MANUALE - Collegio Agrotecnici · ANALISI FISICA -TESSITURA DETERMINAZIONE VALORE VALUTAZIONE...

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ALLA PROFESSIONE DI AGROTECNICO E DI AGROTECNICO LAUREATO nonché per l’Agronomo ed il Perito Agrario MANUALE Prefazione di Roberto Orlandi Autori Vari DELL’ESAME ABILITANTE SECONDA EDIZIONE INTEGRAZIONE ALLA

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ALLA PROFESSIONEDI AGROTECNICO

E DI AGROTECNICOLAUREATO

nonché per l’Agronomoed il Perito Agrario

MANUALE

Prefazione di Roberto Orlandi

Autori Vari

DELL’ESAMEABILITANTE

SECONDA EDIZIONE

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CAP. 2 - AGRONOMIA

2 AGRONOMIA 2.5 FERTILIZZAZIONE

Integrazione pag. 56 manuale “seconda edizione”

Piano di concimazione

Definite le caratteristiche del suolo mediante le analisi e l’interpretazione dei risultati si passa alla

fase operativa, la reintegrazione della fertilità chimica del terreno attraverso la concimazione.

Al fine di evitare eccessi nella somministrazione degli elementi fertilizzanti, che comporterebbero

spreco di risorse economiche e rischi di inquinamenti, è buona norma definire un piano di

concimazione. Il piano di concimazione definisce i quantitativi di elementi nutritivi da distribuire

alle singole colture sulla base delle asportazioni delle piante e delle risorse utili disponibili nel

suolo; definisce le epoche e le modalità di distribuzione dei fertilizzanti in funzione delle loro

caratteristiche, dell'andamento climatico e della cinetica di assorbimento degli elementi nutritivi da

parte delle colture; definisce l’impiego razionale dei reflui zootecnici e di altre matrici organiche

tenendo conto delle loro proprietà specifiche e della duplice valenza di ammendanti e di concimi.

Al fine di predisporre il piano di concimazione si devono perciò considerare:

il fabbisogno delle colture (per azoto, fosforo e potassio) in relazione alla resa attesa ed alle

esigenze fisiologiche di sviluppo;

l’andamento meteorologico con particolare riferimento alle precipitazioni (che condizionano

le perdite per lisciviazione, ruscellamento, ecc..) e dell’interazione con altre pratiche

agronomiche (es. lavorazioni del terreno, irrigazione, ecc.);

le caratteristiche dei suoli e relativa dotazione in elementi nutritivi (rilevabile mediante

campionamento e analisi del terreno);

i residui colturali della coltura precedente;

le precedenti fertilizzazioni organiche (azione residua);

gli apporti naturali di elementi fertilizzanti;

le fasi fenologiche, che corrispondono ad un più accentuato assorbimento di elementi

nutritivi;

le caratteristiche dei fertilizzanti;

le modalità di distribuzione più efficienti.

Esempio di calcolo del piano di concimazione

Dati dell’analisi chimico-fisica del terreno per il piano di concimazione

Si prende in considerazione una zona omogenea destinata alla produzione di mais, i cui parametri

sono indicati nel certificato di analisi chimico fisica.

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ANALISI FISICA - TESSITURA

DETERMINAZIONE VALORE VALUTAZIONE Sabbia 82,000-0,05) 46%

Franco-limoso Limo (0,050-0,002 40%

Argilla ( < 0,002) 14%

ANALISI CHIMICA

PH in H2O 7,39 Normale

Calcare attivo (CaCO3) 0.8% Basso

Sostanza organica 2,53% Medio-alta

Fosforo assimilabile (P2O5) 156 ppm Molto-alto

Potassio scambiabile (K2O) 191 ppm Alto

Magnesio scambiabile (Mg) 170 ppm Normale

Capacità di Scambio Cationico (CSC) 16,50 meq/100g Normale

Dall’interpretazione dei dati dell’analisi del terreno si deduce che, vista l’alta dotazione di Fosforo e

Potassio (elementi trattenuti dal potere assorbente) la concimazione si limita all’apporto di Azoto

(elemento dilavabile e potenzialmente inquinante), applicando il metodo del bilancio.

Esempio di calcolo del piano di concimazione di una

coltura erbacea (mais) in successione colturale ad erbaio di erba medica

Il metodo del bilancio dell’Azoto (N) si basa sulla seguente equazione:

(Y x b) – (Rh ± Rc ± Ro + An) = [(Cm + Ao) x P]

Dove:

Y = produzione stimata (granella 10 t./ha – stocchi 12 t./ha)

b = asportazione unitaria (kg 18/t./granella – kg 6/t./stocchi)

Rh = disponibilità da mineralizzazione (ca. 24 kg ogni punto % di S.O. di cui solo il 70%

realmente disponibili)

Rc = disponibilità da residui colturali di precedente coltura (es. erba medica = 100 kg)

Ro = disponibilità da azione residua di precedenti fertilizzazioni con ammendanti

An = disponibilità da apporti naturali (30/40 kg/anno totali di cui solo il 70% realmente

disponibili)

Cm = quantità di concimazione minerale da distribuire

Ao = quantità di fertilizzante organico eventualmente da distribuire

P = coefficiente di correzione: il valore così ottenuto viene moltiplicato per 1,4 in quanto si

ipotizza l’efficienza della concimazione attorno all’70% per perdite di azoto per

lisciviazione, ruscellamento, immobilizzazione.

Per cui:

[(10 x 18) + (12 x 6) ] – [(24 x 2.50 - 30%) + (100) + (35-30%) = (Cm x 1,4)

Y b Y b Rh Rc An

(180 + 72) – (42 + 100 + 24,5) = 85,5 x 1,4 = 119,7

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Kg 120 di N/ha da apportare con la concimazione minerale. Si prevede di fornire l’azoto con

l’apporto di urea (titolo 46%)

100 : 46 = X : 120 X = 260

260 kg di urea da distribuire preferibilmente in copertura, per limitare eventuali fenomeni di

dilavamento, suddivisi in due dosi: allo stadio di 4-5 foglie e allo stadio di 8-10 foglie.

Esempio di calcolo del piano di concimazione azotata di una

coltura arborea (pesco in produzione)

Dati dell’analisi chimico-fisica del terreno per il piano di concimazione

ANALISI FISICA - TESSITURA

DETERMINAZIONE VALORE VALUTAZIONE Sabbia 82,000-0,05) 46%

Franco-limoso Limo (0,050-0,002 40%

Argilla ( < 0,002) 14%

ANALISI CHIMICA

PH in H2O 7,39 Normale

Calcare attivo (CaCO3) 0.8% Basso

Sostanza organica 1,20% Medio-alta

Fosforo assimilabile (P2O5) 156 ppm Molto-alto

Potassio scambiabile (K2O) 191 ppm Alto

Magnesio scambiabile (Mg) 170 ppm Normale

Capacità di Scambio Cationico (CSC) 16,50 meq/100g Normale

Il metodo del bilancio dell’Azoto (N) si basa sulla seguente equazione:

(Y x b + Qb) – ( Rh ± An) = (Cm x P)

Dove:

Y = produzione stimata (30 t./ha)

b = asportazione unitaria (kg 1,3/t.)

Qb = quota base di azoto necessaria a sostenere la crescita annuale (ca. 70 kg/anno/ha).

Rh = disponibilità da mineralizzazione e apporti naturali (ca. 24 kg ogni punto % di S.O. di cui

solo il 70% realmente disponibili)

An = eventuale disponibilità da apporti naturali (di cui solo il 70% realmente disponibili)

Cm = quantità di concimazione azotata minerale da distribuire

P = coefficiente di correzione: il valore così ottenuto viene moltiplicato per 1,2 in quanto si

ipotizza l’efficienza della concimazione attorno all’80% per perdite di azoto per

lisciviazione, ruscellamento, immobilizzazione.

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Per cui:

(30 x 1,3 + 70) – (24 x 1.20 - 30%) + (0) = (Cm x 1,2)

Y t Qb Rh An

109 – 20 = 89 x 1,2 = 106

Kg 106/ha di N da apportare con la concimazione minerale

Si prevede di fornire l’azoto con l’apporto di solfato ammonico (titolo 20/21%), concime ad azione

acidificante per la presenza dell’elemento zolfo

100 : 20 = X : 106 X = 530

530 kg di solfato ammonico da distribuire alla ripresa vegetativa, suddivisi in più dosi: dalla ripresa

vegetativa alla fase di allegagione.

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CAP. 3 - COLTIVAZIONI ARBOREE

3. COLTIVAZIONI ARBOREE 3.1 LA CERTIFICAZIONE DEL MATERIALE VIVAISTICO

Integrazione pag. 62 manuale “seconda edizione”

La certificazione genetico-sanitaria dei materiali di propagazione delle piante da

frutto

In Italia la certificazione genetico-sanitaria dei materiali di propagazione delle piante da frutto è

regolamentata da specifiche disposizioni di legge (D.M. 24/07/2003 e successive disposizioni

attuative del 4/05/2006 e 20/11/2006).

Con questi decreti è stato istituito il Servizio Nazionale di Certificazione (SNC), costituito dal

Comitato Nazionale per la Certificazione (CNC) e dai Servizi Fitosanitari delle Regioni (SFR).

Le aziende vivaistiche che aderiscono volontariamente al programma di certificazione devono

attenersi ai disciplinari tecnici di produzione del materiale certificato e collaborare con la struttura

pubblica che presidia l’intero processo.

Gli scopi della certificazione sono:

la produzione di materiali di qualità superiore per gli aspetti genetici e fitosanitari,

la prevenzione della diffusione di malattie da quarantena,

il miglioramento della qualità delle produzioni frutticole,

la tracciabilità della filiera.

L’impiego di materiale certificato è obbligatorio per le aziende frutticole che aderiscono ai

Regolamenti dell’Unione Europea.

In base al Regolamento OCM, l’acquisto di astoni certificati consente di accedere ai finanziamenti

comunitari.

AI di là di questi vincoli, i dati confermano un interesse crescente da parte dei produttori per il

materiale certificato, che valorizza le piante da frutto sul piano economico, commerciale e

produttivo. Ed è per questo che le piante certificate in Italia sono in costante aumento.

La produzione di materiale certificato riguarda:

la fragola (piante fresche a radice nuda, apici da stolone, ecc..);

i portinnesti di melo, pero, cotogno, pesco, ciliegio, mirabolano e susino;

gli astoni e gli innesti di melo, pero, pesco, albicocco, susino, ciliegio, mandorlo e olivo;

il seme di pesco e mirabolano.

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Si prende come esempio la regione Emilia-Romagna dove si sono raggiunto questi livelli

Dati relativi alla Certificazione del materiale vivaistico in Emilia Romagna

Enti/Aziende coinvolte N°

Aziende vivaistiche coinvolte 58

Superficie produttiva complessiva 925 ha

Centri per la conservazione delle fonti primarie 3

Centri di pre-moltiplicazione 3

Campi di piante madri 33

Centri di moltiplicazione 16

laboratori di micro-propagazione 5

Volume delle produzioni N°

Fragole fresche 44.162.013

Fragole frigo conservate 109.400.000

Portainnesti di pomacee 6.863.600

Portainnesti di prunoidee 8.986.795

Innesti di pomacee 7.712.100

Innesti di prunoidee 3.957.500

Innesti di olivo 3.000

Astoni di pomacee 3.169.936

Astoni di prunoidee 721.014

Categoria C.A.C (Conformità Agricola Comunitaria)

È il primo livello di qualità.

Nella categoria C.A.C. (Conformità Agricola Comunitaria) rientrano i materiali di propagazione

garantiti dall’azienda che li ha prodotti.

Questi materiali sono dichiarati privi degli organismi nocivi considerati da quarantena per l’Unione

europea e degli organismi nocivi più significativi (Es.: Plum Pox Virus - PPV, agente della

VaiolSharka).

La garanzia del produttore è attestata da due documenti che accompagnano il materiale:

il Passaporto delle piante

il Documento di commercializzazione

Possono commercializzare materiali C.A.C. solo le aziende accreditate dai Servizi fitosanitari

delle Regioni.

Appartengono alla categoria C.A.C. le piante prodotte in Emilia-Romagna ed etichettate: “Bollino

Blu”

Questi materiali provengono da piante madri coltivate e analizzate per l’esenzione da patologie.

Quando si sceglie di acquistare piante certificate occorre verificare che nel cartellino/certificato

siano contenuti questi dati:

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logo del ministero;

servizio Nazionale di Certificazione volontaria;

Regione o Provincia autonoma e Servizio fitosanitario regionale competente;

dicitura: “Passaporto delle piante CE”, con eventuale sigla ZP per le pomacee;

codice fornitore - codice produttore;

specie, varietà e portinnesto;

categoria Certificato;

stato sanitario (virus esente -VF o virus controllato- VT);

numero progressivo alfanumerico che indica l'anno di produzione e il codice ISTAT della

Regione o Provincia autonoma competente per territorio di produzione;

numero di esemplari per cui vale il cartellino-certificato.

Il processo di certificazione Il processo di certificazione deve essere adeguato alle necessità di rinnovamento varietale dei

frutticoltori, per questo è indispensabile introdurre nuove “fonti primarie”.

Con questo termine si indica il materiale di origine di una nuova varietà prodotto dal costitutore. Per

accedere al sistema di certificazione, questo materiale deve essere riconosciuto in base a specifiche

caratteristiche a seguito di approfonditi controlli sia genetici che fitosanitari.

Per introdurre “nuove accessioni” nel sistema di certificazione il costitutore deve inoltrare al SNC

(Servizio Nazionale di Certificazione) apposita domanda, corredata dalla documentazione che ne

descrive le caratteristiche genetiche ed i controlli fitosanitari cui sono state sottoposte, secondo

quanto stabilito dai disciplinari tecnici.

Il costitutore deve:

conservare la fonte primaria in idonee strutture atte a mantenerne lo stato sanitario;

presentare apposita domanda al SNC, corredata:

- della documentazione che ne attesta la cultivar o il clone;

- della documentazione dello stato fitosanitario relativamente agli organismi contemplati dai

disciplinari di produzione delle singole specie;

- della copia autentica del brevetto e l’indicazione dell’azienda autorizzata alla

moltiplicazione (per le varietà brevettate) o di una dichiarazione attestante che la cultivar

può essere liberamente moltiplicata.

Il costitutore deve inoltre consegnare ad un centro di conservazione per la pre-moltiplicazione

riconosciuto il materiale di propagazione derivato dalla prima moltiplicazione della fonte primaria,

che deve essere accompagnato anche dai documenti fitosanitari obbligatori (Passaporto delle piante

e Documento di commercializzazione).

Tecnica di produzione delle piante certificate

Le piante certificate sono il risultato di un processo che si svolge in quattro fasi:

conservazione per la premoltiplicazione,

premoltiplicazione,

moltiplicazione,

vivaio.

Conservazione per la premoltiplicazione (CCP)

Si realizza presso centri di conservazione per la premoltiplicazione, riconosciuti a livello nazionale

per l’alta professionalità e competenza in materia e in possesso dei requisiti e delle autorizzazioni

previste dalla normativa fitosanitaria vigente.

Le piante madri ottenute dalla filiazione delle fonti primarie vengono conservate in strutture protette

(screenhouse) e, sempre in ambiente protetto, viene prodotto il materiale di propagazione (marze,

gemme, talee portinnesti e piante) di categoria “pre-base”.

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Fase di premoltiplicazione (CP)

Si svolge presso centri di premoltiplicazione pubblici o privati, riconosciuti idonei dal SNC, in

possesso dei requisiti e delle autorizzazioni previste dalla normativa fitosanitaria vigente.

In ambiente protetto o in campo, a seconda dei disciplinari di ciascuna specie, vengono allevate

piante di categoria “base” per l’allestimento di campi di piante madri.

Fase di moltiplicazione e vivaio (CM)

Si attua in campi di piante madri, in laboratori di micropropagazione e in vivai per la produzione di

materiale di categoria “certificato” sotto la responsabilità dei vivaisti.

I centri di moltiplicazione e i vivai sono ubicati in aree idonee per gli aspetti fitosanitari, distanti da

altre colture frutticole.

L’intero processo produttivo avviene sotto il controllo del Servizio fitosanitario che ne verifica la

conformità ai disciplinari di produzione stabiliti dal legislatore e rilascia l'autorizzazione alla

certificazione genetica e sanitaria (cartellino certificato).

Garanzia delle piante certificate Le piante certificate sono il risultato di un lavoro che vede coinvolte aziende vivaistiche e Servizio

fitosanitario, ma è il vivaista che aderisce o meno volontariamente al programma di certificazione

impegnandosi perciò a seguire scrupolosamente quanto previsto dalle normative.

È di conseguenza il vivaista il primo responsabile delle caratteristiche del suo prodotto.

Il Servizio fitosanitario svolge il controllo del processo di certificazione in tutte le sue fasi

garantendo la qualità del materiale vivaistico di categoria prebase , base e certificato sia per le

problematiche fitosanitarie, che per gli aspetti genetici.

Per gli organismi nocivi (virus, viroidi, fitoplasmi, batteri, funghi e nematodi) sono previsti:

controlli visivi e analisi di laboratorio eseguite secondo protocolli ufficiali.

I controlli di corrispondenza varietale sono basati su osservazioni pomologiche ed agronomiche e

vengono effettuati anche con il supporto di tecniche molecolari.

Il Servizio fitosanitario ha più in generale il compito di sorveglianza del territorio per le malattie da

quarantena. Questo è importante per garantire che l’attività vivaistica si svolga in aree idonee a

prevenire contaminazioni del materiale vivaistico.

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CAP. 5 DIFESA DELLE PRODUZIONI

5 DIFESA DELLE PRODUZIONI 5.1 FITOPATOLOGIA GENERALE

Sostituzione/Integrazione da pag. 282 a pag. 350

manuale “seconda edizione”

5.1.7 - Normativa e legislazione degli agrofarmaci o prodotti

fitosanitari

Piano di Azione Nazionale (PAN) per l'uso sostenibile dei prodotti fitosanitari

La direttiva 2009/128/CE (pubblicata il 29 giugno 2010)), recepita in Italia con il decreto

legislativo 14 agosto 2012, n. 150, istituisce un quadro per l’azione comunitaria ai fini dell’utilizzo

sostenibile dei prodotti fitosanitari. Gli Stati membri dovranno adottare piani d’azione nazionali per

definire gli obiettivi e individuare le misure per la riduzione dell’impatto e dei rischi per la salute

umana, l’ambiente e la biodiversità conseguenti all’utilizzo dei prodotti fitosanitari e per

incoraggiare lo sviluppo e l’introduzione della difesa integrata e di approcci o tecniche alternativi al

fine di ridurre la dipendenza dall’utilizzo dei prodotti fitosanitari.

Il Piano e un documento molto articolato e complesso che coinvolge diversi ambiti di competenza e

una moltitudine di soggetti, pubblici e privati, che si occupano, in contesti anche molto diversi, dei

prodotti fitosanitari. Il Pan riguarda infatti principalmente gli utilizzatori di questi mezzi tecnici, ma

coinvolge anche i produttori e i commercianti di prodotti fitosanitari cosi come i contoterzisti, i

tecnici e i consulenti, i meccanici, i formatori e, in termini più generali, tutta la popolazione intesa

come consumatori e utilizzatori degli spazi e delle risorse naturali. Sono poi coinvolte a diverso

titolo e a diversi livelli le autorità pubbliche che devono programmare, rendere applicabili e

controllare le tante misure previste dal Piano.

L’obbligo della difesa integrata

Entrando nel merito dei contenuti del Pan va innanzitutto evidenziato che la sua attuazione e

strettamente legata anche alla definizione degli strumenti applicativi della nuova Pac 2014-2020,

nella quale dovranno essere definite le pertinenti misure e le risorse che dovrebbero essere messe a

disposizione attraverso la programmazione e l’attuazione dei programmi di sviluppo rurale e dei

regimi di sostegno, della condizionalità e dei provvedimenti relativi all’Organizzazione comune dei

mercati (Ocm). Il Pan prevede infatti diverse misure di sostegno che dovranno accompagnarne

l’applicazione. Vi è infatti la volontà di valorizzare quanto già fatto nel nostro Paese traducendo

alcuni impegni non in obblighi a carico di tutte le imprese agricole, ma in impegni ancora

meritevoli di un sostegno finanziario. E il caso, ad esempio, della difesa integrata, che e

obbligatoria per tutti dal 2014. L’Italia ha scelto di individuare un livello obbligatorio più soft per

tutte le aziende e un livello volontario corrispondente all’attuale sistema nazionale della produzione

integrata. In pratica, dal 2014 scattano alcuni obblighi a carico di tutte le aziende, che sono però

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meno impegnativi di quelli attualmente previsti nei disciplinari di produzione integrata, la

limitazione dei prodotti ammessi avverrà solamente nella difesa integrata volontaria e non in quella

obbligatoria.

Altre novità importanti riguardano:

la formazione: dal 26 novembre 2015 il patentino sarà necessario per chiunque utilizza i

prodotti fitosanitari e per tutti i prodotti fitosanitari a uso professionale,

le irroratrici: diventa obbligatorio il controllo funzionale,

manipolazione e stoccaggio dei prodotti fitosanitari: sono stati definiti dei requisiti minimi,

obbligatori dal 1° gennaio 2015, relativi allo stoccaggio dei prodotti fitosanitari e

parallelamente e prevista la possibilità di sostenere le aziende agricole per la realizzazione di

nuovi depositi, l’ammodernamento o la realizzazione di aree attrezzate per la preparazione

delle miscele e di altre attrezzature o strutture in grado di limitare i rischi per l’utilizzatore e

l’ambiente.

La tutela dell’ambiente acquatico e dell’acqua potabile

Il capitolo più nuovo e quello che riguarda le misure per la tutela dell’ambiente acquatico e

dell’acqua potabile e per la riduzione dei prodotti fitosanitari in aree specifiche. Le aree specifiche

comprendono aree extra-agricole (rete ferroviaria e stradale e aree frequentate dalla popolazione) e

aree naturali nelle quali e presente anche un’attività agricola più o meno rilevante (siti Natura 2000

e aree naturali protette). Proprio per questo carattere di novità, ma anche per le possibili ricadute

sull’attività agricola, il Pan rimanda a una fase successiva la definizione di specifiche linee guida

che dovranno essere adottate a livello locale entro due anni in funzione delle caratteristiche di tali

aree e dei risultati dei monitoraggi realizzati. Le eventuali e possibili misure di limitazione o

sostituzione di determinati prodotti fitosanitari dovranno essere accompagnate dalle misure di

sostegno previste nei Piani di Sviluppo Rurale. Le linee guida dovranno pertanto fornire indirizzi

operativi alle strutture interessate, sia su scala territoriale (regionale/provinciale, di bacino

idrografico) che aziendale, per la tutela di ambiti territoriali che presentino specifiche necessita.

La consulenza L’attività di consulenza, cosi come prevista dal Pan, può essere esercitata solo da coloro i quali

dispongano di una specifica abilitazione, conseguita in seguito ad una obbligatoria formazione.

Le aziende agricole non sono obbligate ad avere un consulente, ma sono tenute a disporre e a

operare tenendo conto dei contenuti dei bollettini territoriali, che devono essere periodicamente

messi a disposizione dalla pubblica amministrazione. L’obbligo per l’azienda di avvalersi di un

consulente vi e solamente in alcuni casi specifici, in particolare quando:

è inserita in un Piano operativo dell’Ocm che prevede l’adesione alla difesa integrata

volontaria e, conseguentemente, un’assistenza tecnica specifica,

si avvale di un servizio di consulenza finanziato nell’ambito del Piano di Sviluppo Rurale

finalizzato all’applicazione dei disciplinari di produzione integrata (volontaria) o delle

tecniche di agricoltura biologica.

Il consulente previsto dal Pan è quindi un tecnico che fornisce assistenza all’utilizzatore di prodotti

fitosanitari, si reca presso l’azienda agricola e ha il compito di consigliare l’impiego di tali prodotti

in funzione della specifica realtà aziendale o, più precisamente, secondo i criteri definiti dai principi

della difesa integrata e/o dell’agricoltura biologica.

Nuova classificazione dei prodotti fitosanitari I prodotti fitosanitari saranno suddivisi in due nuove categorie:

prodotti fitosanitari ad uso professionale: comprendono di fatto tutti i formulati

attualmente in commercio, ad esclusione di quelli per le piante ornamentali (PPO).

Rientrano in questa categoria tutti i prodotti fitosanitari a prescindere dalla loro

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classificazione ed etichettatura di pericolo. Ne faranno parte quindi i molto tossici (T+), i

tossici (T), i nocivi (Xn), gli irritanti (Xi) ed i non classificati (Nc). A partire dal 26

novembre 2015 il loro acquisto ed anche il loro impiego sarà condizionato al possesso del

patentino. Ciò significa che tutti coloro che, nell’ambito di un’azienda agricola, acquistano,

manipolano e distribuiscono i prodotti fitosanitari o le loro rimanenze, dovranno avere il

patentino.

prodotti fitosanitari ad uso non professionale: tali prodotti potranno essere acquistati

anche da chi non sarà in possesso del patentino; per questo motivo questa nuova tipologia di

prodotti sarà caratterizzata da una nulla o bassissima pericolosità per la salute umana e per

l’ambiente. I criteri specifici che caratterizzeranno questi prodotti saranno definiti da uno

specifico decreto del ministero della Salute. Rientrano in questa categoria i prodotti per

l’impiego su piante ornamentali e da fiore in appartamento, balcone e giardino domestico e i

prodotti utilizzati per la difesa fitosanitaria di piante edibili (la pianta e/o i suoi frutti)

coltivate in forma amatoriale, destinate al consumo

Classificazione ed etichettatura dei prodotti fitosanitari La classificazione ed etichettatura di pericolo cambierà a partire da giugno 2015, adeguandosi a

quanto definito a livello mondiale, in base al regolamento (CE) 1272/2008 – CLP (Classification,

Labelling and Packaging of substances and mixtures).

Gradualmente andrà a sostituire l’attuale normativa DPD (Direttiva Preparati Pericolosi).

Cambieranno quindi i criteri di classificazione e di etichettatura dei prodotti fitosanitari. Verranno

pure modificati i simboli di pericolo.

Il Regolamento CLP è entrato in vigore nella Comunità Europea il 20 gennaio 2009 ed è diretto a

tutti coloro che fabbricano, importano, fanno uso o distribuiscono sostanze chimiche o miscele,

inclusi biocidi e agrofarmaci, indipendentemente dal loro quantitativo. Applica a livello europeo i

criteri di classificazione del Sistema Globale Armonizzato GHS (Globally Harmonized System of

Classification and Labelling of Chemicals) delle Nazioni Unite.

L’obiettivo del Regolamento CLP è armonizzare i criteri per la classificazione e le norme relative

all’etichettatura e all’imballaggio delle sostanze e delle miscele pericolose, garantendo la libera

circolazione delle stesse e al contempo un elevato livello di protezione della salute dell’uomo e

dell’ambiente. La legislazione identifica secondo quali criteri ogni sostanza o miscela deve essere

classificata, sulla base delle sue proprietà intrinseche (chimico-fisiche, tossicologiche ed

ecotossicologiche), al fine di individuare le potenziali pericolosità per l’uomo e per l’ambiente.

È compito dell’industria stabilire la pericolosità di sostanze e miscele prima che vengano immesse

sul mercato (classificazione) e informare lavoratori e consumatori di questi pericoli (etichettatura)

attraverso etichette e schede di sicurezza.

La classificazione si basa sul pericolo, mentre la registrazione degli agrofarmaci è fondata sulla

valutazione del rischio, che ha lo scopo di stabilire in quali condizioni possono essere impiegati

senza rischi per la salute e l’ambiente.

Scadenzario

dal 1° giugno 2015: obbligatoria la classificazione delle miscele secondo il sistema CLP,

prima del 1° giugno 2015: possono essere presenti sul mercato agrofarmaci con etichette

riportanti la classificazione DPD,

fino al 31 maggio 2017: è consentito lo smaltimento delle scorte degli agrofarmaci già

immessi sul mercato al 1° giugno 2015; potranno quindi essere reperibili sul mercato, per lo

stesso prodotto, confezioni con etichetta conforme alla normativa DPD e confezioni con

etichetta conforme al regolamento CLP.

Le modifiche

Le sostanze e le miscele, in base alla natura del pericolo, sono divise in quattro classi di pericolo:

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1) chimico-fisico,

2) tossicologico,

3) ecotossicologico e di destino ambientale,

4) supplementare.

A loro volta dette sostanze vengono suddivise in categorie che ne specificano l’entità. Le classi e le

categorie di pericolo previste dal CLP sono differenti da quelle previste dalla precedente normativa

DPD.

I sette simboli utilizzati sin dal 2004 verranno sostituiti da nove “Pittogrammi” (a forma di losanga,

come quelli da tempo utilizzati per l'etichettatura del trasporto.

Elementi fondamentali per la nuova etichettata

Pittogramma di pericolo: una composizione grafica comprendente un simbolo e un bordo,

destinata a comunicare informazioni specifiche sul pericolo in questione.

Avvertenza: una parola indica il grado relativo del pericolo. Es.: PERICOLO: avvertenza

per le categorie di maggiore entità; ATTENZIONE: avvertenza per le categorie di minore

entità.

Indicazione di pericolo (Frasi H): frase attribuita ad una classe e categoria di pericolo che

descrive la natura del pericolo e, se del caso, il grado di pericolo. Le frasi H sostituiscono le

vecchie frasi di rischio (frasi R). Ad ogni indicazione di pericolo corrisponde un codice

alfanumerico composto dalla lettera H seguita da tre numeri. L’Unione europea si è riservata

di inserire codici di pericolo supplementari (EUH seguito da un numero a tre cifre) non

presenti nel sistema GHS.

Consiglio di prudenza (Frasi P): frase che descrive la misura o le misure raccomandate per

ridurre al minimo o prevenire gli effetti nocivi dell’esposizione a una sostanza o miscela

pericolosa conseguente al suo impiego o smaltimento. Le frasi P sostituiscono i vecchi

consigli di prudenza. Ad ogni consiglio di prudenza corrisponde un codice alfanumerico

composto dalla lettera P seguita da tre numeri.

Informazioni supplementari: informazioni che forniscono ulteriori precisazioni ad

integrazione di quelle derivanti dal CLP.

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Nuovo pittogramma

Classificazione del Sistema

Globale Armonizzato

GHS

Descrizione Vecchio simbolo

sostituito

GHS06

Il simbolo contraddistinguerà i prodotti con elevata tossicità (categoria 1, 2 e

3) per via orale, inalatoria o dermale. Contrariamente a quanto si verificava

precedentemente non verrà utilizzato per contraddistinguere mutageni o

cancerogeni con moderata tossicità acuta. Poichè le soglia di tossicità sono

cambiate, i prodotti che prima erano considerati nocivi ma con una DL50

orale compresa tra 200 e 300 mg/kg, adesso riporteranno il teschio.

GHS08

Questo simbolo contrassegnerà i prodotti accreditati di un significativo

pericolo per la salute, quali i cancerogeni , i mutageni, i tossici per la

riproduzione, quelli con tossicità specifica per organi bersaglio (es. fegato o

sistema nervoso) sia per esposizioni singole che ripetute , oppure prodotti

con gravi effetti sui polmoni, anche mortali, se penetrano attraverso le vie

respiratorie (anche a seguito di vomito), infine prodotti che possono

provocare allergie respiratorie (es. Asma). Occorrerà leggere attentamente le

indicazioni di pericolo, in quanto lo potremo trovare anche non solo su

prodotti contenenti sostanze cancerogene o mutagene, ma su quelli con

elevate quantità di solventi diffusissimi quali le nafte aromatiche.

GHS07

Contrassegnerà i prodotti (o meglio le “miscele”) che manifesteranno i livelli

più blandi di tossicità acuta orale, dermale o inalatoria (Categoria 4),

irritazione dermale od oculare (Categoria 2), sensibilizzazione dermale

(Categoria 1), tossicità specifica per organi bersaglio (STOT) dopo singola

esposizione (Categoria 3), irritazione del tratto respiratorio, effetto narcotico.

GHS09

Pericolo per l'ambiente: nessuna novità particolare, tranne che per gli

erbicidi: nel calcolo della classificazione verrà presa anche la tossicità nei

confronti delle piante acquatiche, mentre precedentemente era considerata

solamente quella per le alghe, oltre a pesci e Daphnia.

GHS05

Questo simbolo intuitivamente contraddistinguerà i prodotti corrosivi per la

pelle di categoria 1A, 1B e 1C e quelli che provocano gravi lesioni oculari di

categoria 1. Anche in questo caso, per via del cambiamento delle soglie,

alcuni prodotti che presentavano rischi di gravi lesioni oculari (frase R41) e

la croce di S. Andrea, riporteranno questo ben più inquietante simbolo

GHS02

Gas altamente infiammabile, Gas infiammabile, Aerosol altamente

infiammabile, Aerosol infiammabile, Liquido e vapori facilmente

infiammabili, Liquido e vapori infiammabili, Solido infiammabile. Anche in

questo caso la variazione delle soglie farà in modo che molti prodotti

classificati come infiammabili (frase R10) e i perossidi organici

(precedentemente considerati comburenti) dovranno riportare questo

simbolo, mentre prima ne erano privi.

GHS03

Comburente: uno dei pochi simboli rimasti invariati rispetto alla precedente

normativa, con eccezione dei già citati perossidi organici, prima comburenti

e adesso infiammabili.

GHS04

Nuovo simbolo che intuitivamente indicherà “Gas sotto pressione”. Lo

troveremo probabilmente solo su alcuni fumiganti.

Nessun simbolo sostituito

GHS01

Esplosivo: di solito non interessa gli agrofarmaci, a parte forse alcune

tavolette fumiganti.

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Esempio di variazione in etichetta

Vecchia etichetta DPD Nuova etichetta CLP

Certificati di abilitazione (patentino) per l’ acquisto e l’utilizzo dei prodotti

fitosanitari

A partire dal 26 novembre 2015 i prodotti fitosanitari, destinati agli utilizzatori professionali, possono essere acquistati e utilizzati solo da persone in possesso di apposito “certificati di abilitazione” (patentino), rilasciato dall’Ente Competente.

Uno dei principali capitoli del Piano d’azione nazionale (Pan) per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari è la formazione, che rappresenta uno dei presupposti necessari per un’idonea gestione

dei prodotti fitosanitari. La formazione deve infatti garantire che i soggetti coinvolti, e cioè utilizzatori, distributori e consulenti, acquisiscano conoscenze sufficienti, in funzione dei loro diversi ruoli e responsabilità, affinché chi usa i prodotti fitosanitari sia pienamente consapevole dei

rischi potenziali per la salute umana e l’ambiente e delle misure per ridurli. Per questa ragione è prevista sia una formazione di base, sia un periodico aggiornamento. L’obbligo della formazione, prima dell’entrata in vigore della direttiva 2009/128/ CE, non era

specificamente previsto in molti stati membri. In Italia la formazione degli utilizzatori e dei distributori è invece prevista da tempo: dal 1968 (Dpr 1255/68). A partire da quella data entrambe

Insetticida/acaricida per melo, pero, pesco

Sospensione concentrata

Composizione

100 g di prodotto contengono:

……………………

……………………

……………………

CONSIGLI DI PRUDENZA - Conservare fuori della portata dei

bambini. Conservare lontano da alimenti o mangimi e da

bevande. Non mangiare, né bere, né fumare durante l’impiego.

Non gettare i residui nelle fognature.

In caso d'ingestione consultare immediatamente il medico e

mostrargli il contenitore o l'etichetta. Questo materiale e/o il

suo contenitore devono essere smaltiti come rifiuti pericolosi.

Non disperdere nell’ambiente.

Insetticida/acaricida per melo, pero, pesco

Sospensione concentrata

Composizione

100 g di prodotto contengono:

……………………

……………………

……………………

ATTENZIONE

(avvertenza)

INDICAZIONI DI PERICOLO: Nocivo se ingerito. Nocivo se inalato. Può

provocare danni agli organi in caso di esposizione prolungata o ripetuta.

Molto tossico per gli organismi acquatici con effetti di lunga durata. Per

evitare rischi per la salute umana e per l'ambiente, seguire le istruzioni

per l'uso. (frase H )

CONSIGLI DI PRUDENZA: Tenere fuori dalla portata dei bambini. Non

respirare la polvere/i fumi/i gas/la nebbia/i vapori/gli aerosol. Non

mangiare, né bere, né fumare durante l’uso. Utilizzare soltanto

all’aperto o in luogo ben ventilato. In caso di inalazione: trasportare

l’infortunato all’aria aperta e mantenerlo a riposo in posizione che

favorisca la respirazione. In caso di malessere, contattare un centro

antiveleni o un medico. Raccogliere il materiale fuoriuscito. Smaltire il

prodotto/recipiente in conformità alla normativa vigente. (frase P)

PERICOLOSO PER L'AMBIENTE

Altamente tossico per gli organismi acquatici, può provocare danni a corto o lungo periodo

termine

effetti negativi per

acquatico

NOCIVO

Nocivo per inalazione e ingestione.

Nocivo: pericolo di gravi danni alla salute in caso di inalazione o ingestione

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le autorizzazioni sono state rilasciate e periodicamente rinnovate dopo che gli operatori hanno

partecipato a specifiche attività di formazione. Successivamente il decreto n. 1255/68 è stato

sostituito dal Dpr n. 290/2001 che ha confermato la formazione obbligatoria per utilizzatori e

distributori e ha introdotto l’obbligo del registro dei trattamenti.

Con l’approvazione del Pan le norme relative alla formazione degli utilizzatori e dei distributori

sono state adeguate alle disposizioni europee ed è diventata obbligatoria la formazione anche per i

consulenti.

Scadenze importanti:

fino al prossimo 26 novembre 2015 si continueranno ad applicare le vecchie procedure per il

rilascio e il rinnovo del patentino e dell’abilitazione alla vendita;

dal 26 novembre 2015 partirà il nuovo sistema di formazione previsto dal Pan.

Le procedure per il rilascio e per il rinnovo

Fino al 26 novembre 2015 durata e contenuti dei corsi sono quelli previsti dalle disposizioni

regionali prima dell’entrata in vigore del Pan. Al termine dell’attività formativa è previsto

un esame per il rilascio e una verifica di apprendimento per il rinnovo. Chi è in possesso di

specifici titoli di studio (laureati in chimica, medicina e chirurgia, medicina veterinaria,

scienze biologiche, farmacia, i diplomati in farmacia e i periti chimici) è esentato dalla

partecipazione al corso, ma deve sostenere l’esame. I laureati in scienze agrarie, i periti

agrari e gli agrotecnici sono esentati sia dalla frequenza del corso, sia dalla partecipazione

all’esame.

A partire dal 26 novembre 2014 la durata dei corsi deve essere coerente con quanto previsto

dal Pan: quelli di base di almeno 20 ore (prima erano soltanto di 18), quelli di

aggiornamento di 12 (prima erano di 9). Anche i contenuti devono comprendere gli

argomenti riportati nel Piano. Chi è in possesso di diploma di istruzione superiore di durata

quinquennale o di laurea, anche triennale, nelle discipline agrarie e forestali, biologiche,

naturali, ambientali, chimiche, farmaceutiche, mediche e veterinarie è esentato dall’obbligo

di frequenza al corso. L’esame obbligatorio per tutti è previsto solo in fase di rilascio;

successivamente per ottenere il rinnovo è sufficiente l’attestazione di frequenza ai corsi

specifici o iniziative di aggiornamento che saranno definite dalla Regione Emilia-Romagna.

La frequenza non può essere inferiore al 75% del monte ore complessivo. L’esame

continuerà ad essere effettuato attraverso i test.

Il “certificato di abilitazione all’acquisto e all’utilizzo” dei prodotti fitosanitari, (patentino),

rilasciato dalle Province alle persone maggiorenni, è personale, mantiene la sua validità su

tutto il territorio nazionale per cinque anni e deve riportare i dati anagrafici e la foto

dell’intestatario, la data di rilascio e quella di scadenza, oltre la quale deve essere rinnovato

su richiesta del titolare.

A partire dal 26 novembre 2015 il patentino sarà indispensabile per acquistare tutti i prodotti

fitosanitari destinati a un uso professionale, a prescindere dalla loro classificazione ed

etichettatura di pericolo; chi non ne sarà in possesso potrà acquistare ed utilizzare solamente

prodotti destinati a un uso non professionale.

Fino al 25 novembre 2015 il patentino è indispensabile per acquistare i prodotti fitosanitari

classificati ed etichettati come molto tossici (T+), tossici (T) e nocivi (Xn). Chi non è in

possesso del patentino può acquistare i prodotti fitosanitari classificati ed etichettati come

irritanti (Xi) e quelli non classificati (Nc) che possono anche riportare l’indicazione

“Attenzione manipolare con prudenza”.

Gli attuali patentini mantengono la loro validità fino alla scadenza naturale dei cinque anni

e, alla scadenza, saranno rinnovati secondo le modalità previste dal Pan.

Le informazioni da conoscere su distributori e consulenti

La formazione riguarda anche le due figure professionali dei distributori e consulenti.

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Anche chi vende i prodotti fitosanitari (distributore) deve avere una specifica “abilitazione

alla vendita” che viene rilasciata dalla Asl competente. Il certificato di abilitazione deve

essere esposto e ben visibile nel locale adibito a punto vendita. Al momento della vendita

deve essere presente almeno una persona, titolare o dipendente, in possesso del certificato di

abilitazione, che ha l’obbligo di accertare l’identità dell’acquirente e la validità del

patentino; fornire informazioni adeguate sull’uso sicuro e corretto dei prodotti fitosanitari (le

condizioni di stoccaggio, la manipolazione e applicazione); indicare i pericoli e i rischi

connessi all’esposizione per la salute e la sicurezza umana e per l’ambiente, nonché le

modalità per un corretto smaltimento. Il distributore dovrà anche comunicare il periodo

massimo entro il quale il prodotto fitosanitario deve essere utilizzato nel caso in cui

l’autorizzazione sia stata revocata ed il prodotto sia ancora utilizzabile per un periodo

limitato e, comunque, in tutti i casi in cui il prodotto stesso sia utilizzabile per un periodo

limitato.

Chi ha il certificato di abilitazione alla vendita non può possedere anche quello di

consulente. È una specifica incompatibilità che non riguarda il punto vendita ma il singolo

soggetto. In pratica una rivendita può avere nel proprio organico una persona abilitata alla

vendita ed un’altra abilitata alla consulenza.

Dal 26 novembre 2015 chi intende svolgere consulenza sull’impiego di prodotti fitosanitari,

indirizzata anche alle produzioni integrata e biologica, all’impiego sostenibile e sicuro dei

prodotti fitosanitari e ai metodi di difesa alternativi, deve essere in possesso del certificato di

abilitazione. Il documento sarà rilasciato dalla Regione a diplomati o laureati in discipline

agrarie e forestali che abbiano frequentato corsi specifici e sarà valido su tutto il territorio

nazionale.

Utilizzo delle attrezzature irroratrici Tra le nuove regole introdotte dal Piano d’azione nazionale (Pan) vi sono quelle legate all’utilizzo

delle attrezzature irroratrici.

La verifica dell’efficienza funzionale delle singole parti che compongono una attrezzatura

irroratrice è infatti il presupposto fondamentale per la riduzione dello spreco e la dispersione di

agrofarmaci nell’ambiente, derivante da una scorretta distribuzione.

Per alcuni contesti produttivi che prevedono l’applicazione dei disciplinari di produzione integrata

(Ocm, misure agro-ambientati del Psr), è obbligatorio il controllo a cadenze diversificate presso i

centri autorizzati, sia per le irroratrici aziendali che per quelle dei contoterzisti:

per i contoterzisti il primo controllo è previsto entro il 26 novembre 2014, in seguito i

successivi controlli sono previsti ogni 2 anni;

per le attrezzature nuove acquistate dopo il 26 novembre 2011 il primo controllo dovrà

essere fatto entro 5 anni dalla data di acquisto. Sono validi i controlli eseguiti dopo il 26

novembre 2011 se effettuati da Centri prova già riconosciuti.

Tra gli elementi di maggiore importanza va segnalata la taratura (regolazione) che individua le

modalità di utilizzo più adeguate alle specifiche realtà aziendali (come le forme di allevamento e il

tipo di impianti). Il Pan infatti definisce le componenti oggetto del controllo funzionale, le modalità

di esecuzione ed i requisiti di funzionalità che devono essere raggiunti. Due i diversi livelli di

regolazione previsti:

la prima è la regolazione o manutenzione periodica delle attrezzature eseguita dagli utenti

(obbligatoria) con registrazione dei volumi utilizzati per ciascuna coltura e della data di

esecuzione delle verifiche,

la seconda è la regolazione strumentale (volontaria), sostitutiva della precedente ed eseguita

presso sedi autorizzate tramite idonei banchi prova, con rilascio al proprietario

dell’irroratrice di un documento di validità quinquennale. È previsto il mutuo

riconoscimento dei controlli eseguiti sul territorio nazionale e su quello degli Stati membri.

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I Centri prova devono essere autorizzati dalle Regioni e dalle Province autonome e devono

avvalersi di tecnici abilitati con le modalità di formazione definite dal Pan.

Le Regioni e le Province autonome hanno la facoltà di esonerare i Centri già riconosciuti dalla

presentazione della richiesta di autorizzazione, se questi dispongono di attrezzature conformi a

quanto previsto dal Pan. Anche i tecnici già operanti presso gli stessi Centri possono essere esentati

dall’obbligo di frequenza ai corsi e dall’esame finale, se già in possesso di abilitazione riconosciuta

dalle autorità competenti.

È prevista una deroga nei tempi e nella cadenza per certe tipologie e l’esonero per alcune

attrezzature portatili.

Registro dei trattamenti

Documento, previsto dal D.P.R. 23 aprile 2001 n. 290, che obbliga gli acquirenti e gli utilizzatori di

prodotti fitosanitari ad utilizzare un “registro dei trattamenti effettuati” (il cosiddetto quaderno di

campagna). Pur non prevendo, la norma, uno specifico documento è comunque necessario

predisporre un registro che tenga conto dell’anagrafica aziendale, ove indicare:

la data in cui è stato effettuato il trattamento;

il prodotto utilizzato;

il tempo di carenza;

la dose/hl e la quantità totale;

gli appezzamenti, le varietà e le avversità trattati;

le date di semina, trapianto, inizio fioritura e raccolta.

Gli agricoltori devono conservare per un anno tutte le fatture di acquisto dei prodotti antiparassitari

e la copia dei moduli di acquisto dei prodotti classificati come molto tossico, tossico e nocivo (ex

prima e seconda classe). Il registro dei trattamenti effettuati (con obbligo di annotazione entro 30

gg. dal trattamento) deve essere sottoscritto e conservato per 1 anno in azienda per le eventuali

verifiche delle autorità regionali competenti.

Lo scopo del registro è quello di consentire un monitoraggio dell'utilizzazione degli antiparassitari

responsabilizzando gli agricoltori anche al fine di evitare eccessi ed usi scorretti o rischiosi per la

salute dei consumatori e per l'ambiente.

Gli orti e i frutteti utilizzati per il consumo familiare sono esenti dal tenere il registro dei

trattamenti, come precisato dalla circolare del Mi.P.A.F. pubblicata sul supplemento ordinario n.18

della G.U. del 5/02/03.

Estratto della Gazzetta Ufficiale n.18 del 5/02/03

Registro dei trattamenti

Introduzione: il comma 3 dell'art.42 prevede la conservazione in azienda da parte degli

acquirenti e degli utilizzatori, di un registro dei trattamenti ("quaderno di campagna")

effettuati nel corso della stagione di coltivazione. Tale conservazione persegue finalità di

verifica nell'ambito dei piani di monitoraggio e di controllo ufficiale realizzati sul territorio.

Il registro dovrà rimanere in azienda per le eventuali verifiche delle autorità regionali

competenti.

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Definizione e tipologia del registro dei trattamenti: per registro dei trattamenti si intende

un modulo aziendale che riporti cronologicamente l'elenco dei trattamenti eseguiti sulle

diverse colture, oppure, in alternativa, una serie di moduli distinti, relativi ciascuno ad una

singola coltura agraria. Il registro dei trattamenti va conservato almeno per l'anno

successivo a quello a cui si riferiscono gli interventi annotati.

Annotazioni e scopo del registro dei trattamenti: sul registro devono essere annotati i

trattamenti effettuati con tutti i prodotti fitosanitari e relativi coadiuvanti utilizzati in azienda

(classificati molto tossici, tossici, nocivi, irritanti o non classificati) entro trenta giorni

dall'esecuzione del trattamento stesso. La scheda per il registro dei trattamenti dovrà,

perciò, riguardare anche i prodotti fitosanitari classificati come irritanti e non classificati,

che possono comunque presentare rischi per l'ambiente e per la salute umana. Scopo del

registro è quello di fornire il quadro complessivo della pressione "ambientale" derivante

dall'utilizzo dei prodotti fitosanitari nell'azienda. Dal registro possono essere ricavate

essenziali informazioni circa la correttezza degli usi dei prodotti fitosanitari, sotto il profilo

ambientale, fitosanitario ed economico oltre che sanitario.

Adempimenti (casi diversi): l'acquirente e l'utilizzatore di prodotti fitosanitari è

generalmente il titolare dell'azienda, il registro dei trattamenti rappresenta un adempimento

a carico del titolare (proprietario o conduttore dell'azienda agricola) che al termine dell'anno

solare deve sottoscriverlo.

Detto registro può essere compilato e sottoscritto anche da persona diversa qualora

l'utilizzatore dei prodotti fitosanitari non coincida con il titolare dell'azienda e nemmeno con

l'acquirente dei prodotti stessi. In questo caso dovrà essere presente in azienda, unitamente

al registro dei trattamenti, relativa delega scritta da parte del titolare.

Nel caso in cui i trattamenti siano realizzati da contoterzisti, il registro dei trattamenti deve

esser compilato dal titolare dell'azienda sulla base del modulo, rilasciato per ogni singolo

trattamento dal contoterzista. In alternativa il contoterzista potrà annotare i singoli

trattamenti direttamente sul registro dell'azienda controfirmando ogni intervento

fitosanitario effettuato. Nel caso di cooperative di produttori che acquistano prodotti

fitosanitari con i quali effettuano trattamenti per conto dei loro soci (trattamenti effettuati

con personale e mezzi delle cooperative) il registro dei trattamenti (unico per tutti gli

associati) potrà essere conservato presso la sede sociale dell'associazione e dovrà essere

compilato e sottoscritto dal legale rappresentante previa delega rilasciatagli dai soci. Il

registro dei trattamenti deve essere compilato anche quando gli interventi fitosanitari

vengono eseguiti per la difesa delle derrate alimentari immagazzinate. Il registro dei

trattamenti dovrà essere esibito su richiesta dell'Autorità competente che ha la facoltà di

effettuare controlli e riscontri nelle aziende agricole.

Corpi aziendali separati: in presenza di corpi aziendali separati e distanti il registro dei

trattamenti può essere conservato presso la sede legale dell'azienda agricola oppure, in

alternativa, presso ciascuno dei corpi aziendali. In quest'ultimo caso il registro dei

trattamenti deve riportare solo gli interventi relativi al singolo corpo aziendale.

Modulistica: la modulistica già adottata dalle aziende agricole in attuazione di

provvedimenti regionali, nazionali o comunitari che prevedono, fra l'altro, l'annotazione

degli interventi fitosanitari, se corredata od integrata di tutte le informazioni previste dal

comma 3 dell'art.42, costituisce a tutti gli effetti il registro dei trattamenti. Le regioni e le

province autonome potranno inoltre predisporre specifiche schede per l'adozione e la

compilazione del registro dei trattamenti da parte delle aziende agricole. Tali schede

dovranno comunque prevedere le informazioni indicate dal comma 3 dell'art.42.

Tenuta registro per impieghi extra-agricoli: il registro dei trattamenti deve essere

utilizzato anche per gli impieghi effettuati in ambito extra-agricolo (verde pubblico, diserbo

canali, sedi ferroviarie ecc…). Anche in questo caso se i trattamenti sono realizzati da

contoterzisti, il registro dei trattamenti potrà essere compilato dal titolare o legale

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rappresentante dell'impresa o dell'ente sulla base del modulo rilasciato per ogni singolo

trattamento dal contoterzista oppure direttamente dallo stesso contoterzista controfirmando

ogni intervento fitosanitario effettuato. Sono esentati invece dalla compilazione del

registro dei trattamenti i soggetti che utilizzano prodotti fitosanitari esclusivamente in orti e

giardini familiari il cui raccolto è destinato al consumo proprio.

Fasi fenologiche: sul registro dei trattamenti per ciascuna coltura presente all'interno

dell'azienda vanno annotate le date di:

- semina (o trapianto);

- inizio fioritura;

- raccolta.

Per quanto riguarda le fasi fenologiche di fioritura e raccolta, si precisa che tale

informazione può essere indicativa nei casi in cui, per la stessa specie, tali epoche risultino

diverse in relazione alle caratteristiche delle varietà o cultivars presenti nell'azienda.

Conclusioni: La corretta ed efficace applicazione del provvedimento in questione da parte

dei dichiaranti, consentirà di ottenere nel dettaglio un quadro sufficientemente chiaro

dell'utilizzo di tali prodotti sul territorio nazionale. Inoltre tali dati rappresentano una fonte

di grande valore per la valutazione dell'impatto dei prodotti fitosanitari sull'ambiente e sulla

salute umana, ed uno strumento indispensabile per la valorizzazione delle produzioni

agricole nazionali nell'ottica della loro tracciabilità. L'adozione del registro dei trattamenti

potrà contribuire inoltre all'attuazione del recente Regolamento (CE) N. 178/2002 del 28

gennaio 2002 che fissa, tra l'altro, procedure nel campo della sicurezza alimentare.

Esempio di modello di registro dei trattamenti

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5.1.8 - Agrometeorologia e modelli previsionali di lotta alle avversità

L’agrometeorologia consiste nell’applicazione delle conoscenze meteorologiche in agricoltura, e

delle interazioni tra atmosfera, suolo e vegetazione. Diverse sono le finalità ad applicazioni:

pianificazione degli interventi e destinazione di una data zona, scelta della specie e della varietà da

mettere in coltivazione, tra i fini della materia ricordiamo: studi fisiologici e fenologici delle

colture, analisi e riduzione dei rischi legati a fenomeni meteorologici o ad attacchi di avversità ad

essi annessi. Per quest’ultimo aspetto sono stati realizzati recentemente diversi lavori di ricerca e

sperimentazione che hanno portato alla creazione di “modelli previsionali” capaci di stimare la

pericolosità di alcune malattie fungine e di insetti dannosi alle colture. Questi permettono

l'applicazione di una lotta mirata che ha come obbiettivo l'ottenimento di produzioni con minori

residui di agrofarmaci a vantaggio di ambiente, consumatore, utilizzatore.

I modelli previsionali L´andamento climatico è responsabile di anticipi o ritardi nella comparsa delle infestazioni degli

insetti e delle infezioni di malattie. Nella difesa "a calendario", sistema di difesa alle avversità

ormai sempre più superato e legato al passato, la filosofia di base che ha ispirato l´impiego di

fungicidi e insetticidi è stata quella di mantenere costantemente protetta la coltura, avviando i

trattamenti all´inizio della stagione e proseguendoli, ad intervalli regolari, fino alla raccolta, senza

tenere conto del reale andamento delle avversità. La generale crescita di una coscienza più

rispettosa dell´ambiente, la nascita della "Difesa integrata", la formulazione dei Disciplinari di

Produzione Integrata della Regione Emilia-Romagna hanno portato a rivedere tale strategia,

introducendo metodi per ridurre fortemente l´uso dei prodotti fitosanitari, limitandone l´impiego

solo se strettamente necessario sulla base del concetto di soglia economica di intervento.

La determinazione della soglia si lega a monitoraggi effettuati in campo dal tecnico, per esempio il

controllo delle trap-test, così che si possono evitare trattamenti effettuati in assenza del fitofago.

Per le malattie il monitoraggio e la difesa è più complessa; dalle osservazioni di campo e

dall’andamento climatico si può valutare se la malattia si mantiene a livelli talmente bassi da non

giustificare interventi chimici ma nel caso la situazione dovesse sfuggire la difesa in curativo, oltre

ad essere difficile è costosa e non garantisce quasi mai dei buoni risultati. L´interpretazione dell´evoluzione di una determinata avversità richiede conoscenza scientifica e

soprattutto notevole esperienza e con un fondo sempre di rischio.

L´utilizzo dei modelli previsionali e di simulazione può aiutare in questa valutazione ed essere un

valido strumento per agevolare l’attività del tecnico e dell’agricoltore.

Cosa sono

I modelli di simulazione sono uno strumento in grado di trasformare in equazioni matematiche i

rapporti che intercorrono tra coltura, avversità e ambiente circostante.

Punto di partenza di un modello è l’esatta conoscenza del ciclo biologico del patogeno o del

fitofago e le correlazioni con le condizioni climatiche rappresentate fondamentalmente dai

parametri temperatura, umidità, pioggia, durata della bagnatura. Le fasi che portano alla sua

definizione e realizzazione sono piuttosto lunghe ed impegnative e sono articolate in una fase di:

elaborazione,

verifica e validazione in campo,

impiego ed allargamento di utilizzo alle aziende agrarie,

aggiornamento.

Elaborazione: presuppone lo studio delle diverse fasi di crescita e sviluppo di un patogeno o di un

fitofago e vengono normalmente condotte in laboratorio con integrazione di osservazioni di campo.

Se prendiamo come esempio una malattia funginea, si analizzano tutte le fasi che intercorrono

dall´inoculazione, dove l´agente patogeno prende contatto con gli organi della pianta ospite, fino

allo scadere del periodo di incubazione che termina con la comparsa dei primi sintomi. Per un

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insetto fitofago si dovranno invece considerare tutti i suoi stadi di sviluppo quali uovo, larva, pupa e

adulto. Successivamente si individuano i parametri ambientali, temperatura, umidità, pioggia che

influenzano i passaggi da una fase o stadio.

Come obiettivo finale c’è quello di trasformare ed esprimere ciascun passaggio di fase o stadio nel

seguente, in una o più equazioni matematiche. Questo avviene sulla base delle conoscenze

scientifiche già in possesso o di specifiche prove di laboratorio e di campo. Il modello così costruito

passa quindi alla validazione sperimentale in base a osservazioni reali e dati climatici di anni

passati. In questa fase vengono fatti ancora degli aggiustamenti alle formule ed al sistema.

Verifica e validazione di campo: il modello viene sottosposto alla vera e propia prova di campo da

parte di tecnici specializzati nell’assistenza tecnica alle aziende agrarie che possono in tal modo

simulare, in tempo reale, l´andamento della avversità e verificare le risposte fornite dal modello con

la situazione effettivamente presente in campo. Per fare questo i tecnici devono lasciare

nell’appezzamento in osservazione, alcune piante senza trattamenti di difesa alla avversità in

questione e che fungono da testimoni manifestando i sintomi legati alle fasi di sviluppo del ciclo

della malattia. La validazione di campo è una fase molto importante e delicata in quanto da essa

dipende la possibilità di essere utilizzato un modello che deve dimostrare di poter funzionare nelle

condizioni climatiche di quella determinata zona senza creare o sottoporre agricoltore e tecnico a

rischi di danni alla produzione.

Utilizzo: il modello a questo punto può essere usato nella pratica di tutti i giorni, dal tecnico

impegnato nell’assistenza tecnica alle aziende nella difesa fitosanitaria.

Mantenimento e aggiornamento: è un’ attività complementare allo sviluppo dei modelli e che

prevede l´inserimento di ulteriori elementi, sulla base di nuove acquisizioni e conoscenze

scientifiche, al fine di migliorare il più possibile affidabilità e precisione del modello.

