurazione della pressione arteriosa.

- Esame del fondo dell'occhio: rileva le alterazioni delle arterie retiniche legate allo stato ipertensivo. Secondo le

ultime Linee Guida assume un valore specifico solo in forme gravi di ipertensione, in grado di determinare la

comparsa di essudati ed emorragie della retina (III-IV stadio della classificazione della retinopatia secondo

Keith e Wegener).

Tabella 4 Dati anamnestici da raccogliere durante la valutazione del paziente iperteso, secondo le Linee

Guida ESC/ESH 2007.

Tabella 3 Fattori di rischio e condizioni cliniche associate da valutare nella stratificazione del rischio

cardiovascolare, come suggerito dalle Linee Guida ESC/ESH.

IPERTENSIONE ARTERIOSA SECONDARIA

Ipertensione arteriosa secondaria

L’ipertensione arteriosa secondaria rappresenta circa il 5% dei casi di ipertensione ed è la conseguenza di un

disordine primitivo soprattutto di tipo renale od endocrinologico.

La ricerca di un'ipertensione secondaria dev'essere attuata con massimo scrupolo, soprattutto nei soggetti

giovani, in quanto nella maggior parte dei casi la sua causa può essere rimossa ed in questi casi l’ipertensione

può essere curata evitando una terapia per il resto della vita. Per tal motivo, quando vi è il sospetto di

un’ipertensione arteriosa secondaria è necessario procedere con la valutazione strumentale del paziente con

l’ausilio di esami specifici.

• Ipertensione nefroparenchimale. Tutte le patologie parenchimali renali che determinino una riduzione

dell’escrezione di acqua e sodio, ed un’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone

provocano lo sviluppo di ipertensione. Uno stato ipertensivo si associa infatti a malattie renali acute quali

l’insufficienza acuta secondaria a cause renali e post-renali o le sindromi nefritiche, o a disordini di tipo

cronico quali il rene policistico e l’insufficienza renale cronica. Cause più rare di ipertensione

nefroparenchimale sono i tumori secernenti renina.

Nel sospetto di un’ ipertensione nefroparenchimale sono utili gli esami ematochimici per valutare la funzionalità

renale, l’esame dell’urine, e in alcuni casi l’ecografia renale.

• Ipertensione nefrovascolare. Questa frequente causa di ipertensione secondaria è associata ad una

stenosi mono o bilaterale dell’arteria renale dovuta ad un processo aterosclerotico, o, nel caso di soggetti

giovani soprattutto se donne, alla presenza di una displasia fibro-muscolare. La riduzione del flusso

renale secondaria alla stenosi determinerà un’aumentata e non regolata secrezione di renina e la

successiva formazione di angiotensina II con un aumento della vasocostrizione periferica, aumento del

riassorbimento di acqua e sodio, e incremento rapido dei valori di pressione arteriosa. Ed è proprio uno

sviluppo rapido di uno stato ipertensivo non controllabile con la terapia medica, od insorto in un paziente

giovane, che deve assolutamente porre il sospetto di un’ipertensione nefrovascolare.

Questa dal punto di vista ematochimico si manifesta con ipopotassiemia, e con un aumento combinato dei livelli

di renina ed aldosterone. Esami strumentali molto utili ai fini diagnostici sono l’ecocolor-Doppler dell’arterie

renali nel caso di stenosi prossimali, o alternativamente l’angio-TC e l’angio-RM renali. La metodica “gold

standard”, anche se raramente viene impiegata per la prima diagnosi, è l’angiografia delle arterie renali. Nel

sospetto di un’ipertensione nefrovascolare bisogna prescrivere con estrema cautela ed a bassi dosaggi i farmaci

ACE-inibitori, per il rischio di ipotensioni acute o di una riduzione brusca della perfusione renale con lo sviluppo

di insufficienza acuta.

• Iperaldosteronismo primitivo. Le sindromi da eccesso primitivo di mineralcorticoidi sono rappresentate

nel 30% dei casi da un adenoma surrenalico, più frequente nelle donne e nei bambini, e nel 70% dei casi

da un’iperplasia surrenalica. Condizioni più rare sono secondarie al carcinoma surrenalico o

all’iperaldosteronismo sensibile ai glucocorticoidi. Un iperaldosteronismo va sospettato in presenza di

un’ipertensione resistente alla terapia, eventualmente associata ad astenia, crampi muscolari, poliuria,

polidipsia e palpitazioni. Il dato ematochimico più importante è l’ipopotassiemia associata ad

un’aumentata potassiuria, con un pH ematico che risulta aumentato per incremento dei bicarbonati. I

livelli di aldosterone sono aumentati, mentre quelli di renina soppressi, per cui il rapporto aldosterone

plasmatico/attività reninica plasmatica è generalmente aumentato. Per la diagnosi definitiva di

iperaldosteronismo primario ci si può avvalere di test dinamici di conferma. Tra questi il più diffuso è

quello del ”carico salino”: se i livelli sierici di aldosterone non risultano soppressi dopo il test si può fare

diagnosi di iperaldosteronismo primitivo. La diagnosi di iperaldosteronismo può essere confermata anche

dal test di soppressione al fludrocortisone. In presenza di iperaldosteronismo primario la

somministrazione per 4 giorni di fludrocortisone non determina la soppressione dei livelli plasmatici di

aldosterone.

• Feocromocitoma. Il feocromocitoma è un tumore del tessuto cromaffine della midollare del surrene o del

tessuto paragangliare, e si manifesta clinicamente attraverso l’ aumentata increzione di adrenalina e

noradrenalina. Il feocromocitoma rappresenta una causa rara di ipertensione arteriosa, ma se non

riconosciuta mette seriamente in pericolo la vita del paziente. Uno stato ipertensivo è presente in tutti i

soggetti affetti, più frequentemente a crisi o talora cronico. I sintomi più comuni sono l’ansietà, le

palpitazioni, la cefalea, l’arrossamento improvviso del viso (flushing) e le sudorazioni profuse.

La diagnosi di feocromocitoma può essere fatta mediante il dosaggio delle catecolamine plasmatiche ed urinarie

e dei loro metaboliti, più facilmente se i campioni vengono ottenuti durante le crisi ipertensive. I dosaggi

dell’acido vanilmandelico e delle metanefrine plasmatiche e urinarie frazionate rappresentano gli esami più

attendibili. Nel sospetto diagnostico si può ricorrere anche all’impiego di test farmacologici di inibizione o

stimolazione, con clonidina e glucagone rispettivamente, o utilizzare subito metodiche d’”imaging” quali

l’ecografia, la TC o la RMN, di solito impiegate per localizzare il tumore.

• Coartazione Aortica. La coartazione aortica (vedi Capitolo 52) consiste in una stenosi congenita dell’aorta

generalmente distale all’origine del dotto arterioso che si associa frequentemente ad altre anomalie quali

la bicuspidia aortica gli aneurismi “a bacca” cerebrali. Questa è una causa rara di ipertensione arteriosa

secondaria soprattutto nei bambini e negli adolescenti. La diagnosi è di solito clinica ed è legata al

riscontro di un’ipertensione esclusivamente a livello degli arti superiori e di un ipotensione a livello degli

arti inferiori, alla presenza di un ritardo del polso femorale rispetto a quello radiale, all’ascoltazione di un

soffio continuo al dorso, nella regione interscapolare, ed alla presenza di una spiccata pulsatilità delle

arterie intercostali. La diagnosi di conferma invece può essere fatta invece agevolmente mediante un

angio-TC del torace ed un’aortografia. La terapia della coartazione aortica può essere percutanea,

mediante l’apposizione di stent, o chirurgica.

• Ipertensione indotta da farmaci. Alcune sostanze e farmaci possono determinare un’ipertensione

arteriosa e queste sono: la liquirizia, gli spray nasali vasocostrittori, i contraccettivi orali, i FANS, i

corticosteroidi, la ciclosporina e l’eritropoietina. Fondamentale pertanto è la ricerca anamnestica dell’uso

di tali sostanze per poter effettuare una diagnosi rapida.

TRATTAMENTO

Trattamento

La finalità principale del trattamento dell’ipertensione arteriosa consiste soprattutto nella prevenzione dello

sviluppo delle sue complicanze cardio- e cerebrovascolari, e tali benefici terapeutici possono essere raggiunti

non solo mediante la riduzione dei valori pressori, peraltro implicati direttamente nello sviluppo di alcune

complicanze, ma anche attraverso la correzione dei diversi fattori di rischio frequentemente associati

all’ipertensione. Di conseguenza è molto importante, prima di iniziare un trattamento antiipertensivo, una

valutazione clinica globale del paziente che miri a definire al meglio il suo profilo di rischio cardiovascolare, sia

sulla base dell’entità della malattia ipertensiva, sia sulla base degli altri fattori di rischio associati.

Gli interventi terapeutici antipertensivi possono essere divisi in interventi di tipo non farmacologico, basati sulle

modifiche dello stile di vita e delle abitudini comportamentali, ed in interventi di tipo farmacologico, basati

sull’impiego di diverse classi di farmaci sia da soli che in associazione tra loro. Sulla base delle ultime Linee

Guida emanate dall’ESH/ESC del 2007 sulla gestione clinica dell’ipertensione arteriosa, nei pazienti a rischio

cardiovascolare basso-moderato in generale è indicato iniziare solo un trattamento non farmacologico

rivalutando dopo pochi mesi i soggetti, ed associando successivamente un trattamento farmacologico qualora i

valori pressori non risultino controllati. Di contro, nei soggetti a rischio elevato è in genere opportuno un

approccio terapeutico più aggressivo, combinando gli interventi non farmacologici con una terapia farmacologica

(monoterapia o terapia di associazione) (Figura 2).

• Interventi di tipo non farmacologico

Gli interventi non farmacologici possono contribuire a ridurre i valori pressori ed il rischio cardiovascolare

globale del paziente iperteso, nonché a favorire un ricorso più contenuto alla terapia farmacologica. Sebbene

siano spesso di non facile attuazione pratica e non ne siano mai stati documentati in maniera completa gli

effetti a lungo termine sulla morbilità e mortalità cardiovascolare e globale, gli interventi non farmacologici non

presentano (al contrario di quelli farmacologici) controindicazioni di impiego.

Tre approcci terapeutici si sono dimostrati in grado di esercitare documentati effetti antipertensivi: il calo

ponderale, la dieta iposodica e l’esercizio fisico regolare.

Considerata l'evidenza epidemiologica di una relazione diretta tra peso corporeo, distribuzione anatomica del

grasso corporeo e pressione, non sorprende che una restrizione dell'apporto calorico si sia dimostrata in grado

di ridurre i valori pressori, essendo l'entità dell'effetto antipertensivo medio pari ad una diminuzione di circa 1,5

mmHg di pressione arteriosa sistolica e 1,3 mmHg di diastolica per ciascun chilo di peso corporeo perso.

Gli effetti antipertensivi di una restrizione alimentare sodica sono stati oggetto di numerose meta-analisi, che

complessivamente hanno evidenziato un’azione antipertensiva piuttosto modesta (3-5 mmHg per la sistolica e

2-3 per la diastolica). La restrizione sodica inoltre, non deve essere marcata (consumo giornaliero <2 grammi

NaCl), perché è stato dimostrato come questa induca effetti metabolici sfavorevoli e stimoli il sistema renina-

angiotensina ed il sistema nervoso adrenergico.

Allo stato attuale pertanto, una modica restrizione sodica (consumo giornaliero <4 grammi NaCI) è indicata nel

trattamento del paziente iperteso, specie considerando come questo intervento non farmacologíco si sia

dimostrato in grado di potenziare l'efficacia antipertensiva della stessa terapia farmacologica.

Infine studi clinici controllati hanno pressoché uniformemente dimostrato che l'esercizio fisico regolare di

moderata intensità (rappresentato da un incremento pari a circa il 40% del consumo di ossigeno valutato a

riposo) è in grado, dopo un congruo periodo di tempo, di ridurre i valori pressori sisto-diastolici (circa 6-8

mmHg a seconda dei valori pressori di partenza e del tipo di attività fisica). Tali modificazioni si accompagnano

ad un miglioramento del profilo di rischio cardiovascolare in virtù degli effetti emodinamici (vasodilatazione) e

metabolici favorevoli (miglioramento dell’ insulino-sensibilità e del profilo lipidico) di un training fisico costante.

• Interventi antiipertensivi di tipo farmacologico

Il trattamento farmacologico dell’ipertensione arteriosa deve essere intrapreso quando non si ottengono risultati

sufficienti con gli interventi non farmacologici, o quando i valori pressori basali ed il rischio cardiovascolare del

paziente sono molto elevati.

L’obiettivo terapeutico essenziale della terapia farmacologica è il raggiungimento di valori pressori ottimali, e se

questo non è possibile con l’impiego di un solo farmaco è consigliabile adottare un’associazione tra due o, se

necessario, più molecole. La scelta del tipo di farmaco da prescrivere ad un paziente iperteso non è però basata

solo sulla efficacia antiipertensiva, bensì anche sui possibili effetti benefici sulla riduzione del danno d’organo

cardiovascolare e renale, su eventuali sue azioni positive sulle alterazioni metaboliche concomitanti, quali il

diabete o la dislipidemia, ed in ultimo, deve tener conto della tipologia del paziente (età, sesso, comorbidità),

degli effetti collaterali, delle preferenze del paziente, di precedenti esperienze terapeutiche e di aspetti socio-

economici (Tabella V).

Le principali classi di farmaci anti-ipertensivi (vedi Capitolo 58) sono:

• Ace-inibitori: sono una classe di farmaci con documentata efficacia antipertensiva, caratterizzata da

effetti benefici sull’apparato cardiovascolare, particolarmente nei pazienti con cardiopatia ischemica,

disfunzione ventricolare sinistra e scompenso cardiaco. Sono molto utili per rallentare la progressione del

danno renale, in particolare nei diabetici, ed hanno un profilo metabolico sostanzialmente neutro.

Principali effetti collaterali sono la tosse, l’ipotensione da prima dose e raramente l’angio-edema della

glottide. Le principali controindicazioni sono l’insufficienza renale cronica, la gravidanza e la stenosi

bilaterale delle arterie renali.

• Calcio-antagonisti: i calcio-antagonisti possono svolgere i loro effetti prevalentemente sul cuore (non

diidropiridinici, diltiazem o verapamil) od essere principalmente dei vasodilatatori periferici

(diidropiridinici); quest’ultimi in particolare hanno una spiccata azione anti-ipertensiva e si sono

dimostrati efficaci nel ridurre gli eventi cardiovascolari. Sono molto utili in prescrizione singola od in

associazione con altri farmaci in particolare gli inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone.

• Bloccanti recettoriali dell’angiotensina II (o sartanici): sono farmaci efficaci e molto ben tollerati anche in

quanto caratterizzati da un’azione farmacologia molto selettiva (blocco dei recettori AT-1

dell’angiotensina II). Questa classe è particolarmente utile nell’ipertensione arteriosa, in particolare nei

pazienti con danno d’organo sia cardiaco che renale, e con presenza di diabete o sindrome metabolica.

• Diuretici: sono i farmaci antiipertensivi più lungamente sperimentati, e quelli tiazidici sono

particolarmente efficaci nel ridurre l’insorgenza di complicanze cardiovascolari maggiori. Sono inoltre

spesso prescrivibili in associazione precostituita con farmaci inibitori del sistema renina-angiotensina. Le

controindicazioni all’uso dei diuretici sono soprattutto la scarsa “compliance” del paziente legata ad

effetti indesiderati ed alcuni effetti collaterali quali lo squilibrio elettrolitico, in particolare l’ipopotassemia,

l’iperuricemia e le alterazioni del metabolismo glico-lipidico.

• Beta-bloccanti: sono particolarmente indicati nei pazienti ipertesi affetti da cardiopatia ischemica,

disfunzione ventricolare sinistra sistolica, tachicardia, oppure ipertiroidismo. Sono controindicati nei

pazienti bradicardici o con turbe della conduzione atrio-ventricolare, con asma o con broncopneumopatia

cronica ostruttiva, con vasculopatia periferica o con insulino-resistenza.

I farmaci antiipertensivi appartenenti a queste classi farmacologiche possono essere associati tra loro

specialmente se presentano meccanismi d’azione diversi e complementari, se l’efficacia ipotensivante è

superiore quando associati rispetto a quando somministrati in monoterapia, ed in ultimo se l’associazione è ben

tollerata.

Altri farmaci antiipertensivi da usare in terapia addizionale, qualora non vengano raggiunti gli obiettivi,

includono gli alfa-bloccanti, in particolare nei pazienti con ipertrofia prostatica, gli anti-ipertensivi ad azione

centrale, soprattutto alfa-metildopa e clonidina, ed i farmaci anti-aldosteronici, che trovano indicazione

soprattutto nelle forme legate ad iperaldosteronismo e nell’ipertensione refrattaria o resistente.

URGENZE ED EMERGENZE IPERTENSIVE

Urgenze ed emergenze ipertensive

Le urgenze ed emergenze ipertensive sono forme cliniche caratterizzate da un notevole rialzo pressorio

(solitamente PAD >130 mmHg) che richiedono un abbassamento rapido della pressione. Queste condizioni

possono essere distinte in urgenze ed emergenze ipertensive. Per urgenza ipertensiva s’intende un marcato e

rapido rialzo pressorio peraltro non associato a segni di danno d’organo acuto cardiaco o neurologico e possono

essere risolte nell’arco delle 24 ore. Le emergenze ipertensive sono invece quelle situazioni nelle quali, per la

presenza di segni di danno d'organo collegati al rialzo pressorio, e per grave pericolo di vita, è indispensabile

una riduzione della pressione arteriosa entro 1 ora.

Le alterazioni d’organo che possono essere riscontrate nell’emergenza ipertensiva sono l’infarto miocardico

acuto o l’angina instabile, lo scompenso cardiaco acuto, la dissezione aortica e l’emorragia cerebrale. Un altro

tipo particolare ed altrettanto grave di emergenza ipertensiva è l’encefalopatia ipertensiva, caratterizzata da

disturbi neurologici reversibili come la cefalea, alterazioni visive e dello stato di coscienza, nausea e vomito.

Questa, se non trattata può evolvere rapidamente in uno stato di coma e successivamente in exitus. La

fisiopatologia dell’encefalopatia ipertensiva è legata alla presenza di una necrosi fibrinoide arteriolare

generalizzata e di una dilatazione sproporzionata delle arterie cerebrali con un conseguente iperafflusso

sanguigno.

Nelle emergenze ipertensive il trattamento deve essere iniziato il più rapidamente possibile con l'obiettivo non

di ottenere l'immediato ripristino di livelli pressori normali, ma di arrivare a limiti di "sicurezza" senza

indurre, nello stesso tempo, complicanze cerebrali, coronariche o renali legate all’induzione di ipotensione

troppo rapida.

I farmaci di elezione nell’emergenza ipertensiva somministrati per via endovenosa sono la clonidina, il

nitroprussiato o nitroglicerina ed il labetalolo. Di solito è sempre consigliabile embricare alla terapia endovenosa

una terapia per via orale.

Sezione XIII. Arteriosclerosi

Capitolo 46. L’Aterosclerosi, Paolo Golino

DEFINIZIONE

L’aterosclerosi, dal greco atére (sostanza pastosa) e sclerosis (indurimento), è un processo degenerativo che si

sviluppa a carico della parete delle arterie di grosso e medio calibro. La lesione anatomo-patologica

fondamentale dell’aterosclerosi è rappresentata dall’ateroma o placca, una deposizione rilevata, focale, fibro-

adiposa della parete arteriosa. L’ateroma è costituito da un centro, o core, composto prevalentemente da lipidi

e matrice extracellulare, ma anche da una componente cellulare (cellule muscolari lisce, macrofagi, linfociti); un

cappuccio fibroso riveste il core lipidico e lo separa dal sangue circolante (Figura 1).

ANATOMIA PATOLOGICA

Considerazioni introduttive

L’aterosclerosi è la causa principale di numerose importanti malattie del sistema cardiovascolare, quali l’infarto

miocardico, l’angina pectoris, e l’ictus cerebrale, che insieme rappresentano di gran lunga la causa di morte più

frequente nei paesi occidentali. Fino a venti anni or sono, il nostro concetto dell’aterosclerosi era quello di una

lenta malattia da accumulo di lipidi: i depositi lipidici che si venivano a formare sulla superficie delle arterie

crescevano sporgendo all’interno del lume fino a compromettere ed eventualmente bloccare completamente il

flusso ematico ai tessuti interessati, causandone la necrosi ischemica. Questo concetto “tradizionale”

dell’aterosclerosi guardava alle arterie come condotti passivi sui quali si andavano a depositare i lipidi circolanti

che rappresentavano quindi il centro fisiopatologico della malattia. Questa teoria è stata oggi soppiantata, in

quanto sappiamo che la parete arteriosa non possiede un ruolo passivo ma, al contrario, è una struttura

complessa formata da numerosi tipi cellulari che partecipano attivamente al processo aterosclerotico. Sappiamo

inoltre che l’infiammazione gioca un ruolo chiave in tutti gli stadi di sviluppo dell’aterosclerosi, dalla formazione

della lesione iniziale, allo sviluppo della placca, fino alla sua complicanza (erosione, ulcerazione, etc) con

conseguente formazione di un trombo intravascolare. E’ proprio il trombo che, causando una improvvisa

ostruzione al flusso ematico, si rende responsabile delle conseguenze più gravi e temibili dell’aterosclerosi,

come l’infarto miocardico e l’ictus cerebrale. Negli ultimi anni, data la difficoltà a tenere separati il processo

aterosclerotico da quello trombotico, si preferisce parlare di aterotrombosi, a sottolineare la presenza di un

continuum fisiopatologico che unisce i due fenomeni (Figura 2).

Le fasi dell’aterosclerosi

Fase di inizio.

Le prime fasi dell’aterogenesi nell’uomo rimangono largamente speculative. Tuttavia, l’integrazione di

osservazioni ottenute in giovani adulti deceduti per cause traumatiche con quelle degli studi condotti negli

animali da esperimento possono dare utili spunti. In condizioni normali, il monostrato di cellule endoteliali che

riveste tutto l’albero vascolare si oppone all’adesione dei leucociti. Tuttavia, la presenza di alcuni elementi

induttori, quali una dieta ad alto contenuto di grassi saturi, il fumo di sigaretta, l’ipertensione e l’iperglicemia

possono favorire l’espressione da parte delle cellule endoteliali di alcune proteine cosiddette di adesione, in

grado cioè di legare alcuni recettori presenti sulla membrana dei leucociti. Tra queste, la “vascular cell adhesion

molecule-1” (VCAM-1) sembra particolarmente importante perché si lega ad un recettore presente sulla

membrana dei monociti e dei linfociti T, due tipi cellulari presenti pressoché costantemente nelle lesioni

aterosclerotiche iniziali (Figura 3). Una volta che i leucociti abbiano aderito all’endotelio, devono ricevere un

segnale specifico per penetrare nello spazio sottoendoteliale. Diversi mediatori chimici di natura proteica,

denominati chemochine, con proprietà chemiotattiche nei confronti dei leucociti, sono deputati a svolgere

questo compito (Figura 3). Due gruppi di chemochine sono particolarmente importanti nel reclutare i monociti

all’interno delle lesioni iniziali: una è la cosiddetta “monocyte chemoattractant protein-1 (MCP-1), che viene

prodotta dalle cellule endoteliali e muscolari lisce in risposta ad alcuni stimoli nocivi come le lipoproteine

ossidate. MCP-1 promuove la migrazione unidirezionale (chemiotassi) dei monociti all’interno della parete

vasale. L’importanza di MCP-1 nel contribuire all’iniziale reclutamento dei monociti all’interno della parete

vasale durante le fasi precoci dell’aterogenesi è dimostrata da alcuni studi condotti nell’animale da esperimento

in cui la produzione di MCP-1 veniva inibita attraverso tecniche di ingegneria genetica. Negli animali

geneticamente modificati e sottoposti a dieta aterogena, le lesioni aterosclerotiche risultavano più piccole e

meno numerose rispetto agli animali di controllo. Altre chemochine importanti nel reclutare i monociti in questa

fase dell’aterogenesi sono l’interleuchina-8 e l’interferone , ambedue presenti in alte concentrazioni all’interno

delle lesioni iniziali.

Focalità delle lesioni aterosclerotiche

E’ interessante notare che le lesioni aterosclerotiche non si sviluppano a caso all’interno dell’albero coronarico

ma al contrario tendono a crescere con maggior frequenza in zone specifiche, come ad esempio le biforcazioni,

probabilmente a causa del tipo di flusso ematico che in queste aree si forma. Un ruolo importante nella

regolazione delle funzioni endoteliali è infatti svolto dallo “shear stress”, cioè dalle forze tangenziali che il

sangue esercita sulla parete vasale. Uno shear stress laminare ed uniforme induce l’aumento di espressione di

una serie di geni, quali la superossido-dismutasi, la ciclo-ossigenasi e la NO-sintetasi, enzimi che possiedono

attività antiossidanti, antitrombotiche ed antiadesive nei riguardi delle piastrine e dei leucociti e quindi, in

definitiva, svolgono attività di protezione nei riguardi del vaso rispetto all’aterogenesi. Lo shear stress

turbolento o comunque non laminare non induce i suddetti geni ateroprotettivi, per cui l’endotelio per flussi lenti

e turbolenti, quali quelli che si formano in corrispondenza delle biforcazioni, è meno protetto dagli agenti

aterogeni.

Formazione delle strie lipidiche

Una volta giunti nello spazio sottoendoteliale, i monociti si trasformano in macrofagi, esprimono elevate

quantità di recettori “spazzini” sulla loro membrana, soprattutto nei confronti delle lipoproteine modificate dallo

stress ossidativo, e cominciano a fagocitare le lipoproteine, fino a riempire gran parte del citoplasma,

diventando cellule schiumose, cellule di grosse dimensioni il cui citoplasma è letteralmente stipato di lipidi,

esteri del colesterolo e lipoproteine ossidate. Allo stesso tempo, i macrofagi proliferano, aumentando di numero,

e producono numerosi fattori di crescita e citochine che agiscono sostenendo e amplificando i segnali pro-

infiammatori. A questo stadio, la lesione aterosclerotica è rappresentata dalla cosiddetta stria lipidica che

macroscopicamente appare come una stria giallastra (dato l’alto contenuto in lipidi) sulla superficie della tonaca

intima (Figura 4). Non tutte le strie lipidiche però evolvono verso la formazione di una placca avanzata e,

d’altra parte, esse vengono evidenziate all’esame autoptico molto frequentemente anche in soggetti giovani e

sani. La stria lipidica, quindi, non possiede necessariamente un significato patologico. Tuttavia, nella società

moderna dove prevale uno stile di vita caratterizzato da una elevata sedentarietà e da un eccesso di

disponibilità di cibo, la progressione della lesione aterosclerotica dalla stria lipidica alla formazione della placca

conclamata è purtroppo un evento frequente che può verificarsi precocemente nel corso della vita. Studi

autoptici hanno dimostrato che negli Stati Uniti 1 teenager su 6 mostra un ispessimento patologico delle arterie

coronarie, indicando che nelle società contemporanee l’aterosclerosi è un processo che comincia precocemente

nella vita di un individuo, anche se le sue complicanze sono caratteristiche della mezza età.

Formazione della placca conclamata

Da un punto di vista istologico la stria lipidica è principalmente caratterizzata dalla presenza di macrofagi che

hanno fagocitato elevate quantità di lipidi (cellule schiumose). Caratteristiche più complesse, come la fibrosi, la

necrosi del core lipidico, la trombosi e l’elevato grado di calcificazione, sono tipicamente assenti nelle strie

lipidiche, che rappresentano lesioni iniziali e largamente reversibili, almeno in determinate condizioni. Che cosa

allora si rende responsabile, in alcuni individui, della progressione della stria lipidica verso la placca

conclamata? Nell’ultima decade la ricerca medica è stata particolarmente attiva in questo ambito e numerosi

studi, sia clinici che sperimentali, hanno dimostrato un ruolo fondamentale dell’infiammazione e del sistema

immunitario nel processo dell’aterogenesi.

Nella fase precoce della formazione dell’ateroma, il macrofago-cellula schiumosa reclutato all’interno della

parete vasale serve non solo come deposito dei lipidi in eccesso ma anche come promotore di fenomeni

infiammatori. Infatti, tale cellula è in grado di produrre una grande quantità di citochine e chemochine pro-

infiammatorie, nonché alcuni mediatori chimici di derivazione dall’acido arachidonico, come i leucotrieni e le

prostaglandine. Inoltre, i macrofagi sono in grado di produrre elevate quantità di specie molecolari altamente

ossidanti, come l’anione superossido, che contribuisce ad ossidare ulteriormente le lipoproteine presenti

all’interno della lesione, aumentando quindi i fenomeni di infiammazione locale e contribuendo alla formazione

di un circolo vizioso che culmina con la progressione della lesione aterosclerotica. In questo contesto, il sistema

immunitario gioca un ruolo di primaria importanza nel sostenere e favorire la progressione della placca.

Il termine immunità innata si riferisce quella serie di eventi che amplificano la risposta infiammatoria in assenza

di stimolazione antigenica (Figura 5). Fanno parte dell’immunità innata i fenomeni di fagocitosi, la produzione

di molecole pro-infiammatorie come le proteine di fase acuta, tipicamente rappresentate dalla proteina C-

reattiva, ecc.

Oltre all’immunità innata, numerose evidenze hanno ampiamente dimostrato l’importanza dell’immunità

acquisita nel modulare i fenomeni aterosclerotici. L’immunità acquisita, o antigene-specifica, costituisce la

risposta dell’organismo nei confronti di sostanze estranee (antigeni) ed è un fenomeno di grande complessità

non ancora compreso completamente (Figura 5). Viene oggi largamente riconosciuto che la lesione

aterosclerotica possiede tutte le caratteristiche di una malattia infiammatoria cronica a progressione lenta con

coinvolgimento di molti tipi cellulari a funzione immuno-infiammatoria come i monociti/macrofagi, le mast

cellule, le cellule dendritiche, i linfociti T e le cellule “natural killer”. Inoltre, nelle lesioni avanzate si ritrovano

anche componenti del sistema del complemento in stretta vicinanza alla proteina C reattiva e ad

immunoglobuline spesso legate ad antigeni specifici a formare immuno-complessi. E’ stato poi osservato che

componenti cellulari costitutivi della parete vasale, come le cellule muscolari lisce, possono, in determinate

condizioni, aumentare l’espressione delle molecole HLA di classe II che sono coinvolte nel processo di

riconoscimento dell’antigene da parte dei linfociti T. Infine, il ruolo del sistema immunitario nel modulare lo

sviluppo e la crescita delle lesioni aterosclerotiche viene anche indirettamente dimostrato dalle numerosi

osservazioni ottenute nell’animale da esperimento che dimostrano come l’andamento dell’aterogenesi possa

essere significativamente modificato da interventi che interferiscono con i vari aspetti della risposta immune.

Se da un lato esistono pochi dubbi circa l’importanza dell’immunità acquisita nella formazione e nell’evoluzione

della lesione aterosclerotica, dall’altro le ipotesi riguardo l’identità dell’antigene(i) coinvolto(i) in tale fenomeno

rimangono largamente speculative. Possibili candidati sono le lipoproteine ossidate che, esposte ad un

microambiente altamente ossidante quale lo spazio sottoendoteliale, vengono modificate nella loro struttura

terziaria in modo da renderle estranee (“non-self”) al sistema immunitario. Un’altra possibilità è rappresentata

dalla presenza di antigeni batterici o virali che risultano simili ad alcune sostanze dell’organismo. In tal caso, si

verrebbe a creare l’attivazione del sistema immunitario nei confronti di antigeni propri dell’organismo perché

simili antigenicamente a sostanze estranee (fenomeno della somiglianza antigenica). Un esempio a tale

riguardo potrebbe essere la proteina legata allo shock termico (Heat Shock Protein, HSP). Le HSP sono una

famiglia di proteine che hanno lo scopo di riparare altre molecole proteiche che hanno subito un danno da

agenti nocivi, come ad esempio il riscaldamento eccessivo, da cui il nome. Esse sono molto importanti

filogeneticamente per l’economia cellulare, tant’è che sono presenti praticamente in tutti gli esseri viventi, dai

batteri agli organismi complessi come i mammiferi. E’ stato osservato che alcune HSP batteriche, in particolare

quelle della Clamidia Pneumoniae, hanno una forte somiglianza antigenica con la HSP 45 umana, ed è quindi

possibile che una infezione da Clamidia con successiva localizzazione dell’agente patogeno all’interno della

placca aterosclerotica possa portare alla attivazione del sistema immunitario nei confronti di antigeni “self”. In

ogni caso, una volta che l’antigene viene riconosciuto come estraneo, si verifica l’attivazione delle cellule T che,

a loro volta, secernono una grande quantità di citochine che vanno a modulare i vari processi dell’aterosclerosi.

Mentre gli eventi iniziali della formazione dell’ateroma coinvolgono primariamente la disfunzione endoteliale e il

reclutamento dei leucociti, la successiva evoluzione verso la formazione di una placca complessa coinvolge

anche le cellule muscolari lisce della parete arteriosa. Le cellule muscolari lisce presenti nella lesione

aterosclerotica provengono per migrazione da quelle normalmente presenti nella tonaca media; lo stimolo

chemiotattico è in questo caso rappresentato principalmente dal “platelet-derived growth factor” (PDGF),

secreto dalle piastrine e dai macrofagi, che possiede anche potenti effetti mitogeni. Infatti, all’interno della

lesione, le cellule muscolari lisce vanno incontro sia a fenomeni proliferativi, aumentando di numero, che di

aumento della produzione e secrezione della matrice extracellulare. I due fenomeni, proliferazione cellulare e

secrezione della matrice, sommati insieme contribuiscono in questa fase dell’aterogenesi alla crescita della

placca, anche se la matrice piuttosto che la componente cellulare contribuisce maggiormente al volume della

placca. Le macromolecole più importanti che costituiscono la matrice cellulare sono il collagene (tipo I e III),

alcuni proteoglicani e le fibre di elastina. Le cellule muscolari lisce sono i principali tipi cellulari responsabili della

produzione della matrice extracellulare la cui sintesi viene favorita da alcune sostanze, quali il PDGF e il

“transforming growth factor-beta” (TGF-ß) che vengono prodotti da numerosi tipi cellulari all’interno della

placca.

E’ importante sottolineare che la crescita della placca non è un fenomeno lineare e costante come si è ritenuto

fino a pochi anni or sono, ma è piuttosto caratterizzato da una crescita non costante, dove accelerazioni

improvvise si alternano a periodi di relativa quiescenza. Queste crisi proliferative possono essere messe in

relazione ad episodi di danno meccanico della placca stessa, con attivazione delle piastrine circolanti e della

cascata coagulativa e successiva esposizione delle cellule muscolari lisce a mitogeni potenti quali la stessa

trombina.