Utilità pratica. I modelli previsionali e di simulazione, attraverso la conoscenza dei dati

meteorologici acquisiti da stazioni, sono in grado di fornire per quell’ambiente indicazioni circa la

possibile comparsa ed evoluzione di una data malattia o l´andamento dello sviluppo di un

determinato fitofago. Vi sono alcuni modelli, detti a prognosi negativa, quali peronospora della

patata e del pomodoro, dove vengono indicati il periodo di tempo nel quale è altamente improbabile

che la malattia compaia. In ogni caso tutti i modelli hanno lo scopo di allertare agricoltori e tecnici

sui momenti più rischiosi per una determinata avversità in modo tale da mettere in atto per tempo le

misure più opportune e necessarie per contenerla in maniera ottimale, e non compromettere così la

produzione.

I modelli previsionali sono un potente strumento in grado di razionalizzare le strategie di impiego

dei prodotti fitosanitari. Oltre ai numerosi pregi, occorre considerare alcuni limiti che devono essere

ben presenti al momento della loro utilizzazione per non incorrere in valutazioni errate.

E´ necessario ricordare che i modelli previsionali sono una semplificazione della complessità

biologica dell´ecosistema. La maggior parte di essi considera come parametri principali da

elaborare il clima e il patogeno; esistono però altri fattori, peraltro di difficile modellizzazione, che

possono avere una notevole importanza nel determinare o meno una infezione o una infestazione,

quali ad esempio la suscettibilità varietale, l’azione degli antagonisti o lo stadio di sviluppo della

pianta.

I modelli previsionali si inseriscono come un aiuto per prendere una decisione, spesso determinante,

nella gestione integrata della difesa. L´informazione fornita da tali modelli dovrà comunque essere

sempre confrontata con la realtà aziendale sulla base dell´esperienza professionale di tecnici ed

agricoltori.

I modelli previsionali non possono quindi sostituirsi al giudizio di un tecnico competente ed è

improbabile che mai lo possano in futuro; ma già oggi possono fornire un valido aiuto a chi opera in

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agricoltura, semplificandone il lavoro ed aumentando l´efficacia delle decisioni nell´ambito della

difesa fitosanitaria.

Modelli a Ritardo Variabile (MRV) di sviluppo per i fitofagi

I modelli matematici che sono stati messi a punto in Emilia Romagna a partire dal 1990 per i

principali fitofagi dannosi alle colture frutticole e che attualmente vengono impiegati nei programmi

regionali di produzione integrata e in agricoltura biologica, sono modelli di sviluppo del tipo “a

ritardo variabile”. Sono in grado di simulare lo sviluppo di una popolazione di insetti descrivendo il

passaggio degli individui attraverso gli stadi di sviluppo (uovo, larva, pupa e adulto) sulla base delle

temperature in campo. L’attività di ricerca e sperimentazione per la messa a punto dei modelli

previsionali per i fitofagi, coordinata attualmente dal Servizio fitosanitario regionale, fu avviata nel

1990 dalla Centrale Ortofrutticola di Cesena con il finanziamento della Regione Emilia-Romagna.

Al Prof. Giovanni Briolini dell´Istituto di Entomologia dell´Università di Bologna, che fu il

promotore di tali ricerche, fu affidata la responsabilità scientifica del progetto.

Attualmente il modello MRV (Modello Ritardo Sviluppo) è disponibile per i seguenti fitofagi:

Pandemis cerasana,

Argyrotaenia pulchellana,

Cydia pomonella,

Cydia molesta,

Cydia funebrana,

Lobesia botrana.

I modelli MRV sono stati realizzati sotto forma di programma per PC e ciò che li rende specifici è

l’insieme dei parametri biologici tipici di ciascun insetto considerato. Per la determinazione dei

parametri biologici è stato necessario rilevare, con appositi allevamenti in condizioni controllate di

laboratorio, i dati di sviluppo dei diversi stadi dell’insetto in funzione della temperatura. Solo per

Cydia molesta erano già disponibili dati bibliografici completi e adatti allo scopo. I diversi stadi

degli insetti considerati (uova, larve, pupe e adulti) sono stati allevati in celle climatizzate a diverse

temperature costanti (4-6 temperature), comprese in un ampio intervallo (in genere da 13 a 33 °C);

l’umidità relativa è stata mantenuta al 70% e il fotoperiodo a 17:7 L/B. Il materiale di partenza è

stato raccolto in campo per evitare eventuali influenze negative dovute ad allevamenti continui di

laboratorio; le larve sono state alimentate con dieta naturale per escludere l’influenza della dieta

artificiale sulla velocità di sviluppo; agli adulti è stata somministrata una soluzione di acqua e miele

per simulare l’alimento di cui si nutrono in natura. Per valutare la variabilità di sviluppo, gli

individui dei diversi stadi sono stati allevati singolarmente. I controlli per rilevare la durata di

sviluppo di ciascuno stadio sono stati giornalieri. Sulla base di tali dati sono stati determinati i

seguenti elementi:

1. Curve di risposta alla temperatura di tutti gli stadi. Sui tassi di sviluppo (reciproco della

durata) rilevati in laboratorio è stata adattata una funzione non lineare (Logan et al., 1976)

per gli stadi preimmaginali (uova, larve e pupe) e una funzione lineare per le femmine

adulte.

2. Fecondità media delle femmine in funzione della loro età. Tale parametro è stato

espresso dalla funzione di Bieri (Bieri et al., 1983) sulla base del numero di uova deposte

giornalmente da femmine tenute in gabbiette di accoppiamento alla temperatura ottimale.

3. Coefficiente H. Rappresenta la variabilità della risposta di ciascuno stadio e determina la

natura stocastica dello sviluppo. Tale valore è dato dal rapporto tra il quadrato del tempo di

permanenza media nello stadio e la sua varianza.

I modelli MRV utilizzano la temperatura come unico dato in ingresso in quanto è il fattore che

maggiormente influenza lo sviluppo degli insetti in condizione di non diapausa e in assenza di

fattori limitanti. I modelli sono stati validati sperimentalmente sul territorio della Regione Emilia-

Romagna e non se ne conosce pertanto l’affidabilità se applicati in ambienti diversi. Il corretto

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utilizzo di tali modelli è subordinato allo svolgimento di appropriate verifiche negli ambienti

interessati.

I modelli previsionali per funghi e batteri

Questi modelli hanno come principale obiettivo la previsione del rischio di comparsa o di sviluppo

epidemico di una determinata malattia infettiva, per potere così adattare la strategia di intervento e

razionalizzare la difesa di alcune colture.

Tutti i modelli previsionali messi a punto fino ad oggi fanno uso di informazioni di tipo climatico,

biologico, agronomico e in funzione del tipo di costruzione e funzionamento essi si possono

suddividere, secondo il tipo di approccio, in modelli globali e modelli analitici.

I modelli di tipo analitico scompongono il sistema in un insieme di singoli elementi che dovranno

essere studiati separatamente (ad esempio le diverse fasi del ciclo infettivo di un patogeno fungino:

infezione, incubazione, evasione, ecc.) e successivamente concatenati. Esempi di questo genere

possono essere i modelli utilizzati per la ticchiolatura del melo (A-SCAB), la cercospora della

bietola (CERCOPRI - CERCODEP), ruggine (RUSTPRI - RUSTDEP) e oidio (POWPRI -

POWDEP) del frumento, la peronospora della cipolla (ONIMIL).

I modelli di tipo globale al contrario considerano il sistema come un´unica entità, esaminando più

da vicino il problema da risolvere nella sua globalità e ricercando una relazione diretta di causa ed

effetto.

Il modello IPI utilizzato per la previsione della peronospora di patata e pomodoro è di questo tipo.

In generale i modelli previsionali possono simulare un determinato evento epidemico, ma

contengono comunque alcuni limiti intrinseci dovuti al fatto che vi sono fattori altrettanto

importanti che agiscono sull´incidenza ed evoluzione delle malattie (varietà, stadio di sviluppo,

caratteristiche del terreno, ecc...) che i modelli non considerano.

Un altro limite è rappresentato dalla difficoltà di applicare i modelli previsionali in ambienti diversi

da quelli nei quali sono stati messi a punto. Ciò ha portato quindi a sfruttare i modelli previsionali

sviluppati in Emilia-Romagna all´interno di Servizi di avvertimento su scala zonale nei quali i

modelli non hanno lo scopo di individuare il momento esatto della comparsa delle malattie in

campo, ma di definire un rischio globale, una tendenza regionale o locale.

Per arrivare a fornire agli agricoltori un consiglio preciso sulla necessità o meno di effettuare

interventi contro determinate malattie, i modelli vengono integrati da altre informazioni ottenute

tramite rilievi periodici dello stato fitosanitario della coltura su campi spia non trattati, che quindi

possano manifestare con anticipo gli eventuali sintomi della malattia, oppure quantificando la

presenza di spore fungine di alcuni funghi patogeni presenti nell´ambiente.

Il modello A-SCAB

Malattia: Ticchiolatura del melo - Patogeno: Venturia inaequalis (Cooke) Winter

Il modello è stato messo a punto dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza in

collaborazione con il Servizio Fitosanitario della Regione Emilia-Romagna.

Per la sua elaborazione sono stati utilizzati i dati di 15 anni di monitoraggio aerobiologico condotto

in Emilia-Romagna.

Il modello è stato validato nel territorio regionale ed è tuttora sotto osservazione da parte di tecnici

esperti del Servizio Fitosanitario Regionale e dall´Università Cattolica di Piacenza.

Dati meteorologici utilizzati (INPUT)

Temperatura oraria e giornaliera media (T°)

Bagnatura (h)

Pioggia (mm)

Le informazioni ottenute (OUTPUT)

Data di inizio rischio emissione ascospore,

Percentuale di spore emesse ad ogni evento piovoso (D = differenza fra il valore di PAT

odierno e quello di PAT relativo all´emissione precedente),

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Rischio di infezioni primarie,

Durata incubazione della malattia,

Data comparsa dei sintomi.

Come funziona A-SCAB

Il modello stima il livello di rischio di infezione primaria calcolando lo sviluppo e l’emissione delle

ascospore (FASE 1) e, ad ogni ipotetico rilascio ascosporico, la probabilità di infezione in funzione

della curva di Mills a-3 (FASE 2).

Come si utilizza A-SCAB Il modello è in grado di determinare il PAT giornaliero e i vari livelli di rischio di rilascio

ascosporico (Basso, Medio, Alto).

FASE 1 : RISCHIO ASCOSPORICO

I livelli di rischio di emissione di ascospore stimati sono 5 :

Rischio assente - Le ascospore non sono ancora mature,

Rischio potenziale - Le ascospore sono mature ma non ancora pronte per essere rilasciate,

Rischio reale - Le ascospore possono essere rilasciate ogni qualvolta si verificano eventi

piovosi,

Rischio presente - Le ascospore vengono rilasciate,

Rischio esaurito - Le ascospore sono state tutte rilasciate.

Ciascun livello di rischio viene calcolato mediante due modelli matematici basati su parametri

meteorologici.

Un primo modello, elaborato da James e Sutton nel 1982 e successivamente modificato da Mancini

nel 1984 per adattarlo alle condizioni climatiche del Nord-Italia, stima lo sviluppo degli pseudoteci

svernanti e la maturazione delle ascospore . Lo sviluppo degli pseudoteci (ST) viene calcolato in

funzione della temperatura media dell´aria, dalla quantità di pioggia caduta e dal numero di ore di

bagnatura o umidità relativa superiori all´85%. In pratica il modello descrive, a partire dal 1°

febbraio, l´influenza della temperatura sullo sviluppo degli pseudoteci quando l´umidità della

lettiera di foglie infette cadute a terra non limita lo sviluppo fungino e, allo stesso tempo, tiene

conto dell´effetto limitante della siccità sullo sviluppo degli pseudoteci.

Il secondo modello stima la proporzione di ascospore mature e pronte per essere rilasciate ad ogni

evento piovoso. In tale modello una curva matematica logistica descrive la relazione che esiste tra la

percentuale di ascospore emesse (PAT e relativi intervalli di confidenza PAT1 e PAT2) e i

Gradi/Giorno accumulati. Anche in questo caso le variabili climatiche sono rappresentate dalla

temperatura e dalla bagnatura: le unità termiche vengono accumulate solo quando la temperatura è

superiore a 0° e le foglie risultano bagnate. Il biofix, cioè il valore soglia per iniziare l´accumulo dei

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gradi-giorno è il giorno in cui il valore della stima dello sviluppo degli pseudoteci (ST) raggiunge il

valore di 9,5.

Rischio Assente

Il rischio di emissione ascosporica è assente quando ST<9.5; Il modello modificato di James e

Sutton viene utilizzato per determinare la data nella quale la popolazione di pseudoteci raggiunge lo

stadio medio di sviluppo. Lo stadio corrispondente al valore 9.5 di ST è quello in cui, a seguito

della variabilità all´interno della popolazione svernante, una piccola parte di pseudoteci (circa il

2%) contiene ascospore morfologicamente mature.

Rischio Potenziale

Il rischio di emissione ascosporica viene ritenuto potenziale quando ST >= 9.5 e PAT < 0.016 con

intervallo di confidenza (PAT1) 0.004 e (PAT2) 0.068, corrispondente anche al valore 80°C

GradiGiorno cumulati. Questa soglia è stata determinata sulla base di precedenti osservazioni ben

sapendo che la maturazione delle ascospore precede la maturazione degli aschi. Perciò all´inizio

della stagione le ascospore morfologicamente mature non vengono rilasciate fino a che il 10 - 15%

degli aschi non contiene ascospore mature. In pratica questo si traduce nel fatto che, nelle prime fasi

della stagione, le ascospore non vengono rilasciate anche se in concomitanza di eventi piovosi

favorevoli.

Rischio Reale e Presente

Il rischio diventa presente quando il valore di PAT>= 0.016; le ascospore quindi sono mature e

pronte per essere rilasciate. Il rischio da presente diventa reale quando le ascospore sono liberate

dagli pseudoteci, quando cioè si verifica un evento piovoso anche se di pochi mm. La percentuale di

ascospore rilasciate ad ogni evento viene calcolato usando il valore di PAT stimato dal modello in

corrispondenza dell´evento piovoso, sottraendo la percentuale del PAT accumulata al rilascio

precedente.

Livelli di rischio attribuiti in funzione dei valori di PAT, PAT1 e PAT2 e dei Gradi Giorno

raggiunti:

Rischio basso PAT > 0.016 e < 0.9; PAT1 = 0.1

Rischio intermedio PAT1 = 0.1 e PAT = 0.9

Rischio alto PAT1 e PAT2 = 0.5

.Rischio Esaurito

Si entra in questa fase quando il valore di PAT >= 0.99; In pratica tutto il potenziale di inoculo del

patogeno è stato rilasciato nel frutteto e non vi sono più ascospore mature in grado di dare origine

ad infezioni primarie. In questo caso, se non vi sono infezioni di ticchiolatura in atto nel frutteto.

Livelli di rischio attribuiti in funzione dei valori di PAT, PAT1 e PAT2 e dei GradiGiorno

raggiunti.

FASE 2: RISCHIO DI INFEZIONE PRIMARIA

Il modello previsionale A-SCAB calcola ad ogni rilascio ascosporico la probabilità di infezione in

funzione della curva di Mills modificata da McHardy e Gadoury nel 1986 e denominata Mills a-3.

La nuova curva di Mills a-3 rappresenta l’ultima modifica alla curva originale di Mills, la quale

sottostimava il tempo richiesto per le infezioni a tutte le temperature, specialmente nel range di

temperatura di 2,5 a 7.7°C.

Approfondimenti sul ciclo biologico di Peronospora della vite (Plasmopara viticola) e modelli

previsionali

Ciclo Biologico

Plasmopara viticola è un parassita obbligato in quanto compie l’intero ciclo biologico

esclusivamente sulla vite.

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Lo svernamento avviene sotto forma di oospora derivante dall’unione dell’anteridio e dell’oogonio

di due miceli compatibili presenti sui tessuti vegetali infetti alla fine della stagione vegetativa.

L’oospora sessuata rimane nei residui delle foglie infette sul terreno del vigneto fino alla primavera

successiva allorchè le condizioni ambientali tornano ad essere favorevoli per la germinazione.

Recenti studi hanno messo in evidenza che già fra ottobre e dicembre le oospore subiscono un

processo di maturazione morfologico, con l’ispessimento delle pareti e la vacuolarizzazione del

citoplasma e con l'immagazzinamento di sostanze zuccherine di riserva cellulari, in grado di

renderle idonee allo svernamento. Per germinare prontamente però queste devono passare un

periodo di quiescenza nel quale il fungo subisce una maturazione anche fisiologica che gli

impedisce di germinare in assenza del suo ospite in fase recettiva. Il superamento della fase di

quiescenza è un fenomeno scalare nel corso del quale gruppi di famiglie con una omogenea

maturazione si rendono, di volta in volta, prontamente in grado di germinare e dare avvio a nuove

infezioni primarie. Inoltre la capacità germinativa delle oospore non si limita alla stagione

primaverile, ma può proseguire durante tutta la stagione e , secondo alcuni ricercatori anche per più

anni.

Al superamento della fase di quiescenza, ogni evento piovoso è in grado di fare germinare le

oospore. Il processo di germinazione termina con l’emissione di uno sporangio

(macrozoosporangio); il tempo necessario a completare la germinazione dipende dal grado di

umidità delle foglie della lettiera e dalla temperatura (la temperatura minima è di 10°C mentre

quelli ottimali si aggirano sui 20°C). In assenza di acqua gli sporangi sono in grado di sopravvivere

da 6 ore fino a 6 giorni (raramente anche fino a 10 giorni), in funzione delle condizioni di

temperatura ed umidità relativa dell’aria. All’interno del macrozoosporangio si formano varie

zoospore ialine e flagellate che fuoriescono velocemente (da 1-2 a 6-8 ore) con temperature

ottimali, ma esclusivamente in presenza di acqua. Le zoospore sono in grado di mantenersi vitali

solo in presenza di acqua, entro la quale nuotano grazie alla presenza dei due flagelli. Quando

vengono liberate dagli sporangi, le zoospore si trovano in sospensione nell’acqua che bagna le

foglie sul terreno e sopravvivono in queste condizioni fintanto che permane il velo d’acqua. In

questo periodo qualsiasi pioggia è in grado di veicolarle con gli schizzi dalle foglie bagnate sul

terreno alla vegetazione recettiva. All’esaurimento del velo d’acqua sulle foglie queste disseccano

rapidamente e muoiono.

Una volta giunte sugli organi recettivi le zoospore, sempre in presenza d’acqua e di condizioni

termiche favorevoli, raggiungono gli stomi, perdono i flagelli e germinano penetrando attraverso le

aperture stomatiche della pagina inferiore delle foglie. Anche in questa fase, le zoospore possono

morire se le superfici vegetali si asciugano prima della penetrazione. Durante il periodo di

incubazione, che varia in funzione di temperatura, umidità relativa e dell’organo colpito (più corto

sulle foglie rispetto ai grappoli), il fungo invade progressivamente l’interno dei tessuti vegetali

senza provocare sintomi visibili di malattia. Trascorso tale periodo di tempo appaiono i sintomi

tipici della malattia.

In corrispondenza delle macchie d’olio, sulla pagina inferiore, emergono dagli stomi molteplici

sporangiofori che rimangono vitali per vari giorni in condizioni termo-igrometriche favorevoli

(buio, almeno 4 ore di umidità saturante e temperature non inferiori a 13°C), ma che si disidratano

con clima caldo e secco. All’apice gli sporangiofori differenziano gli sporangi, organi di

riproduzione asessuata, in grado, una volta veicolati su tessuti vegetali suscettibili, di liberare le

zoospore e dare origine alle infezioni secondarie causando l’aumento nel tempo e nello spazio

dell’intensità della malattia. Le infezioni secondarie, a differenza delle primarie, possono per tanto

prendere avvio anche in assenza di pioggia, con bagnature della vegetazione causate dalla semplice

deposizione di rugiada. Tuttavia il loro contributo alla progressione dell’epidemia risulta di gran

lunga inferiore a quello fornito dalle infezioni primarie oosporiche. Infatti mentre queste risultano

uniformemente distribuite nel vigneto e sono in grado di mantenere la capacità germinativa per

lungo tempo, gli sporangi hanno un raggio di dispersione molto limitato in quanto pur essendo

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disseminati dal vento, si formano e si distaccano dai rami sporangiofori che li hanno generati solo in

condizioni di umidità prossima a saturazione.

Il nuovo modello di simulazione delle infezioni primarie di peronospora

Nessuno di questi modelli si è finora dimostrato sufficientemente preciso per poter essere utilizzato

in un sistema di avvertimento regionale. Per questo motivo, al termine di un progetto triennale

finanziato dalla Regione Emilia-Romagna e dal CRPV, e dalla collaborazione fra i Servizi

Fitosanitari di Emilia-Romagna e Piemonte, e le Università di Piacenza e Bologna, è stato elaborato

un nuovo modello di simulazione della dinamica dell’inoculo primario e delle infezioni di P.

viticola. Tale modello, utilizza dati orari di temperatura dell’aria, umidità relativa, pioggia e

bagnatura fogliare per simulare il processi infettivi, dalla germinazione delle oospore, alla comparsa

dei sintomi di peronospora, incluso l’intero processo germinativo, la sopravvivenza degli sporangi,

il rilascio e la sopravvivenza delle zoospore, la loro dispersione e, infine l’infezione e l’incubazione.

Il modello si basa sul concetto fondamentale che la popolazione di P. viticola in un vigneto è

composta da diverse famiglie di oospore che sono in fase di quiescenza. Queste, prima di

germinare, devono superare un determinato e graduale periodo di latenza dopo il quale cominciano

a germinare seguendo una distribuzione normale. Il processo di simulazione della germinazione

prende avvio ad ogni evento piovoso in grado di bagnare la lettiera di foglie presente nel terreno del

vigneto. La simulazione può essere interrotta in ogni fase del processo infettivo se le condizioni

climatiche non sono favorevoli al fungo, come può completarsi sino alla comparsa dei sintomi sulla

vegetazione.

In pratica il processo infettivo viene scomposto nelle seguenti fasi:

Superamento della latenza: fornisce una stima del momento in cui le prime famiglie di

oospore raggiungono la maturazione fisiologica, superando il periodo di latenza, e sono

quindi pronte a germinare. Il processo di germinazione dipende in questa fase dalla

temperatura e dalla bagnatura della lettiera. L’indice che si produce viene accumulato fino al

superamento di una determinata soglia, al di sopra della quale si considera conclusa la fase

di latenza. Al momento, non risulta possibile quantificare con precisione l’abbondanza

dell’inoculo iniziale e, quindi, la gravità relativa delle differenti infezioni primarie.

Germinazione delle oospore: dopo il superamento della latenza, il modello considera che

ogni evento piovoso capace di umettare la lettiera è in grado di innescare la germinazione di

una famiglia di oospore. Ogni pioggia in questo periodo fa iniziare il processo di

germinazione di ogni singola famiglia di oospore e la produzione del macrozoosporangio.

Sopravvivenza dei macrozoosporangi: il modello fornisce una stima della sopravvivenza

dei macrozoosporangi in assenza di acqua, in rapporto alle condizioni di temperatura e

umidità. Senza le condizioni climatiche idonee (temperatura ed umidità relativa elevata e la

presenza di un velo d’acqua) i macrozoosporangi possono sopravvivere solo per un paio di

giorni, poi muoiono. Questa è un’indicazione di fondamentale importanza per individuare

l’avvio di eventuali infezioni anche alcuni giorni dopo l’avvenuta germinazione delle

oospore.

Rilascio e dispersione delle zoospore: il modello simula il rilascio delle zoospore qualora il

macrozoosporangio sia in presenza di una sufficiente bagnatura della lettiera di foglie. In

questa fase le zoospore, molto delicate, nuotano nel film liquido e, qualora esposte a

condizioni climatiche sfavorevoli (assenza di bagnatura), si devitalizzano. Tuttavia, se in

questo periodo cade una pioggia si considera che questa sia in grado di veicolare con gli

schizzi d’acqua le zoospore sulla vegetazione suscettibile.

Infezione e incubazione: il modello simula il momento dell’infezione da parte delle

zoospore, in funzione della combinazione di temperatura e durata della bagnatura fogliare.

Durante questo periodo le zoospore nuotano verso le aperture stomatiche, si incistano e

producono un tubetto germinativo in grado di penetrare attraverso gli stomi. Se la superficie

fogliare si asciuga prima della penetrazione, le zoospore si devitalizzano.

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Alla fine del processo di incubazione, che varia nel tempo in funzione della temperatura e

dell’umidità dell’aria, il modello segnala il probabile momento di inizio della comparsa dei sintomi

nel vigneto.

Il modello fornisce come output tabelle che mostrano la progressione oraria di ogni evento infettivo

e grafici dello stato del ciclo infettivo giornaliero durante tutta la stagione vegetativa. Il modello,

testato in differenti aree viticole italiane e con pressioni epidemiche diverse (Emilia-Romagna,

Piemonte, Lombardia, Marche, Basilicata e Sardegna) ha sempre fornito risultati molto attendibili.

Esso pertanto, può essere utilizzato come supporto alle decisioni per i trattamenti antiperonosporici

col fine di superare le criticità che si erano manifestate utilizzando la vecchia “regola dei tre 10”.

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CAP. 7 – ZOOTECNIA

Sostituzione/Integrazione pag. 475 a pag. 494 manuale

“seconda edizione”

7. ZOOTECNIA 7.1 ALIMENTAZIONE ANIMALE

Generalità Al fine di ottenere il massimo rendimento da parte dell’animale gli alimenti devono essere

somministrati razionalmente, in modo da soddisfarne i fabbisogni, Tra il rendimento degli animali

da allevamento e la loro alimentazione esiste infatti una stretta relazione perché tutte le

manifestazioni vitali, sia plastiche che energetiche, avvengono grazie alla trasformazione degli

alimenti. La razione o dieta alimentare deve apportare sostanze organiche utilizzabili a scopi

plastici ed energetici, dato che l’animale non può nutrirsi solo di elementi minerali come la pianta.

La sostanza organica e gli elementi minerali contenuti negli alimenti, digeriti e metabolizzati, vanno

a costituire i tessuti e gli organi dell’animale. Gli alimenti vengono quindi utilizzati:

per fornire energia;

per assicurare il bilancio materiale;

per la sintesi di sostanze biologicamente attive.

La conoscenza degli alimenti è perciò basilare per una razionale alimentazione degli animali, sia in

merito alla loro composizione chimica e al valore nutritivo che per la stima dei fabbisogni relativi al

mantenimento delle funzioni vitali e delle specifiche produzioni.

Composizione degli alimenti Sostanza secca (s.s.)

La stima del valore di un foraggio si basa sul suo contenuto in sostanza secca, che assume valori

molto variabili e viene espresso in percentuale sul tal quale. La percentuale di s.s. è direttamente

correlata alla conservabilità degli alimenti. Gli alimenti secchi come cereali, altri mangimi

concentrati, fieno, paglia, ecc. sono facilmente conservabili. Il loro contenuto in acqua, che dipende

essenzialmente dall’umidità dell’aria e dall’igroscopicità del materiale, oscilla tra il 5 e il 15%,

mentre i foraggi freschi, ricchi in acqua e poveri di s.s., si conservano, senza particolari

accorgimenti, soltanto per breve tempo. Il fieno viene immagazzinato con un tenore di umidità del

20%, successivamente perde un’ulteriore quantità di acqua per assestarsi attorno al 15%. Se al

momento dell’immagazzinamento, il tenore di umidità è troppo elevato e l’evaporazione troppo

lenta si verificano forti perdite di sostanze nutritive e sviluppo di muffe. La legge che regola la

preparazione dei mangimi concentrati composti prescrive che il contenuto massimo di acqua nei

concentrati non debba superare il 13%; per i sottoprodotti della molitura si accetta anche il 14%

mentre per la polvere di latte, il melasso secco e prodotti simili non deve superare il 5-8%.

Composti organici

La sostanza secca degli alimenti è costituita da sostanza organica e da elementi minerali. I composti

organici servono per il fabbisogno energetico, per la funzione plastica e per la sintesi di sostanze

biologicamente attive. Sono rappresentati da: proteine; carboidrati; grassi o lipidi.

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Proteine: vengono generalmente ritenute il principio alimentare più importante. Il contenuto

in proteina grezza degli alimenti si stabilisce determinando l’azoto (N) presente e

moltiplicando tale valore per 6,25, in considerazione del fatto che le proteine contengono

all’incirca il 16% di N. Tutte le cellule dell’organismo, i muscoli, il tessuto connettivo, la

cute, i peli, la lana nonché le uova ed il latte sono infatti costituiti per una parte più o meno

grande da proteine. Esse sono quindi le sostanze plastiche per eccellenza e vengono

utilizzate a scopo energetico soltanto se eccedenti la quota necessaria alle sintesi cellulari.

Inoltre tutti gli enzimi e una grande parte di altre sostanze attive (ormoni ecc.) sono di natura

proteica. La molecola proteica è formata dagli amminoacidi. Per poter sintetizzare una

proteina animale specifica quelle presenti negli alimenti vengono scisse nei loro elementi

costitutivi, gli amrninoacidi, o demolite a sostanze azotate più semplici che in seguito

vengono riutilizzate, a seconda delle necessità, per la costituzione della proteina specifica.

L’animale non è in grado di sintetizzare tutti gli amminoacidi, per cui molti di essi devono

essere presenti nella razione. Complessivamente gli amminoacidi indispensabili o essenziali

che l’organismo animale non è in grado di sintetizzare, sono: valina; leucina; isoleucina;

treonina; metionina; tirosina; lisina; triptofano; istidina. Se la razione non contiene questi

amminoacidi nella quantità richiesta dall’organismo animale, diminuisce l’efficienza di

utilizzazione delle proteine contenute nella dieta. La specificità della proteina viene

determinata dagli amminoacidi in essa presenti e dalla loro sequenza. Il numero delle

proteine è praticamente infinito se si considera che ogni specie animale, ogni tessuto

dell’organismo e forse ogni individuo posseggono proteine dotate di proprietà biologiche e

immunitarie specifiche . Esse vengono distinte in proteine semplici e in proteine coniugate

nelle quali, oltre agli amminoacidi, sono presenti altre sostanze di natura chimica differente

e più o meno complessa. Per il ruminante la composizione amminoacidica delle proteine

contenute nella razione è di importanza secondaria perché i batteri ruminali sono in grado di

trasformare la maggior parte delle sostanze azotate in proteine di buon valore biologico.

Solo alle vacche ad alta produttività, nelle quali il metabolismo proteico è particolarmente

elevato, si è rivelata utile la somministrazione di proteine di alto valore biologico

scarsamente degradabili a livello ruminale.

Carboidrati: sono i maggiori costituenti della razione degli animali domestici e sono

composti da carbonio, idrogeno e ossigeno e non contengono azoto. Nell’animale i

carboidrati vengono utilizzati prevalentemente a scopo energetico. Fanno parte dei

carboidrati l’amido, la cellulosa, il saccarosio, il lattosio, il glucosio, le pectine,

l’emicellulosa ecc. In base al numero di molecole che li costituiscono si suddividono in:

- monosaccaridi: glucosio, mannosio, galattosio, fruttosio, xilosio, arabinosio, ribosio;

- disaccaridi: saccarosio, lattosio, maltosio, cellobiosio;

- trisaccaridi: raffinosio (nel melasso);

- polisaccaridi: amido, cellulosa, emicellulosa, lignina.

L’amido è la sostanza di riserva più comune del regno vegetale; è presente soprattutto nei

semi, nei frutti e nei tuberi (60-75% della sostanza secca).

La cellulosa ha funzione di sostegno nelle pareti cellulari ed è presente specialmente nei

fieni e nelle paglie (20-40% della sostanza secca).

L’emicellulosa è un composto complesso ed eterogeneo di diversi polimeri di monosaccaridi

ed ha funzione cementante nelle pareti cellulari e nelle strutture fibrose. Nei foraggi è

presente in quantità variabili dallo 0 al 40% della sostanza secca.

La lignina è la principale componente delle piante legnose, si riscontra in quantità minori

nella porzione fibrosa degli steli e delle foglie delle piante erbacee in avanzato stato di

maturità. La lignina costituisce un fattore determinante per il valore nutritivo di un

alimento, essendo resistente alla demolizione da parte di acidi e batteri, mentre può essere

parzialmente decomposta da alcune sostanze (liscive) durante il trattamento con alcali della

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paglia. Il contenuto in fibra grezza e con esso in lignina rappresenta il valore chiave di un

alimento.

Grassi o lipidi: hanno un valore energetico superiore a tutte le altre sostanze organiche e

pertanto la loro presenza negli alimenti aumenta sensibilmente il valore calorico della

razione. In particolare i grassi vengono classificati in funzione del contenuto di acidi grassi

saturi e di acidi grassi insaturi. In determinati tipi di grasso il rapporto tra gli acidi grassi

è generalmente fisso, anche se sono possibili delle variazioni. Il grasso del latte contiene

un’elevata quota di acidi grassi saturi a catena corta (a basso punto di fusione) e

relativamente pochi costituenti insaturi oleosi mentre il grasso di maiale contiene un numero

relativamente alto di acidi insaturi. Gli animali sono in grado di sintetizzare acidi grassi

saturi e acidi grassi insaturi semplici, perciò non hanno bisogno di procurarseli con

l’alimentazione. Solo gli acidi grassi insaturi (linoleico, linolenico e arachidonico) devono

essere assunti, sebbene in minima quantità, con la dieta. Essi vengono quindi considerati

acidi grassi essenziali, analogamente agli amminoacidi essenziali, ed esercitano una

funzione simile a quella delle vitamine perché prevengono negli animali disturbi

dell’accrescimento e dell’efficienza riproduttiva.

Costituenti inorganici: Oltre alla sostanza organica gli alimenti contengono una quantità

variabile di acqua e di sostanze minerali, indispensabili per l’adempimento di fondamentali

funzioni vitali.

Acqua: fa parte degli alimenti ed è indispensabile perché tutti i processi vitali si svolgono

nella fase liquida. L’acqua serve all'organismo come solvente e come mezzo di trasporto. La

quantità di acqua nel sangue e nei tessuti è molto costante e perciò una sua carenza può

avere conseguenze negative sui processi metabolici e sulla formazione di nuove sostanze.

Non occorre che l’acqua venga fornita insieme al foraggio, dato che è possibile

somministrarla separatamente e lontano dai pasti.

Sostanze minerali: svolgono sia un’azione plastica che una funzione catalitica (elementi

oligodinamici). Il calcio, il fosforo, il potassio, il sodio, il magnesio e il boro, come pure lo

zolfo e il ferro, sono però in prevalenza presenti in determinati tessuti di cui sono costituenti

essenziali. Altri elementi come rame, cobalto, manganese, zinco, molibdeno, vanadio, iodio,

selenio, fluoro, nichelio e cromo si trovano negli animali in quantità estremamente modeste.

Gli elementi minerali devono essere considerati costituenti indispensabili della razione.

L’eccesso di alcuni elementi nella razione può provocare anche effetti tossici, mentre la

carenza può provocare anche sensibili diminuzioni di produttività.

Il calcio (Ca) è presente negli alimenti sotto varie forme, in prevalenza come carbonato,

fosfato o ossalato. Il calcio viene assorbito soltanto in forma libera; il suo assorbimento

avviene all’inizio dell’intestino tenue.

Il fosforo (P) si presenta negli alimenti in varie forme e viene utilizzato dall’organismo

animale in diversi modi; si trova soprattutto nello scheletro, ma anche in tutti i tessuti e nei

liquidi del corpo, come costituente di numerosi protidi. Il fosforo adempie a molte funzioni:

regola l’eccitabilità muscolare, partecipa al processo di coagulazione del sangue e

all’equilibrio acido-basico; interviene nel metabolismo di tutte le sostanze nutritive e, con i

legami ad alta energia, nell’approvvigionamento energetico della cellula. Anche la fertilità

degli animali dipende in modo decisivo dalla disponibilità di fosforo. Nelle vacche da latte

circa il 20% del calcio e del fosforo contenuto nello scheletro viene mobilizzato durante la

lattazione, per cui il reintegro di questi elementi è essenziale per il rendimento produttivo e

la salute dell’animale. Concimando le aree destinate alla coltura di foraggere permanenti con

fosfati è possibile aumentare il contenuto in fosforo dei foraggi.

Il magnesio (Mg) è generalmente presente negli alimenti. Il 60% di questo elemento è

contenuto nello scheletro. Quest’elemento influenza, come il Ca, l’eccitabilità del tessuto

muscolare ed entra nella costituzione di molti enzimi.

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Il sodio (Na) si trova in tutti i liquidi dell’organismo animale ed in prevalenza nel sangue e

negli altri fluidi extracellulari. Il contenuto in sodio delle piante foraggere spesso non è

sufficiente a coprire il fabbisogno degli animali, per cui occorre aggiungerlo alla razione

come NaCl.

Il potassio (K) si trova in abbondanza negli alimenti per cui non vi è rischio di carenza di

quest’elemento. Il potassio interviene nel metabolismo glucidico e nella regolazione della

pressione osmotica cellulare.

Il cloro (Cl) abbonda nell’organismo come cloruro di sodio e cloruro di potassio; è presente

particolarmente nel sangue e nelle cartilagini per cui non si verificano fenomeni di carenza

nell’alimentazione animale. Lo zolfo (S) viene assunto prevalentemente con le proteine che contengono amminoacidi

solforati, ma si trova negli alimenti anche sotto forma di solfati.

Il ferro (Fe) è essenziale per la formazione dell’emoglobina. Il sangue contiene circa il 60%

di tutto il ferro presente nell’organismo. Il ferro è inoltre costituente di importanti enzimi

che necessari alla respirazione cellulare; viene immagazzinato nel fegato, nella milza e nel

midollo osseo. La carenza di ferro è la causa principale dell’anemia. Il fabbisogno di ferro,

particolarmente elevato nei suinetti durante il primo periodo di vita, può essere coperto solo

con la somministrazione di preparati a base di ferro.

Il rame (Cu) interagisce con vari altri elementi oligodinamici; interviene, mobilizzando le

riserve di ferro contenute nel fegato e nella milza, nella sintesi dell’emoglobina, entra nella

costituzione di vari enzimi ed è indispensabile nella sintesi dei pigmenti melaninici. Nei

maiali da ingrasso l’aggiunta di rame può influire positivamente sul loro sviluppo.

Il cobalto (Co) interviene nella composizione della vitamina B12. Una deficienza di cobalto

si manifesta in certe zone con un’alimentazione prevalentemente a base di fieno o di erba.

Il manganese (Mn) è importante nella formazione dello scheletro.

Lo zinco (Zn) partecipa ai processi metabolici. La sua carenza provoca riduzioni

dell’accrescimento e, nel maiale da ingrasso, la paracheratosi (dermatite crostosa

accompagnata da diarrea), che può insorgere soprattutto con un’alimentazione a soli cereali.

Il molibdeno (Mo) è contenuto negli enzimi necessari al metabolismo delle purine.

Il selenio (Se) esercita un’azione di stimolo sull’accrescimento e sulla fertilità. Una carenza

di quest’elemento può manifestarsi, soprattutto negli animali giovani (vitelli, agnelli e suini),

con fenomeni di degenerazione muscolare (distrofia muscolare e insufficienza del

miocardio).

Lo iodio (I) è essenziale per l’attività della tiroide. Negli animali domestici la carenza di

iodio è rara e si manifesta con la crescita di animali deboli ed eventualmente con disturbi

delle funzioni sessuali.

Per il fluoro (F), normalmente presente nell’acqua, la sua presenza nei foraggi e nei

mangimi è da ritenersi quasi sempre dannosa.

Vitamine: sono sostanze fondamentali per la vita. Solo in casi eccezionali l’organismo

animale è in grado di sintetizzarle e pertanto esse devono entrare nella composizione di

qualsiasi dieta. La loro carenza provocano disturbi che portano a una diminuzione della

produttività. Le vitamine vengono suddivise in liposolubili e idrosolubili Si trovano

prevalentemente negli alimenti freschi, e perciò la loro carenza si manifesta di solito con la

somministrazione di prodotti trasformati e/o conservati. In alcuni alimenti le vitamine sono

presenti in quantità elevate, in altri in misura insufficiente, per questo è bene che le razioni

alimentari siano costituite dalla combinazione di alimenti diversi.

Vitamine liposolubili

Vitamina A: la vitamina A ha un’azione sulla moltiplicazione cellulare, sull’accrescimento

ed è epitelioprotettiva, perciò è di grande importana in tutti gli animali domestici destinati

all’ingrasso, alla produzione di latte e alla riproduzione. Il fabbisogno di vitamina A viene

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calcolato in Unità internazionali. E’ presente negli alimenti vegetali soltanto come

provitamina A o carotene (di cui esistono tre isomeri). I foraggi contengono in particolare

betacarotene (circa 1'85%), isomero che presenta un’attività vitaminica assai superiore

rispetto agli altri. I caroteni sono diffusi soprattutto nei vegetali verdi e nelle carote. Con la

fienagione e l’immagazzinamento il betacarotene si altera facilmente per azione

dell’ossigeno, mentre si conserva abbastanza bene nell’insilato ben riuscito (fermentazione

fredda). Fonti naturali di vitamina A sono il latte e l’olio di fegato di pesce. Vitamina A e

betacarotene sono regolarmente prodotti dall’industria farmaceutica in modo da permettere

ad ogni allevatore di integrare qualsiasi deficitaria razione.

La vitamina D: è nota come vitamina antirachitica. Essa si forma, in seguito all’azione dei

raggi ultravioletti. Una deficienza di vitamina D si riscontra facilmente in foraggi poco

esposti ai raggi solari, cioè falciati precocemente, insilati o essiccati con aria calda sotto

tettoia. Dato che questi metodi di raccolta sono da preferire per altre ragioni (qualità

migliore, maggiore quantità di raccolto ecc.), l’apporto di vitamina D mediante l’aggiunta di

integratori è tanto più importante quanto maggiore è la somministrazione di tali foraggi.

Carenze si manifestano prevalentemente a livello di scheletro, sul sistema nervoso, sulla

calcificazione del guscio d’uovo ecc. Il fabbisogno di questa vitamina negli animali è

modesto e variabile perché dipende anche dall’apporto in elementi minerali della razione e

dalla capacità di sintesi individuale. Durante i mesi estivi il fabbisogno in vitamina D degli

animali al pascolo viene coperto abbondantemente dall’azione delle radiazioni ultraviolette

solari.

La vitamina E: svolge funzione sulla fecondità e come antiossidante. Interviene nel

metabolismo cellulare ed ha un’azione antiossidante, cioè impedisce la rapida ossidazione di

alcuni acidi grassi insaturi rallentandone il rapido deterioramento. Grazie alla sua funzione

antiossidante “protegge” la vitamina A. Fra gli alimenti risultano relativamente ricchi di

questa vitamina le piante verdi, i foraggi essiccati con precauzione e quelli insilati mentre

forti perdite si registrano in caso di autoriscaldamento del foraggio (fermentazioni

secondarie, fermentazioni dannose). La vitamina E è presente nei germi delle cariossidi di

cereali (olio di germe), in particolare prima della germogliazione, mentre se il cereale entra

in germogliazione si verificano delle perdite. Tanto i grassi che gli olii vegetali che i panelli

di semi oleosi contengono vitamina E, mentre ne sono prive le farine di estrazione.

La vitamina K: è indispensabile nell’alimentazione per la sua funzione nella sintesi della

protrombina, sostanza che interviene direttamente nella coagulazione del sangue.

Un’alimentazione a base di foraggi verdi, che contengono buone quantità di vitamina K, ne

garantisce il fabbisogno. La vitamina K viene inoltre sintetizzata nel rumine e nell’intestino

dalla microflora.

Vitamine idrosolubili. - Appartengono a questo gruppo le vitamine del gruppo B e la

vitamina C.

Fanno parte del complesso B una decina di composti idrosolubili. Essi sono, per la maggior

parte, di fondamentale importanza in quanto entrano nella costituzione di enzimi essenziali

alla vita delle cellule e al matabolismo dei principi nutritivi.

Raramente si riscontrano fenomeni di carenzia negli erbivori, sia ruminanti che

monogastrici, perché la flora batterica (contenuta nel rumine, nel cieco e nel colon) è in

grado di operare la sintesi di questo gruppo di vitamine e di coprire così i fabbisogni

dell’organismo. Gli animali giovani e i suini presentano invece più comunemente sintomi di

carenza quali minore crescita, diminuzione dell’appetito e alterazioni più o meno gravi della

cute e del sistema nervoso.

La vitamina B1,: la carenza di questa vitamina (beriberi) nell’uomo, diffusa nel Medio

Oriente, si caratterizza dalla comparsa da polineurite ed edemi (beriberi). E’ presente

soprattutto nell’involucro dei grani e dei frutti e perciò si trova in particolare nei

sottoprodotti della molitura (crusche, cruschelli, pule ecc.) ed anche nel foraggio verde

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essiccato o nel lievito di birra fresco o liofilizzato. Carenza può manifestarsi in seguito a

un’alimentazione poco varia (soprattutto nei suini).

La vitamina B2: (riboflavina) interviene nel metabolismo degli acidi grassi e, assieme ad altri

enzimi, nei processi di respirazione cellulare. Essa è diffusa in molti alimenti come il

foraggio verde, specie se giovane, il latte, la farina di pesce e il lievito di birra; questa

vitamina ha una particolare azione sulla produttività degli animali domestici, favorendone

l’accrescimento e la fertilità.

L’acido nicotinico (vitamina PP): nota come vitamina antipellagra, può essere sintetizzato

dal triptofano, amminoacido essenziale. L’acido nicotinico è presente in tutti i foraggi verdi,

nel lievito, nei mangimi di origine animale e nei cruscani di frumento. Un fabbisogno

particolare può verificarsi nell'ingrasso dei maiali con mais; in tutti gli altri casi non serve

aggiungerla alla dieta.

L’acido pantotenico: è presente prevalentemente nelle piante verdi, nel lievito, nei mangimi

di origine animale, nei cruscani e nelle farine di soia. Una carenza può manifestarsi nei

maiali con manifestazioni di lesioni alla cute.

La vitamina B6: è particolarmente importante per il metabolismo proteico; si trova

soprattutto nel foraggio verde ed essiccato, nel lievito e nei sottoprodotti dei cereali; è meno

diffusa nei mangimi proteici di origine animale. Le carenze possono provocare un ritardo

dell’accrescimento, la comparsa di anemie e un’alterazione del metabolismo proteico.

L’acido folico: dà origine a una serie di composti che partecipano alla biosintesi degli acidi

nucleici ed entrano nella costituzione di alcuni ormoni (es.: l’adrenalina). L'’cido folico è

presente in abbondanza nelle parti verdi dei vegetali.

La biotina: chiamata anche vitamina H, interviene soprattutto nel metabolismo dei lipidi. E’

molto diffusa nei lieviti e nell’avena. La sua carenza si manifesta con infiammazioni di tipo

essudativo.

La colina: è presente nella lecitina e interviene nel metabolismo dei grassi impedendone

un’eccessivo deposito nel fegato.

La vitamina BI2: costituisce un fattore emopoietico e di crescita, presente nei mangimi di

origine animale, negli escrementi, nel letame e nei residui della produzione degli antibiotici.

La carenza si manifesta in particolare con una diminuzione della produttività.

La vitamina C o acido ascorbico: nota come sostanza antiscorbutica. È presente in tutte le

piante verdi e, contrariamente a quanto capita nell’uomo, può essere sintetizzata dagli

animali stessi. Soltanto in casi particolare (aumento della produttività) si può intervenire

aggiungendo vitamina C alla razione.

Enzimi e ormoni

Enzimi: vengono prodotti dalle cellule viventi e agiscono da catalizzatori in determinate

reazioni all’interno dell’organismo. Di particolare interesse sono quelli prodotti

nell’apparato digerente che presiedono alla digestione degli alimenti. L’aggiunta di enzimi

alla razione influisce sull’utilizzazione degli alimenti soltanto nei casi in cui vi è un’evidente

insufficiente produzione enzimatica da parte dell’organismo. In tal senso assumono

particolare importanza gli enzimi che stimolano la digestione in animali ancora incapaci di

utilizzare determinati principi nutritivi. Ciò vale, ad esempio, per i suinetti e per i vitelli, il

cui sistema enzimatico, nelle prime settimane di vita, consente soltanto una graduale

assunzione e utilizzazione di alimenti secchi.

Ormoni: controllano e regolano i processi vitali che si svolgono nell’organismo. Sono

prodotti normalmente dallo stesso organismo, anche se è possibile assicurare il loro

rifornimento dall’esterno. Nell’alimentazione degli animali l’influenza degli ormoni è di

grande interesse nei casi in cui questi possono stimolare una determinata attività.

Altre sostanze attive

Al fine di migliorare l’efficienza nutritiva degli alimenti altre sostanze possono rientrare

nelle diete. Possono agire sia direttamente, nell’utilizzazione degli alimenti, che

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indirettamente, esaltando la resistenza degli animali; migliorando la digeribilità delle

sostanze nutritive; migliorando la stabilità dei vari principi nutritivi e vitaminici delle

razioni.

Principalmente sono:

Antibiotici: derivano dal metabolismo di alcuni funghi e sono noti per la loro elevata azione

antibatterica. Un uso oculato ed attento degli antibiotici nell’alimentazione è comunque

indispensabile in quanto possono provocare resistenza nei germi patogeni e una diminuzione

di efficienza nell’impiego a fini terapeutici. Un problema nella somministrazione di

antibiotici ed altri additivi è rappresentato dai residui. La legislazione sui mangimi stabilisce

perciò precise dosi e precisi campi d’applicazione e precisi periodi di sospensione della

somministrazione prima della macellazione.

Coccidiostatici: anche per queste sostanze sono da rispettare determinate prescrizioni.

Antiossidanti: sostanze ad effetto stabilizzante della conservabilità e qualità degli alimenti

sensibili alle ossidazioni (es.: acidi grassi e vitamine liposolubili).

Emulsionanti: la loro azione è mirata alla distribuzione omogenea dei principi nutritivi (es.: i

grassi) nella dieta.

Coloranti e pigmentanti: i coloranti vengono impiegati per colorare mangimi; le sostanze

pigmentanti per colorare i prodotti animali (carni, uova).

La digestione degli alimenti L’apparato digerente compie una serie di operazioni di tipo meccanico ed enzimatico sugli alimenti assunti dall’animale, in modo da semplificarne la struttura chimica e rendere possibile l’assorbimento dei principi nutritivi che ne derivano.

Digeribilità

La valutazione degli alimenti è legata alla digeribilità, cioè l’effettiva quantità di alimento

utilizzabile dall’animale. Si definisce digeribile quella parte delle sostanze nutritive che non è

evidenziabile nelle feci e calcolato facendo la differenza tra la quantità delle sostanze nutritive

ingerite con la dieta e la quantità delle sostanze nutritive espulse con le feci. Questo metodo si basa

sul fatto che la poltiglia alimentare, durante il suo passaggio attraverso il tubo gastrointestinale,

subisce una sottrazione parziale di sostanze che vengono assorbite dall’organismo. Il rapporto tra la

quantità di sostanza alimentare digerita e quella assunta rappresenta il coefficiente di digeribilità.

La digeribilità si può determinare in vivo ed in vitro. Per la determinazione in vivo gli animali

vengono tenuti in determinate condizioni per un certo periodo di tempo, in modo da poter stabilire

un bilancio tra gli alimenti ingeriti e le feci. La determinazione in vitro, invece, viene fatta in

laboratorio con degli strumenti che imitano la digestione dell’animale (rumine artificiale). La

digeribilità di un alimento può variare di molto in animali caratterizzati da un diverso apparato

digerente. Notevoli differenze esistono tra ruminanti, suini e polli; meno evidenti sono le differenze

tra ruminanti, equini e conigli. La digeribilità dipende:

dalla composizione chimica dell’alimento,

dalle frazioni di fibra presenti nell’alimento,

dai trattamenti subiti dall’alimento,

dall’animale a cui viene somministrato l’alimento.

Quando la digeribilità della sostanza organica di un alimento è superiore all’80%, si parla

generalmente di alimento altamente digeribile; questa caratteristica è tipica dei mangimi

concentrati.

Digestione

I processi digestivi presentano notevoli differenze tra specie e specie, benché nelle linee generali la

digestione si svolga sempre nello stesso modo. Mentre il cibo passa attraverso il tubo digerente

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subisce l’azione di vari enzimi la cui produzione è in parte immediata e in parte successiva

all’assunzione degli alimenti. Nella bocca degli animali si ha l’insalivazione del cibo per renderlo

idoneo alla deglutizione. La saliva di alcuni animali, per esempio del maiale, contiene enzimi

(ptialina). Il cibo si ferma per un certo tempo nello stomaco dove viene raccolto e rimescolato per

passare quindi ai successivi tratti del digerente. Le ghiandole peptiche dello stomaco secernono una

miscela di enzimi proteolitici, mentre l’acidificazione necessaria alla loro attivazione avviene con

l’acido cloridrico prodotto da cellule presenti nello stomaco. Negli animali giovani che si nutrono di

latte è inoltre presente il caglio (chimosina) quale fattore di coagulazione. Compito principale dello

stomaco è quello di preparare e facilitare l’ulteriore digestione. E soltanto nei successivi tratti

intestinali che il cibo viene definitivamente trasformato per essere assorbito.

I principi nutritivi scomposti nei loro costituenti (glucosio, amminoacidi e acidi grassi) vengono

assorbiti dai villi intestinali per essere trasferiti nella circolazione sanguigna. Attraverso la vena

porta passano nel fegato, dove vengono immagazzinati oppure sintetizzati a prodotti intermedi per

essere trasportati in altre sedi. Minute goccioline di grasso passano nel vaso chilifero centrale del

villo stesso dove, in forma di fine emulsione, vengono portate dalla linfa, la quale assume un

aspetto lattescente e prende il nome di chilo. Questoviene immesso nella circolazione sanguigna

attraverso il dotto toracico sinistro. Esistono alcuni tipi di digestione:

La digestione meccanica: consiste nella triturazione e nel rammollimento del cibo che

avviene in vari tratti del tubo digerente. Ciò è variabile in relazione alla specie e all’età

dell’animale, il tipo e anche l’intensità della masticazione. L’inumidimento, il

rimescolamento e il rammollimento del cibo avviene nel tratto orale, nell’esofago e nello

stomaco. La buona digestione meccanica influenza positivamente la digeribilità. Nel

ruminante il cibo assunto viene masticato soltanto in modo superficiale, insalivato

abbondantemente e quindi mescolato nel rumine; durante la ruminazione viene ultimata la

preparazione meccanica del cibo. Anche il suino mastica l’alimento soltanto

superficialmente per cui, a questa specie, è consigliabile somministrare alimenti già triturati.

La digestione enzimatica: consiste nella demolizione chimica delle sostanze nutritive in

presenza di acqua. Gli enzimi glicolitici trasformano gli amidi in destrine e quindi in

maltosio e quest’ultimo in glucosio. Il lattosio viene scisso invece in glucosio e galattosio e

il saccarosio in glucosio e fruttosio. I protidi, liberati dalla cellula vegetale dopo la

demolizione della parete cellulosica, vengono in gran parte scomposti prima a peptoni e poi

ad amminoacidi.

La digestione microbica: anch’essa è di natura enzimatica. I batteri presenti nel tubo

gastrointestinale agiscono prevalentemente in ambiente neutro o alcalino, mentre

diminuiscono la loro attività in ambiente acido. L’alternanza di ambiente acido-basico nel

tratto digestivo elimina la maggior parte dei microrganismi nocivi. Un’alimentazione

squilibrata o un brusco cambiamento di dieta si rivelano dannosi per lo sviluppo della flora

batterica, specie per quella dei ruminanti.

Digestione nei ruminanti

Grazie all’apparato digerente altamente specializzato, i ruminanti sono in grado di utilizzare anche

alimenti vegetali non digeribili dall’uomo. La digestione nei ruminanti è caratterizzata dal veloce

trasporto degli alimenti, dopo l’ingestione, nei prestomaci dove nel rumine vengono sottoposti a una

prima digestione fermentativa.

Soltanto dopo 30-60 minuti il cibo ritorna nella cavità orale per esser rimasticato e nuovamente

deglutito. Il volume dello stomaco e dei prestomaci del ruminante corrisponde al 70% circa del

volume complessivo del tubo digerente, mentre negli animali monogastrici (suino) lo stomaco

rappresenta il 20% circa. Nel bovino i prestomaci possono raggiungere una capacità totale di 150-

200 litri. La massa alimentare viene sottoposta a fermentazione, provocata da un numero enorme di

batteri. Ogni ml di liquido ruminale contiene da 1 a l0 miliardi di batteri e il loro peso complessivo

è di alcuni chilogrammi. L’importanza dei batteri nella digestione è, in primo luogo, legata alla

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capacità di attaccare la cellulosa, permettendo in tal modo l’introduzione nella razione anche di

foraggio grossolano. Molto importante nella digestione dei ruminanti è la produzione di saliva. Una

vacca ne produce 3-6 litri/ora durante l’ingestione e 6-10 litri/ora durante la ruminazione.

Contemporaneamente la saliva, essendo alcalina (pH 8,1-8,3), perché ricca di bicarbonato di sodio

(NaHCO3), ha anche il compito di neutralizzare il pH ruminale, dato che i processi fermentativi

portano ad una forte acidificazione. La produzione di saliva viene regolata dall’attività ruminale ed

è tanto più intensa quanto più grossolano è il foraggio. La produzione di acidi grassi nel rumine è di

importanza fondamentale per la salute e la produttività dei ruminanti. Vengono prodotti

giornalmente i seguenti acidi:

acido acetico: costituisce la base per la sintesi del grasso del latte e l’energia calorica per il

mantenimento;

acido propionico: serve prevalentemente per la sintesi del glucosio e per la sua regolazione

a livello ematico che nel ruminante risulta notevolmente inferiore a quello degli animali

monogastrici;

acido butirrico: meno importante ma anch’esso concorre alla produzione di energia.

È importante che il rapporto tra acido acetico e acido propionico nella vacca da latte sia di 3:1 circa.

La formazione di acido acetico si ottiene somministrando in abbondanza foraggi ad alto contenuto

in cellulosa; in questo caso diminuisce la produzione di acido propionico. Gli animali alimentati con

razioni a base di foraggio, con un contenuto superiore al 28% di fibra grezza sulla sostanza secca,

presentano un contenuto in grasso nel latte relativamente elevato.

Diminuendo la quantità di foraggio grossolano e sostituendolo con alte dosi di mangime

concentrato l’acido acetico diminuisce e l’acido propionico aumenta. Ciò comporta una maggiore

acidità del contenuto ruminale non neutralizzata dalla saliva, dato che, in questi casi, la ruminazione

rallenta. Quando il rapporto tra acido acetico e acido propionico scende a 2 e oltre, si osserva una

diminuzione del contenuto in grasso del latte e possono manifestarsi disturbi metabolici.

La razione alimentare destinata a vacche ad alta produzione deve perciò contenere un certo

quantitativo di foraggio grossolano. La presenza di cellulosa contribuisce non soltanto al buon

mantenimento del rapporto tra gli acidi prodotti nei prestomaci, ma anche a formare una buona

struttura dell’alimento (foraggio grossolano), tale da stimolare la ruminazione ed aumentare di

conseguenza la produzione di saliva neutralizzante. Quando infatti si somministra foraggio secco

triturato o altro foraggio povero di materiale grossolano come silomais, foglie di barbabietole o

foraggere ricche di foglie (erbaio di colza), possono manifestarsi stati morbosi tipici come l’acidosi

e l’acetonemia. L’acidosi si manifesta in seguito a un’alimentazione prolungata con alimenti

strutturalmente poveri ma ricchi di sostanze energetiche, come capita facilmente aumentanto le dosi

di mangime concentrato alle vacche altamente produttive. L’eccessivo abbassamento del pH porta a

un arresto della ruminazione, a formazione di acido lattico, fino ad arrivare al rifiuto di cibo con

inevitabile caduta della produzione di latte.

Altra particolarità dei ruminanti riguarda l’utilizzazione proteica essendo in grado di nutrirsi con

alimenti contenenti proteine di bassa qualità e di trasformarli in prodotti ad alto valore biologico. I

batteri ruminali possono infatti sintetizzare amminoacidi essenziali partendo da amminoacidi non

essenziali e da “azoto non proteico”, utilizzando l’ammoniaca liberata nel processo di deaminazione

per la formazione delle loro proteine cellulari. Questa capacità di utilizzare l’ammoniaca (NH3),

per la formazione di proteine, consente di realizzare diete e razioni per i ruminanti contenenti urea,

fino ad una percentuale del 30% dell’azoto totale. L’urea, assieme al biureto, fa parte del gruppo

dei composti azotati non proteici utilizzabili nell’alimentazione dei ruminanti. L’urea è un

composto organico azotato idrosolubile che non contiene energia utilizzabile da parte dell’animale

(si suppone che 1'80% dell'azoto venga utilizzato). L’urea per l’alimentazione viene prodotta, in

linea di massima, nello stesso modo di quella usata come fertilizzante ma non deve contenere

residui di metalli pesanti che sono tossici. Nel rumine, in presenza dell’enzima ureasi prodotto dai

batteri ruminali, l’urea viene scomposta assai velocemente e completamente in ammoniaca (NH3) e

anidride carbonica (CO2). Va comunque considerato che l’ammoniaca è un forte veleno per le

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cellule per cui particolare attenzione va rivolta alla somministrazione di urea in quanto, a differenza

della degradazione delle proteine vegetali, essa provoca in tempi relativamente brevi la produzione

nel rumine di grandi quantità di NH3 che non deve assolutamente passare nel circolo sanguigno, ma

essere coinvolta, ancora nel rumine, nella sintesi delle proteine batteriche. Nel caso di eccesso di

produzione di NH3 questa, attraverso la parete ruminale, viene trasportata al fegato che, agendo da

organo di disintossicazione, la ritrasforma in urea per essere inviata di nuovo nel rumine, attraverso

la saliva, o espulsa con l’urina. Tale possibilità del fegato viene però limitata quando la

concentrazione di NH3 nel rumine supera gli 85 mg/100 ml, Nell’alimentazione dei bovini l’urea va

pertanto dosata in modo da costituire una fonte regolare di NH3 per i batteri ruminali. La liberazione

di NH3 raggiunge il suo massimo quando il pH ruminale è compreso tra 6,5 e 7,5 (massima attività

dell’ureasi); ciò succede con razioni molto ricche di fibra grezza. Quando la razione è invece più

ricca di amido, tale processo si svolge più lentamente, il numero dei batteri nel rumine aumenta e la

sintesi proteica diventa più intensa.

Solo una piccola parte delle proteine digeribili contenute nella razione (30% circa) arriva nel tenue;

il 70% circa viene utilizzato direttamente oppure indirettamente, attraverso la formazione di

ammoniaca nella sintesi di proteine batteriche.

La buona riuscita della sintesi proteica dipende in modo decisivo dall’apporto, con la dieta, di

carboidrati rapidamente fermentescibili, in particolare di amido proveniente, ad esempio, da cereali,

silomais ecc. Anche la presenza di alcuni elementi minerali (P, S, Mn, Ca, Fe) è essenziale per un

buon sviluppo batterico.

Processi digestivi negli animali giovani

Una parte degli animali di interesse zootecnico viene sottoposta già molto precocemente a

un’alimentazione differente da quella naturale per cui bisogna conoscere le loro caratteristiche

fisiologiche onde evitare errori che si ripercuoterebbero negativamente sulle prestazioni produttive

e sulle condizioni di salute. Nell’animale lo stato definitivo del sistema digestivo tipico della sua

specie si realizza soltanto a una determinata età mentre nel periodo neonatale e giovanile la

situazione si presenta diversa. Nel vitello il passaggio dal sistema monogastrico al sistema

poligastrico interamente sviluppato si completa soltanto verso i quattro-cinque mesi d’età. Poiché

l’attività ruminale, anche se inizia prima, è a ritmo molto ridotto, nei primi mesi di vita il vitello ha

bisogno, analogamente ai monogastrici, di amminoacidi essenziali e quindi di proteine ad alto

valore biologico. A causa dell’azione specifica degli enzimi proteolitici l’organismo giovane sfrutta,

nelle prime settimane, soprattutto le proteine che vengono coagulate dal caglio.

Per quanto riguarda i carboidrati, soltanto il lattosio può essere attaccato mentre è molto difficile

che ciò possa verificarsi con il saccarosio e i polisaccaridi perché, in questo stadio, mancano o sono

molto scarsi alcuni enzimi come le amilasi e le saccarasi.

Nel suinetto si verifica, nelle prime quattro settimane di vita, un cambiamento fondamentale per

quanto riguarda lo sfruttamento degli alimenti. In un primo momento è infatti predominante

l’utilizzazione del lattosio ed è relativamente buona quella dei grassi, mentre l’amido e gli zuccheri

non possono ancora essere sfruttati. Anche l’attività degli enzimi proteolitici è assai bassa per cui,

nei primi tempi, soltanto il latte materno può essere sfruttato come fonte proteica.

Metabolismo

Dopo essere stati digeriti e assorbiti, i principi nutritivi vengono utilizzati dall’organismo attraverso

una serie di processi metabolici per la sintesi di sostanze oppure per la produzione di energia. I

prodotti metabolici sono rappresentati dalle sostanze neoformate e dai prodotti di escrezione (urina,

sudore, anidride carbonica, produzione di calore ecc.).

Metabolismo proteico: gli amminoacidi vengono trasportati dal sangue fino ai tessuti dove

vengono utilizzati nella sintesi di proteine specifiche. Nel caso di determinati processi (es.:

produzione di latte), quando il fabbisogno proteico non viene soddisfatto totalmente dalla

dieta, per inappetenza della bovina, la sintesi proteica può avvenire all’interno dei tessuti.

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Durante il fenomeno della crescita la sintesi proteica è essenziale allo sviluppo dei vari

organi e tessuti corporei, e consiste di due processi fondamentali: la moltiplicazione

cellulare, che si manifesta soprattutto nella fase dello sviluppo embrionale e fetale, e

l’aumento in dimensione delle cellule (es.: formazione di fibre muscolari). Quando le

proteine vengono offerte in eccesso rispetto alle esigenze plastiche, sono utilizzate per la

produzione di energia.

Metatabolismo glucidico: durante la digestione i carboidrati contenuti negli alimenti

vengono degradati a monosaccaridi, principalmente glucosio e fruttosio, per poi essere

assorbiti e metabolizzati. Nel ruminante anche gli acidi grassi volatili, provenienti dalla

digestione ruminale della fibra grezza e dell’amido, passano nella circolazione sanguigna. I

glucidi vengono utilizzati dall’organismo in vari modi. In primo luogo si deve tener conto

della sintesi di glicogeno nel fegato e nei muscoli (glicogenesi). Quando l’animale viene

sovralimentato con carboidrati, si ha un’utilizzazione di questi principi nutritivi nella sintesi

di grassi che vengono a costituire il tessuto adiposo di riserva (lipogenesi). I carboidrati

trovano un ulteriore impiego nella produzione di energia e di calore, nonché nella sintesi del

lattosio e nella sintesi di certe proteine come l’albumina del latte. Il livello del glucosio nel

sangue svolge una funzione regolatrice decisiva per l’utilizzazione dei glucidi nel

metabolismo (nel ruminante deve variare in limiti molto stretti: 50-80 mg di glucosio per

100 ml di plasma). Quando la concentrazione ematica del glucosio diminuisce a causa di un

apporto insufficiente di carboidrati, l’organismo ricorre alle proteine e al grasso di riserva

per normalizzarla attraverso l’azione dell’insulina e dall’adrenalina (un’alterazione della

loro azione dà origine al diabete).

Metabolismo lipidico: il grasso serve come materiale di riserva (grasso di deposito) e per il

bilancio energetico dell’organismo. Agisce come isolante termico e, in certi organi, anche

come tessuto di protezione. Sostanze grasse si trovano però anche nelle cellule che

intervengono direttamente nei processi vitali. Il grasso può essere sintetizzato da tutte le

sostanze alimentari energetiche, quindi anche dalle proteine e dagli idrati di carbonio. Il

tipo di grasso presente negli alimenti può influire sulla qualità del grasso corporeo, anche se

la composizione di questo, nelle singole specie animali, assume caratteristiche

tendenzialmente costanti, data la capacità dell’organismo di trasformare, entro certi limiti, i

lipidi. La sintesi e la demolizione dei lipidi si realizzano prevalentemente nel fegato.

Metabolismo energetico: l’animale deve coprire il suo fabbisogno energetico con l’energia

contenuta nella dieta. Gli alimenti possono quindi essere considerati come fonti di energia

che l’organismo libera, accumula e utilizza per lo svolgimento delle sue funzioni vitali, per

produrre lavoro, muoversi e far circolare le sostanze all’interno dell’organismo e soprattutto

per la formazione di nuovi tessuti (crescita) e dei prodotti zootecnici come latte, uova ecc. I

singoli alimenti contengono quantità differenti di energia che si libera durante la

trasformazione delle sostanze alimentari che si conclude con la fase ossidativa e la

conseguente produzione di anidride carbonica e acqua.

Metabolismo basale: corrisponde alla quantità minima di energia per lo svolgimento delle

funzioni vitali interne, nelle ventiquattro ore, in condizioni di digiuno, di riposo e di

neutralità termica. Questo fabbisogno è distinto da quello per il mantenimento che

comprende, oltre all’energia necessaria per le funzioni della vita vegetativa, anche quella per

alcune attività dell’animale. Il fabbisogno di mantenimento è pertanto superiore a quello del

metabolismo basale e dipende dalla grandezza di un animale e in particolare dalla sua

superficie corporea. E stato dimostrato che il metabolismo basale e il fabbisogno di

mantenimento sono influenzati dal peso dell'animale elevato alla potenza 0,75, valore che è

stato denominato “peso metabolico”.

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Valutazione e valore nutritivo degli alimenti Il valore nutritivo di un alimento rappresenta la sua capacità qualitativa e quantitativa di fornire

all’animale principi nutritivi ed energia, utilizzabili per il mantenimento e la produzione. Tale

valore dipende dal alcuni fattori come la specie animale o la produzione zootecnica.

Esistono diversi metodi per conoscere il valore nutritivo di un alimento. Per quanto riguarda i

ruminanti la valutazione viene fatta con il metodo dell’unità amido e dell’unità foraggera.

Metodo delle unità amido (UA): stabilisce il potere energetico di un alimento partendo

dalla sua composizione chimica. Una UA corrisponde al valore energetico di un kg di

amido. Il metodo è stato elaborato da Oscar Kellner determinando la quantità di grasso

sintetizzata da bovini da carne adulti a cui venivano somministrate nella razione alimentare

di mantenimento quantità unitarie di principi nutritivi. Il valore energetico dell’amido serve

come unità di misura di tutti i principi alimentari. Kellner stabilì che la fibra grezza e

l’amido digeribili producono la stessa quantità di energia netta. Le proteine e lo zucchero ne

forniscono meno, mentre i grassi ne producono una quantità maggiore. Le differenze

energetiche fra i grassi di varia provenienza sono dovute alla loro diversa composizione. Il

valore nutritivo teorico di una razione non viene però sempre raggiunto in pratica a causa

del suo contenuto in fibra grezza, la cui utilizzazione da parte dell’organismo animale

impegna una quota più o meno importante di energia digeribile a scapito dell’energia netta.

Metodo delle unità foraggere (UF): nei paesi scandinavi è stata condotta una

sperimentazione su gruppi di vacche in lattazione omogenee per peso, età e stadio della

lattazione, arrivando alla definizione del valore energetico di un alimento con un’unità di

misura detta Unità foraggera (UF). Una UF corrisponde all’energia contenuta in un kg di

granella d’orzo o di 2,5 kg di fieno normale di prato stabile (polifita). Questo metodo

stabilisce il valore energetico di un alimento indipendentemente dalla tipologia di

produzione, rendendo quindi evidenti i limiti di un sistema di valutazione basato su un

valore nutritivo unico degli alimenti.

Metodo francese delle unità foraggere carne (UFC) e unità foraggere latte (UFL): il

sistema precedente non tiene conto che i rendimenti di una razione alimentare sono diversi a

seconda che sia somministrata per produzioni di latte o di carne e che di coseguenza gli

alimenti hanno rendimenti differenti a seconda che siano destinati al mantenimento degli

animali, al loro accrescimento e ingrasso o alla produzione di latte. Quindi lo stesso

alimento ha un valore diverso a seconda dell’attitudine produttiva di un animale in quanto è

diverso il rendimento dall’energia metabolizzabile in energia netta. La produzione di carne

da un 1 kg di granella d’orzo infatti supera mediamente quello per la produzione del latte in

quanto l’energia netta derivante dall’utilizzazione degli alimenti è leggermente superiore

nella produzione di carne rispetto alla produzione di latte Per tale motivo è stato messo a

punto un sistema di valutazione basati su valori differenti a seconda della destinazione.

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Valore nutritivo di alcuni principali alimenti

Principali alimenti Kg di

alimento

S.s.

kg/kg di

alimento

U.F.

kg di alimento

U.F.L

kg di alimento

U.F.C

kg di alimento

Protidi grezzi

gr/kg di alimento

Semi di cereali e leguminose

Orzo 1 0,867 1,00 0,98 0,97 90

Avena 1 0,878 0,82 0,75 0,86 90

Mais Plata 1 0,875 1,05 1,02 1,03 90

Sorgo 1 0,871 1,00 1,02 1,02 90

Soia 1 0,896 1,07 1,12 1,07 90

Farine concentrati

Arachide 1 0,906 1,00 1,00 1,00 90

Girasole 1 0,910 0,79 0,87 0,80 90

Colza 1 0,905 0,81 0,85 0,82 90

Soia 1 0,894 1,00 1,01 1,00 90

Manioca 1 0,916 1,01 1,03 1,02 90

Mangime 1 0,900 1,00 1,00 1,00 90

Foraggi verdi

Medica

(prima della fioritura) 1 0,240 0,13 0,15 0,14 45

Medica

(in fioritura) 1 0,240 0,12 0,14 0,13 35

Sorgo da foraggio 1 0,190 0,11 0,14 0,13 20

Avena, orzo 1 0.230 0,12 0,14 0,13 20

Trifoglio 1 0,180 0,12 0,14 0,13 40

Principali alimenti Kg di

alimento

S.s.

kg/kg di

alimento

U.F.

kg di alimento

U.F.L

kg di alimento

U.F.C

kg di alimento

Protidi grezzi

gr/kg di alimento

Insilati

Mais ceroso 1 0,280 0,22 0,25 0,23 20

Orzo ceroso 1 0,350 0,19 0,24 0,21 20

Triticale ceroso 1 0,330 0,18 0,23 0,20 20

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Conservazione degli alimenti La conservazione e l’immagazzinamento del foraggio comportano, per l’azienda agricola, spese

molto elevate dovute a:

edifici e macchine;

lavori di raccolta, immagazzinamento e distribuzione;

perdite di sostanze nutritive con conseguente minor valore nutritivo degli alimenti.

Conviene perciò limitarsi alla conservazione della quantità minima indispensabile di foraggio.

La conservazione dei foraggi La conservazione dei foraggi mira a costituire scorte per alimentare per gli erbivori durante il

periodo di stasi vegetativa delle specie prative permettendo inoltre un razionamento costante.

L’obiettivo è quello di trasformare rapidamente e con poche perdite di valore nutritivo lo stato

instabile dei foraggi verdi in uno stato stabile che permette una lunga conservazione.

I foraggi costituiscono l’alimento base dei ruminanti perciò è molto importante che siano valorizzati

al massimo, partendo dalla loro raccolta, attraverso la conservazione e la razionale utilizzazione. I

foraggi vengono somministrati come: erba, fieno ed insilato.

I foraggi sono costituiti da piante spontanee o coltivate. Dal punto di vista botanico le piante

foraggere di maggior uso appartengono alle famiglie:

Graminacee: sono le più coltivate e quelle che producono di più. Hanno un basso valore

proteico e più fibra. Sono coltivate da sole o in consociazione con le leguminose. Vanno

raccolte all’inizio della spigatura.

Valore nutritivo di alcuni principali alimenti

Fieni, paglie

Principali alimenti Kg di

alimento

S.s.

kg/kg di

alimento

U.F.

kg di alimento

U.F.L

kg di alimento

U.F.C

kg di alimento

Protidi grezzi

gr/kg di alimento

Fieno di prato stabile

buono

1 0,865 0,47 0,58 0,48 97

Fieno di prato stabile

normale

1 0,885 0,43 0,54 0,44 92

Fieno di medica 1 0,875 0,44 0,54 0,46 120

Fieno di trifoglio 1 0,863 0,46 0,59 0,50 150

Paglia di frumento 1 0,878 0,21 0,38 0,27 20

Paglia di frumento +

NH3 1 0,860 0,26 0,46 0,35

20

Paglia di orzo 1 0,876 0,24 0,39 0,30 20

Paglia di avena 1 0,880 0,25 0,42 0,33 20

Stocchi di mais 1 0,855 0,27 0,49 0,39 18

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Leguminose: hanno grande utilizzazione in zootecnia. Sono ricche di proteine e povere in

fibra. Si coltivano in coltura monofita o in consociazione e si raccolgono al momento della

fioritura.

Crucifere: hanno un buon valore proteico, sono ricche di calcio.

Le tecniche di conservazione sono principalmente divise in: fienagione e insilamento.

Fienagione

E’ la trasformazione dell’erba in fieno, con riduzione del contenuto in acqua dall’80% al 20%.

Consiste in una serie di operazioni meccaniche che sono lo sfalcio dell’erba, il condizionamento, la

ranghinatura, l’andanatura e la raccolta (balle, balloni, rotoballe). La fienagione può essere naturale

o artificiale. Con la fienagione naturale l’erba sfalciata viene lasciata in campo una settimana per

l’essiccazione dopodichè viene raccolta (in balle, balloni, rotoballe) e lasciata in campo per

ulteriori 15-20 giorni. Alla fienagione naturale viene sostituita la fienagione in due tempi. Qui il

foraggio sta in campo solo il primo giorno e poi viene portato ad essiccare in fienili a ventilazione

forzata. Così si riducono le perdite di valore nutritivo. Esiste inoltre la fienagione artificiale nella

quale l’erba viene raccolta e portata subito ad essiccare. Questa tecnica è usata soprattutto dai

mangimifici per integrare il valore proteico di alcuni mangimi.

Insilamento

Consiste nel mettere l’erba in cumuli nei sili e favorire la formazione di un ambiente acido. Si

ottiene un alimento appetibile, di buona digeribilità, con ridotte perdite di valore nutritivo rispetto

alla fienagione e verde tutto l’anno. È una tecnica utile per quelle foraggere che non possono essere

conservate in altri modi. Con l’insilamento il foraggio viene reso conservabile grazie alla

formazione, durante i processi di fermentazione, di vari acidi organici, fino a portare il pH a 4. Le

perdite dovute a queste trasformazioni sono meno elevate di quelle della fienagione in quanto

durante l’insilamento il foraggio verde, che è soggetto a deteriorarsi a causa di microrganismi

aerobi, viene conservato anaerobicamente, rimanendo verde e succulento. Non tutte le piante hanno

però la stessa attitudine all’insilamento. Un foraggio si insila facilmente quando:

è alto il tenore di carboidrati (substrato della fermentazione);

è basso il potere tampone (capacità di opporsi all’abbassamento di pH), che dipende dal

contenuto di proteine e sali minerali in grado di neutralizzare gli acidi prodotti dalle

fermentazioni;

è basso il contenuto in acqua.

Quindi un’erba si insila facilmente quando il rapporto zuccheri/proteine è 1 a 1. Gli zuccheri non

devono essere inferiori al 5%.

Dalle trasformazioni che subisce il foraggio insilato dipendono le perdite di valore nutritivo e le

caratteristiche dell’insilato stesso e sono dovute principalmente alle fermentazioni batteriche e al

proseguimento della respirazione che, rispettivamente influiscono positivamente e negativamente

sulla buona qualità dell’insilato.

Le fermentazioni batteriche (cosidette buone) avvengono ad opera di batteri acetici e dei

batteri lattici. Gli acetici fermentano i carboidrati e formano ac. Acetico, sono anaerobi

facoltativi (agiscono sia in presenza che in assenza di ossigeno) e con le loro fermentazioni

il pH della massa scende fino a 5 dove la fermentazione acetica viene bloccata. I lattici

portano alla formazione di acido lattico, dopo una settimana dall’insilamento. L’acido

lattico è un acido più forte dell’acetico e fa abbassare ulteriormente il pH che scende a 3,8-

4,2., valore ottomale per la buona conservazione.

Il proseguimento della respirazione del foraggio ammassato provoca invece la distruzione

dei carboidrati digeribili e l’aumento della temperatura della massa insilata, favorendo

l’isorgere di fermentazioni dannose (butirrica) ad opera dei batteri butirrici (aerobi). E’ bene

ridurre al minimo la fermentazione butirrica in quanto l’acido butirrico provoca la Chetosi o

Acetomia (squilibrio a livello metabolico).

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Per questi motivi risulta indispensabile adottare una buona tecnica di insilamento che, oltre a tener

conto degli aspetti biologici, preveda una azione meccanica di compattamento della massa insilata

al fine di eliminare la massima quantità di aria per favorire l’azione dei batteri anaerobici a scapito

degli aerobici.

Metodi e tecnica di insilamento

L’attitudine all’insilamento dei vari tipi di foraggio è in funzione del loro tenore in sostanze

nutritive che dipende dallo stadio di maturazione per cui, l’epoca del taglio, assume notevole

importanza. Tenendo perciò conto del contenuto in sostanze nutritive della pianta l’epoca ottimale

del taglio per l’insilamento corrisponde:

per i polifiti alla spigatura incipiente;

per i trifogli all’inizio della fioritura;

per l’avena e le fave alla maturazione lattea dei semi;

per il mais alla maturazione cerosa della granella.

Il valore nutritivo dell’erba insilata dipende in particolare dal contenuto e dalla digeribilità delle

sostanze nutritive. Gli insilati a base di erba per soddisfare queste esigenze devono essere sfalciate

prima dell’inizio della fioritura, quando il loro tenore in fibra grezza sulla sostanza secca è inferiore

al 26%.

Nel caso del mais, il maggior incremento di sostanze nutritive si realizza durante la formazione

delle spighe, cioè nel periodo che va dalla fioritura fino alla maturazione cerosa della granella.

L’aumento del valore nutritivo è sostanzialmente dovuto al deposito di amido nelle cariossidi; al

momento della fioritura la granella non esiste e alla maturazione cerosa questa rappresenta il 50%

circa della sostanza secca dell’intera pianta. La fase più favorevole alla raccolta, sia per la quantità

di s.s. che per la percentuale di granella, si ha nel momento in cui la s.s. è di circa il 35%, che

corrisponde allo stadio di maturazione cerosa avanzata.

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7. ZOOTECNIA 7.2 ALLEVAMENTO BOVINI DA LATTE

Tecnica di allevamento delle

bovine da latte

Generalità

In Italia sono allevate circa 1.8 milioni di bovine da latte. La regione con il maggior numero di capi

è la Lombardia (circa 450.000 capi), seguita da Emila Romagna (circa 300.000 capi) e Piemonte

(circa 164.000 capi).

L’allevamento delle bovine da latte può distinguersi, dal punto di vista della commercializzazione

del prodotto in:

allevamento per la produzione di latte alimentare,

allevamento per la produzione di latte destinato alla trasformazione in formaggio.

Principalmente le bovine da latte appartengono alla razza Frisona Italiana che pesa attorno ai 650

Kg, ha un’altezza media di 140 cm. e una produzione media per lattazione che si attesta sulle 8,5

ton. di latte al 3,5% di grasso e 3,3% di proteine.

La produzione media annua di latte di una vacca in allevamenti intensivi nella pianura del nord

Italia è indicativamente di:

7.500-10.000 kg per la razza Frisona

6.000-8.000 kg per la razza Bruna;

5.000-7.000 kg per la razza Pezzata Rossa.

La vacca entra in produzione a 24-26 mesi di età (primo parto) e partorisce quasi una volta all’anno

(un parto ogni 12-14 mesi). Mediamente i parti nella carriera sono 4-5, l’età finale è quindi di 6-7

anni. Considerando però che alcune vacche sono utilizzate solo per i primi 3 parti (i migliori per la

produzione di latte) e che comunque anche le vacche migliori non vengono utilizzate per più di 5-6

parti, si può ipotizzare una vita media produttiva di 4 anni (o meglio 4 lattazioni). Tale dato è

particolarmente importante per determinare la percentuale di rimonta (vacche a fine carriera

annualmente sostituite) che risulta perciò del 25% (una vacca su quattro).

Le vacche meno produttive o con problemi di salute (in particolare di fertilità) sono però scartate fin

dal primo parto.

Parametri relativi alla riproduzione

Età della prima fecondazione 16 – 18 mesi

Durata della gravidanza 9 – 9½ mesi

(284 giorni)

Durata dell'interparto (periodo che intercorre tra un

parto ed il successivo) 13 – 14 mesi

Durata della lattazione standard (nei casi in cui la

vacca venga fecondata al primo calore utile dopo il

parto)

305 giorni

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Le categorie di bovine presenti in una stalla vengono così suddivise

vitella: dalla nascita al primo anno di vita,

manza: dal primo anno di vita alla prima fecondazione,

giovenca: dalla prima fecondazione al primo parto,

vacca primipara: dopo il primo parto,

vacca pluripara: dopo il secondo parto.

Tipologia e dimensionamento degli allevamenti

Sia la stabulazione libera che quella all’aperto vanno ogni giorno sempre più diffondendosi per i

vantaggi che questi sistemi di allevamento offrono sia durante il periodo della gravidanza che nel

periodo dell’asciutta. La stabulazione libera inoltre favorisce il travaglio del parto il quale può

avvenire in alcuni casi senza l’aiuto dell’uomo. La possibilità di movimento oltre a favorire

l’irrobustimento generale e la tonicità delle masse muscolari della bovina gravida promuove una

buona circolazione del sangue e quindi un maggior apporto di ossigeno e di sostanze nutritive al

feto. Nella stabulazione libera la bovina gravida ha possibilità di soddisfare le necessità

fisiologiche a suo piacere: alimentandosi e bevendo, muovendosi all’aperto o al coperto, riposando

quando vuole. Le bovine possono sopportare bene la pioggia, il freddo anche intenso ma non il

vento, contro il quale cercano riparo. Le migliori condizioni ambientali vanno da 0°C a 20°C di

temperatura, tollerando quindi maggiormente il freddo anziché un eccesso di caldo.

Tipicamente i locali presenti in una stalla per l’allevamento di vacche da latte sono:

corsia di foraggiamento (dove passa la trattrice per la distribuzone dell’alimento);

corsia di alimentazione (dove le vacche si posizionano per alimentarsi);

zona di riposo a lettiera permenente, oppure

zona di riposo a lettiera inclinata, oppure

zona di riposo a cuccette;

zona di esercizio (paddock esterno in terra battuta o in cemento);

sala di mungitura a tandem, oppure

sala di mungitura a spina di pesce, oppure

sala di munigtura a pettine;

locali accessori (sala parto, infermeria, locale latte, vitellaie, ecc.).

Per il dimensionamento di un allevamento si procede considerando che ogni vacca partorisca un

vitello all’anno (evenienza teorica, in quanto difficilmente la vacca rimane gravida al primo

intervento fecondativo dopo il parto): in tal modo, in un allevamento di 100 vacche, avremo la

nascita di 100 vitelli, di cui 50 maschi e 50 femmine.

Di norma, i vitelli maschi vengono venduti scolostrati dopo 7-10 giorni dalla nascita.

Il colostro (o primo latte) è un particolare tipo di latte molto ricco di immunoglobuline che la vacca

produce nei primi giorni successivi al parto per garantire al vitello una adeguata protezione

anticorpale: non può essere avviato al consumo umano e nemmeno alla caseificazione e viene

quindi utilizzato per l’alimentazione del vitello nei primi cinque giorni di vita, dopodichè sarà

sostituito dal latte in polvere.

Delle 50 vitelle, alcune verranno vendute, mentre quelle ritenute più idonee rimarranno in azienda

per la rimonta interna. Considerando una vita produttiva media delle vacche in lattazione di quattro

anni, ogni anno dovremo sostituire con la rimonta interna il 25% degli animali in produzione, per

cui nel nostro allevamento, di 100 vacche, dobbiamo ipotizzare di sostituire ogni anno 25 capi,

attingendo dalle nascite annuali. Manteniamo quindi in azienda le 25 vitelle migliori, che crescendo

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porteranno ad una consistenza media totale dell’allevamento di circa 155 capi.

Consistenza totale dell’allevamento

Vacche in lattazione 100

Vitelle 25

Manze 11

Giovenche 19

Totale 155 capi

Gravidanza e cure alla bovina e al vitello

La durata della gravidanza varia da specie a specie ed anche tra razza e razza nell’ambito della

stessa specie e anche subire delle variazioni da soggetto a soggetto della stessa razza.

Nella vacca la gravidanza ha una durata media di 284 giorni; ma vi sono bovine che partoriscono

anche solo dopo 241 giorni dal salto ed altre dopo 301 giorni, ciò senza una spiegazione precisa.

Durata media della gestazione di alcune femmine degli animali domestici

Specie Durata in mesi Durata in giorni

Asina 12 355-365

Cavalla 11⅓ 346

Bufala 10½ 315

Vacca 9½ 284

Pecora 5 150

Capra 5 155

Scrofa 4 113-118

Cagna 2 62

Gatta 2 56

Coniglia 1 28-30

Sembra che le primipare abbiano una gravidanza più breve delle pluripare e che i vitelli maschi

provochino un periodo più lungo di gestazione.

Il meccanismo che determina la fine della gravidanza e l’avviamento del parto non è perfettamente

conosciuto. Si ritiene, perciò, che i fattori che provocano il parto siano legati al sistema nervoso e

soprattutto, a produzioni ormonali di ghiandole ad azione interna.

Calcolo degli animali presenti in una stalla di 100 vacche in lattazione

Categoria Descrizione Calcolo Totale Note

Vitelle

Dalla nascita al

primo anno di

vita

25 x (12:12) 25

Manze

Dal primo anno

di vita alla prima

fecondazione

25 x (5*:12) 11 *Da 12 a 17 mesi

Giovenche

Dalla prima

fecondazione al

primo parto

25 x (9*:12) 19 *Durata della gravidanza

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L’avvicinarsi del parto è preannunciato da certi segni caratteristici:

Già qualche settimana prima nelle primipare, e un pò dopo nelle pluripare, si osserva un

graduale sviluppo della mammella.

Le labbra della vulva si fanno floscie ed arrossate, tutto l’organo si mostra ingrossato.

Nei giorni immediatamente precedenti al parto dai capezzoli fuoriesce il colostro e la

mammella tende ad indurirsi.

I fianchi si infossano e l’andatura diventa molto lenta.

Dalla vulva fuoriesce una secrezione mucosa di colore bianco-gialliccio dello spessore di un

cm. È questo il segno che è incominciata la dilatazione del canale cervicale e quindi che si

prepara la via per l’uscita del feto.

La bovina diventa irrequieta, si corica e si alza ripetutamente, pesta i piedi, inarca il dorso e

muove nervosamente la coda.

Il parto è l’atto conclusivo della gravidanza e pur essendo un processo fisiologico, espone la bovina

a pericoli non lievi, sia perché nella fuoriuscita del feto si possono ferificare delle lesioni di varia

entità, e sia perché in un ambiente come la stalla possono penetrare nell’organismo germi, con

conseguenti infezioni locali e generali.

Se non si manifestano complicazioni è l’allevatore, o suo collaboratore, che si incaricherà di

assistere il parto, mentre nei casi più complicati (presentazion anormale del feto, torsione

dell’utero, lacerazioni gravi, ritenzione delle seconde, inversione dell’utero, ecc.) è bene avvalersi

dell’ intervento del veterinario.

Il travaglio del parto si svolge in tre fasi:

fase preparatoria: descritto sopra;

fase dilatante o di apertura: all’interno dell’utero è avvolto nella borsa interna, che a sua

volta è immerso nel liquido amniotico (2-4 litri). Seguendo, verso l’esterno, si trova la prima

borsa o borsa delle acque che, al termine della gestazione, contiene, dai 5 ai 12 litri di

liquido giallo-bluastro. Appena prima del parto, l’utero inizia ad avere delle contrazioni:

dapprima leggere e distanziare e quindi sempre più forti e ravvicinate. Queste contrazioni

determinano la pressione della prima borsa o borsa delle acque e spinge il feto verso la

cervice dell’utero. Per il progressivo allargarsi del collo dell’utero e per le sue contrazioni

sempre più forti si manifesta un aumento dell’allargamento del canale attraverso cui dovrà

uscire il feto. La borsa delle prime acque (o borsa esterna), fuoriesce, dalla vagina senza

comunque rompersi. E’ bene non provocare la rottura di questa borsa per evitare un ritardo

delle contrazioni dell’utero. A questo punto il feto assumerà una posizone adatta per

l’espulsione. La posizione normale del feto può essere anteriore o posteriore. Molte volte,

però, il feto può assumere delle posizioni anormali, per cui occorre l’intervento del

veterinaro per aiutarlo ad uscire o addirittura per estrarlo;

fase di espulsione: è l’unica fase del parto nella quale l’assistente può direttamente

intervenire per aiutare l’animale. Gli sforzi della madre, fanno entrare il feto (od almeno

parte di esso) nella cavità del bacino e quindi nel canale vaginale. I piedi (anteriori o

posteriori), ancora avvolti nella borsa interna, sporgono dalla vagina. Anche la seconda

borsa (come la prima) non deve essere rotta dall’assistente al parto. Se però questa è da

parecchio tempo che sporge dalla vagina senza rompersi spontaneamente, l’assistente deve

intervenire strappandola e scoprire bene le parti del feto che sta per uscire. Alla rottura della

seconda borsa (o borsa interna), che generalmente è di colore grigio bianca, fuoriesce un

liquido denso, mucillagginoso, filante, grigio-torbido o qualche volta giallo, molto

lubrificante. Sono le cosiddette seconde acque (o liquido amniotico), che hanno lo scopo di

lubrificare le vie del parto per facilitare il passaggio del feto. Dopo la rottura della seconda

borsa (solo se realmente occorre) può essere opportuno aiutare l’espulsione del feto.

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Cure alla bovina che ha partorito

Immediatamente dopo il parto la prima attenzione va rivolta all’espulsione degli involucri fetali

(secondamento), che deve avvenire di norma 6-12 ore dopo il parto. Le seconde devono essere

lasciate liberamente pendere, finché cadono da sole, assicurandosi comunque che le stesse siano

emesse completamente. Nel caso che ciò non avvenisse, (entro 18-20 ore dal parto), occorre

ricorrere all'intervento del veterinario, per l’estrazione completa.

La bovina, dopo il parto, va fatta alzare in modo da favorire il ritorno del’utero in posizione

normale. I genitali esterni e le immediate adiacenze vanno lavate con abbondante acqua tiepida e

sapone. La lettiera va rinnovata e la bovina deve essere asciugata. Per scongiurare il rovesciamento

dell’utero può essere necessario mettere alla bovina un bendaggio (imbraca).

Un’ora o due dopo il parto, la mammella e le parti circostanti vanno ancora una volta lavate con

acqua tiepida e sapone e, quindi, asciugate. I primissimi spruzzi di ciascun capezzolo (colostro)

vanno buttati. La vacca sarà poi munta non a fondo ed il “colostro” va somministrato in parte al

vitello neonato.

Tabella esemplificativa della presumibile data del parto della bovina

Data dell’ultimo salto

Data presumibile parto

Data dell’ultimo salto

Data presumibile parto

Data dell’ultimo salto

Data presumibile parto

Data dell’ultimo salto

Data presumibile parto

Gennaio Ottobre Febbraio Novembre Marzo Dicembre Aprile Gennaio

1 11 1 11 1 9 1 9

2 12 2 12 2 10 2 10

3 13 3 13 3 11 3 11

4 14 4 14 4 12 4 12

5 15 5 15 5 13 5 13

6 16 6 16 6 14 6 14

7 17 7 17 7 15 7 15

8 18 8 18 8 16 8 16

9 19 9 19 9 17 9 17

10 20 10 20 10 18 10 18

11 21 11 21 11 19 11 19

12 22 12 22 12 20 12 20

13 23 13 23 13 21 13 21

14 24 14 24 14 22 14 22

15 25 15 25 15 23 15 23

16 26 16 26 16 24 16 24

17 27 17 27 17 25 17 25

18 28 18 28 18 26 18 26

19 29 19 29 19 27 19 27

20 30 20 30 20 28 20 28

21 31 Dicembre 21 29 21 29

Novembre 21 1 22 30 22 30

22 1 22 2 23 31 23 31

23 2 23 3 Gennaio Febbraio

24 3 24 4 24 1 24 1

25 4 25 5 25 2 25 2

26 5 26 6 26 3 26 3

27 6 27 7 27 4 27 4

28 7 28 8 28 5 28 5

29 8 29 6 29 6

30 9 30 7 30 7

31 10 31 8

Cure al vitello dalla nascita allo svezzamento Appena il vitello è nato, bisogna accertarsi che respiri bene. Per questo deve essere liberato dalle

mucose che gli ostruiscono narici e bocca. In alcuni casi, qualora il vitello manifestasse difficoltà

respiratorie, occorre attivare la respirazione. Per praticare la respirazione artificiale ad un vitello

occorre stenderlo sulla schiena, e, mentre ritmicamente si alzano e si abbassano gli arti posteriori,

gli si afferra la lingua tirandola fuori e la si lascia rientrare, alternativamente, 10-15 volte al minuto,

mentre una seconda persona comprime ritmicamente il costato.

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Il cordone ombelicale, lungo una trentina di centimetri, è facilmente lacerabile e normalmente si

strappa spontaneamente al momento del parto sotto il peso del neonato.

Nel caso che, dopo la sua spontanea lacerazione, rimanesse troppo lungo, il cordone ombelicale va

troncato (non tagliato) a 6-8 cm dal ventre, disinfettandolo con polvere sulfamidica o antibiotica.

Il primo periodo della vita del vitello, quello che va dalla nascita allo svezzamento, è senz'altro il

più delicato; quello nel quale l’allevatore deve avere le massime cure sia per quanto riguarda

l’alimentazione che la detenzione del giovane animale.

Alimentazione bovine da latte

E’ dimostrato che in particolare la qualità e la quantità degli alimenti, influiscono sulla produttività

per circa il 70%. Un’alimentazione squilibrata, oltre ad incidere negativamente sul già difficile

bilancio dell’allevamento zootecnico, provoca spesso disfunzioni negli animali con relativa perdita

o riduzione del loro prodotto (latte e vitelli).

Gli alimenti

I foraggi consumati freschi (foraggi verdi) od essiccati (fieni) o insilati costituiscono per i bovini

l’alimento base, quello cioè che in genere copre la maggior parte del fabbisogno alimentare.

In generale gli alimenti si possono distinguere in: foraggi, mangimi concentrati e integratori.

Nel dettaglio si possono classificare in:

Foraggi verdi: per il loro notevole contenuto in acqua (70-90%) hanno un valore nutritivo

non molto elevato in rapporto al loro peso (14-16 U.F. L. per q.le): occorrono perciò dai 6 ai

7 kg di foraggio verde per fornire una Unità Foraggera Latte. Possono derivare da colture di

leguminose (quali erba medica e trifoglio), con alto tenore proteico e di calcio, oppure da

graminacee (come granturchino, sorgo da foraggio, segale, avena, orzo, loietto, erba

mazzolina, festuca, ecc.) che danno foraggio a più bassa percentuale di proteine e di calcio e

a percentuale relativamente alta di fosforo (in rapporto al calcio).

Fieni: si ottengono mediante l’essiccazione naturale delle erbe in pieno campo o per

essiccazione artificiale con ventilazione meccanica del foraggio appassito fino al 35% circa

di umidità. Quando la fienagione si compie nelle condizioni più favorevoli le perdite di

valore nutritivo si aggirano sul 15-20%; sono molto superiori se il taglio è ritardato o in caso

di cattivo tempo, potendo allora arrivare anche al 50-60% di perdite. Nei buoni fieni di

prato stabile e dei prati polifiti il valore nutritivo si aggira intorno alle 50/55 U.F.L. per

quintale (occorrono 1,8/2,0 kg di fieno di prato stabile buono per fornire una Unità

Foraggera Latte).

Insilati: tra gli insilati maggiormente utilizzati assume particolare rilievo il silomais. Dal

punto di vista nutritivo si caratterizza per l’alto contenuto di carboidrati (costituiti

prevalentemente da amido e zuccheri) e per il basso tenore di proteine, di elementi minerali

e vitamine. Le Unità Foraggere Latte per quintale possono oscillare, in relazione alla

percentuale di sostanza secca, tra 22 e 26 (occorrono 4,0/4,5 kg di silomais per fornire una

Unità Foraggera Latte). Può essere utilmente impiegato, in quantità non superiore a 20 kg

al giorno, per il latte destinato all’alimentazione e di 15 kg al giorno per il latte destinato alla

produzione di grana padano. L’impiego di insilati è tassativamente proibito per la

produzione di latte destinato ad ottenere formaggio Parmigiano-Reggiano.

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Mangimi concentrati: sono alimenti che contengono per unità di peso una elevata quantità

di principi alimentari facilmente digeribili. I mangimi sono indispensabili per alimentare in

modo razionale tutti gli animali che hanno dei fabbisogni nutritivi elevati rispetto al loro

peso (vacche da latte con alte produzioni giornaliere, giovane bestiame destinato alla

rimonta, bestiame da carne). Non è infatti possibile soddisfare le esigenze di questi animali

soltanto con foraggio. In generale le Unità Foraggere, per vacche con una produzione

giornaliera di 20 kg di latte, possono derivare per il 70% dai foraggi e per il 30% dai

mangimi concentrati. Con vacche di più elevata produzione la quota dei concentrati potrà

aumentare fino a raggiungere anche il 50% delle Unità Foraggere necessarie. Oltre questo

limite possono insorgere disturbi metabolici.

Integratori: una razione non può considerarsi completa e bilanciata se non contiene in

giusta misura anche tutti gli elementi minerali e le vitamine indispensabili agli animali. I

minerali e le vitamine aggiunti ai foraggi verdi o secchi e ai mangimi concentrati svolgono

la funzione di integratori della razione la quale, pur potendo essere sufficiente per sostanze

nutritive digeribili e Unità Foraggere, può risultare povera di alcuni elementi minerali e di

vitamine. La carenza di alcuni elementi minerali e di vitamine può infatti compromettere lo

sviluppo scheletrico in animali giovani (rachitismo) oppure concorrere al manifestarsi, nelle

manze e nelle vacche, di fenomeni di scarsa fertilità o di sterilità, oltre a zoppie, anemia,

malformazioni ossee, ecc.

Alimentazione delle vitelle destinate alla riproduzione

Le vitelle desinate alla carriera produttiva (produzione di latte e vitelli) vengono svezzate a 80/85

giorni di età. L’alimentazione, dopo lo svezzamento, deve essere sostanziosa e di poco volume per

passare poi gradualmente a foraggi più grossolani e di basso livello energetico, per costringere le

vitelle ad ingerire discrete quantità di alimenti, tali da da stimolare la “ginnastica” dell’apparato

digerente e del rumine.

Esempio di razionamento delle vitelle destinate alla riproduzione

Svezzamento a 12 settimane (84 giorni)

Età

Quantità di alimento

Latte lt. Mngime concentrato Fieno

Colostro

materno Latte intero

Latte

ricostituito

diluito 1:10

Tipo

avviamento

Tipo

svezzamento

1° giorno 1,5

2° giorno 2,5

3° giorno 3,0

4° giorno 3,5

5° giorno 4,0

6° giorno 4,5

7° giorno 5,0

2^ settimana 6 - 8 0,100

3^ settimana 8 - 9 0,200 A volontà

4^ settimana 9 - 10 0,300 A volontà

6^ settimana 9 - 10 0,600 A volontà

8^ settimana 9 - 10 0,800 A volontà

10^ settimana 8 - 9 1,200 A volontà

12^ settimana 6 - 7 1,500 A volontà

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Alimentazione delle manze

Al fine di portare la manza nelle migliori condizioni possibili (sviluppo corporeo e mammario,

fertlità e produzione lattea) al primo parto è indispensabile adottare idonei piani alimentari, in grado

di modulare al meglio l’accrescimento (Indice Ponderale Giornaliero). Considerando che il

momento per ingravidare la manza è legato, oltre che all’età, al suo peso vivo, l’obiettivo

dell’alimentazione è di arrivare a questo peso il più precocemente possibile, pur salvaguardando il

raggiungimento delle idonee condizioni fisiologiche.

Esempio di fabbisogno delle manze in funzione del peso vivo

Peso vivo

kg Incremento Ponderale Giornaliero

gr. Quantità giornaliera

Unità Foraggere Latte (UFL)

200 650 3,3

250 650 3,8

300 650 4,2

350 700 5,4

400 700 6,6

450 750 6,5

500 750 7,0

Esempio di razione “unifeed” per manze in funzione del peso vivo

Peso vivo

kg

Incremento Ponderale

Giornaliero

gr.

Quantità giornaliera di

alimento

kg

Unità Foraggere Latte

(UFL) giornaliere

Da 200 a 300 650

Fieno 0,90 0,52

Silomais 5,00 1,25

Paglia di frumento 0,75 0,28

Farina di orzo 0,70 0,60

Pastone di mais 1,00 0,70

Mangime concentrato 0,70 0,70

Totale UFL 4,05

Da 350 a 400 700

Fieno 1,20 0,70

Silomais 9,00 2,25

Paglia di frumento 1,20 0,45

Farina di orzo 1,00 0,85

Pastone di mais 1,20 0,84

Mangime concentrato 0,80 0,80

Totale UFL 5,90

Da 400 a 500 750

Fieno 1,40 0,80

Silomais 11,00 2,75

Paglia di frumento 1,20 0,45

Farina di orzo 1,00 0,85

Pastone di mais 1,50 1,05

Mangime concentrato 1,00 1,00

Totale UFL 6,90

Alimentazione delle lattifere in produzione Analizzando i fenomeni inerenti al metabolismo delle sostanze nutritive si può paragonare

l’organismo animale ad una macchina che trasforma carburante in energia motrice. Come nella

macchina infatti anche nell’animale avvengono continuamente trasformazioni di alimenti in

energia. Nella vacca da latte si trasformano foraggi e mangimi in latte e in carne.

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Non tutta la razione che quotidianamente viene somministrata agli animali è trasformata in latte e

carne, ma solo una parte di essa si traduce in “prodotto” perché l’altra o viene eliminata attraverso

le feci o serve all’animale per il proprio mantenimento e per il proprio “riscaldamento”.

Per un buon razionamento delle vacche occorre conoscere, seppur sommariamente, come funziona

il loro apparato digerente.

La parte di questo apparato che più interessa l’allevatore, al fine di razionalizzare le tecniche di

alimentazione, è senz’altro il rumine. Esso è da considerare come un vero laboratorio chimico di

importanza fondamentale per la salute e la produttività del bovino. I batteri presenti nel rumine

hanno il compito di cominciare una prima trasformazione della sostanza che l’animale ha masticato

grossolanamente e depositato nel rumine. In pratica i batteri scompongono le sostanze alimentari:

glucidi, proteine, ecc., contenute negli alimenti (erba, fieno, concentrati, ecc.) affinché queste siano

poi trasformate in carne e latte.

I batteri del rumine hanno bisogno di trovarsi in un ambiente a loro favorevole: l’ambiente idoneo è

garantito da una razione equilibrata per fibra grezza e sostanze proteiche.

I batteri, inoltre, devono essere in numero sufficiente e nelle diverse specie richieste dai vari tipi di

alimento, perché ciascun gruppo di batteri ha la possibilità di lavorare soprattutto taluni composti.

Se si cambia di colpo la razione alimentare, dal fieno all’erba o viceversa, oppure se si aumenta

improvvisamente la quantità di concentrato, si provoca uno squilibrio. La prima regola

fondamentale, per un corretto razionamento delle bovine, è quella, dunque, di regolare l’attività

microbica del rumine in modo che la vacca sfrutti a pieno le sostanze nutritive della razione nelle

quantità e qualità più adatte alle sue produzioni, con piena sicurezza per la sua salute.

Nella pratica tale obiettivo si raggiunge attraverso alcune procedure basilari:

considerare i fabbisogni nutritivi degli animali, valutando attentamente le caratteristiche dei

foraggi e dei concentrati;

mantenere nel corso dell’anno il più possibile uniforme la razione;

nel caso di cambio della composizione della razione operare in modo graduale nel passaggio

da una razione all’altra;

somministrare i mangimi concentrati frazionandoli in più volte al giorno;

prestare attenzione al rapporto foraggi-mangimi della razione ed al suo contenuto in fibra

grezza.

Nella vacca da latte ciò risulta complesso perché le necessità, oltre che essere diverse da soggetto a

soggetto, variano nel corso della lattazione. Si distinguono per questo tre periodi fondamentali nel

ciclo fisiologico della bovina da latte:

1. periodo in cui la vacca è in asciutta;

2. la prima fase di lattazione (primi 90-100 giorni di lattazione);

3. la seconda fase di lattazione (restanti 200 giorni di lattazione)

* *

Parto Fecondazione - Asciutta -

0

5

10

15

20

25

30

35

40

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12

Lattazione

Alimentazione

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Il grafico rappresenta i tratti salienti del ciclo di lattazione.

La linea alta è la curva della lattazione; lo zero coincide col parto. Al momento del parto, la

curva mostra una forte impennata, prima cresce rapidamente poi, lentamente, diminuisce per

tornare a zero nel momento dell’asciutta.

La linea bassa indica i fabbisogni in energia.

Vacca in asciutta L’alimentazione corretta della vacca in asciutta è estremamente importante in quanto errori nutritivi

commessi in tale periodo possono avere ripercussioni gravi su tutta la lattazione. Alimentando bene

la vacca in asciutta si eviteranno problematiche come il collasso puerperale, la ritenzione della

placenta, le metriti, ecc. In questa fase bisogna inoltre costituire nell’animale buone riserve di

vitamine liposolubili (A-D-E) sia attraverso l’alimentazione che con apporti specifici.

In questo periodo la vacca non deve ingrassare ma nel contempo la si deve aiutare a recuperare la

piena funzionalità del rumine e del fegato, utilizzando prevalentemente foraggi fibrosi e pochi

concentrati.

Il controllo dell’ingrassamento della vacca deve consentire di perdere le sue “spigolosità” per

riassumere il peso-forma ed una leggera “messa in carne”, senza però ingrassare.

La vacca che arriva al parto non grassa, subito dopo il parto ha un buon appetito, o perlomeno ha

una ripresa dell’appetito in tempi brevi, e non presenta problemi per il suo ingravidamento

Uno' stato di eccessivo ingrassamento, invece, potrà essere causa di molti inconvenienti, sia durante

il parto che nella prima fase della lattazione, inconvenienti che vanno sotto la denominazione di

“sindrome della vacca grassa”.

“Circolo Vizioso” della Sindrome Vacca Grassa (SVG)

Un momento molto importante riguarda il periodo immediatamente precedente il parto, in cui

l’animale sta per passare dal periodo di riposo a quello della produzione del latte, con conseguente

sovraccarico di tutti gli organi interessati. In questo periodo si deve cercare di assuefare

progressivamente l’apparato digerente della vacca al consumo di elevati quantitativi di concentrato

e ad un nuovo tipo dello stesso. È qui che si deve usare la tecnica cosiddetta dello “steaming-up”

(rimettere la vacca in pressione). Le modalità pratiche di questa tecnica sono le seguenti: non

oltre 10-15 giorni prima del parto previsto (di solito al compimento del nono mese di gravidanza) si

aggiunge alla razione normale 1 kg di orzo ed in seguito si aumenta gradatamente l’orzo fino ad un

L’alimentazione troppo

energetica nel periodo

di asciutta può portare

a

eccessivo stato di

ingrassamento al parto,

cessazione della

lattazione quando la

gravidanza non è ancora

arrivata al 7° mese

infertilità ed inizio della

gravidanza oltre il 95°

giorno dal parto,

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totale complessivo di mangime e orzo di 3-4 kg all’epoca del parto.

Procedimento analogo si può seguire, anziché con l'orzo, con un altro tipo di concentrato, lo stesso

che si userà durante la lattazione (in tal caso si abolisce il tipo per asciutta).

Così facendo portiamo la vacca nella condizione ideale per affrontare la prima fase di lattazione.

Prima fase di lattazione È il periodo decisivo della carriera della vacca da latte (circa i primi cento giorni di lattazione); in

questa fase la bovina produce il 50% del latte e dovrà essere di nuovo ingravidata. In questo

periodo, la vacca non ha l’appetito sufficiente per poter ingerire tutta l’energia necessaria per il

soddisfacimento del fabbisogno (il maggior appetito per le bovine si avverte nel corso del 3°/5°

mese di lattazione, mentre la produzione massima di latte si ottiene nel 2° mese di lattazione,

quando l’appetito è minore). Le vacche in questo periodo dimagriscono in quanto, per far fronte alle

esigenze della produzione, consumano le proprie riserve corporee. Un’alimentazione accorta, per

questa fase, dovrà avere come scopo quello di permettere alla bovina un calo di peso non superiore

all’8-10%. Se il dimagrimento è maggiore si costringe il fegato a lavorare eccessivamente per

trasformare i molti grassi mobilizzati compromettendone la funzionalità.

Dopo il parto dobbiamo adeguare l’alimentazione in modo da somministrare una razione ricca di

energia per giungere, molto gradualmente, a quantità lievemente superiori rispetto a quelle che

realmente servono. Ciò si consegue somministrando foraggi molto digeribili ed altamente

energetici, unendo una quantità di concentrato gradualmente crescente in funzione della quantità di

latte prodotto fino a spingere al massimo livello la curva di lattazione cercando di anticipare

leggermente la copertura dei fabbisogni (ciò non prima di 35/40 giorni dal parto). Particolare

attenzione e particolare preparazione e cura in questa fase deve essere rivolta verso le primipare le

quali, non avendo ancora raggiunto una capacità digestiva sufficiente per far fronte alla nuova

produzione, potrebbero trovarsi in difficoltà.

Seconda fase di lattazione Per la seconda fase della lattazione i problemi alimentari non sono molti. A questo punto dovremmo

avere la bovina già ingravidata ed in fase calante di produzione. In questo periodo si deve

conservare il peso dell’animale (a fine lattazione il peso dev’essere sostanzialmente quello che

aveva a inizio lattazione). Se nella prima fase di lattazione i fabbisogni della vacca erano superiori a

quello che la stessa poteva ingerire, in questa fase la situazione si inverte: ad un abbassamento della

produzione non corrisponde una uguale diminuzione della capacità digestiva. Di conseguenza è in

questo periodo che la bovina deve riacquistare il “peso forma” e deve reintegrare le perdite di

proteine, di vitamine e minerali. Se il recupero del peso avviene in questa fase di lattazione e non

nelle fasi di asciutta si hanno maggiori garanzie di efficienza nell’utilizzazione dell’energia.

Come calcolare la razione alimentare Per un corretto calcolo della razione alimentare è necessario conoscere il valore nutritivo degli

alimenti, intendendo la capacità di trasformazione degli stessi alimenti in latte, carne, grasso, ecc…

In generale per misurare il valore nutritivo degli alimenti si parla di Unità Foraggera (UF) e in

particolare di Unità Foraggera Latte (UFL), nel caso di produzione di latte.

1 UFL corrisponde al valore nutritivo di 1 kg di orzo o a ca. 2 kg di fieno di prato normale.

1 UFL permette di produrre ca. 2,8 kg di latte al 3,5% di grasso.

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Valore nutritivo di alcuni principali alimenti

Principali alimenti Kg di

alimento

S.s.

kg/kg di

alimento

U.F.

kg di alimento

U.F.L

kg di alimento

U.F.C

kg di alimento

Protidi grezzi

gr/kg di alimento

Semi di cereali e leguminose

Orzo 1 0,867 1,00 0,98 0,97 90

Avena 1 0,878 0,82 0,75 0,86 90

Mais Plata 1 0,875 1,05 1,02 1,03 90

Sorgo 1 0,871 1,00 1,02 1,02 90

Soia 1 0,896 1,07 1,12 1,07 90

Farine concentrati

Arachide 1 0,906 1,00 1,00 1,00 90

Girasole 1 0,910 0,79 0,87 0,80 90

Colza 1 0,905 0,81 0,85 0,82 90

Soia 1 0,894 1,00 1,01 1,00 90

Manioca 1 0,916 1,01 1,03 1,02 90

Mangime 1 0,900 1,00 1,00 1,00 90

Valore nutritivo di alcuni principali alimenti

Principali alimenti Kg di

alimento

S.s.

kg/kg di

alimento

U.F.

kg di alimento

U.F.L

kg di alimento

U.F.C

kg di alimento

Protidi grezzi

gr/kg di alimento

Foraggi verdi

Medica

(prima della fioritura) 1 0,240 0,13 0,15 0,14 45

Medica

(in fioritura) 1 0,240 0,12 0,14 0,13 35

Sorgo da foraggio 1 0,190 0,11 0,14 0,13 20

Avena, orzo 1 0.230 0,12 0,14 0,13 20

Trifoglio 1 0,180 0,12 0,14 0,13 40

Principali alimenti Kg di

alimento

S.s.

kg/kg di

alimento

U.F.

kg di alimento

U.F.L

kg di alimento

U.F.C

kg di alimento

Protidi grezzi

gr/kg di alimento

Insilati

Mais ceroso 1 0,280 0,22 0,25 0,23 20

Orzo ceroso 1 0,350 0,19 0,24 0,21 20

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La vacca da latte deve essere alimentata, durante l’anno, in modo diverso al fine di armonizzare,

nelle varie fasi del ciclo produttivo, i fabbisogni con le esigenze produttive. Nel piccolo allevamento a stabulazione fissa è praticamente possibile effettuare un’alimentazione

individuale somministrando quantitativi di concentrato adeguati alle esigenze e i foraggi “ad

libitum” (a volontà).

Nei medi e grandi allevamenti, allorché non si è più in grado di riconoscere animale per animale e

praticare il razionamento individuale, per risolvere gran parte di questi problemi, si possono

adottare due tecniche di alimentazione:

1. l’alimentazione per gruppi omogenei (le vacche vengono spostate da un gruppo all’altro

quando si modifica la loro produzione e di conseguenza il loro fabbisogno alimentare);

2. l’uso di autoalimentatori (particolari dispositivi meccanici ed elettronici in grado di

distribuire il mangime concentrato in quantità corrispondenti alle esigenze di ogni singola

vacca).

Alimentazione per gruppi

In questa tecnica vengono formati almeno tre gruppi di bovine, anche se ogni allevatore può

comunque determinare la formazione di altri gruppi.

I tre gruppi sono:

1. bovine in fase di prima lattazione;

2. quelle nella seconda fase di lattazione;

3. quelle in asciutta.