La lesione avanzata: necrosi e calcificazione

Le placche avanzate spesso sviluppano aree di calcificazione al loro interno, ed infatti già gli studi dell’inizio del

secolo scorso avevano descritto la presenza all’interno delle placche di caratteristiche morfologiche tipiche del

processo di ossificazione. In anni più recenti si è scoperto che alcuni sottotipi di cellule muscolari lisce, sotto

l’effetto di citochine particolari con effetti osteogenetici come il TGF-ß, sono in grado di produrre zone di intensa

calcificazione della placca. Inoltre, nelle placche avanzate vi sono proteine contenenti numerosi residui di acido

glutammico carbossilato in posizione gamma specializzate nel sequestro di ioni calcio e quindi nel favorire i

fenomeni di calcificazione.

Un’altra caratteristica delle placche avanzate è la presenza di aree di necrosi, nelle quali si è avuto la morte

delle cellule muscolari lisce ad opera di fenomeni di apoptosi che quindi possono contribuire all’indebolimento

della placca favorendone la rottura.

FISIOPATOLOGIA

I fattori di rischio

In Italia le malattie cardiovascolari costituiscono una delle principali cause di mortalità, di morbosità e di

invalidità. Nel 2004 sono stati registrati quasi 600.000 decessi, di cui 80.000 per le malattie ischemiche del

cuore e 65.000 per le malattie cerebrovascolari: quindi, in Italia, un decesso su 4 è dovuto a queste malattie

che riconoscono una genesi comune. Secondo i dati dell’Osservatorio Epidemiologico Cardiovascolare, nella

popolazione italiana, su 1000 adulti tra 25 ed 84 anni, 15 uomini e 4 donne hanno una storia di infarto del

miocardio, mentre ogni anno, nelle stesse età, 2 uomini su 1000 e 1 donna su 1000 va incontro ad un evento

coronarico maggiore.

Non esiste una causa unica dell’aterosclerosi. Sono però noti da lungo tempo diversi fattori, denominati fattori

di rischio, che aumentano il rischio di sviluppare la malattia e predispongono l’organismo ad ammalare (vedi

Capitolo 46). I più importanti sono: l’abitudine al fumo di sigaretta, il diabete, l’obesità, i valori elevati della

colesterolemia, l’ipertensione arteriosa e la scarsa attività fisica, oltre alla familiarità, all’età e al sesso.

Dai fattori ambientali ai fattori genetici

La malattia aterosclerotica è una malattia multifattoriale la cui espressione fenotipica è il risultato di

un'interazione tra fattori genetici e fattori ambientali: da un lato può essere presente una predisposizione

genetica alla malattia aterosclerotica, dall'altro vi sono i fattori ambientali che possono modificare l'espressione

di alcuni geni favorendo lo sviluppo della malattia stessa. Nella valutazione del rischio cardiovascolare

individuale e nella conseguente elaborazione di strategie preventive e terapeutiche personalizzate, in futuro si

dovrà tener conto sia dei classici fattori di rischio legati allo stile di vita e all'età, sia dei fattori genetici.

PRESENTAZIONE CLINICA

L’aterosclerosi è una malattia cronica che progredisce lentamente al di sotto dell’orizzonte clinico, rimanendo

asintomatica per molti anni, spesso anche per decadi. Tuttavia, la velocità con cui la lesione aterosclerotica

evolve dalla semplice stria lipidica alla placca conclamata è estremamente variabile da un individuo all’altro, e

non è raro trovare soggetti sintomatici anche molto precocemente. E’ questo il caso di pazienti che sviluppano

un evento cardiovascolare maggiore nella terza/quarta decade di vita, mentre altri soggetti, magari con

numerosi fattori di rischio, non sviluppano mai eventi cardiovascolari. Questa apparente discrepanza dipende

sostanzialmente dall’interazione geni/ambiente, cioè dall’interazione del background genetico di un determinato

individuo con gli eventuali fattori di rischio; questa interazione è tale da rendere particolarmente suscettibili di

ammalare quei soggetti che hanno un profilo genetico particolarmente sfavorevole, e particolarmente resistenti

coloro i quali possiedono un profilo genetico “protettivo”. Al pari del diabete, non esiste un solo gene coinvolto

nell’aterogenesi, ma piuttosto essi sono numerosi (l’aterosclerosi è una malattia poligenica) e non ancora

identificati completamente.

Le stenosi arteriose

Anche quando l’aterogenesi è nella sua fase “florida”, la crescita della placca può essere compensata da

fenomeni di rimodellamento positivo, cioè di crescita della placca verso l’esterno. Tuttavia, da un certo punto in

poi la crescita della placca eccede la capacità di rimodellamento positivo del vaso e la placca stessa comincia a

sporgere all’interno del lume arterioso riducendolo in maniera più o meno significativa. Anche questa fase può

rimanere per un certo periodo di tempo largamente asintomatica, fino a quando la placca diventa

emodinamicamente significativa. Con questo termine intendiamo definire quelle placche che restringono il lume

del vaso colpito, causando un ostacolo al flusso ematico. Il principale meccanismo di compenso mediante il

quale viene mantenuto un adeguato flusso ematico a riposo è rappresentato dalla vasodilatazione delle arteriole

di resistenza sottostanti al vaso malato (vedi capitolo 23). E’ a questo punto che la placca vira dalla fase

asintomatica a quella in cui diventa apparente sul piano clinico. Le manifestazioni cliniche dell’aterosclerosi

cronica sono quindi conseguenti al restringimento dell'arteria colpita, che rende il flusso ematico relativamente

fisso, cioè incapace di aumentare quando le condizioni funzionali lo richiedono, come ad esempio durante gli

sforzi fisici. Di conseguenza la sintomatologia, in particolare il dolore ischemico, tende ad essere assente a

riposo e a presentarsi in occasione di esercizio fisico più o meno intenso, a seconda della gravità dell'ostruzione

arteriosa. Tipiche sindromi croniche sono: l’angina pectoris stabile, l’angina abdominis, la claudicatio

intermittens, nella quale il dolore insorge durante la deambulazione e scompare tipicamente dopo pochi minuti

di riposo.

La rottura della placca e la trombosi

L’aterosclerosi, esclusivamente intesa come formazione e sviluppo delle placche aterosclerotiche, è una malattia

relativamente benigna. Infatti, anche in quei casi in cui l’ateroma progredisce fino ad occludere completamente

il lume del vaso interessato, generalmente ciò accade in un arco di tempo piuttosto lungo. In queste

circostanze, il letto vascolare interessato ha il tempo di adattarsi alla nuova condizione sfavorevole attraverso

un processo denominato neoangiogenesi, mediante il quale si formano circoli collaterali vicarianti che

sostituiscono funzionalmente il vaso occluso. Il risultato finale è quello di evitare la necrosi ischemica del

tessuto interessato che invece accadrebbe se l’occlusione arteriosa fosse improvvisa. Al contrario, l’occlusione

acuta di natura trombotica rappresenta la complicanza più temibile dell’aterosclerosi: poiché l’organo

interessato non ha il tempo sufficiente per stimolare lo sviluppo di un adeguato circolo collaterale, l’inevitabile

conseguenza della trombosi arteriosa è di solito la necrosi (morte cellulare) del tessuto ischemico. Tale processo

si può localizzare a livello del circolo coronarico, causando l’insorgenza di una cosiddetta sindrome coronarica

acuta (infarto miocardico o angina instabile), o a livello del circolo cerebrale, causando un ictus, o in un

qualsiasi tessuto periferico, causando la necrosi dello stesso.

La complicanza (rottura, ulcerazione, erosione) di una placca aterosclerotica è stata identificata come la causa

più frequente di trombosi arteriosa. La rottura della placca espone sostanze pro-trombotiche contenute nella

placca stessa (tissue factor, collageno, fattore di von Willebrand, etc) che attivano la cascata della coagulazione

e le piastrine circolanti e che culminano quindi con la formazione di un trombo intrarterioso (Figura 6).

Le placche che sono destinate a rompersi sono difficili da identificare, anche perché la severità della stenosi

causata dalla placca aterosclerotica misurata con l’angiografia mal si correla con l’insorgenza clinica di un

evento acuto. Infatti, molti studi hanno dimostrato in maniera inequivocabile che le placche cosiddette

vulnerabili, cioè quelle maggiormente prone alla rottura, causano in genere stenosi non significative, in molti

casi addirittura meno del 50% del diametro luminale. Queste placche vulnerabili e instabili, poiché non sono

significative dal punto di vista emodinamico, sono di solito silenti sul piano clinico, fino a quando vanno incontro

a rottura e, attraverso l’ostruzione trombotica del flusso ematico coronarico, causano l’insorgenza di un evento

acuto.

La sequenza di eventi che porta alla complicanza della placca non è nota con esattezza, ma fattori meccanici,

come lo stress tangenziale di parete e l’assottigliamento del cappuccio fibroso che riveste il core lipidico

giochino sicuramente un ruolo importante nell’influenzare il destino della placca. Accanto a questa teoria

puramente “meccanica”, nel corso degli ultimi 15 anni una grande massa di dati ha contribuito a far avanzare le

nostre conoscenze sulla fisiopatologia della complicanza della placca, suggerendo che l’infiammazione e il

coinvolgimento del sistema immunitario giocano un ruolo importante non solo nella formazione della lesione

aterosclerotica, ma anche della sua complicanza. Questa affascinante ipotesi venne inizialmente formulata sulla

scorta di alcune osservazioni morfologiche che dimostrarono la presenza di linfociti T e macrofagi in numero

molto più elevato nelle placche complicate rispetto alle loro controparti stabili. Qual è allora il ruolo preciso e

come può il sistema immunitario alterare la stabilità di una placca aterosclerotica? E’ affascinante pensare ad un

ruolo dei macrofagi come cellule effettrici del fenomeno. Queste cellule infatti, una volta attivate, sono in grado

di rilasciare radicali dell’ossigeno e vari enzimi proteolitici, come le metalloproteasi, enzimi ad azione litica nei

confronti della matrice cellulare, che possono ridurre la resistenza del cappuccio fibroso e quindi favorirne la

rottura (Figura 7). Questa teoria trova riscontro nell’osservazione che le metalloproteasi sono presenti in

elevate concentrazioni nelle placche complicate insieme ad altri prodotti di derivazione macrofagica. Poiché è

noto che i macrofagi possono essere attivati dai linfociti T, l’attivazione di tali cellule all’interno della placca può

rappresentare un meccanismo fisiopatologico importante nella complicanza della placca stessa. In questo senso

vi sono diverse evidenze, anche se indirette, dell’esistenza di tale fenomeno. Per esempio, studi autoptici hanno

rivelato l’esistenza di cellule T attivate all’interno della placca instabile, mentre altri studi hanno dimostrato la

presenza di linfociti T attivati in campioni di placca instabile prelevati da pazienti in corso di procedure di

rivascolarizzazione percutanea.

CENNI DI TERAPIA

Modificazione dei fattori di rischio.

Evidenze scientifiche dimostrano che la riduzione dei livelli medi dei fattori di rischio riduce l’incidenza delle

complicanze dell’aterosclerosi, sia diminuendo l’incidenza delle malattie cardiovascolari che la mortalità a loro

correlata. La prevenzione dell’aterosclerosi coincide in gran parte con gli sforzi della collettività per l’adozione di

stili di vita salutari: alimentazione sana, esercizio fisico, non dipendenza dal fumo di tabacco.

Terapia farmacologica

Attualmente il medico ha a disposizione alcuni farmaci molto efficaci nel diminuire i livelli ematici di colesterolo,

uno dei più importanti fattori di rischio per l’aterosclerosi. In particolare, le statine si sono dimostrate molto

efficaci in questo ambito. Tali farmaci riconoscono come meccanismo d’azione il blocco della prima tappa

biochimica della sintesi del colesterolo in quanto inibiscono l’enzima idrossi-metil-glutaril Coenzima A redattasi,

enzima chiave sulla via biosintetica del colesterolo. Come conseguenza di tale inibizione, le cellule

dell’organismo e quelle epatiche in particolare, si “impoveriscono” di colesterolo endogeno. Poiché il colesterolo

costituisce un elemento fondamentale per la vita della cellula (è un componente molto importante, tra l’altro,

delle membrane cellulari), la cellula reagisce aumentando l’espressione dei recettori di membrana per le LDL, le

lipoproteine responsabili del trasporto ematico del colesterolo. L’aumento dei recettori di membrana per le LDL,

a sua volta, causa l’abbassamento dei livelli ematici di colesterolo fino al 50%. E’ stato dimostrato che l’uso

delle statine nei soggetti a rischio particolarmente elevato di sviluppare eventi cardiovascolari maggiori non solo

abbassa il loro livello di rischio ma, in alcuni casi, porta ad un rallentamento della crescita delle lesioni

aterosclerotiche e talvolta addirittura alla loro regressione.

CONCLUSIONI E POSSIBILI SVILUPPI FUTURI

L’aterosclerosi è una malattia degenerativa e progressiva delle arterie di grande e medio calibro a grande

componente infiammatoria: l’infiammazione è infatti in grado di modulare fortemente tutte le fasi

dell’aterogenesi, dalla formazione della lesione iniziale alla complicanza della placca con occlusione trombotica

del lume vasale. La Figura 8 riassume in maniera visiva quanto detto in questo capitolo.

Sebbene molto sia stato fatto in termini di chiarimento dei meccanismi fisiopatologici che sono alla base

dell’aterosclerosi, ancora poco si può fare per identificare le placche vulnerabili, quelle cioè particolarmente a

rischio di complicanza. La sfida per la moderna cardiologia nei prossimi 5-10 anni è proprio rappresentata dalla

identificazione di metodiche non invasive che possano distinguere le placche stabili da quelle a rischio,

indirizzando quindi verso quest’ultime i maggiori sforzi terapeutici.

Capitolo 47. La Valutazione del Rischio Coronarico, Salvatore Novo, Gisella Rita Amoroso, Giuseppina

Novo

DEFINIZIONE

La probabilità di coronaropatia aumenta in presenza dei fattori di rischio cardiovascolare i quali, se in numero >

1, potenziano il rischio in maniera non additiva ma esponenziale.

Un fattore di rischio è tale se trial prospettici su popolazioni numerose hanno dimostrato un’associazione di tipo

statistico tra presenza del fattore di rischio e incidenza di nuovi casi di malattia, e se esiste la dimostrazione che

correggendo il fattore di rischio si riduce prospetticamente l’incidenza di nuovi casi di malattia.

I fattori di rischio possono essere distinti in tradizionali ed emergenti. Per questi ultimi non vi è ancora la

possibilità di correzione farmacologica e/o la dimostrazione che correggendo il fattore di rischio diminuiscono i

nuovi casi di malattia.

FATTORI DI RISCHIO TRADIZIONALI

Distinguiamo fattori di rischio non modificabile e modificabile, cioè correggibile con modifiche comportamentali

o con trattamenti farmacologici. I non modificabili sono l’età, il genere e la familiarità. Tra i modificabili i più

importanti sono sicuramente la dislipidemia, l’ipertensione arteriosa, il diabete mellito e il fumo di sigaretta.

Vanno menzionati, come fattori di rischio minori, anche: l’inattività fisica, l’alcool, l’obesità, lo stress, la

frequenza cardiaca elevata.

FATTORI DI RISCHIO TRADIZIONALI NON MODIFICABILI

Età

Il rischio di coronaropatia aumenta con l’età, in particolare dopo i 65 anni, essendo la malattia aterosclerotica

una patologia cronico-degenerativa. In particolare, con l’età aumenta l’attivazione del sistema renina-

angiotensina-aldosterone e la produzione di radicali tossici dell’ossigeno che favoriscono la disfunzione

endoteliale e l’innesco di fenomeni apoptotici.

Genere

L’incidenza di coronaropatia è più elevata negli uomini rispetto alle donne in età fertile, in quanto sembra che

gli estrogeni svolgano un ruolo protettivo. Dopo la menopausa tale differenza si annulla, poiché la carenza di

estrogeni comporta variazioni sfavorevoli dell’assetto lipidico, con aumento delle LDL e riduzione delle HDL,

modificazioni dell’emostasi in senso procoagulante e disfunzione endoteliale.

Familiarità

Numerosi studi epidemiologici hanno evidenziato una predisposizione familiare alla malattia coronarica che

sarebbe determinata dall’interazione tra ereditarietà a carattere poligenico e fattori ambientali. Si considera a

rischio un individuo in cui un familiare di primo grado abbia presentato un evento coronarico ad un’età < 55

anni se uomo e < 60 anni se donna.

FATTORI DI RISCHIO TRADIZIONALI MODIFICABILI

Dislipidemia

Elevati livelli di colesterolo totale si associano ad un’aumentata incidenza di malattia aterosclerotica, mentre

una loro riduzione mediante dieta e/o terapia farmacologica, rallenta la progressione della stessa e favorisce la

stabilizzazione delle placche.

Particolarmente importante è il riscontro di elevati livelli di colesterolo-LDL, essendo queste lipoproteine ricche

in colesterolo e capaci di infiltrare la parete vasale, quando ossidate (vedi Capitolo 46). Il colesterolo LDL si può

calcolare semplicemente applicando la formula di Friedewald: LDL-C = CT – HDL-C – TG/5. Elevati livelli di

trigliceridi sono anche un fattore di rischio; infatti, spesso si associano al diabete o alla sindrome da resistenza

insulinica, e sono in grado di ridurre la fibrinolisi attraverso un’inibizione dell’attivatore del plasminogeno. Le

lipoproteine HDL, invece, riescono a mobilizzare il colesterolo dagli ateromi trasportandolo al fegato per la

metabolizzazione; inoltre, esplicherebbero azioni protettive quali l’inibizione dell’adesione dei monociti

all’endotelio, la riduzione della proliferazione delle cellule muscolari lisce, l’induzione della vasodilatazione

endotelio-mediata e l’inibizione dell’ossidazione delle LDL. Pertanto, elevati livelli di HDL-C esplicano un’azione

protettiva, mentre bassi livelli di HDL-C sono un fattore di rischio. Per qualunque livello di colesterolo totale o

LDL il rischio aumenta se contemporaneamente vi sono bassi livelli di HDL-C.

Soltanto l’esercizio fisico e il consumo moderato di vino rosso aumentano il livello di HDL-C, mentre l’obesità e il

fumo lo riducono.

Diabete

Il diabete costituisce un importante fattore di rischio, tanto che è stato considerato dalle Linee Guida una

condizione di “cardiopatia ischemica equivalente”. Nel paziente diabetico coesistono in genere multipli fattori di

rischio, essendo comuni l’obesità viscerale, alterazioni del metabolismo lipidico, con elevazione dei trigliceridi,

riduzione di HDL-C e presenza di LDL piccole e dense, aumento dei radicali liberi dannosi per l’endotelio,

iperaggregabilità piastrinica e iperfibrinogenemia.

Nel paziente con diabete la riserva coronarica è spesso diminuita, e la malattia coronarica è severa e

plurivasale, con lesioni prevalentemente distali, tali da rendere difficoltoso sia l’approccio interventistico che

quello chirurgico. I pazienti diabetici hanno anche un maggiore rischio di sviluppare insufficienza cardiaca a

causa della cardiomiopatia diabetica.

Ipertensione arteriosa

Molti studi epidemiologici hanno dimostrato l’inequivocabile correlazione lineare tra ipertensione arteriosa e

malattie cardiovascolari, in particolare ictus cerebrale e infarto del miocardio. Da un lato l’ipertensione favorisce

la disfunzione endoteliale attraverso l’aumento dello shear-stress, dall’altro si associa spesso ad elevati livelli di

angiotensina II, che esercita un’azione vasocostrittrice e proinfiammatoria e stimola la proliferazione delle

cellule muscolari lisce.

Fumo di sigaretta

Il fumo aumenta il rischio di cardiopatia ischemica, proporzionalmente con il numero di sigarette fumate e gli

anni di fumo; sembra che anche il fumo passivo sia un fattore di rischio.

La nicotina attiva il sistema simpatico adrenergico con conseguente aumento della frequenza cardiaca, del

lavoro cardiaco, della pressione arteriosa e possibile riduzione del flusso coronarico per vasocostrizione. Il

monossido di carbonio agisce con un meccanismo tossico diretto sull’endotelio che diventa più permeabile alle

lipoproteine, e provoca ipossia relativa secondaria all’aumento della carbossiemoglobina. Il fumo, inoltre,

aumenta l’aggregabilità piastrinica e la viscosità ematica.

I benefici della cessazione del fumo sono già evidenti dal primo anno, e dopo circa tre-cinque anni, il rischio

relativo dell’ex-fumatore diviene simile a quello del non fumatore.

Obesità

L’obesità, e soprattutto l’accumulo di grasso viscerale, si associano a dislipidemia e resistenza insulinica, con

livelli elevati di trigliceridi, bassi di HDL-C e ridotta tolleranza al glucosio; tale cluster di fattori di rischio è

comunemente indicato come sindrome metabolica.

Inattività fisica

I più importanti studi epidemiologici hanno dimostrato che la vita sedentaria e la mancanza di attività fisica

regolare costituiscono un fattore di rischio. Viceversa, l’attività fisica svolta con regolarità riduce

significativamente il rischio cardiovascolare, sia in prevenzione primaria sia in prevenzione secondaria. Essa

determina una riduzione della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa sotto sforzo, e quindi del consumo

di ossigeno del miocardio; favorisce, inoltre, l’aumento del colesterolo HDL, la riduzione dei trigliceridi, della

glicemia (nel diabete) e dell'obesità, e diminuisce l'aggregabilità piastrinica.

Alcool

Recenti studi hanno messo in evidenza un possibile ruolo dell’abuso di alcool come fattore di rischio

cardiovascolare. Al contrario, un uso controllato e limitato di vino rosso, sembra favorire l’aumento del

colesterolo HDL e svolgere azione antiossidante grazie alla presenza di polifenoli e rosveratrolo.

Frequenza Cardiaca

Negli ultimi anni è stato dimostrato un ruolo dell’incremento della frequenza cardiaca e della riduzione della sua

variabilità, anche in soggetti sani, nel predire eventi patologici cardiovascolari.

Pattern comportamentale

Numerose osservazioni hanno evidenziato che una particolare condizione comportamentale, definita come

personalità di “tipo A” e caratterizzata da atteggiamenti caratteriali quali fretta, impazienza, eccessiva

competitività ed ostilità verso l'ambiente sociale, lavorativo e familiare, possa aumentare il rischio coronarico. Il

meccanismo imputabile è verosimilmente un’aumentata reattività cardiovascolare secondaria ad una maggiore

liberazione di catecolamine e all’ipercortisolemia. Tuttavia, in tali soggetti il rischio aumenterebbe solamente

quando non si realizzino gli obiettivi prefissati.

FATTORI DI RISCHIO EMERGENTI

Sindrome Metabolica

La sindrome metabolica è costituita da una combinazione di fattori di rischio che, coesistendo, conferiscono un

rischio elevato di sviluppare cardiopatia ischemica. Esistono diverse classificazioni della malattia: secondo quella

del NECP-ATP III la sindrome è definita dalla coesistenza di almeno tre dei seguenti fattori di rischio: 1)

circonferenza vita > 102 cm nell’uomo e di 88 cm nella donna, 2) trigliceridemia =150 mg/dL, HDL-C < 40

mg/dL nell’uomo e < 50 mg/L nella donna, 3) pressione arteriosa = 130/85mmHg, 4) glicemia a digiuno = 100

mg%. La prevalenza della sindrome metabolica aumenta con l’età con maggiore frequenza nel sesso maschile

fino a 45 anni di età e successivamente nel sesso femminile.

Infiammazione

Recenti studi, hanno dimostrato che le lesioni aterosclerotiche sono il frutto di un processo infiammatorio

cronico, e che la stessa flogosi contribuisce alla rottura e/o all’erosione della placca predisponendo allo sviluppo

di una sindrome coronarica acuta (vedi Capitolo 46).

Alcune noxae (LDL ossidate, ipertensione, fumo, diabete, agenti infettivi, etc.) sono in grado di alterare la

funzione dell’endotelio inducendo la produzione di citochine proinfiammatorie (IL1, TNFalfa, IL6, sCD40L, etc.) e

rendendolo suscettibile all’infiltrazione di lipidi e cellule infiammatorie. Queste amplificano il processo

infiammatorio producendo altre citochine, fattori di crescita e fattori chemiotattici. Più una placca è ricca di lipidi

e cellule infiammatorie (in particolare macrofagi in grado di produrre proteasi capaci di lisare il cappuccio

fibroso, come le metalloproteinasi) più è incline alla rottura e quindi all’insorgenza di una sindrome coronarica

acuta (SCA). In tal senso l’infiammazione costituisce un fattore di rischio. La PCR, una proteina di fase acuta

prodotta a livello epatico, è il marker di flogosi più ampiamente studiato anche perchè essa é dosabile nel

sangue periferico in maniera semplice e poco dispendiosa. I livelli plasmatici di PCR (ultrasensibile = hsPCR)

costituiscono un marker di rischio in pazienti asintomatici con fattori di rischio e un predittore prognostico in

pazienti con angina instabile e SCA. La PCR è in grado di attivare il complemento e di indurre l’espressione di

tissue factor, quindi di attivare la cascata coagulativa.

Esiste anche un’associazione forte fra livelli di fibrinogeno ed eventi cardiovascolari. Il fibrinogeno aumenta la

viscosità ematica, incrementa la trombogenicità del sangue ed esalta l’aggregazione piastrinica favorendo la

trombosi e, infine, incrementa la formazione di fibrina portando conseguentemente ad un aumento delle

dimensioni dei trombi e ad una riduzione della loro suscettibilità alla lisi.

Iperomocisteinemia

L’omocisteina è un composto intermedio del metabolismo della metionina. L’assenza genetica dell’enzima

metilentetraidrofolatoreduttasi (MTHFR) che trasforma l’omocisteina in metionina rappresenta una delle cause

di iperomocisteinemia e si associa ad aterosclerosi accelerata ed a trombosi arteriosa e venosa. L’omocisteina

sembrerebbe indurre il danno vascolare interferendo con la produzione di ossido nitrico da parte dell’endotelio,

e con la funzione piastrinica e incrementando la tendenza alla trombosi. Tuttavia, gli studi di intervento finora

condotti non sono stati in grado di dimostrare che riducendo le concentrazioni di omocisteina si riducano gli

eventi cardiovascolari.

Microalbuminuria

Il termine microalbuminuria indica l’aumento subclinico dell’escrezione urinaria di albumina, con valori di

compresi tra 30 e 300 mg/24 h, in assenza di macroproteinuria e di nefropatia conclamata. L’aumento della

permeabilità dei capillari glomerulari favorirebbe il passaggio transmembrana di albumina ma anche di

lipoproteine aterogene nella parete vascolare, e sarebbe un indice di disfunzione endoteliale. La

microalbuminuria rappresenta un marker di danno vascolare globale utile principalmente nella stratificazione del

rischio di pazienti diabetici e ipertesi.

Infezioni

Vi sono evidenze che alcuni microrganismi come cytomegalovirus, herpes virus, chlamydia pneumoniae,

helicobacter pylori (in particolare, il ceppo citotossici), possano contribuire all’insorgenza della malattia

aterosclerotica, nonché rendere instabili le placche aterosclerotiche, agendo come noxae sull’endotelio.

L’incremento del titolo anticorpale verso tali patogeni è stato utilizzato come predittore di eventi cardiovascolari

futuri in pazienti con infarto acuto del miocardio. L’ipotesi infettiva dell’aterosclerosi resta tuttavia ancora

controversa e i trial finora condotti con antibiotici non hanno dato alcun risultato significativo nel ridurre gli

eventi cardiovascolari.

MARKER STRUMENTALI DI DANNO VASCOLARE PRECLINICO

Nella stratificazione del rischio coronarico oltre alla valutazione dei fattori di rischio è utile la ricerca di segni di

aterosclerosi preclinica, oggi possibile mediante lo studio ultrasonografico delle arterie carotidi, la misurazione

dell’Indice di Pressione Caviglia-Braccio (ABI) e la valutazione non invasiva della funzione endoteliale.

Ispessimento Intima-Media (IMT) e Placca Asintomatica Carotidea

Diversi studi epidemiologici hanno dimostrato un’associazione tra l’incremento dello spessore medio-intimale

carotideo (IMT) o la presenza di placche aterosclerotiche asintomatiche (PCA) delle carotidi e l’incidenza di

malattia cerebro- e cardiovascolare (ictus ed infarto miocardico) nella popolazione generale (vedi Capitolo 54).

Indice di Pressione Caviglia-Braccio (ABI)

Normalmente misurando la pressione arteriosa sistolica alla caviglia (tibiale posteriore) o alla tibiale anteriore e

rapportandola alla pressione sistolica brachiale il rapporto è > 1. Se tale rapporto è < 0.9 questo significa che il

paziente è portatore di aterosclerosi preclinica a livello dell’albero arterioso iliaco-femoro-popliteo (vedi Capitolo

12). Numerosi studi epidemiologici hanno evidenziato che una riduzione dell’ABI è associato ad aterosclerosi in

altri distretti (coronarie e carotidi) ed a futuri eventi cerebro- e cardiovascolari.

Disfunzione Endoteliale

La disfunzione endoteliale rappresenta il primum movens nella patogenesi dell’aterosclerosi (vedi Capitolo 48).

La disfunzione endoteliale può essere dimostrata dalla vasocostrizione conseguente all’iniezione intrarteriosa di

acetilcolina, in arteria brachiale o durante angiografia coronarica. Invece, se l’endotelio è integro, tale sostanza

provoca vasodilatazione stimolando la liberazione di Nitrossido (NO) da parte dell’endotelio. Recentemente è

stata messa a punto una tecnica non invasiva per lo studio la valutazione della funzione endoteliale attraverso

lo studio della dilatazione flusso mediata (FMD) dell’arteria brachiale con tecnica ultrasonografica. Pazienti con

scarsa FMD hanno un’alta probabilità di sviluppare eventi cardiovascolari rispetto a quei soggetti con normale

FMD. Tale risultato evidenzia, infatti, una carente sintesi di ossido nitrico (NO) da parte dell’NO sintetasi

endoteliale, fattore cruciale della disfunzione endoteliale.

RISCHIO CARDIOVASCOLARE GLOBALE E CARTE DEL RISCHIO

Il rischio cardiovascolare è un processo complesso, influenzato da fattori genetici, ambientali, sociali e culturali.

Pertanto, al fine di valutarlo in maniera obiettiva si è reso necessario introdurre il concetto di Rischio

Cardiovascolare Globale (RCVG) e formulare le carte del rischio. Queste, mediante algoritmi e/o sistemi a

punteggio che valutano una serie di parametri, consentono di stimare il rischio di eventi cardiovascolari nei

successivi 10 anni. La prima carta del rischio è stata quella di Framingham, che si basa sul calcolo del risk score

ottenuto dalla somma del punteggio attribuito ai singoli fattori di rischio presenti. La carta europea del rischio

utilizza per il calcolo una mappa di mortalità cardiovascolare a codifica di colore e distingue in Europa 2 zone,

una ad alto ed una a basso rischio, di cui fa parte l’Italia. Per stimare il rischio di presentare un evento

cardiovascolare maggiore a 10 anni, l'Istituto Superiore di Sanità ha elaborato una carta italiana (Progetto

Cuore), che distingue 4 categorie di soggetti: uomo diabetico (Figura 1), uomo non diabetico (Figura 2),

donna diabetica (Figura 3), donna non diabetica (Figura 4), in cui il rischio è attribuito in base alla presenza o

meno, e al valore crescente, di: età, genere, diabete, abitudine al fumo, valori di pressione arteriosa sistolica e

colesterolemia. Il RCVG è calcolabile per uomini e donne esenti da precedenti eventi cardiovascolari, di età

compresa fra 40 e 69 anni. Il livello di rischio a 10 anni è distinto in: < 5%; tra 5 e 10%; tra 10 e 15%; tra 15

e 20%; tra 20 e 30%; > 30%.

La stratificazione del rischio coronarico non costituisce un mero calcolo matematico, ma ha delle ovvie

implicazioni di ordine pratico nella prevenzione di eventi cardiovascolari (Tabella I).

Tabella 1

PREVENZIONE PRIMARIA DELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA

Per prevenzione primaria s’intende la messa in atto di una strategia d’intervento sulla popolazione mirata a

prevenire un evento mai manifestatosi in precedenza.

Il fulcro della prevenzione primaria è la correzione dei fattori di rischio ovvero l'abolizione dell'abitudine al fumo,

la dieta alimentare (ridurre l'assunzione di zuccheri semplici, di alcool, di proteine animali, di sale e di

colesterolo, prediligendo gli acidi grassi insaturi), il controllo del peso corporeo, l’attività fisica regolare, il

trattamento dell’ipertensione, delle dislipidemie e dell’iperglicemia. I pazienti ipertesi ad alto rischio dovrebbero

mirare a raggiungere una pressione arteriosa < 130/80 mm Hg, mentre valori < 140/90 mm Hg sono

accettabili per l’ipertensione non complicata. Inoltre, se il rischio globale è > 20% va istituito un trattamento

farmacologico dell’ipercolesterolemia anche lieve.

Nella Tabella II sono riportati i target raccomandabili per il colesterolo-LDL, per categoria di rischio, secondo le

Linee Guida NCEP-ATP III e le indicazioni ad instaurare una terapia.

Per quanto riguarda le HDL-C il valore desiderabile dovrebbe essere > 40 mg/dl per gli uomini e > 50 mg/dl per

le donne, per i trigliceridi < 150 mg/dl.

Le modificazioni dello stile di vita prima discusse comportano un aumento del 10-20% dei livelli plasmatici delle

HDL-C ed una riduzione dei trigliceridi. Nelle ipertrigliceridemie elevate > 500 mg/dl, l’intervento farrmacologico

è necessario.

Nel paziente diabetico, per il rischio particolarmente elevato è fondamentale l'ottimale controllo glicemico e lo

stretto controllo di tutti i concomitanti fattori di rischio.

Tabella 2

Prevenzione nei pazienti a rischio intermedio, con aterosclerosi preclinica

I soggetti con almeno 2 fattori di rischio, i quali secondo il Progetto Cuore hanno un rischio intermedio, in realtà

se coesistono segni strumentali di aterosclerosi preclinica (IMT > 1 mm o PCA, o ABI < 0.9 o ridotta FMD) si

collocano ad un livello di rischio molto più elevato. Tali soggetti necessitano di una strategia di prevenzione più

aggressiva e di misure farmacologiche anche se in tal senso il consenso non è ancora unanime.