Le bovine dei tre gruppi fondamentali saranno alimentate in modo diverso fermo restando che

l’alimentazione di base di ciascun gruppo rimarrà sempre costante, mentre quella delle singole

vacche cambierà in funzione del livello produttivo. Praticamente in un allevamento a stabulazione

libera con tre gruppi di bovine il “meccanismo teorico” potrebbe così funzionare:

la bovina che compie i nove mesi di gravidanza può essere spostata dal gruppo delle asciutte

al gruppo delle vacche in seconda fase di lattazione, in tale gruppo resta fino ad una

settimana dopo il parto;

una settimana dopo il parto viene destinata al gruppo delle vacche in 1^ fase di lattazione;

Triticale ceroso 1 0,330 0,18 0,23 0,20 20

Fieni, paglie

Fieno di prato stabile

buono

1 0,865 0,47 0,58 0,48 97

Fieno di prato stabile

normale

1 0,885 0,43 0,54 0,44 92

Fieno di medica 1 0,875 0,44 0,54 0,46 120

Fieno di trifoglio 1 0,863 0,46 0,59 0,50 150

Paglia di frumento 1 0,878 0,21 0,38 0,27 20

Paglia di frumento +

NH3 1 0,860 0,26 0,46 0,35

20

Paglia di orzo 1 0,876 0,24 0,39 0,30 20

Paglia di avena 1 0,880 0,25 0,42 0,33 20

Stocchi di mais 1 0,855 0,27 0,49 0,39 18

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dopo tre mesi circa ritorna nel gruppo delle vacche in seconda fase e successivamente al

gruppo delle vacche in asciutta.

Unifeed

La tecnica migliore di somministrazione della razione, come nell’allevamento intensivo del

vitellone, è l’“unifeed”, tecnica di alimentazione che prevede la somministrazione di razioni

complete e bilanciate, opportunamente trinciate e miscelate, somministrate a volontà a gruppi

omogenei di bovine.

I vantaggi più evidenti consistono in una più semplice preparazione e somministrazione della

razione, in una diminuzione dei fenomeni di competizione e di disturbo alla mangiatoia e di

impossibile selezione da parte dell’animale di un determinato alimento più gradito.

La disponibilità “ad libitum” degli alimenti consente altresì un numero più elevato di pasti che,

insieme alla costante ed equilibrata miscelazione dei componenti, determina una maggiore costanza

del pH e dei fenomeni biochimici che avvengono nel rumine. Si ha quindi, globalmente, una

maggiore tranquillità degli animali e una diminuzione delle disfunzioni metaboliche e delle malattie

connesse (acetonemia, acidosi, malattie del fegato e della mammella, ecc.).

Raramente però risulta possibile applicare il vero e proprio unifeed, cioè l’alimentzione esclusiva in

mangiatoia con le 2-3 miscelate giornaliere. La dimensione media delle nostre aziende non dispone

infatti di un numero complessivo di lattifere tale da consentire la formazione di diversi gruppi

omogenei, necessari per una corretta alimentazione collettiva.

Una tecnica alternativa al piatto unico può essere la somministrazione con il carro miscelatore

della sola parte della razione di base (foraggi) mentre i mangimi concentrati verranno forniti, ad

ogni singola bovina, attraverso l’uso degli autoalimentatori.

GRUPPO 1

ASCIUTTA

GRUPPO 2

I^ LATTAZIONE

GRUPPO 3

II^ LATTAZIONE

Dopo circa una settimama

dal parto la vacca viene

spostata al gruppo di I^

lattazione

Al 9° mese di gravidanza la

vacca viene spostata dal

gruppo di asciutta al

gruppo di II^ lattazione

Dopo circa tre mesi la

vacca torna al gruppo di

II^ lattazione

Al termine della lattazione

la vacca torna al gruppo di

asciutta

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Gli autoalimentatori sono particolari tramoggie o stazioni di alimentazione che consentono una

distribuzione dei concentrati nell’arco delle 24 ore a seconda del fabbisogno di ciascuna bovina.

Dal punto di vista tecnico gli autoalimentatori rappresentano un’ottima soluzione, considerando

però il loro elevato costo se ne giustifica l’impiego solamente per le bovine in prima fase di

lattazione e per gli animali ad alta genealogia dei quali sia conveniente massimizzare la capacità

produttiva individuale.

Schema di somministrazione di concentrato con autoalimetatore (disegno Alfa-Laval)

Calcolo della razione

Fabbisogni nutritivi delle bovine da latte

Fabbisogno giornaliero di

mantenimento

U.F.L.

(0,80 x 100 kg

di p.v.)

Proteina grezza

gr.

(80 gr. x 100 kg

di p.v.)

Calcio

gr.

(3,75 gr. x 100 kg

di p.v.)

Fosforo

gr.

(3,45 gr. x 100

kg di p.v.)

S. s.

kg

(2% sul p.v.)

Vacche di 400 kg di peso 3,2 320 15 14 8

Vacche di 500 kg di peso 4,0 400 19 17 10

Vacche di 600 kg di peso 4,8 480 22 20 12

Vacche di 700 kg di peso 5,6 560 26 24 14

Fabbisogno giornaliero

per lattazione

U.F.L.

(x ogni kg di

latte prodotto)

Proteina grezza

gr.

(x ogni kg di

latte prodotto)

Calcio

gr.

(x ogni kg di latte

prodotto)

Fosforo

gr.

(x ogni kg di

latte

prodotto)

S. s.

kg

(kg x ogni kg

di latte

prodotto)

Latte al 3,0% di grasso 0,33 77 2,5 1,7 0,26

Latte al 3,4% di grasso 0,35 78 2,6 1,7 0,27

Latte al 3,8% di grasso 0,38 80 2,7 1,8 0,28

Latte al 4,2% di grasso 0,40 85 2,8 1,8 0,30

Latte al 4,6% di grasso 0,43 90 2,9 1,9 0,30

Integrazione giornaliera

per gravidanza

U.F.L.

Proteina grezza

gr.

Calcio

gr.

Fosforo

gr.

Al 6° mese di gestazione 0,5 120 2 1

Al 7° mese di gestazione 0,9 250 7 4

Al 8° mese di gestazione 1,5 380 12 7

Al 9° mese di gestazione 2,5 500 22 12

Integrazione giornaliera

per acrescimento

U.F.L.

Proteina grezza

gr.

Calcio

gr.

Fosforo

gr.

200 gr./giorno 0,5 100 1 -

400 gr./giorno 1,0 200 2 1

600 gr./giorno 1,5 300 2 1

800 gr./giorno 2,0 400 3 2

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Il razionamento si effettua stabilendo, sulla base dei fabbisogni alimentari di ogni capo, o per gruppi

di capi, le esigenze giornaliere in termini di unità foraggere, di proteine grezze, di calcio e di

sostanza secca.

L’alimentazione delle vacche da latte si basa essenzialmente sulla somministrazione di fieno (erba

medica, prato polifita, ecc.) e insilato di mais. Quest’ultimo come già detto è assolutamente vietato

nell’alimentazione di bovine da latte per la produzione di parmigiano reggiano, mentre è consentito

nella produzione di latte da consumo diretto o destinato alla produzione di formaggi, nel cui

disciplinare è consentito.

Non essendo possibile soddisfare le esigenze degli animali soltanto con foraggio, la razione va

integrata con la distribuzione di mangimi composti concentrati, solitamente acquistati sul mercato,

In generale le Unità Foraggere Latte, per vacche con una produzione giornaliera di 20 kg di latte,

possono derivare per il 70% dai foraggi e per il 30% dai mangimi concentrati.

Con vacche di più elevata produzione la quota dei concentrati potrà aumentare fino a raggiungere

anche il 50% delle Unità Foraggere necessarie. E’ però opportuno non oltrepassare questo limite

per evitare l’insorgere di disturbi metabolici.

Le vacche a più elevata produzione vengono perciò alimentate con razioni contenenti circa il 40-

50% di concentrati sulle Unità Foraggere totali, mentre negli altri gruppi si effettua un crescente

apporto di foraggi a scapito dei concentrati. Tale tecnica permette, evidentemente, da un lato di fare esprimere alle vacche tutta la loro

potenzialità produttiva e dall’altro una razionalizzazione dell’impiego dei concentrati.

Esempio di calcolo di una razione alimentare di una bovina del peso di 600 kg, con una

produzione di 25 kg di latte, al 3,8% di grasso

Il fabbisogno alimentare della bovina in lattazione, del peso di 600 kg, con una produzione di 25 kg

di latte, al 3,8% di grasso, risulta perciò di 12,40 U.F.L., 19 kg di S.s., 2.635 gr. di protidi grezzi.

Considerando che si tratta di una fase calante di produzione, ma ancora superiore ai 20 lt/giorno, si

ipotizza di somministrare circa il 40% della razione con mangimi concentrati e il restante 60% con

foraggi.

Nel calcolo della razione è importante ricordare che l’insilato di mais può essere utilmente

impiegato, in quantità non superiore a 20 kg al giorno, per il latte destinato all’alimentazione e di 15

kg al giorno per il latte destinato alla produzione di grana padano, mentre è tassativamente proibito

per la produzione di latte destinato ad ottenere formaggio Parmigiano-Reggiano, per cui in funzione

della destinazione del latte la razione potrà contenere insilato di mais oppure no.

Fabbisogni alimentari di una vacca del peso di 600 Kg e che produce 25 litri di latte al giorno al 3,8% di

grasso

Unità Foraggere

Latte (n.)

Sostanza Secca

(Kg)

Protidi Grezzi

(gr)

Calcio

(gr)

Fosforo

(gr)

Mantenimento 0,80 x 6 = 4,80 600 x 2,0% = 12,00 80 x 6 = 480 3,75 x 6 = 22,5 3,45 x 6 = 20,7

Produzione 0,38 x 25 = 9,50 0,28 x 25 = 7,00 80 x 25 = 2.000 2,7 x 25 = 67,5 1,8 x 25 = 45,0

Totale 12,40 19,00 2.480 90,0 65,7

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Alimento Valore nutritivo per kg di alimento

U.F.L. S.s. kg Protidi gr.

Mangime concentrato 1,00 0,90 90

Fieno di prato stabile 0,50/0,56 0,87 97

Mais insilato 0,23/0,24 0,280 20

Medica verde 0,13/0,14 0,240 40

Esempio di calcolo di razione alimentare di una vacca del peso di 600 Kg e che produce 25 litri di latte al giorno

al 3,8% di grasso, destinato all’alimentazione

Peso

vivo

kg

Produzione

giornaliera di

latte al 3,8%

di grasso

kg.

Quantità

giornaliera di

alimento

kg

%

giornaliera

di alimento

(UFL)

giornaliere

%

giornaliera

di UFL

S.s.

giornaliera

kg

Protidi

giornalieri

gr.

600 25

Mangime 4,96 4,96 40% 4,46 447

Fieno 4,70 2,35 4,09 460

Silomais 8,00 1,84 2,24 180

Medica 25,00 3,25 7,00 1.000

Totale 100% 12,40 100% *17,80 *2.100

Esempio di calcolo di razione alimentare di una vacca del peso di 600 Kg e che produce 25 litri di latte al giorno

al 3,8% di grasso, destinato alla produzione di formaggio Parmigiano Reggiano

Peso

vivo

kg

Produzione

giornaliera di

latte al 3,8%

di grasso

kg.

Quantità

giornaliera di

alimento

kg

%

giornaliera

di alimento

(UFL)

giornaliere

%

giornaliera

di UFL

S.s.

giornaliera

kg

Protidi

giornalieri

gr.

600 25

Mangime 4,96 4,96 40% 4,46 447

Fieno 7,34 3,67 6,40 712

Medica 29,00 3,77 6,96 1.160

Totale 100% 12,40 100% *17,82 *2.319

* Con percentuali alte di mangimi concentrati risulta difficoltoso raggiungere il valore massimo di

sostanza secca e di protidi grezzi

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Principali razze bovine da latte

Frisona Italiana

L'area di origine è la Pianura Padana. La Frisona Italiana è derivata da quelle Olandese e Nord

Americana. Le prime importazioni risalgono al 1870.

Morfologicamente si contraddistingue per il mantello pezzato nero o pezzato rosso, la statura alta,

la testa proporzionata, distinta e vigorosa, profilo superiore rettilineo, occhi vivaci, orecchie molto

mobili, narici larghe e musello ampio e forti mascelle. Anteriore armonico, collo allungato, sottile e

ricco di pliche cutanee, garrese ben serrato, pronunciato e affilato, spalle fuse con il collo; petto

forte e ampio. Arti anteriori in appiombo e ben distanziati. Piedi forti e con alta suola. Linea dorsale

rettilinea con lombi larghi e forti.

Groppa lunga e livellata; coda piuttosto sottile. Arti posteriori in appiombo, forti e asciutti; piedi

forti, ben serrati con suola alta. Natiche con profilo rettilineo; garretti larghi e piatti. Mammella

saldamente attaccata, vene addominali prominenti e tortuose, vene mammarie molto ramificate non

troppo grosse e ramificate, tessuto spugnose ed elastico. Legamento sospensorio mediano forte che

divide nettamente la mammella in due parti uguali. Capezzoli perpendicolari, di giuste dimensioni,

inseriti al centro di ciascun quarto.

Il peso della femmina adulta varia da 550 a 900 kg.

La lunghezza media della gravidanza è di 287 giorni.

I vitelli pesano dai 40 kg fino a oltre 50 nei maschi.

Produzione media varia da 70 a 80 q.li di latte, con punte molto superiori.

Poco propensa alla produzione di carne.

Frisona Olandese

Originaria delle regioni costiere del nord dell'Olanda (in particolare Frisia). Il nome internazionale è

Friesian. Dalla metà del 1800 è famosa per l'alta produzione di latte, per cui si sviluppò un fiorente

commercio di bestiame.

In Olanda rappresenta quasi i 3/4 del bestiame allevato.

Morfologicamente si contraddistingue per il mantello pezzato nero (in genere prevale il bianco).

Arti in genere bianchi. Corna corte. Animale armonico e pieno.

La Frisona Olandese attuale è un animale robusto, di eccellente struttura, con arti forti e ottimi

piedi.

Dalla fine degli anni '70 si ha l’impiego di tori e seme Holstein-Friesian (Nord America) e Frisona

Italiana, con aumento di statura e taglia e miglioramento dei caratteri lattiferi. Per questo la vacca

olandese ha ora le caratteristiche di tutte le Frisone del mondo.

Straordinarie capacità lattifere, specialmente quantitative (ottimo il titolo in grasso).

Viene ritenuta delicata, necessitando di un adeguato management e alimentazione. In caso contrario

fornisce produzioni mediocre.

Bruna Italiana

La razza Bruna allevata in Italia rappresenta il ceppo italiano della razza Bruna Alpina, derivato

dall'introduzione di soggetti svizzeri, austriaci ed in parte bavaresi, adattatisi ai nostri ambienti e,

specialmente negli ultimi anni, rinsanguato con il ceppo americano Brown Swiss.

In generale il maggior numero di allevamenti di razza Bruna è situato in zone particolarmente

sfavorite di montagna e collina. Oggi, però, grazie alla migliorata attitudine al latte, anche

allevamenti di una certa importanza utilizzano il “nuovo” ceppo della Bruna Italiana.

Morfologicamente si contraddistingue per la presenza di Animali armoniosi dal mantello di colore

uniforme, bruno o variabile dal sorcino al castano. Musello ardesia circondato da un alone bianco.

Corna fini e bianche alla base, nere in punta. Vitello grigio nei primi tre mesi.

Peso vivo 550 - 700 Kg.

Nei tori il mantello è più scuro (castano).

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La differenza nella produzione di latte tra primipare e pluripare è relativamente modesta (in passato

era un grosso difetto la bassa produzione delle primipare).

La produzione di latte varia dai 55 ai 60 e oltre q.li/lattazione.

Buona attitudine casearia del latte perché nel patrimonio genetico della razza c'è una ridotta

presenza di allele A della k-caseina (che influenza negativamente la coagulazione del latte).

Più che discreta l'attitudine alla produzione di carne. In passato recente, era utilizzata come razza a

duplice attitudine. Con l'impiego della Brown Swiss aumentano notevolmente le caratteristiche

lattifere.

Ayrshire

Originaria della Contea di Ayr, nei pressi di Glasgow nel sud-est della Scozia. Si ritiene discenda da

bovini celtici. Apprezzata come lattifera perché produce un latte particolarmente adatto alla

caseificazione (cagliata fine - globuli piccoli). Esportata in tutto il mondo e in particolare nel Nord

America (Stati Uniti e Canada), Finlandia e Svezia. Elevata adattabilità al pascolo in tutti gli

ambienti (specie nei climi freddi).

Il colore del mantello è pezzato rosso, mogano o marrone. Le macchie sono irregolari e il bianco

prevale nettamente. Il fiocco della coda è bianco. Musello roseo o rosso carnicino. Corna di

lunghezza media, rivolte in alto e avanti (a forma di lira).

Animali di taglia media: femmine: 550-600 kg; maschi: 850-900 kg.

Ottime capacità lattifere, quantitative e qualitative, per tenore di grasso e proteine.

Mediocre l'attitudine alla produzione di carne.

Buone precocità come sviluppo somatico e sessuale.

Buona fertilità e non presenta problemi al parto.

Jersey

Originaria dell'isola omonima nel canale della Manica. Il numero totale di capi di razza Jersey oggi

è circa 8 milioni diffusi in tutti i continenti.

Il mantello è di colore fromentino, dal bruno scuro al giallo chiaro e spesso con zone di peli bianchi

su fianchi e ventre. Il fiocco della coda è nero. Spesso peli neri sulla testa. Alone bianco intorno al

musello nero.

Di taglia ridotta, è tra le più piccole razze bovine allevate: femmine: 350-400 kg; maschi: 450-600

kg.

Animale molto spigoloso, con profili piatti o concavi. Testa piccola con arcate sovraorbitali molto

prominenti, collo sottile. Tronco triangolare. Pelle molto fine; scheletro fine. Arti sottili ma

legamenti robusti.

Ottime capacità lattifere, quantitative e qualitative, per tenore di grasso e proteine. Scarsissima

attitudine alla carne.

Adattabile alle più svariate condizioni climatiche.

Molto precoce come sviluppo somatico e sessuale (primo parto molto anticipato). Molto longeva e

non presenta problemi al parto.

Come composizione del latte è la migliore razza in assoluto. Il latte della Jersey però non è adatto

alla caseificazione per la grossezza dei globuli di grasso (ottimo invece per il burro).

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7 ZOOTECNIA 7.3 ALLEVAMENTO BOVINI DA CARNE

Tecnica di allevamento dei

bovini da carne

Generalità In Italia vengono allevati circa 7.5 milioni di capi bovini, in allevamenti principalmente distribuiti

nel nord Italia (Lombardia, Emilia Romagna, Veneto). La macellazione può avvenire a diverse età e pesi a seconda delle caratteristiche delle carni

richieste.

Qualitativamente nella carne il consumatore esige: tenerezza, succosità e gustosità.

Tenerezza: è di facile rilevamento e diminuisce con il progredire dell’età dell’animale ed è

favorita dall’alimentazione intensiva.

Succosità: dipende essenzialmente dalla marezzatura (quantità di grasso perimuscolare ed

intramuscolare).

Gustosità: caratteristica soggettiva, variabile in funzione dei gusti dei consumatori. In

generale è maggiore nella carne proveniente da animali maturi e diviene più marcata con il

progredire della adiposità.

Dal punto di vista economico, è da preferire la macellazione di animali giovani (10-12 mesi di età)

in quanto, oltre a spuntare sul mercato un prezzo più remunerativo, esprimono rispetto ai capi più

adulti maggiori capacità di accrescimento e più favorevole incremento ponderale medio con

conseguente diminuzione dei costi di produzione. E’ infatti nella giovane età che si ha un forte

sviluppo dei tagli pregiati (fin verso l’undicesimo mese di vita si sviluppa la regione dorso-lombare

mentre dopo aumenta l’addome e gli arti e si allungano le costole).

Il valore delle carni bovine è valutato sia dalla qualità che dalla quantità prodotta e dipende:

dalla razza, dall’età, dal sesso;

dalla genetica (velocità di accrescimento o precocità); (attitudine produttiva: sviluppo di

talune parti e regioni del corpo);

dal sistema di allevamento;

dall’alimentazione (livello nutritivo della dieta giornaliera).

Sempre in funzione delle caratteristiche qualitative si può affermate che:

la quantità di ossa più elevata è fornita dalle razze da latte; mentre quella più bassa riguarda

le carcasse delle razze da carne;

la minore quantità di grasso presente nelle carcasse viene fornita dai bovini di razze da

carne; mentre la più elevata è quella presente nelle carcasse dei bovini di razze lattifere;

la percentuale più elevata di tagli di qualità è ottenuta dai bovini di razze da carne; mentre la

più bassa è quella fornita dalle carcasse dei bovini da latte.

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Tipologie produttive

Vitello da latte a carne bianca

È un vitello di 6 mesi d’età macellato al peso di 200-250 kg. Generalmente vengono utilizzati dei

vitelli scolostrati, dell’età di 8-10-15 giorni e di 40-45 kg di peso, che eccedono il fabbisogno per la

rimonta della propria stalla o che non sono adatti per la rimonta stessa o per la vendita quali

riproduttori.

Vitellone precocissimo o “Barley-beef”

È un vitello di 8-11 mesi d’età da macellare al peso di 300-350 kg di peso. Vengono definiti Barley-

beef per gli inglesi e Ultra baby-beef o Children-beef per gli americani. Sia in Inghilterra che in

America sono stati studiati specifici metodi per la produzione di di tale tipologia.

Il vitellone precoce o “Baby-beef”

È un vitello di 11-14 mesi d’età da macellare al peso di 400-450 kg di peso.

Il vitellone

E’ un vitello di 15-18 mesi d’età da macellare al peso di 500-600 kg di peso.

La produzione di questo tipo di bovino prevede quasi esclusivamente l’acquisto di animali (razze

specializzate da carne) di peso diverso (normalmente 250-300 kg) da ristallare e portare al peso

finale di macellazione che, per il vitellone, oscilla fra i 500 e i 600 kg.

La produzione è legata inoltre ad elevate disponibilità di foraggi aziendali (soprattutto mais).

Il 90% circa dei bovini allevati in Italia per la produzione di carne è di provenienza estera, e di

questi la maggior parte proviene dalla Francia e da paesi dell’Est Europeo.

Tipologie produttive

Denominazione Età finale (mesi) Peso (kg)

Vitello da carne bianca 6 200-250

Vitellone precocissimo (o Barley-beef) 8-11 360-420

Vitellone precoce (o leggero o Baby-beef) 11-14 420-500

Vitellone (o vitellone pesante) 14-18 500-650

Torelli 18-24 650-800

In funzione del loro peso i bovini acquistati per il ristallo (razze specializzate da carne) si dividono

nelle seguenti categorie:

Baliotti, del peso che va dai 70-80 kg,

Broutards, dal peso variabile dai 250 kg ai 300 kg.

Fasi dell’allevamento del bovino da carne

Svezzamento: fase in cui il vitello baliotto sviluppa l’apparato digerente da monogastrico a

poligastrico. Lo svezzamento intensivo è rappresentato dalla somministrazione del latte

ricostituito agli animali. La durata di tale fase è variabile da un minimo di 60 giorni ai 90-

100 giorni, ed è in funzione del peso iniziale e delle scelte gestionali dell’allevatore.

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Ristallo: periodo preparatorio alla fase di ingrasso di animali che provengono generalmente

dal pascolo: i cosiddetti broutard. Di fondamentale importanza in tale fase è poter disporre

di un mangime caratterizzato da un elevato tenore di fibra altamente digeribile, da un’ottima

integrazione minerale e vitaminica e da un corretto tenore proteico con fieno e/o paglia a

disposizione.

Ingrasso: fase di finissaggio dove i bovini raggiungono il peso finale di macellazione.

Alimentazione bovini da carne Svezzamento

Lo svezzamento è la fase in cui il vitello baliotto sviluppa l’apparato digerente da monogastrico a

poligastrico, che deve avvenire nel minor tempo possibile. In questa fase ha inizio la

somministrazione di alimenti dietetici per favorire la formazione dell’apparato prestomacale dei

vitelli. E’ comunque importante non azzerare la somministrazione del latte, il quale garantirà

l’apporto di macro e micronutrienti in maniera equilibrata al fine di ottenere uno sviluppo armonico

della massa corporea.

L’elemento caratterizzante dello svezzamento intensivo è quindi rappresentato dalla

somministrazione del latte ricostituito agli animali.

La durata di tale fase è variabile da un minimo di 60 giorni ai 90-100 giorni: tale periodo è in

funzione del peso iniziale e delle scelte gestionali dell’allevatore.

Il programma di svezzamento può essere tanto più tardivo quanto maggiori sono le attitudini

genetiche alla produzione della carne dei soggetti in questione: in pratica da un minimo di 70 giorni

per i polacchi fino ai 90 giorni per incroci francesi.

Alimentazione dei vitelli da latte a carne bianca (200-250 Kg)

Una volta questo ingrassamento era ottenuto frazionando, in diversi pasti durante la giornata, la

somministrazione del latte naturale. Dopo i primi 30 giorni di vita del vitello la dieta liquida a base

di latte veniva integrata con farine di cereali.

Attualmente l’ingrasso dei vitelli da latte avviene esclusivamente con latte ricostituito, adottando le

tecniche di detenzione in batteria.

Sono destinati all’ingrasso i vitelli, sia maschi che femmine, subito dopo il periodo colostrale, ad 8-

15 giorni, circa.

Durante le prime 24 ore dall’arrivo nell’allevamento, i vitelli sono tenuti digiuni, somministrando

loro soltanto 2-3 litri di acqua leggermente zuccherata. Nella seconda giornata ha inizio

l’alimentazione esclusivamente a base di latte ricostituito.

La carne richiesta dai consumatori è di colore rosa-chiaro e tenera per cui nell’allevamento dei

vitelli la qualità delle carni deve essere il primo obiettivo. Il colore rosa-chiaro è dovuto allo stato

anemico dipendente dall’alimentazione lattea e dalla mancanza, nel tipo di alimento usato,

dell’elemento ferro.

Poiché la polvere di latte ricostituito è totalmente priva di ferro, per raggiungere lo scopo occorre

che anche l’acqua da usare per la ricostituzione del latte non sia ferrugginosa. E’ però importante,

nella prima fase di allevamento, per favorire un armonico sviluppo dell’animale, integrare la dieta

con oligoelementi indispensabili (ferro compreso). Detta integrazione dovrà essere somministrata

per tutto il primo mese dell’ingrasso e quindi sospesa per i motivi precedentemente descritti.

Alimentazione del vitellone precocissimo o “mezzo lattone” (Barley-beef) (360-420 Kg)

Nella fase di avviamento i vitelli sono alimentati esclusivamente con latte ricostituito, fino a quando

raggiungono un peso di 70-80 kg. A cominciare dalla quarta settimana di vita è messa a

disposizione degli stessi vitelli una miscela di concentrati.

La fase di ingrasso ha inizio dopo che i soggetti hanno raggiunto un peso di 120-140 kg mettendo a

disposizione degli animali mangime ad “libitum”.

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E’ una tipologia di allevamento poco diffusa in Italia anche se la semplicità e la possibilità di

realizzare allevamenti intensivi indipendentemente dalle dimensioni e dalle disponibilità di alimenti

dell’azienda agricola (come per il vitello a carne bianca) potrebbe garantire equi profitti per

l’imprenditore.

Anche in questa produzione le esigenze sono di produrre carni bianco-rosate e i migliori risultati si

possono ottenere se si protrae per parecchi mesi, sia pure in piccole dosi, la somministrazione

liquida di latte ricostituito, ad integrazione dei mangimi concentrati.

La dieta ideale è quella secca, contenente concentrati amidacei e integrativi sufficienti a soddisfare

i fabbisogni nutritivi degli animali, ed infine una quantità minima di fibra necessaria al fine di

assicurare la salute degli stessi.

Alimentazione del vitellone (baby-beef) (420-500 Kg)

I giovani vitelli da latte destinati alla produzione di Baby-beef, durante l’allattamento, debbono

abituarsi per tempo ai mangimi concentrati ed a modiche quantità di buon fieno, per favorire un

conveniente sviluppo di tutto l’apparato digerente e, soprattutto, del rumine.

Gli alimenti per la produzione del baby-beef sono essenzialmente tre: latte ricostituito; miscele di

mangimi concentrati; fieno.

L’alimentazione liquida a base di latte ricostituito deve protrarsi fino ai 60 giorni di vita del vitello.

Il fieno deve far parte della razione giornaliera del vitello a cominciare dalla 2^/3^ settimana di vita.

Può essere somministrato a volontà, fino al peso di 230 kg, purché si abbia l’accortezza di utilizzare

Dell’ottimo fieno e di far sì che nella mangiatoia degli animali ve ne sia sempre in piccola quantità

e si asporti giornalmente la parte residua.

Dopo che l’animale avrà raggiunto i 230 kg di peso, la quantità di fieno giornaliera dovrà attestarsi

sui 2-3 kg. La miscela di mangimi concentrati deve essere composta in prevalenza da cereali (orzo

e mais schiacciati nonché pastone di mais) opportunamente integrati.

Alimentazione del vitellone (500-650 Kg)

E’ sicuramente la tipologia di allevamento più diffusa nel nostro paese.

Nel passato la tecnica adottata normalmente nella produzione del vitellone è sempre stata basata sul

concetto economico di far utilizzare all’animale, nella prima fase dell’allevamento, tutti gli alimenti

meno costosi, disponibili in azienda, salvo intensificare e migliorare qualitativamente

l’alimentazione nell’ultimo periodo dell’allevamento, cioè nel periodo di finissaggio.

E’ però stato dimostrato che solo mantenendo un livello nutritivo piuttosto alto si hanno, non solo

un più elevato accrescimento globale degli animali, ma un minor consumo di unità nutritive per

unità di incremento di peso ed anche più elevate caratteristiche delle carcasse e una miglior

composizione in carne magra, grasso ed ossa.

Pur non trascurando l’opportunità di utilizzare un prodotto aziendale di costo contenuto (per U.F.) è

bene bilanciare l’alimentazione integrandola con concentrati e nuclei proteici, minerali e vitaminici.

La somministrazione alimentare ai bovini da carne è funzione sia della razza allevata (specializzata

oppure rustica) che del conseguente tipo di allevamento praticato (intensivo oppure estensivo).

L’allevamento specializzato, di tipo intensivo, prevede che gli animali trascorrano tutto il tempo in

box e quindi devono essere alimentati esclusivamente in stalla.

L’alimentazione è basata prevalentemente sull’impiego prevalente di:

insilati di mais ceroso;

insilati di graminacee autunnali, con un’integrazione di fieno (soprattutto per innalzare il

contenuto fibroso della razione);

mangimi concentrati.

Se l’azienda è totalmente o prevalentemente irrigua, la coltura predominante, talvolta l’unica, è

quella del mais, che è utilizzato in parte come insilato a maturazione cerosa (70÷80%) ed in parte

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come granella (20÷30%), in quanto costituisce l’alimento di base più economico

nell’ingrassamento.

Se invece l’azienda è totalmente o quasi asciutta, la coltura predominante non può che essere una

graminacea autunno-invernale (sia foraggera che da granella) utilizzata in parte come fieno (20%),

in parte come granella.

L’ingrassamento con fieno e concentrati determina una produzione di carne qualitativamente

migliore, rispetto all’utilizzo di insilati e concentrati, grazie alla maggiore compattezza e

consistenza muscolare, alla colorazione più intensa ed al migliore sapore. Tale regime alimentare

risulta però più costoso (+ 20/30%) e non sempre la superiore qualità delle carni viene riconosciuta

e quindi apprezzata dal consumatore medio, col risultato di non venire giustamente remunerata con

un prezzo superiore.

Nella formulazione di un piano alimentare definito “alto” (con previsione di incrementi giornalieri

di 1,300/1,500 kg/giorno), è consigliabile fare entrare mangime concentrato in quantità pari a 1 kg

per q.le di peso vivo dell’animale nel primo periodo, per scendere gradualmente nel periodo finale

di finissaggio.

Tale razione giornaliera prevede quindi l’uso di foraggi aziendali (insilato di mais), mangimi

concentrati ed eventualmente polpa di bietola, pastone di mais e paglia di frumento.

Il tutto miscelato e distribuito in mangiatoia con il sistema del pasto unico, detto unifeed.

Unifeed

La tecnica della razione costante o “piatto unico” come viene chiamata in Italia, “unifeed” o

“complete diet” come la definiscono gli inglesi, è una tecnica di alimentazione che prevede la

somministrazione di razioni complete e bilanciate, opportunamente trinciate e miscelate,

somministrate a volontà a gruppi omogenei di animali.

In termini di Unità Foraggere la razione dovrà prevedere valori di 1,6/1,7 U.F. per q.le di peso vivo,

nel periodo dai 300 ai 450 kg di peso vivo, e di 1,4/1,6 U.F. per q.le nel periodo dai 450 ai 600 kg

di peso vivo.

Esempio di razionamento per vitello di 300 kg di pv con incremento ponderale medio

di 1,500 kg/giorno

Alimento Calcolo sul peso

vivo

Kg

di

alimento

% sulla

razione

Kg s.s. U.F.

Insilato di mais 2,33 % 7,00 56,91 7 x 0,28 = 1,96 7,00 x 0,22 = 1,54

Mangime concentrato Kg 1,0 x 3

(1 kg x 100 kg di pv)

3,00 32,52 4 x 0,90 = 3,60 3,00 x 1,00 = 3,00

Polpa di bietola 1,00 8,13 1 x 0,60 = 0,60 1,00 x 1,00 = 1,00

Paglia di frumento 0,30 2,43 0,30 x 0,90 = 0,27 0,30 x 0,21 = 0,06

Peso totale 12,30 100,00

Totale ostanza secca 6,50

Totale Unità Foraggere 5.60

Esempio di razionamento per vitello di 400 kg di pv con incremento ponderale medio

di 1,500 kg/giorno

Alimento Calcolo sul peso

vivo

Kg

di

alimento

% sulla

razione

Kg s.s. U.F.

Insilato di mais 2,60 % 10,40 66,60 10,4 x 0,28 = 2,92 10,4 x 0,22 = 2,28

Mangime concentrato Kg 0,45 x 4

(1 kg x 100 kg di pv)

1,80 11,58 1,8 x 0,90 = 1,62 1,80 x 1,00 = 1,80

Pastone di mais 3,00 19,26 3,0 x 0,60 = 1,80 3,00 x 0,80 = 2,40

Paglia di frumento 0,40 2,56 0,40 x 0,90 = 0,36 0,40 x 0,21 = 0,08

Peso totale 12,30 100,00

Totale ostanza secca 7,98

Totale Unità Foraggere 6.50

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Esempio di fabbisogno nutritivo nelle diverse fasi e con diversi incrementi gg

di peso vivo

Peso vivo/kg Incremento medio di kg 1,000/giorno

U.F S.s./kg Prot. dig./g

200 3,9 5,4 550

250 4,3 6,3 600

300 4,7 7,7 650

350 5,9 8,5 700

400 5,1 9,1 710

450 5,6 9,8 750

500 6,3 10,5 780

550 6,7 11,8 790

600 7,0 12,5 795

Incremento medio di kg 1,250/giorno

U.F S.s./kg Prot. dig./g

200 4,3 5,6 650

250 4,7 6,8 700

300 5,1 8,0 750

350 5,5 8,8 800

400 6,0 9,5 820

450 6,7 10,2 860

500 7,2 11,0 870

550 7,6 12,2 875

600 7,9 13,1 880

Incremento medio di kg 1,500/giorno

U.F S.s./kg Prot. dig./g

200 4,8 5,8 750

250 5,1 7,0 795

300 5,6 8,2 840

350 5,9 9,2 890

400 6,4 9,8 900

450 7,2 10,5 960

500 7,7 11,4 970

550 8,0 12,6 980

600 8,5 13,5 990

Valore nutritivo di alcuni principali alimenti

Principali alimenti Kg di

alimento

S.s.

kg/kg di

alimento

U.F.

kg di alimento

U.F.L

kg di alimento

U.F.C

kg di alimento

Protidi grezzi

gr/kg di alimento

Semi di cereali e leguminose

Orzo 1 0,867 1,00 0,98 0,97 90

Avena 1 0,878 0,82 0,75 0,86 90

Mais Plata 1 0,875 1,05 1,02 1,03 90

Sorgo 1 0,871 1,00 1,02 1,02 90

Soia 1 0,896 1,07 1,12 1,07 90

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Valore nutritivo di alcuni principali alimenti

Principali alimenti Kg di

alimento

S.s.

kg/kg di

alimento

U.F.

kg di alimento

U.F.L

kg di alimento

U.F.C

kg di alimento

Protidi grezzi

gr/kg di alimento

Farine concentrati

Arachide 1 0,906 1,00 1,00 1,00 90

Girasole 1 0,910 0,79 0,87 0,80 90

Colza 1 0,905 0,81 0,85 0,82 90

Soia 1 0,894 1,00 1,01 1,00 90

Manioca 1 0,916 1,01 1,03 1,02 90

Mangime 1 0,900 1,00 1,00 1,00 90

Foraggi verdi

Medica

(prima della fioritura) 1 0,240 0,13 0,15 0,14 45

Medica

(in fioritura) 1 0,240 0,12 0,14 0,13 35

Sorgo da foraggio 1 0,190 0,11 0,14 0,13 20

Avena, orzo 1 0.230 0,12 0,14 0,13 20

Trifoglio 1 0,180 0,12 0,14 0,13 40

Principali alimenti Kg di

alimento

S.s.

kg/kg di

alimento

U.F.

kg di alimento

U.F.L

kg di alimento

U.F.C

kg di alimento

Protidi grezzi

gr/kg di alimento

Insilati

Mais ceroso 1 0,280 0,22 0,25 0,23 20

Orzo ceroso 1 0,350 0,19 0,24 0,21 20

Triticale ceroso 1 0,330 0,18 0,23 0,20 20

Fieni, paglie

Fieno di prato stabile

buono

1 0,865 0,47 0,58 0,48 97

Fieno di prato stabile

normale

1 0,885 0,43 0,54 0,44 92

Fieno di medica 1 0,875 0,44 0,54 0,46 120

Fieno di trifoglio 1 0,863 0,46 0,59 0,50 150

Paglia di frumento 1 0,878 0,21 0,38 0,27 20

Paglia di frumento +

NH3 1 0,860 0,26 0,46 0,35

20

Paglia di orzo 1 0,876 0,24 0,39 0,30 20

Paglia di avena 1 0,880 0,25 0,42 0,33 20

Stocchi di mais 1 0,855 0,27 0,49 0,39 18

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Tipo di stabulazione e dimensionamento degli allevamenti per l’allevamento

del vitellone

La maggior parte degli allevamenti adottano la stabulazione semilibera allevando il vitellone in box

su lettiera permanente. L’allevamento in posta fissa è quasi completamente in disuso per lo stress a

cui l’animale viene sottoposto con tale tipologia di allevamento. L’allevamento in box multipli con

pavimento fessurato, o più comunemente su lettiera permanenten (8-10 capi per box), è la modalità

più comune e più vantaggiosa sia per quanto riguarda i contenuti costi di costruzione strutturale che

per la salute degli animali i quali, trovandosi in condizioni di moderato stress, producono carni di

maggiore qualità.

Le dimensioni degli allevamenti variano in funzione del tipo di stabulazione:

Allevamento a posta fissa 4 m2/capo.

Allevamento in box all’aperto:

- superficie coperta pavimentata 4-5 m2 / capo

- area scoperta 10 m2/capo

- zona di alimentazione coperta e pavimentata 1.5 m2/capo

- fronte di mangiatoia 50 cm/capo

Allevamento su lettiera permanente in edifici chiusi 5-6 m2/capo.

Allevamento in boxes multipli lettiere o pavimento fessurato 8-10 capi box.

Allevamento con cuccette e fessurato.

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Principali razze bovine da carne

Charolaise

Originaria della regione francese di Charolles. Per le sue doti di rusticità, per la tendenza a produrre

ottima carne e per la sua facile acclimatazione, è allevata in tantissimi altri paesi, e soprattutto è

utilizzata come razza incrociante. In passato era razza a duplice attitudine (lavoro e carne), ma con

il passare del tempo è stata selezionata essenzialmente per la produzione di carne. Razza precoce,

prolifica e con un armonico sviluppo delle varie regioni del corpo. E' la prima razza da carne in

Francia.

Caratteristiche morfologiche: il colore del mantello è bianco crema o bianco sporco. Le mucose

sono depigmentate rosee. La testa è piccola, corta, specie nei maschi, con fronte ampia. Occhi

grandi; orecchie di media grandezza e mobili. Tronco cilindrico e ottimo sviluppo del treno

posteriore. Corna corte, giallognole, nere in punta e rivolte in avanti.

Peso vivo femmine 7-9 q.li - maschi 12-13 q.li.

Le vacche dopo il parto allattano i vitelli e la produzione di latte è sufficiente fino allo svezzamento

(6-7 mesi).

Caratteristiche produttive: eccezionale adattabilità a diverse condizioni di allevamento.

Resiste poco ai raggi solari (cute depigmentata). Ottime caratteristiche alla produzione di carne (di

ottima qualità). In Italia i soggetti Charolaise sono utilizzati per la produzione di vitelloni all'età di

16-18 mesi e del peso vivo di 600-650 kg.

Il toro Charolaise è utilizzato per l'incrocio con bovine di razze da latte o di razze locali rustiche per

la produzione di meticci F1 adatti per l'ingrasso.

Limousine

Originaria del Limousin (provincia di Limoges - Francia), ad ovest del Massiccio Centrale, zona

caratterizzata da un clima piuttosto duro, con estati calde, inverni rigidi ed abbondanti

precipitazioni. La razza ha però una notevole facilità di acclimatamento, per cui è allevata anche

fuori dal paese di origine. In passato era razza a duplice attitudine (lavoro e carne); poi è stata

migliorata rendendola più idonea alla produzione di carne. In Francia è la seconda razza da carne,

dopo la Charolaise. Allevata soprattutto al pascolo.

Caratteristiche morfologiche: il mantello è di colore fromentino vivo, non troppo carico, più chiaro

nelle regioni ventrale e perineale.

Alone decolorato attorno agli occhi e al musello. Mucose depigmentate rosee.

Corna più chiare, di lunghezza media, rivolte in avanti.

Animali robusti, energici, resistenti e rustici.

Il peso vivo medio è di 6,5-8 q.li per le femmine e 10-12 q.li per i maschi.

Caratteristiche produttive: presenta un’elevata precocità dando elevate quantità di carne magra alla

più giovane età. per questo ha un ruolo essenziale nella pratica dell'incrocio industriale per la

produzione di soggetti da ingrassare e da destinare alla macellazione a pochi mesi di età. I tori

vengono impiegati negli incroci industriali per ottenere soggetti di elevato rendimento. I vitelli

nascono piccoli ma si sviluppano rapidamente. Per questo viene usato il toro Limousine anche su

vacche di razze di mole ridotta, senza avere problemi di parti difficoltosi.

La qualità della carne è molto buona, a grana fine e a fibre non grossolane.

Blu belga

Razza molto diffusa in Belgio dove rappresenta il 50% della popolazione bovina, sia in purezza che

incrociata, per la produzione di carne. Deriva da selezioni iniziate nella metà del XIX secolo sulla

popolazione locale nella parte meridionale del Belgio, con l’obiettivo di ottenere animali a duplice

attitudine con buon sviluppo della muscolatura. Successivamente la selezione si è orientata verso la

produzione di animali da carne. Razza robusta che si adatta a molte situazioni. Temperamento mite.

Caratteristiche morfologiche: prevalentemente il colore del mantello è bianco, bianco/blu, più

raramente bianco/nero. La pelle è fine. Gli arti corti e fini, ma forti.

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Animali di taglia elevata e non alti.

Il peso medio dei vitelli alla nascita è di 42 kg. Nelle primipare, si ha qualche problema al parto per

cui frequentemente è necessario ricorrere al taglio cesareo.

Caratteristiche produttive: razza a spiccata attitudine da carne grazie all’eccezionale sviluppo delle

masse muscolari e all’ottima qualità delle carni. Elevata resa alla macellazione (dal 65 al 70%).

Il toro BBB è usato anche per incrocio industriale.

La produzione di latte è mediamente bassa e vicina alle esigenze del vitello.

Camargue

Razza autoctona della Provenza (Francia meridionale) dove è tuttora allevata allo stato brado, sia in

estate che in inverno, in particolare nella zona compresa tra il litorale, Montpellier, Tarascon e Fos-

sur-Mer.

Caratteristiche morfologiche: il colore del mantello è marrone scuro o nero.

Animali di dimensioni ridotte: le femmine hanno un'altezza media di 120 cm e un peso di 200-270

kg, i maschi altezza di 130 cm e peso di 300-450 kg.

Caratteristiche produttive: razza da corrida; gli animali poco combattenti vengono utilizzati per la

produzione di carne, che ha ottenuto la Denominazione d'Origine Protetta (DOP).

Chianina

La razza Chianina è tra le più antiche del mondo, allevata da almeno 22 secoli nella media valle del

Tevere e nella Val di Chiana, da dove l'allevamento si è esteso alle province di Arezzo, Firenze,

Livorno, Pisa, Siena e Perugia.

La Chianina è caratterizzata da gigantismo somatico (è la più grande delle razze bovine conosciute

nel mondo), nei tori adulti raggiunge i 2 metri di altezza al garrese e supera i 17 quintali di peso (le

femmine 10). In passato era una razza a duplice attitudine (carne e lavoro). Oggi è la seconda razza

da carne in Italia. Ottima adattabilità al pascolo in diverse condizioni perché ottima utilizzatrice dei

foraggi e resistente alle malattie ed agli ectoparassiti.

Caratteristiche morfologiche: il mantello è di colore bianco porcellana in entrambi i sessi. Nel

maschio presenza di peli neri nel treno posteriore (sfumature grigie). A volte peli neri attorno agli

occhi. I vitelli dalla nascita a 4-6 mesi sono fromentini. Musello, lingua, palato e aperture naturali

pigmentate nere. Testa leggera ed elegante, più allungata nelle vacche, con fronte ampia nei tori.

Collo di media lunghezza e provvisto di scarsa giogaia. Corna medio corte e grossolane, nere in

punta. Gli arti lunghi, ma robusti e con ottimi appiombi; piede un poco piccolo ma con unghioni

duri e resistenti (caratteristica importante per il lavoro). La pelle è sottile e pigmentata.

Caratteristiche produttive: ottima qualità della carne (marezzate e tenere). La produzione di latte è

appena sufficiente per il vitello. Oggi la selezione è orientata verso la precocità di sviluppo e il

maggior rendimento di carne dei tagli più pregiati (soprattutto la regione dorso-lombare dalla quale

si ottengono le rinomate bistecche alla fiorentina).

Podolica

E’, tra le popolazioni bovine cosiddette Podoliche, giunte nel nostro Paese dall'Oriente asiatico,

quella che maggiormente mantiene le caratteristiche originarie. Allevata soprattutto in Puglia, ha

preso il nome di Pugliese ma, fino agli anni '50, ha avuto una notevole diffusione in tutto il Paese.

Attualmente, malgrado la sua rusticità ed una discreta produzione di carne e di latte, è ridotta a

pochi esemplari allevati in alcune zone depresse dell’Italia centro-meridionale.

Caratteristiche morfologiche: mantello di colore grigio nelle femmine, più scuro nei maschi.

I vitelli dalla nascita a 4-6 mesi sono fromentini. Mucose e cute pigmentate nere.

Gli unghioni (duri) non sono neri e non sono così robusti come nella Maremmana.

Le corna lunghe (70 ed anche 100 cm) e caratteristiche si presentano a semiluna nei maschi e a lira

nelle femmine. Altezza media e con pesi non elevati.

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Caratteristiche produttive: carne di buona qualità. Originariamente razza da lavoro e

secondariamente latte. Ha un eccezionale potere di adattamento ad ambienti difficili ed una

straordinaria capacità di usare risorse alimentari che non potrebbero essere sfruttate diversamente

(pascoli cespugliati, stoppie, macchie, foglie di essenze arbustive, ecc.). Ha bisogno di pochissime

cure da parte dell'uomo. Con il latte della Podolica si produce un ottimo caciocavallo.

Romagnola

Discende da ceppo Podolico: dalle razze asiatiche giunte in Italia in seguito alle invasioni dei popoli

dell’Est Europa. Ha come culla d'origine la Romagna (Forlì, Pesaro) ed è stata allevata anche in

alcune zone delle province di Rovigo, Padova, Venezia e Verona. Tra le razze Bianche Italiane

conserva, maggiormente, con la maremmana, le caratteristiche del ceppo Podolico. Ottima

adattabilità al pascolo in diverse condizioni perché ottima utilizzatrice dei foraggi e resistente.

Caratteristiche morfologiche: di aspetto imponente, massiccio, raccolto ed armonica: testa piccola e

breve, occhio grande ed espressivo, notevole giogaia. Mantello fromentino alla nascita, grigio

chiaro o appena brizzolato nelle femmine adulte, più scuro nel toro (presenza di peli neri nel treno

anteriore e sulle cosce). Nei maschi si ha spesso l'occhialutura (presenza di peli neri attorno agli

occhi). Mucose e cute pigmentate nere. Corna lunghe, nere in punta, a forma di lira nella femmina,

di semiluna nel maschio. Non sembra una razza alta perché presenta arti corti rispetto alla

profondità toracica. Più piccola di Chianina e Marchigiana, ma stessi pesi.

Gli arti sono assai robusti, con unghioni duri e ben conformati.

Caratteristiche produttive: originariamente a duplice attitudine: carne e lavoro. Oggi è selezionata

solo per la carne. Ottima qualità della carne (giusta marezzatura e tenera).

Marchigiana

E' stata riconosciuta come entità etnica soltanto in epoca relativamente recente. E' derivata

dall'incrocio di bovini Marchigiani di ceppo Podolico non migliorati (un tempo impiegati per i

lavori agricoli) con soggetti di razza Chianina e, successivamente, dall'unione delle bovine meticce

Chianine-Marchigiane) con tori di razza Romagnola. E' la terza razza da carne in Italia. Allevata

soprattutto nelle Marche e nelle regioni limitrofe (Abruzzo, Molise, Campania). Allevata soprattutto

al pascolo. Ottima adattabilità al pascolo in diverse condizioni perché ottima utilizzatrice dei

foraggi e resistente alle malattie ed agli ectoparassiti.

Caratteristiche morfologiche: colore mantello grigio quasi bianco in entrambi i sessi. Nei maschi

presenza di peli grigi nel treno anteriore e attorno agli occhi (occhialatura). I vitelli dalla nascita a 4-

6 mesi sono fromentini. Mucose e cute pigmentate nere. Corna medio-corte e grossolane, nere in

punta. Buona conformazione per la produzione di carne. Razza più piccola della Chianina ma con

pesi analoghi (arti più corti e maggiore sviluppo masse muscolari). Arti e unghioni molto forti

(caratteristiche importanti per il lavoro).

Caratteristiche produttive: ottima qualità della carne (giusta marezzatura e tenera). Un tempo a

duplice attitudine (carne e lavoro), è ora allevata solo per la carne.

Maremmana

La razza Maremmana è discendente dalla razza grigia della steppa o Podolica. Tale razza è rustica

e frugale, resistente alle malattie e alle difficoltà climatiche e si adatta ai foraggi scadenti; ha

contraddistinto per secoli le zone paludose della Maremma e si dimostra particolarmente adatta

all'allevamento allo stato brado in ambienti marginali. Consistenza circa 40.00 capi (Lazio e

Toscana). Il minor impiego degli animali per lavoro hanno ridotto l’interesse per tale razza.

Ultimamente la maremmana ha suscitato nuovi interessi da parte di allevatori meridionali, spagnoli

e centro-americani per le sue caratteristiche idonee ad ambienti caldi e ostili, ma anche per la

recente introduzione della zootecnia biologica.

Caratteristiche morfologiche: presenta un mantello grigio, più scuro nei maschi, più chiaro nelle

femmine, mentre i piccoli nascono color fomentino ed acquistano il colore tipico a 4-6 mesi di età.

Le corna lunghe (70 ed anche 100 cm) e caratteristiche si presentano a semiluna nei maschi e a lira

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nelle femmine. Lo sviluppo scheletrico è imponente e conferisce all’animale un aspetto di grande

solidità e robustezza, reso maestoso dallo sviluppo del treno anteriore con torace ampio, alto e

profondo; il collo è corto e muscoloso con abbondante pagliolaia, il tronco è lungo e profondo con

cassa toracica assai sviluppata, il dorso e i lombi rettilinei e muscolosi; la groppa larga, lunga e

muscolosa tendente alla forma quadrata; gli arti solidissimi, gli unghioni di eccezionale durezza, gli

appiombi spesso perfetti.

Caratteristiche produttive: le vacche hanno una mammella ben conformata e forniscono

un’abbondante produzione di latte (10-12 l) che assicura un accrescimento giornaliero del vitellino

di 1 Kg. Sono bovini longevi e rustici (raggiungono i 15-16 anni di età), ma economicamente tardivi

in quanto a 18 mesi pesano soltanto 350-440 Kg (invece di 600 Kg), mentre da adulti i tori pesano

700-1200 Kg e le vacche 600-700 Kg. Tuttavia costa pochissimo il loro mantenimento poiché nella

loro dieta rientrano foraggi anche molto scadenti. Per migliorare la buona attitudine a carne e

sfruttare la buona capacità di utilizzo del pascolo ed di allattamento delle bovine si attua l'incrocio

con seme di tori di razze specializzate da carne (Charolaise e Chianina).

Piemontese

Circa 30.000 anni fa lo zebù pakistano è arrivato fino all'attuale Piemonte dove, trovando una

barriera naturale formata dall'arco alpino, si è insediato integrandosi con la popolazione bovina

preesistente, adattandosi all’ambiente e determinando, nel tempo, la formazione dell'attuale razza

Piemontese. E' diffusa in quasi tutto il Piemonte, ma le principali zone di allevamento sono le

province di Asti, Cuneo e Torino. E’ la razza da carne più rappresentata in Italia. Razza molto

docile.

Caratteristiche morfologiche: animali di taglia media. Ha mantello fromentino chiaro, talvolta

sfumato verso il bianco. Nei tori vi sono zone di grigio nel collo, nelle spalle, nelle cosce.

Musello, lingua, palato, aperture naturali, ecc. sono neri. Testa quadrata con corna medie, dirette in

avanti e di lato; collo corto e muscoloso, con giogaia ben sviluppata. Tronco cilindrico, spesso

insellato; arti lunghi.

Le corna sono nere fino verso i 20 mesi di età; negli adulti giallastre alla base e nere all’apice.

I vitelli alla nascita hanno mantello di colore fromentino carico.

Caratteristiche produttive: allevata prevalentemente per la produzione di carne anche se ha una

discreta produzione di latte. Carne di ottima qualità. La produzione prevalente è il vitellone,

macellato mediamente ad un peso di 500-600 kg, all’età di 15-18 mesi. Ottime rese alla

macellazione.

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7. ZOOTECNIA 7.4 ALLEVAMENTO SUINI

Tecnica di allevamento

dei suini

Generalità In Italia si allevano circa 9 milioni di suini; in Europa circa 118 milioni; in tutto il mondo circa 1

miliardo.

Il valore dei suini destinati alla macellazione (suino pesante e/o leggero) dipende sostanzialmente

dal peso, cioè dall’età (lattonzoli, magroni, grassi ecc.). Il peso va da circa 1 kg alla nascita fino a

160-180 kg per suini grassi da macello a 10-12 mesi di età.

Il valore dei riproduttori maschi (verri) dipende dalle loro caratteristiche genetiche, cioè dalla

capacità di introdurre negli allevamenti migliori caratteristiche produttive.

Il valore delle riproduttrici femmine (scrofe) dipende dalla prolificità e dalla capacità di

allattamento, che complessivamente determina l’efficienza riproduttiva dell’allevamento ed ha un

consistente effetto sulla redditività dello stesso. La prolificità (n° di nati totali/parto) comunque di

per se non è un dato rappresentativo in quanto per la redditività dell’allevamento risulta

determinante il numero di suinetti svezzati. Infatti come spesso capita a fronte di un aumento di

prolificità anche sensibile (+ 2 suinetti/parto) le perdite totali (nati morti + morti dopo la nascita)

aumentano, non modificando i dati della produttività numerica finale allo svezzamento.

Tipologie produttive Schematicamente si può dire che nel nostro paese si producono tre tipi di suini:

il suino leggero o “suino magro” da macelleria, macellato a 100-110 kg di peso vivo e

particolarmente dotato di tagli carnosi;

il suino medio pesante, di 135-145 kg di peso vivo, che presenta alla macellazione un

discreto busto utilizzabile in macelleria e dei prosciutti che possono essere “cotti” o

“stagionati”;

il suino pesante da salumificio, di 150-180 kg di peso vivo, tipico della Pianura Padana,

caratterizzato dall’avere carni mature, saporite, adeguatamente grasse, con le quali è

possibile “caratterizzare” i nostri prodotti più tipici (prosciutto, coppa, speck, salami).

Essendosi attuata una importante selezione genetica, con la scelta di riproduttori provenienti da

razze o linee caratterizzate da una lenta produzione di grassi, la suinicoltura moderna ha portato ad

allevare suini morfologicamente e fisiologicamente diversi dal passato. Principalmente i suini

appartengono alle razze Large White e Landrace che solitamente vengono incrociate per ottenere

ibridi F1 da destinare all’allevamento. Altre razze, descritte a parte, vengono utilizzate nella

moderna suinicoltura, essenzialmente per la produzione di meticci. Questi incroci sono in grado di

garantire accrescimenti medi giornalieri che possono raggiungere anche gli 800 grammi/giorno,

potendo così raggiungere i 100 Kg di peso vivo attorno ai 6-7 mesi d’età oppure i 170 kg intorno

all’anno.

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Produzione del suino leggero o “suino magro” Tale produzione è orientata ad ottenere carne fresca, un prodotto povero di grasso che riguarda

essenzialmente i tagli dell’intera carcassa di un suino leggero (100-110 kg p.v.). Il suino magro si

caratterizza per l’elevata capacità somatica ed una carcassa magra anche a pesi attorno al quintale.

Tale obiettivo si raggiunge con una adeguata alimentazione e con particolari tipi genetici. Il suino

magro, infatti, non deve essere confuso con un maiale di tipo genetico “pesante” macellato

precocemente in quanto sarebbe improbabile cercare di avere carcasse con limitato sviluppo di tagli

grassi da suini che non posseggono nel loro patrimonio tale caratteristica. Per produrre il “suino

magro” infatti non si utilizzano le razze pure ma si cerca di sfruttare al meglio il fenomeno

dell’eterosi, caratteristica proveniente da patrimoni ereditari maschili e femminili di diversa origine.

La superiorità degli ibridi commerciali rispetto alle razze pure si manifesta attraverso l’uniformità

delle carcasse, la velocità di accrescimento e l’indice di conversione alimentare.

Con la sezionatura in macelleria della carcassa di questa tipologia si ottengono:

tagli pregiati: coscia, spalla, lombo, petto;

carne di rifilatura (dal 15 al 17% del peso della carcassa), per farne hamburger o macinato

da ragù o da salsicce.

Produzione del “suino pesante” tipico italiano

Storicamente la suinicoltura italiana è caratterizzata, rispetto a quella di altri Paesi, dalla produzione

di soggetti da macello di peso vivo compreso tra i 150-170 kg, in grado di fornire carcasse di 120-

140 kg.

Questo indirizzo produttivo è determinato dalle richieste dell’industria salumiera specializzata nella

produzione del prosciutto crudo salato, della coppa e di altri salumi di pregio, per i quali si

richiedono tagli di peso elevato e con carne matura, che possono essere forniti soltanto da suini

macellati ad un’età di almeno 10-12 mesi.

Al fine di valorizzare al massimo i “prodotti” del suino pesante particolare attenzione va rivolta alla

macellazione e sezionatura della carcassa. La sezionatura della carcassa viene effettuata a caldo

entro 30-60 minuti dalla macellazione. Ciascuna mezzena dopo la rimozione della testa e degli

zampetti, viene divisa in quattro tagli magri (prosciutto, spalla, lombata e coppa e) e quattro grassi

(pancetta, lardo, guanciale e sugna).

II prosciutto è separato mediante un taglio parallelo alle vertebre sacrali. E’ costituito dai

muscoli pelvici e da quelli della coscia e della gamba con le relative ossa; il taglio viene

successivamente rifilato in modo diverso a seconda della destinazione.