PREVENZIONE SECONDARIA DELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA

Per prevenzione secondaria si intende l’attuazione di una strategia terapeutica in soggetti che hanno avuto un

evento cardiovascolare. Si basa sull’interazione tra modifiche dello stile di vita ed uso ragionato dei farmaci.

Numerosi studi clinici hanno dimostrato l'utilità delle statine sia per il controllo dell'assetto lipidico sia per gli

effetti di stabilizzazione sulla placca. Nel controllo dei valori pressori vanno considerati di prima scelta gli ACE-

inibitori, i sartani e i beta-bloccanti; questi ultimi hanno effetto cardioprotettivo, riducono il consumo di

ossigeno e la mortalità. Inoltre, un ruolo fondamentale è svolto dai farmaci antitrombotici, in particolare

dall’acido acetilsalicilico, che assunto con dosaggio da 75 a 325 mg/die riduce del 33% il rischio di reinfarto e

del 25% la mortalità.

Sezione XIV. Cuore Polmonare ed Embolia Polmonare

Capitolo 49. Il Cuore Polmonare Cronico, Cesare Fiorentini, Piergiuseppe Agostoni, Elisabetta Doria

DEFINIZIONE

Si definisce “cuore polmonare” la dilatazione e/o l’ipertrofia del ventricolo destro per aumento del postcarico

dovuto a malattie dei polmoni, della parete toracica, dei vasi polmonari o dei centri del controllo della

ventilazione. Sono escluse dalla definizione di cuore polmonare le patologie del cuore destro dovute a

cardiopatie congenite o a malattie del cuore sinistro.

FISIOLOGIA DEL CIRCOLO POLMONARE

La circolazione polmonare è interposta tra il ritorno venoso sistemico e l’atrio sinistro; oltre a rivestire un ruolo

chiave negli scambi dei gas, il circolo polmonare concorre alla regolazione biochimica, termica ed umorale del

sangue. In condizioni normali, la forza che guida il sangue attraverso il polmone dipende in ugual misura dal

ventricolo destro e dalla respirazione. La funzione di pompa del ventricolo destro, tuttavia, diviene rilevante

solo in condizioni patologiche. In alcune procedure cardiochirurgiche (ad esempio l’intervento di Fontan), infatti,

si esegue un by-pass del ventricolo destro, mettendo in comunicazione diretta l’atrio destro con l’arteria

polmonare, senza che il ritorno venoso al cuore sinistro venga compromesso; ciò dimostra come la circolazione

polmonare possa avvenire normalmente anche senza il contributo del ventricolo destro.

La caratteristica principale del circolo polmonare è che le pressioni sono basse. Per generare ed aumentare il

flusso del sangue occorre superare la pressione di apertura dei vasi, reclutare progressivamente nuovi vasi e

dilatare quelli già aperti. La relazione tra la pressione guida (differenza tra pressione arteriosa polmonare media

e pressione atriale sinistra) e il flusso, perciò, è curvilinea e non origina dallo zero degli assi cartesiani (Figura

1).

La resistenza vascolare è la relazione tra pressione e flusso. Nel circolo polmonare si misura la resistenza

vascolare arteriolare, con la formula seguente:

e la resistenza vascolare totale, la cui formula è:

In entrambi i casi si assume una relazione pressione/flusso lineare, assunto del tutto erroneo. Per esempio,

nella Figura 1 (pannello A) i punti 1 e 2 sono sulla stessa curva pressione/flusso (curva isoresistenza) ma su

differenti resistenze calcolate, mentre i punti 1 e 2 del pannello B hanno la stessa resistenza calcolata ma sono

su curve pressione/flusso diverse.

Per calcolare veramente la resistenza vascolare polmonare, perciò, occorre costruire la relazione misurando

almeno 3 punti identificati da pressione e flusso. Questo può essere fatto modificando la portata cardiaca con

variazioni della postura o con l’esercizio fisico.

La pressione polmonare a catetere incuneato o “wedge” si misura occludendo con la punta del catetere un ramo

periferico dell’ arteria polmonare. Quella che si registra è la pressione del punto più lontano dal catetere in cui

vi è ripresa di flusso (Figura 2). L’occlusione in A legge la pressione in B mentre l’occlusione in C legge la

pressione in D. In clinica, però, non siamo in grado di percepire la differenza tra la pressione ottenuta

occludendo A o C.

La distribuzione del flusso di sangue nel polmone è funzione del rapporto tra pressione arteriosa polmonare,

pressione venosa polmonare e pressione alveolare. Le camere del cuore destro sono cavità ad alta compliance,

che possono accettare grandi volumi di sangue con piccole variazioni di pressione. Il sistema va “in crisi” in

presenza di ipertensione polmonare, che si definisce presente se la pressione polmonare media è, a riposo e a

livello del mare, > 20 mm Hg.

FISIOPATOLOGIA DEL CUORE POLMONARE CRONICO

Il ventricolo destro assume un ruolo molto importante in presenza di malattie del polmone o del circolo

polmonare. In un cuore normale, la portata cardiaca comincia a ridursi quando la pressione polmonare sistolica

è 30-40 mm Hg. Il ventricolo destro non è in grado di tollerare pressioni di 60-80 mm Hg, ma se il sovraccarico

di pressione si instaura gradualmente, il ventricolo si ipertrofizza e si dilata, riuscendo a mantenenere pressioni

molto più alte, in alcuni casi addirittura superiori a quelle del ventricolo sinistro.

Ci può essere ipertensione polmonare in caso di: a) malattie cardiache congenite, b) malattie a carico del cuore

sinistro (atrio, valvola mitrale, ventricolo, valvola aortica), c) malattie respiratorie, e d) malattie che

interessano il circolo polmonare. Per definizione solo le condizioni c e d possono essere causa di cuore-

polmonare.

Vasocostrizione ipossica

In presenza di ipossia alveolare, i vasi che portano sangue agli alveoli interessati dalla ipossia si costringono. Se

localizzato, questo è un meccanismo di difesa utile perché riduce la perfusione di alveoli poco efficienti,

favorendo la perfusione di alveoli normossici. Se il fenomeno è generalizzato, o comunque interessa una grossa

parte del polmone, si sviluppa ipertensione polmonare ipossica. Questa permette di reclutare nuovi vasi

polmonari ma, se la portata si mantiene, fa aumentare il lavoro del ventricolo destro. L’ipossia alveolare può

essere acuta (apnee del sonno), subacuta (ARDS, edema polmonare da alta quota) o cronica (patologia

polmonare, della parete toracica o del controllo della ventilazione). In presenza di ipossia cronica, le arterie

polmonari sviluppano uno strato muscolare che aumenta progressivamente, in rapporto alla durata ed all’entità

dell’ipossia alveolare. Esistono fattori che aumentano la risposta ipertensiva all’ipossia alveolare, quali

l’aumento della PaCO2, l’aumento dell’ematocrito che incrementa la viscosità del sangue, l’aumento o la

riduzione importante del volume polmonare ed, infine, la riduzione anatomica o funzionale del letto vascolare

polmonare. Bisogna ricordare che la resistenza vascolare polmonare dipende dal volume polmonare: per i vasi

alveolari aumenta con l’aumento del volume polmonare, mentre per i vasi extra-alveolari si riduce con

l’aumento del volume polmonare. La somma dà la effettiva resistenza vascolare alla capacità funzionale residua

(Figura 3).

Episodi di ipossia alveolare, come quelli associati alle apnee notturne, possono causare o concorrere a causare

cuore polmonare. Un esempio classico di questo è il cuore polmonare della sindrome di Pickwick (obesità,

sonnolenza, policitemia) o quello dei “russatori” per alcool, bronchite cronica, obesità.

L’ipossia alveolare cronica si sviluppa in corso di ipoventilazione alveolare e si associa ad ipercapnia. Le cause

includono enfisema, fibrosi polmonare, patologia polmonare restrittiva e bronchite cronica.

Restringimento meccanico dei vasi

Le modificazioni dei volumi polmonari hanno un ruolo importante nella genesi dell’ ipertensione polmonare. In

presenza di malattia polmonare ostruttiva, il volume del polmone aumenta. Inoltre si può sviluppare il

fenomeno del “air-trapping” per l’insufficiente flusso espiratorio. Se la ventilazione aumenta, questo fenomeno

diviene sempre più rilevante con zone di polmone che per l’insufficiente espirazione sono ad alta pressione e

comprimono i vasi. In questo caso, per mantenere il flusso deve esserci un ulteriore aumento della pressione

vascolare. Anche la riduzione del volume polmonare si associa ad aumento della resistenza vascolare

polmonare (Figura 3).

Sovraccarico pressorio attorno al cuore destro

Il cuore è circondato in gran parte dal polmone. Nel cuore polmonare la rigidità del polmone è

significativamente aumentata, e ciò aumenta il lavoro esterno, quello soprattutto del ventricolo destro, le cui

pareti sono sottili e meno potenti di quelle del ventricolo sinistro. Il movimento del cuore in sistole e diastole è

a maggiore costo energetico in presenza di polmone rigido.

Aumento della portata cardiaca

L’ ipossia alveolare riduce il contenuto arterioso di ossigeno. Questa riduzione è compensata da un aumento

dell’emoglobina e dall’aumento della portata cardiaca. Quest’ultima è un ulteriore elemento di sovraccarico per

il cuore destro.

QUADRO CLINICO

Non ci sono sintomi specifici di dilatazione e/o ipertrofia del ventricolo destro, ma il quadro clinico è dominato

dalla malattia che causa il sovraccarico ventricolare. In presenza di scompenso del cuore destro si ha un

aumento della pressione venosa sistemica, da cui dipendono edemi declivi, turgore giugulare, epatomegalia ed

ascite.

Le sindromi che possono essere alla base del cuore polmonare cronico sono: a) malattia polmonare ostruttiva,

b) malattia polmonare restrittiva, c) malattia polmonare mista (ostruttiva e restrittiva) e d) malattie vascolari

polmonari.

Malattia polmonare ostruttiva

Il quadro clinico è quello del fumatore, con frequenti episodi di bronchite soprattutto nei mesi invernali. Il

paziente riferisce a volte sintomi correlati all’incremento della CO2, quali confusione mentale e disorientamento.

I segni più frequenti sono quelli legati all’aumento della pressione venosa (turgore giugulare, epatomegalia,

edemi declivi) e quelli dipendenti dall’ipossia, come la cianosi labiale e delle estremità; è quasi sempre presente

tachicardia sinusale e non di rado fibrillazione atriale.

La radiografia del torace dimostra un cuore ingrandito, salienza del secondo arco di sinistra per dilatazione

dell’arteria polmonare ed aspetto ad albero potato della vascolatura polmonare in periferia.

I test di funzione respiratoria dimostrano riduzione di FEV1, FEV1/FVC e capacità vitale, ed aumento consistente

del volume residuo. La diffusione alveolo-capillare è ridotta.

L’emogasanalisi dimostra ipossiemia e ipercapnia. La somministrazione incongrua di ossigeno può peggiorare il

quadro emogasanalitico.

L’ECG (ECG 03) mostra ingrandimento dell’atrio destro e ipertrofia ventricolare destra (vedi Capitolo 3).

L’ecocardiogramma rivela l’ipertrofia e la dilatazione del ventricolo destro, ed anche l’ipertensione polmonare,

valutata con metodica Doppler (Figura 4). La terapia è la sospensione del fumo, la riduzione del rischio di

recidiva delle infezioni delle vie aeree e dei polmoni, la riabilitazione respiratoria, l’uso di broncodilatatori e

mucolitici, l’impiego congruo di ossigeno .

La terapia farmacologia dell’ipertensione polmonare secondaria non ha successo.

ECG. 3 - Ingrandimento atriale destro. Ipertrofia ventricolare destra. Enfisema polmonare. Cuore

Polmonare cronico.

L’ingrandimento dell’atrio destro è suggerito dalle P alte (0,35 mV in II) e appuntite, con durata normale (0,09

secondi), nelle derivazioni II, III e aVF. Vi sono, inoltre, onde P appuntite in tutte le derivazioni precordiali; in

V1 la P è positivo/negativa, e la parte positiva ha un’ampiezza di 0,2 mV.

Malattia polmonare restrittiva

Le malattie restrittive che portano al cuore polmonare cronico hanno prognosi infausta. Si possono riconoscere

due gruppi di malattie restrittive: il primo comprende le alveoliti fribrotizzanti, le pneumoconiosi, le malattie

della gabbia toracica e del suo apparato neuro-muscolare. Tutte queste malattie portano ad insufficienza

ventilatoria con iperventilazione.

Il secondo gruppo di malattie restrittive che portano a cuore polmonare è caratterizzato fin dall’ inizio da

ipoventilazione. La terapia delle fasi più avanzate è solo il supporto ventilatorio.

Malattia polmonare mista (ostruttiva e restrittiva)

I due quadri possono essere presenti: l’ aspetto clinico più tipico è quello del fumatore obeso.

Malattie vascolari polmonari

L’ostruzione o la distruzione del letto vascolare polmonare può causare ipertensione polmonare che, a sua

volta, porta a cuore polmonare. In questo caso la pressione polmonare può essere molto elevata, più che nelle

forme ipossiche.

L’ipertensione polmonare può essere post-embolica, di solito successiva a molti episodi embolici più o meno

sintomatici e spesso clinicamente non riconosciuti, oppure causata da vasculopatia per ipertensione polmonare

primitiva (vedi Capitolo 51) o associata a varie vasculiti.

L’incidenza dell’ipertensione polmonare post-embolica è minore di quanto ci si potrebbe aspettare dal numero di

embolie ritrovate all’autopsia: ciò dipende verosimilmente dall’estensione del letto vascolare polmonare e dai

potenti meccanismi trombolitici dell’endotelio polmonare.

Capitolo 50. L’Embolia Polmonare, Giuseppe Mercuro, Francesco Peliccia

DEFINIZIONE ED EPIDEMIOLOGIA

L’embolia polmonare (EP) è l’occlusione acuta del tronco o di un ramo dell’arteria polmonare, che determina un

ostacolo allo svuotamento del ventricolo destro e un’interruzione del flusso ematico nel distretto polmonare a

valle dell’occlusione. Il grado di compromissione emodinamica e respiratoria dipende dalla dimensione

dell’embolo, che può interessare la biforcazione dell’arteria polmonare (embolo a sella) o un suo ramo (Figura

1).

L’incidenza dell’EP è dello 0.5-1‰, con un rapido incremento dopo i 60 anni di età. La mortalità per EP è >15%

nei primi 3 mesi dalla diagnosi.

EZIOLOGIA

All’origine di un’EP sta, nella quasi totalità dei casi, la mobilizzazione di un trombo venoso dalla sua sede di

formazione periferica, usualmente le vene degli arti inferiori: il trombo percorre il circolo venoso refluo, l’atrio

ed il ventricolo destro ed embolizza la circolazione arteriosa polmonare. Circa la metà dei pazienti con trombosi

venosa profonda (TVP) pelvica o prossimale delle gambe subiscono un’EP, che rimane assai spesso

asintomatica. Emboli a partenza dalle vene del polpaccio sono più raramente causa di EP, ma rappresentano la

sorgente più probabile di emboli paradossi, che possono raggiungere la circolazione arteriosa sistemica

attraverso un forame ovale pervio o un difetto del setto interatriale. L’origine di un trombo dagli arti superiori è

possibile a causa dell’utilizzo crescente di cateteri venosi a permanenza per alimentazione parenterale o

chemioterapia, nonché di elettrocateteri di pacemaker e defibrillatori cardiaci.

Gli stati di ipercoagulabilità che possono causare un’EP, i fattori di rischio e le condizioni cliniche associate che

possono favorirla sono gli stessi coinvolti nel determinismo della TVP (v. Capitolo …). Una predisposizione

congenita deve essere considerata nei rari casi in cui l’EP colpisce soggetti <40 anni, con storia di ricorrenti TVP

o con anamnesi familiare positiva. I difetti genetici più frequentemente in causa sono la resistenza alla proteina

C attivata, la mutazione factor II 20210A, l’iperomocisteinemia e le carenze di Antitrombina III, proteina C e

proteina S. In una minoranza di casi (<5%) l’embolo non deriva da un trombo, ma è di natura gassosa

(posizionamento o rimozione di un catetere centrale), neoplastica, grassosa (trauma o frattura), amniotica o

settica.

FISIOPATOLOGIA

Un aumento della resistenza arteriosa polmonare è l’effetto dell’ostruzione del vaso da parte dell’embolo

e, in parte, della liberazione di serotonina dalle piastrine del trombo. Sul versante respiratorio si verifica una

diminuzione degli scambi gassosi – con ipossiemia nelle forme più gravi – derivante da: a. dissociazione tra

ventilazione e perfusione polmonare, con estensione dello spazio morto respiratorio all’area interessata dall’EP;

b. shunt di circolo a livello polmonare, per apertura di anastomosi artero-venose; c. ridotta compliance

polmonare, dovuta a perdita di surfactante e ad edema alveolare. Il subitaneo innalzamento del postcarico per

l’ostruzione vascolare polmonare può produrre dilatazione del ventricolo destro e rigurgito tricuspidale. La

dilatazione del ventricolo destro, cui può accompagnarsi aumento dei livelli circolanti di BNP, determina una

deviazione del SIV verso sinistra, limitando il riempimento diastolico del ventricolo sinistro. Questo evento,

insieme con il ridotto precarico ventricolare sinistro secondario all’insufficienza ventricolare destra può causare

diminuzione della gittata sistolica, della pressione arteriosa sistemica e della perfusione coronarica.

QUADRO CLINICO

La dispnea è il sintomo più frequente dell’EP (Tabella I). Un dolore toracico tipico è presente in caso di

ischemia miocardica, specie in soggetti con precedente cardiopatia. Altri sintomi comuni sono la tosse, la

sincope e l’emottisi. L’esame clinico mostra quasi senza eccezione tachicardia, e a volte distensione delle vene

del collo, accentuazione della componente polmonare del II tono e cianosi. E’ utile classificare l’EP in diversi

quadri clinici, per attuare la migliore strategia terapeutica e determinare la prognosi.

Un’EP massiva interessa almeno la metà del circolo arterioso polmonare, è spesso bilaterale e induce

facilmente cianosi, ipotensione arteriosa, sincope e shock cardiogeno.

I pazienti con EP da moderata a sub-massiva, che interessa all’incirca 1/3 del circolo polmonare, mostrano

una PA normale, che maschera l’instabilità emodinamica del ventricolo destro (ipocinesia, insufficienza

tricuspidale).

Nell’EP lieve un trombo di modeste dimensioni si disloca nella periferia del parenchima polmonare e può

interessare il foglietto pleurico con comparsa di dolore pleuritico e tosse. Un infarto polmonare può prodursi in

questa sede in capo a 3-7 giorni, associandosi a febbre, leucocitosi, emottisi ed un quadro radiologico tipico. La

pressione arteriosa è normale e la funzione del ventricolo destro conservata.

Tabella 1

DIAGNOSI

Per giungere alla diagnosi di EP è di grande importanza maturarne il sospetto, sulla base del profilo di rischio,

dell’anamnesi e della recente storia clinica. Peculiare dell’EP è la rapida insorgenza dei sintomi, inaspettata

rispetto alle preesistenti condizioni cliniche del paziente. Occorre poi integrare questi dati con l’esame fisico e

con gli esiti delle indagini di laboratorio e strumentali.

Test clinici e di laboratorio.

Il test semi-quantitativo a punti di Wells, rappresentato da 7 domande da porre al paziente (Tabella II), ha un

valore diagnostico di esclusione dell’EP quando rivela un punteggio =4.

Il dosaggio del D-dimero nel plasma è molto sensibile ma poco specifico, perché esso può aumentare nel

decorso post-chirurgico come pure in caso di IMA, sepsi, cancro e patologie sistemiche in generale. Elevatissimo

è il suo potere predittivo negativo (>99%): virtualmente, nessun paziente con EP in atto risulta negativo al

dosaggio del D-dimero. Elevati valori ematici di biomarker cardiaci, quali troponina e BNP correlano con il grado

di compromissione funzionale del ventricolo destro e rappresentano un indice predittivo di eventi e di morte

cardiaca. La troponina si libera in presenza di microinfarti; il BNP è secreto dai cardiomiociti in risposta

all’aumentato stress di parete.

La misura dell’ipossiemia non appare discriminante per la diagnosi di EP poiché non meno del 20% dei pazienti

mostra una PaO2 normale. Inoltre, per quanto la maggior parte dei pazienti con EP siano ipocapnici a causa

dell’iperventilazione, la differenza in O2 alveolo-arteriosa è normale nel 15-20% dei casi.

Tabella 2

Tecniche strumentali e di imaging.

Pazienti con EP possono mostrare un ECG del tutto normale, ovvero con manifestazioni di interessamento

ventricolare destro (blocco di branca incompleto o completo), un aspetto S1Q3T3 (onda S in D1, onda Q e T

invertita in D3), sopraslivellamento di ST in V1-V2 e T negative da V1 a V4 (ECG 50). Inoltre, l’ECG serve ad

escludere un infarto miocardico acuto.

La radiografia del torace presenta anormalità in non più del 25% dei casi; il reperto più comune è la

cardiomegalia. In taluni casi l’esame identifica aspetti patognomonici, quali l’oligoemia zonale, indice di un’EP

massiva e centrale, una densità periferica a forma di cuneo, indice di infarto polmonare, o una distensione

dell’arteria polmonare discendente destra (Figura 2).

L’ecocardiografia transtoracica (ETT) è una tecnica aspecifica, poiché l’esame risulta nella norma in circa la

metà dei pazienti con EP. Del resto, l’enorme diffusione e rapidità d’esecuzione dell’ETT, insieme con l’elevata

sensibilità nell’apprezzare la dilatazione e la disfunzione del ventricolo destro, la rendono preziosa per la

stratificazione del rischio in pazienti con EP già diagnosticata. Segni di EP deducibili con l’ETT sono la rara

visualizzazione diretta del trombo, il movimento anormale del setto interventricolare, il rigurgito tricuspidale, la

dilatazione dell’arteria polmonare, il mancato collasso inspiratorio della vena cava inferiore. Infine, l’ETT può

escludere altre patologie, quali infarto miocardico acuto, dissezione aortica o pericardite.

La TC del torace con contrasto e.v. è divenuta il test di imaging elettivo nella maggior parte dei pazienti con

fondato sospetto di EP (potere predittivo negativo >99%; (Figura 3). Apparecchi di ultima generazione sono

destinati a soppiantare l’angiografia polmonare come gold standard per la diagnosi dell’EP, consentendo

l’acquisizione in pochi secondi dell’intero torace con una risoluzione inferiore a 1 mm. D’altra parte, la TC

fornisce informazioni dettagliate sulle dimensioni e la funzione del ventricolo destro.

La scintigrafia polmonare rappresenta oggi un’indagine di seconda scelta in caso di sospetta EP, mentre è

riservata a pazienti in gravidanza, oppure con insufficienza renale o allergia al contrasto.

La risonanza magnetica (RM) angiografica utilizza un mezzo di contrasto non nefrotossico e pressoché esente

da reazioni allergiche. Sensibilità e specificità diagnostiche sono paragonabili a quelle della TC di prima

generazione, consentendo l'identificazione di EP segmentarie. La RM è in grado di valutare anche la funzione del

ventricolo destro.

ECG. 50 - Embolia Polmonare

Nell’ECG 50-A si osserva tachicardia sinusale 120/m’ e blocco incompleto della branca destra, testimoniato dai

complessi rSr’ in V1 e dalle onde s terminali piuttosto larghe in I, II e V6. Nelle derivazioni da V1 a V3 il tratto

ST è sopraslivellato a convessità superiore, mentre l’onda T è negativa, ampia ed a branche tendenzialmente

simmetriche da V1 a V4.

Nell’ECG 50-B, registrato il giorno precedente, si rileva l’assenza di onda s in I derivazione; non vi è, inoltre,

onda r’ in V1, e la morfologia del complesso in III è rs, non qs come nell’ECG 50-A. Il tratto ST nelle precordiali

destre è normale, e le onde T sono positive da V2 a V6 e in III derivazione.

Il carattere repentino delle modificazioni, unitamente ai segni rilevati nel tracciato della Figura A, depongono

per un’embolia polmonare. In particolare, l’associazione di: 1) tachicardia sinusale, 2) blocco di branca destra di

recente insorgenza, 3) tratto ST sopraslivellato nelle precordiali destre, 4) inversione pressoché generalizzata

delle onde T nelle derivazioni precordiali e in III, 5) scomparsa dell’onda r in III derivazione, con trasformazione

di un rs in un qs, assume alta sensibilità diagnostica nei confronti dell’embolia polmonare.

Tecniche invasive

L’angiografia polmonare è idonea a riconoscere emboli di 1–2 mm quali difetti di riempimento vasale

intraluminale. Segni secondari di EP sono la netta interruzione di un vaso, l’oligoemia segmentale o una totale

mancanza di circolo ed una fase arteriosa prolungata. L’angiografia è riservata ai pazienti con TC non

diagnostica o che devono essere sottoposti ad embolectomia transcatetere o trombolisi mirata.

Nella pratica clinica, è auspicabile un approccio diagnostico integrato, esemplificato dal diagramma in Figura 4.

Esso prevede a. l’anamnesi indirizzata al profilo di rischio tromboembolico, l’esame fisico e il calcolo dell’indice

di Wells; b. un ECG ed una radiografia del torace; c. il dosaggio del D-dimero che, se negativo, esclude l’EP in

soggetti con indice di Wells =4; d. la TC o la scintigrafia polmonare, nonché l’ecografia venosa degli arti.

In sintesi, l’EP può essere esclusa in pazienti con bassa probabilità clinica e D-dimero negativo, così come in

quelli a rischio elevato, ma con TC negativa.

Purtroppo, per quanto il test del D-dimero per l’esclusione dell’EP e quello della TC per la sua visualizzazione

abbiano nettamente perfezionato la sensibilità diagnostica, l’EP rimane ancora ardua da diagnosticare e quadri

di EP sub-massiva o moderata rimangono non riconosciuti in non meno del 50% dei pazienti.

TERAPIA

Una rapida stratificazione della gravità dell’EP è fondamentale per il corretto inquadramento clinico del paziente

e per la scelta della terapia più appropriata. A questo scopo può essere utilizzato l’indice a punti di Ginevra che

si basa su parametri anamnestici, clinici e strumentali facilmente ottenibili (Tabella III).

Il trattamento dei pazienti con EP può essere farmacologico, interventistico o chirurgico. La scelta tra queste tre

strategie dipende sia dalla loro disponibilità sia, soprattutto, dal grado di compromissione clinica e funzionale

determinato dall’EP. Supporti terapeutici immediati sono la somministrazione di 02 e la sedazione del dolore

toracico con antinfiammatori non-steroidei. In soggetti a basso rischio, con pressione sistemica normale e senza

evidenza di disfunzione ventricolare destra, il trattamento è mirato alla prevenzione di ricorrenti EP e/o TVP e si

basa sulla sola anticoagulazione. Caposaldo di tale trattamento è l’eparina non frazionata (ENF), la cui

somministrazione previene l’ulteriore formazione di trombi e consente alla fibrinolisi endogena di dissolvere il

trombo già formato. Una valida alternativa all’ENF è oggi rappresentata dalle eparine a basso peso molecolare,

frammenti di eparina con migliore biodisponibilità e più lunga emivita dell’ENF e che, a differenza di questa, non

richiedono un monitoraggio della terapia con determinazione del PTT. Insieme all’eparina occorre iniziare la

somministrazione di un anticoagulante orale (AO), warfarin o acenocumarolo, il cui pieno effetto si manifesta in

genere dopo 5 giorni. L’eparina garantisce l’effetto anticoagulante finché l’AO non abbia prodotto valori di INR

superiori a 2 per almeno 2 giorni consecutivi. In seguito, la dose di AO va scelta con l’obiettivo di mantenere

l’INR tra 2 e 3.

In caso di emorragia in atto, di controindicazione all’uso degli anticoagulanti ovvero di EP ricorrente nonostante

l’AO. è possibile ricorrere al posizionamento di un filtro nella vena cava inferiore.

Pazienti con EP massiva e shock cardiogeno o portatori di vasta trombosi ileo-femorale, sono candidati alla

trombolisi, al fine di ridurre la mortalità e prevenire la ricorrenza di EP. Ciò avviene attraverso la dissoluzione

sia del trombo occludente l’arteria polmonare, con rapido miglioramento dello scompenso cardiaco destro, sia

dei trombi emboligeni presenti nella periferia del sistema venoso.

Quando un’EP massiva determina una grave compromissione delle funzioni cardiorespiratorie, imponendo la

ventilazione assistita e il supporto cardiocircolatorio, oppure quando la trombolisi non abbia avuto successo o

sia controindicata, è appropriata l’embolectomia, con rimozione meccanica del materiale trombotico dall’arteria

polmonare. Questa tecnica è stata eseguita per molti anni solo chirurgicamente, a torace aperto, in arresto di

circolo o a cuore battente, costituendo un intervento efficace, ma gravato da una significativa mortalità.

Attualmente, è invece possibile l’embolectomia per via percutanea in sala di emodinamica. La procedura non

necessita di anestesia generale, richiede solo un accesso venoso, in genere a livello femorale e si esegue con

speciali cateteri che frammentano e aspirano il trombo occlusivo.

In considerazione della difficoltà di diagnosticare l’EP e di contenere il danno clinico che essa produce, è

fondamentale attuare un’efficace prevenzione del tromboembolismo venoso. Occorre diffondere l’opinione che

virtualmente tutti i soggetti ospedalizzati sono a rischio di EP e, se del caso, debbono ricevere misure

preventive appropriate. Per i pazienti a rischio più elevato la terapia anticoagulante (eparine a basso peso

molecolare o AO) ed i presidi meccanici (calze elastiche o compressione pneumatica intermittente) che

incrementano il flusso venoso e stimolano la fibrinolisi endogena, rappresentano una profilassi con un rapporto

costo/beneficio assai vantaggioso.

Tabella 3

Capitolo 51. L’Ipertensione Polmonare Primitiva, Carmine Dario Vizza, Roberto Badagliacca, Roberto

Poscia, Francesco Fedele

DEFINIZIONE

L’ ipertensione polmonare viene definita come un aumento della pressione polmonare media superiore a

25 mmHg in condizioni di riposo o di 35 mmHg durante attività fisica. Per cuore polmonare cronico (vedi

Capitolo 48) si intendono gli adattamenti morfofunzionali del ventricolo destro che si osservano in corso di

ipertensione polmonare, caratterizzati da aumento dello spessore della parete libera, dilatazione della cavità e

riduzione della funzione sistolica.

CENNI DI FISIOLOGIA E FISIOPATOLOGIA DEL CIRCOLO POLMONARE

Il circolo polmonare è caratterizzato da alto flusso e basse resistenze: è sufficiente una pressione media di soli

12-15 mmHg per far fluire tutta la portata cardiaca (circa 4-5 litri) attraverso i polmoni.

Da un punto di vista emodinamico, dobbiamo distinguere due diverse forme di ipertensione:

• ipertensione polmonare precapillare, che coinvolge il circolo polmonare a livello arteriolare,

provocando un aumento della pressione solo nell’arteria polmonare;

• ipertensione polmonare postcapillare, causata da un aumento delle resistenze a livello venulare o

delle sezioni cardiache sinistre (come accade in corso di valvulopatie o miocardiopatie); in questa

situazione, l'aumento della pressione in arteria polmonare è necessario per mantenere un normale

gradiente transpolmonare.

La distinzione tra queste due condizioni è importante dal punto di vista clinico e terapeutico, poiché:

• nella maggioranza dei casi l’ipertensione post-capillare è secondaria ad una disfunzione ventricolare

sinistra, ed il trattamento deve riguardare la patologia ventricolare sinistra;

• nelle forme precapillari la compromissione cardiaca è prevalente a livello del cuore destro e le cure sono

rivolte alla riduzione delle resistenze arteriolari polmonari.

CLASSIFICAZIONE

Si distinguono 5 forme principali di ipertensione polmonare:

• Ipertensione arteriosa polmonare (precapillare)

• Ipertensione venosa polmonare (postcapillare)

• Ipertensione polmonare secondaria a malattie polmonari (precapillare)

• Ipertensione polmonare secondaria a malattie tromboemboliche (precapillare)

• Miscellanea

Ipertensione arteriosa polmonare (IAP)

In questo gruppo vengono riunite le forme di ipertensione polmonare che hanno caratteristiche simili a quelle

dell’ipertensione polmonare primitiva, che nella più recente classificazione viene definita come ipertensione

arteriosa polmonare idiopatica. Oltre alla forma idiopatica e familiare, la IAP può essere associata al consumo di

anoressizzanti, a malattie del connettivo (sclerodermia, lupus), all'infezione da HIV, all’ipertensione porto-

polmonare, alle cardiopatie congenite con iperafflusso polmonare (sindrome di Eisenmenger) (vedi Capitolo

51); rientra in questo gruppo anche l’ipertensione polmonare persistente nel neonato.

Tutte queste forme sono caratterizzate da un interessamento quasi esclusivo della componente vascolare del

polmone, con ostruzione delle arteriole di piccolo calibro secondaria a proliferazione delle cellule endoteliali e

della media ed a fenomeni di trombosi in situ.

Ipertensione venosa polmonare

E’ una forma di ipertensione polmonare post-capillare, il cui principale meccanismo emodinamico è l’aumento

della pressione atriale sinistra (valvuopatie mitraliche) o telediastolica ventricolare sinistra (disfunzione

ventricolare secondaria a valvulopatie, cardiopatia ischemica, miocardiopatie etc.. ). In questa situazione la

pressione in arteria polmonare aumenta per mantenere il gradiente transpolmonare.

Ipertensione polmonare secondaria a patologie parenchimali polmonari

E' la forma più frequente di ipertensione polmonare precapillare; interessa prevalentemente pazienti con grave

patologia polmonare e insufficienza respiratoria ipossica e ipercapnica (vedi Capitolo 48).

Ipertensione polmonare secondaria a tromboembolia cronica

Questa forma rappresenta l’esito di uno o più episodi embolici polmonari che non si sono risolti in modo

completo. L’albero vascolare polmonare è ostruito da formazioni costituite da tessuto fibroso tenacemente

aderente all'intima del vaso. L’incidenza di ipertensione polmonare cronica in pazienti con embolia polmonare è

variabile tra lo 0,1 e il 3%.

PATOGENESI DELL’IPERTENSIONE ARTERIOSA POLMONARE

L’ipertensione arteriosa polmonare idiopatica è una sindrome complessa, multifattoriale, in cui esiste una

predisposizione genetica che conferisce una particolare “reattività” vascolare polmonare a stimoli di varia

natura. Una delle ipotesi patogenetiche più accreditate è che diversi fattori (virus, tossine, fenomeni

autoimmunitari, ecc.), agendo su un terreno predisposto geneticamente, possano causare una lesione

endoteliale rompendo l’equilibrio tra fattori vasodilatanti/antimitogeni e fattori vasocostrittori/mitogeni a favore

di questi ultimi. Si innescherebbe quindi un circolo vizioso caratterizzato da vasocostrizione, proliferazione delle

cellule muscolari lisce ed endoteliali ed attivazione della cascata coagulativa, il cui esito è la formazione delle

lesioni arteriolari che si osservano in questa malattia.

FISIOPATOLOGIA

Nel corso della malattia si assiste ad un progressivo aumento delle resistenze vascolari, e per mantenere la

portata cardiaca il ventricolo destro deve generare pressioni sempre più elevate. La progressione verso

l’insufficienza cardiaca dipende dalla capacità del ventricolo destro di mantenere una funzione accettabile a

fronte di un continuo aumento delle resistenze vascolari polmonari. L’ipertrofia del ventricolo destro è quasi

sempre un meccanismo di compenso non adeguato, per cui si assiste a riduzione della funzione sistolica,

dilatazione delle sezioni destre e comparsa di insufficienza tricuspidale e polmonare per dilatazione degli anelli

valvolari.

Nel corso della malattia si passa da una fase asintomatica o paucisintomatica (la portata cardiaca è normale a

riposo, e riesce parzialmente ad incrementarsi durante esercizio fisico) ad una fase sintomatica, con ridotta

tolleranza allo sforzo (portata cardiaca normale a riposo, incapacità di aumento sotto sforzo), per arrivare alla

fase terminale in cui la portata cardiaca è ridotta anche a riposo.

Insieme alle modificazioni della portata si assiste ad un aumento delle pressioni di riempimento ventricolare

destro, con la comparsa dei segni di congestione sistemica (turgore delle giugulari, epatomegalia e edemi

declivi). Oltre a fattori meccanici (aumento della pressione atriale destra), contribuiscono alla comparsa degli

edemi anche fattori neuro-ormonali, come avviene nel corso dell'insufficienza ventricolare sinistra. L'attivazione

del sistema renina-angiotensina-aldosterone e dell'endotelina contribuiscono alla ritenzione idro-salina ed alla

formazione di edemi

SINTOMI E SEGNI

I sintomi della ipertensione arteriosa polmonare sono aspecifici e sono riconducibili alla incapacità di aumentare

la portata cardiaca durante attività fisica e all’aumento del lavoro respiratorio. Comprendono, in ordine di

frequenza, la dispnea (inizialmente da sforzo, nelle forme più gravi a riposo), l’astenia, il dolore precordiale, la

lipotimia/sincope. Questo quadro sintomatologico si può associare a segni obiettivi di ingrandimento

ventricolare destro, con insufficienza della tricuspide (soffio olostolico sulla margino-sternale sinistra al IV

spazio intercostale) o suggestivi di ipertensione polmonare (aumento di intensità del II tono sul focolaio della

polmonare). Nei casi più avanzati si osserva un quadro di insufficienza ventricolare destra (edemi declivi,

turgore delle giugulari, epatomegalia, cianosi).

DIAGNOSI

La diagnosi di ipertensione polmonare è difficile perchè i sintomi sono aspecifici e compaiono solo negli stati

avanzati della malattia.

Nei soggetti con aumentata probabilità di sviluppare ipertensione arteriosa polmonare (pazienti con malattie del

connettivo, con cardiopatie congenite operati e non, con infezione da HIV) il peggioramento della dispnea o

dell’astenia, la comparsa di episodi lipotimici/sincopali da sforzo, l’ipertrofia ventricolare destra all’ECG (Figura

1) o la dilatazione dell’arteria polmonare destra alla radiografia del torace (Figura 2) possono far nascere il

sospetto di un’ipertensione polmonare. Questo deve essere confermato dall’ecocardiogramma bidimensionale e

Doppler, che permette di stimare la pressione sistolica in arteria polmonare attraverso il calcolo della velocità di

rigurgito tricuspidale (vedi Capitolo 4) (Figura 3) e di valutare il grado di disfunzione ventricolare destra

(Figura 4).

Per la diagnosi di ipertensione arteriosa polmonare primitiva è necessario escludere la presenza di:

- una pneumopatia significativa (le prove di funzionalità respiratoria permettono di riconoscere una patologia

parenchimale polmonare, Figura 5).

- un’ipertensione polmonare secondaria a tromboembolismo cronico: in questi casi la scintigrafia polmonare

evidenzia difetti segmentari della perfusione (Figura 6) o la TC spirale dimostra trombosi nei rami dell’arteria

polmonare (Figura 7).

- un’ipertensione venosa polmonare, suggerita dalla presenza di disfunzione ventricolare sinistra (ECO 29).

Raggiunta la diagnosi, è necessario eseguire ulteriori indagini che permettano di stabilire se l’ipertensione

arteriosa polmonare è idiopatica o associata ad altre patologie (Tabella I).

CENNI DI TERAPIA

La terapia medica è in primo luogo imperniata sul trattamento dell’insufficienza cardiaca congestizia e prevede

l’uso di diuretici (furosemide, spironolattone) e digitale; gli anticoagulanti orali possono essere utili in quanto un

rilievo istopatologico frequente è la trombosi in situ. I calcio-antagonisti si impiegano solo nei casi responsivi ad

un test acuto di vasodilatazione; sono indicati nella terapia a lungo termine la nifedipina o il diltiazem.

L'ossigenoterapia è necessaria nei pazienti con ipossiemia a riposo.

Farmaci specifici per l'ipertensione arteriosa polmonare

Prostanoidi

Il razionale per l'uso di questo categoria di farmaci consiste nel rilievo di un deficit di produzione di prostaciclina

a livello dell'endotelio dei piccoli vasi polmonari, con vasocostrizione, aggregazione piastrinica e proliferazione

degli elementi mio-intimali. I prostanoidi attualmente disponibili sono: l’epoprostenolo (somministrato per via

infusionale continua), l’iloprost (per via inalatoria) e il treprostinil (per via sottocutanea). Tali farmaci hanno

dimostrato efficacia nel migliorare la tolleranza allo sforzo e la la sopravvivenza a lungo termine dei pazienti con

ipertensione arteriosa polmonare idiopatica.

Antagonisti recettoriali dell'endotelina

L’endotelina, mediatore autocrino e paracrino della proliferazione endoteliale e delle cellule muscolari lisce, ha

certamente un ruolo nella patogenesi dell'ipertensione arteriosa polmonare. Il bosentan (antagonista dei

recettori ETA ed ETB dell’endotelina), il sitaxentan e l’ambrisentan (antagonisti selettivi del recettore ETA)

possono essere somministrati per via orale e si sono dimostrati efficaci sia nell’ipertensione arteriosa polmonare

idiopatica, che nelle forme secondaria a connettiviti.

Sildenafil

Il farmaco agisce bloccando la fosfodiesterasi 5 (particolarmente rappresentata a livello del circolo polmonare)

con conseguente aumento del GMPc intracellulare che, in acuto, causa vasodilatazione e in cronico esercita un

effetto antiproliferativo sulle cellule muscolari lisce. Il farmaco è efficace nel migliorare l’emodinamica e la

tolleranza allo sforzo nei pazienti con IAP.

Terapie chirugiche

In caso di fallimento della terapia medica, l'unica alternativa è quella del trapianto di polmone. Nei casi con

insufficienza congestizia refrattaria alla terapia medica che non possono essere messi in lista per il trapianto è

possibile un intervento palliativo di settostomia atriale con catetere a palloncino durante cateterismo cardiaco

(una procedura simile a quella che si esegue nella trasposizione dei grossi vasi, vedi Capitolo 53). Si crea così

un difetto interatriale con shunt destro-sinistro (la pressione in questi pazienti è maggiore nell’atrio destro che

nel sinistro) che consente una decompressione delle sezioni destre ed un aumento del riempimento ventricolare

sinistro, a scapito della comparsa di cianosi. I risultati clinici della settostomia sono buoni, con riduzione

dell’ascite e dell’epatomegalia e miglioramento della portata cardiaca sistemica.

Sezione XV. Cardiopatie Congenite

Capitolo 52. Cardiopatie Congenite Parte I, Raffaele Calabrò, Giuseppe Pacileo, Maria Giovanna Russo,

Marianna Carrozza, Carmela Morelli, Alessandra Rea, Giampiero Gaio

DEFINIZIONE E FISIOPATOLOGIA DELLE CARDIOPATIE CONGENITE

Le cardiopatie congenite rappresentano le più frequenti malformazioni riscontrate alla nascita, con un’incidenza

che varia dal 2.5 al 12% nelle diverse aree geografiche. Sulla base del quadro fisiopatologico, le cardiopatie

congenite possono essere classificate in cinque gruppi principali.

1) Nelle cardiopatie con iperafflusso polmonare si realizza un passaggio di sangue dal cuore sinistro al cuore

destro a causa di una comunicazione anomala tra la circolazione sistemica e quella polmonare (shunt sistemico-

polmonare). Tale shunt sinistro-destro comporta un iperafflusso polmonare, cioè un aumento della portata

ematica polmonare, che risulta maggiore di quella sistemica. L’aumentato ritorno venoso polmonare che ne

consegue determina un sovraccarico di volume delle cavità cardiache destre o sinistre a seconda che la sede

dello shunt sia localizzata al di sopra (shunt pre-tricuspidalico) o al di sotto (shunt post-tricuspidalico) della

valvola tricuspide.

2) Nelle cardiopatie con ipoafflusso polmonare è presente una riduzione del flusso ematico polmonare,

generalmente secondaria ad un ostacolo all’efflusso del sangue dal ventricolo destro. Ne consegue ridotta

ossigenazione del sangue arterioso e cianosi.

3) Nelle cardiopatie con circolazioni in parallelo il sangue venoso sistemico non ossigenato proveniente dalle

vene cave ritorna direttamente nel circolo arterioso sistemico, mentre il sangue venoso polmonare ossigenato

viene nuovamente inviato nella circolazione polmonare (Figura 1). Tale condizione si determina nella

trasposizione delle grandi arterie (cardiopatia congenita in cui l’aorta origina dal ventricolo destro e l’arteria

polmonare dal ventricolo sinistro), ed è incompatibile con la vita, a meno che non esista una comunicazione

anatomica tra le due circolazioni (per esempio, difetto interatriale o dotto arterioso). Il neonato con questo tipo

di patologia presenta cianosi alla nascita e più tardivamente scompenso.

4) Le cardiopatie dotto-dipendenti sono caratterizzate da una severa ostruzione o atresia dell’efflusso

ventricolare destro o sinistro, per cui il flusso sistemico o quello polmonare dipende totalmente dalla pervietà

del dotto di Botallo. Queste cardiopatie portano a cianosi o scompenso cardiaco precoce.

5) Le cardiopatie con ostruzione all’efflusso ventricolare sono caratterizzate da una stenosi lungo l’efflusso

ventricolare destro o sinistro, tale da determinare un sovraccarico di pressione del ventricolo. A differenza di

quelle “dotto-dipendenti”, in tali cardiopatie la gravità dell’ostruzione non è tale da condizionare una dipendenza

del circolo polmonare o sistemico della pervietà del dotto di Botallo, per cui la sintomatologia clinica,

caratterizzata da cianosi o scompenso cardiaco, può comparire anche più tardivamente.

SEGNI CLINICI

La cianosi e lo scompenso cardiaco sono i principali segni clinici di una cardiopatia congenita. La cianosi è una

colorazione bluastra della cute e delle mucose dovuta alla presenza di almeno 5 grammi di emoglobina ridotta

per decilitro di sangue. Tale condizione si può verificare per desaturazione del sangue arterioso (cianosi

centrale) o per rallentamento del circolo periferico ed aumentata estrazione di ossigeno dal sangue capillare

(cianosi periferica). Per rilevare la cianosi nel neonato è opportuno osservare soprattutto la punta del naso, le

labbra, la mucosa orale e la lingua. Lo scompenso cardiaco è una condizione determinata dall’incapacità

dell’apparato cardiovascolare a mantenere una portata cardiaca adeguata a soddisfare le esigenze metaboliche

dell’organismo. In età pediatrica il sintomo più comune di scompenso cardiaco è la difficoltà ad alimentarsi e di

conseguenza il ritardo della crescita. I segni clinici che possono presentarsi in un bambino in condizione di

scompenso sono soprattutto pallore, sudorazione eccessiva, polipnea (> 60/minuto), dispnea, rientramenti

intercostali, rantoli, tachicardia ed epatomegalia. Spesso si ascoltano il III e il IV tono (vedi Capitolo 2).

CLASSIFICAZIONE

Le principali cardiopatie congenite possono essere suddivise, in base ai diversi modelli fisiopatologici, in cinque

gruppi. Per ogni singolo gruppo, sono elencate di seguito in parentesi, le cardiopatie più frequenti, che saranno

trattate in questo capitolo ed in quello successivo.

• Cardiopatie congenite semplici con shunt sinistro-destro (Difetto interatriale, Difetto interventricolare,

Pervietà del dotto di Botallo)

• Cardiopatie congenite con ostruzione all’efflusso ventricolare destro (Stenosi polmonare, Tetralogia di

Fallot)

• Cardiopatie congenite con ostruzione all’efflusso ventricolare sinistro (Stenosi aortica, Coartazione

aortica)

• Cardiopatie congenite con circolazione in parallelo (Trasposizione dei grossi vasi)

• Cardiopatie congenite complesse (Canale atrioventricolare, Atresia della tricuspide, Cuore

univentricolare, Truncus arterioso, Trasposizione corretta dei grossi vasi, Malattia di Ebstein).

DIFETTO INTERATRIALE

Il difetto interatriale isolato rappresenta circa il 10% di tutte le cardiopatie congenite; dal punto di vista

anatomopatologico, il setto interatriale presenta una soluzione di continuo che può avere sede e dimensione

variabili. Si distinguono quattro tipi di difetto interatriale (Figura 2):

- ostium secundum, localizzato nella parte centrale del setto a livello della regione della fossa ovale.

- ostium primum, localizzato nella parte bassa del setto, appena al di sopra delle valvole atrioventricolari.

- seno venoso.

- seno coronarico.

La presenza di una comunicazione tra le due cavità atriali determina, a causa della maggiore pressione vigente

nell’atrio sinistro, uno shunt sinistro-destro la cui entità varia in rapporto alle dimensioni del difetto e alla

differenza di pressione tra i due atri. Questa cardiopatia è caratterizzata da iperafflusso polmonare (portata

polmonare superiore a quella sistemica) e da sovraccarico di volume dell'atrio e del ventricolo destro.

Segni clinici. La maggior parte dei pazienti con difetto interatriale di moderata ampiezza è asintomatica fino alla

quarta-quinta decade di vita. I reperti ascoltatori dovuti all'iperafflusso polmonare sono rappresentati da un

soffio sistolico eiettivo localizzato al II-III spazio intercostale lungo la margino-sternale sinistra e da uno

sdoppiamento ampio e “fisso” del II tono (Vedi Capitolo II).

L'elettrocardiogramma mostra di solito i segni di un ingrandimento atriale e ventricolare destro, con aspetto

tipo blocco di branca destra (ECG 9 , ECG 10).

L'esame radiografico mostra un ingrandimento delle sezioni destre del cuore, dilatazione dell'arteria polmonare

ed iperafflusso polmonare (Figura 3).

L'ecocardiogramma transtoracico permette di diagnosticare con precisione tipo, sede e dimensioni del difetto.

(Figura 4). L'ecocardiogramma transesofageo mostra il difetto e lo shunt con grande evidenza (ECO 50).

Cenni di terapia. La terapia del difetto interatriale è di tipo chirurgico o interventistico. Nei pazienti adulti e nei

bambini con peso maggiore di 20 kg, il DIA tipo ostium secundum può essere chiuso per via percutanea

mediante impianto di protesi a doppio ombrello (Figura 5).

Prognosi e follow-up. La quasi totalità dei pazienti raggiunge in assenza di sintomi la prima e la seconda

decade. Dopo la terza decade vita, si rileva spesso la comparsa di aritmie sopraventricolari (episodi di

fibrillazione atriale parossistica, con evoluzione successiva in fibrillazione cronica). Nel DIA ampio può comparire

in età avanzata l'ipertensione polmonare, con riduzione dello shunt sinistro-destro e, nelle fasi più avanzate,

comparsa di shunt destro-sinistro e quindi cianosi.

ECG. 9 - Blocco di branca destra

Il blocco di branca destra è testimoniato dal complesso rSR’ in V1 con T negativa, dalle onde s larghe e

rallentate in I, aVL, V5 e V6 e dalla durata aumentata del QRS (0.18 secondi).

ECG. 10 - Blocco di branca destra

Il blocco di branca destra viene suggerito dal complesso rSR’ in V1 con T negativa, dalle onde s larghe e

rallentate in I, II, V5, V5 e V6 e dalla durata aumentata del QRS (0.16 secondi).

DIFETTO INTERVENTRICOLARE

Fisiopatologia ed anatomia patologica. Consiste in una soluzione di continuo del setto interventricolare, la cui

sede e dimensione sono estremamente variabili. I difetti interventricolari vengono classificati in (Figura 6):

• Difetti perimembranosi, localizzati nella porzione membranosa del setto interventricolare.

• Difetti muscolari, localizzati esclusivamente nel setto muscolare.

Quadro clinico. Nei difetti di ampiezza moderata, i sintomi sono generalmente assenti nei primi giorni o

settimane di vita, ma successivamente la riduzione delle resistenze vascolari polmonari provoca un aumento

dell’iperafflusso polmonare con conseguente comparsa di difficoltà nell'alimentazione, scarso accrescimento

ponderale o anche segni conclamati di scompenso cardiaco. All'ascoltazione è presente in questi casi un soffio

olosistolico con massima intensità al bordo sternale sinistro basso. Nei difetti ampi, invece, la sintomatologia

compare precocemente, e si realizza il quadro dello scompenso cardiaco, caratterizzato da tachipnea,

sudorazione eccessiva, epatomegalia, scarso incremento ponderale e ritardo di crescita.

Diagnostica strumentale. L’elettrocardiogramma è normale nei difetti piccoli, mentre si possono rilevare segni di

ipertrofia biventricolare nei difetti moderati e ampi (Figura 7).

La radiografia del torace mostra cardiomegalia ed eventuali segni di iperafflusso.

L’ecocardiogramma-colorDoppler rappresenta la metodica diagnostica di prima scelta, utile per individuare la

sede del difetto e le eventuali anomalie associate (Figura 8, Figura 9).

Il cateterismo cardiaco viene impiegato come metodica diagnostica solo nel sospetto di ipertensione polmonare,

o anche per stimare l’entità dello shunt in caso di dati clinici incerti o per escludere malformazioni associate se i

reperti ecocardiografici sono dubbi.

Cenni di terapia. Ai pazienti con sintomi clinici di marcato iperafflusso polmonare si somministrano farmaci ACE-

inibitori e diuretici. L'intervento chirurgico va effettuato precocemente (primi mesi di vita) nei casi di difetto

interventricolare ampio con scompenso cardiaco refrattario al trattamento farmacologico. Nei DIV piccoli, per i

quali non vi è indicazione alla correzione chirurgica, è consigliabile una profilassi antibiotica in caso di manovre

invasive, per ridurre il rischio di endocardite infettiva.

Prognosi e follow-up. La storia naturale del difetto interventricolare è caratterizzata da un ampio spettro di

possibilità, che variano dalla chiusura spontanea allo scompenso cardiaco congestizio. Nei pazienti adulti con

ampi difetti interventricolari si sviluppa spesso una grave ipertensione polmonare, per cui lo shunt s’inverte,

divenendo destro-sinistro, e compaiono cianosi, policitemia e ippocratismo digitale (sindrome di Eisenmenger).

PERVIETÀ DEL DOTTO ARTERIOSO

Fisiopatologia ed anatomia patologica. Durante la vita fetale il dotto arterioso, che connette l’arteria polmonare

sinistra all’aorta, presenta dimensioni uguali a quelle dell'aorta ascendente, e convoglia il flusso ventricolare

destro verso l'aorta discendente. Dopo la nascita esso tende rapidamente a chiudersi grazie alla contrazione

della componente muscolare, stimolata dall'aumento della tensione di ossigeno arteriosa secondaria all'inizio

della respirazione. La chiusura è ritardata o assente nel neonato prematuro, nel quale l'incidenza di pervietà

duttale è superiore a quella del nato a termine. La presenza di uno shunt duttale tra il circolo sistemico e quello

polmonare condiziona un aumento del ritorno venoso polmonare e provoca un sovraccarico diastolico delle

sezioni sinistre responsabile, alla fine, di una disfunzione ventricolare sinistra. In caso di ampio shunt duttale si

può sviluppare con gli anni una vasculopatia polmonare irreversibile.

Segni clinici. Le manifestazioni cliniche del dotto arterioso pervio dipendono dall'entità dello shunt e dalla

capacità del paziente di compensare al sovraccarico di volume delle sezioni sinistre. Un dotto arterioso medio-

ampio nel neonato può manifestarsi sotto forma di sindrome da distress respiratorio oppure di scompenso

cardiaco con tachicardia, tachipnea, rientramenti intercostali e rantoli polmonari. Nel casi di dotti arteriosi di

piccole dimensioni, invece, i reperti obiettivi sono limitati alla presenza di un soffio continuo in sede

sottoclaveare sinistra (vedi Capitolo 2), con aumento di intensità della componente polmonare del II tono.

Diagnostica strumentale. I reperti elettrocardiografici non sono significativi in caso di shunt lieve, mentre in

presenza di un ampio dotto arterioso pervio si rilevano i segni dell’ipertrofia ventricolare sinistra o

biventricolare. La radiografia del torace mostra cardiomegalia e aumentata vascolarizzazione polmonare quando

lo shunt è moderato o severo.

L’ecocardiogramma conferma la diagnosi, rilevando la presenza del dotto arterioso e la dilatazione delle sezioni

sinistre negli shunt significativi. (Figura 10).

Cenni di terapia. Nel neonato prematuro, la chiusura del dotto arterioso può essere favorita dalla

somministrazione di farmaci anti-prostaglandinici (anti-infiammatori non steroidei, dei quali il più usato è

l'ibuprofene). Nel caso di dotti ampi che determinino scompenso cardiaco o ipertensione polmonare in un

neonato, il trattamento chirurgico rimane l'unica opzione terapeutica. Nel caso, invece, di dotti di moderata

ampiezza è possibile procedere, dopo il periodo neonatale (a partire dai 5 kg di peso), alla chiusura percutanea

mediante spirali metalliche o protesi in nitinol (Figura 11). Questa metodica è divenuta l'opzione terapeutica di

scelta data la sua elevata efficacia ed il basso rischio che comporta.

Prognosi e follow-up. La diagnosi di dotto arterioso pervio costituisce di per se stessa l'indicazione al

trattamento per evitare l'insorgenza dello scompenso cardiaco (in caso di dotti arteriosi di grandi dimensioni) e

ridurre il rischio di endocardite batterica (in caso di dotti arteriosi di piccole dimensioni). La chiusura chirurgica

o in sala di emodinamica è gravata da una bassa mortalità e morbilità.

STENOSI POLMONARE VALVOLARE

Fisiopatologia ed anatomia patologica. La valvola polmonare stenotica è caratterizzata da un aspetto

cupoliforme, con ispessimento e scarsa mobilità delle cuspidi, che si presentano fuse tra loro e/o displasiche. La

conseguenza funzionale della stenosi polmonare valvolare è l'ostruzione all'efflusso ematico dal ventricolo

destro, con conseguente sovraccarico pressorio del ventricolo, che va incontro ad ipertrofia e talora si presenta

ipocontrattile.

Segni clinici. Nel neonato con stenosi polmonare critica dotto-dipendente le manifestazioni cliniche iniziano dopo

la nascita, al momento della chiusura del dotto arterioso, e consistono in cianosi ed acidosi metabolica.

Viceversa, la maggior parte dei pazienti con stenosi polmonare valvolare lieve-moderata è asintomatica e la

diagnosi viene effettuata nel corso di una visita clinica routinaria. Il reperto clinico diagnostico della stenosi

polmonare valvolare è costituito dal soffio sistolico eiettivo a livello del focolaio polmonare (II spazio

intercostale sinistro, sull’emiclaveare).

Diagnostica strumentale. La radiografia del torace mostra un aumento del II arco di sinistra, espressione

dell'ectasia post-stenotica del tronco dell'arteria polmonare e, nel caso di stenosi severa, un’iperdiafania dei

campi polmonari, dovuta all’ipoafflusso.

L'elettrocardiogramma mostra un’ipertrofia ventricolare destra proporzionale all'entità della stenosi.

L'ecocardiografia è estremamente utile per valutare le caratteristiche morfologiche della valvola polmonare, il

grado di stenosi e le conseguenze fisiopatologiche dell'ostruzione (ipertrofia ventricolare destra) (Figura 12).

Cenni di terapia. Il trattamento chirurgico è stato ormai sostituito quasi completamente dalla valvuloplastica

polmonare percutanea eseguita con catetere a palloncino in corso di cateterismo cardiaco. Questa tecnica è

altamente sicura ed efficace, potendo essere impiegata in tutte le fasce di età ed in pazienti con qualsiasi tipo di

stenosi valvolare (Figura 13).

Prognosi e follow-up. Senza trattamento, la stenosi valvolare polmonare severa può determinare disfunzione

ventricolare destra con scompenso cardiaco. Dopo trattamento interventistico, raramente l'ostruzione valvolare

polmonare si ripresenta, e soltanto il 5% dei pazienti necessita di una nuova procedura di dilatazione nel corso

della vita.

TETRALOGIA DI FALLOT

Fisiopatologia ed anatomia patologica. La tetralogia di Fallot è caratterizzata dalla deviazione anteriore del setto

infundibolare. Da ciò deriva il complesso malformativo costituito da: 1) difetto interventricolare, 2)

cavalcamento aortico sul setto interventricolare, 3) ostruzione all' efflusso ventricolare destro a livello

sottovalvolare, e 4) ipertrofia ventricolare destra. (Figura 14). Il quadro fisiopatologico è principalmente

determinato dall’entità dell'ostruzione all'efflusso polmonare, che condiziona la quantità del flusso polmonare e

quindi il grado di desaturazione arteriosa di ossigeno. Il difetto interventricolare è sempre ampio, cosicché la

pressione nei due ventricoli è uguale.

Figura 14 Tetralogia di Fallot. VD: ventricolo destro, VS: ventricolo sinistro, AD: atrio destro, AS: atrio

sinistro, AO: aorta, AP: arteria polmonare, DIV: difetto interventricolare. La freccia spessa indica la direzione

del flusso (sangue venoso sistemico) che dal ventricolo destro è diretto in parte in aorta, attraverso il difetto

interventricolare, ed in parte verso il letto vascolare polmonare (freccia sottile, attraverso l’efflusso destro,

stenotico per la deviazione del setto interventricolare).

Segni clinici. La caratteristica clinica principale della tetralogia di Fallot moderata o severa è costituita dalla

cianosi, la cui comparsa è legata all'ipoafflusso polmonare, tanto che nelle forme con grave ostruzione

polmonare essa si evidenzia alla nascita ed il flusso polmonare risulta dipendente dalla pervietà del dotto

arterioso. Talvolta l'ostruzione all'efflusso ventricolare destro è anche di tipo dinamico, legata ad uno spasmo

dell’infundibolo che provoca la comparsa di crisi di cianosi. Il reperto ascoltatorio tipico della tetralogia di Fallot

è costituito dal soffio eiettivo localizzato sul focolaio polmonare ed accompagnato da una riduzione di intensità o

dalla scomparsa della componente polmonare del II tono.

Diagnostica strumentale. L'elettrocardiogramma rivela un quadro di ipertrofia ventricolare destra. Nelle forme

severe, la radiografia del torace mostra un sollevamento della punta del cuore (“cuore a zoccolo”) con riduzione

del flusso vascolare polmonare ed assenza del II arco di sinistra, corrispondente all’arteria polmonare.

L'ecocardiogramma chiarisce con precisione il quadro anatomico (Figura 15), rivelando il grado di deviazione

antero-superiore del setto infundibulare, della stenosi valvolare polmonare e/o sopravalvolare, e permettendo

di valutare l’eventuale ipoplasia dell’anulus e dei rami polmonari.

Il cateterismo cardiaco e l’angiografia consentono di accertare la sede dell’ostruzione all'efflusso ventricolare

destro e le dimensioni delle arterie polmonari (Figura 16).

Cenni di terapia. Nelle forme con dotto-dipendenza del circolo polmonare e severa cianosi perinatale si rende

necessario l'uso delle prostaglandine per mantenere pervio il dotto arterioso. La terapia medica delle crisi

asfittiche è finalizzata all'aumento dell'ossigenazione periferica (ossigeno-terapia in maschera), alla risoluzione

dello spasmo infundibolare mediante la sedazione del paziente e la somministrazione di beta-bloccanti ed infine

all'aumento della pressione arteriosa media (compressione degli arti inferiori in posizione genu-pettorale o

somministrazione di farmaci ipertensivanti) in modo da aumentare il flusso ematico attraverso l'infundibolo

polmonare spastico.

Il trattamento palliativo, atto a creare una fonte aggiuntiva di flusso polmonare, può essere chirurgico o, in casi

selezionati, percutaneo (effettuato in sala di emodinamica). Lo shunt sistemico-polmonare chirurgico

(interposizione di un tubicino di gore-tex tra l’arteria succlavia ed il ramo polmonare omolaterale), si esegue

nelle prime settimane di vita nei pazienti con cianosi severa ed elevato rischio per una correzione radicale. Il

trattamento percutaneo consiste nell’impianto di uno stent all’interno del dotto arterioso, per mantenere pervia

l’unica fonte di flusso polmonare “naturale” (Figura 17).

L'intervento chirurgico correttivo si esegue tra i 3 e i 12 mesi ed è costituito dalla chiusura del difetto

interventricolare e la risoluzione dell'ostruzione all'efflusso ventricolare destro (vedi Capitolo 65).

Prognosi e follow-up. La tetralogia di Fallot non trattata presenta una prognosi infausta in quanto l'ostruzione

all'efflusso ventricolare destro tende progressivamente ad aumentare nel tempo. Il trattamento chirurgico

migliora sensibilmente la prognosi sebbene comporti, in una certa percentuale di pazienti, la comparsa nel

lungo termine di alcune sequele post-chirurgiche quali la disfunzione ventricolare destra da rigurgito polmonare

residuo e le aritmie ventricolari.

STENOSI AORTICA

L’ostruzione all’efflusso ventricolare sinistro si può localizzare a tre livelli: a) valvolare, b) sottovalvolare

(dovuta alla presenza di una membrana o cercine fibromuscolare che ostacola l'efflusso del sangue dal

ventricolo sinistro), c) sopravalvolare, caratterizzata da un restringimento del lume dell'aorta poco dopo la sua

origine. La forma valvolare è la più frequente, con prevalenza nel sesso maschile (4:1).

Fisiopatologia ed anatomia patologica. Nella forma critica del neonato, caratterizzata dalla dotto-dipendenza

della circolazione sistemica, il ventricolo sinistro è di solito molto ipertrofico, con una cavità ridotta rispetto al

normale o, talora, dilatato ed ipocontrattile. Nelle forme meno gravi la malattia ha comunque un andamento

progressivo, caratterizzato da ipertrofia ventricolare sinistra, aumentata richiesta di ossigeno da parte del

miocardio ed ischemia subendocardica.

Segni clinici. I segni tipici della malattia sono il soffio sistolico eiettivo aortico ed i polsi di ampiezza ridotta. Nei

pazienti con funzione di pompa depressa il soffio sistolico può essere assente o poco evidente ed i polsi

periferici possono non essere palpabili. Nei casi più gravi, la malattia esordisce con scompenso cardiaco dopo la

chiusura del dotto di Botallo (dotto dipendenza della circolazione sistemica).

Diagnostica strumentale. Nelle forme meno gravi la diagnosi è legata al riscontro occasionale di un soffio

cardiaco o alla comparsa di sintomi quali palpitazioni, vertigini, sincope o angina. I reperti radiografici tipici

sono la dilatazione dell’ombra cardiaca (Figura 18) e la dilatazione post-stenotica dell’aorta ascendente.

All’ECG si osserva prevalentemente ipertrofia ventricolare sinistra. La diagnosi definitiva è possibile mediante

l’ecocardiografia color Doppler che permette di stabilire la morfologia ed il numero delle cuspidi aortiche

(Figura 19, Figura 20, ECO 20, ECO 21), e di differenziare la stenosi valvolare da quella sopra o

sottovalvolare.

La stenosi aortica sopravalvolare è determinata da un restringimento dell'aorta al di sopra dell'anello valvolare

e del piano coronarico. Fra i tre livelli di ostacolo all'efflusso ventricolare sinistro, la sede sopravalvolare della

stenosi è la meno comune; spesso questa forma si associa alla Sindrome di Williams, caratterizzata da ritardo

mentale, facies elfica, stenosi dei rami polmonari, stenosi delle arterie renali, ipercalcemia. Si può trattare di

un'ostruzione a membrana (Figura 21), ad imbuto/clessidra o diffusa per un lungo tratto di aorta ascendente.

La stenosi sottoaortica consiste in una ostruzione fissa del tratto di efflusso del ventricolo sinistro, al di sotto

della valvola aortica. In oltre il 20% dei pazienti, la valvola è anomala (stenosi valvolare, piccolo anello aortico,

valvola bicuspide); la membrana sottovalvolare è occasionalmente adesa a una delle cuspidi valvolari della

valvola aortica e mitrale: questo può interferire con la funzione della valvola, producendo un'insufficienza di

medio grado (Figura 22).

Cenni di terapia. La terapia del neonato con stenosi aortica critica prevede la somministrazione di inotropi,

prostaglandine e bicarbonati per stabilizzare il paziente. Per risolvere la stenosi valvolare, la valvuloplastica con

palloncino rappresenta oggi un’alternativa alla valvulotomia chirurgica. Le forme sottovalvolari e quelle

sopravalvolari, invece, richiedono sempre un intervento chirurgico per rimuovere l'ostruzione sottovalvolare o

per allargare l'aorta a livello sopravalvolare.

COARTAZIONE AORTICA

La coartazione aortica consiste in un restringimento dell’istmo, la porzione dell’aorta localizzata tra l’origine

della succlavia sinistra e il dotto di Botallo. Tale condizione determina un sovraccarico di pressione del

ventricolo sinistro, cui consegue ipertrofia del miocardio. La coartazione dell’aorta è più frequente nei maschi; il

15-25% dei pazienti con Sindrome di Turner ne è affetto.