La spalla comprende i gruppi muscolari della spalla, del braccio e dell’avambraccio con le

relative ossa.

La lombata è costituita dai fasci muscolari del dorso, dei lombi e della groppa con le relative

vertebre e costole a partire dalla 5^-7^ dorsale.

La coppa è formata dai muscoli cervicali e dorsali e dalle relative vertebre e costole fino

alla 4^-6^ dorsale inclusa; successivamente le ossa vengono separate.

La pancetta è costituita dalla parete addominale, che va dalla regione retrosternale alla

regione inguinale, ed è separata dal lardo con un taglio a metà distanza tra il margine dorsale

e quello ventrale della mezzena.

Il lardo è costituito dalla copertura adiposa della coppa e della lombata.

Il guanciale è costituito dalla copertura adiposa della regione della guancia e della gola.

La sugna è costituita dal grasso perirenale.

Con l’eccezione della lombata, che viene consumata come carne fresca, tutti gli altri tagli vengono

utilizzati per la produzione di salumi freschi, stagionati e cotti.

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Esempio di alcuni utilizzi dei tagli del suino pesante

Tagli magri:

- prosciutto

- spalla

- lombata

- coppa

Produzione di prosciutti stagionati crudi a marchio e non; prosciutti cotti

Insaccati tipici stagionati e/o cotti

Consume fresco

Salata e stagionata

Tagli grassi:

- pancetta

- lardo

- guanciale

Salata e stagionata; per salami stagionati (dopo sgrassatura)

Cubetti e/o macinato per insaccati; fuso per produzione di strutto

Cubetti nella mortadella e nei salumi

Altri tagli:

- rifilatura di tagli magri

- coste e spuntara di coste

- zampetti

- cotenna

- testa

Triti per insaccati freschi (salsicce9 e stagionati

Consumo fresco

Involucri per zampone (salami)

Zamponi; cotechini

Coppa di testa

Genetica, selezione e metodo riproduttivo Uno degli obiettivi principali degli allevamenti suinicoli è quello di poter disporre di scrofe fertili,

prolifiche e con buone attitudini lattifere, nonché suini da ingrasso a sviluppo rapido, che utilizzino

bene gli alimenti e forniscano buone quantità di tagli magri ed elevate rese al macello. Tali obiettivi

si raggiungono attraverso il miglioramento genetico, nell’ottica di allevare suini in funzione della

richiesta del mercato. La selezione in suinicoltura si concretizza accoppiando animali scelti

nell’ambito della stessa razza o di razze diverse allo scopo di trasmettere alla discendenza i

caratteri connessi all’attitudine produttiva richiesta.

La selezione si distingue in :

riproduzione in purezza: accoppiando animali parenti si parla di consanguineità, che può

essere consanguineità moderata e consanguineità stretta. La prima non pone problemi (in

particolare quando gli animali presentano un buon patrimonio genetico e non sono portatori

di anomalie genetiche); la seconda è in ogni caso da scartare, dato che determina in genere

turbe della fertilità, maggiori perdite di suinetti e una diminuzione di vigore negli animali.

Incrocio o meticciamento. Si ottiene accoppiando soggetti meticci ottenuti dall’incrocio di

due o più razze. Obiettivo di questo metodo è di combinare alcune delle caratteristiche delle

razze incrociate che saranno poi fissate in una nuova razza. L’incrocio deve essere

effettuato secondo determinate regole ed essere combinato con una rigorosa selezione. Può

venire effettuato a due o a tre vie (razze o linee) oppure come incrocio di ritorno.

Incrocio a due razze o a 2 vie: l’incrocio a due razze è la forma più semplice di questo metodo di

riproduzione; è facile da effettuarsi e richiede soltanto un minimo di organizzazione; viene praticato

soprattutto per assicurare all’industria salumiera soggetti di grossa mole e dai prosciutti sviluppati.

Il patrimonio genetico del prodotto finale è il 50% di A e di B. Per esempio scrofa Large White

(razza prolifica e con buona attitudine materna) fecondata con verro Landrace (ottime caratteristiche

della carcassa); in pratica nascono soggetti che hanno dalla madre più latte e contemporaneamente

le caratteristiche già buone della carcassa della Large White saranno migliorate dalla maggiore

lunghezza e carnosità della Landrace.

X

A B

A 50% + B 50% (METICCIO A DUE VIE)

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Incrocio a tre razze o a 3 vie: nell’incrocio a tre razze le madri sono in genere di origine meticcia e

sono caratterizzate da notevole prolificità. Esse vengono fecondate da verri di razze rustiche o

carnose per ottenere soggetti adatti al consumo diretto o all’industria salumiera. L’incrocio a tre

razze o a tre linee richiede un maggiore impegno organizzativo e finanziario ma consente di

realizzare profitti maggiori rispetto alla riproduzione in purezza e all’incrocio a due razze.

La femmina B (razza dotata di caratteri di femminilità ma scarsa qualità della carcassa) viene

fecondata dal verro A (razza con discreta qualità della carcassa), le femmine ottenute vengono

fecondate con il verro della razza C (ottime caratteristiche di accrescimento e della carcassa). Il

prodotto finale è un ibrido con 50% di patrimonio C (verro con buone caratteristiche di

accrescimento), 25% di A (buona qualità della carcassa), 25% di B (buona prolificità).

X

A B

X

C A 50% + B 50%

C 50% + A 25% + B 25% (METICCIO A TRE VIE)

Ibridi commerciali: in suinicoltura si parla di ibridi commerciali con riferimento a suini meticci,

generalmente ottenuti da schemi di incrocio a più vie. Questi schemi sfruttano gli effetti dell’eterosi,

in grado di aumentare le capacità produttive anche del 10-20%, con particolare riferimento al

numero dei suinetti nati ed allevati, alla vitalità e resistenza degli animali e, in misura minore, anche

alla resa al macello.

Per una efficiente produzione di ibridi commerciali occorrono due o più linee, spesso consanguinee,

geneticamente diverse fra loro e con grande capacità di combinazione dei diversi caratteri

produttivi. Il suo successo dipende dal numero più alto possibile di combinazioni provate e richiede

pertanto un notevole impegno finanziario. Per questo motivo solo aziende molto grandi hanno la

possibilità di prodursi le linee utilizzabili per la creazione dell’ibrido, mentre la grande maggioranza

degli allevatori acquista direttamente gli animali per la rimonta (generazione parentale) al fine di

prodursi direttamente l’ibrido da ingrassare (ciclo chiuso). Altri acquistano invece il lattone o il

magroncello da allevare per il macello o per l’industria (ciclo aperto). Per ottenere i migliori

risultati la selezione delle linee destinate alla produzione dell’ibrido deve concentrarsi su pochi

caratteri. In un incrocio a 4 vie, ad esempio, si usa accoppiare scrofe meticce provenienti da due

linee estremamente prolifiche e dotate di buona attitudine all’ingrasso con verri meticci provenienti

da due linee con caratteristiche di macellazione superiori alla media.

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Es.: si utilizzano 4 razze di cui 2 scelte per le caratteristiche materne (A x B), le femmine così

ottenute, con buone caratteristiche materne (A 50% + B 50%) vengono fecondate con verri ottenuti

dall’incrocio di 2 razze (C x D) scelte per i caratteri di produttività della carne.

X X

A B C D

X

A 50% + B 50% C 50% + D 50%

A 25% + B 25% + C 25% + D 25% (METICCIO A QUATTRO VIE)

Schema indicativo riferito alla suddivisione percentuale delle diverse tipologie di suini in

funzione della destinazione

Tipologia di produzione Suino leggero da macelleria

fino a 110 kg

Suino pesante da industria

oltre i 110 kg

Razze pure Fino al 10% 25-30%

Incroci a due o più vie 25-30% 55-60%

Incroci industriali 65-70% 15-20%

Tipologia e dimensionamento degli allevamenti

Tipologia

Gli allevamenti suinicoli vengono solitamente suddivisi in due categorie:

a ciclo aperto: sono quelli dove avviene o solo la fase riproduttiva (dalla nascita allo

svezzamento) o solo quella produttiva di ingrasso (in questo caso i suini arrivano dopo lo

svezzamento e vi rimangono fino al raggiungimento del peso di macellazione);

a ciclo chiuso: in questi allevamenti si ritrovano tutte le fasi dell’allevamento suinicolo,

dalla nascita all’ingrasso.

Caratteristiche dei ricoveri

Un fattore importante nella produzione del suino è l’ambiente, inteso sia come caratteristiche

strutturali e impiantistiche dei ricoveri che come microambiente climatico.

I locali presenti in una porcilaia sono:

settore di fecondazione: ospita le scrofette, le scrofe che hanno terminato di allattare ed il

verro (o i verri). In questo reparto le femmine manifestano il calore, vengono coperte, e vi

rimangono fino alla diagnosi (positiva) di gravidanza;

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settore di gestazione: ospita le femmine dalla diagnosi di gravidanza fino ad una settimana

circa dal parto;

settore parto e allattamento: ospita le scrofe nell’ultimo periodo di gravidanza. In questo

reparto le femmine partoriscono e svezzano i lattonzoli;

settore post-svezzamento: ospita i lattoni;

settore magronaggio: ospita i magroni;

settore ingrasso: ospita i suini all’ingrasso dai 50 – 60 Kg alla macellazione.

Importante elemento che può condizionare lo stato di benessere degli animali è la disponibilità di

spazio nel box. Uno spazio eccessivamente ridotto influisce negativamente sullo sviluppo dei suini

con diminuzione dell’incremento giornaliero. Le superfici molto ampie, al contrario, oltre ad

elevare il costo di costruzione dei ricoveri, inducono gli animali ad un eccessivo movimento (che

peggiora l’indice di conversione) e li abitua a sporcare su tutta la superficie del box, utilizzando

scarsamente l’eventuale zona di defecazione.

Il numero dei suini per box non dovrebbe mai superare le 20 unità: nel gruppo poco numeroso si

definisce in modo rapido una chiara e stabile gerarchia sociale che evita lunghe e dannose

competizioni.

Superfici minime (m²/capo) per la produzione del suino leggero

Peso vivo Pavimento grigliato Pavimento intero in cemento

20 0,18 0,27

40 0,20 0,39

60 0,40 0,53

80 0,52 0,66

100 0,62 0,73

Microambiente

Temperatura, umidità e ventilazione sono parametri fondamentali che, se non opportunamente

monitorati e controllati, possono rendere precaria la vivibilità interna agli allevamenti con

conseguenti negative ripercussioni sulle prestazioni degli animali.

La temperatura rappresenta uno dei parametri fondamentali per il benessere animale con

inevitabili conseguenze ( positive o negative) sull’incremento medio giornaliero in peso e

sull’indice di conversione degli alimenti. Si deve quindi stabilire un range di temperatura

entro il quale le perdite di calore degli animali sono minime e corrispondono alla condizione

di massima produttività. Le temperature critiche superiori oscillano tra i 27° e i 30° C in

funzione del tipo di pavimento. I migliori risultati per l’incremento giornaliero e l’indice di

conversione si ottengono dai 20° ai 25° C per suini fino a 50 kg e dai 18° ai 20° C per i suini

fino a 110 kg e oltre.

L’umidità relativa, non ha una grossa influenza sui parametri produttivi nel caso di

temperature ottimali. In ogni caso dovrebbe rimanere fra il 50% ed il 75%. Le condizioni di

caldo umido rappresentano le peggiori condizioni, rallentano notevolmente la perdita di

calore corporeo soprattutto nei soggetti adulti; in tali condizioni, se non si interviene,

mediante un’adeguata ventilazione atta ad abbassare le temperature e il tenore di umidità,

aumenta decisamente la difficoltà del suino a disperdere il calore eccessivo con conseguente

riduzione della ingestione degli alimenti, diminuzione della velocità di accrescimento e

peggioramento dell’indice di conversione alimentare.

La ventilazione è fondamentale per assicurare un regolare apporto di ossigeno, per

allontanare l’anidride carbonica, l’umidità e i gas (ammoniaca) provocati dagli animali.

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Dimensionamento

Per il dimensionamento di un allevamento si procede considerando i tempi di occupazione dei vari

settori. Ipotizzando un allevamento di 100 scrofe avremo:

Settore parto e allattamento: si applica la formula

N x p x t/365 = 25 posti

dove:

N = scrofe presenti in allevamento = 100

p = parti/anno/scrofa = 2,17

t = giorni di occupazione del settore = 42

Settore di fecondazione: si applica la formula

N x p x t/365 = 27 posti

dove:

N = scrofe presenti in allevamento = 100

p = parti/anno/scrofa = 2,17

t = giorni di occupazione del settore = 45

Settore di gestazione: si applica la formula

N x p x t/365 = 48 posti

dove:

N = scrofe presenti in allevamento = 100

p = parti/anno/scrofa = 2,17

t = giorni di occupazione del settore = 80

Settore post-svezzamento: si applica la formula

N x n x p x t/365 = 356 posti

dove:

N = scrofe presenti in allevamento = 100

n = suinetti svezzati/parto = 9,5

p = parti/anno/scrofa = 2,17

t = giorni di occupazione del settore = 63

Settore magronaggio: si applica la formula

N x n x p x t/365 = 396 posti

dove:

N = scrofe presenti in allevamento = 100

n = suinetti svezzati/parto = 9,5

p = parti/anno/scrofa = 2,17

t = giorni di occupazione del settore = 70

Settore ingrasso: si applica la formula

N x n x p x t/365 = 870 posti

dove:

N = scrofe presenti in allevamento = 100

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n = suinetti svezzati/parto = 9,5

p = parti/anno/scrofa = 2,17

t = giorni di occupazione del settore = 154

Vuoto sanitario Va precisato che, nella determinazione del periodo di occupazione dei diversi settori, bisogna

considerare anche il vuoto sanitario, cioè quel periodo della durata solitamente di 7 giorni durante il

quale gli ambienti di allevamento rimangono senza animali e si procede ad una attenta e profonda

operazione di disinfezione e disinfestazione dei locali. Sarà quindi indispensabile prevedere una

suddivisione dei vari settori in sale separate, in modo da poter effettuare tali trattamenti senza

disturbare gli animali presenti nelle altre sale dello stesso settore.

Rimonta

Non va poi dimenticata la rimonta: nell’ipotesi di sostituire le scrofe dopo il quinto parto, avremo

una percentuale di rimonta del 20%, ed andremo a completare il ciclo di sostituzione dopo 168 x 5

= 840 giorni sostituendo una scrofa ogni 840/100 = 8,4 giorni.

Dal momento che le scrofette vengono ingravidate la prima volta 180 giorni dopo lo svezzamento

avremo 180/8,4 = 22 scrofette da destinare alla rimonta interna.

Tecnica di allevamento Le categorie di suini presenti in una porcilaia si suddividono in:

lattonzolo: dalla nascita allo svezzamento (lo svezzamento avviene mediamente a 21 giorni

di vita ad un peso di 7-8 kg),

lattone: dallo svezzamento ai 25 – 35 Kg di peso,

verretto (maschio): dai 25 – 35 Kg di peso alla pubertà e/o al primo salto,

verro (maschio): riproduttore in attività,

scrofetta (femmina): dai 25 – 35 Kg di peso alla pubertà e/o al primo salto,

scrofa (femmina): dopo il primo parto,

magrone: dai 25 – 35 ai 50 – 60 Kg di peso,

suino leggero o “suino magro” da macelleria: macellato a 100 – 110 Kg di peso,

suino medio pesante: macellato a 135-145 kg di peso,

suino pesante da salumificio: macellato a 170 – 180 Kg di peso

Negli allevamenti ricoprono particolare importanza i parametri relativi alla riproduzione.

Le scrofe manifestano i calori ogni 21 giorni, la durata del calore mediamente è di 2–3 giorni, per

indurre le scrofe all’estro si consiglia di far passare tra le poste delle femmine il verro. La scrofa in

calore manifesta il riflesso di mobilità, se cavalcata dall’uomo si blocca puntando le zampe.

Dall’inizio della manifestazione estrale è bene fecondare la scrofa a distanza di 24–36 ore

dall’inizio dei segni, momento migliore per l’ovulazione. La monta può avvenire in libertà, per

gli allevamenti bradi o semibradi, oppure alla mano, quando l’accoppiamento è guidato

dall’allevatore; oggi, sempre più spesso, anche per questa specie si ricorre

all’inseminazione strumentale.

Buona norma è far accoppiare la scrofetta al secondo calore, quando ha raggiunto un peso di circa

110–120 kg.

La gestazione dura 3 mesi, 3 settimane e 3 giorni, ossia 114 giorni circa, la scrofa entra in calore

dopo 5–7 giorni dallo svezzamento, è consigliabile comunque fecondarla al secondo calore cioè

a circa 50/55 giorni dal parto.

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Durata media della gestazione di alcune femmine

degli animali domestici

Specie Durata in mesi Durata in giorni

Asina 12 355-365

Cavalla 11⅓ 346

Bufala 10½ 315

Vacca 9½ 284

Pecora 5 150

Capra 5 155

Scrofa 4 113-118

Cagna 2 62

Gatta 2 56

Coniglia 1 28-30

La durata economica della scrofa negli allevamenti razionalmente condotti è limitata al 5°/7°

parto, che corrisponde all’incirca ai 3/3,5 anni di età, facendo compiere all’animale circa 2,2 parti

all’anno, con una distanza tra il parto ed il concepimento di 50/55 giorni.

Principali parametri relativi alla riproduzione

Età della prima fecondazione 7 mesi

Durata della gravidanza 115 giorni

168 giorni Durata dell’allattamento 21 giorni

Intervallo tra fine allattamento e nuova gravidanza 30 giorni

Numero di suini svezzati per parto 9 – 10

Il peso dei suini alla nascita oscilla dai 700-800 ai 1.200-1.500 gr, la durata dell’allattamento è di

circa 20/25 giorni per i suini destinati all’ingrasso e di 60-90 giorni per quelli destinati alla rimonta.

La pubertà tanto nei maschi che nelle femmine viene raggiunta intorno ai 6-7 mesi,

l’accoppiamento lo si fa avvenire, in entrambi i casi, verso l’anno di età, oppure quando i soggetti

hanno raggiunto il peso di 110–120 kg.

Pratica importante è la castrazione condotta su soggetti non idonei per la riproduzione e a quelli

prodotti per l’ingrasso. La castrazione, consistente nell’asportazione delle gonadi è ormai limitata

soltanto ai maschi, la si pratica su soggetti di circa 50 giorni di età per evitare che le carni

manifestino il sapore tipico degli adulti.

Alimentazione dei suini L’alimentazione è la voce più onerosa nel bilancio di gestione dell’allevamento suino,

raggiungendo il 70% circa del costo di produzione.

Per cercare di migliorare la redditività aziendale è quindi necessario intervenire sulla possibile

riduzione dei costi di alimentazione; riduzione che deve però essere ottenuto salvaguardando sia le

rese del mangime che la qualità delle carni, e deve mirare in definitiva all’abbassamento del costo

del chilogrammo di carne prodotta. Questo traguardo si raggiunge (oltre che con una adeguata e

razionale organizzazione dell’allevamento e delle tecniche adottate) con una adeguata e corretta

alimentazione, in rapporto sia al tipo di allevamento che, soprattutto, alla genetica e alla tipologia

produttiva (suino leggero da macello, suino pesante da salumificio).

La razione alimentare può essere somministrata in forma umida o in forma asciutta.

umida: quando il mangime viene ammollato con acqua o siero e/o latticello. Questo ultimo

metodo è in uso negli allevamenti collegati all’industria lattiero-casearia che, in tal modo,

valorizzano anche tali sottoprodotti;

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asciutta: quando il mangime è distribuito tal quale in farina o pellettato. La sua

distribuzione può essere effettuata facendo cadere il mangime, trasportato da un distributore

manuale o automatico munito di dosatore a peso o a volume, nel truogolo o per terra.

Il metodo di distribuzione dell’alimento è influente a seconda dello stadio fisiologico dell’animale e

del tipo di suino che si vuole produrre. In generale l’alimentazione umida si utilizza per produrre

suini da salumificio; mentre l’alimentazione asciutta dà i migliori risultati nella prima fase di vita

del suino (fino a 50 kg) e nella produzione del suino leggero da macelleria.

La quantità di mangime (livello alimentare) viene somministrato agli animali in funzione alla loro

età o meglio al loro peso vivo.

Il livello alimentare si può considerare:

alto: quando si prevede la somministrazione dell’alimento ad libitum. Tale regime

garantisce: condizioni di tranquillità nei soggetti del box, (venendo a mancare la

competizione per la conquista del cibo); una masticazione e un’insalivazione adeguata

all’alimento (che garantisce un buon assorbimento); un accrescimento uniforme del gruppo

in quanto gli animali possono accedere all’alimento anche in tempi diversi; un limitato

impiego di manodopera; un ridotto sviluppo del truogolo; l’impiego di distributori semplici

ed automatici. Se però la base genetica dei suini così alimentati non è omogenea, si

possono verificare degli inconvenienti dovuti al fatto che vi possono essere soggetti molto

voraci che si cibano di continuo, superando così il fabbisogno nutritivo necessario al loro

incremento in peso giornaliero, comportando un accumulo eccessivo di grasso con un

eccessivo spreco degli alimenti.

basso: quando si distribuisce una quantità di mangime minore a quella che l’animale

avrebbe liberamente assunto. In tal modo vi è un razionamento che di solito viene indicato

con una percentuale rispetto al consumo a volontà. Il sistema d’alimentazione “razionato” si

è diffuso (malgrado determini una riduzione dell’accrescimento giornaliero) perché, con una

migliore utilizzazione degli alimenti, consente di raggiungere più agevolmente pesi elevati

(170-180 kg); permettendo nel contempo un miglioramento dell’utilizzo degli alimenti e di

ottenere al macello delle carcasse magre con minor percentuale di tagli grassi.

Il razionamento varia in funzione del tipo genetico e del sesso del suino, alla tipologia produttiva.

Effetti del razionamento negli allevamenti suini da ingrasso

% di diminuzione rispetto

all’alimentazione ad

libitum

% di diminuzione

dell’incremento

ponderale giornaliero

% di miglioramento

dell’indice di conversione % di diminuzione dello

spessore del lardo

5 4 0,80 3,50

10 7 3,30 4,90

15 10 5,20 6,20

20 14 6,30 7,50

25 19 6,50 8,60

30 25 6,20 9,90

35 31 4,90 11,00

40 38 3,00 12,50

45 45 0,30 13,70

La formulazione della dieta si effettua in base alla composizione, alla qualità e al costo d’acquisto

degli alimenti semplici. Il mangime composto deve perciò soddisfare sia le esigenze nutrizionali

degli animali nelle loro varie fasi di crescita che l’aspetto economico riferito al minor costo di

produzione della miscela.

Nelle miscele per il finissaggio del suino pesante, mais e orzo hanno una pressochè insostituibile

funzione come apportatori di particolari caratteristiche alla carne ed alla consistenza del grasso.

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Principalmente gli alimenti per suini sono: orzo, avena, frumento, cruschello di frumento, crusca,

farina di pesce, farina di estrazione di soia, minerali, vitamine e amminoacidi, siero di latte (ove

disponibile) Per il suino leggero possono essere utilizzati altri alimenti alternativi e più economici: esempio la

manioca.

Siero di latte

Il siero di latte è il residuo della cagliata, rappresenta per i suini un ottimo alimento e può

somministrarsi praticamente in tutte le fasi dell’allevamento, contenendo ancora una piccola

frazione proteica, lipidica, minerale ed una buona quantità di zuccheri (lattosio). Il siero viene

opportunamente integrato con l’utilizzo di mangimi semplici (in genere mais ed altri cereali) di

produzione aziendale o composti (acquistati sul mercato). Ovviamente la disponibilità di siero di

latte è legata alla presenza di un caseificio; laddove non vi sia la possibilità di approvigionarsi di

tale alimento, la razione si baserà essenzialmente sull’utilizzo di mangimi sia semplici che

composti.

Composizione del siero di latte

Da latte intero Da latte scremato

Sostanza secca 7,60 7,09

Proteina grezza 1,09 1,12

Grasso 0,64 0,11

Lattosio 5,33 5,31

Minerali 0,54 0,53

Alimentazione nella prima settimana di vita Nei primi giorni di vita il fabbisogno alimentare del suinetto è garantito dal latte materno. E’

comunque necessario iniziare già dai primi giorni di vita a mettere a disposizione miscele alimentari

(miscele pre-starter), che tengano conto del giusto contenuto di enzimi in quanto i suinetti non

hanno apparato enzimatico costituito nelle prime settimane di vita.

Ai soggetti appena nati (da 1 a 5 kg di peso) si somministra, ad esempio:

fiocchi d’orzo decorticati,

polvere di latte magro,

fiocchi di mais.

Gli alimenti pre-starter, oltre a garantire il fabbisogno energetico, devono essere in grado di attrarre

i suinetti per cui vengono aromatizzati con prodotti che assomigliano al latte della madre.

Alimentazione da 5 a 15-25 kg di peso

Dalla seconda/terza settimana di vita il latte materno non è sufficiente a coprire il fabbisogno della

nidiata, pertanto alla poppata si aggiungono mangimi appetibili (miscele starter) e digeribili, di alto

valore nutritivo (20-21% di proteine) e biologico, a base di farine di latte, farine di pesce, siero di

latte, carrube, destrosio, olio di cocco, di palma, amminoacidi essenziali (lisina, metionina,

triptofano), sali minerali, rame, zinco, calcio. In questa fase è consigliabile somministrare orzo

(trattato termicamente per aumentarne la digeribilità) e oli e grassi per assicurare il giusto grado

energetico. Il mangime va somministrato ad libitum, nella dose di circa 250-300 gr capo/giorno.

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E’ buona norma in questa fase, per prevenire eventuali sindromi enteriche e respiratorie,

somministrare agli animali miscele medicate previa autorizzazione del veterinario.

Operazioni importanti in questa fase sono: vaccinazioni, taglio della coda e asportazione dei denti.

Esempio di miscela per suinetti da 4 a 12 kg di peso vivo

Alimento % su 100 kg di mangime

Farina di mais 56,50

Farina di soia 22,80

Latte magro essiccato 10,00

Zucchero 5,00

Grasso animale 2,50

Carbonato di calcio 0,7

Fosfato bicalcico 1,75

Sale 0,5

Complesso vitaminico e minerale 0,25

Esempio di miscela per suinetti da 12 a 25 kg di peso vivo

Alimento % su 100 kg di mangime

Farina di mais 70,00

Farina di soia 26,80

Carbonato di calcio 0,7

Fosfato bicalcico 1,75

Sale 0,5

Complesso vitaminico e minerale 0,25

Alimentazione da 25 a 40 kg di peso In questa fase il mangime va somministrato ad libitum, nella dose di circa 1.200-1.500 gr

capo/giorno, pari circa al 4,8-3,7% del peso vivo. I suini vengono alimentati essenzialmente con

fiocchi di orzo e avena, farina di estrazione di soia fonte di energia e proteine. L’apporto di proteine

oscilla attorno al 18%

Esempio di formulazione del mangime integrato per alimentazione suini da

25 a 40 kg di peso vivo

Alimento % su 100 kg di mangime

Fiocchi di orzo 14,00

Fiocchi di avena 10,00

Farina di mais 20,00

Farina di orzo 10,00

Farina di soia 12,00

Farina di carne 2,00

Farina di pesce 3,00

Farina di carrube 3,00

Cruschello di frumento 20,00

Panello di lino 2,50

Lievito di birra 1,00

Carbonato di calcio 0,70

Fosfato bicalcico 1,00

Cloruro di sodio 0,30

Complesso vitaminico e oligominerale 0,30

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Quando i suinetti hanno raggiunto un peso di 30–40 kg, si può iniziare l’alimentazione integrata con

mangimi e siero, nella dose di circa 4–6 litri/capo/giorno, tenendo conto che il valore nutritivo di 15

litri dello stesso corrisponde al valore nutritivo di un kg di mangime.

Esempio di razionamento con siero di latte e mangime integrato

Peso vivo kg Siero/lt. Mangime integrato

30-40 4-6 1,0

40-50 6-8 1,4

Alimentazione nella fase di magronaggio da 40 a 70 kg di peso Via via che l’animale cresce il mangime è meno ricco, meno costoso.

Nella fase di magronaggio, i suini vengono alimentati essenzialmente con cereali crudi,

permangono la farina di estrazione di soia fonte di energia e proteine, si limitano nel contempo i

mangimi ricchi di fibra. Le proteine scendono al 16-14%.

Nel periodo tra 40-70 kg di peso vivo si distribuisce all’animale una alimentazione giornaliera di

circa 1.500-2.300 gr., pari a circa il 3,7 – 3,2% del peso vivo.

Esempio di formulazione del mangime integrato per alimentazione suini da 40

a 70 kg di peso vivo

Alimento % su 100 kg di mangime

Farina di mais 47,00

Farina di orzo 15,00

Farina di soia 10,00

Farina di carne 2,00

Farina di pesce 2,00

Farina di carrube 3,00

Cruschello di frumento 15,00

Panello di lino 2,50

Lievito di birra 1,00

Carbonato di calcio 0,70

Fosfato bicalcico 1,00

Cloruro di sodio 0,30

Complesso vitaminico e oligominerale 0,30

Nel caso di utilizzo del siero di latte si deve considerare che il valore nutritivo di 15 litri dello stesso

corrisponde al valore nutritivo di un kg di mangime.

Esempio di razionamento con siero di latte e mangime integrato per suini di

peso da 40 a 80 kg

Peso vivo kg Siero/lt. Mangime integrato

40-50 6-8 1,4

60-70 10-12 1,7

70-80 10-12 2,0

Alimentazione del suino leggero o “suino magro”

Nell’alimentazione del suino leggero la razione deve risultare opportunamente equilibrata nei

costituenti nutritivi ed in particolare in quelli proteici, per ottenere un giusto rapporto fra i tagli

carnosi ed adiposi I mangimi destinati ai suini leggeri non dovrebbero avere un contenuto di fibra

grezza superiore al 4,5-5,0% rispettivamente nelle due fasi di accrescimento e di finissaggio. Nel

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periodo tra 70-100 kg di peso vivo si distribuisce all’animale una alimentazione giornaliera di circa

2.300-3.000 gr., pari a circa il 3,2-3% del peso vivo.

Esempio di formulazione del mangime integrato per alimentazione suini da 70

a 100 kg di peso vivo

Alimento % su 100 kg di mangime

Farina di mais 57,00 Farina di orzo 15,00 Farina di soia 8,00 Farina di carne 1,00 Farina di pesce 1,00 Farina di carrube 3,00 Cruschello di frumento 10,00 Panello di lino 2,00 Lievito di birra 1,00 Carbonato di calcio 0,50 Fosfato bicalcico 0,8 0 Cloruro di sodio 0,30 Complesso vitaminico e oligominerale 0,30

Alimentazione nella fase di finissaggio o ingrassamento Nella fase di ingrasso viene ridotto l’apporto di proteine (12-13 %) e della fibra. Superati i 100 kg

di peso vivo si distribuisce all’animale una alimentazione giornaliera di circa 3.000-3.250 gr., pari a

3-2 % del peso vivo, tale da consentire accrescimenti ponderali giornalieri di circa 650-700 grammi

e di indici di conversione compresi fra 3,8 e 4.

Esempio di formulazione del mangime integrato per alimentazione suini da 100

a 160 kg di peso vivo

Alimento % su 100 kg di mangime

Farina di mais 69,00 Farina di orzo 9,00 Farina di soia 7,00 Farina di carrube 3,00 Cruschello di frumento 7,00 Panello di lino 2,00 Lievito di birra 1,00 Carbonato di calcio 0,50 Fosfato bicalcico 0,90 Cloruro di sodio 0,30 Complesso vitaminico e oligominerale 0,30

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E’ soprattutto nella fase di ingrassamento che viene utilizzato, ove disponibile, il siero di latte in

quanto, essendo il siero ricco di lattosio è indispensabile per la nutrizione della flora microbica

dell’intestino crasso. Tale alimento, infatti, comporta un aumento di acido propionico e, soprattutto,

butirrico, acidi grassi volatili essenziali per la formazione del grasso di copertura indispensabile per

gli insaccati. Il quantitativo di siero, al pv di 120–130 kg, può essere anche di 12–14 litri/giorno.

Esempio di razionamento con siero di latte e mangime integrato per suini di

peso da 80 a 130 kg

Peso vivo kg Siero/lt. Mangime integrato

80-90 10-12 2,3

90-100 10-12 2,6

100-130 10-12 2,9

Come evidenziato nella parte generale dedicata all’alimentazione animale, oltre alla frazione

organica, gli alimenti (i mangimi, nel caso dei suini) devono contenere una quantità variabile di

acqua e di sostanze minerali e di indispensabili vitamine necessarie alla vita degli animali per cui,

nella formulazione dei mangimi concentrati, rientra sempre il complesso vitaminico ed

oligominerale di cui si riporta un esempio Esempio di complesso vitaminico e oligominerale per 1 Kg

Vitamina A U.l 6.000.000

Vitamina D3 U.I. 800.000

Vitamina K mg 1.000

Vitamina E mg 2.000

Vitamina B mg 600

Vitamina B2 mg 1.600

Vitamina B6 mg 800

Vitamina B12 mg 8

Vitamina PP mg 10.000

Ac. d-pantotenico mg 5.000

Colina cloruro mg 200.000

DL-metionina mg 40

Fe mg 6.000

Mn mg 4.000

Cu mg 20.000

Zn mg 40.000

Supporto vegetale q.b. a g 1.000

Resa alimentare La resa alimentare (peso vivo realizzato per quantità di alimento somministrato) diminuisce con

l’aumento del peso e dell’età. Mediamente per la produzione di un suino pesante, in allevamento a

ciclo aperto, partendo da un lattonzolo di 25 kg di pv portato al peso di macellazione di 160 kg, la

resa alimentare si attesta attorno al 29-31% (per produrre kg 29-31 di peso vivo, occorrono 100 kg

di mangime)

Esempio di razionamento dei suini da ingrasso

da lattonzolo di 25 kg di pv a suino pesante di 160 kg di pv

Peso vivo suino

kg

Alimentazione

giornaliera gr.

% di alimento sul

peso vivo

Indice conversione

alimento

% media

resa alimento

25-40 1.200-1.500 4,8-3,7 2,5-2,8 25

40-70 1.500-2.300 3,7-3,2 2,8-3,2 28

70-100 2.300-3.000 3,2-3,0 3,2-3,8 34

100-160 3.000-3.200 3,0-2,0 3,8-4,0 38

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Resa alla macellazione

La resa nei suini è più elevata rispetto ai bovini in quanto non vengono scartate pelle, testa e

zampetti. Mediamente le rese si aggirano sull’80-82 % con punte dell’84%.

Calcolo della resa alla macellazione:

Peso della carcassa x 100

------------------------------------- = Resa

Peso vivo

Es.:

138 x 100

------------------------------------- = 82,14%

168

Alimentazione dei soggetti da rimonta (verri e scrofe)

L’alimentazione dei soggetti da rimonta (scrofette e verretti) è diversa dai suini da produzione, è

infatti opportuno, per queste categorie di animali, evitare l’ingrassamento precoce ma favorire uno

sviluppo armonico dei capi.

La tecnica prevede uno svezzamento tardivo a 60–90 giorni e un’alimentazione a base di miscele di

concentrati come i magroncelli fino ad un peso di 50–60 kg, distribuita ad libitum.

Successivamente la razione deve essere bilanciata per consentire uno sviluppo scheletrico e

muscolare omogeneo.

Alimentazione dei verri Dopo la fase dello svezzarnento, a 25-35 kg di p.v., i giovani verretti sono separati dalle scrofette e

detenuti a gruppi di 10-15 soggetti in ricoveri che diano la possibilità di vita all'aperto ed alimentati

pressapoco come le scrofette.

Il mangime dovrebbe contenere circa il 16-17% di proteina grezza.

Verso i 70-110 kg di peso vivo i verretti sono separati ed alloggiati in box, singolarmente o in

gruppi di due, avendo cura di assicurare agli animali uno spazio adeguato al giusto movimento.

Nel primo anno di vita l’incremento giornaliero di peso dovrebbe mantenersi sui 200 gr/giorno; nel

secondo sui 100 gr/giorno. Successivamente, nel verro adulto, considerando che l’obiettivo non è

l’ingrassamento di tali soggetti, gli apporti energetici non dovranno superare di molto i fabbisogni

di mantenimento.

Esempio di razionamento per verri

Peso vivo Kg/mangime/giorno

30 1,50

50 1,90

80 2,50

100 2,80

120 3,10

140 2,50

160 2,50

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Alimentazione delle scrofe La scrofetta destinata alla riproduzione sarà detenuta in gruppi di 15-20 soggetti in ricoveri

sufficientemente ampi al fine di farle beneficiare di una utile ginnastica funzionale.

Scopo fondamentale dell’alimentazione in questo periodo è di stimolare lo sviluppo dell’apparato

digerente, scheletrico e muscolare, limitando la formazione di grasso di deposito e, per quanto

possibile, anticipare la pubertà.

All’età di circa 7-8 mesi (peso circa 110 kg) la scrofetta sarà trasferita nel “centro eros” per

sottoporla al primo salto ed essere fecondata. Dopo una permanenza, nello stesso centro, di almeno

4 giorni (per assicurarsi che non abbia un “ritorno di calore"” e che sia effettivamente gravida), la

scrofa (normalmente in gruppi di 5-6 soggetti) sarà trasferita in un adatto ricovero con possibilità di

razionamento individuale, fino a 4-5 giorni dal parto. Per il parto ogni scrofa sarà trasferita nel

proprio box da parto e allattamento, dove rimarrà fino allo svezzamento dei suinetti. Ritornerà poi

nel “centro eros” per riprendere un nuovo ciclo di fecondazione-gestazione.

Nei vari stadi la scrofetta e la scrofa avranno un differente trattamento alimentare:

Alla sopraggiunta pubertà e al 2° calore, la scrofetta dovrà essere fecondata. È buona norma,

dopo il suo trasferimento al “centro eros” nel periodo pre e periestrale, di sottoporla ad una

ricca alimentazione ad libitum nelle 2 settimane che precedono l’accoppiamento, in quanto

la superalimentazione in questo stesso periodo agisce favorevolmente sul tasso di

ovulazione e conseguentemente sul numero dei suinetti nati. Nei giorni immediatamente

successivi alla monta, e per il primo periodo di gravidanza (primi 70-80 giorni circa) la

razione va gradualmente ridotta a non oltre 1,8-2,5 kg giornalieri. Gli eccessi alimentari,

aumenterebbero, nella scrofa al suo primo mese di gravidanza, il numero degli embrioni

riassorbiti.

Nell’ultimo periodo di gravidanza, ultimi 30-40 giorni, in concomitanza con la fase di

maggior sviluppo dei feti, la razione va leggermente maggiorata (kg 2,3-2,7 di

mangime/giorno).

Nel periodo di allattamento, la razione può essere distribuita in misura ridotta durante i

primi giorni successivi al parto; in seguito la quantità giornaliera di mangime va

gradatamente aumentata fino a raggiungere la razione completa entro i 4-5 giorni dal parto,

(4,5-5,0 kg/giorno).

Con il passaggio dalla gravidanza alla lattazione, la scrofa tende a ridurre spontaneamente la

quantità di alimento assunto, per cui ci si deve preoccupare innanzitutto che essa ingerisca

giornalmente tutti i principi nutritivi di cui abbisogna. Tanto maggiore sarà l’energia ingerita

con le fonti dietetiche, tanto meno la scrofa dovrà ricorrere alle proprie riserve. La razione

va mantenuta costante fino all’ultima settimana di lattazione e quindi diminuita

giornalmente di 1 kg, cominciando 3-4 giorni prima della messa in asciutta, (svezzamento

dei suinetti), fino ad arrivare ai 3 kg giornalieri.

Il giorno dello svezzamento, purché venga assicurato il normale approvvigionamento idrico,

è consigliabile il digiuno della scrofa.

Al termine della la fase di lattazione (3 settimane circa) la scrofa avrà perso in media dai l0 ai 15 kg

del suo peso iniziale (calo del tutto fisiologico). Nel successivo momento dello svezzamento dei

suinetti l’alimentazione della scrofa riveste un ruolo decisivo, perché è nel passaggio dallo

svezzamento della nidiata al successivo ritorno in calore dell’animale che si devono tutelare al

massimo la sua salute e la sua fecondità.

Un errore di dieta in questo periodo può significare la mancata venuta in calore e l’allungamento

dell’interparto.

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Esempio di razionamento per una scrofa che ha partorito l0 suinetti

Fase Dose giornaliera di mangime in kg

Fase pre-estro 4,0-4,5 Kg

Fase inziale della gravidanza (primi 80 giorni) 1,8-2,3 kg

Fase finale della gravidanza (ultimi 35 giorni) 2,5-2,7 kg

Parto e per alcuni giorni post-parto 1,5-2,0 kg

Da 4-5 giorni dal parto nella fase di allatamento (21 giorni circa) 4,5-5,0 kg

Quattro giorni prima dello svezzamento 5,0 kg

Tre giorni prima dello svezzamento 4,0 kg

Due giorni prima dello svezzamento 3,0 kg

Giorno dello svezzamento Digiuno

Da svezzamento a fase pre-estro (10 giorni circa) 1,8-2,0 kg

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Principali razze suine

Large White

La Large White è forse la razza più conosciuta ed apprezzata a livello mondiale. E' originaria

dell’Inghilterra e più precisamente delle contee di York, di Lincoln e di Norfolk. E' la razza con più

elevata consistenza in Italia.

Morfologicamente si contraddistingue per la cute è rosea e setole bianche, testa larga con profilo

fronto-nasale mediamente concavo, orecchie portate in alto, leggermente inclinate in avanti, cosce e

spalle ben sviluppate, tronco lungo cilindrico leggermente depresso lateralmente, natiche convesse

con prosciutto spesso, muscoloso e dalla tipica forma “schiacciata”; scheletro robusto.

La Large White venne subito apprezzata per le sue spiccate doti di precocità, prolificità, grande

mole, notevole attitudine alla produzione di carne, scheletro relativamente ridotto ed elevate rese di

macellazione.

La notevole capacità di trasmettere i propri pregi alla prole, fu il motivo principale per cui venne

usata per il miglioramento genetico di molte popolazioni suine di tutto il mondo.

La Large White, per la grande mole e per la robustezza degli arti, trovò e trova tuttora notevole

apprezzamento in Italia per l'allevamento del suino pesante, utilizzato per la produzione di salumi

famosi quali ad esempio i prosciutti di Parma e di San Daniele.

Presenta una elevata velocità di accrescimento a tutte le età, un'ottima capacità di trasformazione

degli alimenti, alte rese di macellazione, una qualità della carne eccellente con giusto rapporto tra

parte grassa e parte magra, prosciutti ben conformati. La carne è utilizzata per la produzione di

salumi tipici e per quella di carne da pronto consumo. Il peso di macellazione utilizzato per il suino

pesante è di circa 160-170 kg (in un anno).

La Large White è caratterizzata da elevata prolificità, con circa 11 i suinetti nati per nidiata e circa

due parti all'anno. Le scrofe posseggono ottima indole materna e una elevata produzione di latte,

che consente loro di portare fino allo svezzamento nidiate numerose.

Landrace

Razza originaria della Danimarca, dove è stata creata verso la fine dell'Ottocento e i primi del

Novecento incrociando scrofe locali con verri Large White.

Morfologicamente si contraddistingue per la buona taglia, il tronco molto allungato, il Petto,

groppa e natiche ben muscolosi. Testa con profilo fronto-nasale rettilineo o a concavità appena

accennata, con orecchie relativamente lunghe, portate in avanti e ricadenti. Collo sottile e

relativamente allungato. Mantello bianco con cute rosea.

La razza si è diffusa in molti Paesi dove, selezionata con differenti criteri, ha costituito diversi

“ceppi” (olandese, francese, tedesco, inglese, belga e italiano).

La Landrace Danese (Danish Landrace) attuale è tra le razze più selezionate e più stimate al mondo.

L'attenta selezione e le buone cure di mantenimento permettono di ottenere, in genere, due parti

all'anno. Il peso vivo medio dei suinetti alla nascita è di kg 1,3-1,5. Le scrofe presentano buone

attitudini materne.

Il suino Landrace in parte viene allevato in purezza, ma lo scopo prevalente del suo allevamento è

quello di ottenere scrofe meticce con la razza Large White, in modo da sfruttare l'eterosi derivante

dell'incrocio di prima generazione, soprattutto nei riguardi delle caratteristiche materne, dello

sviluppo del prosciutto, della lunghezza dei lombi e del modesto spessore del lardo.

Per l’ingrasso la Landrace è allevata incrociata con la Large White (scrofa Large White e verro

Landrace).

In Italia sono allevati due “tipi” di Landrace: il Landrace italiano e il Landrace belga. Il Landrace

italiano è longilineo, armonico, di buona taglia, con scheletro solido ma non troppo pesante. Il

Landrace belga è di media taglia, carnoso, con scheletro leggero ma solido e con prosciutti globosi.

Oggi è una delle migliori razze in assoluto per la sua alta resa al macello, l’ottima attitudine sia per

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la produzione di suino pesante che per la produzione di carne magra da destinare al consumo

diretto.

Buona la prolificità, con 11 suinetti nati per nidiata e circa 2 parti all'anno, ed elevata attitudine

materna.

Hampshire

Razza originaria degli Stati Uniti.

Morfologicamente si contraddistingue per il colore nero con fascia bianca che interessa garrese

spalle e arti anteriori come la Cinta Senese, dalla quale si distingue per la maggiore mole, il

portamento eretto delle orecchie, le maggiori masse muscolari e la carne meno grassa. Testa di

medio sviluppo a profilo rettilineo, orecchie piccole ed erette, collo corto e muscoloso, tronco

relativamente corto. Animali di media mole, con accrescimenti rapidi e buona conversione

alimentare. La fertilità e la prolificità sono medie, l’attitudine materna è elevata.

E’ razza buona produttrice di carne (magra e asciutta) con netta prevalenza dei tagli carnosi su

quelli adiposi e gran sviluppo delle masse muscolari della coscia, anche se acida.

La carne è acida quando il pH dopo la macellazione lentamente si porta a valori troppo bassi, sotto

il 5,5.

Razza molto usata per l’incrocio nella produzione del suino leggero grazie all’elevato

accrescimento che dimostra nei primi mesi di vita. Se incrociata con suini di grande mole fornisce

anche ottimi soggetti di peso elevato da trasformare.

Duroc

La razza Duroc si è formata circa un secolo fa negli Stati Uniti.

In Italia ha trovato un crescente apprezzamento negli ultimi decenni, legato al suo impiego per la

produzione di meticci destinati al circuito del suino pesante italiano. Solitamente viene attuato un

incrocio tra un verro di razza Duroc con una scrofa Large White o Landrace o più frequentemente

con scrofe meticce ottenute dall'accoppiamento tra queste ultime due razze.

Razza di grande taglia, oltre che per la notevole velocità di accrescimento e per le buone

caratteristiche riproduttive, è apprezzata in Italia per la notevole robustezza, soprattutto degli arti,

che trasmessa alla prole, risulta particolarmente utile per la produzione del suino pesante italiano.

Infatti, sia per il peso di macellazione elevato che per l'allevamento in strutture con pavimento in

cemento, sono preferiti suini con arti particolarmente resistenti.

La razza è utilizzata principalmente per la produzione di meticci destinati al circuito del suino

pesante italiano. I meticci ottenuti dall'incrocio tra Duroc Italiana, Large White Italiana e Landrace

Italiana, vengono utilizzati per la produzione di carne destinata prevalentemente all'industria di

trasformazione per la produzione di salumi tipici, come il prosciutto di Parma e quello di San

Daniele. Per queste produzioni non è consentito utilizzare suini Duroc di razza pura, ma solamente

suoi meticci. Il peso di macellazione utilizzato per il suino pesante è di circa 160-170 kg.

Pietrain

Razza originaria del Belgio.

Morfologicamente si contraddistingue per il colore bianco di fondo, le vistose pezzature nere

tendenti alla forma ovale o rotondeggiante, la taglia media, la testa leggera con profilo rettilineo,

orecchie corte larghe portate in avanti, collo corto e muscoloso, tronco cilindrico lungo, con linea

dorso lombare larga e muscolosa, prosciutti globosi e discesi, arti brevi e robusti, scheletro leggero.

Caratteristica la ipertrofia muscolare di origine genetica.

Suino ipertrofico, con masse muscolari molto pronunciate che forniscono altissime rese al macello,

con carni chiare quasi prive di grasso. Particolarmente adatta alla produzione del suino leggero.

Questa razza è però caratterizzata da un’elevata suscettibilità allo stress, che determina alterazioni

fisiologiche delle masse muscolari tali da compromettere l'attitudine alla trasformazione in

prosciutti di qualità. Altri difetti sono la scarsa velocità di accrescimento, l’indice di conversione

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alimentare sfavorevole e la bassa prolificità. La longevità di questi suini risulta sotto la media della

specie.

Spot o Spotted Poland Razza americana che trae la sua origine dalla Poland China.

Morfologicamente si contraddistingue per la cute di color rosa e nero ardesia a macchie, setole

bianche raccolte nelle zone a cute pigmentata. Prevalenza del nero sul bianco.

Setole diritte, morbide e fini. Testa leggera, profilo rettilineo o leggermente concavo. Le orecchie

sono pendule, piccole tendenti alla forma triangolare equilatera. Grifo e labbra rosse.

Arti solidi. Tronco lungo ed elegante con masse muscolari della groppa ben sviluppate e linea

dorso-lombare leggermente convessa. Prosciutti larghi e ben discesi fino al garretto.

Il grasso di marezzatura è elevato, la resa al macello media e il colore della carne scuro. E’ adatta

alla produzione del suino magro e fornisce carcasse ricche di tagli pregiati. Buona la prolificità.

Rustica e resistente, precoce e buona trasformatrice degli alimenti.

In Italia è importato e usato prevalentemente come verro da incrocio terminale da impiegare per la

produzione del suino pesante.

Cinta Senese Le origini di questa razza sono molto antiche ed esistono testimonianze pittoriche che dimostrano

l'allevamento di suini simili all'attuale Cinta Senese fin dal Medioevo. Il tratto più caratteristico di

questo suino è la presenza di una cinghiatura bianca, che dà il nome alla razza, su un mantello che è

di colore nero-ardesia.

E' una razza molto rustica e frugale, per cui la sua struttura si avvicina al tipo longilineo, con arti

abbastanza lunghi ma robusti, tronco poco profondo, testa allungata a profilo rettilineo, adatta al

pascolamento.

L’area di origine e di allevamento della Cinta Senese è quella della Montagnola Senese, compresa

nel territorio dei comuni di Monteriggioni, Sovicille, Gaiole, Castelnuovo Berardenga e Casole

d’Elsa, nel territorio delimitato dall'alta valle del fiume Merse da una parte e dall'alta valle del

fiume Elsa dall’altra.

La Cinta Senese era molto diffusa in Toscana fino agli anni Cinquanta. Tra gli anni Sessanta e

Novanta ha subito una drastica contrazione demografica, ma negli ultimi anni si è registrata una

inversione di tendenza e la Cinta Senese presenta ormai da qualche tempo un trend positivo.

La Cinta Senese produce carne di ottima qualità, le cui caratteristiche sono apprezzate soprattutto

per la trasformazione in salumi tipici. Il peso di macellazione varia dai 40 ai 60 kg per la

produzione della porchetta. Per la produzione del suino pesante il peso di macellazione medio è di

circa 120 kg e la sua carne viene prevalentemente trasformata in salumi tipici tradizionali, quali il

prosciutto toscano, la spalla salata, le salsicce, la gola, il lardo, la pancetta o rigatino, il capocollo, la

soppressata, la finocchiona. Come carne fresca viene utilizzata maggiormente la lombata per la

cottura sulla griglia sotto forma di bistecche.

Mora Romagnola La Mora Romagnola era molto allevata nella provincia di Forlì e Ravenna ma anche in tutta la

Romagna. Si distinguevano diversi tipi a seconda delle aree di allevamento e diverse gradazioni di

colore. Il nome “Mora” è dovuto al suo colore, marrone scuro tendente al nero.

Una volta esistevano diverse popolazioni di Mora: la diffusissima “Forlivese” (manto nerastro con

tinte più chiare nella regione addominale), la “Faentina” (mantello rosso chiaro e meno pregiata

della prima), e la “Riminese” (mantello rossastro con una stella bianca in fronte e qualche volta con

una cinghiatura chiara).

Fino a metà degli anni ’50 tutte queste popolazioni erano incrociate con ceppi locali di Large White:

il “San Lazzaro” e la “Bastianella”.

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Questi suini, in possesso di discrete masse muscolari, a 18 mesi arrivavano a pesare anche 300 kg.

Oggi la razza è ridotta a pochi esemplari concentrati in alcuni allevamenti, con elevati livelli di

consanguineità.

Nel 1918 la popolazione di suini di razza Mora Romagnola in Italia ammontava a 335.000 capi.

Nel 1949 la consistenza era già calata a 22.000 soggetti allevati soprattutto nelle province di Forlì e

Ravenna, ma anche nel resto della Romagna. Nei primi anni Novanta erano rimasti soltanto 18

esemplari concentrati in un solo allevamento con elevati livelli di consanguineità.

La Mora Romagnola è stata da sempre molto apprezzata per la produzione di carne di ottima

qualità, utilizzata prevalentemente per la produzione di salumi di pregio. Tradizionalmente il peso

di macellazione variava tra i 160 e i 200 kg.

Numero medio di nati per parto: 7 suinetti. Le scrofe hanno una durata media della carriera

produttiva di 5-7 parti, sono buone produttrici di latte e sono dotate di eccellenti doti materne.

Razza Sarda

Razza italiana di piccola mole originaria della Sardegna.

Somaticamente ricorda molto il cinghiale con il quale sovente si accoppia nella bassa macchia e nel

sottobosco dove per lo più vive e pascola.

Morfologicamente si contraddistingue per la taglia piccola con scheletro solido. Il peso vivo da

adulto è 70-100 kg. L’altezza media al garrese 60 cm. Il colore del mantello può essere nero,

grigio, fulvo, pezzato. Le setole sono lunghe, numerose, ruvide ed in corrispondenza della linea

dorsale formano una criniera. La testa è conica con profilo rettilineo ed orecchie piccole dirette in

alto e di lato o pendenti. A volte può presentare “tettole” come la Casertana. Il collo è corto e

robusto. Il tronco è poco sviluppato, la linea dorso-lombare rettilinea o leggermente convessa,

groppa inclinata; spalle leggere, torace poco sviluppato, cosce scarne. Coda lunga con setole che,

talvolta, formano una caratteristica coda “cavallina”. Gli arti sono corti e robusti.

I suini di razza Sarda sono allevati principalmente per la produzione di salumi tradizionali.

Altrettanto importante è il consumo dei suinetti, macellati all'età di 35-45 giorni, che rappresenta

uno dei piatti tradizionali della cucina tipica sarda.

Razza Casertana La razza Casertana (Di Teano o Pelatella) ha origini antichissime.

Morfologicamente si contraddistingue per la taglia piccola con scheletro leggero ma solido.

La cute è pigmentata (nero o grigio-ardesia). Le setole rade e sottili sono talvolta raggruppate a

formare ciuffetti sul collo, sulla testa e all’estremità della coda.

La testa è di medio sviluppo, di forma tronco-conica, con profilo fronto-nasale rettilineo o

leggermente concavo, grugno lungo e sottile, le orecchie di media grandezza ravvicinate tra loro e

pendenti in avanti. Il collo è allungato e stretto lateralmente. Il tronco è moderatamente lungo e

stretto, la regione toracica piatta, la linea dorso-lombare leggermente convessa; la groppa è molto

inclinata e stretta; la coda è attorcigliata. Gli arti sono di media lunghezza, asciutti e piuttosto

sottili.

La Casertana, durante il secolo scorso, al pari di altre razze suine autoctone italiane, ha subito una

forte contrazione demografica, sostituita da tipi genetici più magri e più precoci di origine straniera,

rischiando l'estinzione.

E' da sempre apprezzata per le sue alte rese di macellazione favorite da una costituzione scheletrica

estremamente fine. Veniva utilizzata per la produzione di salumi tipici, ma era anche molto

considerata come fornitrice di carne fresca da pronto consumo.

Rustica, ottima pascolatrice, frugale e precoce, possiede tutte le caratteristiche per essere allevata

all'aperto. La scrofa è dotata di elevato istinto materno. La prolificità non è molto elevata, con un

numero medio di suinetti di 6-8 per parto.

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CAP 9 VALORIZZAZIONE DEL TERRITTORIO

RURALE

Sostituzione/Integrazione da pag. 557 a pag. 562

manuale “seconda edizione”

9. VALORIZZAZIONE DEL TERRITTORIO RURALE 9.1 I PROGRAMMI DI SVILUPPO RURALE

P.S.R.

Programma di Sviluppo Rurale

Premessa Il Piano di Sviluppo Rurale meglio conosciuto come PSR è il principale strumento di

programmazione e finanziamento per gli interventi nel settore agricolo, forestale e dello sviluppo

rurale e opera sui territori regionali.

Il PSR è articolato in Misure, ogni Misura , a sua volta, è articolata in Sottomisure e, ad ogni

misura o Sottomisura possono corrispondere delle azioni, corrispondenti agli interventi da attuare

sul territorio dai diversi soggetti

Il Piano di Sviluppo Rurale viene approvato dall’organo competente, la Commissione Europea, a

fronte delle proposte di ogni singola regione italiana.

Ogni Regione delibera, una volta ricevuto l’approvazione da parte della Commissione, l’attuazione

del Piano comprensiva di procedure e di priorità da perseguire con l’emissione dei bandi per ogni

singola Misura.

Ogni Regione può autonomamente definire quali priorità perseguire attivando o meno le Misure

contenuta nella Direttiva Comunitaria.

Il Programma investe su temi particolarmente sensibili che hanno trovato, da parte della

Commissione Europea, 5 priorità che articolano il nuovo PSR 2014-2020:

1. conoscenza e innovazione;

2. competitività del settore agroindustriale;

3. ambiente e clima;

4. sviluppo del territorio;

5. l’approccio Leader.

Il PSR offre quindi numerose opportunità sia nell’ambito degli Aiuti e degli Investimenti che in

ambito della Conoscenza e Innovazione attraverso 66 tipi di operazioni. Gli obiettivi rispondono

alle specifiche esigenze di ogni territorio. Dove ogni Regione deve usare queste risorse per far

sviluppare al meglio non solo l’agricoltura, ma tutti i settori insiti nelle aree rurali.

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Il Programma di Sviluppo Rurale dura sette anni. In sette anni di investimenti tutte le Regioni si

impegnano ad utilizzare i finanziamenti europei per sostenere lo sviluppo economico delle aree

meno urbanizzate, per la tutela e la salvaguardia del territorio e del paesaggio rurale, per ridurre il

divario in termini di servizi e di opportunità di occupazione delle aree svantaggiate, per migliorare

la qualità di vita dei cittadini.

I beneficiari del Programma di Sviluppo Rurale comprendono tutte le categorie (economiche e/o

sociali) attive nelle aree rurali regionali o coinvolte in iniziative di sviluppo, come:

le imprese private:

- aziende agricole e forestali;

- industrie alimentari;

- piccole e medie imprese nei settori del turismo e dell’artigianato tipico;

- altri soggetti individuati come beneficiari dalle singole misure.

gli enti:

- Comunità montane

- Comuni

- Province

- Enti parco;

- Enti gestori SIC e ZPS;

- altri enti individuati come beneficiari dalle singole misure

Si riportano di seguito le Misure e le Sottomisure definendo gli ambiti di

finanziamento e le priorità previste.

Per semplicità si riporta Il PSR contemplato dalla Regione Campania per una

migliore comprensione e completezza delle Misure applicate

Misura 1

Trasferimento delle conoscenze ed azioni di informazione La misura contribuisce al miglioramento della competitività tramite la formazione professionale,

promuove il trasferimento di conoscenze e l’innovazione nel settore agricolo e forestale e nelle zone

rurali con interventi volti allo sviluppo della base di conoscenze e all’apprendimento lungo tutto

l’arco della vita. Sostiene un’offerta formativa ed un’azione di informazione flessibili ed innovative

capaci di proporre approcci, modelli, metodologie e strumenti di trasferimento delle conoscenze e

scambio delle esperienze che vanno ben oltre le metodologie didattiche tradizionali. Gli interventi

saranno programmati integrandoli sia con la misura relativa alla Cooperazione sia con le misure di

supporto all’azienda singola, o a gruppi di aziende.

La misura si pone la finalità di incoraggiare l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita e la

formazione professionale nel settore agricolo e forestale, perseguendo l’obiettivo specifico di

migliorare le competenze.

Permette una più rapida adozione delle innovazioni. Dà sostegno ad interventi che prevedono

specifiche attività di trasferimento delle conoscenze a favore dei giovani, delle donne e degli adulti

in modo da creare o mantenere per essi le condizioni per un’occupazione e un reddito nei servizi di

un’azienda agricola (es. agriturismo) e più in generale nei servizi locali nell’area rurale (es. vendita

diretta - mercati contadini, commercio elettronico, gruppi d’acquisto solidale, attività in fiere ed

eventi turistici). Contribuisce ad ottimizzare l’assetto organizzativo delle aziende, a potenziare la

cooperazione a promuovere lo sviluppo economico, la produttività e occupabilità sul territorio.

Sottomisura 1.1 - Formazione e acquisizione di competenze Questa sotto misura vuole promuovere lo sviluppo, la promozione e realizzazione di un’offerta

formativa al lavoro e/o sul lavoro e/o formazione permanente in ambito agricolo forestale e

agroalimentare (es. percorsi formativi, corsi personalizzati e/o individualizzati, moduli su specifiche

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tematiche di interesse del settore) che tengono conto del trasferimento di competenze teoriche (es.

lezioni in aula, seminari, workshops, e-learning) e pratiche (es. tirocini, stage, viaggi di studio e

scambio di esperienze) per migliorare le professionalità di giovani ed adulti e quindi la loro

occupabilità e competitività sul mercato del lavoro nelle zone rurali; sono esclusi corsi o tirocini che

rientrano nei programmi o cicli normali dell’insegnamento secondario o superiore.

Sottomisura 1.2 - Progetti dimostrativi e Azioni di informazione

La Sottomisura vuole realizzare di azioni di trasferimento delle conoscenze attraverso giornate

dimostrative in campo, visite guidate, eventi divulgativi (convegni, seminari, mostre, fiere) legate a

temi dell’economia aziendale, della competitività aziendale, della gestione sostenibile delle risorse e

dell’impatto sull’ambiente, la silvicoltura, l’imprenditorialità, la sicurezza sul lavoro, la privacy, il

ricambio generazionale, l’accesso flessibile, la mobilità aziendale, la professionalità e la qualità del

lavoro, la qualità della vita nell’area rurale al fine di creare le basi per la progettazione e valutazione

di azioni pilota o start-ups nell’area rurale.

Sottomisura 1.3 - Visite aziendali e programmi di scambio

Con questa sottomisura vengono sostenuti gli scambi di conoscenze e buone pratiche interaziendali

tramite la permanenza del partecipante presso un’altra realtà aziendale in ambito UE per

confrontarsi sui metodi e tecnologie di produzione agricola e forestale sostenibili, la

diversificazione aziendale, la partecipazione alla filiera corta, lo sviluppo nuove opportunità

imprenditoriali e nuove tecnologie e il miglioramento della resilienza delle foreste, organizzare

visite in aziende agricole e forestali per apprendere questioni specifiche o metodi produttivi.

Misura 2

Servizi di consulenza, di sostituzione e di assistenza alla gestione

delle aziende agricole La misura concede un sostegno con l’obiettivo di:

aiutare gli imprenditori agricoli, gli operatori forestali attivi, i giovani agricoltori, gli altri

gestori del territorio e gli imprenditori delle PMI insediate nelle zone rurali, ad utilizzare

servizi di consulenza aziendale per migliorare le prestazioni economiche e ambientali delle

loro imprese e il rispetto delle norme di sicurezza sui luoghi di lavoro;

incentivare la partecipazione degli imprenditori agricoli e forestali ad attività di consulenza

finalizzata ad accrescere la produttività del lavoro, la competitività delle imprese e la

sostenibilità ambientale delle produzioni e l’uso sostenibile delle risorse, anche in coerenza

con la strategia nazionale del PQSF e con gli strumenti e programmi regionali in materia

forestale

Sottomisura 2.1 - Servizi di consulenza aziendale

La Sottomisura 2.1 è programmata per innalzare la competitività delle imprese agricole e forestali

attraverso il sostegno ad azioni tese allo sviluppo di un adeguato servizio di consulenza aziendale,

svolto per affrontare problematiche specifiche e migliorare le prestazioni economiche delle imprese

e la sostenibilità ambientale in generale. La consulenza può essere attivata sia per le azioni rivolte

alla produzione primaria sia per la trasformazione e commercializzazione di prodotti agricoli.

L’erogazione dei servizi di consulenza è fornita da autorità ed organismi ai destinatari

dell’intervento, che sono: imprenditori agricoli, giovani agricoltori, altri gestori del territorio

detentori di aree forestali e PMI insediate nelle aree rurali e nelle aree montane per la gestione e

valorizzazione economica e ambientale delle risorse agricole e forestali.

Sottomisura 2.2 - Avviamento di servizi di consulenza, di sostituzione e assistenza alla gestione

delle aziende agricole

Lo scopo della Sottomisura 2.2 è quello di incentivare la partecipazione degli imprenditori agricoli

ad attività di consulenza finalizzata ad accrescere la produttività del lavoro, la competitività delle

imprese e la sostenibilità ambientale delle produzioni e l’uso sostenibile delle risorse. In questo

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contesto l’aggregazione in forme associative troverà una migliore espressione per la realizzazione di

progetti comuni per tematiche specialistiche di interesse aziendale ed interaziendale, valorizzando il

ruolo delle associazioni produttive.

Sottomisura 2.3 - Formazione dei consulenti

La sottomisura 2.3 è rivolta alla formazione dei tecnici consulenti che operano nell’ambito delle

sottomisure 2.1 e 2.2. La finalità è quella di prevedere percorsi didattici che consentano l’elevazione

della conoscenza specifica dei partecipanti sulle tematiche oggetto della consulenza.

Misura 3

Regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari La misura è tesa a incentivare gli agricoltori a qualificare e distinguere le produzioni di qualità e a

informare e sensibilizzare il consumatore sui caratteri distintivi delle produzioni certificate

rientranti nei sistemi di qualità indicati dall’articolo 16 del Reg.(UE) 1305/2013. Il sostegno

previsto per agevolare l’agricoltore in tale passaggio, che comporta vincoli e oneri aggiuntivi non

sempre riconosciuti dal mercato, risulta determinante per accrescere sia il numero dei partecipanti ai

sistemi di qualità che l’offerta di prodotti così certificati.

Sottomisura 3.1 - Regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari

Gli obiettivi della sottomisura sono:

incoraggiare e promuovere gli agricoltori singoli e associati a qualificare i propri prodotti /

processi aderendo a regimi di qualità certificata,

favorire e migliorare i sistemi di integrazione tra i produttori singoli e associati che operano

all’interno di sistemi di qualità delle produzioni

Misura 4

Investimenti in immobilizzazioni materiali Questa si può ritenere, insieme alla Misura 6, il più importante sostegno agli investimenti,

ponendosi quale leva strategica per migliorare l’efficienza e la competitività delle aziende agricole

attraverso la realizzazione di processi di ammodernamento strutturale. Il miglioramento delle

prestazioni economiche delle aziende e della competitività del comparto deve avvenire in una logica

di sostenibilità ambientale e di utilizzo razionale delle risorse naturali. Oltre agli investimenti

produttivi, la misura si propone di incentivare anche quelli improduttivi, che concorrono a tutelare

l’ambiente e la qualità delle risorse idriche, e a migliorare il paesaggio e conservare la biodiversità.

Sottomisura 4.1 - Investimenti per il miglioramento delle prestazioni e della sostenibilità delle

aziende agricole

Questa sottomisura vuole sostenere il ricambio generazionale con l’inserimento di giovani

agricoltori.

A fronte di situazioni difficili registrate per le aziende esistenti, generalmente condotte da

agricoltori anziani, poco propensi a nuovi investimenti e con traguardi economici temporali

ravvicinati è forte la richiesta da parte di giovani agricoltori che intendono realizzare nuove aziende

agricole o intendono apportare in quelle già condotte dai propri familiari, importanti innovazioni per

garantire il loro sviluppo a garanzia del proprio livello occupazionale. L’operazione supporterà in

maniera particolare le iniziative presentate appunto dai giovani agricoltori

Sottomisura 4.2 - Sostegno a investimenti a favore della trasformazione/commercializzazione

e/o dello sviluppo dei prodotti agricoli

La richiesta di prodotti lavorati e/o trasformati direttamente dalle aziende agricola e

commercializzati in modo diretto o attraverso filiere corte, è in continuo aumento. L’operazione si

propone di sostenere gli investimenti delle aziende agricole che svolgono attività di manipolazione,

conservazione, trasformazione, e valorizzazione e commercializzazione di prodotti agricoli, ottenuti

prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento degli animali

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Sottomisura 4.3 - Investimenti materiali e/o immateriali che riguardano l’infrastruttura

necessaria allo sviluppo, all’ammodernamento o all’adeguamento dell’agricoltura e della

silvicoltura, compreso l’accesso ai terreni agricoli e forestali, la ricomposizione fondiaria

La sottomisura è finalizzata a realizzare investimenti materiali ed immateriali necessari al

miglioramento delle performances economiche legate alle attività agro-forestali nonché al

mantenimento e alla creazione di nuove opportunità di lavoro nelle aree rurali. In tale contesto, la

sottomisura prevede la realizzazione di infrastrutture viarie tese ad una doppia finalità: migliorare

l’accessibilità alle aziende forestali nonché potenziare il collegamento tra queste e la viabilità

pubblica principale

Sottomisura 4.4 - Investimenti non produttivi collegati al raggiungimento degli obiettivi agro-

climatici-ambientali

La sottomisura vuole finanziare investimenti alle imprese che sviluppano attività a salvaguardia

dell’ambiente contribuendo alla conservazione della biodiversità.

Misura 5

Ripristino del potenziale produttivo agricolo danneggiato da calamità naturali e

da eventi catastrofici e introduzione di adeguate misure di prevenzione La misura contribuisce potenziare e stimolare lo sviluppo locale in quanto con azioni di

prevenzione e di recupero di strutture produttive danneggiate da calamità tutela elementi

paesaggistici, ambientali ed economici essenziali per l’attuazione di politiche di sviluppo locale

Sottomisura 5.1 - Investimenti in azioni di prevenzione volte a ridurre le conseguenze di

probabili calamità naturali, avversità atmosferiche ed eventi catastrofici La sottomisura prevede interventi da realizzare nelle imprese agricole, destinati sia alla protezione

delle produzioni agrarie e delle strutture aziendali presenti per contribuire, anche nell’ambito della

competenza della singole azienda, agli obiettivi più collettivi di difesa e tutela del territorio. In tale

ottica, infatti la sottomisura prevede anche investimenti non produttivi strettamente connessi al

presidio di eventuali condizioni di dissesto del suolo presenti nell’azienda.

Sottomisura 5.2 – Investimenti per il ripristino delle strutture aziendali, dei terreni agricoli e

del potenziale produttivo agricolo e zootecnico

La sottomisura intende sostenere la redditività e la competitività delle aziende agricole interessate

da avversità atmosferiche e calamità naturali. In tal senso offre alle imprese il sostegno necessario al

ripristino del potenziale agricolo danneggiato

Misura 6

Sviluppo delle aziende agricole e delle imprese La presente misura nasce per conseguire gli obiettivi, così come definiti dall’art.4 del REG UE n.

1305/13 al punto a) stimolare la competitività del settore agricolo, e al punto c) sviluppo territoriale

equilibrato delle economie e comunità rurali, comprese la creazione e il mantenimento di posti di

lavoro.

Sottomisura 6.1 - Aiuto all’avviamento di imprese per i giovani agricoltori

Aumentare la redditività e la competitività del settore, attraverso l’insediamento di agricoltori

giovani, disposti a introdurre soluzioni tecniche ed organizzative innovative per migliorare la

gestione aziendale

Sottomisura 6.2 - Aiuto all’avviamento d’impresa per attività extra agricole in zone rurali

E’ finalizzata a favorire l’avviamento di microimprese e piccole imprese, nonché a persone fisiche

che intraprendono attività extragricole in zone rurali . La presente sottomisura mira a favorire

l’avviamento di attività extragricole in aree rurali al fine di favorire lo sviluppo e la diversificazione

dell’economia dei territori rurali attraverso l’ampliamento ed il consolidamento del tessuto

imprenditoriale locale operante nel settore extragricolo, integrando in tal modo il reddito fornito alle

aree rurali da altre attività.

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Sottomisura 6.3 - Investimenti nella creazione e nello sviluppo di attività extra-agricole. Accrescere le opportunità occupazionali e di reddito favorendo la diversificazione delle attività

extra-agricole.

Misura 7

Servizi di base e rinnovamento dei villaggi nelle zone rurali La misura mira anche alla salvaguardia delle le aree della rete natura 2000, aree naturali protette e

siti di grande valore naturalistico.

Sottomisura 7.1 - Piani di tutela e di gestione dei siti natura 2000 e di altre zone di alto valore

naturalistico

Sottomisura 7.2 - Investimenti finalizzati alla creazione, al miglioramento o all’espansione di ogni

tipo di infrastrutture su piccola scala, compresi gli investimenti nelle energie rinnovabili e nel

risparmio energetico

Sottomisura 7.3 - Sostegno per l’installazione, miglioramento e l’espansione di infrastrutture a

banda ultralarga e di infrastrutture passive per la banda ultralarga, nonché la fornitura di accesso

alla banda ultralarga e i servizi di pubblica amministrazione online

Sottomisura 7.4 - Investimenti nella creazione, miglioramento, ampliamento dei servizi locali di

base per la popolazione rurale, compreso il tempo libero e la cultura, e delle relative infrastrutture

Sottomisura 7.5 - Investimenti di fruizione pubblica in infrastrutture ricreative, informazioni

turistiche e infrastrutture turistiche su piccola scala

Sottomisura 7.6 - Sostegno per studi e investimenti relativi alla manutenzione, al restauro e alla

riqualificazione del patrimonio culturale e naturale dei villaggi e del paesaggio rurale e dei siti ad

alto valore naturalistico compresi gli aspetti socioeconomici di tali attività, nonché azioni di

sensibilizzazione in materia di ambiente.

Misura 8

Investimenti nello sviluppo delle aree forestali e nel miglioramento della

redditività delle foreste La misura si suddivide in diverse sottomisure.

Sottomisura 8.1 - Forestazione ed imboschimento.

Sottomisura 8.3 - Prevenzione dei danni alle foreste da incendi, calamità naturali ed eventi

catastrofici.

Sottomisura 8.4 - Sostegno per il ripristino dei danni alle foreste da incendi, calamità naturali ed

eventi catastrofici.

Sottomisura 8.5 - Investimenti diretti ad accrescere la resilienza e il pregio ambientale degli

ecosistemi forestali.

Sottomisura 8.6 - Sostegno a investimenti in tecnologie silvicole, trasformazione, mobilitazione,

commercializzazione prodotti delle foreste

Misura 9

Costituzione di associazioni e organizzazione di produttori Il sostegno nell’ambito della presente misura è inteso a favorire la costituzione di associazioni e

organizzazioni di produttori nei settori agricolo e forestale

Sottomisura 9.1 - avviamento di gruppi, associazioni e organizzazioni di produttori nel settore

agricolo e forestale

La sottomisura intende favorire la costituzione di associazioni e organizzazioni di produttori nel

settore agricolo e forestale nei suoi primi anni di attività. Il sostegno è concesso alle associazioni e

organizzazioni di produttori ufficialmente riconosciute dalle autorità competenti degli stati membri

sulla base di un piano aziendale

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Misura 10

Pagamenti agro climatico ambientali Le misure agroambientali raggruppano, in un quadro programmatico unitario, operazioni a sostegno

dei metodi di produzione compatibili con la tutela dell’ambiente e la conservazione dello spazio

naturale.

Sottomisura 10.1 - Pagamenti per impegni agro climatico ambientali

la sottomisura è finalizzata alla salvaguardia e valorizzazione delle risorse naturali (acqua, suolo e

clima) attraverso l’incentivazione di pratiche colturali a basso impatto ambientale.

Sottomisura 10.2 - Sostegno alla conservazione e all’utilizzo sostenibile nonché dello sviluppo

delle risorse genetiche in agricoltura La sottomisura vuole tutelare le risorse genetiche autoctone, anche a rischio di estinzione, di

interesse agrario dei territori regionali.

Misura 11

Agricoltura biologica Applicare un sostegno alla diffusione dei metodi di produzione biologica, differenziandolo per la

“conversione” e per il mantenimento , va incontro alla domanda diffusa di adozione di pratiche di

produzione rispettose dell’ambiente rurale. A tutti i produttori viene chiesto di rispettare le norme

Europee contenute nei Regolamenti 834 / 2007 ed 889 / 2008 e dagli eventuali provvedimenti

nazionali vigenti.

La Misura prevede 2 Sottomisure.

Sottomisura 11.1 - Dove viene finanziata la conversione alle pratiche e ai metodi di agricoltura

biologica, come definite nel regolamento (CE) n 834/2007.

Sottomisura 11.2 - Dove i finanziamenti vengono concessi per il mantenimento delle pratiche e ai

metodi di agricoltura biologica come definite nel regolamento (CE) n 834/2007.

Misura 12

Indennità natura 2000 e indennità connesse alla direttiva quadro sulle acque La misura è finalizzata alla valorizzazione delle funzioni ambientali e di pubblica utilità delle aree

agricole e forestali sottoposte agli obblighi e vincoli previsti dagli strumenti di pianificazione o

dalle misure di conservazione nazionali e regionali, conseguenti l’applicazione delle direttive

comunitarie relative alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della

fauna selvatiche (92/43/cee), alla conservazione degli uccelli selvatici (2009/147/ce), e il quadro per

l’azione comunitaria in materia di acque (2000/60/ce).

Le sottomisure che possono accompagnare questa misura sono le seguenti.

Sottomisura 12.1 - Indennità in aree agricole ricadenti in siti natura 2000.

Sottomisura 12.2 - Indennità in aree forestali ricadenti in siti natura 2000.

Sottomisura 12.3 - Indennità connesse alla direttiva quadro sulle acque.

Misura 13

Indennità a favore delle zone soggette a vincoli naturali o ad altri vincoli

specifici In particolare la misura è attivata nelle zone di montagna, nelle zone soggette a vincoli naturali

significativi diverse dalle zone di montagna e nelle altre zone soggette a vincoli specifici, così come

definite all’art. 32 del reg. (UE) n. 1305/2013 ed è finalizzata a compensare, in tutto o in parte, i

costi aggiuntivi ed il mancato guadagno derivanti dai vincoli cui è soggetta la produzione nelle zone

interessate

L’articolazione della misura è così di seguito ripartita:

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Sottomisura 13.1 - Indennità compensativa per le zone montane.

Sottomisura 13.2 - Indennità compensativa per le zone soggette a vincoli naturali significativi

diverse dalle zone montane.

Sottomisura 13.3 - Indennità compensativa per altre zone soggette a vincoli specifici.

Misura 14

Benessere degli animali La misura trova applicazione negli allevamenti bovini, bufalini, suini, ovicaprini e avicoli

dell’intero territori regionali. Gli agricoltori con questa misura vengono incoraggiati ad applicare

negli allevamenti condizioni ottimali di benessere degli animali, concedendo un sostegno a quelli

che si impegnano ad adottare metodi di allevamento che vanno al di là dei requisiti obbligatori.

Misura 15

Servizi silvo-ambientali e climatici e salvaguardia delle foreste La misura risponde all’esigenza di promuovere la gestione sostenibile e il miglioramento delle

foreste e delle aree boscate nel perseguimento degli obiettivi climatici, ambientali e sociali affidati

al settore forestale dell’UE.

In questa misura sono previsti 2 sottomisure.

Sottomisura 15.1 - pagamenti per impegni silvoambientali.

Sottomisura 15.2 - sostegno alla conservazione delle risorse genetiche forestali.

Misura 16

Cooperazione Il sostegno nell’ambito della presente misura è concesso al fine di incentivare ogni forma di

cooperazione tra almeno due soggetti. Uno del limiti del comparto agricolo riguarda, infatti, la

limitata capacità di aggregazione e di cooperazione tra gli operatori di settore, e di relazione con

altri soggetti pubblici e privati in esso operanti, come ad esempio gli enti di ricerca.

La misura ha carattere trasversale rispetto alla attuazione dell’intero programma di sviluppo rurale

essendo tesa a favorire da un lato lo sviluppo, l’adozione e la diffusione di innovazioni nei settori

agroalimentare e forestale. E, dall’altro, sostenendo più in generale la cooperazione fra gli attori

della filiera agricola, alimentare e forestale finalizzata allo sviluppo di azioni comuni in diversi

settori ed ambiti di interesse agricolo.

La Misura offre grandi opportunità per gli investimenti innovativi, possono essere suddivisi in

diverse Sottomisure.

Sottomisura 16.1 - Supporto per la creazione e la gestione dei Gruppi Operativi del Partenariato

Europeo per l’Innovazione (PEI) in materia di produttività e sostenibilità dell’agricoltura.

Sottomisura 16.2 - Realizzazione di progetti pilota e sviluppo di nuovi prodotti, pratiche, processi e

tecnologie nel settore agroalimentare e in quello forestale.

Sottomisura 16.3 - Cooperazione tra piccoli operatori per organizzare processi di lavoro in comune

e condividere impianti e risorse e per lo sviluppo e/o commercializzazione di servizi turistici

inerenti al turismo rurale.

Sottomisura 16.4 - Cooperazione di filiera, sia orizzontale che verticale, per la creazione e lo

sviluppo di filiere corte e mercati locali e attività promozionali a raggio locale connesse allo

sviluppo delle filiere corte e dei mercati locali.

Sottomisura 16.5 - Azioni congiunte per la mitigazione dei cambiamenti climatici e l’adattamento

ad essi e approcci collettivi ai progetti e alle pratiche ambientali in corso.

Sottomisura 16.6 - Cooperazione di filiera per la produzione sostenibile di biomasse per l’industria

alimentare, produzione di energia e nei processi industriali.

Sottomisura 16.7 - Attuazione di strategie di sviluppo locale diverse da “Leader”.

Sottomisura 16.8 - Stesura di piani di gestione forestali o documenti equivalenti.

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Sottomisura 16.9 - Diversificazione delle attività agricole in attività riguardanti l’assistenza

sanitaria, l’integrazione sociale, l’agricoltura sostenuta dalla comunità e l’educazione ambientale e

alimentare.

Misura 19

Sostegno per lo sviluppo locale Leader Le risorse finanziarie in questa misura sono assegnate ai Gruppi di Azione Locale (GAL) per

l’attuazione della strategia del Piano di Sviluppo Locale (PSL).

Nell’ambito dell’iniziativa comunitaria Leader, finalizzata a valorizzare le potenzialità di un

territorio, i GAL (Gruppo di Azione Locale) sono i soggetti titolari della programmazione e

dell’elaborazione delle strategie di sviluppo e, responsabili, della sua attuazione.

I GAL sono costituiti da un insieme di partner pubblici e privati nell’ottica della rappresentatività

delle varie componenti socio-economiche del territorio.

Il GAL è responsabile dell’elaborazione e dell’esecuzione di un Piano di Sviluppo Locale (PSL)

incentrato su una serie di tematiche, rappresentative dell’identità dell’area rurale nella quale opera,

atte a favorire lo sviluppo sostenibile e il miglioramento del livello socio-economico della zona

stessa.

In particolare le funzioni del Gruppo di Azione Locale comprendono:

innovazione, ideazione e attuazione di una strategia pilota di sviluppo integrato e sostenibile

condivisa dal partenariato locale;

organizzazione, individuazione e distribuzione dei ruoli e delle responsabilità da attribuire

ai singoli partner indicando modalità e mezzi di attuazione del piano di sviluppo cercando di

massimizzare lo sfruttamento delle risorse disponibili;

adozione di decisione;

coordinamento

I GAL operano singolarmente ma possono anche agire in sinergia gli uni con gli altri, creando

azioni coordinate con altri enti o con investitori che ne condividano le finalità ed i principi.

Oltre ai fondi erogati dall’UE, noti come Fondo Europeo Agricolo, per realizzare il Piano di Azione

Locale, un GAL dispone di fondi nell’ambito del programma d’iniziativa comunitaria chiamato

LEADER+, acronimo francese che sta per Liaison Entre Actions de Développement de l’Économie

Rurale (Collegamento fra azioni di sviluppo dell’economia rurale).

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9 VALORIZZAZIONE DEL TERRITTORIO RURALE 9.2 PAC – POLITICA AGRICOLA COMUNITARIA

P.A.C.

Politica Agricola Comune La Politica Agricola Comune (PAC) rappresenta l’insieme delle regole che l’Unione Europea, fin

dalla sua nascita, ha inteso darsi riconoscendo la centralità del comparto agricolo per uno sviluppo

equo e stabile dei Paesi membri.

In particolare la PAC persegue i seguenti obiettivi:

incrementare la produttività del comparto agricolo,

assicurare un tenore di vita equo alla popolazione agricola;

stabilizzare i mercati;

garantire la sicurezza degli approvvigionamenti e prezzi ragionevoli ai consumatori.

La PAC è una delle politiche comunitarie più importanti ed impegna notevolmente il bilancio

dell’Unione Europea. Prevista dall’articolo 3 del Trattato istitutivo della CEE, la politica agricola

comune si è sviluppata a partire dagli anni ’60 mirando a raggiungere:

l’unicità del mercato tra gli Stati membri, con fissazione dei prezzi comuni e

armonizzazione delle legislazioni in campo amministrativo, sanitario e veterinario;

la protezione doganale verso l’esterno per tutelare il mercato comunitario dalle fluttuazioni

delle importazioni e delle esportazioni sui mercati mondiali;

la solidarietà finanziaria, attuata per mezzo del Fondo Europeo di Orientamento e Garanzia

per l’Agricoltura (FEOGA), per il sostegno dei prezzi agricoli e per il finanziamento degli

investimenti nel settore agrario.

Questa politica, tuttavia, ha creato problemi di eccedenze dei prodotti e di prezzi eccessivamente

elevati e poco competitivi rispetto al resto del mercato mondiale. Ciò ha portato a una prima riforma

nel 1992 che, a una politica di riduzione dei prezzi, ha accompagnato la promozione di interventi a

sostegno dei redditi agricoli e di azioni volte alla diversificazione dell’economia, alla difesa

dell’ambiente e a garantire la sicurezza dei prodotti alimentari.

Al momento l’obiettivo principale della politica agricola comune è quello di rendere gli agricoltori

perfettamente in grado di competere sui mercati europei e su quelli mondiali.

Di recente il Parlamento Europeo ha approvato la nuova riforma PAC 2014-2020.

Riforma della PAC 2014/2020 Il 12 ottobre 2011 la Commissione europea ha adottato una serie di proposte legislative per la

riforma della PAC valida per il periodo 2014-2020.

I principali riferimenti legislativi, riferiti alla nuova riforma PAC sono:

Regolamento (UE) n. 1307/2013 del 17 dicembre 3013, recante norme sui pagamenti diretti

agli agricoltori nell’ambito dei regimi di sostegno previsti dalla politica agricola comune.

Decreto legislativo n. 6513 del 18 novembre 2014, recante le disposizioni nazionali di

applicazione del Regolamento (UE) n. 1307/2013, applicato agli agricoltori che presentano

domanda nell’ambito dei regimi dei pagamenti diretti.

Decreto legislativo n. 1420 del 26 febbraio 2015, recante disposizioni modificative ed

integrative del decreto 18 novembre 2014, recante le disposizioni nazionali di applicazione

del Regolamento (UE) n. 1307/2013.

Decreto legislativo n. 1922 del 20 marzo 2015, recante ulteriori disposizioni relative alla

semplificazione della gestione della PAC 2014-2015.

Ulteriori riferimenti sulla riforma PAC sono contenuti nei seguenti regolamenti:

Regolamento (UE) n. 1308/2013 recante Organizzazione Comune dei Mercati (OCM unica)

dei prodotti agricoli.

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Regolamento (UE) n. 1305/2013 sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo

europeo agricolo per lo sviluppo rurale.

Regolamento (UE) n. 1306/2013 sul finanziamento, sulla gestione e sul monitoraggio della

politica agricola comune.

Regolamento (UE) n. 1370/2013 recante misure per la fissazione di determinati aiuti e

restituzioni connessi all’organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli.

PAGAMENTI DIRETTI

La riforma della PAC 2014-2020 prevede un sistema di pagamenti diretti che sostituirà, a partire dal

1° gennaio 2015, il pagamento unico aziendale.

Il Reg. 1307/2013 prevede 7 tipologie di pagamenti diretti di cui 3 obbligatorie e 5 facoltative per

gli Stati membri.

Le tipologie obbligatorie sono:

1. pagamento di base,

2. pagamento verde,

3. pagamento per i giovani agricoltori.

Le altre componenti facoltative sono:

4. aiuto ridistributivo per i primi ettari,

5. aiuto per le aree con vincoli naturali,

6. sostegno accoppiato facoltativo,

7. pagamenti per i piccoli agricoltori.

Tutti gli aiuti sono finanziati attraverso il massimale nazionale fissato per ciascuno Stato membro.

L’Italia ha deciso di attivare 5 tipologie di pagamenti:

1. pagamento di base: 58% del massimale nazionale;

2. pagamento ecologico (greening): 30% del massimale nazionale;

3. pagamento per i giovani agricoltori: 1% del massimale nazionale;

4. pagamento accoppiato: 11% del massimale nazionale;

5. pagamento per i piccoli agricoltori.

La regolamentazione per la distribuzione degli aiuti risulta alquanto complessa come pure i requisiti

per l’accesso agli aiuti. Di seguito verranno descritti alcuni concetti di fondo senza la pretesa di

essere esaustivi in quanto le realtà aziendali sono talmente complesse e diversificate da richiedere di

volta in volta una approfondita disamina.

Di seguito verranno descritte le tipologie di aiuti e i requisiti per l’accesso, nel seguente ordine:

- pagamento di base;

- definizione di agricoltore attivo;

- pagamento ecologico (greening);

- pagamento per i giovani agricoltori;

- pagamento accoppiato;

- pagamento per i piccoli agricoltori;

- domanda unica pac 2015;

- domanda di aiuti precompilata;

- condizionalità.

PAGAMENTO DI BASE

La prima e la più importante tipologia di pagamenti è il pagamento di base. Dal 1° gennaio 2015 i

nuovi titoli prendono il posto dei titoli storici, in scadenza il 31 dicembre 2014.

Avendo un valore uniforme per tutti gli agricoltori, i nuovi titoli consistono in una distribuzione

omogenea del sostegno per ettaro, più precisamente un valore medio uniforme per ettaro a livello

nazionale oppure regionale.

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Il pagamento di base dei nuovi titoli, assegnati sulla base della domanda unica da presentare entro

il 15 maggio 2015 (poi posticipato al 15 giugno 2015), saranno riservati:

agli agricoltori attivi;

agli agricoltori in possesso dei titoli all’aiuto.

Il numero dei titoli sarà pari al numero di ettari indicati nella Domanda 2015 e relativi alle seguenti

superfici ammissibili:

seminativi, compresi le coltivazioni in serra;

colture permanenti (frutteti, vigneti, oliveti, agrumeti, frutta a guscio, ecc.), compresi i vivai

e il bosco ceduo a rotazione rapida;

prati permanenti e pascoli permanenti.

Il passaggio diretto dagli attuali titoli storici ai nuovi titoli avrebbe un effetto troppo penalizzante

per gli agricoltori che attualmente hanno titoli di valore elevato. Per ridurre l’impatto, la nuova Pac

prevede la convergenza che consiste in un passaggio graduale dal vecchio al nuovo sistema dei

pagamenti diretti, per abbandonare gradualmente i riferimenti storici e arrivare a una distribuzione

più omogenea del sostegno per ettaro a livello nazionale o regionale.

I titoli, relativi solo al pagamento di base, sono comunque essenziali anche per i successivi

pagamenti, poiché solo gli agricoltori che hanno diritto al pagamento di base possono accedere alle

altre tipologie di pagamento (ad eccezione del pagamento accoppiato, che è svincolato dagli altri

pagamenti).

AGRICOLTORE ATTIVO

Viene introdotta la figura dell’agricoltore in attività, come colui che mantiene una attività agricola

minima nei propri terreni. Gli aiuti comunitari 2015-2020 sono percepiti dai soggetti che rivestono

la qualifica di “agricoltore attivo”. Questo requisito persegue lo scopo di selezionare i beneficiari

dei pagamenti diretti, escludendo gli agricoltori “non attivi”: un requisito molto complesso,

disciplinato da numerose normative comunitarie e nazionali.

Gli Stati membri avranno l’obbligo di escludere dai pagamenti diretti alcune tipologie di richiedenti,

quali le società sportive, i campi da golf, le società immobiliari, le società aeree e ferroviarie, a

meno che non venga dimostrato che il livello di pagamenti diretti ricevuto da tali figure sia almeno

pari al 5% degli interi loro proventi.

Inoltre, è data facoltà agli Stati membri di adottare criteri maggiormente restrittivi e decidere di non

garantire i pagamenti diretti a quei soggetti la cui attività agricola sia una parte insignificante delle

loro attività economiche e/o non sia la principale attività.

Questo requisito, di “agricoltore attivo”, si applica sia ai regimi di sostegno (pagamenti diretti) sia

ad una serie di altre misure previste riferite alla sviluppo rurale (es.; l’agricoltura biologica e le

indennità compensative per le zone svantaggiate).

Requisiti per il riconoscimento di agricoltore attivo

Viene considerato “agricoltore attivo” il soggetto che possiede almeno uno dei seguenti requisiti:

agricoltore sotto un certa soglia di pagamenti diretti: gli agricoltori sono attivi se nell’anno

precedente hanno percepito pagamenti diretti di ammontare inferiore a: 5.000 euro per le

aziende prevalentemente ubicate in montagna e/o zone svantaggiate; 1.250 euro nelle altre

zone.

iscrizione all’Inps: il richiedente dei pagamenti diretti deve possedere la qualità di

coltivatore diretto o imprenditore agricolo professionale (Iap) o colono o mezzadro.

titolari di partita Iva: i soggetti che hanno attiva la partita Iva, in campo agricolo, da prima

della data del 1° agosto 2014 . Dal 1° gennaio 2016, quasi la totalità delle aziende agricole

devono inoltre presentare anche la dichiarazione annuale Iva. Sono escluse dalla

dichiarazione annuale Iva le aziende agricole ubicate, in misura maggiore al 50%, in zone

montane e/o svantaggiate.

Agricoltore non attivo

Gli agricoltori non attivi appartengono a quattro categorie.

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Attività agricola minima: il Reg. 1307/2013 prevede che non vengano concessi pagamenti

diretti a persone fisiche o giuridiche le cui superfici agricole siano mantenute naturalmente

in uno stato idoneo al pascolo o alla coltivazione e su cui non siano svolte le attività agricole

minime fissate dallo Stato membro.

Lista nera fissata dall’Ue: il Reg. 1307/2013 prevede l’esclusione dai pagamenti diretti dei

soggetti che appartengono alla cosiddetta lista nera (black list):

-aeroporti,

- servizi ferroviari,

- impianti idrici,

- servizi immobiliari,

- terreni sportivi e aree ricreative permanenti.

Lista nera fissata dall’Italia: l’Italia ha operato un ampliamento della lista nera a quattro

categorie di soggetti:

- banche e finanziarie,

- soggetti che svolgono attività di intermediazione commerciale,

- assicurazioni,

- pubblica amministrazione. Sono fatti salvi dall’esclusione gli enti che effettuano

formazione e sperimentazione in campo agricolo, quindi le aziende agricole delle

Università, degli Istituti agrari e dei centri di ricerca, e gli enti che gestiscono usi civici,

attività provata da Agea mediante l’acquisizione di informazioni presso le Amministrazioni

competenti o vigilanti ovvero attraverso la verifica di idonea documentazione probatoria.

Agricoltori senza requisiti: sono soggetti che non possiedono i requisiti minimi in quanto le

loro attività agricole costituiscono solo una parte insignificante delle complessive attività

economiche o la cui attività principale o il cui oggetto sociale non è l’esercizio di un’attività

agricola. Sono quindi quei soggetti che non hanno i requisiti dell’agricoltore attivo.

Deroghe per gli agricoltori non attivi

Può comunque essere considerato “agricoltore attivo” un soggetto (persona fisica o giuridica) che,

pur rientrando nella lista nera o non possedendo i requisiti di agricoltore attivo, è in grado di fornire

prove, verificabili, che dimostrino una delle seguenti situazioni:

che l’importo annuo dei pagamenti diretti è almeno pari al 5% dei proventi totali ottenuti da

attività non agricole nell’anno fiscale più recente;

che sia in grado di provare che le sue attività agricole non sono insignificanti;

che la sua attività principale o il suo oggetto sociale è l’esercizio di un’attività agricola.

PAGAMENTO ECOLOGICO (GREENING)

Altra importante novità della PAC è il pagamento greening che rientra nel cosiddetto “processo di

inverdimento” del sostegno all’agricoltura: una nuova forma di aiuto che porterà importanti

cambiamenti nel comportamento di tante aziende agricole, soprattutto in quelle intensive di pianura.

È la seconda componente in ordine di importanza dopo il pagamento di base, con una percentuale

fissa del 30% delle risorse finanziarie, uguale per tutti gli Stati membri.

Rientrano nelle misure greening anche delle componenti cosiddette “equivalenti”, quali le misure

agro-ambientali dei Programmi di sviluppo rurale e le certificazioni ambientali.

Hanno diritto al pagamento greening solamente gli agricoltori che percepiscono il pagamento di

base; quindi se un agricoltore non possiede i titoli del pagamento di base non può neanche accedere

al pagamento greening. Per accedere a tale pagamento, gli agricoltori devono rispettare sui loro

ettari ammissibili tre pratiche agricole benefiche per il clima e l’ambiente:

1. diversificazione delle colture;

2. mantenimento dei prati permanenti;

3. presenza di aree di interesse ecologico.

Le tre pratiche agricole vanno rispettate congiuntamente.

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Queste tre pratiche sono state fissate dal regolamento comunitario e sono uguali per tutti gli

agricoltori dell’Unione europea, senza possibilità per gli Stati membri di modificare i loro vincoli.

1. Diversificazione delle colture

La diversificazione delle colture si applica solamente ai seminativi, mentre le colture permanenti

(frutteti, oliveti, vigneti, pascoli) sono esentate.

Questo impegno prevede:

la presenza di almeno due colture nelle aziende la cui superficie a seminativo è compresa tra

10 e 30 ha, nessuna delle quali copra più del 75% della superficie a seminativo;

la presenza di almeno tre colture nelle aziende la cui superficie a seminativo è superiore a 30

ha, con la coltura principale che copre al massimo il 75% della superficie a seminativo e le

due colture principali al massimo il 95%. Quindi la terza coltura deve coprire almeno il 5%;

fino a 10 ettari a seminativo, l’agricoltore non ha obblighi di diversificazione.

Sono escluse dall’obbligo di diversificazione:

le aziende le cui superfici sono interamente investite a colture sommerse per una parte

significativa dell’anno (riso);

le aziende con superfici a foraggio o maggese o prati e pascoli permanenti, per oltre il 75%,

purché i seminativi non coperti da questi usi non superino i 30 ettari.

Una coltura viene considerata diversa se appartiene a un genere diverso (grano duro e grano tenero

non sono diversi, in quanto appartengono entrambi al genere Triticum; grano e orzo sono diversi in

quanto appartengono a generi diversi). Anche la terra lasciata a riposo o inerbita o dedicata ad altre

piante erbacee per la produzione di foraggio è paragonabile ad una coltura differente. Colture

invernali e primaverili sono considerate due colture anche se appartengono allo stesso genere.

Il sistema sanzionatorio per il mancato rispetto degli obblighi sul greening viene introdotto con

gradualità per evitare che le sanzioni penalizzino oltremodo gli agricoltori in fase di prima

applicazione.

Mantenimento dei prati permanenti

Gli Stati membri designano i prati permanenti ecologicamente sensibili. Gli agricoltori non possono

convertire o arare tali prati permanenti.

Gli Stati membri assicurano che la proporzione della superficie a prato permanente, in relazione alla

superficie agricola totale, non diminuisce di oltre il 5%. Quindi gli Stati membri assicurano il

mantenimento di una certa proporzione delle superfici a prato permanente in base alla “superficie di

riferimento” al 2015.

Qualora uno Stato membro accerti che il rapporto è diminuito di oltre il 5%, deve prevedere

obblighi per i singoli agricoltori di convertire terreni a prato permanente.

2. Aree di interesse ecologico

Le aree di interesse ecologico, o EFA (Ecological Focus Area), sono obbligatorie per le aziende

superiori a 15 ha a seminativo le quali devono dedicare almeno il 5%, di tale superficie a seminativo

dell’azienda, all’area di interesse ecologico. La soglia del 5% può essere aumentata al 7% nel 2018,

a seguito di una relazione della Commissione nel 2017 e a una proposta legislativa. Le aziende di

dimensione inferiore ai 15 ha a seminativo sono esonerate dall’obbligo delle aree di interesse

ecologico.

I vincoli delle aree di interesse ecologico si applicano solo alle superfici a seminativo; non si

applicano alle colture permanenti (vigneti, oliveti, frutteti, ecc.) e ai prati e pascoli permanenti.

Sono escluse dall’obbligo delle are ecologiche:

le aziende le cui superfici sono interamente investite a colture sommerse per una parte

significativa dell’anno (riso);

le aziende con superfici a foraggio o maggese o prati e pascoli permanenti, per oltre il 75%,

purché i seminativi non coperti da questi usi non superino i 30 ettari.

Gli Stati membri decidono cosa può essere considerato area di interesse ecologico, tenendo conto di

un elenco presente nel regolamento. In sintesi riguardano: terreni lasciati a riposo; terrazze;

elementi caratteristici del paesaggio; strisce tampone; superfici agro-forestali; strisce di superficie

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lungo i margini della foresta senza coltivazione; aree a bosco ceduo a rotazione rapida; aree

forestate; aree con colture intercalari o copertura verde da assoggettare a fattori di ponderazione

(contenuti in allegato al regolamento); aree con colture azoto-fissatrici.

Equivalenza d’inverdimento

Per evitare di penalizzare quanti già adottano sistemi di sostenibilità ambientale, l’accordo prevede

un sistema di “equivalenza d’inverdimento” in base al quale si considera che le prassi favorevoli

all’ambiente già in vigore sostituiscano gli obblighi del greening.

Rientrano in questa tipologia l’agricoltura biologica e i regimi agroambientali, ma solo per le unità

delle aziende condotte con il metodo biologico o agroambientale.

Per evitare il “doppio finanziamento” i Psr non potranno remunerare gli impegni del greening, già

remunerato dal relativo pagamento.

Le sanzioni per il mancato rispetto Il mancato rispetto del greening comporta solo la riduzione del pagamento ecologico. Questa norma

vale fino al 2016, ma a partire dal 2017, il mancato rispetto del greening comporta una sanzione che

si applica al pagamento di base (pari al 20% del pagamento verde nel 2017 e al 25% nel 2018). Per

cui dal 2017 se l’agricoltore che non rispetta il greening perde tale pagamento e va a intaccare il

20/25% del pagamento base.

Come detto il pagamento greening è la principale novità della PAC, che porterà importanti

cambiamenti nel comportamento di tante aziende agricole, soprattutto in quelle intensive di pianura.

Se infatti in molti areali agricoli italiani, zone di collina e montagna, gli impegni del greening sono

già applicati dagli agricoltori o possono essere applicati con facilità, in quanto la diversificazione fa

parte dell’ordinaria tecnica agronomica e dove le aree di interesse ecologico sono già applicate, non

altrettanto semplice risulta nelle aree ad agricoltura intensiva, soprattutto di pianura. In queste

aziende specializzate infatti la diversificazione delle colture richiede un cambiamento che risulta

impegnativo soprattutto nelle realtà di media dimensione dove ad esempio si applica la

monocoltura annuale. Queste aziende dovranno modificare l’ordinamento produttivo, coltivando

annualmente due colture.

Altro gravoso impegno riguarda le aziende intensive, con più di 15 ettari a seminativo, in merito al

vincolo delle aree di interesse ecologico. Le aziende di collina o di montagna non avranno grandi

difficoltà a destinare il 5% dei seminativi ad aree di interesse ecologico, in quanto possono

facilmente trovare delle superfici marginali da destinare a ciò; mentre le aziende agricole ad

agricoltura specializzata dovranno attentamente valutare e individuare le soluzioni più idonee per

sottrarre almeno il 5% della superficie utilizzabile per aree di interesse ecologico (es.: bordi dei

campi; colture intercalari; aree con colture azoto-fissatrici; ecc..)

PAGAMENTO PER I GIOVANI AGRICOLTORI

Per giovane agricoltore si intende colui che ha meno di 40 anni di età e che si insedia per la prima

volta in azienda come capoazienda.

Per la prima volta, nel nuovo regime dei pagamenti diretti, viene prevista una componente

obbligatoria a sostegno della presenza di attività economiche gestite da giovani agricoltori, al fine di

favorire il ricambio generazionale.

L’UE ritiene infatti essenziale, per la competitività del settore agricolo, sostenere

l’insediamento iniziale dei giovani e l’adeguamento strutturale delle relative aziende nella fase

successiva all’insediamento. Gli Stati membri possono decidere di assegnare agli agricoltori fino

a 40 anni di età, massimo per i primi 5 anni d’insediamento, degli aiuti supplementari pari, in

genere, al 25% del valore della media individuale dei titoli o della media nazionale dei pagamenti

diretti o aiuti forfettari per azienda. Il plafond massimo, previsto dall’Ue per questo aiuto è pari al

2% del massimale nazionale. L’Italia ha previsto una percentuale dell’1%.

Le motivazioni che hanno ispirato la scelta dell’Italia di diminuire la percentuale dal 2% al 1% sono

finalizzate a:

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evitare una sottoutilizzazione del plafond, che avrebbe comportato fondi inutilizzati che

sarebbero tornati nelle casse comunitarie;

utilizzare la riserva nazionale per coprire il fabbisogno necessario a soddisfare tutte le

richieste dei giovani agricoltori.

Con questa scelta i giovani agricoltori italiani hanno la certezza di percepire il livello massimo di

pagamento ammissibile. Infatti, anche con un massimale dell’1%, l’Italia garantisce la quota

massima di finanziamento ai giovani agricoltori attingendo, se necessario, alla riserva nazionale.

I beneficiari

I beneficiari del pagamento sono le persone fisiche che possiedono i seguenti requisiti:

agricoltori di età inferiore ai 40 anni;

agricoltori che si insedino per la prima volta come capo-azienda o che si siano già insediati

nei 5 anni che precedono la prima presentazione di una domanda per aderire al regime del

pagamento di base (insediati quindi dopo il 15 maggio 2010).

Se l’insediamento è avvenuto prima del 2015, il periodo quinquennale viene ridotto del numero di

anni trascorsi tra la data del primo insediamento e la data della prima domanda per aderire al regime

del pagamento di base (2015). Es.: se un giovane agricoltore si è insediato nel 2013, il pagamento

viene concesso per tre anni (2015, 2016 e 2017).

L’importo del pagamento

L’importo del pagamento, sulla base delle scelte italiane, si ottiene moltiplicando il numero dei

titoli attivati dall’agricoltore per il 25% del valore medio dei titoli all’aiuto detenuti dall’agricoltore

stesso, in proprietà o in affitto. Il giovane agricoltore percepisce perciò un pagamento maggiorato

del 25% del pagamento di base.

Il numero massimo di ettari ammissibili al pagamento è stato fissato a 90.

PAGAMENTI ACCOPPIATI

Sono gli aiuti, del nuovo sistema dei pagamenti diretti, legati alla produzione. Sono concessi entro

determinati limiti quantitativi e sono legati a rese, superfici o numero di capi di bestiame.

Questo aiuto rappresenta un sostegno alle produzioni considerate in difficoltà ma che hanno

importanza dal punto di vista economico, ambientale o sociale ed è mirato a mantenere i livelli di

produzione correnti. L’aiuto può essere concesso per sostenere la fornitura di materia prima per

l’industria di trasformazione locale, per evitare il rischio di abbandono o per compensare eventuali

perturbazioni di mercato. I comparti che possono accedere all’aiuto sono quelli che hanno

storicamente goduto di pagamenti diretti, tranne il tabacco. È esclusa anche la vitivinicoltura.

Il massimale che l’Italia destina agli aiuti accoppiati è pari al 13% del plafond assegnato, a cui è

previsto una ulteriore aggiunta del 2%, da destinare esclusivamente al sostegno delle coltivazioni

proteiche.

PAGAMENTO PER I PICCOLI AGRICOLTORI

La riforma della PAC 2014-2020, nell’ambito del nuovo sistema dei pagamenti diretti, prevede la

facoltà per lo Stato membro di adottare un quadro semplificato per le piccole aziende, alle quali sarà

corrisposto un contributo forfettario compreso tra 500 e 1.250 euro. Il regime prevede una

semplificazione degli oneri amministrativi sia a carico degli agricoltori che degli uffici pubblici

preposti. I piccoli agricoltori che aderiscono al regime sono esentati dall’obbligo di adottare le

misure di inverdimento e sono escluse le sanzioni per il mancato rispetto della condizionalità.

DOMANDA UNICA PAC 2015

L’organismo pagatore (Agea), in seguito all’entrata in vigore della riforma della PAC, ha emanato

una circolare contenente le istruzioni per la compilazione e la presentazione della domanda unica di

pagamento. Le novità più importanti sono rappresentate da:

esclusione dai pagamenti diretti degli agricoltori “non attivi”, in modo da evitare che il

sostegno della PAC vada a chi non svolge effettivamente un’attività agricola;

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mantenimento del disaccoppiamento dalla quantità prodotta;

scomposizione del pagamento unico aziendale in più componenti, in modo da assicurare a

tutti un pagamento di base, pur nel rispetto della condizionalità;

aggiunta al pagamento unico aziendale di una serie di altri pagamenti individuati in modo

selettivo rispetto ai diversi obiettivi da perseguire e ai beneficiari da raggiungere: greening,

giovani produttori, piccoli agricoltori, comparti strategici da sostenere con aiuti accoppiati;

applicazione di un meccanismo di parziale e graduale omogeneizzazione del livello medio

dei pagamenti diretti negli Stati membri (convergenza), al fine di ridurre le notevoli

differenze oggi esistenti;

riproposizione del sistema di tetti progressivi ai pagamenti più elevati (capping), per evitare

sperequazioni tra i beneficiari e assicurare una equa distribuzione del sostegno.

DOMANDA DI AIUTI PRECOMPILATA

Un’altra novità introdotta nel nostro paese riguarda la semplificazione degli adempimenti

burocratici. È infatti operativo l’invio della domanda di richiesta di aiuti PAC precompilata.

L’agricoltore, autonomamente o con l'assistenza dei Caa (centri autorizzati di assistenza agricola),

può di seguito dare conferma dei dati o correggere le informazioni contenute nella domanda.

CONDIZIONALITA’

La condizionalità è il principio secondo il quale ogni agricoltore, per poter beneficiare dei

pagamenti diretti, è tenuto al rispetto di criteri di:

gestione obbligatori (cgo), già previsti dall’UE nella normativa esistente;

buone condizioni agronomiche e ambientali (bcaa), con riferimento a ambiente,

cambiamento climatico e buone condizioni agronomiche del terreno;

sanità pubblica, salute delle piante e degli animali;

benessere degli animali.

Al rispetto della condizionalità sono dunque interessati gli agricoltori beneficiari di uno o piu’

regimi di sostegno.

Gli impegni di condizionalità devono essere rispettati su qualsiasi superficie agricola dell’azienda

beneficiaria di pagamenti diretti, inclusi i terreni in relazione ai quali non si percepisce alcun aiuto,

intendendo per azienda agricola l’insieme degli appezzamenti condotti da un agricoltore, anche se

situati in regioni diverse ma rientranti nello stesso fascicolo aziendale PAC.

Ad esempio un’azienda di 30 ettari, con 10 ettari di seminativo e 20 ettari di vigneto, pur

beneficiando di pagamenti diretti limitatamente ai 10 ettari di seminativo è tenuta al rispetto degli

impegni di condizionalità sull’intera superficie aziendale (30 ettari).

Un esempio di pagamento Si prende come esempio l’importo di pagamento di un giovane agricoltore che si insedia e presenta

domanda alla riserva nazionale nel 2015 (o anni successivi) con il massimo degli ettari ammissibili

(90 ha) che ha presentato la domanda unica del pagamento di base e la domanda di accesso al

pagamento greening.

Considerando che l’importo medio del pagamento di base sarà di circa 179 €/ha e che il giovane

agricoltore percepisce un pagamento maggiorato del 25% del pagamento di base questo giovane

imprenditore, che si insedia e presenta domanda nel 2015 (o anni successivi), percepirà i seguenti

importi dei pagamenti diretti:

pagamento di base: 179 €/ha

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pagamento per giovani agricoltori: 25% di 179 = 45 €/ha

pagamento verde: 93 €/ha

totale 317 €/ha

A tale importo va aggiunto l’eventuale sostegno accoppiato, se il giovane agricoltore pratica una

coltura o un allevamento che rientrano in tale pagamento.

La situazione è però diversa se il giovane possiede diritti di valore elevato derivanti dalla sua

situazione storica se, ad esempio, si è insediato prima del 2015 o perché ha ereditato da un genitore

diritti di valore elevato.

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9 VALORIZZAZIONE DEL TERRITTORIO RURALE 9.3 TUTELA DEL PAESAGGIO E REGIME DI RESPONSABILITÀ NEGLI INTERVENTI SULL’AMBIENTE.

La politica ambientale comprende un insieme di interventi posti in essere da autorità pubbliche e da

soggetti privati, al fine di disciplinare quelle attività umane che potrebbero ridurre le disponibilità di

risorse naturali o peggiorarne la qualità e la fruibilità.

Fra i tanti comportamenti che possono provocare degrado o impoverimento dell’ambiente, rientrano

quegli interventi che possono portare ad una sostanziale modificazione dell’assetto territoriale e

paesaggistico, caratterizzante un determinato ambiente.

Certi interventi, con particolare riferimento a quelli inerenti il settore agroambientale, sono

comunque da considerare di importanza strategica dal punto di vista tecnico-economico per

migliorare la competitività delle aziende di un determinato territorio (es.: la realizzazione di una

diga o di un bacino irriguo). E’ perciò importante trovare il giusto equilibrio fra i benefici e gli

eventuali danni provocati da un progetto.

Finalizzati all’azione preventiva e sistematica degli effetti sull’ambiente, che possono derivare da

attività di trasformazione del territorio, previste in atti di programmazione o pianificazione o di

progettazione le normative vigenti prevedono due strumenti di valutazione: la VIA (Valutazione

d’Impatto Ambientale) e la VAS (Valutazione Ambientale Strategica)

La VIA attiene alla valutazione dei probabili effetti di uno specifico progetto, mentre la VAS attiene

alla valutazione degli effetti ambientali che è prevedibile conseguiranno dalla attuazione delle

previsioni dei piani e programmi

In linea di massima il processo di VAS precede, ma non necessariamente determina, una procedura

di VIA.

Le due tipologie di valutazione agiscono infatti in fasi e oggetti diversi:

la VAS agisce per valutare gli effetti ambientali prodotti da piani o programmi, il cui

principio guida, di ispirazione politica, è quello di precauzione, che consiste

nell’integrazione dell’interesse ambientale rispetto agli altri interessi (tipicamente socio-

economici) che determinano piani e politiche. La VAS viene definita come processo;

la VIA agisce per valutare gli impatti ambientali causati da progetti od opere, il cui principio

guida, più immediatamente funzionale, è quello della prevenzione del danno ambientale.

La VIA viene definita come procedura.

9.3.1 - Valutazione di Impatto Ambientale

La Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) è una procedura amministrativa, di supporto per

l’autorità decisionale, che si effettua in via preventiva, per individuare, descrivere e valutare gli

effetti diretti ed indiretti sull’ambiente (inteso come fauna, flora, aria, suolo, acque, clima e

paesaggio, il patrimonio culturale) di un progetto, di un’opera o di un intervento, siano essi

pubblici o privati. L’obiettivo del processo di VIA è:

proteggere la salute umana,

contribuire con un migliore ambiente alla qualità della vita,

provvedere al mantenimento delle specie e conservare la capacità di riproduzione

dell’ecosistema.

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Normativa La VIA nasce alla fine degli anni sessanta negli Stati Uniti d’America con il nome di E.I.A.

(Environmental Impact Assessment) come strumento atto a prevedere e valutare le conseguenze di

determinati interventi sul territorio, al fine di controllo sulle attività interagenti con l’ambiente, per

evitarne, ridurne e mitigarne gli impatti negativi. Nel 1978 viene approvato un regolamento

attuativo che dispone l’obbligo della procedura di VIA per tutti i progetti pubblici o comunque che

accedono a finanziamento pubblico.

Nel 1985, la Comunità Europea emana la Direttiva 337/85/CEE “Concernente la valutazione

dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati”.

La VIA è stata recepita in Italia con la Legge n. 349 dell’8 luglio 1986 e s.m.i., legge che Istituisce

il Ministero dell’Ambiente e le norme in materia di danno ambientale. Il testo prevedeva la

competenza statale, presso il Ministero dell’Ambiente, della gestione della procedura di VIA e della

pronuncia di compatibilità ambientale, inoltre disciplinava sinteticamente la procedura stessa. In

seguito si sono succedute tutta una serie di adeguamenti che hanno portato all’attuale quadro

normativo. In sintesi le norme che disciplinano la procedura VIA in Italia sono:

direttiva 85/337/CEE del 27 giugno 1985,

direttiva 96/61/CE del 24 settembre 1996,

direttiva 97/11/CE del 3 marzo 1996,

d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112,

d.P.R. 2 settembre 1999, n. 348,

direttiva 2003/35/CE del 26 maggio 2003,

d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Testo Unico sull'ambiente o Codice dell'ambiente),

d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, decreto di modifica e integrazione del Codice dell'ambiente

(d.lgs. n. 152/2006),

d.lgs. 29 giugno 2010, n. 128, decreto di modifica e integrazione del Codice dell'ambiente

(d.lgs. n. 152/2006.

La normativa italiana sulla VIA è particolarmente complessa ed articolata anche su scala regionale.

Questa complessità è legata anche alle frequenti modifiche al Codice ambientale che prevede spesso

revisioni di parti significative sull’articolazione della VIA, rappresentando in molti casi un ostacolo

all’efficacia ed all’efficienza delle procedure di VIA.

Caratteristiche Col termine “impatto ambientale” si intende qualsiasi effetto di portata rilevante sull’ambiente, sia

antropizzato che naturale, causato da un intervento sul territorio.

La valutazione di impatto ambientale mostra le modifiche ambientali che possono produrre certe

azioni per cui, tutti i progetti che possono avere un effetto rilevante sull’ambiente devono essere

sottoposti a valutazione di impatto ambientale.

Chi propone l’intervento deve presentare la domanda all’autorità competente la quale, al termine del

procedimento emette l’atto finale di valutazione.

L’Autorità Competente (Stato, Regione, Provincia), per l’espletamento delle procedure di VIA,

viene individuata in base alla rilevanza del progetto da realizzare.