Fisiopatologia ed anatomia patologica. Spesso alla coartazione si associano bicuspidia aortica, pervietà del dotto

arterioso, difetto interventricolare, stenosi mitralica. L’elevata pressione nel circolo arterioso prossimale alla

coartazione e la bassa pressione arteriosa vigente nel territorio al di sotto dell’istmo favoriscono lo sviluppo di

circoli collaterali atti ad aumentare il flusso ematico alla metà inferiore del corpo. Tali circoli si stabiliscono

anteriormente fra le arterie mammarie interne (rami delle succlavie) e le arterie epigastriche della parete

addominale, e posteriormente fra le arterie parascapolari e le intercostali. Proprio la dilatazione delle arterie

intercostali è responsabile delle alterazioni a carico delle coste che si osservano all’esame radiologico in alcuni

casi.

Segni clinici. Nei casi più gravi, l’esordio è caratterizzato da scompenso cardiaco dopo la chiusura del dotto

arterioso (dotto dipendenza della circolazione sistemica). Le forme meno gravi possono decorrere a lungo

asintomatiche: i bambini più grandi e gli adulti con patologia meno importante si rivolgono in genere al medico

per la comparsa di ipertensione arteriosa o per il riscontro di soffi cardiaci o per l’assenza dei polsi arteriosi agli

arti inferiori. Il reperto obiettivo più frequente è un soffio sistolico eiettivo sulla parete toracica anteriore e

posteriore.

Diagnostica strumentale. La radiografia del torace può documentare la dilatazione dell’aorta ascendente. Le

incisure costali dovute all’erosione ossea da parte delle arterie intercostali dilatate diventano evidenti tra i 4 e i

12 anni di età (Figura 23A). Inoltre l’indentatura aortica pre-stenotica e la dilatazione post-stenotica (Segno

del 3, Figura 23B) sono reperti patognomonici.

L’ECG è spesso aspecifico, ma non di rado mostra ipertrofia ventricolare sinistra.

L’ecocardiogramma permette di valutare con esattezza la morfologia dell’arco aortico, la sede della coartazione

e la sua gravità attraverso la stima del gradiente pressorio. Nelle forma dell’adulto possono essere di ausilio

altre tecniche di imaging quali la TC e la RM cardiaca (Figura 24A).

Cenni di terapia. La terapia della coartazione aortica del neonato è chirurgica (vedi Capitolo 65). Per i bambini

con peso superiore ai 20 kg, e per i pazienti adulti affetti da coartazione dell’aorta o recoartazione post-

chirugica è proponibile la dilatazione della coartazione con catetere a palloncino (angioplastica) o con

l’applicazione di stent endovascolari (supporti metallici di sostegno posizionati all’interno dell’arteria per

mantenerla dilatata) (Figura 24B, Figura 24C).

Capitolo 53. Cardiopatie Congenite Parte II, Raffaele Calabrò, Giuseppe Pacileo, Maria Giovanna Russo,

Marianna Carrozza, Carmela Morelli, Alessandra Rea, Giampiero Gaio

TRASPOSIZIONE DELLE GRANDI ARTERIE

Fisiopatologia ed anatomia patologica. La trasposizione delle grandi arterie è una cardiopatia congenita

caratterizzata da un’anomala connessione tra le camere ventricolari ed i grandi vasi che da esse traggono

origine, per cui l'aorta origina dal ventricolo destro e l'arteria polmonare dal ventricolo sinistro. In circa il 50%

dei casi sono presenti anche altre malformazioni cardiache. In questa malattia il sangue desaturato proveniente

dalle vene sistemiche viene inviato nuovamente in periferia, mentre il sangue ossigenato proveniente dalle vene

polmonari giunge nuovamente nel circolo polmonare (Figura 1). Le circolazioni sistemica e polmonare

vengono, quindi, a trovarsi in parallelo e non in serie come in un soggetto normale, e l'unica possibilità di

sopravvivenza dipende dalla presenza di comunicazioni tra le due circolazioni. L'entità di tale scambio

intercircolatorio (“mixing”) dipende dal numero, dalle dimensioni e dalla posizione delle comunicazioni

anatomiche presenti. Nei primi giorni di vita, la chiusura del forame ovale e del dotto arterioso tendono a

separare completamente la circolazione sistemica da quella polmonare, determinando così cianosi ed

ipossiemia: la sopravvivenza di questi neonati è legata alla persistenza di una comunicazione interatriale ed alla

riapertura del dotto arterioso. Se non è presente un vero difetto interatriale, esso può essere creato

artificialmente mediante l'atrioseptectomia con catetere a palloncino secondo Rashkind, procedura che consiste

nel far passare dall’atrio destro al sinistro un catetere a palloncino introdotto per via venosa percutanea (vena

ombelicale o femorale); dopo il gonfiaggio del palloncino in atrio sinistro, il catetere viene bruscamente ritirato

in atrio destro, lacerando così il setto interatriale e creando un difetto settale iatrogeno. La pervietà del dotto

arterioso, invece, viene mantenuta mediante l'infusione di prostaglandine.

Segni clinici. La principale manifestazione clinica che indirizza verso la diagnosi di trasposizione delle grandi

arterie è la cianosi che si evidenzia alla nascita e si aggrava successivamente a seguito della progressiva

chiusura del dotto arterioso. In assenza di malformazioni associate, i reperti clinici sono poco caratteristici, non

rilevandosi né soffi né segni di scompenso cardiaco mentre in presenza di ampie sedi di "mixing" ematico la

cianosi è lieve ed il quadro clinico può essere dominato dallo scompenso cardiaco secondario all'iperafflusso

polmonare.

Diagnostica strumentale. Alla radiografia del torace l'ombra cardiaca è di normale volumetria, con aspetto

ovalare ed assottigliamento del profilo mediastinico alto a seguito dell'anomala disposizione dei grandi vasi. Il

quadro elettrocardiografico non mostra alcun reperto anomalo alla nascita, mentre dopo il periodo perinatale si

osserva una mancata regressione della fisiologica ipertrofia ventricolare destra neonatale.

L'ecocardiogramma (Figura 2, Figura 3) consente di porre la diagnosi, evidenziando l'anomala connessione tra

le camere ventricolari ed i grandi vasi, e di identificare le eventuali malformazioni cardiache associate (difetto

interventricolare, stenosi polmonare).

Il cateterismo cardiaco non è ormai più necessario per la diagnosi, ma viene talvolta utilizzato per eseguire

l'atrioseptectomia con catetere a palloncino secondo Rashkind in caso di scarso "mixing" intercircolatorio.

Cenni di terapia. La terapia medica consiste nel riequilibrio metabolico del neonato mediante la correzione di

eventuali squilibri idro-elettrolitici e il miglioramento del "mixing" ematico mediante la somministrazione di

prostaglandina E e l'atrioseptectomia secondo Rashkind.

Il trattamento chirurgico della trasposizione delle grandi arterie (vedi Capitolo 65) ha lo scopo di riportare in

serie la circolazione sistemica e polmonare, ristabilendo una normale connessione ventricolo-arteriosa (aorta

dal ventricolo sinistro e arteria polmonare dal ventricolo destro). Prognosi e follow-up. La storia naturale della

trasposizione delle grandi arterie non sottoposta a trattamento chirurgico è infausta, con una mortalità che si

avvicina al 100% alla fine del I anno di vita. L'intervento chirurgico, invece, ha modificato sensibilmente la

prognosi di questi pazienti, garantendo loro il raggiungimento dell'età adulta con una pressoché normale qualità

della vita.

CANALE ATRIO-VENTRICOLARE

Il canale atrio-ventricolare rappresenta un difetto della giunzione atrio-ventricolare, e comprende un ampio

spettro di lesioni che vanno da un difetto interatriale tipo ostium primum associato ad una fissurazione (“cleft”,

ECO 12) della valvola mitrale (canale atrio-ventricolare parziale) fino ad una condizione in cui il difetto

interatriale è molto ampio, la valvola atrio-ventricolare è unica, e coesiste un difetto interventricolare (canale

atrio-ventricolare completo). Frequente è l’associazione con la sindrome di Down (25-36%).

Canale atrio-ventricolare parziale

Fisiopatologia. Se non vi è insufficienza mitralica, la fisiopatologia è simile a quella di un difetto interatriale

ampio, con importante shunt sinistro-destro ed iperafflusso polmonare; se, viceversa, è presente una

insufficienza mitralica, il sovraccarico del circolo polmonare sarà più imponente e precoce, in quanto, oltre allo

shunt interatriale vi sarà anche un passaggio di sangue dal ventricolo sinistro direttamente in atrio destro (per

la presenza del difetto interatriale ostium primum).

Segni clinici. Il quadro clinico è variabile in base alla gravità dell’insufficienza mitralica, per cui si va da bambini

che possono scompensarsi fin dal primo anno di vita, a pazienti che rimangono asintomatici fino all’età adulta.

All’ascoltazione si rileva un soffio sistolico eiettivo sul focolaio polmonare e un soffio sistolico da rigurgito

puntale.

Diagnostica strumentale. All’ECG vi sono segni di ipertrofia ventricolare destra o biventricolare. La radiografia

del torace mostra cardiomegalia e segni di iperafflusso polmonare. L’Ecocardiogramma evidenzia lo shunt

interatriale nella porzione più bassa del setto interatriale ed il cleft mitralico con insufficienza valvolare al color-

Doppler (Figura 4). Il cateterismo cardiaco è utile non tanto per la diagnosi ma per rilevare le pressioni e le

resistenze polmonari.

Cenni di terapia. Il trattamento di questa malattia è esclusivamente chirurgico.

Canale atrio-ventricolare completo

Il quadro clinico è in relazione all’ampiezza dello shunt sinistro-destro interatriale ed interventricolare, alla

gravità dell’insufficienza della valvola atrio-ventricolare comune ed alla eventuale ipoplasia di uno dei due

ventricoli.

I pazienti sono sintomatici fin dai primi mesi di vita, e presentano scompenso cardiaco, deficit di accrescimento

ponderale ed infezioni respiratorie recidivanti. All’ ascoltazione si rilevano un soffio olosistolico al mesocardio e

un soffio sistolico puntale.

Diagnostica strumentale. L’ECG mostra ipertrofia ventricolare destra o biventricolare e deviazione assiale

sinistra.

La radiografia del torace evidenzia cardiomegalia e segni di iperafflusso polmonare.

All’Ecocardiogramma si osserva che le valvole atrio-ventricolari destra e sinistra stanno sullo stesso piano, a

differenza che nel cuore normale, nel quale la valvola atrio-ventricolare destra è dislocata verso l’apice, e si

trova più in basso rispetto alla sinistra. L’ecocardiogramma permette di valutare e quantizzare gli shunt

interatriale ed interventricolare, l’insufficienza della valvola atrio-ventricolare, la pressione polmonare e

l’eventuale associazione con stenosi sottoaortica.

Il cateterismo cardiaco risulta utile per rilevare l’entità dello shunt, le pressioni e le resistenze polmonari.

Cenni di terapia. Il trattamento di questa patologia è farmacologico in caso di scompenso, ma la correzione è

esclusivamente chirurgica. L’intervento è indicato tra i sei e i dodici mesi (più precocemente nei casi in cui il

canale atrio-ventricolare si associ a sindrome di Down).

ANOMALIA DI EBSTEIN

E’ una malattia caratterizzata da dislocazione apicale della valvola tricuspide, con origine della cuspide settale, e

spesso anche di quella posteriore, dalla parete del ventricolo destro invece che dall’anulus fibroso.

Fisiopatologia ed anatomia patologica. L’anomala inserzione della valvola divide il ventricolo destro in due parti:

la porzione di entrata, funzionalmente integrata con l’atrio (sezione atrializzata), e la vera parte funzionante del

ventricolo destro. L’atrializzazione, la dilatazione del ventricolo destro e la sottigliezza delle pareti

compromettono notevolmente lo svuotamento ventricolare, provocando diminuzione del flusso ematico

polmonare.

Segni clinici. Nei casi più gravi la sintomatologia può comparire precocemente, anche in epoca neonatale,

caratterizzata da cianosi, dispnea e difficoltà di alimentazione. Nei casi lievi i sintomi sono scarsi e i pazienti

possono condurre una vita abbastanza normale, con una sopravvivenza piuttosto lunga. Frequenti sono le crisi

di tachicardia parossistica sopraventricolare, di flutter e fibrillazione atriale.

All’ascoltazione si rileva uno sdoppiamento del I tono per ritardo di chiusura della valvola tricuspide e un soffio

sistolico se è presente insufficienza tricuspidale.

Diagnostica strumentale. L’ECG mostra una deviazione assiale destra, basso voltaggio dei complessi

ventricolari, onda P gigante nelle derivazioni precordiali destre, blocco di branca destra, allungamento

dell’intervallo PR.

La radiografia del torace evidenzia una cardiomegalia. I campi polmonari sono poco irrorati, il peduncolo

vascolare è ristretto e l’ombra cardiaca assume una conformazione a fiasca simile a quella dei versamenti

pericardici.

L’Ecocardiogramma rivela la dislocazione apicale del lembo settale della tricuspide, talora con aspetto

ridondante, “a vela”, del lembo anteriore (Figura 5, ECO 25).

E’ possibile quantificare il grado e la gravità della malattia analizzando la morfologia dei lembi tricuspidalici, le

dimensioni degli atri e della porzione atrializzata del ventricolo destro, gli indici di funzione ventricolare destra,

le modificazioni del setto interventricolare, lo stato funzionale del ventricolo sinistro e della valvola mitrale ed

ancora la presenza ed il grado di eventuali difetti associati.

Tali dati sono utili sia ai fini prognostici che per indirizzare una corretta strategia terapeutica. In particolare,

l’entità della deformazione e della displasia dei lembi, unitamente al grado di atrializzazione ventricolare destro

rappresentano importanti caratteristiche che condizionano le opzioni chirurgiche.

Cenni di terapia. Il trattamento è farmacologico in caso di scompenso (digitale, diuretici e vasodilatatori); la

correzione dell’anomalia è di tipo chirurgico, con plastica della valvola o con sostituzione della stessa. E’

consigliabile posticipare quanto più possibile l’intervento, in quanto esso è gravato da una elevata mortalità

operatoria nei primi anni di vita.

CUORE UNIVENTRICOLARE

In questa cardiopatia congenita è presente un’unica camera ventricolare, in genere di morfologia sinistra, che

riceve entrambe le valvole atrio-ventricolari e rifornisce il circolo sistemico e polmonare; l’altro ventricolo è

ipoplasico (camera rudimentale collegata al ventricolo principale tramite un difetto interventricolare che

generalmente prende il nome di forame bulbo-ventricolare) e non può essere utilizzato per la correzione

chirurgica. I grandi vasi escono, comunque, da entrambe le camere ventricolari: tale connessione influenza il

quadro fisiopatologico.

Fisiopatologia ed anatomia patologica. In caso di normale connessione ventricolo-arteriosa (ventricolo sinistro

principale che dà origine all’aorta e ventricolo destro rudimentale che dà origine all’arteria polmonare), il quadro

fisiopatologico e clinico dipende dall’entità del flusso polmonare. Se vi è stenosi polmonare severa e ipoafflusso

polmonare (Figura 6) è presente cianosi, ed i reperti clinico-strumentali sono quelli tipici delle cardiopatie

cianogene. In assenza di stenosi polmonare, invece, il quadro fisiopatologico è dominato dall’iperafflusso, ed i

segni clinico-strumentali sono quelli dello scompenso cardiaco congestizio.

Segni clinici. Il reperto tipico è la cianosi, la cui gravità dipende non dal mescolamento del sangue sistemico e

polmonare, ma dal flusso polmonare, cioè dalla presenza e dal grado della stenosi polmonare. Diagnostica

strumentale. Il quadro radiografico evidenzia un’ombra cardiaca di volume normale o aumentato ed un flusso

polmonare di grado variabile a seconda dell’entità della stenosi polmonare. L’ecocardiografia è fondamentale

per la diagnosi della malattia e l’individuazione di eventuali lesioni associate (Figura 7).

Il cateterismo cardiaco è indicato, in casi selezionati, per la esatta valutazione delle malformazioni associate e

delle resistenze polmonari.

Cenni di terapia. Dopo una iniziale palliazione volta alla regolazione del flusso polmonare, il trattamento

chirurgico definitivo viene attuato secondo il principio di Fontan, che consiste nel "saltare" il ventricolo di destra,

abboccando direttamente le vene cave all'albero polmonare (vedi Capitolo 65).

Sezione XVI. Malattie delle Arterie e delle vene

Capitolo 54. Arteriopatie dei Tronchi Sopraortici, Salvatore Novo, Egle Corrado, Ida Muratori

INTRODUZIONE

L’aterosclerosi può colpire indifferentemente la circolazione coronarica, cerebrale e periferica degli arti, esitando

frequentemente in episodi ischemici gravi e a volte invalidanti. Spesso essa è presente contemporaneamente in

più distretti arteriosi dello stesso individuo, a dimostrazione del suo carattere di malattia sistemica. Prenderemo

in considerazione le alterazioni vascolari a carico delle arterie carotidi, delle vertebrali e delle succlavie, dopo un

breve ricordo di anatomia.

L’origine delle arterie carotidi comuni è differente; infatti, a destra la carotide comune deriva dal tronco

anonimo, che subito dopo l’origine si biforca in arteria carotide destra e arteria succlavia destra, mentre a

sinistra la carotide comune e la succlavia prendono origine separatamente dall’arco dell’aorta. Dalle arterie

carotidi comuni nascono la carotide esterna e la carotide interna, la quale, all’interno della teca cranica, dà

origine alle arterie cerebrale anteriore, cerebrale media e comunicante anteriore. Le due arterie vertebrali,

invece, nascono dalle rispettive succlavie e confluiscono nel tronco basilare, che successivamente si biforca

nelle due arterie cerebrali posteriori e nelle comunicanti posteriori. Questo insieme di vasi costituisce il

cosiddetto poligono del Willis (Figura 1).

Figura 1 Anatomia del circolo cerebrale.

FISIOPATOLOGIA DELL’OSTRUZIONE DEI TRONCHI SOPRAORTICI

La carotide, per le caratteristiche anatomiche che possiede, è una sede preferenziale per la formazione di

placche aterosclerotiche; infatti, in corrispondenza della biforcazione in carotide interna ed esterna il flusso

ematico non è più laminare ma turbolento, e si generano dei vortici. Questi, associati all’ipertensione arteriosa,

al fumo di sigarette, al diabete ed all’ipercolesterolemia, sono i maggiori fattori di rischio per la genesi

dell’aterosclerosi carotidea. La formazione di una placca ateromasica produce un ostacolo al passaggio del

sangue che ha, quindi, difficoltà a raggiungere i distretti di irrorazione periferica.

In genere, le ostruzioni carotidee monolaterali, con carotide controlaterale pervia, sono asintomatiche perché le

numerose anastomosi esistenti tra carotide interna, carotide esterna e arteria vertebrale riescono ad assicurare

un adeguato apporto ematico al Sistema Nervoso Centrale. Si ricorre ad intervento chirurgico di rimozione della

placca solo in caso di ostruzioni che determinino una sintomaticità clinica evidente (vedi Capitolo 67).

Le conseguenze dell'ostruzione delle carotidi possono essere varie: in genere, l'ostruzione si instaura in un

tempo lungo, il che permette alle altre arterie di modulare il flusso cerebrale; a volte, tuttavia, può verificarsi

improvvisamente un evento trombotico, e dalla sede aterosclerotica possono liberarsi emboli che determinano

eventi ictali.

La patologia delle arterie carotidi comprende forme asintomatiche costituite dall’ispessimento intima-media e

dalla placca carotidea asintomatica, e forme sintomatiche che danno origine all’attacco ischemico cerebrale

transitorio, comunemente denominato TIA (transient ischemic attack) e all’ictus cerebrale ischemico.

ESAME OBIETTIVO DEI TRONCHI SOPRAORTICI E CENNI DI DIAGNOSTICA STRUMENTALE

La diagnostica delle ostruzioni dei tronchi sovraortici, si avvale di manovre semeiologiche e di indagini

strumentali.

Dapprima si osservano la sede e l’ampiezza dei polsi carotidei, quindi si procede alla palpazione delle arterie, da

eseguire con delicatezza, al davanti del muscolo sternocleidomastoide e in corrispondenza della metà del collo,

per evitare il seno carotideo situato al di sotto dell’angolo mandibolare. L’ascoltazione permette di rilevare

eventuali soffi, spesso segno di stenosi emodinamiche del vaso.

L’esame obiettivo si completa con la misurazione della pressione arteriosa bilateralmente; in caso di stenosi

della succlavia, infatti, oltre a rilevare un eventuale soffio o un’iposfigmia, sarà presente una differenza dei

valori pressori fra arto destro e sinistro.

USO DEGLI ULTRASUONI

L'Ecocolordoppler è l’esame di scelta per la diagnosi e lo screening delle malattie vascolari (vedi Capitolo 12). E’

una metodica non invasiva, affidabile, documenta bene anche le più piccole lesioni di parete e consente la

valutazione quantitativa delle stenosi (Figura 2). Questo esame, assolutamente non invasivo, richiede una

buona apparecchiatura e la conoscenza dell'anatomia dei vasi.

Le placche di piccola - media entità, se non lipidiche o fibrolipidiche, non devono far temere eventi ischemici,

ma vanno monitorate nel tempo; le placche “ulcerate”, invece, anche se di piccola entità, possono essere molto

pericolose. Le lesioni carotidee con stenosi superiore al 70-75% determinano importante aumento della

turbolenza ed accelerazione del flusso ematico; tali condizioni possono facilitare il distacco di una porzione di

placca o la formazione di un coagulo a valle della lesione; il risultato è comunque l'obliterazione di una arteria

medio-distale e la sofferenza del territorio cerebrale a cui viene a mancare l'apporto in ossigeno.

I pazienti con stenosi carotidea sintomatica sono maggiormente a rischio di ictus ischemico rispetto a quelli con

stenosi carotidea asintomatica di pari grado. Per quanto riguarda la stenosi carotidea sintomatica, lo studio

NASCET riporta, per pazienti con stenosi tra il 70 e 99%, un’incidenza annuale di ictus del 13% entro il primo

anno e del 35% a cinque anni, mentre lo studio Asymptomatic Carotid Endarterectomy Trial (ACAS) riporta, per

pazienti con stenosi carotidea asintomatica tra il 60 e 99%, un’incidenza annuale di ictus solo del 2%.

PATOLOGIA DEI TRONCHI SOVRAORTICI: QUADRI CLINICI

L’insufficienza cerebrovascolare può derivare da: 1) Ischemia dovuta a lesioni aterosclerotiche stenotiche-

occlusive a carico dei tronchi sovraortici, favorita da transitoria ipotensione sistemica; 2) Embolia a partenza da

lesioni ulcerate (placche) o da aneurismi dei tronchi sovraortici, oppure di origine cardiaca; 3) Emoderivazioni

brachiocefaliche (furto della succlavia) da lesioni stenotiche del segmento prevertebrale delle succlavie e del

tronco anonimo.

Gli episodi di insufficienza cerebrovascolare sono classificati, in base alla durata dei sintomi neurologici in: 1)

TIA (attacco ischemico transitorio) con durata < 24 ore; 2) RIA attacco ischemico transitorio non

completamente regredito con deficit modesti; 3) Ictus ischemico o emorragico.

La lesione più spesso responsabile è una placca ateromasica localizzata all’origine della carotide interna, in

grado di mettere in circolo frammenti che raggiungono i vasi intracranici, occludendoli. Se la placca si ulcera, si

può formare un trombo piastrinico che può provocare l’occlusione acuta della carotide o microembolie.

L’embolia può avere anche origine cardiaca, ad esempio in corso di fibrillazione atriale.

Attacco ischemico transitorio

Il termine TIA (transient ischemic attack) definisce un'ischemia transitoria i cui sintomi si risolvono entro 24

ore. I sintomi sono gli stessi dell'ictus, possono durare da pochi secondi a qualche ora e si manifestano con

perdita transitoria della vista, disturbi della parola, incapacità di identificare le persone o i luoghi in cui ci si

trova, temporanea sospensione della funzione di un nervo motorio (paralisi momentanea del braccio o della

gamba, asimmetria della rima labiale, etc.), vertigini, nausea, barcollamento, sonnolenza. I sintomi

regrediscono completamente, ma costituiscono un importantissimo campanello d'allarme: i TIA, infatti,

preannunciano un probabile futuro ictus, e un loro adeguato trattamento può evitare l'insorgenza di

quest'ultimo.

L’ischemia non compensata provoca entro pochi minuti un danno irreversibile che può regredire in parte perché

i neuroni della zona periferica alla lesione presentano solo un’alterazione funzionale e pertanto reversibile.

Poiché la maggior parte dei TIA dura meno di un'ora, spesso la diagnosi è solo anamnestica, al contrario

dell'ictus dove nella maggior parte dei casi è disponibile anche il rilievo obiettivo.

Ictus

Dopo le malattie cardiovascolari ed i tumori, l’ictus è la causa più comune di morte nei paesi industrializzati;

esso rappresenta un’emergenza medica (“attacco cerebrale”) e deve essere prontamente diagnosticato e

trattato in ospedale per l’elevato rischio di disabilità e di morte che comporta. La definizione di ictus

comprende, sulla base dei dati morfologici, l'ictus ischemico, l'ictus emorragico, e alcuni casi di emorragia

subaracnoidea.

L’Ictus ischemico è caratterizzato dall’occlusione di un vaso a causa di una trombosi o di un’embolia o, meno

frequentemente, da un’improvvisa e grave riduzione della pressione di perfusione. Le cause più comuni sono:

vasculopatia aterosclerotica, che interessa le arterie di maggior calibro, comunemente le carotidi, le vertebrali e

le arterie che originano dal circolo del Willis, all’interno delle quali si forma un trombo; occlusione delle piccole

arterie (TIA o ictus lacunare); cardioembolia o embolia cardiogena, fenomeno frequente in presenza di

fibrillazione atriale, protesi valvolare meccanica, stenosi mitralica con fibrillazione atriale, trombo in atrio e/o

auricola sinistri, sick sinus syndrome, infarto miocardico acuto recente, trombo ventricolare sinistro, mixoma

atriale, endocardite infettiva, cardiomiopatia dilatativa, acinesia di parete del ventricolo sinistro. L’iter

diagnostico volto a inquadrare il paziente con ictus comprende l’esecuzione della TAC cerebrale senza contrasto

per la diagnosi differenziale fra ictus ischemico ed emorragico e altre patologie non cerebrovascolari.

L’ecocolordoppler permette di identificare l’occlusione o la stenosi di un vaso, la presenza di collaterali, o la

ricanalizzazione. Le terapie acute dell'ictus (farmaci antiaggreganti come l'aspirina, farmaci trombolitici come

rTPA) hanno visto progressi significativi durante gli ultimi anni; sono utili, comunque, a un modesto numero di

pazienti, in quanto la fibrinolisi si applica soltanto in unità specializzate (Stroke Unit), presenti solo in una

piccola parte degli ospedali italiani. Mentre le possibilità di intervento acuto una volta che si è manifestato l'ictus

sono limitate, le possibilità di prevenzione (oppure la prevenzione di un secondo ictus una volta che sia

avvenuto il primo) sono notevoli e devono essere sfruttate.

Ispessimento intima-media e placca carotidea asintomatica

Negli ultimi anni, numerosi studi hanno documentato l’utilità di valutare lo spessore medio-intimale (IMT)

carotideo per l’individuazione e il monitoraggio della malattia aterosclerotica della parete arteriosa. La

misurazione ultrasonografia dell’IMT è stata dapprima studiata in modelli animali e successivamente nell’uomo.

Uno dei più importanti studi di validazione è stato realizzato dal gruppo italiano Pignoli-Paoletti, i quali

dimostrarono come la distanza tra le due linee ecogene rilevate nell’immagine ultrasonografia correlasse con la

somma delle tuniche intima e media misurate con tecniche anatomo-patologiche in arterie con e senza

aterosclerosi (Figura 3). Dopo l’iniziale studio di Pignoli, misurazioni dell’IMT carotideo sono state realizzate in

molti studi clinico-epidemiologici, permettendo di raccogliere numerose informazioni per quanto riguarda

l’associazione tra IMT e rischio cardiovascolare.

Tali studi hanno portato a considerare l’IMT carotideo come un indicatore di aterosclerosi generalizzata e

indotto l’American Heart Association ad affermare che “nella valutazione del rischio cardiovascolare, la

misurazione dell’ispessimento medio intimale carotideo può fornire informazioni aggiuntive rispetto ai fattori di

rischio cardiovascolare”.

Patologia delle arterie vertebrali

Le arterie vertebrali originano dalla succlavia, e passando dal forame ovale delle vertebre cervicali si uniscono a

livello del solco bulbo pontino a formare l’arteria basilare, grosso vaso che ha come terminali le arterie cerebrali

posteriori. Il tronco basilare, che è la principale fonte di perfusione della fossa cranica posteriore, è l’unico

esempio nel corpo umano di due arterie che si uniscono per formarne una sola. Questo spiega come l’ostruzione

o l’agenesia (mancanza di sviluppo) di una delle arterie vertebrali possa risultare completamente asintomatica.

L’ischemia del territorio vertebro-basilare (insufficienza vertebro-basilare - IVB) riconosce le seguenti etiologie:

- ipotensione arteriosa (IVB emodinamica)

- embolica a partenza cardiaca

- emodinamica ed embolica associate.

Nel 13% dei casi la causa dell’IVB è indeterminata.

Quadro clinico

I Sintomi per diagnosticare un TIA posteriore secondario a IVB emodinamica comprendono:

• Turbe motorie mono o bilaterali

• Turbe sensitive al viso e/o agli arti

• Perdita visus bilaterale

• Emianopsia laterale omonima

• Turbe dell’equilibrio o della marcia in assenza di vertigine

• Drop attacks

• Diplopia, disfagia, disartria, vertigine associate tra loro o ad uno dei sintomi precedenti

Per la diagnosi di TIA “posteriore” è necessaria l’associazione di almeno tre sintomi. Per precisare la natura e la

topografia della lesione, va associata alla diagnosi clinica la valutazione strumentale, che comprende

l’ecocolordoppler, la TAC o la RMN cerebrale, il Doppler transcranico e, in casi selezionati, l’Angiografia.

Sindrome da furto della succlavia

L’arteria succlavia è destinata a portare il sangue all’arto superiore e alla parte posteriore dell’encefalo. La

succlavia destra nasce dall’arteria anonima, la sinistra direttamente dall’arco dell’aorta. La Sindrome da furto

della succlavia è una particolare situazione emodinamica in cui si viene a trovare il circolo epiaortico nel caso,

non raro, in cui l’arteria succlavia presenti una stenosi prevertebrale, la cui causa è generalmente l’aterosclerosi

(Figura 4).

Il “furto” viene consentito dalle particolarità anatomiche della circolazione cerebrale, cioè dall’esistenza del

poligono di Willis, al quale confluiscono l’arteria basilare e le due carotidi interne; questi vasi si riuniscono a

formare, insieme alle arterie comunicanti, un unico circolo che permette, nel caso uno degli affluenti si occluda

o sia gravemente stenotico, di far giungere il sangue anche a quella parte dell’encefalo di cui è tributaria

l’arteria interessata (carotide interna o vertebrale).

La stenosi della succlavia localizzata tra la sua origine e quella della vertebrale comporta la caduta pressoria

non solo nella stessa succlavia, ma anche nella vertebrale. Dato che il torrente ematico scorre per gradienti di

pressione, il flusso nell’arteria basilare si inverte, dirigendosi verso la vertebrale a bassa pressione e da qui alla

succlavia nel tratto oltre la stenosi. La succlavia, perciò, “ruba” il sangue alla vertebrale omolaterale e al

poligono di Willis. Il debito della succlavia derubata è pagato del circolo anteriore (carotidi interne) e in maggior

misura dalla vertebrale controlaterale.

La sintomatologia viene scatenata da un impegno muscolare dell’arto interessato dalla stenosi, che comporta il

furto di un volume maggiore di sangue per sopperire all’impegno della succlavia, il cui compito è rifornire i

muscoli del braccio. La sintomatologia dipenderà dal territorio prevalentemente derubato (anteriore nel caso di

compenso carotido-vertebrale, posteriore nel caso di compenso vertebro-vertebrale). Ad ogni sforzo prolungato

dell’arto omolaterale alla stenosi, si potranno manifestare TIA, vertigini, lipotimia, disturbi del visus.

La sindrome andrà sospettata tutte le volte che ci si trovi di fronte ad una stenosi della succlavia (con differenza

pressoria significativa tra le due omerali), specie se il paziente riferisce una sintomatologia tipica. Può

confermare la diagnosi il test di iperemia reattiva mediante ecocolor doppler. Con la sonda posizionata sulla

vertebrale si pratica (tramite un manicotto pressorio) l’ischemizzazione del braccio a minor pressione, per tre

minuti. Al rilascio (sgonfiaggio rapido del manicotto) si otterranno modificazioni dell’onda velocimetrica relativa

alla vertebrale, consistenti in inversione di flusso e/o incremento della velocità, a seconda del tipo di furto.

Nel furto permanente la direzione del flusso è costantemente invertita, per cui l’iperemia al braccio produce

un incremento della velocità di fuga del sangue dalla vertebrale derubata.

Nel furto intermittente il flusso è diretto alla basilare in sistole ed alla succlavia in diastole. L’iperemia

succlaveare comporterà la stabilizzazione della direzione di fuga dalla vertebrale.

Nel furto latente la direzione di flusso è fisiologica di base, ma si inverte totalmente con il test dell’iperemia.

CENNI DI TERAPIA NELL’ATEROSCLEROSI DEI TRONCHI SOPRAORTICI

Le terapie mediche, volte a ridurre la probabilità di TIA ed ictus e di morte nei pazienti con danno carotideo,

includono quelle che modificano i fattori di rischio e quelle che inibiscono la trombosi. I farmaci antiipertensivi,

ipolipemizzanti e antiaggreganti riducono il rischio di TIA e ictus cerebrale ischemico. Anche gli ACE-inibitori

diminuiscono la probabilità di ictus nelle popolazioni ad alto rischio.

L’efficacia e sicurezza dell’aspirina a basso dosaggio nella prevenzione primaria cardiovascolare nelle donne, é

stata indagata nel Women’s Health Study, il quale ha mostrato una riduzione del 17% del rischio di ictus nei

soggetti trattati rispetto al gruppo placebo. In pazienti con precedente ictus o attacco ischemico transitorio,

l'aspirina riduce il rischio di ulteriori eventi cardiovascolari del 23% .