Nella procedura di VIA la pubblica amministrazione che valuta la compatibilità ambientale di un

determinato progetto si basa su:

informazioni fornite dal proponente del progetto,

consulenza fornita da altre strutture della pubblica amministrazione,

partecipazione popolare (es.: gruppi sociali).

La partecipazione della gente è un obiettivo importante delle procedure di VIA, per le decisionali

finali sull’approvazione dei progetti.

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Con la VIA si cerca di stimare quali sono gli impatti, positivi o negative, derivanti dalle modifiche

a cui viene assoggettato l’ambiente con l’attuazione di un determinato progetto, considerando gli

impatti ambientali diretti o indiretti, a breve o lungo termine, permanenti o temporanei, singoli o

cumulativi. Vengono considerati i seguenti fattori ambientali, anche in correlazione tra di loro:

essere umano, fauna e flora;

suolo, acqua, aria, fattori climatici e paesaggio;

beni materiali e patrimonio culturale.

Aspetto importantissimo nella VIA è l’attribuzione di un valore economico sia ai benefici che ai

danni provocati da un progetto, al fine di poter confrontare i due valori (es.: nella VIA riferita alla

realizzazione di un invaso irriguo consorziale, da un lato andrà dato un valore positivo derivante

dall’aumento di produttività delle aziende aderenti, dall’altro andrà dato un valore negativo dovuto

alla distruzione della biodiversità; i due valori andranno confrontati).

La procedura di VIA è un insieme di:

dati tecnico-scientifici su stato, struttura e funzionamento dell'ambiente;

dati su caratteristiche economiche e tecnologiche dei progetti;

previsioni sul comportamento dell’ambiente e interazioni tra progetto e componenti

ambientali;

procedure tecnico-amministrative;

istanze partecipative e decisionali (partecipazione pubblica);

sintesi e confronto fra costo del progetto e dei suoi impatti e benefici diretti/indiretti del

progetto.

Fasi del procedimento Secondo le normative italiane la valutazione d’impatto ambientale si articola nelle seguenti fasi:

a) svolgimento di una verifica di assoggettabilità (screening);

b) definizione dei contenuti dello studio di impatto ambientale (scoping);

c) presentazione e pubblicazione del progetto;

d) svolgimento di consultazioni;

e) valutazione dello studio ambientale e degli esiti delle consultazioni;

f) decisione;

g) informazione sulla decisione;

h) monitoraggio ambientale.

Verifica (screening)

La procedura di verifica preliminare o screening è una procedura tecnico - amministrativa volta ad

effettuare una valutazione preliminare della significatività dell’impatto ambientale di un progetto,

determinando se lo stesso richieda, in relazione alle possibili ripercussioni sull’ambiente, lo

svolgimento successivo della stessa procedura di valutazione dell’impatto ambientale.

Definizione dei contenuti (scoping)

La procedura di definizione dei contenuti è una procedura tecnico-amministrativa mirante

essenzialmente a delimitare il campo d’indagine. Viene valutata la proposta dei contenuti del

successivo Studio di Impatto Ambientale (S.I.A.) al fine di indirizzare il proponente del progetto

alla completa e sufficiente analisi delle componenti ambientali interessate dal progetto stesso.

Nella proposta di S.I.A. si descrive sommariamente l’opera da realizzare, il territorio in cui si

inserisce e le tipologie di analisi e i modelli di studio che verranno condotte per determinare i

possibili impatti. L’amministrazione esaminatrice approva la proposta di S.I.A. indicando eventuali

ulteriori integrazioni ed elementi di approfondimento rispetto a quelli proposti. L’attivazione di una

delimitazione del campo d’indagine comunque non preclude, in fase di procedura di valutazione

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dell’impatto ambientale, la richiesta di eventuali integrazioni o approfondimenti anche di tipo

analitico.

Presentazione, pubblicazione del progetto e svolgimento di consultazioni

Le consultazioni del pubblico integrano il giudizio degli esperti per valutare la compatibilità del

progetto in esame. L’autorità competente per la VIA, per garantire la partecipazione dei cittadini

può anche richiedere che sia fatta un’inchiesta pubblica, soprattutto per progetti di una certa

complessità.

Valutazione dello studio ambientale e degli esiti delle consultazioni

Il S.I.A. è lo strumento centrale della VIA che fornisce gli elementi tecnici sugli impatti ambientali

dell’opera pertinenti a valutare la sua compatibilità con il contesto ambientale. Secondo quanto

previsto dalla normativa il S.I.A. si articola in tre “quadri”:

quadro di Riferimento Programmatico,

quadro di Riferimento Progettuale,

quadro di Riferimento Ambientale.

Il S.I.A. dovrebbe contenere tra l’altro un quadro delle condizioni del contesto (ad esempio:

relazione naturalistica), un confronto degli impatti ambientali prodotti da varie alternative

progettuali, la descrizione delle misure previste per mitigare e per monitorare gli impatti ambientali.

I contenuti del S.I.A. in genere comprendono indicatori ambientali, carte tematiche, mappe con

inserimento del progetto e delle opere ausiliarie, schizzi, foto e restituzioni grafiche del sito ante e

post l’intervento stesso. Per la redazione dei punti più specialistici del S.I.A. e per valutarne i

contenuti vengono normalmente consultati esperti.

Decisione e informazione sulla decisione

Le decisioni di VIA si basano soprattutto sui contenuti del S.I.A. e delle osservazioni pervenute.

Qualora il S.I.A. risulti inadeguato si richiedono integrazioni. Entro i termini predefiniti dalla

normativa l’autorità competente si pronuncia sulla compatibilità ambientale del progetto presentato.

L’eventuale pronuncia favorevole contiene tra l‘altro le prescrizioni necessarie per la mitigazione

degli impatti sfavorevoli sull’ambiente. Le decisioni sulla compatibilità ambientale e le

informazioni relative al progetto devono essere diffuse e pubblicate, a cura del proponente, su

quotidiani, bollettini e su organi ufficiali delle amministrazioni.

Monitoraggio ambientale

Il monitoraggio serve per tenere sotto controllo la situazione durante le varie fasi di vita degli

interventi sottoposti a VIA, con l’obiettivo di valutare l’accuratezza delle stime preliminari e

assicurarsi che non si verifichino impatti imprevisti nel tempo e nello spazio, delle azioni realizzate.

9.3.2 - Valutazione Ambientale Strategica

Il processo di VAS è finalizzato ad individuare, descrivere e valutare gli impatti, e i rischi

sull’ambiente e sulla salute umana a breve, medio e lungo termine del Piano e del Programma anche

in riferimento alle ragionevoli alternative presentate, eventualmente definendo correzioni e

mitigazioni degli effetti negativi riscontrati, e anche se necessario reindirizzando le scelte di piano.

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L’obiettivo è di valutare, prima della loro approvazione, durante ed al termine del loro periodo di

validità, che gli effetti ambientali di piani e programmi (comprese le loro varianti), nazionali,

regionali e locali, siano compatibili con le condizioni per uno sviluppo sostenibile, in

considerazione della capacità rigenerativa degli ecosistemi e delle risorse, della salvaguardia della

biodiversità e di un’equa distribuzione dei vantaggi connessi all’attività economica

Come per la Valutazione d’Impatto Ambientale un importante obiettivo della VAS è la promozione

della partecipazione sociale, durante i processi di piano-programma, così da migliorare la qualità

decisionale complessiva, sia dal punto di vista partecipativo che informativo.

Normativa La valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente naturale è stata

introdotta nella Comunità europea dalla Direttiva 2001/42/CE (Direttiva VAS), entrata in vigore il

21 luglio 2001.

In Italia la Direttiva VAS è stata recepita con il D. Lgs del 3 aprile 2006, n. 152, ed è entrata in

vigore solo il 31 luglio 2007. Successivamente la normativa sulla VAS è stata ripetutamente

revisionata ed aggiustata, con numerosi altri decreti nazionali o con leggi regionali, rendendo

complesso il corretto recepimento della Direttiva VAS con modalità omogenee tra le varie Regioni

italiane. Le principali modifiche e integrazioni:

D. Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, entrato in vigore il 13/02/2008;

D. Lgs. 29 giugno 2010, n. 128 pubblicato nella Gazz. Uff. 11 agosto 2010, n. 186.

Attualmente la VAS si applica in Italia ai piani-programmi dei seguenti settori (ex. artt. 6 e 7 del D.

lgs n. 152/2006):

agricolo,

forestale,

della pesca,

energetico,

industriale,

dei trasporti,

della gestione dei rifiuti e delle acque,

delle telecomunicazioni,

turistico,

della pianificazione territoriale o della destinazione dei suoli.

Tra i piani e programmi oggetto di VAS obbligatoria rientrano i piani regionali riportati in tabella,

che comunque costituiscono un insieme esemplificativo di piani soggetti a VAS, per i settori

indicati, in quanto a livello locale il quadro di pianificazione e programmazione è caratterizzato da

molteplici e diversificate tipologie di piani e programmi previsti da norme regionali e pertanto

caratteristici delle specifiche realtà territoriali.

Esempio di piani regionali ai quali si applica la VAS Settori Denominazione del piano Legge istitutiva

Energetico Piano energetico regionale

(ambientale) L. 10/1991 art. 5

Trasporti Piano regionale dei trasporti D.Lgs. 422/1997 art.14

D.P.R. 14/3/2001 All. PGTL (a)

Acque Piano di bacino distrettuale

Piano regionale di tutela delle acque D. Lgs. 152/2006 e smi

Rifiuti Piano regionale di gestione dei rifiuti D.Lgs. 152/2006 e smi

Pianificazione territoriale o

destinazione dei suoli Piano territoriale regionale (PTR)

L. 1150/42

L. Cost. 3/2001

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Piani ambientali Piano di tutela e risanamento della

qualità dell’aria D.Lgs. 155/2010

Piani ambientali Piano paesaggistico regionale(PTP) D.Lgs. 42/2004 art. 135

Caratteristiche In sostanza la VAS costituisce per il piano/programma, elemento costruttivo, valutativo, gestionale

e di monitoraggio. Gli elementi innovativi introdotti con la VAS e che influenzano

sostanzialmente il modo di pianificare sono:

Il criterio ampio di partecipazione, tutela degli interessi legittimi e trasparenza del processo

decisionale, che si attua attraverso il coinvolgimento e la consultazione dei soggetti

competenti in materia ambientale e del pubblico che in qualche modo risulta interessato

dall’iter decisionale. I soggetti competenti in materia ambientale sono le pubbliche

amministrazioni e gli enti pubblici che, per le loro specifiche competenze o responsabilità in

campo ambientale, possono essere interessati agli impatti sull’ambiente dovuti all’attuazione

dei piani, programmi. Questo processo di partecipazione crea i presupposti per il consenso

da parte dei soggetti interessati e del pubblico sugli interventi da attuare sul territorio.

Si segnalano inoltre le consultazioni transfrontaliere, previste qualora il piano o programma

in fase di preparazione possa avere impatti rilevanti sull’ambiente di un altro Stato, o

qualora un altro Stato lo richieda.

L’individuazione e la valutazione delle ragionevoli alternative del piano/programma con lo

scopo, tra l’altro, di fornire trasparenza al percorso decisionale che porta all’adozione delle

misure da intraprendere.

La valutazione delle alternative si avvale della costruzione degli scenari previsionali di

intervento riguardanti l’evoluzione dello stato dell’ambiente conseguente l’attuazione delle

diverse alternative e del confronto con lo scenario di riferimento (evoluzione probabile

senza l’attuazione del piano).

Il monitoraggio che assicura il controllo sugli impatti ambientali significativi derivanti

dall’attuazione dei piani, programmi approvati e la verifica del raggiungimento degli

obiettivi di sostenibilità prefissati, così da individuare tempestivamente gli impatti negativi

imprevisti derivanti dall’attuazione del piano o programma e adottare le opportune misure

correttive. Il monitoraggio è effettuato dall’Autorità procedente in collaborazione con

l’Autorità competente anche avvalendosi del sistema delle Agenzie ambientali e dell’Istituto

Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (D. Lgs 152/2006 e s.m.i.).

L’applicazione del processo VAS attraverso le specifiche componenti del processo, quali la verifica

di sostenibilità degli obiettivi di piano, l’analisi degli impatti ambientali significativi delle misure di

piano, la costruzione e la valutazione delle ragionevoli alternative, la partecipazione al processo dei

soggetti interessati e il monitoraggio delle performances ambientali del piano, rappresenta uno

strumento di supporto sia per il proponente che per il decisore per la definizione di indirizzi e scelte

di pianificazione sostenibile.

Fasi del procedimento La valutazione ambientale strategica è un processo che comporta lo svolgimento delle seguenti fasi:

svolgimento della verifica di assoggettabilità;

individuazione dei soggetti competenti in materia ambientale;

avvio del processo di VAS con la fase di scoping;

elaborazione del rapporto ambientale (predisposizione della atta alla definizione dell’ambito

delle indagini necessarie per la valutazione);

svolgimento di consultazioni;

valutazione del rapporto ambientale e degli esiti delle consultazioni;

decisione;

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informazione sulla decisione;

monitoraggio (con l’indicazione delle eventuali misure correttive per il riorientamento del

piano o programma).

Svolgimento della verifica di assoggettabilità

Questa fase è limitata a piani o programmi di cui al comma 2 dell’art. 6 che determinano l’uso di

piccole aree a livello locale e per le modifiche minori e piani o programmi diversi da quelli del

comma 2 dell’art. 6, che definiscono il quadro di riferimento per l’autorizzazione dei progetti.

Individuazione dei soggetti competenti in materia ambientale

L’autorità procedente trasmette all’autorità competente il rapporto preliminare di screening ai fini

della individuazione dei soggetti competenti in materia ambientale che è fatta di concerto tra

l’autorità procedente e l’autorità competente. Sono soggetti competenti in materia ambientale:

regione; arpa; aziende sanitarie competenti per territorio; comuni; province; enti parco o altri

soggetti gestori delle riserve regionali; consorzi di bonifica; autorità di bacino nazionale o

regionale; sovrintendenze beni culturali, archeologici e paesaggistici.

Avvio del processo di VAS

Tale fase costituisce un momento importante al fine della individuazione delle criticità ambientali

che il piano programma potrebbe comportare e permette la definizione delle informazioni che

dovranno essere analizzate e valutate in sede di rapporto ambientale.

In questa fase l’autorità procedente, l’autorità competente e i soggetti competenti in materia

ambientale entrano in consultazione.

Poiché la fase di valutazione deve essere effettuata anteriormente all’approvazione del piano

programma , ovvero all’avvio della relativa procedura legislativa e l’iter normativo dei vari piani

può essere diverso, è importante che l’amministrazione procedente, fin dal primo atto

amministrativo riguardante il nuovo strumento individui i soggetti competenti in materia ambientale

e il percorso di VAS coordinato con l’iter legislativo del piano.

Predisposizione della documentazione

Sulla base della prima fase di consultazione il proponente predispone il rapporto ambientale nel

quale secondo il comma 4 dell’art. 13 “ debbono essere individuati, descritti e valutati gli impatti

significativi che l’attuazione del piano o del programma proposto potrebbe avere sull’ambiente e

sul patrimonio culturale, nonché le ragionevoli alternative che possono adottarsi in considerazione

degli obiettivi e dell’ambito territoriale del piano o del programma stesso. L’allegato VI al presente

decreto riporta le informazioni da fornire nel rapporto ambientale a tale scopo, nei limiti in cui

possono essere ragionevolmente richieste, tenuto conto del livello delle conoscenze e dei metodi di

valutazione correnti, dei contenuti e del livello di dettaglio del piano o del programma. il rapporto

ambientale dà atto della consultazione di cui al comma 1 ed evidenzia come sono stati presi in

considerazione i contributi pervenuti.”

La documentazione complessiva dovrà comprendere:

proposta di piano o programma,

rapporto ambientale,

sintesi non tecnica

Il rapporto, comprendente una descrizione del piano o programma e le informazioni e i dati

necessari alla verifica degli impatti significativi sull’ambiente, complete di tavole e norme tecniche

di attuazione, è trasmesso su supporto informatico ovvero, nei casi di particolare difficoltà di ordine

tecnico, anche su supporto cartaceo.

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Svolgimento di consultazioni

I soggetti competenti consultati hanno a disposizione 30 giorni dal ricevimento per inviare

osservazioni e considerazioni sulla coerenza con gli obiettivi di sostenibilità sugli impatti delle

previsioni di piano e sulla loro significatività, indicando la necessità o meno di effettuare

valutazioni più approfondite su determinati aspetti e criticità.

L’iter procedurale prevede quindi i seguenti passaggi:

invio da parte dell’autorità procedente della documentazione all’autorità competente ed ai

soggetti competenti in materia ambientale già consultati o eventualmente integrati,

contestuale messa a disposizione del pubblico per eventuali osservazioni. L’avviso deve

contenere: il titolo della proposta di piano o di programma; il proponente; l'autorità

procedente; l’indicazione delle sedi ove può essere presa visione del piano o programma e

del rapporto ambientale e delle sedi dove si può consultare la sintesi non tecnica. La

documentazione è messa a disposizione presso gli uffici dell'autorità procedente e di quella

competente anche mediante pubblicazione sui propri siti web. E’ inoltre depositata presso

gli uffici delle regioni e delle province il cui territorio risulti anche solo parzialmente

interessato dal piano o programma o dagli impatti della sua attuazione,

raccolta di osservazioni da parte del pubblico e dei pareri dei soggetti competenti in materia

ambientale

La fase di consultazione ha una durata di 60 giorni dalla pubblicazione dell’avviso sulla Gazzetta

Ufficiale o sul Bollettino Ufficiale della Regione. Possono essere presentate osservazioni in forma

scritta, anche fornendo nuovi o ulteriori elementi conoscitivi e valutativi.

Conclusione e approvazione del piano o programma

Conclusa la fase di consultazione e partecipazione sono previste le seguenti fasi:

Valutazione del rapporto ambientale e degli esiti della consultazione e parere motivato:

l’autorità competente, in collaborazione con l’autorità procedente, svolge le attività tecnico-

istruttorie, acquisisce e valuta tutta la documentazione presentata, nonché le osservazioni,

obiezioni e suggerimenti ricevuti durante la fase di consultazione. Esprime quindi il proprio

parere motivato entro i termini previsti.

Eventuale revisione della documentazione: il piano programma, il rapporto ambientale,

compresa la sintesi non tecnica, sono eventualmente rivisti, sulla base delle risultanze del

parere motivato, dall’autorità procedente, in collaborazione con l’autorità competente, prima

della presentazione per l’approvazione

Approvazione del piano o programma: il piano o programma ed il rapporto ambientale,

insieme con il parere motivato e la documentazione acquisita nell’ambito della

consultazione, sono trasmessi all’organo competente all’adozione o approvazione del piano

o programma.

Informazione sulla decisione.

La decisione finale è pubblicata nella Gazzetta Ufficiale o nel Bollettino Ufficiale della Regione

con l’indicazione della sede ove si può prendere visione del piano o programma approvato e di tutta

la documentazione oggetto dell'istruttoria. Sono inoltre rese pubbliche, anche attraverso la

pubblicazione sui siti web delle autorità interessate:

il parere motivato espresso dall’autorità competente;

una dichiarazione di sintesi in cui si illustra in che modo le considerazioni ambientali sono

state integrate nel piano o programma e come si è tenuto conto del rapporto ambientale e

degli esiti delle consultazioni, nonché le ragioni per le quali è stato scelto il piano o il

programma approvato, alla luce delle alternative possibili che erano state individuate;

le misure adottate in merito al monitoraggio

La dichiarazione di sintesi può essere costituita dalla Sintesi non tecnica del Rapporto ambientale

adeguatamente rivista e dalla illustrazione dei seguenti elementi:

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come le considerazioni ambientali e gli obiettivi di sostenibilità sono stati integrati nel piano

o programma;

come si è svolta la procedura e come si è tenuto conto delle consultazioni condotte;

motivazioni delle ragioni che hanno portato alle scelte del piano o programma adottato o

approvato alla luce degli scenari alternativi individuati.

Monitoraggio

Il processo di VAS non si conclude con il provvedimento finale di approvazione, ma prosegue

durante le fasi di attuazione del piano programma attraverso il monitoraggio sugli impatti

significativi sull’ambiente e la verifica del raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità prefissati,

così da individuare tempestivamente gli impatti negativi imprevisti e da adottare le opportune

misure correttive. Il monitoraggio è effettuato dall’autorità procedente in collaborazione con

l’autorità competente. Le modalità, i soggetti responsabili e le risorse necessarie per la realizzazione

e gestione del monitoraggio devono essere già individuati nel piano o programma.

L’autorità competente, l’autorità procedente e l’ARPA devono dare informazioni attraverso i siti

web sul monitoraggio in merito a:

modalità di svolgimento

risultati

eventuali misure correttive adottate

Le informazioni raccolte attraverso il monitoraggio sono da ritenersi utili nel caso di eventuali

modifiche al piano o programma e per l’elaborazione di successivi atti di pianificazione o

programmazione.

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CAP 15 LA SICUREZZA NEGLI AMBIENTI DI LAVORO

Integrazione nuovo capitolo

15. LA SICUREZZA NEGLI AMBIENTI DI LAVORO 15.1 - SICUREZZA E TUTELA DELLA SALUTE DEI LAVORATORI

15.1.1 – La normativa L’attuale legislazione, ossia il D.Lgs. n. 81/2008, meglio riconosciuta come il “Testo Unico di

Sicurezza sul lavoro e salute dei lavoratori” è un complesso normativo assai dettagliato e completo

nelle sue varie componenti polidisciplinari.

Infatti tale Testo Unico detta disposizioni relative a:

misure di prevenzione tecnica riferite ai dispositivi tecnologici su macchine, impianti ed

attrezzature;

misure tecniche riferite all’ergonomia dei posti di lavoro;

alle misure organizzative finalizzate a progettare il processo produttivo eliminando o

riducendo al massimo i rischi professionali;

misure finalizzate a promuovere e garantire comportamenti sicuri da parte dei lavoratori;

e, infine, a misure di protezione.

Una simile completezza normativa è sicuramente legata a un processo evolutivo delle leggi

determinatosi a partire dagli anni ’50.

I Decreti degli anni ‘50

Per l’emanazione di un organico e autonomo corpus legislativo volto alla tutela preventiva della

salute dei lavoratori, si è dovuto attendere la seconda metà degli anni ‘50.

La legge delega 12 febbraio 1955, n. 51 autorizzò il Governo a emanare norme generali e speciali

per la prevenzione degli infortuni e per l’igiene del lavoro, da applicarsi in quasi tutti i settori

produttivi.

Dei decreti che furono emanati dal legislatore del 1955 e del 1956 vanno citati, per la rilevanza che

hanno avuto sino all’emanazione del D.Lgs. n. 81/2008, così modificato dal D.Lgs. n. 106/2009:

il D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, recante norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro,

il D.P.R. 7 gennaio 1956 n. 164, recante norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro

nelle costruzioni e in materia di igiene del lavoro;

il D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, per l’igiene del lavoro.

Tali provvedimenti segnarono un radicale mutamento di ottica rispetto alle premesse ideologiche

che avevano caratterizzato fino ad allora la legislazione nazionale, poiché portarono allo sviluppo

della “tutela preventiva dell’integrità psico-fisica dei lavoratori”, riconoscendo a questo tipo di

tutela una propria autonomia rispetto a quella riparatoria/assicurativa.

La principale peculiarità dei decreti degli anni ’50 era l’accoglimento di un concetto di prevenzione

di tipo “tecnologico”.

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Con tale espressione si sottolineava il fatto che i decreti disponevano nella maggioranza dei casi,

l’adozione tassativa di determinati accorgimenti tecnici oggettivi quali: dispositivi, particolari

condizioni ambientali, mezzi personali di protezione, ecc., e solo in ipotesi limitate il rispetto di

comportamenti uniformati a criteri di prudenza e cautela.

Il d.lgs. n. 626/94

Successivamente ai decreti degli anni ‘50 con l'emanazione del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, il

legislatore delegato ha provveduto a recepire importanti direttive comunitarie da tempo in attesa di

attuazione, nello specifico la direttiva-quadro 89/391/CEE e numerose direttive particolari ed ha

introdotto, così, una rigenerata mentalità nell'approccio della prevenzione.

L'emanazione del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 ha segnato una vera e propria «rivoluzione

copernicana» nel sistema della sicurezza del lavoro.

Con tale decreto, infatti, si è affermata nel nostro Paese una nuova tutela prevenzionistica,

cosiddetta di tipo

«soggettivo», in cui la prevenzione è strutturata in maniera programmatica e organizzata.

Tra i “nuovi” obblighi generali che il D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 ha posto in capo al datore di

lavoro, merita particolare rilevanza la “valutazione dei rischi”.

Altre innovazioni significative introdotte dal D.Lgs. 626/94 sono:

l’istituzione del servizio di prevenzione e protezione dai rischi e del suo responsabile;

la previsione dell'obbligatorietà della figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza

(RLS);

l’istituzione della figura del Medico competente che deve attuare la sorveglianza sanitaria.

In tal modo, con l'emanazione del D.Lgs. 626/94 la tutela della sicurezza e della salute dei

lavoratori non è stata più affidata solo al potere gerarchico dell'imprenditore, ma sono stati delineati

dei precisi ruoli di partecipazione e collaborazione da parte dei lavoratori e dei loro rappresentanti.

Pertanto nel D.Lgs. 626/94 il lavoratore non ha un ruolo passivo, non subisce più la prevenzione

ma, grazie all'affermazione del “principio dell'auto-tutela” - di derivazione comunitaria -, ha

obblighi e diritti ben precisi statuiti nella stessa legge di prevenzione.

Il d.lgs. n. 81/2008

La riforma della normativa antinfortunistica: il d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 aggiornato dal d.lgs.

3 agosto 2009, n. 106

Con il d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81 chiamato “Testo Unico di sicurezza” il lungo processo evolutivo

trova compimento. Tra le principali novità introdotte dal D.Lgs. 81/2008, rispetto alla normativa

previgente, si segnalano:

l’attuazione di particolari misure per la promozione del benessere sul luogo di lavoro e,

quindi, di contrasto a potenziali rischi collegati allo stress lavoro-correlato in grado di

provocare danni con produzione di malessere a carico di gruppi di lavoratori;

l’ampliamento del campo di applicazione – oggettivo e soggettivo – della normativa in

materia di sicurezza e tutela della salute sul lavoro: in particolare per quanto concerne i

beneficiari della normativa antinfortunistica, il D.Lgs. 81/2008 ha regolamentato

espressamente accanto alla protezione dei lavoratori subordinati anche gli utenti di stage

aziendali, gli allievi che fanno uso di laboratori, macchine, apparecchiature, ecc., i volontari,

i lavoratori in somministrazione, i lavoratori distaccati, i collaboratori a progetto, i

collaboratori coordinati e continuativi, i lavoratori a domicilio e i telelavoratori;

una più puntuale ripartizione degli obblighi di prevenzione e protezione tra i diversi

destinatari della normativa antinfortunistica (datori di lavoro, dirigenti e preposti);

il rafforzamento del ruolo svolto dal medico competente e delle prerogative dei

rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza in azienda, in particolare quelle dei

rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza territoriali (RLST);

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l’inserimento nei programmi scolastici e universitari della materia della salute e sicurezza

sul lavoro;

la revisione, nonché l’inasprimento, dell’intero sistema sanzionatorio,

e infine va menzionato, per la sua importanza sotto il profilo della nuova cultura della prevenzione,

l’istituto dei modelli di organizzazione e di gestione di cui si parlerà in seguito.

15.1.2 - Concetti di rischio, danno, prevenzione e protezione Il rischio

In tutti gli ambienti di vita e, quindi, anche quelli dove svolgiamo il lavoro (ufficio, fabbrica o

all’esterno) ci sono rischi che, magari inconsapevolmente, possono rappresentare una minaccia per

la nostra sicurezza.

Ma il “rischio”, concretamente, che cos’è?

Per comprendere meglio il significato di rischio è necessario, anzitutto, sapere cos’è il “pericolo”

perché il “rischio” non è altro che la concreta esposizione ad un pericolo.

Per fare qualche esempio di “pericolo” possiamo pensare: all’elettricità, ad un pavimento bagnato,

al rumore, ad una sostanza chimica, all’altezza dal suolo, che sono tutti riferimenti a fonti di

pericolo che possono generare un rischio.

Di conseguenza il solo fatto di lavorare in ambienti dove siano presenti: energia elettrica, rumore,

superfici bagnate, sostanze chimiche o attrezzature di lavoro sviluppate in altezza, ci espone a un

rischio possibile.

Infatti:

utilizzare un computer collegato a una presa elettrica con una spina usurata o danneggiata, è

un rischio, perché un involontario contatto può causare una “elettrocuzione” ossia una

scossa elettrica;

camminare su un pavimento bagnato è un rischio, perché si può facilmente scivolare e

cadere;

permanere per periodi prolungati in ambienti con elevata intensità di rumore è un rischio,

perché si possono subire forme, più o meno gravi, di ipoacusia, sino alla sordità;

lavorare in quota, sopra un’impalcatura o un ponteggio, è un rischio, perché si può cadere

nel vuoto;

e potremmo proseguire ancora, con altri esempi riferiti a tante situazioni che, in molti casi ci

sarebbero sicuramente familiari.

Riepilogando possiamo dire che “il rischio” si traduce nella probabilità di subire un danno, in

conseguenza dell’esposizione a una situazione pericolosa, che è considerata tale per la presenza di

una o più fonti di pericolo. I rischi possono essere, di natura:

infortunistica, quando riguardano la sicurezza dei lavoratori;

igienico-ambientale, quando riguardano la salute dei lavoratori.

In particolare i rischi di natura infortunistica sono quelli responsabili del possibile verificarsi di

incidenti o infortuni:

durante l’utilizzo di macchine e attrezzature;

per contatto con impianti elettrici;

per la presenza di sostanze pericolose;

per incendi ed esplosioni;

e quindi, a seguito dell’utilizzo di scale fisse, di attrezzi manuali, di apparecchiature elettriche, di

mezzi di trasporto, o durante la manipolazione di sostanze o l’immagazzinamento di prodotti.

Al contrario i rischi di natura igienico-ambientale sono quelli che riguardano la salute dei lavoratori,

ovvero:

il rischio fisico, che deriva dall’esposizione al rumore, alle vibrazioni o alle radiazioni;

il rischio chimico, che deriva dall’esposizione a sostanze organiche volatili e alle polveri;

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il rischio cancerogeno, che deriva dall’esposizione a un elemento, e cioè ad una sostanza,

una radiazione o a un agente, che può provocare il cancro o favorirne la propagazione, come

ad esempio: l’amianto, il catrame, le radiazioni ultraviolette, i fumi di saldatura e le polveri

di legno;

il rischio biologico, che deriva dalla contaminazione da materiale organico potenzialmente

infetto o dall’esposizione a impianti di climatizzazione, non manutenuti o sanificati, o

impianti di depurazione delle acque reflue, che possono provocare la diffusione della

legionellosi.

Il danno

Il danno è l’effetto negativo prodotto da un evento determinatosi a seguito dell’esposizione a un

pericolo che si è tradotto nella lesione psicofisica di uno o più lavoratori.

I danni possibili per i lavoratori sono le lesioni fisiche dovute a cause violente o all’esposizione

prolungata a sostanze pericolose. Nel primo caso si parla di infortuni sul lavoro mentre nel secondo

caso di malattie professionali.

Gli infortuni sul lavoro sono eventi che possono provocare la morte o un’inabilità, temporanea o

permanente, ovvero la riduzione parziale o totale della capacità lavorativa, a seguito di una causa

violenta che si verifica in occasione di lavoro (o sul lavoro o svolgendo attività connesse al lavoro).

Facciamo alcuni esempi e, riprendendo quanto già proposto in precedenza, nelle diverse circostanze

osserviamo che:

una lesione per elettrocuzione o scossa, può arrecare conseguenze all’organismo con diversi

livelli di gravità, commisurati anche al valore della tensione elettrica e alla durata del

contatto, quali: la tetanizzazione o contrazione massimale e involontaria dei muscoli; la

fibrillazione cardiaca per una maggiore frequenza di fibrillazione ventricolare o le ustioni

derivanti dal calore prodotto dal passaggio della corrente;

le lesioni fisiche legate a una caduta per scivolamento su un pavimento bagnato, possono

anch’esse assumere livelli diversi di gravità; da una semplice lussazione alle fratture, anche

scomposte, agli arti, alla schiena o, ancora, possibili conseguenze al collo, alla nuca e alla

testa;

le lesioni fisiche dovute all’impigliamento di un arto in un ingranaggio.

La presentazione di questi esempi, collegandoli ai precedenti, consente anche di osservare che il

pericolo, il rischio e il danno sono, nell’ordine, l’uno lo sviluppo dell’altro e, come si vedrà meglio

in seguito, costituiscono il tema centrale sia di questa formazione che dell’intera materia normativa

per la sicurezza durante il lavoro.

La malattia professionale è un danno alla salute che si sviluppa nel tempo a causa dell’esposizione

prolungata a sostanze nocive o pericolose e ad agenti fisici.

Le malattie professionali nel corso degli ultimi anni sono notevolmente aumentate anche a seguito

della possibilità di far riconoscere come malattia professionale, oltre a quelle “tabellate”, anche

qualsiasi malattia che sia stata causata dal lavoro.

Tra le malattie professionali denunciate, quelle più ricorrenti riguardano:

danni all’apparato uditivo; che oltre a limitare la capacità uditiva della persona gravano

anche sulla sua condizione psico-fisica in quanto la difficoltà di comunicazione verbale e la

non facile adattabilità alla sopraggiunta situazione di non udente, creano disagi anche sul

piano personale e sociale;

danni di natura osteo-articolare e muscolo-tendinea, conseguenti principalmente al

sovraccarico biomeccanico degli arti;

affezioni dei dischi intervertebrali e tendiniti.

La prevenzione e la protezione

La sicurezza sul lavoro si compone di due parti fondamentali che sono: la prevenzione e la

protezione.

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La prevenzione può essere definita come “il complesso degli interventi o delle misure necessarie a

evitare, o diminuire, i rischi professionali e di conseguenza a evitare o diminuire gli infortuni sul

lavoro e le malattie professionali”; mentre possiamo definire la protezione come “il complesso delle

misure finalizzate a limitare le conseguenze dannose di un evento, una volta che questo si è

manifestato”.

Misure di Prevenzione

Sono considerate misure di Prevenzione:

1. le misure tecniche riferite ai dispositivi tecnologici di prevenzione su macchine, impianti e

attrezzature;

2. le misure tecniche riferite all’ergonomia dei posti di lavoro;

3. le misure organizzative finalizzate a progettare il processo produttivo eliminando o

riducendo al massimo i rischi professionali sulla base di una valutazione dei rischi da

effettuare per ogni attività di lavoro.

In particolare, tra queste misure organizzative abbiamo:

l’utilizzo limitato di sostanze pericolose sul luogo di lavoro;

la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è, o è meno pericoloso;

la limitazione al minimo del numero dei lavoratori che possono essere esposti a un

determinato rischio.

4. le misure finalizzate a promuovere e garantire comportamenti sicuri da parte dei lavoratori.

A tal fine le misure principali consistono:

nella formazione, informazione e addestramento dei lavoratori, affinché questi vengano a

conoscenza in maniera precisa, delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza

che devono rispettare;

in misure di vigilanza sull’effettivo rispetto da parte dei lavoratori delle procedure e

delle istruzioni di lavoro in sicurezza apprese con la formazione e l’addestramento.

Nell’ambito dell’informazione dei lavoratori, un aspetto rilevante è rappresentato dalla

segnaletica di sicurezza nei luoghi di lavoro.

5. il controllo sanitario, finalizzato a diagnosticare precocemente eventuali patologie legate

all’attività di lavoro o patologie che possono essere peggiorate con il lavoro;

6. il coinvolgimento dei lavoratori attraverso la collaborazione con il rappresentante dei

lavoratori per la sicurezza;

7. le misure organizzative finalizzate a promuovere il benessere sul luogo di lavoro eliminando

o riducendo il rischio da stress-lavoro correlato.

Misure di Protezione

Come abbiamo già visto le misure di protezione sono finalizzate a limitare le conseguenze dannose

di un evento, una volta che questo si è manifestato.

Le misure di Protezione consistono in:

dispositivi di protezione collettiva finalizzati a proteggere gruppi di lavoratori. Come

vedremo tali dispositivi sono, ad esempio, gli schermi, i ripari, le tettoie, ecc.;

dispositivi di protezione individuale o D.P.I., finalizzati a proteggere il singolo lavoratore,

come per esempio i caschi, le scarpe, le visiere, ecc.

impianti di rilevazione incendio e impianti o attrezzature di estinzione, impianti di allarme e

avvertimento;

piani di emergenza e di pronto soccorso.

Esame dei singoli elementi che compongono le misure di prevenzione

Misure tecniche riferite ai dispositivi tecnologici di prevenzione su macchine, impianti e

attrezzature Bisogna tenere presente che tutte le macchine, gli impianti e le attrezzature di lavoro

immessi sul mercato, devono essere dotati di dispositivi di sicurezza e corredati dalle istruzioni

d’uso in sicurezza.

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Alcuni esempi:

le mole abrasive devono essere munite di schermo di protezione e di un poggiapezzi

registrabile;

i trapani devono essere dotati di morsetti di trattenuta o di altri dispositivi appropriati per il

bloccaggio dei materiali da perforare;

i torni devono avere le viti di fissaggio dei pezzi protette con apposito manicotto per evitare

che gli indumenti del lavoratore possano impigliarsi durante la rotazione;

le seghe a nastro devono avere i volani di rinvio del nastro completamente protetti;

le pialle a filo devono essere provviste di un riparo registrabile o di altro dispositivo per la

copertura del portalame;

le attrezzature per il sollevamento di carichi vanno allestite con ganci provvisti di dispositivi

di chiusura dell’imbocco per evitare lo sganciamento delle funi o delle catene;

i ponteggi devono avere la piattaforma di lavoro protetta da parapetto normale, alto almeno

1 metro e corredato da corrente intermedio e tavola fermapiede;

i ponteggi su ruote devono essere corredati da appositi dispositivi di bloccaggio e

stabilizzazione.

Inoltre va sempre rispettato il divieto generale di compiere qualsiasi tipo di intervento, riparazione,

manutenzione o registrazione su organi in moto, ed è necessario, ancora prima di utilizzare una

macchina, un’attrezzatura o un impianto, individuare e memorizzare la posizione del pulsante di

arresto di emergenza.

Misure tecniche riferite all’ergonomia dei posti di lavoro

In questo caso è significativo l’esempio riferito alla disposizione delle postazioni di lavoro con

utilizzo di videoterminale e alle caratteristiche dei singoli elementi che la compongono per

determinare la posizione ergonomicamente appropriata che il lavoratore deve assumere, durante

l’impegno lavorativo, per preservare nel tempo il proprio stato di salute.

A tale fine infatti:

il sedile e lo schienale di lavoro devono essere regolabili per assicurare una posizione di

seduta corretta;

il piano di lavoro deve avere una superficie adeguata, sia per il posizionamento del computer

e della tastiera che per consentire l’utilizzo del mouse, ed essere possibilmente di colore

poco riflettente;

lo schermo deve essere orientabile e assicurare una buona risoluzione delle immagini,

affinché siano stabili ed esenti da tremolio o farfallamento;

la tastiera deve avere una superficie opaca per evitare riflessi;

la posizione dell’intera postazione di lavoro deve essere prevista in modo corretto rispetto

alle fonti di luce sia naturale che artificiale

15.1.3 - Misure organizzative finalizzate a progettare il processo produttivo

eliminando o riducendo al massimo i rischi professionali A seguito della “valutazione del rischio dell’attività di lavoro” vengono definite appropriate “misure

organizzative” legate agli aspetti operativi per stabilire, nelle diverse situazioni, come operare

correttamente e in sicurezza.

Pensiamo, ad esempio, alle esigenze legate “all’utilizzo dei prodotti chimici”, per i quali a seguito

della valutazione del rischio dell’attività di lavoro, saranno attuate delle misure organizzative

finalizzate a:

sostituire gli agenti chimici pericolosi con altri che non lo sono o lo sono meno;

adottare procedure e metodi di lavoro che consentano di ridurre l’intensità, i tempi e il

numero degli operatori esposti. Altro esempio può riguardare le misure organizzative legate

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alla “movimentazione manuale dei carichi” che è incentrata sugli elementi di riferimento del

carico e sui fattori individuali di rischio, dove:

-per elementi di riferimento, si intendono le caratteristiche del carico; lo sforzo fisico

richiesto; le caratteristiche dell’ambiente di lavoro; e le altre esigenze connesse all’attività in

situazioni particolari;

- per fattori individuali di rischio, si intendono l’inidoneità alla mansione, l’inadeguatezza

dell’abbigliamento da lavoro e/o dei dispositivi di protezione e l’insufficienza delle

informazioni o dell’addestramento dell’operatore.

L’esame preventivo degli elementi di riferimento e dei fattori individuali di rischio, contribuisce a

definire appropriate “misure organizzative” legate agli aspetti operativi per stabilire, nelle diverse

situazioni, come operare correttamente e in sicurezza.

Misure organizzative sono previste anche per “l’utilizzo di alcune attrezzature particolari”, come, ad

esempio, il “carrello elevatore” che per le sue caratteristiche strutturali incentrate sul “principio del

bilanciamento dei pesi” costituiti dal carico e dal proprio contrappeso, richiede il rispetto di

specifiche procedure che attengono, tra l’altro:

1. al corretto posizionamento delle forche di carico: durante i percorsi senza carico è

necessario che rimangano basse a pochi centimetri dal suolo, soprattutto per evitare che a

seguito di improvvisi imprevisti durante le manovre, si possano causare gravi danni alle

persone presenti nell’area di operatività;

2. alle modalità di approccio al carico, per il prelievo e per il deposito dei pallets;

3. al modo di operare sulle superfici con pendenze, che richiede particolare attenzione per

scongiurare possibili e pericolosissimi ribaltamenti del carrello;

4. ai divieti di utilizzo improprio dell’attrezzatura.

Si pensi, anche a quelle misure di prevenzione e protezione che pur operando nel campo di

applicazione del D.Lgs. n. 81, hanno origine da altre norme, come nel caso del D.Lgs. del 26 marzo

2001, n. 151 (Testo Unico a tutela e sostegno della maternità) che prescrive le misure per la tutela

della sicurezza e della salute delle lavoratrici durante il periodo di gravidanza.

Secondo tale decreto, le donne che abbiano accertato il proprio stato di gravidanza sono tenute a

comunicarlo al loro datore di lavoro, al fine di permettere l’attuazione delle seguenti misure:

valutazione, da parte del datore di lavoro, dei rischi per la loro salute e la loro sicurezza tra i

quali, in particolare, quelli che possono derivare sia dall’esposizione ad agenti fisici, chimici

e biologici e sia dai processi e dalle condizioni di lavoro;

individuazione di specifiche misure di prevenzione e di protezione;

modifica temporanea delle condizioni e dell’orario di lavoro, nei casi in cui i risultati della

valutazione ne rivelino la necessità.

Misure finalizzate a promuovere e garantire comportamenti sicuri da parte dei lavoratori

Rientrano tra queste misure: l’informazione, la formazione, l’addestramento e la vigilanza sui

lavoratori sull’effettivo rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza. Dette

misure, quando correttamente utilizzate, rappresentano gli strumenti di maggiore efficacia nella

prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali.

L’informazione è il complesso delle attività dirette a fornire ai lavoratori le conoscenze utili

all’identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi nell’ambiente di lavoro.

La formazione è il processo educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori e agli altri soggetti

del sistema di prevenzione e protezione aziendale, le conoscenze e le procedure utili:

all’acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e

all’identificazione, riduzione e gestione dei rischi.

L’addestramento è il complesso delle attività dirette a fare apprendere ai lavoratori, attraverso prove

pratiche, l’uso corretto di attrezzature, macchine, impianti, sostanze, dispositivi - anche di

protezione individuale.

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Dalle definizioni di “informazione” e “formazione” si deduce che mentre la “formazione” è un vero

e proprio processo educativo che prevede l’attività di un docente con cui interagire,

“l’informazione” si esaurisce nella semplice fornitura di conoscenze che si possono trasmettere

verbalmente o con la consegna di documenti scritti. Approfondiamo ora in modo più dettagliato

quali sono i temi di riferimento dell’informazione e della formazione, nel rispetto della normativa

vigente.

L’informazione

Il D.Lgs. 81/2008 nell’art. 36, commi 1° e 2°, dispone che:

1. Il Datore di lavoro provveda affinché ciascun lavoratore riceva una adeguata informazione:

- sui rischi per la salute e la sicurezza sul lavoro connessi all’attività dell’impresa in

generale;

- sulle procedure che riguardano il primo soccorso, la lotta antincendio, l’evacuazione dei

luoghi di lavoro;

- sui nominativi dei lavoratori incaricati di applicare le misure di primo soccorso e di

prevenzione incendi;

- sui nominativi del responsabile e degli addetti del servizio di prevenzione e protezione, e

del medico competente.

2. Il Datore di lavoro provveda altresì affinché ciascun lavoratore riceva una adeguata

informazione:

- sui rischi specifici cui è esposto in relazione all’attività svolta, le normative di sicurezza e

le disposizioni aziendali in materia;

- sui pericoli connessi all’uso delle sostanze e dei preparati pericolosi sulla base delle schede

dei dati di sicurezza previste dalla normativa vigente e dalle norme di buona tecnica;

- sulle misure e le attività di protezione e prevenzione adottate.

La segnaletica di sicurezza

Una parte importante dell’informazione è costituita dalla segnaletica di sicurezza e di salute sul

luogo di lavoro, brevemente detta, segnaletica di sicurezza.

La segnaletica di sicurezza è una segnaletica che, riferita a un oggetto, a una attività o a una

situazione determinata, fornisce un’indicazione o una prescrizione concernente la sicurezza o la

salute sul luogo di lavoro. Viene proposta, a seconda dei casi, attraverso un cartello, un colore, un

segnale luminoso o acustico, una comunicazione verbale o un segnale gestuale.

Il cartello è un segnale che, mediante la combinazione di una forma geometrica, di colori e di un

simbolo o pittogramma, fornisce un’indicazione determinata. La sua visibilità deve essere garantita

da una illuminazione di intensità sufficiente.

Il cartello può essere anche di tipo supplementare quando è impiegato assieme ad un altro per

fornire indicazioni complementari.

Il colore di sicurezza è un colore al quale è assegnato un significato determinato.

Il segnale luminoso è un segnale emesso da un dispositivo costituito da materiale trasparente, o

semitrasparente, che è illuminato dall’interno o dal retro in modo da apparire esso stesso come una

superficie luminosa.

Il segnale acustico è un segnale sonoro in codice emesso e diffuso da un apposito dispositivo, senza

impiego di voce umana o di sintesi vocale.

La comunicazione verbale è un messaggio verbale predeterminato, con impiego di voce umana o di

sintesi vocale.

Il segnale gestuale è un movimento, o una posizione delle braccia o delle mani in forma

convenzionale, eseguito per guidare le persone che effettuano manovre implicanti un rischio o un

pericolo attuale per i lavoratori. Il segnale gestuale deve essere preciso, semplice, ampio, facile da

eseguire e da comprendere e nettamente distinto da qualsiasi altro segnale gestuale.

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Condizioni di impiego della segnaletica di sicurezza

I cartelli che propongono la segnaletica di sicurezza vanno sistemati tenendo conto di eventuali

ostacoli, ad un’altezza e in una posizione appropriata rispetto all’angolo di visuale, all’ingresso

della zona interessata in caso di rischio generico ovvero nelle immediate adiacenze di un rischio

specifico o dell’oggetto che s’intende segnalare e in un posto ben illuminato e facilmente

accessibile e visibile.

In caso di cattiva illuminazione naturale è opportuno utilizzare colori fosforescenti, materiali

riflettenti o l’illuminazione artificiale.

Il cartello segnaletico va rimosso quando non sussista più la situazione che ne giustificava la

presenza.

Categorie dei segnali di sicurezza

La segnaletica di sicurezza è costituita da:

segnali di divieto: che vietano un comportamento che potrebbe far correre o causare un

pericolo; hanno forma rotonda, pittogramma nero su fondo bianco e bordo e banda rossi;

segnali di avvertimento: che avvertono di un rischio o di un pericolo; hanno forma

triangolare, pittogramma nero su fondo giallo, bordo nero;

segnali di prescrizione: che prescrivono un determinato comportamento; hanno forma

rotonda, pittogramma bianco su fondo azzurro;

segnali di salvataggio o di soccorso: che forniscono indicazioni relative alle uscite di

sicurezza o ai mezzi di soccorso o di salvataggio; hanno forma quadrata o rettangolare,

pittogramma bianco su fondo verde;

segnali antincendio: che forniscono indicazioni sulla collocazione dei presidi antincendio;

hanno forma quadrata o rettangolare, pittogramma bianco su fondo rosso.

segnali di ostacoli e di punti di pericolo: che segnalano i rischi d’urto contro ostacoli, di

caduta di oggetti e di caduta da parte delle persone entro il perimetro delle aree in cui i

lavoratori hanno accesso nel corso del lavoro. Per questo tipo di segnale si utilizza il colore

giallo alternato al nero, ovvero il rosso alternato al bianco.

La formazione

Il D.Lgs. 81/2008, con l’art. 37, stabilisce che:

1. il Datore di lavoro assicuri che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente ed

adeguata in materia di salute e sicurezza, anche rispetto alle conoscenze linguistiche, con

particolare riferimento:

- agli aspetti generali di sicurezza;

- ai rischi riferiti alle mansioni e ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di

prevenzione e protezione caratteristici del settore o comparto di appartenenza dell’azienda.

2. La durata, i contenuti minimi e le modalità della formazione sono quelle definiti

dall’Accordo del 21 Dicembre 2011, in sede di conferenza permanente Stato-Regioni, che

tra l’altro regolamenta l’organizzazione della formazione e la metodologia di

insegnamento/apprendimento.

In particolare, l’Accordo Stato-Regioni, per la nuova formazione prevede:

un modulo di 4 ore per la formazione generale di base, uguale per tutti (il modulo è riferito

alla formazione che state ora fruendo con questo corso);

un modulo specifico per i rischi particolari delle attività da svolgere, di durata differenziata a

seconda del livello di rischio dell’attività in questione, ossia:

- 4 ore, per le attività connotate da rischio basso;

- 8 ore, per quelle connotate da rischio medio;

- 12 ore, per le attività connotate da rischio alto.

Mentre per quanto attiene agli aggiornamenti, questi si concretano in corsi da 6 ore, uguali per tutti.

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Organizzazione della formazione

Ogni corso di formazione dei lavoratori dovrà prevedere:

il soggetto organizzatore del corso, il quale può essere anche il datore di lavoro;

un responsabile del progetto formativo, il quale può essere un docente;

i nominativi dei docenti;

un numero massimo di partecipanti ad ogni corso pari a 35 unità;

il registro di presenza dei partecipanti;

l’obbligo di frequenza del 90% delle ore di formazione previste;

la declinazione dei contenuti tenendo presente: le differenze di genere, di età, di provenienza

e lingua, nonché quelle connesse alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene

resa la prestazione di lavoro.

Ad esempio, nel caso di lavoratori somministrati il Datore di lavoro dovrà verificare il grado di

preparazione antinfortunistica acquisito attraverso la formazione impartita loro dal committente e

colmare eventuali lacune.

Metodologia di insegnamento/apprendimento

La metodologia di insegnamento/apprendimento privilegia un approccio interattivo che deve

comportare la centralità del lavoratore nel percorso di apprendimento.

A tal fine è opportuno:

garantire un equilibrio tra lezioni frontali, lezioni teoriche e pratiche, e relative discussioni

nonché lavori di gruppo, nel rispetto del monte ore complessivo prefissato per ogni modulo

formativo;

favorire metodologie di apprendimento interattive ovvero basate sul problem solving,

applicate a simulazioni e situazioni di contesto su problematiche specifiche, con particolare

attenzione ai processi di valutazione e comunicazione legati alla prevenzione;

prevedere dimostrazioni, simulazioni in contesto lavorativo e prove pratiche;

favorire, ove possibile, le metodologie di apprendimento innovative, anche in modalità e-

learning e con ricorso a linguaggi multimediali che garantiscano l’impiego di strumenti

informatici quali canali di divulgazione dei contenuti formativi anche ai fini di una migliore

conciliazione tra le esigenze professionali e quelle di vita personale dei discenti e dei

docenti.

Utilizzo delle modalità di apprendimento e-learning

Sulla base dei criteri e delle condizioni previste, l’utilizzo delle modalità e-learning è consentito

per:

la formazione generale dei lavoratori

la formazione dei dirigenti;

i corsi di aggiornamento;

la formazione dei preposti.

La vigilanza sui lavoratori

La vigilanza sui lavoratori riguardo all’effettivo rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro

in sicurezza Ognuno di noi, quando svolge una qualsiasi occupazione non necessariamente legata al

lavoro, se è consapevole di essere osservato, solitamente è più attento e si impegna per esprimere il

meglio di quello che può fare, e soprattutto rimane concentrato, per non commettere errori o

distrazioni.

L’esempio appena menzionato è la sintesi dell’obiettivo voluto dalla normativa per garantire

comportamenti sicuri da parte dei lavoratori, ben sapendo che, in molti casi, l’abitudine al lavoro

giornaliero può essere motivo di distrazione e quindi la causa di molti infortuni.

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La vigilanza sui lavoratori ha lo scopo di verificare che gli stessi, in base all’informazione, alla

formazione e all’addestramento ricevuti, rispettino le procedure e le disposizioni aziendali che gli

competono, e può riguardare, ad esempio:

che utilizzino in modo appropriato le attrezzature di lavoro;

che indossino i dispositivi di protezione individuale, in tutte le situazioni che ne richiedono

l’uso;

che durante lo svolgimento della propria mansione, evitino di assumere comportamenti che

possono provocare un pericolo, sia per la propria sicurezza che per quella di altri colleghi,

ecc.

L’inosservanza delle proprie competenze e dei propri obblighi, che emergono a seguito

dell’esercizio della vigilanza, che come si vedrà meglio in seguito è opportunamente regolamentata,

comporta a carico del lavoratore provvedimenti disciplinari e sanzioni anche di natura penale.

La vigilanza viene normalmente effettuata dai Preposti, che sono i lavoratori che, dotati di poteri

gerarchici, sovrintendono alle attività di lavoro e garantiscono l’attuazione delle direttive ricevute,

infatti i principali compiti dei Preposti consistono nel:

“sovrintendere e vigilare sull’osservanza, da parte dei lavoratori degli obblighi di legge e delle

disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro, e di uso dei mezzi di protezione

collettivi e dei dispositivi di protezione individuale. Ovviamente, in caso di persistenza della

inosservanza da parte di un lavoratore, il Preposto deve informare del fatto i suoi superiori diretti

affinché intervengano sul lavoratore” - (rif. art. 19, comma 1°, lett. a) del D.Lgs. 81/2008).

Un compito dei Preposti altrettanto importante è quello di:

“segnalare tempestivamente al Datore di lavoro o al Dirigente, sia le deficienze dei mezzi e

delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale, sia ogni altra

condizione di pericolo, che si verifichi durante il lavoro, delle quali venga a conoscenza

sulla base della formazione ricevuta” – (rif. art. 19, comma 1°, lett. f) del D.Lgs. 81/2008).

Con riferimento all’attività di vigilanza, la giurisprudenza è concorde sul principio che questa non si

deve intendere come una presenza ininterrotta da parte del Preposto durante l’attività di lavoro bensì

come un’attività di ripetuti e frequenti sopralluoghi personali finalizzati a verificare l’osservanza da

parte dei lavoratori degli ordini di sicurezza loro impartiti. Ovviamente, nel caso il Preposto rilevi,

durante il sopralluogo, comportamenti dei lavoratori non conformi alle norme di sicurezza, non

deve tollerarli e deve intervenire per farli cessare. (Cass. Pen., sez. IV^, 12.01.1988, n°108).

Controllo sanitario dei lavoratori

Il controllo sanitario dei lavoratori è una misura di prevenzione che ha lo scopo di diagnosticare

precocemente eventuali patologie legate all’attività di lavoro o patologie che possono essere

peggiorate con il lavoro.

Il controllo sanitario viene attuato attraverso la sorveglianza sanitaria ed effettuato da un medico

competente. Il lavoratore che a norma di legge è soggetto alla sorveglianza sanitaria non può

rifiutarsi di sottoporsi ai controlli e agli accertamenti che la stessa prevede.

Le visite di sorveglianza sanitaria non possono essere effettuate:

per accertare stati di gravidanza;

negli altri casi vietati dalla normativa vigente.

Come si vedrà più dettagliatamente in seguito, la sorveglianza sanitaria consiste in visite mediche,

esami clinici e biologici e indagini diagnostiche mirati al rischio, che sono ritenuti necessari dal

medico competente e vengono eseguiti a cura e spese del datore di lavoro.

Coinvolgimento dei lavoratori attraverso la collaborazione con il rappresentante dei

lavoratori per la sicurezza

Tra le misure di prevenzione un aspetto di particolare rilevanza è rappresentato dal coinvolgimento

attivo dei lavoratori su quegli aspetti che contribuiscono a determinare o aggiornare i provvedimenti

mirati alla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

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Perché ciò sia possibile e considerato che, da un punto di vista organizzativo e gestionale, il singolo

lavoratore non può interagire, in modo costruttivo ed efficace, con le altre figure aziendali preposte

alla cura della sicurezza per fornire un proprio contributo di esperienza e di possibile

miglioramento, il legislatore ha assegnato questo compito a una figura specifica: il Rappresentante

dei lavoratori per la sicurezza o RLS; consentendo in tal modo che l’attuazione della politica della

sicurezza nei luoghi di lavoro tenga conto delle esigenze di tutti e quindi anche dei lavoratori che in

tali luoghi operano.

Il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza costituisce una figura centrale e in forza dei poteri e

delle facoltà conferitigli dalla normativa, interviene in un’ottica di miglioramento dei livelli di

salute e sicurezza aziendale.

L’RLS espleta il proprio compito, sia in base alle conoscenze che acquisisce anche a seguito di una

specifica e particolare formazione, sia tenendo conto delle indicazioni avanzate dai lavoratori.

Tutti gli aspetti che caratterizzano la funzione del Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza

verranno trattati in una sezione successiva di questo corso.

Misure organizzative finalizzate a promuovere il benessere sul luogo di lavoro, eliminando o

riducendo il rischio da stress lavoro-correlato

Le misure che vengono previste per la promozione del benessere sul luogo di lavoro costituiscono

una novità particolarmente significativa della materia, che individua anche negli aspetti di natura

psico-sociale, potenzialità di rischio in grado di provocare danni che si manifestano con la

produzione di malessere a carico di gruppi di lavoratori.

Il D.Lgs. n. 81/2008 - Testo Unico della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro - in coerenza

con l’obiettivo generale di eliminare, ovvero di ridurre tutti i rischi di natura professionale, richiede

che “la valutazione dei rischi delle attività di lavoro” consideri tutti i rischi per la sicurezza e la

salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari,

tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato secondo i contenuti dell’Accordo Europeo

dell’8 ottobre 2004 che è stato recepito in Italia con l’Accordo Interconfederale del 9 giugno 2008,

e tenga conto delle indicazioni della Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza

sul lavoro.

Ma cosa s’intende per stress lavoro-correlato?

Lo stress lavoro-correlato è «una condizione, accompagnata da sofferenze o disfunzioni fisiche,

psichiche, psicologiche o sociali, che scaturisce dalla sensazione individuale di non essere in grado

di rispondere alle richieste o di non essere all’altezza delle aspettative».