La rivascolarizzazione della carotide è indicata nei pazienti con stenosi carotidea asintomatica significativa (>

70%) e nei pazienti con sintomi rilevanti di ischemia cerebrovascolare o ictus non debilitante e stenosi > 60%

(vedi Capitolo 67). Oltre che con la classica endarterectomia, la rivascolarizzazione può essere oggi effettuata

anche con l’angioplastica che, dopo l’introduzione dei filtri, ha visto progressivamente diminuire il tasso di

complicanze cerebrali, e quindi si pone come una metodica altamente competitiva rispetto all’endoarterectomia

(vedi Capitoli 60 e 67).

Capitolo 55. Arteriopatie delle Arterie Periferiche, Giuseppe Mercuro, Ettore Manconi

DEFINIZIONE ED EPIDEMIOLOGIA

Le arteriopatie obliteranti degli arti inferiori (AOAI) comprendono un gruppo di malattie caratterizzate da un

restringimento o un’occlusione dell’albero arterioso distrettuale, con riduzione dell’apporto ematico alle

estremità. L’aterosclerosi è la causa di gran lunga più frequente delle AOAI, con una incidenza annuale di nuovi

casi del 6‰. Vi è una sottostima dei casi di AOAI per una mancata diagnosi dei soggetti paucisintomatici, con

circa 200 casi di AOAI non riconosciuta né trattata per ogni 100 casi di malattia clinica con claudicazione

intermittente. L’incidenza massima della malattia è collocata tra la V e la VII decade di vita; si stima che il 12-

17% della popolazione di età >50 anni ne sia affetta (Figura 1). Il sesso maschile è più colpito, con una

frequenza tripla rispetto al sesso femminile durante la VI decade di vita; nelle decadi successive la differenza

dipendente dal genere si attenua sensibilmente. In accordo con il concetto di pluridistrettualità della malattia

aterosclerotica, le AOAI si associano con sensibile frequenza alla vasculopatia coronarica e cerebrale. La

mortalità a 5 anni è pari al 32% dei casi con AOAI sintomatica.

EZIOLOGIA E CLASSIFICAZIONE

La AOAI sono causate nel 90% dei casi dall’aterosclerosi; pertanto, l’epidemiologia e le manifestazioni

cliniche della malattia sono associate con i fattori di rischio classici (fumo, ipercolesterolemia, diabete,

ipertensione, storia familiare e menopausa) e nuovi (es. iperfibrinogenemia, iperomocisteinemia). Il fumo e

l’ipercolesterolemia sono particolarmente rilevanti nelle forme ad esordio precoce, mentre l’iperfibrinogenemia è

l’indicatore di rischio più frequente in quelle che si manifestano in età più avanzata.

Altre AOAI hanno eziologia degenerativa, infiammatoria (arteriti), trombotica e displastica.

La più comune fra le arteriti è la tromboangioite obliterante (morbo di Burger), un processo occlusivo e

trombotico, per lo più osservato in individui giovani e fumatori, che colpisce arterie di diverso calibro e vene

superficiali.

Frequenza minore hanno altre arteriti, fra le quali l’arterite a cellule giganti di Takayasu, la panarterite nodosa,

la malattia di Kawasaki, le arteriti in corso di malattie sistemiche del connettivo.

Tra le AOAI displastiche, la più frequente è la displasia fibromuscolare, che interessa prevalentemente le arterie

iliache e le renali.

Le AOAI trombotiche sono causate da anormalità coagulative primarie o secondarie, quali a volte si manifestano

in presenza di neoplasie o di stati infiammatori.

FISIOPATOLOGIA

La stenosi o l’occlusione dell’arteria causano una riduzione del flusso ematico ai tessuti, definito ischemia. A

livello cellulare si produce un adattamento al ridotto apporto di 02 e di nutrienti; in particolare, la cellula

muscolare scheletrica muta il proprio metabolismo da aerobio a parzialmente anaerobio, con produzione finale

di acido lattico. Nel distretto vascolare si produce una modificazione dell’architettura dei vasi, con rarefazione

dei capillari nutritizi, che divengono allungati e con percorso tortuoso, per favorire una migliore estrazione

dell’02. L’ischemia può essere acuta o cronica, in base alle modalità d’insorgenza; relativa o assoluta, a seconda

che l’apporto ematico distrettuale sia adeguato in condizione di riposo e insufficiente durante attività muscolare,

o insufficiente anche a riposo. Quando l’ischemia relativa progredisce verso la forma assoluta, si configura il

quadro dell’ischemia critica, termine che si riferisce non più solo all’impotenza funzionale dell’arto, ma a un

rischio per la sua stessa conservazione anatomica.

PRESENTAZIONE CLINICA

La sintomatologia e l’inquadramento clinico, sempre correlati al grado di deficit emodinamico, sono

tradizionalmente definiti dalla classificazione di Fontaine-Leriche.

Nel 1° stadio (preclinico) della malattia le lesioni arteriose possono essere più o meno diffuse, ma comunque

non tali da provocare una significativa ischemia distrettuale. La sintomatologia è assente o aspecifica, con

parestesie e una maggior suscettibilità delle estremità al freddo.

Nel 2° stadio, quello con cui più frequentemente esordiscono le forme a decorso cronico, sono presenti lesioni

arteriose emodinamicamene significative, cioè idonee a provocare un’ischemia relativa. Il sintomo peculiare di

questo stadio è la claudicazione intermittente, legata alla produzione muscolare di acido lattico durante

l’esercizio fisico (in genere la deambulazione) con comparsa di rigidità e dolore muscolare crampiforme, che

costringono all’interruzione della marcia. La sede del dolore è strettamente connessa con il livello della lesione

arteriosa. Al cessare dell’esercizio segue, in pochi minuti, la scomparsa spontanea del dolore. Caratteristica

della claudicazione intermittente è la ripetibilità nel tempo dell’episodio descritto, con l’insorgenza del dolore per

un livello fisso di esercizio fisico (soglia ischemica) e la sua scomparsa dopo un tempo di recupero costante. Il

2° stadio dell’AOAI aterosclerotica viene suddiviso in due sottolivelli, sulla base dell’autonomia di marcia: 2°

stadio A se essa è >200 metri; 2° stadio B quando l’autonomia è <200 metri.

In questo stadio si può osservare all’ispezione assottigliamento e pallore della cute, modificazione degli annessi

cutanei, con rarefazione o scomparsa dei peli e distrofia ungueale (assottigliamento, indebolimento e talvolta

fibrosi e discheratosi delle unghie). Alla palpazione si rileva riduzione della temperatura cutanea dell’arto

ischemico e riduzione o assenza dei polsi arteriosi a valle della sede di lesione. Tipica dell’arteriopatia a

localizzazione aorto-iliaca è la concomitante presenza di deficit dell’erezione peniena (sindrome di Leriche).

Nel 3° stadio il sintomo caratterizzante è il dolore ischemico a riposo. Le AOAI ad insorgenza acuta esordiscono

frequentemente con un quadro clinico al 3° stadio. Il paziente riferisce un dolore pressoché continuo, che

insorge o si esacerba durante il riposo notturno, costringendolo ad alzarsi e a muovere qualche passo; infatti, la

posizione ortostatica fa elevare per gravità la pressione idrostatica e muta la condizione ischemica del distretto

interessato da assoluta a relativa. Nel 3° stadio avanzato il decubito si fa obbligato e il riposo a letto senza

dolore è possibile solo con l’arto ischemico in posizione declive fuori dal letto. Infine, quando la sintomatologia

persiste senza modificarsi per oltre 15 giorni, ci troviamo nella situazione clinica dell’ischemia critica.

Il 4° stadio dell’AOAI cronica è caratterizzato dalla presenza di lesioni trofiche. Esse possono essere parcellari,

come le ulcerazioni, per lo più localizzate sulle aree di maggior sollecitazione meccanica (vallo periungueale,

tallone) o estese, come le gangrene, nelle due varianti umida e secca, talvolta complicate da sovrapposizioni

batteriche (gangrena gassosa).

DIAGNOSI

È relativamente semplice nel 2°, 3° e 4° stadio; è essenzialmente strumentale nel 1° stadio. L’AOAI iniziale

andrebbe sospettata e ricercata nei soggetti con fattori di rischio cardiovascolare come fumo,

ipercolesterolemia, diabete mellito e ipertensione, soprattutto se associati tra loro. La peculiarità dei sintomi e

segni che accompagnano il 2° stadio rende sufficientemente agevole la diagnosi. D’altra parte, per quanto la

claudicazione intermittente sia un sintomo estremamente caratteristico, essa può essere presente, anche se in

modo meno costante e tipico, in altre condizioni cliniche, quali la compressione di radici nervose per ernia

discale o l’artrosi anca/ginocchio/caviglia. Peraltro, nelle patologie non ischemiche il dolore non presenta la

ripetibilità tipica delle AOAI, ma è più incostante. Inoltre, può essere presente già a riposo e si esaurisce non

con l’interruzione della marcia, ma assumendo determinate posizioni. L’ipotesi clinica formulata con anamnesi

ed esame obiettivo deve essere confermata con alcuni semplici test strumentali. Il più impiegato è l’indice

pressorio caviglia/braccio (indice di Winsor). Esso si calcola misurando la pressione arteriosa sistolica brachiale

con uno sfigmomanometro e quella alla caviglia con una cuffia pneumatica ed un apparecchio Doppler CW (vedi

Capitolo 12). Nei soggetti sani, la pressione alla caviglia risulta di 10-15 mm Hg più elevata di quella brachiale,

determinando un indice pressorio >1. Questo semplice rilievo, oltre che confermare la presenza dell’AOAI e di

determinarne lo stadio di evoluzione, consente di apprezzare l’efficacia della terapia nel tempo. Un indice di 0.9

possiede una sensibilità del 79% ed una specificità del 96% nel riconoscere una stenosi =50%.

Un test da sforzo al treadmill può essere utilizzato per differenziare la claudicazione ischemica da altre sindromi,

quantificare l’autonomia funzionale del paziente e prescrivere un programma di riabilitazione fisica

individualizzato.

L’ecocolordoppler (vedi Capitolo 12) è la tecnica di imaging di elezione per lo studio accurato delle AOAI. Essa è

in grado di precisare, con elevata sensibilità (97%) e specificità (86%) la sede, unica o multipla, di occlusione o

stenosi arteriosa. L’ecografia bidimensionale consente una dettagliata analisi morfologica della parete arteriosa,

differenziando la forma aterosclerotica da quella arteritica e identificando le lesioni aterosclerotiche a maggior

rischio tromboembolico. Il color-Doppler consente di stabilire con grande precisione il grado della stenosi e

l’entità del deficit di flusso nel circolo a valle.

L’arteriografia trova attualmente indicazione solo nello studio di casi particolari, quali malformazioni vascolari o

in associazione con terapie maggiori e tecniche invasive (trombolisi loco-regionale ed angioplastica percutanea,

con o senza posizionamento di stent).

È opportuno che nel paziente con AOAI aterosclerotica l’indagine sia estesa ad altri distretti, in specie quello

coronarico, per la frequente associazione con la cardiopatia ischemica

CENNI DI TERAPIA

Il trattamento di questa malattia è indirizzato a: 1) controllare la progressione della malattia aterosclerotica; 2)

migliorare la qualità di vita dei pazienti (incremento dell’autonomia di marcia); 3) prevenire le amputazioni

degli arti interessati dalla malattia. La terapia dei pazienti con AOAI può essere farmacologica, interventistica o

chirurgica (vedi Capitolo 68), con eventuale associazione dei diversi trattamenti. La scelta tra queste strategie

dipende soprattutto dal grado di compromissione determinato dall’arteriopatia.

Quando l’AOAI è riconosciuta al 1° stadio, il suo trattamento è esclusivamente medico e si fonda sulla

correzione dei fattori di rischio per l’aterosclerosi e sulla terapia antiaggregante piastrinica (aspirina). In

presenza di diabete mellito, è consigliabile un controllo particolarmente attento della glicemia e dei valori

pressori. In caso di ipertensione arteriosa, le classi di farmaci che si dimostrano più efficaci nel favorire il

controllo della progressione dell’AOAI sono gli ACE-inibitori e i Ca -antagonisti. Una dislipidemia imporrà

l’utilizzo di ipolipemizzanti, come le statine.

Nel 2° stadio di malattia, i farmaci da utilizzare, oltre quelli descritti per il 1° stadio, sono quelli che migliorino

le qualità emoreologiche del sangue (pentossifillina) o il metabolismo muscolare (levo-propionil-carnitina). I

prostanoidi (PGI2 e PGE1), molto efficaci nel migliorare l’autonomia di marcia, sono di esclusivo utilizzo

ospedaliero. Questi farmaci, non privi di effetti collaterali spiacevoli, trovano maggiore indicazione negli stadi

successivi dell’AOAI.

La terapia interventistica, attuata con angioplastica percutanea, con o senza posizionamento di stent, è indicata

nei casi con stenosi arteriose isolate e con restante circolo in buone condizioni.

La terapia chirurgica è limitata agli stadi 3° e 4° dell’AOAI o ai casi del 2° stadio B che si dimostrino

rapidamente evolutivi verso gli stadi successivi (vedi Capitolo 68).

Capitolo 56. Aneurismi e Aneurisma Dissecante, Francesco Spinelli, Giovanni De Caridi, Michele La Spada

DEFINIZIONE

L’aneurisma è una dilatazione localizzata permanente di un’arteria. Nel caso di interessamento dell’aorta si

parla di aneurisma se si verifica un aumento del diametro di almeno il 50% rispetto a quello normale del vaso.

La classificazione degli aneurismi aortici è cruciale per formulare una diagnosi corretta e pianificare il

trattamento. Essa si basa sulla forma (fusiforme se coinvolge l’intera circonferenza del vaso, sacciforme se solo

una parte risulta dilatata), sulle dimensioni (macroaneurisma e microaneurisma), sulla struttura (vero o falso) e

sulla eziologia (gli aneurismi possono essere la conseguenza di un processo congenito, degenerativo, infettivo,

infiammatorio o meccanico-traumatico). Particolare importanza riveste poi l’individuazione della sede. Sulla

base della localizzazione, infatti, gli aneurismi aortici si distinguono in toracici, toraco-addominali ed addominali

(Figura 1).

EZIOLOGIA

Dal punto di vista eziologico, la causa più frequente è quella degenerativa, visto che l’aterosclerosi è

responsabile del 90% degli aneurismi aortici. Il processo aterosclerotico (vedi Capitolo 46), che induce nella

parete arteriosa la formazione di placche fibrose o ateromatose, può creare un’atrofia della tonaca media che a

sua volta esita in indebolimento della parete, con conseguente ectasia e dilatazione aneurismatica. Tra le cause

congenite si distinguono quelle idiopatiche da quelle dovute a un difetto del tessuto connettivo, come la

sindrome di Marfan o a quella di Ehlers-Danlos. Tra quelle infettive distinguiamo le forme micotiche, sifilitiche e

tubercolari; gli aneurismi che ne derivano vengono classificati come falsi o pseudoaneurismi, in quanto sono

conseguenti alla rottura del vaso con formazione di un ematoma delimitato da tessuto connettivo

periavventiziale, che risulta connesso al lume originario attraverso un orifizio a livello del punto di rottura.

Infine, tra le cause infiammatorie sono la malattia di Takayasu, l’arterite a cellule giganti, la malattia di Behcet,

la poliarterite nodosa e il lupus eritematoso sistemico.

PATOGENESI

Dal punto di vista patogenetico, vi sono due fattori comuni a tutte le forme aneurismatiche: la debolezza

strutturale e la forza meccanica che, insieme alle cause specifiche per ciascuna forma (deficit genetico del

tessuto connettivo, infezione, infiammazione, traumi), contribuiscono alla genesi e alla progressione degli

aneurismi. Si suppone che il cedimento strutturale del vaso sia conseguente alla disgregazione del collagene

(alla cui composizione concorre in maniera preponderante la presenza di elastina) contenuto nell’avventizia

aortica.

La predisposizione del tratto addominale dell’aorta a subire questa patologia dilatativa è dovuta a una ridotta

presenza di lamelle elastiche nel contesto del tessuto connettivo avventiziale, che comporterebbe la diminuita

elasticità del vaso.

A ciò si aggiunge il fatto che i vasi nutritivi della parete arteriosa, i vasa vasorum, sono quasi del tutto assenti a

livello dell’aorta sottorenale. Questi dati anatomici possono predisporre alla degenerazione aneurismatica il

tratto sottorenale dell’aorta, se esposto a fattori locali o sistemici sfavorevoli, come accade in presenza di una

patologia aterosclerotica. Lo sviluppo dell’aneurisma, a sua volta, provoca localmente stasi di sangue che,

unitamente al danno intimale, favorisce il deposito di trombi e quindi l’ulteriore indebolimento della parete

arteriosa.

L’assottigliamento della parete che ne deriva, accompagnato a progressiva dilatazione, comporta una riduzione

della resistenza, favorendo l’ulteriore dilatazione. Applicando la legge di Laplace, che mette in correlazione la

tensione parietale con il raggio del vaso e la pressione transmurale, si può affermare che per una data

pressione transmurale, la tensione parietale è direttamente correlata al raggio, per cui all’aumentare del

diametro del vaso si assiste a un incremento della tensione esercitata sulla parete arteriosa e quindi ad una

ulteriore tendenza alla dilatazione.

SINTOMI E SEGNI CLINICI

Esistono manifestazioni sintomatologiche e segni clinici comuni per tutte le forme aneurismatiche e altre

specifiche a seconda del distretto interessato.

Il sintomo principe di ogni malattia, il dolore, varia la sua localizzazione che può essere toracica, addominale o

posteriore con localizzazione lombare e/o dorsale. La compressione da parte dell’aneurisma su strutture

contigue può comportare, nel caso di un aneurisma a localizzazione addominale, disturbi gastrointestinali quali

nausea, perdita di peso o ittero. In caso di erosione duodenale si può assistere a sanguinamento intermittente o

ad emorragia massiva. Possono essere presenti sintomi correlati all’apparato urinario in caso di compressione

ureterale. Se, invece, la compressione avviene a livello di strutture poste nella cavità toracica come la trachea o

i bronchi possono manifestarsi dispnea e tosse. L’erosione del parenchima polmonare o delle vie aeree può

provocare emottisi, e l’erosione dell’esofago disfagia od ematemesi. La trazione del nervo vago a livello dell’arco

aortico può provocare paralisi del nervo laringeo ricorrente, con raucedine. Sono comuni l’embolizzazione

distale di trombo o di frammenti ateromasici e la graduale ostruzione e trombosi dei rami viscerali e delle

arterie degli arti inferiori.

Circa tre quarti dei pazienti portatori dell’aneurisma aortico più comune, quello addominale, sono asintomatici al

momento della diagnosi, che viene generalmente effettuata in seguito al riscontro di una massa pulsante

addominale o come rilievo occasionale in corso di altre indagini. Un vago e discontinuo dolore addominale è

spesso presente, ma questo diventa costante e importante solo quando, in seguito a una rapida espansione

dell’aneurisma, si verifica uno stiramento del sovrastante peritoneo. In questo caso la palpazione in sede

epigastrica accentua la dolenzia che si può anche irradiare posteriormente in sede lombo-dorsale. Lo shock è

conseguenza di una fissurazione o di una franca rottura aneurismatica.

L’esame clinico può evidenziare una pulsazione addominale patologica sia all’ispezione, in particolar modo se il

soggetto è magro, che alla palpazione, che permette di individuare la massa pulsante in sede epigastrica.

Talvolta l’aneurisma si accompagna a un soffio addominale.

DIAGNOSI STRUMENTALE

L’ecografia rappresenta l’esame di primo livello in caso di sospetto aneurisma aortico. Per l’aneurisma toracico,

la metodica diagnostica è l’ecocardiografia transesofagea, mentre nel caso di localizzazione addominale si

esegue più semplicemente un esame ecografico con metodica Doppler o color-Doppler che, oltre a visualizzare

e a permettere di misurare con accuratezza la dilatazione vasale fornisce informazioni sul flusso e consente di

distinguere il lume canalizzato dal trombo parietale e di visualizzare con accuratezza l’origine dei vasi che

nascono dall’aorta.

E’ possibile ottenere delle informazioni, seppur parziali, anche da una radiografia, che sia a livello toracico che

addominale può mostrare uno slargamento dell’immagine del vaso sottolineata dalle calcificazioni della parete.

L’aortografia ha il limite di valutare solo il lume pervio dell’aorta. L’esame imprescindibile in previsione di un

intervento chirurgico è rappresentato dalla TC, in particolar modo con mezzo di contrasto (Angio-TC) (Figura 2,

Figura 3), che analizza la parete aortica, il lume ed i rami emergenti. Le nuove metodiche TC permettono

anche una ricostruzione tridimensionale dell’intera estensione aortica (Figura 3).

TERAPIA CHIRURGICA

Le indicazioni al trattamento chirurgico degli aneurismi, sia toracici che addominali, hanno parametri di

riferimento comuni che possono indirizzare alla scelta chirurgica e all’eventuale strategia da adottare. Essi

sono: il rischio operatorio, dipendente dalle condizioni cliniche del paziente, il rischio di rottura che si basa

sull’eziologia, sul diametro e sulla morfologia dell’aneurisma, e l’eventuale presenza di sintomi o complicanze

correlate.

Per quanto riguarda il rischio operatorio, i fattori prognostici negativi sono costituiti dall’età avanzata e dalla

presenza di patologie associate a livello cardiaco, polmonare e renale. Il rischio di rottura è maggiore per

aneurismi sacciformi, poiché anche se piccoli questi sottendono una debolezza localizzata della parete aortica, o

per aneurismi con trombo endoluminale eccentrico e con parete sottile o con estroflessioni sacciformi (blisters).

Convenzionalmente, per gli aneurismi toracici che non presentano le caratteristiche precedentemente elencate

e in presenza di una buona aspettativa di vita, l’indicazione al trattamento è costituita da un diametro superiore

a 5,5 cm: numerosi studi dimostrano che al di sotto di questo valore il rischio di rottura è circa l’1%.

Per quanto riguarda gli aneurismi addominali, un diametro superiore a 5 cm comporta un rischio di rottura

compreso tra il 25 e il 40% a 5 anni, mentre per diametri minori i rischi sono compresi tra il 2 e il 10%. Altra

indicazione al trattamento chirurgico per diametri inferiori a quelli sopra espressi è, per entrambi i tipi di

aneurismi, è la crescita uguale o superiore a 1 centimetro per anno.

La scelta di quale strategia adottare, tra tecnica a cielo aperto e tecnica endovascolare, dipende sia dalla

aspettativa di vita e dalle condizioni cliniche, che dall’anatomia dell’aorta e della sua biforcazione. Nel caso di

tecnica chirurgica tradizionale a cielo aperto, ulteriori parametri che possono indirizzare la scelta sono la

conformazione del paziente, l’estensione della malattia aneurismatica e la presenza di complicanze.

Le tecniche chirurgiche sono rappresentate dalla metodica tradizionale a cielo aperto e da quelle mininvasive

(minilaparotomica nel caso di aneurismi addominali, laparoscopica, endovascolare).

Nel caso di tecnica tradizionale la via d’accesso maggiormente praticata in caso di aneurismi toracici è

rappresentata dalla toracotomia posterolaterale sinistra, mentre nel caso di aneurismi addominali le possibili

scelte del tipo di approccio sono essenzialmente due: trans-peritoneale o retro-peritoneale. L’intervento più

praticato consiste nella sostituzione del tratto aneurismatico mediante un innesto protesico (Dacron o Goretex)

(Figura 4). Nel caso di aneurismi dell’aorta toracica, un elemento molto importante è rappresentato dalla

protezione degli organi nobili (midollo spinale e reni) durante il periodo di clampaggio. In alternativa, si può

ricorrere all’arresto cardiocircolatorio in ipotermia profonda, che presenta due vantaggi principali: quello di

lavorare in un campo operatorio completamente esangue e quello di assicurare una protezione efficace contro

l’ischemia.

La tecnica minilaparotomica deriva direttamente dalla chirurgia classica e si limita a una incisione mediana

ridotta (6-10 cm) sfruttando divaricatori autostatici e clamp aortici posizionati all’esterno dell’incisione. Alcune

varianti comprendono l’accesso retroperitoneale, l’incisione trasversale o l’utilizzo di clamp particolari costituiti

da un corpo malleabile che minimizza l’ingombro dei clamp tradizionali. I vantaggi ottenuti con la tecnica mini-

invasiva sono la diminuzione della morbilità, della mortalità, della durata della degenza e conseguentemente dei

costi.

La tecnica laparoscopica può essere totalmente eseguita in laparoscopia o, nel caso di aneurismi addominali,

anche con tecnica video-assisted (due tempi operatori: uno laparoscopico e uno tradizionale). La tecnica

totalmente laparoscopica presenta i vantaggi della chirurgia a cielo aperto coma la visione tridimensionale del

campo operatorio e l’impiego degli strumenti convenzionali (modificati per laparoscopia). Le problematiche

maggiori poste da questa tecnica sono rappresentate dai tempi operatori piuttosto lunghi per la difficoltà

nell’eseguire anastomosi vascolari con tecnica laparoscopica. Per ovviare a ciò, recentemente è stata introdotta

la tecnica robot-assisted.

La tecnica endovascolare (Figura 5, Figura 6) prevede il posizionamento di una endoprotesi o di uno stent

autoespandibile ricoperto da materiale protesico di Dacron o di Goretex attraverso un accesso chirurgico

inguinale (bilaterale o anche semplicemente percutaneo in caso di aneurismi addominali). I vantaggi di questa

tecnica sono rappresentati dalla ridotta invasività, inferiore a qualsiasi altra tecnica, che risulta

vantaggiosissima in caso di rottura aneurismatica. I limiti sono rappresentati dalla applicabilità condizionata

dalle condizioni anatomiche favorevoli (appropriati siti di ancoraggio prossimale e distale, contenuta tortuosità

dell’aorta, etc.).

Ciascuna di queste tecniche presenta delle complicanze che possono essere comuni o specifiche. Quelle

comuni sono l’infezione (particolarmente nelle metodiche a cielo aperto), l’occlusione, l’embolizzazione distale,

l’ischemia (midollare se la sede è toracica, intestinale se è addominale). Le complicanze specifiche per ciascuna

tecnica sono rappresentate, nel caso di tecniche a cielo aperto, dall’ipotensione post-declampaggio, da fistole

tra la protesi e gli organi contigui, da lesioni a carico di strutture viciniori e dalla formazione di falsi aneurismi.

Nel caso di tecniche laparoscopiche, il problema principale è la scarsa affidabilità in termini di tenuta e di

pervietà delle anastomosi se non opportunamente confezionate. Nel caso di tecnica endovascolare le

complicanze sono: la possibilità di rottura dell’endoprotesi (1% circa), il rischio di migrazione (1% circa),

l’impossibilità di eseguire la metodica con necessità di conversione in intervento chirurgico tradizionale (1-2%

circa), e soprattutto gli endoleak (fenomeni che comportano una imperfetta esclusione dell’aneurisma dal

circolo aortico e che determinano quindi un rifornimento della sacca aneurismatica; questi problemi insorgono

in una percentuale che oscilla attorno al 25-30%.

SINDROME AORTICA ACUTA

La sindrome aortica acuta può insorgere per rottura aneurismatica, dissezione aortica, ulcera penetrante,

ematoma intramurale o lesioni traumatiche (penetranti o contusive). In questi casi ci si trova davanti a una

condizione di emergenza chirurgica gravata da un alto tasso di complicanze. L’evenienza più frequente è la

rottura dell’aneurisma, che presenta una mortalità operatoria del 50% circa; la mortalità, tuttavia, aumenta a

oltre il 90% se si prende in considerazione anche il decesso che avviene prima dell’arrivo in ospedale. Il forte

dolore toracico o addominale con irradiazione posteriore, accompagnato da shock, indirizza verso la diagnosi di

rottura.

La terapia chirurgica è volta ad arrestare il sanguinamento e a ripristinare la continuità aortica. Il successo della

procedura è strettamente condizionato dal tipo di rottura (libera o tamponata), dallo stato emodinamico del

paziente e dalla possibilità di un rapido controllo del sanguinamento della lesione aortica quando il paziente si

presenta instabile per un’emorragia attiva.

Il trattamento si avvale delle due opzione terapeutiche già descritte: la terapia convenzionale o quella

endovascolare. La morbilità legata all’esposizione chirurgica e al clampaggio aortico sempre toracico, o

comunque sopra-renale, anche in caso di aneurismi addominali, rende in particolari condizioni vantaggioso

l’approccio endovascolare, che risulta efficace e sicuro anche in condizioni anatomiche favorevoli.

DISSEZIONE AORTICA

La dissezione aortica, in precedenza definita come aneurisma dissecante, è la condizione in cui il sangue

penetra nella parete aortica attraverso una lacerazione intimale, e si fa strada all’interno della tonaca media,

creando un “falso lume”. La dissezione della media può estendersi per un lungo tratto (anche per tutta l’aorta)

e interessare i rami che nascono dall’aorta; in diversi casi il sangue che riempie il falso lume torna poi nel lume

vero attraverso una breccia distale.

Dal punto di vista anatomo-patologico, questa lesione dell’aorta è uno pseudoaneurisma, perché l’intima (il

lume vero) non è realmente aneurismatica, ma la dilatazione del falso lume (che di solito è il più ampio dei due

lumi) dà luogo a un allargamento dell’aorta al di là delle sue dimensioni normali, per cui è stato attribuito a

questa condizione il termine di “aneurisma”.

Esistono due sistemi di classificazione quello di Standford e quello di DeBakey (Figura 7): se è interessata

l’aorta ascendente, l’arco dell’aorta e l’aorta discendente si parla di tipo A secondo Stanford, che corrisponde al

tipo I e II di DeBakey . Se l’aorta ascendente non è interessata si parla di tipo B di Stanford, che corrisponde al

tipo III di DeBakey.

La lesione anatomo-patologica tipica riscontrata nei pazienti con dissezione aortica acuta di tipo B (che sono di

solito anziani e spesso ipertesi) è la degenerazione muscolare liscia all’interno della tonaca media. Nei pazienti

con dissezione di tipo A, che sono in genere più giovani, si assiste invece a un’alterazione congenita del tessuto

connettivo della tonaca media dell’aorta (medionecrosi cistica) con conseguente degenerazione del tessuto

elastico.

Quadro clinico. Le dissezioni aortiche diagnosticate entro due settimane dall’inizio del dolore o degli altri

sintomi d’esordio vengono classificate come acute, mentre quelle diagnosticate più tardivamente sono definite

croniche.

Il sintomo più comune è un fortissimo e lancinante dolore toracico anteriore o posteriore, interscapolare, dovuto

allo stiramento dell’avventizia aortica da parte dell’ematoma dissecante. La migrazione del dolore fa pensare

che la dissezione si stia espandendo o estendendo. Si può anche manifestare un quadro di shock (per rottura

intra-pericardica dell’aorta con tamponamento cardiaco o per rottura intra-toracica con sanguinamento).

L’esordio può avvenire, sebbene di rado, con un quadro di infarto miocardico causato da dissezione coronarica.

L’ampia costellazione di sintomi e segni concomitanti (ictus, paraplegia, ischemia degli arti superiori o inferiori,

anuria, dolore addominale per ischemia renale o mesenterica) è correlata al coinvolgimento, da parte della

dissezione, dei rami aortici distali e alla conseguente compromissione della perfusione dei diversi organi irrorati

da tali rami.

Il dolore toracico va distinto da quello di tutte le altre malattie, cardiovascolari e non, che possono essere

responsabili di questo sintomo: infarto miocardico, pericardite, embolia polmonare, pneumotorace, malattie

dell’esofago, affezioni ossee, nevralgie, etc. A parte i casi non frequenti di dissezione coronarica e correlato

infarto miocardico, l’Elettrocardiogramma e il dosaggio dei marker di necrosi miocardica sono normali nei

pazienti con dissezione aortica, permettendo una immediata esclusione della cardiopatia ischemica.

In una percentuale non minima dei casi l’ascoltazione del cuore rivela un’insufficienza aortica massiva, prima

assente, provocata dalla dilatazione della radice aortica, con mancato collabimento delle cuspidi valvolari in

diastole.

La diagnostica strumentale si avvale dell’ecocardiografia transtoracica, ma soprattutto di quella

transesofagea (ECO 22) e della TC con mezzo di contrasto (Figura 8).

Nella dissezione acuta di tipo A, il primo obiettivo terapeutico è rappresentato, in attesa dell’intervento

chirurgico, dal trattamento dell’ipertensione, per prevenire la rottura dell’aorta nel pericardio o nello spazio

pleurico, ed evitare il coinvolgimento degli osti coronarici o della valvola aortica o il danno irreversibile

multiorgano.

L’intervento chirurgico consiste nella sostituzione protesica dell’aorta ascendente e della parte prossimale

dell’arco.

Nel caso di dissezione acuta di tipo B spesso si preferisce la terapia medica, mentre l’intervento chirurgico viene

riservato a pazienti giovani, a basso rischio, con dissezione non complicata, allo scopo di prevenire una rottura,

e consiste nella sostituzione protesica del segmento di aorta toracica discendente che contiene le lesioni più

gravi. Nella dissezione cronica, sia di tipo A che B, l’indicazione chirurgica tiene presente che i fattori di rischio

più frequenti per una rottura aortica sono il diametro aortico, l’eccentricità della dilatazione e una rapida

espansione (maggiore di 1 cm per anno). Pertanto, si pone indicazione all’intervento chirurgico in caso di

dilatazione dell’aorta ascendente superiore a 5,5 cm oppure pari a 5 cm, quando coesistano patologie del

tessuto connettivo, specialmente la Sindrome di Marfan, o in caso di dilatazione dell’aorta discendente superiori

o pari a 6 cm o più, o se è presente una familiarità per connettivopatie.

L’approccio endovascolare prevede l’impianto di una endoprotesi a copertura della dissezione prossimale per

ripristinare il flusso ematico nel lume vero compresso. La procedura, che prevede l’eventuale stenting del flap

intimale in caso di malperfusione d’organo, si pratica soprattutto nei casi di dissezioni di tipo B non complicate.

L’ULCERA PENETRANTE AORTICA consiste in una lesione della lamina elastica interna da parte di un processo

ateromatoso che si estende sino alla tonaca media. La sua evoluzione naturale è rappresentata dall’ematoma

intramurale, dalla dissezione o dallo pseudoaneurisma, con conseguente possibile rottura vasale. Il suo

riscontro occasionale non implica necessariamente il trattamento, che si rende invece necessario in caso di

sintomatologia o di rapida progressione. La metodica terapeutica maggiormente indicata è rappresentata dal

trattamento endovascolare atto a escludere la lesione.

Capitolo 57. Malattie delle Vene, Marco Matteo Ciccone

CENNI DI ANATOMIA E FISIOLOGIA DELLE VENE

Nella circolazione venosa esistono due distretti, quello profondo e quello superficiale: questi lavorano

sinergicamente, ma hanno differenti funzioni. La circolazione superficiale porta il sangue dal microcircolo

cutaneo o viscerale al circolo venoso profondo e questo convoglia il sangue all’atrio destro. Le caratteristiche

della circolazione venosa variano da un distretto all’altro; negli arti inferiori, per esempio, si distinguono

(Figura 1):

a) Vene profonde in continuità con l’atrio destro, satelliti delle arterie omonime, con decorso al di sotto delle

aponeurosi (R1).

b) Vene superficiali tronculari affluenti del circolo venoso profondo con decorso sottocutaneo al di sopra delle

aponeurosi muscolari (R2).

c) Vene superficiali comunicanti, che sono vasi sopra-aponeurotici di connessione tra vene superficiali tronculari

(R3).

d) Vene perforanti, ovvero vasi di connessione tra circolo venoso profondo e superficiale, che perforano le

aponevrosi ed in condizioni normali dirigono il sangue dal circolo superficiale al profondo (R4).

Le vene sono da considerare, da un punto di vista idraulico, come dei tubi compressibili a basso regime

pressorio, nei quali si genera pressione quando aumenta il volume del liquido in essi contenuto. L’ingresso del

sangue nelle vene genera una tensione che, data la presenza di valvole unidirezionali, determina la

progressione del sangue verso l’atrio destro. La pressione intratoracica contribuisce a determinare il ritorno

venoso, e quando diventa negativa, come nell’inspirazione profonda, produce un effetto di suzione che facilita il

ritorno venoso. Questo fenomeno riguarda particolarmente le vene profonde, che sono caratterizzate da un

flusso continuo, modulato dagli atti del respiro.

Classificazione delle malattie delle vene

La classificazione anatomica prevede due gruppi di flebopatie: quello delle vene superficiali e quello delle vene

profonde; la classificazione fisiopatologica, invece, è basata su tre gruppi nosografici: flebopatie ectasianti,

flebopatie obliteranti e/o flogistiche, e flebopatie funzionali.

MALATTIE DELLE VENE SUPERFICIALI

Le malattie delle vene superficiali hanno come sintomi: senso di pesantezza a volte associato a dolore,

stanchezza alle gambe o tensione dopo prolungata stazione eretta, crampi a riposo, prurito ed edema

malleolare serotino. Si riconoscono le seguenti forme:

Flebopatia ipotonica o malattia delle commesse

E’ caratterizzata da da sintomatologia flebostatica (senso di pesantezza ed edemi bilaterali serotini degli arti

inferiori) senza segni strumentali di insufficienza venosa né di ipertensione venosa superficiale. La patogenesi è

da attribuire ad ipotonia parietale venosa.

Flebostasi costituzionale

Ha come elemento fondamentale l’acroipotermia (estremità fredde); il sottocute ha un aspetto simil-

mixedematoso, ed i quadri clinici più frequenti sono l'eritrocianosi declive tipo rusticanus, la cianosi lipomatosa

ed il lipedema cellulitico. Altre flebopatie funzionali sono:

L’acrocianosi, caratterizzata da cianosi ed ipotermia a livello delle estremità.

L’eritrocianosi, nella quale si manifesta cianosi in regione malleolare.

La livaedo, in cui compaiono alterazioni del colorito cutaneo simili ai lividi che si osservano dopo esposizione al

freddo. Si presenta in tre forme cliniche: anularis, reticularis e pigmentata.

Flebite superficiale (non trombotica)

E’ caratterizzata dall'improvvisa comparsa di dolore, rossore e calore sul territorio di una vena superficiale. Può

risolversi spontaneamente entro una settimana o evolvere in flebotrombosi; frequentemente recidiva.

Malattia varicosa

Le varici sono dilatazioni e tortuosità permanenti delle vene superficiali; possono essere tronculari principali se

interessano gli assi safenici, o tronculari collaterali se interessano collaterali safeniche. Si distinguono varici

congenite o angiodisplasiche, che compaiono più spesso entro la seconda decade di vita, caratterizzate da

spiccata tortuosità segmentaria dei vasi venosi, e varici primitive o essenziali, che interessano le vene in

tutto il loro decorso, sono quasi sempre familiari e riconoscono fattori facilitanti fra cui l'obesità, l'ortostatismo,

la stipsi, la gravidanza.

Le varici secondarie si sviluppano a seguito di una trombosi venosa profonda, e rappresentano un circolo di

supplenza; in questa situazione le vene appaiono ectasiche ma senza tortuosità.

Tromboflebite superficiale

E’ caratterizzata da dolore, rossore e calore lungo il decorso di una vena superficiale. Alla palpazione, la vena

ha l'aspetto di un cordone, e le indagini strumentali dimostrano una trombosi parziale o totale della vena. Rare

sono le complicanze tromboemboliche.

Insufficienza venosa superficiale cronica

In questa situazione è presente una disfunzione cronica del circolo venoso superficiale, espressa da insufficienza

venosa, ipertensione venosa, stasi ed ulcere flebostatiche.

Ulcere Flebostatiche.

Rappresentano l'80% di tutte le ulcere degli arti, e sono provocate dall'ipertensione venosa. Le ulcerazioni

possono interessare i piani muscolari, hanno sede paramalleolare e sono sensibili all'elastocompressione ed alla

terapia eparinica ed antibiotica topica.

MALATTIE DELLE VENE PROFONDE

TROMBOEMBOLISMO VENOSO

Si definisce "malattia tromboembolica venosa" la condizione in cui si realizza una patologia trombotica a carico

del circolo venoso profondo, associata o meno ad embolia polmonare.

Si riconoscono i quattro seguenti quadri clinici :

• Trombosi venosa profonda o flebotrombosi

• Embolia polmonare

• Sindrome venosa post-trombotica

• Ipertensione arteriosa polmonare secondaria a tromboembolismo.

Le prime due forme sono acute, le ultime due croniche. L’embolia polmonare e l’ipertensione arteriosa

polmonare conseguente a tromboembolismo venoso vengono trattate rispettivamente nel Capitolo 50 e nel

Capitolo 51.

Trombosi venosa profonda

E’ la condizione in cui si forma un trombo occludente o parzialmente occludente il lume di una vena profonda.

Spesso la malattia ha come evoluzione la sindrome post-trombotica (SPT), nella quale si verifica la

devalvulazione del sistema venoso profondo, cui consegue l’insufficienza venosa.

Epidemiologia. La reale incidenza della malattia tromboembolica venosa nella popolazione generale è difficile

da determinare, perché la maggior parte delle informazioni riguarda pazienti ospedalizzati. In uno studio

condotto in 16 ospedali americani, l'incidenza annuale è stata di 48 episodi di trombosi venosa profonda (TVP) e

23 di embolia polmonare (EP) per 100.000 abitanti, con una mortalità ospedaliera del 12%.

Eziologia. Il rallentamento della circolazione venosa è il presupposto fondamentale per la formazione del

trombo. Sono le vene profonde della sura, della coscia e dell'asse ileo-femorale le sedi da cui più

frequentemente si distaccano gli emboli, mentre raramente questi provengono dalle vene superficiali delle

gambe o dalle vene profonde degli arti superiori.

Quadro clinico. Il paziente affetto da trombosi venosa profonda può essere asintomatico o presentare, in

relazione all'entità dell'ostruzione ed al segmento venoso interessato, uno o più dei seguenti sintomi e segni

clinici: tensione dolorosa all'arto, dolore intenso e crampiforme che si accentua con il movimento, dolore alla

dorsiflessione del piede (segno di Homans), dolorabilità in seguito alla compressione dei muscoli, perchè la

flogosi attiva i nocicettori della parete vasale. L'ostruzione venosa, inoltre, provoca ipertensione venosa locale,

e quindi edema caratteristicamente associato a fovea. Tra i segni obiettivi più affidabili è l'aumentata

circonferenza dell'arto interessato rispetto al controlaterale; altri segni clinici sono l'ipertermia ed il rossore,

provocati dalla flogosi venosa locale e dall'aumento del flusso venoso superficiale. La cute può presentare

discromia, o può essere cianotica a causa dell'ipossia. Nella trombosi ileo-femorale si può realizzare il quadro

clinico della phlegmasia cerulea dolens, della gangrena venosa o della phlegmasia alba dolens (cute pallida ed

ipotermica, polsi iposfigmici per vasocostrizione arteriolare). La trombosi venosa profonda può risolversi con

restitutio ad integrum, oppure esitare nella sindrome post-trombotica con insufficienza venosa cronica. Nelle

vene degli arti inferiori, in cui l'innervazione simpatica è scarsa, diversamente che nelle vene cutanee e

splancniche, ed il flusso venoso anterogrado è garantito dalla pompa muscolare e dall'integrità delle valvole, il

processo trombotico altera tali strutture ed il circolo venoso diviene incontinente.

Diagnosi. La trombosi venosa profonda è sintomatica in meno del 50% dei soggetti. Quando presenti, i sintomi

e segni clinici di questa affezione sono simili a quelli di numerose altre malattie (affezioni muscolo-tendinee,

osteoarticolari, del circolo linfatico, affezioni cutanee, cisti poplitee), per cui la diagnosi è difficile. La flebografia

è considerata la metodica di riferimento nella diagnosi di trombosi venosa profonda. La flebografia ascendente

evidenzia difetti di riempimento del lume venoso, o interruzione brusca del mezzo di contrasto con presenza di

circoli collaterali.Tra le indagini non invasive, l'Eco-Color-Doppler ha sensibilità e specificità analoghe alla

flebografia

Tra tutti gli esami di laboratorio proposti per la diagnosi di trombosi venosa profonda in fase acuta, il dosaggio

del D-dimero si è rivelato particolarmente utile, anche per l’alto valore predittivo negativo nei confronti della

trombosi venosa profonda.

Sindrome venosa post trombotica

Lo stato successivo a uno o più episodi di trombosi venosa profonda, caratterizzato da insufficienza venosa,

ipertensione venosa, alterazioni cutanee (dermatite cianotica ed ulcere flebostatiche) prende il nome di

sindrome post trombotica. Questa può evolvere clinicamente verso un flebedema persistente, che va trattato

con elastocompressione, terapia fisica e terapia farmacologica. Farmaci che hanno dimostrato efficacia in tale

condizione sono le eparine e gli anticoagulanti orali.

Sezione XVIII. Approccio al trattamento delle Malattie Cardiovascolari: Cardiochirurgia

Capitolo 62. Circolazione Extracorporea, Claudio Muneretto, Paolo Piccoli, Gianluigi Bisleri

INTRODUZIONE

La terapia chirurgica delle malattie cardiache è ostacolata da difficoltà di carattere tecnico legate alla necessità

di vicariare la funzione cardio-polmonare per l’intervallo di tempo necessario all’esecuzione dell’intervento.

Solo dopo l’acquisizione di nuove tecnologie nella manifattura di materiali plastici biocompatibili e lo sviluppo

delle moderne tecniche anestesiologiche e chirurgiche, e dopo la scoperta dell’azione anticoagulante

dell’eparina, ha potuto avere inizio l’evoluzione di efficaci tecniche di circolazione extra-corporea (CEC).

La sperimentazione di sistemi pompa-ossigenatore risale all’inizio degli Anni ’30 quando John Gibbon (Figura

1) iniziò i primi lavori sperimentali al Massachusetts General Hospital di Boston; nel 1953 fu proprio Gibbon ad

effettuare il primo intervento cardiochirurgico, la riparazione di un difetto interatriale, utilizzando una macchina

cuore-polmone (Figura 2). Da allora il progresso tecnologico e l’acquisizione di conoscenze sempre più

approfondite nell’ambito della risposta infiammatoria sistemica e del danno d’organo causati dalla CEC hanno

consentito una progressivo miglioramento dei biomateriali e delle tecniche di by-pass cardio-polmonare (Figura

3).

PRINCIPI DI FUNZIONAMENTO DELLA CEC

La circolazione extra-corporea è basata sull’esclusione dal circolo del cuore e dei polmoni (by-pass cardio-

polmonare) tramite la deviazione del ritorno venoso dalle sezioni destre del cuore ad un ossigenatore e quindi la

re-immissione del sangue ossigenato nel circolo arterioso (Figura 4) .

Durante la CEC il sangue, reso incoagulabile con eparina, scorre in un sistema di tubi in materiale plastico

biocompatibile e viene quindi raccolto in un contenitore (cardiotomo o reservoir) da dove, spinto da una pompa,

raggiunge il sistema ossigenatore/scambiatore di calore.

L’arterializzazione del sangue venoso avviene nell’ossigenatore mediante diffusione di anidride carbonica e

ossigeno, secondo gradienti di concentrazione, attraverso una membrana semipermeabile dell’ossigenatore

stesso. Lo scambiatore di calore connesso con l’ossigenatore permette di regolare la temperatura del sangue

per ottenere i diversi gradi di ipotermia necessari.

Una volta ossigenato, il sangue viene reimmesso nell’organismo tramite una cannula inserita nel circolo

arterioso ( aorta ascendente, a. femorale, o ascellare).

Prima dell’apertura delle camere cardiache è necessario clampare l’aorta, cioè posizionare una particolare pinza,

chiamata “clamp” in aorta ascendente in modo da isolare il cuore dalla circolazione arteriosa e di impedire il

sanguinamento.

Con il clampaggio dell’aorta si interrompe la circolazione coronarica e si realizza pertanto una condizione di

ischemia miocardica completa. Appare pertanto necessario proteggere il cuore mediante infusione nelle

coronarie di una soluzione denominata “cardioplegia” che ha lo scopo di raffreddare il miocardio a 10° C

(riduzione del metabolismo basale) ed arrestarlo in diastole (riduzione del metabolismo funzionale) . “L’arresto

diastolico cardioplegico” viene ottenuto con la somministrazione di elevate concentrazioni di potassio (20-25

mEq/l).

La “protezione miocardica” indotta dalla cardioplegia consente, con ragionevole sicurezza, di eseguire clampaggi

aortici anche prolungati (2 ore) durante i quali è possibile eseguire la totalità degli interventi cardiochirurgici.

Figura 4 Raffigurazione schematica di circuito per CEC con pompa centrifuga ed ossigenatore a membrana

IL CIRCUITO

Per veicolare il sangue all’esterno del sistema cardiocircolatorio del paziente vengono utilizzate delle cannule

inserite rispettivamente nel sistema venoso ed arterioso del paziente.

Esistono diversi schemi di cannulazione per circolazione extra-corporea (Figura 5): comunemente si utilizza

per il drenaggio venoso una singola cannula a doppio stadio inserita in atrio destro attraverso l’auricola

dirigendo la punta nella vena cava inferiore (Figura 5A), e per la linea arteriosa una cannula inserita in aorta

ascendente o in arteria femorale.

Negli interventi a carico della valvola mitrale o di strutture del cuore destro (valvola polmonare, tricuspide,

setto interatriale), si utilizza uno schema di cannulazione che prevede l’inserimento di due cannule

rispettivamente in vena cava superiore ed inferiore (Figura 5B).

L’OSSIGENATORE

L’ossigenatore è il componente più importante della macchina cuore-polmone, non soltanto perché regola la

tensione dei gas presenti nel sangue, ma soprattutto poiché nell’ossigenatore vi è la maggior superficie di

contatto tra sangue e materiale “artificiale non-self”: dalla membrana ossigenante si attivano gran parte delle

reazioni infiammatorie caratteristiche della CEC.

I moderni ossigenatori a membrana sono composti da un sistema di fibre cave al cui interno scorre la miscela

gassosa ed intorno alle quali passa il sangue.

LO SCAMBIATORE DI CALORE E L’IPOTERMIA

L’ipotermia viene utilizzata in cardiochirurgia per ridurre le richieste di ossigeno e quindi diminuire il rischio di

danni da ipoperfusione sistemica durante la CEC. Per variare la temperatura dell’organismo si agisce

raffreddando o riscaldando il sangue nel suo passaggio all’interno dell’ossigenatore: all’interno di questo vi è un

circuito separato in cui scorre acqua a temperatura controllata da una unità esterna (scambiatore di calore).

Negli interventi di routine (by-pass aorto-coronarico, sostituzione valvolare, riparazione di cardiopatie congenite

semplici) è desiderabile il raggiungimento di una temperatura intorno ai 28- 33°C (ipotermia moderata).

Per l’esecuzione di interventi complessi che prevedano una fase di arresto del circolo (ad esempio, sostituzione

dell’arco aortico) è necessario raggiungere temperature anche inferiori a 20° (ipotermia profonda).

L’EMODILUIZIONE

Prima dell’avvio della CEC il circuito viene riempito (priming) con una soluzione elettrolitica bilanciata. Una volta

instaurata la circolazione extra-corporea tale soluzione viene a mescolarsi con il sangue del paziente creando un

certo grado di emodiluizione. L’emodiluizione da un lato diminuisce la viscosità ematica con effetti positivi dal

punto di vista reologico (minore emolisi, migliore per fusione capillare); dall’altro diminuisce la capacità di

trasporto dell’ossigeno e riduce la pressione colloido-osmotica favorendo la trasudazione capillare. Oggi, si

preferisce evitare l’eccessiva emodiluizione, e si tende a mantenere l’ematocrito a valori non inferiori ai 28-30%

LA POMPA

La funzione propulsiva dei ventricoli viene vicariata da una pompa. Il meccanismo più semplice ed efficace è

costituito dalla cosiddetta pompa “roller” (Figura 6A): un rotore all’interno di un cilindro metallico comprime il

tubo al cui interno passa il sangue, generando forza propulsiva. Questo sistema è efficace, di semplice

costruzione ed economico; tuttavia il traumatismo a carico delle emazie all’interno del tubo ad ogni giro del

rotore determina un certo grado di emolisi.

Per ovviare a questo problema sono state disegnate delle pompe che utilizzano la forza centrifuga come

propulsore (Figura 6B,C); queste pompe determinano un ridotto effetto emolitico, ma risultano più costose e

di complessa gestione.

LA CARDIOPLEGIA

Le soluzioni cardioplegiche (cristalloidi o ematiche) contengono una elevata concentrazione di potassio (8-20

mEq/L), magnesio ed una miscela di componenti (stabilizzatori di membrana, aminoacidi, elettroliti) volti a

ridurre il danno ischemico e da riperfusione. L’infusione della cardioplegia avviene immediatamente dopo

clampaggio aortico e successivamente ad intervalli di 20-30 minuti. L’arresto dell’attività meccanica e la

riduzione del metabolismo basale dovuta all’ipotermia, riducono del 90-95% il consumo miocardico di ossigeno.

Questo consente di intervenire per un intervallo di tempo di circa 2 ore, oltre il quale aumenta

progressivamente il rischio di danno ischemico del cuore.

DANNI DA CEC

L’ assenza di flusso pulsatile, l’alterazione della perfusione distrettuale, la perdita dei riflessi baro e chemo-

cettori, la riduzione della pressione colloido-osmotica plasmatica e la formazione di microemboli che si

verificano durante la circolazione extra-corporea possono determinare un’alterazione dell’omeostasi ed una

serie di danni d’organo. La continua esposizione del sangue a superfici non endotelizzate determina l’attivazione

di una forma peculiare di infiammazione generalizzata (whole body inflammatory response) che coinvolge il

sistema del complemento, i granulociti neutrofili, i monociti, le cellule endoteliali e, in misura minore, le

piastrine ed i linfociti.

L’attivazione di queste componenti ha come conseguenza la sintesi e secrezione di ingenti quantità di enzimi

citolitici, citochine, radicali liberi e peptidi vasoattivi che partecipano attivamente al danno da

ischemia/riperfusione. Le alterazioni della funzione renale dopo CEC (aumento della creatinina, riduzione filtrato

glomerulare) sono in parte conseguenza della reazione infiammatoria generalizzata.

La risposta infiammatoria insieme all’emodiluizione indotta da CEC è causa di un’aumentata permeabilità

capillare con conseguente edema interstiziale generalizzato. Gli effetti negativi dell’edema interstiziale possono

essere particolarmente evidenti nel parenchima polmonare dove causano una significativa riduzione della

compliance.

Esistono delle sottoclassi di pazienti con aumentato rischio di morbilità post-CEC rappresentate dai neonati e

bambini al di sotto del 1° anno di vita, soggetti anziani o con scompenso cardiaco cronico. In queste sottoclassi

di pazienti, un’esacerbata risposta infiammatoria e la coesistenza di patologie associate incrementano il rischio

di complicanze post-CEC quali insufficienza renale e respiratoria, coagulopatie ed eventi neurologici.

Tuttavia normalmente la CEC non causa una morbilità evidente dal punto di vista clinico ne complicanze di

rilievo, ed è molto ben sopportata dalla grande maggioranza dei pazienti.

Capitolo 63. Interventi sulle Valvole Cardiache, Luigi Chiariello, Carlo Bassano

INTRODUZIONE

La chirurgia delle valvole cardiache può essere di tipo sostitutivo, con protesi meccaniche o biologiche, (Figura

1) ovvero riparativo. La prima opzione viene scelta quando i lembi valvolari sono malati (sclerosi,

calcificazione), mentre la seconda viene impiegata quando i lembi sono relativamente sani (per esempio,

l’insufficienza aortica secondaria a patologia dell’aorta ascendente) oppure quando la malattia primitiva dei

lembi consenta una chirurgia riparativa con “restitutio ad integrum” della funzionalità.

LE PROTESI VALVOLARI

Protesi biologiche

Le protesi biologiche (Figura 2) si distinguono in:

• eterologhe (valvola aortiche di suino, valvole con lembi in pericardio bovino o equino rese non

immunogene e conservate in soluzioni fissanti);

• omologhe (prelevate da cadavere, sterilizzate e utilizzate fresche o crioconservate);

• autologhe (valvola polmonare del paziente rimossa e impiegata in posizione aortica con contemporaneo

impianto di una protesi omologa in posizione polmonare).

Le protesi eterologhe possono essere montate su una struttura portante (stent) che ne facilita l’impianto,

oppure essere prive di sostegno (stentless, esclusivamente per la sede aortica); quelle omologhe e autologhe

sono sempre stentless.

Protesi meccaniche

Le prime erano a dispositivo occludente (una sfera o un disco); in seguito sono state introdotte quelle a disco

incernierato oscillante e più recentemente quelle a doppio emidisco, dotate di miglior rendimento meccanico

(Figura 3). Sono tutte costituite da una struttura rigida di lega metallica (in genere carbonio pirolitico) di forma

circolare, nel cui interno sono alloggiati dei sistemi di cerniera dove vengono ancorati gli elementi mobili e al cui

esterno è fissato un ulteriore anello in tessuto attraverso il quale vengono passate le suture necessarie

all’impianto.

Vantaggi e svantaggi delle diverse protesi valvolari

Le protesi biologiche hanno ottima biocompatibilità, non necessitano di profilassi antitrombotica e non sono

rumorose; tuttavia vanno incontro a progressiva degenerazione strutturale (spesso determinata da

calcificazione dei lembi) che ne comporta una durata mediana di circa 15 anni in pazienti di età avanzata (nei

pazienti più giovani il tasso di deterioramento strutturale primitivo è maggiore, nei più anziani minore).

Le valvole meccaniche sono anch’esse dotate di buona biocompatibilità in quanto costituite da componenti

biologicamente inerti e non vanno praticamente mai incontro a deterioramento strutturale primitivo. Tuttavia

necessitano di profilassi antitrombotica a vita, con conseguente rischio combinato di fenomeni tromboembolici e

di emorragie dell’1-2%/anno/paziente.

Modalità di disfunzione protesica

Sono sostanzialmente di due tipi:

• Deterioramento strutturale, cioè rottura o grave alterazione morfologica e meccanica degli elementi

mobili (lembi biologici o dischi).

• Disfunzione non primitiva, cioè un processo patologico che non riguarda la protesi in sé, ma che

comunque ne limita la capacità funzionale, come la trombosi o la crescita di panno fibroso che

ostacolano, fino a bloccare, i meccanismi di cerniera delle protesi meccaniche, le endocarditi (che

possono provocare distacco protesico, perforazione dei lembi delle bioprotesi o crescita di vegetazioni ad

alto rischio embolico) o le deiscenze anastomotiche.

SOSTITUZIONE VALVOLARE AORTICA

Dopo aver instaurato il bypass cardiopolmonare e una volta ottenuto l’arresto cardioplegico, si esegue

un’aortotomia trasversale e si espone la valvola nativa (Figura 4A). Si procede alla exeresi dei lembi e alla

rimozione completa delle calcificazioni anulari eventualmente presenti, e si procede alla misurazione del

diametro anulare per scegliere una protesi di dimensioni adeguate (Figura 4B).

Punti staccati in poliestere vengono passati attraverso l’anulus nativo; tali suture possono essere semplici o

doppie (ad “U”), rinforzate da pledgets in feltro di teflon per evitare che possano tranciare i tessuti (Figura 5).

I capi liberi delle suture vengono quindi passati attraverso l’anello di sutura della protesi e infine annodati,

solidarizzando l’anulus nativo alla protesi. In alternativa, la protesi può essere anche impiantata con una sutura

continua in polipropilene. L’aortotomia viene infine chiusa con una sutura in polipropilene e il cuore deareato e

riperfuso.

Nel caso delle protesi stentless la procedura chirurgica è più complessa e prevede due linee di sutura: la prima

del tutto analoga a quella precedentemente descritta per le bioprotesi stented e meccaniche, la seconda per

ancorare la sezione distale della bioprotesi all’interno della parete aortica (Figura 6).

SOSTITUZIONE VALVOLARE MITRALICA

Instaurato il bypass cardiopolmonare e ottenuto l’arresto cardioplegico, per accedere all’atrio sinistro si utilizza

in genere un’atriotomia sinistra anteriore allo sbocco delle vene polmonari destre. In alternativa si può incidere

l’atrio destro e quindi il setto interatriale. Una volta esposta la mitrale (Figura 7A), si procede alla rimozione

dei lembi (Figura 7B), avendo però cura di risparmiare parte dell’apparato di sostegno sottovalvolare (corde

tendinee primarie e loro inserzione sui muscoli papillari (Figura 7C). Infatti, la discontinuazione del sostegno

tendineo-papillare ha un effetto prognostico negativo sui risultati a distanza della SVM a causa della

modificazione geometrica che induce sul ventricolo sinistro, che tende ad assumere un aspetto sferico anziché

ellissoidale, una volta eliminato il sistema di ancoraggio dei muscoli papillari allo scheletro fibroso del cuore.

Analogamente a quanto avviene per la protesi aortica, una serie di punti staccati ad “U”, rinforzati con pledgtes

in feltro di teflon in posizione sotto- o sopra-anulare vengono passati nell’anulus nativo, quindi attraverso

l’anello di sutura della protesi e infine annodati per ottenere la solidarizzazione tra strutture biologiche e

materiale protesico (Figura 7E). La procedura è completata con la deareazione e la riperfusione miocardica.

Rischi specifici della sostituzione valvolare mitralica

Due aspetti tecnici aumentano il rischio legato alla SVM. Il primo riguarda la difficoltà di rimozione completa

delle calcificazioni dall’anulus mitralico: il calcio può infiltrare profondamente il miocardio e la sua rimozione può

provocare lesioni della parete libera del ventricolo sinistro. Il secondo riguarda il rischio di ledere il ramo

circonflesso della coronaria sinistra durante il posizionamento delle suture, con possibilità di provocare un

infarto miocardico intraoperatorio o un’infiltrazione emorragica della parete ventricolare sinistra. Inoltre, la

preservazione dell’apparato cordale può interferire con il libero movimento degli elementi mobili delle protesi

meccaniche, che deve quindi essere accuratamente verificato dopo l’impianto.

Anche le manovre di deareazione devono essere eseguite con cautela, in quanto la protesi rigida in posizione

mitralica potrebbe provocare la rottura della parete ventricolare sinistra.

CHIRURGIA RIPARATIVA DELLA VALVOLA AORTICA

Nell’adulto si esegue quasi esclusivamente per l’insufficienza valvolare. Può essere effettuata per difetti primitivi

delle diverse componenti anatomiche della valvola aortica (anulus, commissure, lembi) o per insufficienza

valvolare secondaria a patologia della radice aortica (aneurismi degenerativi cronici o dissecazioni aortiche

acute).

Il presupposto fondamentale è che i lembi siano morfologicamente normali, cioè non sclerotici e privi di

calcificazioni.

Tecniche riparative dell’insufficienza aortica primitiva

Dipendono dal meccanismo che determina l’insufficienza. Questi i più comuni:

• Dilatazione anulare: si esegue una plastica commissurale con l’intento di avvicinare i lembi tra loro,

diminuendo il diametro anulare e aumentando l’area di coaptazione. Se coesiste un prolasso questo può

venire corretto da una plastica asimmetrica delle commissure o associando una plicatura del margine

libero del lembo (Figura 8A).

• Prolasso di un lembo in valvola bicuspide: in genere è responsabile del prolasso il lembo fuso. La tecnica

consiste nella resezione del tessuto esuberante e nella ricostruzione del lembo, in genere associandola

alla plastica commisurale (Figura 8B).

Tecniche riparative dell’insufficienza aortica secondaria

L’insufficienza aortica secondaria riconosce due diversi meccanismi patogenetici: in caso di aneurisma espansivo

che coinvolga la giunzione senotubulare, la trazione centrifuga esercitata sulle commissure provoca dislocazione

dei lembi e perdita della coaptazione centrale; nel caso delle dissecazioni aortiche, invece, le commissure

possono perdere il sostegno della parete aortica, determinando dislocazione centripeta della commissura stessa

e prolasso dei lembi.

In entrambi i casi la valvola aortica è in genere normale e può essere risparmiata: la ricostituzione della radice

aortica nelle giuste dimensioni ripristina la corretta disposizione anatomica dei lembi e la loro corretta funzione.

Questa può essere ottenuta con la semplice sostituzione protesica dell’aorta ascendente e conseguente

ricostruzione della giunzione senotubulare. Se la patologia aortica coinvolge la radice l’intervento diventa più

complesso. In quest’ultimo caso, due approcci simili sono stati messi a punto: il reimpianto della valvola aortica

secondo David e il rimodellamento della radice aortica secondo Yacoub. In entrambi i casi è prevista l’exeresi

totale dei seni di Valsalva, e quindi è inevitabile il reimpianto degli osti coronarici sul condotto protesico col

quale si sostituisce l’aorta prossimale.

CHIRURGIA RIPARATIVA DELLA VALVOLA MITRALICA

La chirurgia riparativa della stenosi mitralica (commissurotomia) è stato uno dei primi interventi della

cardiochirurgia: consisteva nella separazione delle commissure fuse eseguita manualmente a cuore chiuso, cioè

senza l’ausilio della circolazione extracorporea. La commissurotomia è stata poi per anni eseguita anche a cuore

aperto in visione diretta (Figura 9), ma attualmente è stata soppiantata dalla valvulotomia percutanea, ed ha

quindi quasi esclusivamente un valore storico.

La riparazione della mitrale si esegue pertanto quasi esclusivamente per insufficienza mitralica. In base ai

meccanismi patogenetici del vizio valvolare si possono identificare sostanzialmente tre tipi di insufficienza

mitralica, che richiedono approcci chirurgici diversi: 1) da esagerato movimento dei lembi (prolasso); 2) da

ridotto movimento dei lembi (alterazioni dell’apparato sottovalvolare o dilatazione del ventricolo sinistro con

allontanamento dei papillari e trazione sui lembi); 3) con normale movimento dei lembi (dilatazione anulare o

perforazione dei lembi).

Nel primo caso sarà necessario eliminare il tessuto ridondante (resezione dei lembi o accorciamento delle corde

tendinee), nel secondo restituire libertà di movimento per ottenere un aumento della superficie di coaptazione

(allungamento o sostituzione delle corde e anuloplastica restrittiva), nel terzo infine la strategia chirurgica sarà

valutata sulla base del meccanismo prevalente (anuloplastica o riparazione con piccoli patches di eventuali

perforazioni).

Chirurgia riparativa della mitrale per prolasso

Il lembo prolassante è quasi sempre il posteriore. Il tessuto esuberante viene quindi resecato e la continuità del

lembo ricostruita con una sutura a punti staccati o continua a sopraggitto. Nella resezione (di norma un

frammento quadrangolare) viene incluso anche il corrispondente segmento di anulus mitralico su cui si

impiantava il tratto di lembo esuberante, che sarà preventivamente ricostruito con un punto in poliestere

(Figura 10).

E’ possibile che si associ un grado variabile di dilatazione anulare, per cui diventa opportuno eseguire

un’anuloplastica riduttiva con un apposito anello protesico (vedi oltre). L’impianto di un anello protesico dà

inoltre maggiore stabilità alla plastica.

Il coinvolgimento del lembo anteriore mitralico

Il prolasso del lembo anteriore, associate o meno al prolasso posteriore, è più difficile da trattare in quanto la

resezione del tessuto esuberante non ha portato a risultati soddisfacenti e il segmento anteriore dell’anulus

mitralico è fisso, cioè non riducibile chirurgicamente.

Una tecnica di facile applicazione consente tuttavia di ovviare spesso a questo problema: ancorando il margine

libero del lembo anteriore al corrispondente margine libero del lembo posteriore (plastica edge-to-edge) si

riesce a prevenire il ribaltamento del lembo anteriore verso l’atrio sinistro. La mitrale assume un aspetto a

“doppio orificio”senza che questo comporti una stenosi, in quanto la somma delle aree dei due orifici è, di

norma, più che sufficiente ad un passaggio del sangue di tipo non restrittivo (Figura 11).

Anuloplastica mitralica con anello protesico

L’impianto di un anello protesico rigido o flessibile, sovrapposto all’anulus mitralico nativo (Figura 12), può

essere eseguito con due scopi sostanziali: dare stabilità nel tempo ad altre procedure (per esempio, una

resezione quadrangolare del lembo posteriore o una plastica edge-to-edge), oppure ridurre le dimensioni di un

anulus nativo dilatato per patologia degenerativa primitiva o secondariamente a dilatazione del ventricolo

sinistro (frequentemente in casi di insufficienza mitralica secondaria a cardiomiopatia ischemica).

Altri tipi di valvuloplastica mitralica

Interventi meno comuni sulla mitrale sono quelli di chirurgia cordale: ne esistono di due tipi, cioè la

traslocazione (sezione cordale e reinserimento del capo sezionato in modo tale da ripristinare la funzione di

contenimento, scegliendo la sede di reimpianto in funzione della lunghezza della corda) oppure la sostituzione

cordale con filamenti di politetrafluoroetilene, dopo exeresi delle corde rotte o allungate (Figura 13).

Infine, nel caso di perforazioni dei lembi conseguenti ad endocarditi con perdita di sostanza, è possibile colmare

le lacune dei lembi con delle piccole toppe (patches) in pericardio autologo con sottili suture in polipropilene.

CHIRURGIA DELLA VALVOLA TRICUSPIDE

La valvola tricuspide è raramente affetta da patologie primitive, sia acquisite che congenite. Tuttavia è spesso

secondariamente coinvolta nelle patologie valvolari del settore sinistro, soprattutto quella mitralica.

L’ipertensione polmonare di lunga data, quale che ne sia la causa, provoca dilatazione del ventricolo destro e

conseguente dilatazione anulare tricuspidale, cui segue insufficienza valvolare da deficit di coaptazione dei

lembi (vedi Capitolo 14). Un’anuloplastica riduttiva ripristina le dimensioni dell’anulus e consente una efficace

giustapposizione dei lembi.

La tecnica più diffusa di anuloplastica tricuspidale è quella proposta da De Vega: consiste nella conduzione di

una sutura circonferenziale tipo “borsa di tabacco” lungo tutto l’anulus tricuspidale: la trazione sui capi liberi

consente di ridurre quindi la circonferenza anulare al livello desiderato.

Alternativamente, è possibile eseguire un’anulocommissuroplastica secondo Kay, che consiste nell’obliterazione

della commissura laterale, escludendo così un settore di anulus e riducendo l’area utile al passaggio di sangue,

mentre l’anulus stesso assume una forma a “racchetta”.

Capitolo 64. Chirurgia della Cardiopatia Ischemica, Luigi Chiariello, Paolo Nardi

IL BY-PASS CORONARICO

Il bypass coronarico (coronary artery by-pass grafting, CABG), introdotto alla fine degli anni ’60 da Renè

Favaloro, è da circa 35 anni l’intervento chirurgico maggiore più diffuso nel mondo occidentale. La sua

diffusione è stata giustificata dagli ottimi risultati clinici in termini di sopravvivenza e libertà da eventi

sfavorevoli a distanza, risultati coi quali ogni tecnica alternativa di rivascolarizzazione è opportuno si confronti.

Il CABG rappresenta la terapia chirurgica della cardiopatia ischemica, che nella grande maggioranza dei casi è

secondaria ad aterosclerosi ostruttiva dell’albero coronarico. Lo scopo di questo intervento è di saltare, cioè

aggirare (“bypassare”) il punto in cui l'arteria coronaria è stenotica o del tutto occlusa, permettendo così

l’irrorazione di quella parte di muscolo cardiaco del quale cui l’arteria è tributaria. L’intervento tradizionale di

CABG prevede l’accesso al cuore ed all’aorta del paziente mediante sternotomia mediana, il prelievo dell’arteria

mammaria interna (Figura 1) e/o della vena safena dall’arto inferiore (Figura 2), l’avvio della circolazione

extracorporea (vedi Capitolo 62) e l’arresto del cuore stesso con la cardioplegia. Il chirurgo esegue quindi il/i

bypass dopo aver praticato una piccola incisione sulla/e coronaria/e a valle del punto di stenosi, suturando

l’arteria mammaria nella sua estremità distale o il segmento di vena safena autologa invertita (la safena è

provvista di valvole che impedirebbero la progressione del sangue!) alla coronaria. L’estremità prossimale della

safena viene poi suturata all’aorta ascendente, da cui il sangue, attraverso la vena stessa, raggiunge la

coronaria, mentre l’estremità prossimale dell’arteria mammaria, ramo dell’arteria succlavia, è già naturalmente

collegata al sistema arterioso (Figura 3, Figura 4, Figura 5).

INNESTI PER IL BYPASS CORONARICO

Gli innesti più frequentemente utilizzati per la rivascolarizzazione sono l’arteria mammaria interna (AMI) e la

vena safena invertita. La superiorità dell’AMI rispetto alla vena safena in termini di pervietà a distanza

(superiore al 95% rispetto a circa il 65% a 12 anni), di sopravvivenza (60% rispetto al 35%) e di maggiore

libertà da infarto miocardico e reintervento, rende routinario l’utilizzo dell’arteria mammaria interna sinistra, in

particolare per il ramo discendente anteriore della coronaria sinistra, il vaso più importante ai fini prognostici

perché responsabile di oltre il 50% dell’irrorazione del miocardio ventricolare sinistro.

Per l’ottima pervietà dell’arteria mammaria interna rispetto alla vena safena, si è anche esteso l’impiego di

entrambe le arterie mammarie (generalmente l’AMI destra per il ramo discendente anteriore, l’AMI sinistra per

il ramo marginale ottuso) (Figura 6) che rispetto all’uso dell’AMI singola si è confermato associarsi ad un

ulteriore miglioramento della sopravvivenza a 20 anni e ad una maggiore libertà da reintervento.

Per la minore pervietà a distanza, rispetto a quella evidenziata per l’arteria mammaria, sono meno

frequentemente utilizzati altri innesti arteriosi quali l’arteria radiale, la gastroepiploica e l’epigastrica (Figura

7).

INDICAZIONI AL BYPASS CORONARICO

L’efficacia del CABG rispetto alla sola terapia medica per il trattamento della cardiopatia ischemica è stata

valutata da grandi trial i quali hanno avuto il merito di identificare i pazienti che più traggono beneficio dalla

chirurgia: il CABG risultava la metodica più efficace nel garantire migliore sopravvivenza e libertà da eventi a

lungo termine in presenza di: 1) malattia del tronco comune della coronaria sinistra (stenosi =50%), 2)

malattia trivasale, 3) malattia bivasale con stenosi prossimale del ramo discendente anteriore. Il beneficio della

chirurgia risultava ancora più evidente in presenza di angina, prova da sforzo positiva, ridotta funzione sistolica

del ventricolo sinistro (frazione di eiezione <50%). Il CABG non offriva, invece, vantaggi superiori alla terapia

medica in presenza di malattia monovasale o bivasale con buona funzione del ventricolo sinistro, senza

coinvolgimento dell’arteria discendente anteriore.

Stato attuale della chirurgia coronarica. Durante gli anni di sviluppo ed espansione delle metodiche di

rivascolarizzazione percutanea, anche la chirurgia ha fatto importanti progressi, con notevole espansione delle

indicazioni al CABG. I pazienti sottoposti a intervento chirurgico sono oggi di età sempre più avanzata, con

maggiore incidenza di disfunzione ventricolare sinistra e di malattia multivasale, di comorbidità associate

(insufficienza renale, respiratoria, vasculopatia periferica, diabete, fumo, fattori di rischio cardiovascolari) ed in

genere con rischio più elevato.

I progressi della chirurgia sono legati all’affinamento delle tecniche di protezione miocardica e di emostasi

intraoperatoria, al miglioramento delle metodiche anestesiologiche e rianimatorie, all’impiego estensivo dei

graft arteriosi, in particolare dell’arteria mammaria interna bilaterale, alla possibilità di eseguire interventi a

cuore battente. Grazie a tali progressi, la mortalità per intervento di CABG è rimasta stabile, intorno al 2%,

nonostante la complessità dei pazienti chirurgici sia aumentata, visto che i casi di coronaropatia con

compromissione anatomica non molto grave e diffusa vengono oggi trattati con angioplastica percutanea.

In conclusione, il CABG rappresenta il “gold standard” per il trattamento della malattia mutivasale e del tronco

comune per: a) bassa mortalità operatoria (circa 2%); b) risultati ineguagliati in termini di sopravvivenza a

lungo termine e libertà da eventi cardiaci maggiori; c) eccellenti risultati, confermati anche in categorie di

pazienti ad elevato rischio operatorio; d) pervietà dell’arteria mammaria interna >90% a lungo termine; e)

rischio minimo di ripetere una nuova rivascolarizzazione a distanza (0.5%/anno).

L’efficacia a lungo termine della chirurgia si basa essenzialmente su due razionali che la terapia medica o le

metodiche di angioplastica percutanea non hanno: 1) totale e più completa rivascolarizzazione: il bypass

coronarico consente il trattamento di qualsiasi tipo di lesione coronarica, anche la più complessa o l’ostruzione

completa, e non solo della lesione responsabile della sintomatologia, ma anche di tutte le altre presenti

(rivascolarizzazione completa); 2) pervietà a lungo termine degli innesti, in particolare di quelli arteriosi (arteria

mammaria), che favorisce la stabilità del risultato a distanza.

Capitolo 65. Chirurgia delle Cardiopatie Congenite, Mario Chiavarelli, Gianluca Lucchese

DIFETTI DEL SETTO INTERATRIALE

Il difetto interatriale necessita di terapia chirurgica solo in presenza di sovraccarico ventricolare destro. Di solito

un difetto interatriale della fossa ovale ha indicazione alla chiusura se il rapporto tra flusso polmonare e flusso

sistemico (Qp/Qs) è superiore a 2 oppure superiore a 1,5 nei difetti interatriali complicati. Non c’è vantaggio in

termini di risultati ad aspettare un’età superiore a 1-2 anni, anche se in molti casi la diagnosi è successiva.

L’età avanzata non costituisce controindicazione.

La terapia chirurgica consiste nella chiusura del difetto o per sutura diretta o mediante “patch” (toppa) di

pericardio o tessuto artificiale. L'approccio chirurgico mininvasivo ha trovato un crescente interesse per ragioni

estetiche. La chiusura di difetto interatriale con device (ombrellini), posizionati in corso di cateterismo cardiaco

(cardiologia interventistica) ha un’applicazione crescente nei casi non complicati.

Tra tutti i difetti interatriali, si deve porre particolare attenzione a quelli tipo cavale e seno coronarico per la

frequente associazione ad altre malformazioni cardiache fra cui ritorno venoso polmonare anomalo.

DIFETTI DEL SETTO INTERVENTRICOLARE

La presenza di un difetto interventricolare non costituisce indicazione a correzione chirurgica: i difetti muscolari

e perimembranosi, specialmente se piccoli, possono chiudersi spontaneamente in un'alta percentuale di casi

(fino al 50%). Questo processo generalmente si verifica entro i 5 anni. I difetti interventricolari grandi non

operati sono gravati da una mortalità del 9% nel primo anno di vita, e portano a morte il 40% dei soggetti

prima dei vent’anni e il 78% prima dei quaranta; circa il 25-45 % dei pazienti sintomatici portatori di un difetto

interventricolare deve essere operato entro il primo anno di vita per la comparsa di insufficienza cardiaca.

L’indicazione chirurgica deve tener conto da un lato della probabilità di chiusura spontanea del difetto

interventricolare, dall’altro del rischio di mortalità per insufficienza cardiaca e di sviluppare malattia vascolare

polmonare, con conseguente ipertensione polmonare e inversione dello shunt, nei pazienti non operati.

L’intervento è condotto generalmente per via transatriale destra, dopo retrazione della valvola tricuspide e

consiste nel suturare un patch di tessuto artificiale ai margini del difetto, evitando di danneggiare il tessuto di

conduzione, che spesso è in relazione con il difetto interventricolare.

Se il peso del paziente è molto basso, o in caso di sepsi o di difetti multipli, può essere attuato il bendaggio

dell’arteria polmonare: un intervento palliativo che controlla l’iperafflusso polmonare e fa guadagnare tempo

per la correzione definitiva. La chiusura con device (ombrellino) in laboratorio di emodinamica è possibile per

casi selezionati.

PERSISTENZA DEL DOTTO ARTERIOSO

Nei pazienti a termine il dotto può essere chiuso con una bassa incidenza di complicanze (meno dello 0,5%). La

chiusura può essere effettuata tradizionalmente mediante legatura, divisione o applicazione di clip metallica.

Attualmente l'occlusione endoluminale (cardiologia interventistica) o la legatura in toracoscopia prevalgono sulla

chirurgia tradizionale. Nel prematuro è indicato il trattamento farmacologico con indometacina o ibuprofene,

farmaci inibitori della ciclossigenasi. La chiusura chirurgica è indicata in caso di inefficacia dei farmaci o

ricorrenza della pervietà del dotto arterioso dopo una prima fase di chiusura.

COARTAZIONE AORTICA

Le tecniche impiegate per ricostruire o sostituire l’aorta nel suo tratto coartato sono molteplici e vanno

considerate in base all’età del paziente e al tipo di coartazione.

Flap di succlavia. L'utilizzo della succlavia come lembo (flap) per la ricostruzione dell'aorta implica

l’interruzione della succlavia sinistra e può essere eseguito se l'arteria è di dimensioni e decorso adeguati. Nei

pazienti di età inferiore ad un anno il sacrificio dell'arteria succlavia è compensato dallo sviluppo di un circolo

collaterale che assicura un’adeguata perfusione dell'arto superiore sinistro.

Resezione del tratto coartato ed anastomosi termino-terminale. È quasi sempre possibile ed applicabile

e ha il vantaggio di rimuovere il tessuto duttale. Ha indicazione anche nel trattamento dell’ipoplasia tubulare.

Aortoplastica con patch. Incisione della parete aortica e allargamento dell’arteria mediante sutura di patch ai

margini dell’aortotomia. Questa metodologia è impiegata nel bambino quando la coartazione è presente per un

lungo tratto di aorta o nel neonato quando l'intervento è eseguito in emergenza. Il vantaggio di questa tecnica

è la semplice eseguibilità, anche se sono possibili recidive e formazione di aneurisma.

Aortoplastica con condotto. L'interposizione di un condotto artificiale a sostituzione del tratto aortico

coartato è una tecnica oggi quasi abbandonata in età pediatrica, ma ancora impiegata nell'adulto.

TETRALOGIA DI FALLOT

La presenza di questa malformazione costituisce indicazione all’intervento chirurgico. La correzione a 2 stadi

(palliazione con shunt sistemico-polmonare, seguita da riparazione), effettuata in passato in tutti i casi, ha oggi

indicazione limitata a bambini molto piccoli o situazioni particolari. La riparazione primaria può essere eseguita

anche in età neonatale ma è lo standard dopo i 6 mesi; l’età ottimale è i due anni di vita.

La chiusura del difetto interventricolare avviene per via transatriale destra; da questo accesso vengono rimosse

le bande muscolari ostruttive del ventricolo destro. Se questo non è sufficiente ad eliminare l’ostacolo,

l’infundibolo viene ampliato con un patch, che può essere esteso attraverso la valvola polmonare (correzione

con patch transanulare).

L’insufficienza della valvola polmonare è molto frequente dopo riparazione, ma viene ben tollerata per molti

anni e solo occasionalmente richiede l’inserzione di una protesi valvolare.

TRASPOSIZIONE DELLE GRANDI ARTERIE

Nella trasposizione con setto interventricolare integro si inizia infusione di prostaglandina E1 alla nascita, per

mantenere il dotto aperto e favorire il mixing, e si corregge l’acidosi metabolica. In casi di mixing non

soddisfacente si procede alla settostomia atriale con pallone. Nella prima settimana e non più tardi di 30 giorni

si esegue lo switch arterioso, ristabilendo la normale connessione tra ventricoli e grandi arterie e reimpiantando

le coronarie (correzione anatomica). Se il bambino viene proposto per correzione chirurgica dopo le prime

settimane di vita, il ventricolo sinistro è ormai abituato a pompare nel circolo polmonare a basse resistenze e

non è in grado di sostenere la circolazione sistemica. In questi casi si opta per una correzione fisiologica con

reorientamento dei flussi a livello atriale (intervento di Mustard o di Senning) in modo da ridirezionare il sangue

venoso sistemico verso la mitrale e quello polmonare verso la tricuspide, ristabilendo le circolazioni in serie.

Sezione XIX. Approccio al trattamento delle Malattie Cardiovascolari: Chirurgia Vascolare

Capitolo 67. La Malattia dei Tronchi Sopraortici, Francesco Spinelli, Giovanni De Caridi, Michele La Spada

INDICAZIONI ALLA TERAPIA CHIRURGICA

La conoscenza della patologia aterosclerotica, principale causa della malattia nel sistema cerebro-vascolare

extra-cranico, e dei suoi effetti sull’emodinamica arteriosa, ha permesso già negli anni ’50 la nascita della

chirurgia carotidea.

Il notevole sviluppo che questa chirurgia ha avuto negli anni successivi ha posto l’esigenza di individuare gruppi

e sottogruppi di pazienti, sia sintomatici che asintomatici, che potessero beneficiare del trattamento chirurgico

rispetto a quello medico nella prevenzione dell’ictus, a condizione che le complicanze operatorie fossero inferiori

alla morbilità e mortalità della popolazione non operata. L’obiettivo dei trial intrapresi è stato quello di valutare

l’efficacia dell’endo-arteriectomia carotidea nella prevenzione dell’ictus e quindi di fornire indicazioni chirurgiche

standardizzate. I più importanti studi multicentrici randomizzati condotti in pazienti sintomatici sono stati il

NASCET (North American Symptomatic Carotid Endarterectomy Trial) e l’ECST (European Carotid Surgery

Trial), che hanno valutato gli effetti emodinamici di una stenosi carotidea sul flusso a valle e il rischio

emboligeno delle lesioni. I risultati hanno permesso di stabilire che per stenosi uguali o superiori al 70%,

responsabili di TIA o ictus lieve nei sei mesi precedenti, e con rischio chirurgico inferiore al 6%, la terapia

chirurgica è superiore rispetto a quella medica perché diminuisce il rischio di ictus a 2 anni dal 26% al 9%, con

una riduzione ancor più vantaggiosa in presenza di placca ulcerata. Per contro, nei pazienti con stenosi

comprese tra il 50 ed il 69%, il tasso di ictus a 5 anni si riduce dal 22 al 17%. Si può concludere che nei

pazienti sintomatici, l’indicazione all’intervento chirurgico è certa per stenosi superiori al 70%, mentre

nel caso di stenosi comprese tra il 50 ed il 69% vanno operati solo i pazienti a più alto rischio, e per stenosi

inferiori al 50% la chirurgia è una scelta inappropriata.

A volte anche le stenosi asintomatiche vanno sottoposte a trattamento chirurgico: il trial ACAS (Asymptomatic

Carotid Aterosclerosis Study) ha messo in luce una riduzione del rischio di ictus a 5 anni dall’11% al 5% per

stenosi superiori al 60%, e lo studio ACSRS (Asymptomatic Carotid Stenosis and Risk of Stroke) ha individuato

tre categorie di pazienti a rischio con stenosi superiori all’80%, concludendo che per i soggetti con rischio

inferiore all’1% non vi è indicazione chirurgica, per quelli con rischio superiore al 4% l’indicazione è possibile

solo se il rischio chirurgico è contenuto, mentre per i pazienti con rischio superiore al 7% l’indicazione chirurgica

è assoluta.

L’indicazione all’intervento chirurgico rimane valida anche in caso di stenosi generate da alterazioni del decorso

anatomico delle arterie carotidi (kinking o coiling) che determinino un’accelerazione del flusso tale da creare

conseguenze emodinamiche al circolo cerebrale.

In presenza di accertata patologia ostruttiva o emboligena carotidea in un paziente con deficit neurologico lieve

o moderato, con coscienza conservata, ed in particolar modo in caso di occlusione carotidea controlaterale, si

propende oggi per l’intervento chirurgico allo scopo di ripristinare la pervietà carotidea (in caso di occlusione) o

di eliminare la fonte emboligena (in caso di stenosi significativa o di placca “soft”).

INDICAZIONI ALLA TERAPIA ENDOVASCOLARE

Una nuova svolta nel trattamento delle lesioni extra-craniche si è avuta di recente con l’introduzione della

metodica endovascolare (vedi Capitolo 59) che, anche se non ha cambiato le indicazioni al trattamento, ha

sostituito in alcuni casi la tecnica chirurgica tradizionale.

Anche in questo caso studi prospettici quali il NAPTAR (North American Percutaneous Transluminal Angioplasty

Register) e il CREST (Carotid Revascularization Endarterectomy versus Stent Trial) hanno permesso di definire

meglio il ruolo di questa metodica, dimostrando che i suoi risultati in termini di morbilità e mortalità sono

incoraggianti soprattutto in casi selezionati, quali i pazienti ad alto rischio chirurgico, nelle restenosi successive

ad endoarteriectomia, nei colli ostili, nelle stenosi in soggetti irradiati, nelle lesioni distali della carotide interna.

L’ANESTESIA NELLA CHIRURGIA DEI TRONCHI SOPRAORTICI

La tecnica anestesiologica praticata è in relazione al tipo di intervento che si intende eseguire: è possibile

un’anestesia locale in caso di tecnica endovascolare percutanea, oppure un’anestesia locoregionale o generale

in caso di intervento chirurgico tradizionale.

Nel primo caso si ha il vantaggio di mantenere la coscienza del paziente conservata, condizione utile durante le

fasi di interruzione della circolazione, ma con lo svantaggio di un mancato confort per il paziente e di riflesso

per il chirurgo. Tale situazione si annulla con l’anestesia generale, che però non permette al chirurgo di

verificare la coscienza del paziente al momento dell’interruzione della circolazione; si cerca di ovviare a ciò

tramite metodiche che predicono la necessità di utilizzare un cortocircuito temporaneo, detto “shunt”, per

mantenere la circolazione pervia durante l’intervento.

TECNICHE DI CHIRURGIA VASCOLARE

La tecnica chirurgica maggiormente praticata consiste nella endoarteriectomia carotidea (Figura 1, Figura 2),

Questa metodica consiste nel preparare accuratamente un tratto di arteria carotide comune e la sua

biforcazione e, dopo aver interrotto la circolazione, nell’eseguire una rimozione della placca dall’intero tratto

interessato dalla patologia aterosclerotica mediante uno scollamento a partenza dagli strati esterni della tonaca

media dell’arteria A questa fase segue la chiusura dell’arteriotomia, che si effettua mediante l’applicazione di un

“patch” di allargamento in materiale sintetico o biologico nel caso in cui la carotide interna appaia di calibro

ridotto.

Una variante dell’endoarteriectomia standard è l’endoarteriectomia per eversione, che consiste nel sezionare la

carotide interna, generalmente all’origine dalla biforcazione, evertere poi su se stessa la carotide interna

sezionata per poter eseguire la rimozione della placca mediante una spatola e infine nel ricostruire la continuità

del vaso.

Una ulteriore variante tecnica, utilizzata principalmente in caso di lesioni aterosclerotiche particolarmente

estese sulla carotide interna, consiste nell’eseguire un by-pass a partenza dalla carotide comune sino alla

carotide interna a valle della lesione, con sezione e legatura di quest’ultima.

La tecnica endovascolare (Figura 3, Figura 4) si effettua attraverso un accesso percutaneo e consiste

nell’eseguire un’angioplastica e l’applicazione di uno “stent”, con l’eventuale ausilio di meccanismi di protezione,

volti ad evitare l’embolizzazione della placca, posizionati prima di espandere lo stent (vedi Capitolo 60).

Capitolo 68. Le Arteriopatie Periferiche, Francesco Spinelli, Giovanni De Caridi, Michele La Spada

DEFINIZIONE DI INSUFFICIENZA ARTERIOSA

L’insufficienza arteriosa cronica è caratterizzata da un’alterazione della perfusione con progressiva

compromissione della vascolarizzazione distale.

La classificazione dell’ischemia critica secondo Leriche-Fontaine (vedi Capitolo 55) definisce la severità

funzionale dell’arteriopatia periferica ma non delinea chiaramente il livello di gravità della malattia e il rischio

evolutivo legato alle lesioni aterosclerotiche. Proprio tale parziale corrispondenza tra stadio clinico e lesioni

arteriose sottostanti ha condizionato per molto tempo l’iter decisionale. In passato, infatti, un’arteriopatia al

secondo stadio era prevalentemente appannaggio della terapia medica, e solo la comparsa di dolore a riposo o

di turbe trofiche conducevano alla terapia chirurgica.

Questo concetto va oggi rivisto in considerazione di due fattori. Il primo è la migliore conoscenza della storia

naturale della malattia, che può comportare la distruzione irreversibile del letto a valle, il secondo è il ruolo

sempre più importante assunto dalla terapia endovascolare, che offre un’alternativa poco invasiva, anche se

talvolta meno efficace, alla terapia chirurgica tradizionale.

INDICAZIONI ALLA TERAPIA CHIRURGICA

L’ischemia funzionale al I stadio non rappresenta un’indicazione chirurgica, ma rivela un rischio vascolare multi-

focale e dunque la necessità di un’indagine multi-sistemica del rischio aterosclerotico e di un successivo piano di

sorveglianza.

L’ischemia funzionale al II stadio rappresenta un’indicazione relativa all’intervento chirurgico, e ciò dipende

dalla conoscenza della storia naturale della claudicatio intermittens, che a 5 anni prevede una stabilizzazione o

un miglioramento nel 50% dei casi, una progressione della sintomatologia nel 15% dei casi, il ricorso a un

intervento chirurgico nel 25% dei pazienti e un’amputazione maggiore in meno del 4%.

Elementi quali il grado di claudicatio, l’età, le condizioni generali, lo stile di vita e la presenza o meno di circolo

collaterale condizionano le indicazioni terapeutiche. Nel caso di una claudicatio lieve o moderata da ostruzione

sotto-inguinale, soprattutto in pazienti anziani, è consigliabile il solo controllo dei fattori di rischio per frenare e

stabilizzare l’evoluzione della malattia e una terapia farmacologica anti-trombotica e vasoattiva. Per contro, la

presenza di una claudicatio severa causata da un deficit arterioso sopra- o sotto-inguinale può avvalersi, oltre

che della terapia farmacologica, anche della rivascolarizzazione chirurgica o endovascolare.

L’ischemia critica (stadi III e IV) costituisce un’indicazione assoluta a un intervento terapeutico invasivo in tutti i

casi in cui non vi sia un’adeguata risposta alla terapia farmacologica, sempre che esistano le condizioni tecniche

per una ragionevole probabilità di successo. Nell’ambito del IV stadio, una considerazione a parte meritano i

pazienti portatori di lesioni gangrenose estese all’avampiede e al tallone ma che non hanno ancora una

compromissione irrimediabilmente delle funzioni di appoggio del piede. Queste situazioni necessitano un

intervento terapeutico rapido ed efficace, mentre l’indicazione alla terapia medica è limitata ai soli pazienti in

cui tale situazione sia espressione di danno arterioso-capillare.

TECNICHE CHIRURGICHE

Il trattamento dell’ischemia cronica è basato su un’ampia varietà di by-pass e di tecniche di disostruzione, cui

recentemente si è aggiunta l’opzione della terapia endovascolare. La scelta fra queste diverse metodiche è

influenzata da numerosi fattori quali la topografia delle lesioni (sopra- o sotto-inguinali), la loro natura

(obliterante o emboligena) e il tipo di compromissione del vaso (stenosi od occlusione). Per la tecnica

convenzionale bisogna tener conto dell'afflusso, comunemente indicato con il termine inglese “inflow”, a livello

del sito dell’anastomosi prossimale del by-pass, dell’efflusso (“outflow” o “run-off”) delle arterie riceventi, e

della disponibilità di materiale protesico. Per quanto riguarda la strategia endovascolare, invece, la scelta è

influenzata dalla sede e dalla lunghezza della lesione, dal tipo e dalla morfologia dell’ostacolo al flusso e dalla

condizione del run-off.

La notevole diffusione e il ruolo sempre più importante assunto dalla terapia endovascolare ha stravolto

l’approccio al trattamento dell’ischemia critica. La rapida evoluzione dei materiali endovascolari ha allargato

notevolmente le potenzialità della metodica, e numerosi studi hanno suggerito che il primo approccio

all’ischemia critica sia la terapia endovascolare, la quale permette di affrontare in maniera poco invasiva sia le

occlusioni che le stenosi e le placche ateromatose friabili.

Per quanto riguarda il trattamento chirurgico tradizionale, le opzioni sono il by-pass, la

tromboendoarteriectomia e la profundoplastica. Il by-pass consiste nel superamento dell’ostruzione tramite un

ponte che viene impiantato prossimalmente alla lesione, su un segmento di arteria sana, ed ha il punto di arrivo

su un tratto di arteria sana distale alla lesione.

Il by-pass femoro-popliteo sopra-articolare è indicato se i vasi distali sono integri, mentre in presenza di

occlusione completa della poplitea sottoarticolare si rende necessario un by-pass distale (destinato ai vasi del

terzo inferiore di gamba o del piede) quando vi è almeno un vaso di gamba pervio. Le opzioni chirurgiche

prevedono: by-pass in vena autologa e in particolar modo in vena grande safena nelle due varianti “invertita” e

“in situ”, lasciata cioè nella sua sede naturale (Figura 1), oppure by-pass in protesi sintetica, o ancora by-pass

compositi combinando in varia maniera materiale venoso e protesico.

La vena autologa costituisce il materiale migliore per il basso rischio di infezione e per la presenza, sulla

superficie di flusso, di uno strato endoteliale vitale che, insieme alla componente elastica, riduce sensibilmente

la trombogenicità, soprattutto in prossimità delle sedi anastomotiche. Tra le vene autologhe si distingue per

lunghezza, diametro e posizione anatomica la vena grande safena (VGS), che decorre lungo tutto l’arto inferiore

e può consentire di eseguire un by-pass fino alle arterie pedidia e plantare. Se la VGS non è presente per

pregressi interventi chirurgici (by-pass aorto-coronarici, stripping per varici) o non ha un calibro adeguato viene

utilizzata la vena piccola safena o, se anche questa è inadeguata o assente, le vene dell’arto superiore.

Nel by-pass in vena grande safena invertita, è necessario lo scollamento del segmento venoso scelto per il

pontaggio e la sua inversione al momento di confezionare le anastomosi prossimale e distale. In caso di by-pass

in vena grande safena in situ, si rende necessaria la preparazione completa del segmento venoso ma si esegue

uno scollamento solo del tratto iniziale e di quello distale per permettere il confezionamento dell’anastomosi

prossimale e, dopo aver devalvulato la vena con appositi strumenti (valvulotomi o stripper), anche di quella

distale. A pontaggio eseguito, si dovrà effettuare un’attenta legatura dei rami collaterali della vena grande

safena sotto visione diretta, angiografica, angioscopica o con l’ausilio di uno strumento Doppler, dato che se i

collaterali della vena “arterializzata” rimanessero pervi si realizzerebbe un “furto” di sangue dal distretto

arterioso a quello venoso .

I materiali protesici, indispensabili nei casi in cui non vi sia materiale autologo adeguato, possono essere

biologici e di materiale sintetico, principalmente polimerico. Tra i primi annoveriamo le protesi omologhe

arteriose e venose, segmenti vasali, freschi o conservati, prelevati da cadaveri. Il problema principale di queste

protesi è rappresentato dal basso tasso di pervietà a distanza e dalla frequente degenerazione aneurismatica.

Sono anche disponibili protesi eterologhe, vasi di animali modificati in laboratorio, come ad esempio l’arteria

carotide bovina fissata con glutaraldeide. Queste non presentano una significativa perdita di stabilità strutturale

e mostrano risultati di pervietà buoni nel distretto sopra-popliteo ma insufficienti a livello sotto-popliteo .

Le protesi di materiale sintetico (Dacron, Teflon, ePTFE) offrono numerosi vantaggi quali l’impermeabilità e la

biocompatibilità, ma presentano il limite della quasi totale assenza di “compliance”, cioè di quella capacità di

ritorno elastico durante la fase diastolica che i vasi possiedono. Questa differenza di “compliance” tra protesi e

arterie comporta problemi emodinamici che inducono l’iperplasia peri-anastomotica, responsabile della bassa

pervietà a distanza dei by-pass femoro-tibiali in protesi sintetiche. Per migliorare l’esito a lungo termine di

questi interventi sono stati escogitati numerosi espedienti tecnici, che prevedono l’uso di un collare venoso o di

un patch venoso interposto nel punto d’anastomosi tra protesi artificiale e arteria nativa.

I risultati della chirurgia tradizionale riportano pervietà a 6 anni dei by-pass femoro-poplitei sopra-articolari in

materiale venoso pressochè sovrapponibili a quelli eseguiti in PTFE (76% vs 68%). Per i by-pass femoro-poplitei

sotto-articolari, la pervietà a distanza è del 67% per quelli eseguiti in vena e del 39% per quelli in PTFE. Per le

rivascolarizzazioni femoro-distali la pervietà è maggiore per i by-pass in vena safena in situ rispetto a quelli

eseguiti utilizzando le vene del braccio o le protesi in PTFE.

La tecnica endovascolare consiste nell’eseguire, attraverso un accesso percutaneo in anestesia locale,

un’angioplastica con eventuale applicazione di stent. Nel caso di lesioni stenotiche, si esegue una procedura

transluminale, mentre nel caso di ostruzione un’alternativa a questa metodica è quella sottointimale. Per

eseguire la tecnica transluminale si oltrepassa la stenosi con una guida metallica flessibile, sulla quale si

inserisce nel vaso un catetere che reca all’estremità distale un palloncino gonfiabile; questo viene portato in

corrispondenza della stenosi ed espanso, provocando il rimodellamento o la rottura della placca aterosclerotica

e lo stiramento della media e dell’avventizia (Figura 2). Nell’approccio sottointimale, invece, la guida viene

fatta avanzare non nel lume, ma all’interno della parete, sotto l’intima, e dopo aver superato l’occlusione viene

fatta rientrare nel lume arterioso vero, dilatando il tratto occluso mediante un catetere a palloncino.

COMPLICANZE

Nella valutazione delle complicanze che possono insorgere a seguito di un intervento chirurgico vascolare a

carico degli arti inferiori bisogna tener conto di un duplice aspetto: l’intervallo temporale di insorgenza e la

relazione fra la complicanza e la procedura eseguita.

Per quanto riguarda l’aspetto temporale si distingue un periodo postoperatorio precoce (entro 30 giorni) e uno

tardivo (dopo 30 giorni).

Riguardo al secondo aspetto le complicanze possono essere distinte in specifiche e non specifiche. Le prime

sono ulteriormente suddivise in vascolari locali (stenosi, trombosi e infezione del by-pass o emorragia) e non-

vascolari locali.

La metodica endovascolare ha ridotto la percentuale di queste complicanze, ma ne ha aggiunte altre, tra cui

quelle nel sito di puntura (ematoma, pseudo-aneurisma, fistola artero-venosa, trombosi), e quelle nella sede di

dilatazione, di cui la più importante è la dissezione vasale con formazione di un flap intimale, che può essere

trattato con una nuova dilatazione e l’impianto di uno stent.

Una trattazione a parte merita l’ischemia acuta, che può assumere un aspetto drammatico se non si è creato

nel corso del tempo un circolo collaterale. Le cause sono rappresentate nella maggior parte dei casi da embolia

cardiogena (per esempio in corso di fibrillazione atriale o di trombosi all’interno delle camere del cuore sinistro),

o da emboli a partenza da aneurismi dell’aorta o di arterie dell’arto colpito da ischemia. Nei restanti casi

l’ischemia acuta dipende da traumi vascolari.

Il trattamento si basa sulla terapia medica anticoagulante (per evitare la progressione del trombo), trombolitica

(per sciogliere il trombo) o su quella chirurgica, che prevede la rimozione dell’embolo tramite un catetere a

palloncino o il by-pass.