La valutazione del rischio da stress lavoro-correlato è parte integrante della valutazione dei rischi e

prende in esame non i singoli ma i gruppi omogenei di lavoratori (per esempio, per mansioni o

ripartizioni organizzative) che risultino esposti a rischi dello stesso tipo secondo una individuazione

che ogni datore di lavoro può autonomamente effettuare in ragione della effettiva organizzazione

aziendale.

La valutazione del rischio si articola in due fasi: una preliminare l’altra approfondita.

Nella fase preliminare vengono rilevate le informazioni riferite ai cosiddetti “indicatori oggettivi”

(tasso di infortuni, malattie professionali, assenze per malattia, turnover, procedimenti e sanzioni

specifiche e le eventuali lamentele formalizzate da parte dei lavoratori).

La valutazione successiva (cosiddetta “valutazione approfondita”) prevede la valutazione della

“percezione soggettiva” di eventuali disagi da parte dei lavoratori, attraverso due differenti

strumenti: un questionario anonimo e un’intervista generale o focus group. Entrambe le fasi

prevedono il coinvolgimento di uno psicologo del lavoro per garantire le necessarie competenze

rispetto allo svolgimento dell’intero processo valutativo.

A conclusione del percorso valutativo lo psicologo redige la Relazione Tecnica sullo stress lavoro-

correlato che va allegata al Documento di Valutazione dei Rischi contenente le fasi della

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valutazione, gli strumenti di analisi del rischio, i fattori di rischio stress lavoro-correlato individuati

e le relative misure di prevenzione e protezione previste.

Gli interventi di miglioramento della salute organizzativa sono abitualmente suddivisi in diversi

livelli: da quelli più a carattere individuale (es. gestione dello stress) a quelli che mirano più

direttamente al cambiamento di elementi del contesto organizzativo (es. politiche di gestione delle

risorse, cambiamento e sviluppo organizzativo). Tutte le varie tipologie di intervento puntano al

miglioramento delle condizioni di salute nell'ambito dell'organizzazione ma quelle a livello

organizzativo rispondono maggiormente a logiche che determinano benefici sulla salute

organizzativa e nel complesso del contesto lavorativo.

15.1.4 - Misure di protezione Approfondiamo ora la conoscenza delle misure di protezione ovvero di quelle misure che, come già

detto in precedenza, al verificarsi di un evento dannoso consentono di limitarne le conseguenze.

Dispositivi di protezione collettiva e individuale, o D.P.I.

Dispositivi di protezione collettiva

Sono quei dispositivi che hanno la funzione di proteggere gruppi di lavoratori. Alcuni esempi di

queste protezioni sono: gli schermi, i ripari, le tettoie, ecc.

Dispositivi di protezione individuale, o D.P.I.,

Sono dispositivi finalizzati a proteggere il singolo lavoratore.

Ne esistono diverse tipologie, le cui caratteristiche, per quanto attiene ai materiali ai colori e ad altri

aspetti specifici, sono disciplinate dal D.Lgs. n. 475 del 4 dicembre 1992.

Alcuni tra i D.P.I. più diffusi sono:

gli elmetti, destinati alla protezione della testa, contro gli urti o la caduta di oggetti dall’alto;

gli occhiali, le visiere o gli schermi, per proteggere il viso da spruzzi e schegge;

le maschere antipolvere, antigas e gli autoprotettori, a protezione delle vie respiratorie da

polveri, gas e vapori;

le cuffie, i tappi e gli archetti a protezione dell’apparato uditivo;

vari tipi di tute, grembiuli e completi, a protezione del corpo;

vari tipi di guanti, a protezione degli arti superiori;

vari tipi di calzature, a protezione degli arti inferiori;

le funi, le cinture di sicurezza e gli altri sistemi di trattenuta, per prevenire le cadute

dall’alto.

Per il corretto utilizzo dei D.P.I. può essere previsto uno specifico addestramento che è, invece,

obbligatorio per quelli destinati alla protezione dell’udito.

Per assicurare efficacemente la loro funzione, i D.P.I. devono:

essere adeguati ai rischi da prevenire, senza comportare di per sé un rischio maggiore;

essere adeguati alle condizioni esistenti sul luogo di lavoro;

tenere conto delle esigenze ergonomiche e di salute del lavoratore;

poter essere adattati all’utilizzatore secondo le sue necessità.

I D.P.I., infine, vanno custoditi a cura del lavoratore, mantenuti efficienti con controlli e

manutenzione periodica e sostituiti in caso di usura o danneggiamento.

Impianti di rilevazione incendio e impianti o attrezzature di estinzione, impianti di allarme e

avvertimento

Si tratta in questo caso di misure di protezione legate, in particolare, ad una situazione di emergenza

che può essere determinata dal verificarsi di un incendio o da un’altra calamità, quali:

gli impianti di rilevazione incendio, corredati da sensori, che a seguito del propagarsi dei

fumi, anche per un semplice principio d’incendio, attivano automaticamente delle

segnalazioni sonore di avvertimento;

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gli impianti di estinzione, anch’essi corredati di sensori, che a seguito del propagarsi di un

incendio e, quindi, dell’aumento della temperatura in un ambiente di lavoro, attivano

automaticamente delle reti di estinzione alimentate con estinguenti idrici, a schiuma o con

particolari tipologie di gas;

le attrezzature di estinzione, quali gli estintori manuali o carrellati che contengono degli

estinguenti a polvere o ad anidride carbonica, e sono adatti soprattutto per intervenire sui

principi d’incendio, o ancora gli idranti, utilizzati soprattutto dai Vigili del fuoco, che sono

alimentati da reti idriche con pressione piuttosto elevata e consentono di intervenire su un

incendio rispettando adeguate distanze di sicurezza;

gli impianti di allarme ed avvertimento, quali altoparlanti, badenie, sirene, ecc. che possono

essere di tipo automatico o manuale, e vengono utilizzati per diffondere segnalazioni sonore

o messaggi convenzionali e vocali, appropriati alle tipologia di emergenza in atto.

Piani di emergenza e di pronto soccorso

I piani di emergenza consistono nella predisposizione di procedure che hanno lo scopo di prevedere

e regolamentare tutte le attività che vanno attuate al verificarsi di un’emergenza nei luoghi di

lavoro, compresa l’individuazione di coloro che devono porle in atto.

Le situazioni di emergenza possono riguardare aspetti legati alla materia della prevenzione degli

incendi o alle situazioni di pronto soccorso e quindi di primo soccorso.

In entrambi i casi le relative procedure di supporto devono tenere conto di alcuni elementi che

identificano l’attività aziendale, tra i quali ad esempio:

il tipo di attività e il livello di pericolosità della stessa;

la consistenza numerica della popolazione normalmente presente nei luoghi di lavoro;

la collocazione dell’azienda rispetto ai centri abitati o attrezzati;

per valutare in modo appropriato il tempo necessario per l’arrivo dei soccorsi in caso di

necessità d’intervento degli enti esterni preposti.

Più nel dettaglio il piano di emergenza deve essere predisposto e tenuto sempre aggiornato e, per gli

aspetti legati alle situazioni di prevenzione degli incendi, deve contenere:

le azioni che i lavoratori devono eseguire in caso di un incendio;

le procedure per l’evacuazione del luogo di lavoro che devono essere attuate dai lavoratori e

dalle altre persone presenti sul posto;

le disposizioni per chiedere l’intervento dei Vigili del fuoco e per fornire le necessarie

informazioni al loro arrivo;

le specifiche misure per assistere le persone disabili.

Il piano di emergenza deve identificare un adeguato numero di persone incaricate di sovrintendere e

controllare l’attuazione delle procedure previste.

Per quanto attiene al “primo soccorso” il relativo piano è incentrato sulle azioni da seguire per

garantire ad una persona infortunata, o colta da malore, un’adeguata assistenza in attesa dell’arrivo

dei soccorsi professionali esterni.

Pertanto le principali misure di protezione che, come già detto, tengono conto delle dimensioni

dell’azienda, riguardano essenzialmente:

la designazione dei lavoratori incaricati di attuare le misure di primo soccorso;

la definizione dei rapporti con i servizi esterni di soccorso, anche per il trasporto dei

lavoratori infortunati, soprattutto nei casi in cui i luoghi di lavoro siano distanti da centri

attrezzati o siano difficilmente accessibili, come nel caso dei cantieri temporanei o mobili in

zone impervie o in caso di lavori forestali o in isole minori;

le disposizioni per chiedere l’intervento degli enti esterni di soccorso e alle informazioni

circostanziate, che dovranno essere fornite loro, legate all’evento che ha motivato la

chiamata stessa;

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la disponibilità in azienda dei presidi e delle attrezzature di primo soccorso, quali ad

esempio le cassette di Primo soccorso, i pacchetti di medicazione, i defibrillatori

semiautomatici, ecc.;

la regolamentazione dei comportamenti da adottare o da evitare da parte di chiunque

all’interno dei luoghi di lavoro si trovi in presenza di un infortunio o di un malore.

15.1.5 - Organizzazione della prevenzione aziendale Componenti dell’organizzazione della prevenzione aziendale

Entriamo ora nel merito dei principali aspetti tecnici e delle figure professionali coinvolte

nell’organizzazione della prevenzione aziendale, analizzando:

la valutazione dei rischi;

il servizio di prevenzione e protezione (responsabile e addetti al servizio);

il medico competente e la sorveglianza sanitaria;

il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza;

la gestione delle emergenze;

i modelli di organizzazione e gestione della sicurezza.

La valutazione dei rischi

Per “valutazione dei rischi” s’intende la valutazione globale e documentata di tutti i rischi, per la

salute e sicurezza dei lavoratori, presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui essi prestano la

propria attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e protezione e a

elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute

e sicurezza.

Contenuto del documento di valutazione dei rischi

A seguito della valutazione dei rischi il datore di lavoro deve curare anche l’elaborazione del

conseguente documento scritto che viene appunto definito “Documento di valutazione dei rischi” o

DVR. contenente le fasi della valutazione, gli strumenti di analisi del rischio, i fattori di rischio

stress lavoro-correlato individuati e le relative misure di prevenzione e protezione previste.

Il Documento di valutazione dei rischi si suddivide in più parti, secondo quanto stabilito dall’art. 28

del D.Lgs. 81/2008:

una parte generale introduttiva che deve contenere una relazione nella quale siano specificati

i criteri adottati per effettuare la valutazione dei rischi;

i ruoli dell’organizzazione aziendale che devono garantire il miglioramento nel tempo dei

livelli di sicurezza, ai quali devono essere assegnati soggetti in possesso di adeguate

competenze e poteri;

una descrizione delle attività e dei luoghi di lavoro.

Quale supporto di metodo alla stesura del Documento di valutazione dei rischi si evidenzia l’aspetto

legato all’individuazione dei cosiddetti “gruppi omogenei”.

Per “gruppo omogeneo” si intende un insieme di lavoratori che svolgono il medesimo tipo di

attività, ad esempio:

il gruppo omogeneo degli addetti alle attività d’ufficio;

il gruppo omogeneo dei videoterminalisti;

il gruppo omogeneo dei conduttori di macchine operatrici;

o il gruppo omogeneo dei manutentori.

Più nel dettaglio:

per il gruppo omogeneo degli addetti alle attività d’ufficio abbiamo mansioni e compiti che

consistono nell’utilizzo di comuni attrezzature con alimentazione elettrica (fotocopiatrice,

stampante, lampade da tavolo, ecc.), il disbrigo di pratiche, l’archiviazione e la ricerca di

documenti;

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per il gruppo omogeneo dei manutentori le attività svolte possono consistere nell’uso di

utensili manuali (martello, pinze, piccone, spatole, ecc.), nel ripristino di opere murarie o di

pavimentazione, nell’utilizzo di scale portatili, trabattelli, ecc.

Per ognuna delle attività svolte dai gruppi omogenei di lavoratori devono essere valutati:

sia i “fattori di rischio” ovvero l’esposizione del lavoratore a determinati pericoli (ad

esempio l’utilizzo di agenti chimici pericolosi, il pericolo di proiezione di oggetti, il pericolo

derivante dalla movimentazione di carichi pesanti, dal contatto con organi in movimento,

ecc.);

che “l’evento dannoso” eventualmente derivante da quel fattore di rischio (elettrocuzione,

schiacciamento, urto, trauma, ecc.).

Effettuata in tal modo la determinazione e la valutazione del rischio, quando ad esempio la legge

stabilisce che debbano essere effettuate delle misurazioni (rumore, vibrazioni, polveri,

movimentazione dei carichi, qualità dell’aria, ecc.) per ognuno di questi pericoli dovranno essere

indicate e adottate concrete misure:

di “prevenzione”, che consistono in istruzioni di lavoro in sicurezza, o in procedure

specifiche o in comportamenti generali di precauzione;

e di “protezione” che consistono nei dispositivi di protezione individuale e collettivi.

Tutto ciò è importantissimo anche se non è sufficiente.

Infatti come stabilisce lo stesso art. 28, il contenuto del documento di valutazione dei rischi deve

altresì tenere conto delle indicazioni tecniche di sicurezza contenute nei vari Titoli del D.Lgs.

81/2008 e negli Allegati tecnici. In altre parole, il Documento di valutazione dei rischi, deve rendere

conto della conformità a tutti gli standard tecnici contenuti nel Testo Unico e riferiti a macchine,

impianti e attrezzature di lavoro, e a tutti gli ambienti di lavoro e alle postazioni di lavoro.

Infine il Documento di valutazione dei rischi deve contenere anche l’individuazione delle procedure

per l’attuazione concreta delle misure di prevenzione e protezione individuate, e l’indicazione dei

ruoli dell’organizzazione aziendale che vi devono provvedere (dirigenti, preposti, ecc.).

Il servizio di prevenzione e protezione

Ai sensi dell’art. 31 (Servizio di prevenzione e protezione) del D.Lgs. 81/2008, salvo quanto

previsto dall'art. 34 (Svolgimento diretto da parte del datore di lavoro dei compiti di prevenzione e

protezione dai rischi), il datore di lavoro "organizza il servizio di prevenzione e protezione

all'interno della azienda o della unità produttiva, o incarica persone o servizi esterni costituiti anche

presso le associazioni dei datori di lavoro o gli organismi paritetici".

L'art. 2, comma 1°, lett. l) del D.Lgs. 81/2008 definisce il «servizio di prevenzione e protezione dai

rischi» (SPP) come "l'insieme delle persone, sistemi e mezzi esterni o interni all'azienda finalizzati

all'attività di prevenzione e protezione dai rischi professionali per i lavoratori".

Nello specifico:

il “responsabile del servizio di prevenzione e protezione” (RSPP) viene definito come "la

persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all'art. 32 (Capacità e

requisiti professionali degli addetti e dei responsabili dei servizi di prevenzione e protezione

interni ed esterni) designata dal datore di lavoro, a cui risponde, per coordinare il servizio di

prevenzione e protezione dai rischi";

mentre l'«addetto al servizio di prevenzione e protezione» è definito come "la persona in

possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all'art. 32, facente parte del

servizio di prevenzione e protezione".

Nell'ipotesi di utilizzo di un servizio interno, il datore di lavoro può avvalersi di persone esterne

all'azienda in possesso delle conoscenze professionali necessarie, per integrare, ove occorra,

l'azione di prevenzione e protezione del servizio.

Il ricorso a persone o servizi esterni è obbligatorio in assenza di dipendenti che, all'interno

dell'azienda ovvero dell'unità produttiva, siano in possesso delle capacità e dei requisiti

professionali richiesti dalla normativa.

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Ove, comunque, il datore di lavoro ricorra a persone o servizi esterni non è per questo esonerato

dalla propria responsabilità in materia.

L'istituzione del servizio di prevenzione e protezione all'interno dell'azienda, ovvero dell'unità

produttiva, è comunque obbligatoria nei seguenti casi:

a) nelle aziende industriali con pericolo di incidenti rilevanti;

b) nelle centrali termoelettriche;

c) negli impianti e installazioni nucleari;

d) nelle aziende per la fabbricazione e il deposito separato di esplosivi, polveri e munizioni;

e) nelle aziende industriali con oltre 200 lavoratori;

f) nelle industrie estrattive con oltre 50 lavoratori;

g) nelle strutture di ricovero e cura pubbliche e private con oltre 50 lavoratori.

In tutti i casi in cui il servizio di prevenzione e protezione è obbligatoriamente interno, anche il

responsabile del servizio di prevenzione e protezione deve essere interno.

Nell’eventualità di aziende con più unità produttive nonché nei casi di gruppi di imprese, può essere

istituito un unico Servizio di Prevenzione e Protezione.

Ai sensi dell'art. 32, le capacità e i requisiti professionali dei responsabili e degli addetti ai servizi di

prevenzione e protezione, interni o esterni, devono essere "adeguati alla natura dei rischi presenti

sul luogo di lavoro e relativi alle attività lavorative".

Il medico competente

Il medico competente è un medico che collabora con il datore di lavoro ai fini della valutazione dei

rischi ed è nominato dallo stesso per effettuare la sorveglianza sanitaria e per svolgere tutti gli altri

compiti a lui attribuiti dal D.Lgs. 81/2008 così come modificato dal D.Lgs. 106/2009.

Per svolgere la funzione di medico competente il legislatore nell'art. 38 (Titoli e requisiti del

medico competente) ha previsto la necessità del possesso dei seguenti specifici titoli o requisiti:

• la specializzazione in medicina del lavoro o in medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica o

la docenza in queste discipline o in tossicologia industriale o in igiene industriale o in fisiologia e

igiene del lavoro o in clinica del lavoro;

l'autorizzazione di cui all'art. 55 del D.Lgs. 277/1991 (Esercizio dell’attività di medico

competente);

la specializzazione in igiene e medicina preventiva o in medicina legale.

Con esclusivo riferimento alle Forze armate compresa l'Arma dei Carabinieri e della Polizia di Stato

e della Guardia di Finanza, il requisito che il medico competente deve possedere riguarda il fatto

che debba aver svolto l'attività di medico nel settore del lavoro per almeno quattro anni.

Il medico competente può essere sia un dipendente del datore di lavoro, sia un libero professionista

sia un dipendente o un collaboratore di una struttura, pubblica o privata, convenzionata con

l'imprenditore.

È inibita la possibilità di svolgere l'attività di medico competente al dipendente di una struttura

pubblica assegnato agli uffici che svolgono attività di vigilanza.

Una novità introdotta dal legislatore del 2008 riguarda la facoltà del datore di lavoro, nelle ipotesi di

aziende con più unità produttive o i casi di gruppi di imprese, di nominare più medici competenti

individuando tra essi un medico con funzioni di coordinamento. Stessa facoltà è prevista nel caso in

cui la valutazione dei rischi ne evidenzi la necessità.

Le funzioni svolte dal medico competente si possono sostanzialmente dividere in due tipologie:

una relativa alla sorveglianza sanitaria in senso stretto, disciplinata dall'art. 41 del D.Lgs.

81/2008;

e l'altra relativa agli obblighi di carattere generale, quali ad esempio la visita nei luoghi di

lavoro almeno una volta l'anno, che ruotano intorno alla collaborazione con il datore di

lavoro nelle sue attività di prevenzione e protezione e nella elaborazione e fornitura di

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documentazione sanitaria e di informazioni relative alla sorveglianza sanitaria (rif. art. 25

del D.Lgs. 81/2008 - Obblighi del medico competente).

La sorveglianza sanitaria

In particolare per quanto riguarda la sorveglianza sanitaria l’art. 41 del D.Lgs. 81/2008 disciplina

espressamente i casi in cui deve essere effettuata, nonché i contenuti delle visite mediche, e le

fattispecie in cui è vietata.

Nello specifico, la sorveglianza sanitaria deve essere attuata dal medico competente:

nei casi previsti dalla normativa vigente e dalle indicazioni fornite dalla Commissione

consultiva permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro;

qualora il lavoratore ne faccia richiesta e la stessa sia ritenuta dal medico competente

correlata ai rischi lavorativi.

La sorveglianza sanitaria comprende:

una visita medica preventiva intesa a constatare l'assenza di controindicazioni al lavoro cui il

lavoratore è destinato al fine di valutare la sua idoneità alla mansione specifica;

la visita medica periodica per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il

giudizio di idoneità alla mansione specifica;

la visita medica su richiesta del lavoratore, qualora sia ritenuta dal medico competente

correlata ai rischi professionali o alle sue condizioni di salute, suscettibili di peggioramento

a causa dell'attività lavorativa svolta, al fine di esprimere il giudizio di idoneità alla

mansione specifica;

una visita medica in occasione del cambio della mansione onde verificare l'idoneità alla

mansione specifica;

la visita medica alla cessazione del rapporto di lavoro nei casi previsti dalla normativa

vigente;

una visita medica preventiva in fase preassuntiva;

la visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute

di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare l'idoneità alla

mansione.

Le visite mediche preventive possono essere svolte in fase preassuntiva, su scelta del datore di

lavoro, dal medico competente o dai dipartimenti di prevenzione delle ASL. La scelta dei

dipartimenti di prevenzione non è incompatibile con le disposizioni dell'art. 39 comma 3° relative al

divieto previsto per il dipendente di una struttura pubblica, assegnato agli uffici che svolgono

attività di vigilanza, di prestare attività di medico competente.

Passando ai divieti, ai sensi dell'art. 41, comma 3°, le visite del medico competente non possono

essere effettuate né per accertare stati di gravidanza né negli altri casi previsti dalla normativa

vigente (ad esempio, per accertare lo stato di tossicodipendenza, tranne che nelle ipotesi ammesse

dal D.P.R. 309/1990 - "Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze

psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza").

Sulla base delle risultanze delle visite mediche oggetto della sorveglianza sanitaria, il medico

competente deve esprimere dei giudizi relativi alla mansione specifica; precisando che possono

essere di:

idoneità;

idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni;

inidoneità temporanea;

inidoneità permanente.

Di tali giudizi il medico competente deve informare per iscritto il datore di lavoro e il lavoratore;

nel caso di espressione del giudizio di inidoneità temporanea, occorre precisarne i limiti temporali

di validità.

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Il ricorso avverso i giudizi del medico competente, ivi compresi quelli formulati in fase

preassuntiva, può essere effettuato sia nelle ipotesi di giudizi di inidoneità, sia di idoneità; ciò

rappresenta una novità introdotta dal D.Lgs. 81/2008 rispetto al passato.

Viene, infine, stabilito il dovere da parte del datore di lavoro di tentare il recupero dei lavoratori

inidonei, adibendoli, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori

garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza.

Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza – RLS

L'introduzione della figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS) ha costituito

indubbiamente, uno degli aspetti più qualificanti del nuovo modello di prevenzione delineato dal

D.Lgs. 626/94 e successive modifiche e integrazioni.

Il rappresentante per la sicurezza si propone, infatti, come figura di raccordo tra tutte le altre figure

(lavoratore, datore di lavoro, medico competente, responsabile del servizio di prevenzione e

protezione) chiamate a realizzare il progetto del miglioramento della sicurezza e della salute sul

luogo di lavoro.

Con riferimento all'attuale regolamentazione di tale figura, l'art. 47 del D.Lgs. 81/2008

(Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza) statuisce che in tutte le aziende, o unità produttive, è

eletto e designato il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e tale figura è istituita a livello

territoriale o di comparto, aziendale e di sito produttivo. Circa le modalità di elezione/designazione

degli RLS, il citato art. 47 stabilisce che nelle aziende o unità produttive che occupano fino a 15

"lavoratori" (e non più "dipendenti" come nel D.Lgs. 626/1994) il rappresentante dei lavoratori per

la sicurezza sia "di norma" eletto direttamente dai lavoratori al loro interno, oppure sia individuato

per più aziende nell'ambito territoriale o del comparto produttivo secondo quanto previsto dall'art.

48 riferito al Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale.

Per quanto riguarda le aziende o unità produttive con più di 15 lavoratori l’RLS è eletto o designato

dai lavoratori nell'ambito delle rappresentanze sindacali in azienda; in assenza di queste ultime, il

rappresentante è eletto dai lavoratori dell’azienda al loro interno.

Quanto al numero legale minimo di RLS l'art. 47, comma 7°, stabilisce la presenza di:

un rappresentante nelle aziende ovvero unità produttive sino a 200 lavoratori;

tre rappresentanti nelle aziende ovvero unità produttive da 201 a 1.000 lavoratori;

sei rappresentanti in tutte le altre aziende o unità produttive oltre i 1.000 lavoratori.

Per quanto concerne il suo ruolo e le sue attribuzioni, ai sensi dell’art. 50, il rappresentante dei

lavoratori per la sicurezza:

a) accede ai luoghi di lavoro in cui si svolgono le lavorazioni;

b) è consultato preventivamente e tempestivamente in ordine alla valutazione dei rischi, alla

individuazione, programmazione, realizzazione e verifica della prevenzione nell'azienda o

unità produttiva;

c) è consultato sulla designazione del responsabile e degli addetti al servizio di prevenzione,

all'attività di prevenzione incendi, al primo soccorso, alla evacuazione dei luoghi di lavoro e

del medico competente;

d) è consultato in merito all'organizzazione della formazione prevista all'art. 37;

e) riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente alla valutazione dei rischi e le

misure di prevenzione relative, nonché quelle inerenti alle sostanze ed ai preparati

pericolosi, alle macchine, agli impianti, alla organizzazione e agli ambienti di lavoro, agli

infortuni ed alle malattie professionali;

f) riceve le informazioni provenienti dai servizi di vigilanza;

g) riceve una formazione adeguata e, comunque, non inferiore a quella prevista dall'articolo 37;

h) promuove l'elaborazione, l'individuazione e l'attuazione delle misure di prevenzione idonee

a tutelare la salute e l'integrità fisica dei lavoratori;

i) formula osservazioni in occasione di visite e verifiche effettuate dalle autorità competenti,

dalle quali è, di norma, sentito;

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j) partecipa alla riunione periodica prevista dall'art. 35;

k) fa proposte in merito alla attività di prevenzione;

l) avverte il responsabile dell'azienda dei rischi individuati nel corso della sua attività;

m) può fare ricorso alle autorità competenti qualora ritenga che le misure di prevenzione e

protezione dai rischi adottate dal datore di lavoro o dai dirigenti e i mezzi impiegati per

attuarle non siano idonei a garantire la sicurezza e la salute durante il lavoro.

Da tale dettato legislativo emerge che il D.Lgs. 81/2008 ha ampliato rispetto alla precedente

normativa i poteri dell’RLS.

Tra le nuove attribuzioni previste dall'art. 50 si segnala l'introduzione dell'obbligo di consultare

l’RLS anche sulla designazione del medico competente, nonché in merito all'organizzazione della

formazione.

Inoltre, viene esteso il suo diritto di ricorrere alle autorità competenti qualora ritenga che le misure

di prevenzione e protezione dai rischi e i mezzi impiegati per attuarle non siano idonei a garantire la

sicurezza e la salute durante il lavoro anche quando le predette misure siano adottate dai dirigenti e

non solo dal datore di lavoro.

Si prevede che possa disporre non solo, come prima, del tempo necessario allo svolgimento

dell'incarico senza perdita di retribuzione, e dei mezzi necessari per l'esercizio delle funzioni e delle

facoltà riconosciutegli, ma anche degli spazi e dell'accesso ai dati contenuti in applicazioni

informatiche.

Infine, cosa più importante, in caso di appalto, gli RLS rispettivamente del datore di lavoro

committente e delle imprese appaltatrici, su richiesta e per l'espletamento della loro funzione,

ricevono copia del DUVRI (Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenze).

L’RLS è tenuto al rispetto del segreto industriale relativamente alle informazioni contenute nel

Documento di Valutazione dei Rischi e nel Documento Unico di Valutazione dei Rischi da

Interferenze, nonché al segreto in ordine ai processi lavorativi di cui venga a conoscenza

nell'esercizio delle funzioni.

Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale e di sito produttivo

Il D.Lgs. 81/2008 oltre a potenziare e regolamentare meglio il ruolo della figura del Rappresentante

dei lavoratori per la sicurezza (RLS), ha rafforzato anche il ruolo della figura del Rappresentante dei

lavoratori per la sicurezza territoriale (RLST) e ha per la prima volta disciplinato legislativamente la

"nuova" figura del Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di sito produttivo (RLSS).

Il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale esercita le competenze del

rappresentante dei lavoratori per la sicurezza con riferimento a tutte le aziende o unità produttive

del territorio o del comparto produttivo di competenza nelle quali non sia stato eletto o designato il

Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.

L’RLST, nell'esercizio delle proprie attribuzioni, accede ai luoghi di lavoro nel rispetto delle

modalità e del termine di preavviso individuati dagli accordi collettivi. Il termine di preavviso non

opera tuttavia in caso di infortunio grave e in questa evenienza l'accesso avviene previa

segnalazione all’organismo paritetico.

Quanto, infine, al Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di sito produttivo, la sua

elezione/designazione è prevista esclusivamente in specifici contesti produttivi caratterizzati dalla

compresenza di più aziende o cantieri, quali porti, impianti siderurgici, cantieri con almeno 30.000

uomini giorno, ecc.

Il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di sito produttivo è individuato, d’iniziativa tra i

rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza delle aziende operanti nel medesimo sito.

Il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di sito produttivo, dunque, è da considerarsi come

una figura integrativa e non sostitutiva degli RLS aziendali.

A conclusione si precisa che, recependo un orientamento giurisprudenziale consolidato, il D.Lgs.

81/2008 ha espressamente statuito che l'esercizio delle funzioni di RLS sia incompatibile con la

nomina di responsabile o addetto al servizio di prevenzione e protezione.

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La gestione delle emergenze

L’emergenza è una situazione imprevedibile e non programmata in grado di arrecare danni alla

salute e alla sicurezza dei lavoratori.

Può trattarsi di un incendio, un allagamento, un terremoto, un infortunio o un malore; circostanze

tutte per le quali l’imprevedibilità costituisce la maggior ragione del pericolo.

In relazione a tali possibili evenienze, la normativa nell’art. 43 detta le disposizioni generali per la

gestione delle emergenze, in relazione alle quali, il datore di lavoro nel rispetto dei propri obblighi:

Organizza i necessari rapporti con i servizi pubblici competenti in materia di primo

soccorso, salvataggio, lotta antincendio e gestione dell’emergenza.

Designa preventivamente i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione

incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave ed

immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione dell’emergenza. Per

la designazione dei componenti delle squadre di emergenza, il datore di lavoro tiene conto

sia delle dimensioni dell’azienda che dei rischi specifici dell’attività. I lavoratori designati

non possono, se non per giustificato motivo, rifiutare l’incarico. Essi debbono essere

formati, essere in numero sufficiente e disporre di attrezzature adeguate, tenendo conto delle

dimensioni e dei rischi specifici dell’azienda. Con riguardo al personale della Difesa, la

formazione specifica svolta presso gli istituti o le scuole della stessa Amministrazione è

abilitativa alla funzione di addetto alla gestione delle emergenze.

Informa tutti i lavoratori che possono essere esposti a un pericolo grave ed immediato circa

le misure predisposte e i comportamenti da adottare.

Programma gli interventi, prende i provvedimenti e dà istruzioni affinché i lavoratori, in

caso di pericolo grave ed immediato che non può essere evitato, possano cessare la loro

attività, o mettersi al sicuro, abbandonando immediatamente il luogo di lavoro.

Prende i provvedimenti necessari affinché qualsiasi lavoratore, in caso di pericolo grave ed

immediato per la propria sicurezza o per quella di altre persone e nell’impossibilità di

contattare il competente superiore gerarchico, possa prendere le misure adeguate per evitare

le conseguenze di tale pericolo, tenendo conto delle sue conoscenze e dei mezzi tecnici

disponibili.

Per quanto riguarda la gestione delle emergenze legate a situazioni di incendio, il datore di

lavoro garantisce la presenza di mezzi di estinzione, fissi, manuali o automatici, individuati

in relazione alla valutazione dei rischi, e idonei alla classe di incendio e al livello di rischio

presenti sul luogo di lavoro, tenendo conto delle particolari condizioni in cui possono essere

usati.

Per quanto riguarda, invece, le emergenze legate a situazioni di primo soccorso, garantisce

la presenza dei presidi sanitari e delle attrezzature specifiche.

I modelli di organizzazione e gestione della sicurezza

Come detto in precedenza, con il D.Lgs. 81/2008 il legislatore ha completato il quadro degli

obblighi giuridici in materia di salute e sicurezza durante il lavoro aggiungendo agli obblighi di

natura tecnica di prevenzione e protezione (dispositivi tecnologici di prevenzione, D.P.I., ecc) e agli

obblighi di natura comportamentale (procedure, istruzioni di lavoro in sicurezza, informazione,

formazione e addestramento, ecc.) anche obblighi di tipo organizzativo.

A conferma di ciò, con l’art. 28, comma 2°, lett. d) relativo ai contenuti del documento di

valutazione dei rischi, è stato stabilito a carico del Datore di lavoro, l’obbligo, sanzionato

penalmente, di “individuare delle procedure per l’attuazione delle misure tecniche e

comportamentali da realizzare, nonché dei ruoli dell’organizzazione aziendale che vi debbono

provvedere, a cui debbono essere assegnati unicamente soggetti in possesso di adeguate competenze

e poteri”.

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Quest’ultimo obbligo, rappresenta una delle più importanti novità legislative introdotte dal Testo

Unico del 2008. Infatti, laddove un documento di valutazione dei rischi, anche perfetto da un punto

di vista prettamente tecnico, non fosse operativamente integrato nella realtà lavorativa e dovesse

rimanere chiuso in un cassetto alla stregua di un mero documento burocratico non si

raggiungerebbero gli obiettivi voluti di attività e di ambienti di lavoro sicuri.

Ed è proprio per raggiungere questo obiettivo di concretezza che il datore di lavoro può porre in

essere un modello di organizzazione e di gestione della sicurezza, quale quello definito nell’art. 30.

In particolare, tale modello deve:

assicurare un sistema aziendale per l’adempimento degli obblighi di legge in materia di

salute e sicurezza sul lavoro, attinente:

a) al rispetto degli standard tecnico-strutturali di legge riferiti ad attrezzature, impianti,

luoghi di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici;

b) alle attività di valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione e

protezione conseguenti;

c) alle attività di natura organizzativa, quali emergenze, primo soccorso, gestione degli

appalti, riunioni periodiche di sicurezza, consultazioni dei rappresentanti dei lavoratori per la

sicurezza;

d) alle attività di sorveglianza sanitaria;

e) alle attività di informazione e formazione dei lavoratori;

f) alle attività di vigilanza con riferimento al rispetto delle procedure e delle istruzioni di

lavoro in sicurezza da parte dei lavoratori;

g) all’acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie di legge;

h) alle periodiche verifiche dell'applicazione e dell'efficacia delle procedure adottate.

prevedere idonee modalità di registrazione dell'avvenuta effettuazione delle attività appena

menzionate;

prevedere una articolazione di funzioni tale da far sì che la verifica, la valutazione, la

gestione e il controllo del rischio siano assicurate unicamente da soggetti in possesso di

adeguate competenze tecniche e poteri;

prevedere un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure

indicate nel modello organizzativo e gestionale;

prevedere un idoneo sistema di vigilanza sulla attuazione dello stesso modello organizzativo

e gestionale e sul mantenimento nel tempo dei relativi requisiti. Il riesame e l'eventuale

modifica del modello organizzativo e di gestione devono essere adottati, quando siano

scoperte violazioni significative delle norme riguardanti la prevenzione degli infortuni e

l'igiene del lavoro, ovvero in occasione di mutamenti nell'organizzazione e nell'attività, in

relazione al progresso scientifico e tecnologico.

Il modello di organizzazione e gestione sopra descritto, se adottato ed efficacemente attuato,

permette al datore di lavoro di dimostrare l'assolvimento dei suoi obblighi di vigilanza previsti

dall'art. 16 comma 3° del D.Lgs. 81/2008 e successive modifiche e integrazioni. Inoltre questo

stesso modello permette anche di salvaguardare le aziende dalle sanzioni pecuniarie e interdittive

dovute alla responsabilità amministrativa che si configura a carico delle aziende in caso di omicidio

colposo o lesioni personali colpose, gravi o gravissime, commessi da un datore di lavoro, un

dirigente o un preposto, ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001 che disciplina la responsabilità

amministrativa delle persone giuridiche.

15.1.6 - Diritti, doveri e sanzioni per i vari soggetti aziendali

Premessa

Il D.Lgs. 81/2008 ha mantenuto, rispetto alla normativa previgente, il tradizionale riferimento alle

posizioni di garanzia dei datori di lavoro, dei dirigenti e dei preposti, quali principali destinatari

degli obblighi giuridici di tutela dei lavoratori, in quanto soggetti detentori, a diverso titolo, dei

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poteri direttivi necessari ad impartire disposizioni in ordine alla esecuzione e alla disciplina del

lavoro e, quindi, sovra-ordinati gerarchicamente ai lavoratori.

Secondo un’ormai consolidata definizione dottrinale, il datore di lavoro, il dirigente e il preposto

rappresentano il cosiddetto “personale di linea”, ossia i soggetti incaricati, ciascuno secondo le

diverse attribuzioni e competenze, di prendere le decisioni o di adottare le scelte operative in

materia di gestione e organizzazione dell’azienda.

Accanto ad essi si colloca il cosiddetto “personale di staff” che invece svolge un’attività di mera

consulenza o di supporto alla linea, nell’ambito delle rispettive specializzazioni, come ad esempio

nel caso del responsabile del servizio di prevenzione e protezione e del medico competente.

Questi ultimi sono anch’essi destinatari di obblighi giuridici di tutela anche se non rilevanti sotto il

profilo contravvenzionale, ma tali obblighi, però, non derivano da una loro posizione gerarchica

all’interno dell’azienda, bensì dall’essere portatori di diverse situazioni, prevalentemente di tipo

professionale.

In relazione a quanto premesso, analizziamo quali sono i vari soggetti aziendali e quali le loro

attribuzioni,

distinguendoli, tra coloro che sono i “destinatari degli obblighi normativi” e coloro che, al contrario,

sono i “beneficiari della normativa antinfortunistica”.

I soggetti destinatari degli obblighi normativi

Il datore di lavoro

Il datore di lavoro è il principale destinatario delle norme prevenzionistiche.

Nel settore privato, a prescindere dalla struttura aziendale o societaria, il datore di lavoro è “il

soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore” o, comunque, “il soggetto che, secondo il

tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la

responsabilità dell’organizzazione stessa e dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri

decisionali e di spesa”.

Nella pubblica amministrazione, invece, per datore di lavoro si intende “il dirigente al quale

spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in

cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall’organo di

vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli

uffici nei quali viene svolta l’attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa”.

In caso di omessa individuazione o di individuazione non conforme ai criteri appena enunciati, il

datore di lavoro coincide con l’organo di vertice medesimo.

Per quanto concerne l’individuazione in concreto della figura del datore di lavoro nelle aziende, il

legislatore ha fatto ricorso alla tecnica legislativa cosiddetta “definitoria” consistente nella

esplicitazione delle caratteristiche funzionali a cui devono corrispondere determinati soggetti in

quanto destinatari di obblighi giuridici.

In tale modo l’individuazione del datore di lavoro, così come dei dirigenti, non viene lasciata al

libero arbitrio ma deve essere effettuata rispettando alla lettera quanto stabilito nella definizione

medesima.

I dirigenti

I dirigenti, sono destinatari “iure proprio” degli stessi obblighi del datore di lavoro, con esclusione

dei due obblighi relativi al DVR - Documento di Valutazione dei Rischi - e alla nomina del

Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione.

Infatti, anche questi ultimi, alla stregua della definizione per loro coniata dalla norma, devono

essere individuati nell’ambito della prima linea dei collaboratori sottordinati al datore di lavoro e

sovraordinati rispetto a tutti gli altri lavoratori, ciascuno secondo le attribuzioni e competenze anche

settoriali.

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Il dirigente è “la persona che, in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e

funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro

organizzando l’attività lavorativa e vigilando su di essa”.

In altri termini, il dirigente può essere definito come “il soggetto preposto ad un intero settore di

attività, con autonomia e discrezionalità decisionale”. Tale “autonomia” e “discrezionalità” sono,

però, per lo più riferite ad uno specifico settore dell’attività dell’impresa o dell’ente.

Obblighi del datore di lavoro e dei dirigenti

Il datore di lavoro ha due obblighi che non può delegare ai suoi dirigenti e precisamente quelli

relativi alla valutazione dei rischi e alla conseguente elaborazione del Documento di Valutazione

dei Rischi nonché la designazione del Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione dai

rischi.

Tutti gli altri obblighi, al contrario, gravano su entrambe le figure e, in altri termini possono essere

oggetto di delega precisa da parte del datore di lavoro ai dirigenti.

Gli obblighi, ai sensi dell'art. 18 del D.Lgs. 81/2008, dei datori di lavoro e dei dirigenti sono i

seguenti:

a) nominare il medico competente per l'effettuazione della sorveglianza sanitaria nei casi

previsti dal presente decreto legislativo;

b) designare preventivamente i lavoratori incaricati dell'attuazione delle misure di prevenzione

incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave e

immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione dell'emergenza;

c) nell'affidare i compiti ai lavoratori, tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi

in rapporto alla loro salute e alla sicurezza;

d) fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, sentito il

responsabile del servizio di prevenzione e protezione e il medico competente, ove presente;

e) prendere le misure appropriate affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate

istruzioni e specifico addestramento accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave

e specifico;

f) richiedere l'osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle

disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e di uso dei mezzi di

protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione;

g) inviare i lavoratori alla visita medica entro le scadenze previste dal programma di

sorveglianza sanitaria e richiedere al medico competente l'osservanza degli obblighi previsti

a suo carico nel presente decreto;

h) nei casi di sorveglianza sanitaria di cui all'art. 41, comunicare tempestivamente al medico

competente la cessazione del rapporto di lavoro;

i) adottare le misure per il controllo delle situazioni di rischio in caso di emergenza e dare

istruzioni affinché i lavoratori, in caso di pericolo grave, immediato ed inevitabile,

abbandonino il posto di lavoro o la zona pericolosa;

j) informare il più presto possibile i lavoratori esposti al rischio di un pericolo grave e

immediato circa il rischio stesso e le disposizioni prese o da prendere in materia di

protezione;

k) adempiere agli obblighi di informazione, formazione e addestramento di cui agli artt. 36 e

37;

l) astenersi, salvo eccezione debitamente motivata da esigenze di tutela della salute e

sicurezza, dal richiedere ai lavoratori di riprendere la loro attività in una situazione di lavoro

in cui persiste un pericolo grave e immediato;

m) consentire ai lavoratori di verifìcare, mediante il rappresentante dei lavoratori per la

sicurezza, l'applicazione delle misure di sicurezza e di protezione della salute;

n) consegnare tempestivamente al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, su richiesta di

questi e per l'espletamento della sua funzione, copia del documento di valutazione dei rischi,

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anche su supporto informatico nonché consentire al medesimo rappresentante di accedere ai

dati e alle informazioni relativi agli infortuni sul lavoro. Il documento è consultato

esclusivamente in azienda;

o) elaborare il documento unico di valutazione dei rischi da interferenze (DUVRI), anche su

supporto informatico e, su richiesta dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, per

l'espletamento della loro funzione, consegnargliene tempestivamente una copia. Il

documento è consultato esclusivamente in azienda;

p) prendere appropriati provvedimenti per evitare che le misure tecniche adottate possano

causare rischi per la salute della popolazione o deteriorare l'ambiente esterno verificando

periodicamente la perdurante assenza di rischio;

q) comunicare in via telematica all'INAIL, nonché per il suo tramite, al sistema informatico

nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro di cui all’art. 8, entro 48 ore dalla ricezione

del certificato medico, a fini statistici e informativi, i dati e le informazioni relativi agli

infortuni sul lavoro che comportino l'assenza dal lavoro di almeno un giorno, escluso quello

dell'evento e a fini assicurativi, quelli relativi agli infortuni sul lavoro che comportino

un'assenza dal lavoro superiore a tre giorni; l'obbligo di comunicazione degli infortuni sul

lavoro che comportino un'assenza dal lavoro superiore a tre giorni si considera comunque

assolto per mezzo della denuncia di cui all'art. 53 del testo unico delle disposizioni per

l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, di cui

al D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124;

r) consultare il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza nelle ipotesi di cui all'art. 50;

s) adottare le misure necessaire ai fini della prevenzione incendi e dell'evacuazione dei luoghi

di lavoro, nonché per il caso di pericolo grave e immediato, secondo le disposizioni di cui

all'art. 43. Tali misure devono essere adeguate alla natura dell'attività, alle dimensioni

dell'azienda o dell'unità produttiva, e al numero delle persone presenti;

t) nell'ambito dello svolgimento di attività in regime di appalto e di subappalto, munire i

lavoratori di apposita tessera di riconoscimento, corredata di fotografia, contenente le

generalità del lavoratore e l'indicazione del datore di lavoro;

u) nelle unità produttive con più di 15 lavoratori, convocare la riunione periodica;

v) aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che

hanno rilevanza ai fini della salute e sicurezza del lavoro, o in relazione al grado di

evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione;

w) comunicare in via telematica all'INAIL, nonché per il suo tramite, al sistema informativo

nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro, in caso di nuova elezione o designazione,

i nominativi dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza; in fase di prima applicazione

l'obbligo di cui alla presente lettera riguarda i nominativi dei rappresentanti dei lavoratori i

già eletti o designati;

x) vigilare affinché i lavoratori per i quali vige l'obbligo di sorveglianza sanitaria non siano

adibiti alla mansione lavorativa specifica senza il prescritto giudizio di idoneità.

La delega di funzioni

I limiti della delega

Il D.Lgs. 81/2008 stabilisce che il datore di lavoro non può delegare gli obblighi riguardanti la

valutazione dei rischi e la conseguente elaborazione del relativo documento, nonché la designazione

del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione dai rischi.

L'indelegabilità dei due obblighi suddetti, ovviamente, non comporta che il datore di lavoro debba

adempiervi personalmente, infatti, una norma che pretendesse ciò stravolgerebbe completamente la

libertà d'impresa e, comunque, dovrebbe contemporaneamente imporre al datore di lavoro obblighi

di natura formale finalizzati all'acquisizione di capacità tecniche specifiche inerenti quegli obblighi.

Pertanto, la conseguenza del suddetto divieto di delega si traduce nella mera imposizione al datore

di lavoro di adempiere ai due obblighi non per il tramite di una delega di funzioni, bensì per il

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tramite del potere direttivo ovverosia, con sue personali disposizioni impartite a suoi collaboratori

tecnici o a consulenti esterni specializzati.

Ciò vale, principalmente, con riferimento alla valutazione dei rischi.

Ovviamente rimane in capo al datore di lavoro l'obbligo di vigilare che il tecnico o i tecnici

incaricati abbiano effettivamente attuato l'adempimento in maniera completa e secondo i criteri

formali stabiliti dalla legge (obbligo di vigilanza).

Rimane a carico dei tecnici incaricati, come è giuridicamente logico che sia, la responsabilità della

correttezza e qualità professionale del lavoro da essi svolto in adempimento degli obblighi.

Laddove il datore di lavoro avesse potuto delegare gli obblighi suddetti, le disposizioni e la

vigilanza sui tecnici sarebbe stata effettuata ovviamente dal dirigente delegato mentre al datore di

lavoro sarebbe rimasta la sola vigilanza sull'adempimento da parte del dirigente delegato.

I requisiti della delega

La delega di funzioni da parte del datore di lavoro è ammessa per tutti gli altri obblighi, nel rispetto

delle seguenti condizioni:

che essa risulti da atto scritto recante data certa;

che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla natura

delle funzioni delegate;

che essa attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo, nonché

l'autonomia di spesa necessaria;

che la delega sia accettata dal delegato per iscritto.

La vigilanza sul delegato

Con riferimento alla delega di funzioni, va messo in evidenza che il D.Lgs. 81/2008 ha il merito di

aver, per la prima volta, introdotto tale istituto nel nostro ordinamento, recependo gli orientamenti

dottrinali e giurisprudenziali ormai consolidati in materia.

Inoltre, il D.Lgs. 106/2009 ha stabilito che il soggetto delegato può, a sua volta, previa intesa con il

datore di lavoro, delegare specifiche funzioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro alle

medesime condizioni presenti nella prima delega.

Il soggetto al quale sia stata conferita tale delega non può però a sua volta, delegare le funzioni a lui

delegate. Dunque, nel regolamentare questo nuovo istituto della “sub-delega”, il legislatore ha

previsto un irrazionale limite al suo effettivo utilizzo.

La ratio di tale scelta legislativa è quella di evitare che si verifìchi il fenomeno delle cosiddette

"deleghe a cascata".

I preposti

Il preposto è la “persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri

gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, sovrintende alla attività

lavorativa e garantisce l’attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da

parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa” (art. 2, comma 1°, lett. e) del

D.Lgs. 81/2008).

In concreto i preposti sono quei soggetti a cui vengono affidati compiti di sorveglianza e di

controllo sul comportamento dei lavoratori, come i capi-squadra, i capi-reparto, i capi-cantiere, ecc.

Tra i compiti più importanti del preposto ci sono quelli di “sovrintendere e vigilare sull’osservanza

da parte dei singoli lavoratori dei loro obblighi di legge”.

Al riguardo si precisa che con il termine «sovrintendere», secondo la definizione consolidata in

giurisprudenza e dottrina, si intende lo «svolgimento di un'attività rivolta alla vigilanza sul lavoro

dei dipendenti, per garantire che esso si svolga nelle regole di sicurezza».

Si dice, infatti, che i preposti siano l'«occhio» del datore di lavoro sul posto di lavoro.

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Il compito del preposto non è, tuttavia, quello di sorvegliare «a vista» e «ininterrottamente da

vicino» il lavoratore, bensì quello di assicurarsi personalmente che questi esegua le disposizioni di

sicurezza impartite e utilizzi gli strumenti di protezione prescritti.

Le modalità con le quali il preposto esercita la propria funzione di vigilanza sono state già trattate

precedentemente nella parte dedicata alle misure di prevenzione, essendo la vigilanza, per

l’appunto, una misura che consente di prevenire le conseguenze di comportamenti non appropriati

e, quindi, non sicuri da parte dei lavoratori durante lo svolgimento della propria mansione.

Gli altri obblighi del preposto espressamente previsti dall’art. 19 del D.Lgs. 81/2008, sono:

verificare affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni accedano alle

zone che li espongono ad un rischio grave e specifico;

richiedere l'osservanza delle misure per il controllo delle situazioni di rischio in caso di

emergenza e dare istruzioni affinché i lavoratori, in caso di pericolo grave, immediato ed

inevitabile, abbandonino il posto di lavoro o la zona pericolosa;

informare il più presto possibile i lavoratori esposti al rischio di un pericolo grave e

immediato circa il rischio stesso e le disposizioni prese o da prendere in materia di

protezione;

astenersi, salvo eccezioni debitamente motivate, dal richiedere ai lavoratori di riprendere la

loro attività in una situazione di lavoro in cui persiste un pericolo grave e immediato;

frequentare appositi corsi di formazione, secondo quanto previsto dall'art. 37 del D.Lgs.

81/2008.

Il D.Lgs. 81/2008 ha ridotto drasticamente le fattispecie contravvenzionali poste a carico dei

preposti, rendendole direttamente proporzionali a quelle che sono le loro effettive competenze e

correlate responsabilità.

I lavoratori

Le norme di prevenzione rivolte a garantire ai lavoratori il “diritto alla sicurezza” impongono anche

a loro stessi precisi obblighi per quanto attiene alla tutela dell’integrità fisica e della salute.

In relazione anche a tale aspetto, l’art. 20 del D.Lgs. n. 81/2008 (Art. 20 - Obblighi dei lavoratori)

prevede espressamente che “ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di

quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o

omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di

lavoro”.

I lavoratori devono in particolare:

contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento degli

obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro;

osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai

preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale;

utilizzare correttamente le attrezzature di lavoro, le sostanze e i preparati pericolosi, i mezzi

di trasporto, nonché i dispositivi di sicurezza;

utilizzare in modo appropriato i dispositivi di protezione messi a loro disposizione;

segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienze dei

mezzi e dei dispositivi di sicurezza, nonché qualsiasi eventuale condizione di pericolo di cui

vengano a conoscenza, adoperandosi direttamente in caso di urgenza nell’ambito delle

proprie competenze e possibilità per eliminare o ridurre le situazioni di pericolo grave e

incombente;

non rimuovere o modificare senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza o di segnalazione

o di controllo;

non compiere di propria iniziativa operazioni o manovre che non sono di loro competenza

ovvero che possono compromettere la sicurezza propria o di altri lavoratori;

partecipare ai programmi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro;

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sottoporsi ai controlli sanitari previsti dalla normativa vigente o comunque disposti dal

medico competente.

I committenti

Sui committenti gravano obblighi giuridici relativi alla tutela dei lavoratori di appalti, o di lavoratori

autonomi, i quali compiano opere o servizi all'interno dell'azienda del medesimo committente,

nonché nell'ambito dell'intero ciclo produttivo dell'azienda medesima, sempre che abbia la

disponibilità giuridica dei luoghi in cui si svolge l'appalto o la prestazione di lavoro autonomo.

Il primo obbligo consiste nella verifica dell'idoneità tecnico-professionale delle imprese appaltatrici

e dei lavoratori autonomi, in relazione ai lavori, ai servizi e alle forniture da dedurre in contratto.

Tale verifica viene effettuata mediante acquisizione del certificato di iscrizione alla camera di

commercio, industria e artigianato e acquisizione dell'autocertificazione dell'impresa appaltatrice o

dei lavoratori autonomi del possesso dei requisiti di idoneità tecnico professionale.

Un altro obbligo che l'art. 26 del D.Lgs. 81/2008 (Art. 26 – Obblighi connessi ai contratti di appalto

o d’opera o di somministrazione) pone in capo al committente è quello di informare

dettagliatamente appaltatori e subappaltatori e lavoratori autonomi riguardo ai rischi specifici

esistenti nell'ambiente di lavoro in cui sono destinati a operare tali soggetti e alle misure di

prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività.

Di particolare rilievo sono gli obblighi previsti dal secondo comma dell'art. 26, il quale prevede che

i datori di lavoro, compresi i subappaltatori, devono cooperare all'attuazione delle misure di

prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull'attività lavorativa oggetto dell'appalto e

coordinare gli interventi volti a proteggere e prevenire i rischi cui sono esposti i lavoratori. Questa

coordinazione deve essere volta a eliminare anche i rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle

diverse imprese coinvolte nell'esecuzione dell'opera attraverso l’informazione reciproca.

Il Duvri Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenze

A completamento degli obblighi relativi alla gestione della sicurezza negli appalti di lavori, servizi

e forniture, vi è la redazione del DUVRI a carico del datore di lavoro committente.

Tale documento, che deve contenere la valutazione sui rischi da interferenze e le relative misure di

prevenzione e protezione, va allegato al contratto di appalto o d'opera e deve essere aggiornato in

funzione dell'evoluzione dei lavori, servizi e forniture.

L'obbligo di elaborazione del DUVRI non si applica ai servizi di natura intellettuale, alle mere

forniture di materiali o attrezzature nonché ai lavori o servizi la cui durata non sia superiore ai due

giorni, sempre che essi non comportino rischi derivanti dalla presenza di agenti cancerogeni,

biologici, atmosfere esplosive o dalla presenza dei rischi particolari di cui all’Allegato XI del

D.Lgs. 81/2008.

È bene precisare che il DUVRI riguarda soltanto «i rischi da interferenze» e non i «rischi specifici

propri» delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi.

I progettisti, i fabbricanti, i fornitori e gli installatori

Nell'ottica di una prevenzione integrata, la legislazione speciale in materia di sicurezza e tutela della

salute sul lavoro attribuisce debiti di prevenzione anche a carico di soggetti esterni

all'organizzazione aziendale, quali progettisti, fabbricanti, costruttori, installatori e manutentori,

produttori, commercianti e venditori, noleggiatori e concedenti in uso.

La ratio è quella di estendere il debito di sicurezza «a monte», ossia già alle fasi di progettazione,

costruzione e fornitura di macchinari e attrezzature da utilizzare nell'ambiente di lavoro, nell'ottica

che anche queste fasi hanno un'incidenza sulla globale sicurezza dell'ambiente di lavoro.

Nello specifico, l'art. 22 del D.Lgs. 81/2008 “Obblighi dei progettisti”, prevede espressamente che

«i progettisti dei luoghi e dei posti di lavoro e degli impianti rispettano i principi generali di

prevenzione in materia di salute e sicurezza sul lavoro al momento delle scelte progettuali e

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tecniche e scelgono attrezzature, componenti e dispositivi di protezione rispondenti alle disposizioni

legislative e regolamentari in materia».

L'art. 23 del D.Lgs. 81/2008 “Obblighi dei fabbricanti e dei fornitori” statuisce che «sono vietati la

fabbricazione, la vendita, il noleggio e la concessione in uso di attrezzature di lavoro, dispositivi di

protezione individuale ed impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari

vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro. In caso di locazione finanziaria di beni

assoggettati a procedure di attestazione alla conformità, gli stessi debbono essere accompagnati, a

cura del concedente, dalla relativa documentazione».

L'art. 24 del D.Lgs. 81/2008 “Obblighi degli installatori”, dispone che «gli installatori e montatori

di impianti, attrezzature di lavoro o altri mezzi tecnici, per la parte di loro competenza, devono

attenersi alle norme di salute e sicurezza sul lavoro, nonché alle istruzioni fornite dai rispettivi

fabbricanti».

A fronte di tali previsioni il datore di lavoro ha il diritto di richiedere esplicitamente ai fornitori la

corrispondenza dei prodotti ai requisiti richiesti, la relativa documentazione e le istruzioni d'uso.

Ciò anche in virtù del fatto che, secondo l'orientamento consolidato in dottrina e in giurisprudenza,

il divieto di costruire macchine non conformi alle prescrizioni di sicurezza non preclude una distinta

responsabilità del datore di lavoro-acquirente per l'impiego delle stesse, la cui regolarità deve essere

verificata prima del loro effettivo utilizzo.

Questo significa che in caso di infortunio verificatosi a causa di una macchina priva di dispositivi di

sicurezza, il costruttore-venditore e il datore di lavoro-acquirente saranno entrambi i responsabili, a

titolo di concorso di colpa, del reato di lesioni o omicidio.

15.1.7 - I soggetti beneficiari della normativa antinfortunistica

I lavoratori

Ai sensi dell’art. 2, comma 1°, lett. a) del D.Lgs. 81/2008, il lavoratore viene definito come

qualunque “persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività

lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza

retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli

addetti ai servizi domestici e familiari”.

Questa definizione del lavoratore si pone in linea con quella di cui alla direttiva 89/391 CEE, che

viene a ricomprendere, e quindi a tutelare, qualsiasi persona impiegata dal datore di lavoro.

In passato invece la normativa previgente limitava l’applicazione delle norme infortunistiche e di

igiene del lavoro ai lavoratori subordinati in senso stretto, ossia coloro che prestavano il proprio

lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze di un datore di lavoro, e ai lavoratori ad essi

equiparati, a norma di legge.

Pertanto, per quanto concerne i beneficiari della normativa antinfortunistica, il D.Lgs. 81/2008 ha

regolamentato espressamente accanto ai lavoratori subordinati anche gli utenti di stage aziendali, gli

allievi che fanno uso di laboratori, macchine, apparecchiature, ecc, i volontari, i lavoratori in

somministrazione, i lavoratori distaccati, i collaboratori a progetto, i collaboratori coordinati e

continuativi, i lavoratori a domicilio, i telelavoratori.

15.1.8 - Il sistema sanzionatorio Nel sistema penale, le sanzioni possono essere di 2 tipi: contravvenzioni e delitti. Le

contravvenzioni identificano i reati di pericolo; i delitti i reati di danno.

Le contravvenzioni

Il diritto penale del lavoro, al quale è collegato il Testo Unico della Sicurezza, si caratterizza per

essere “diritto penale minimo”, in quanto il legislatore ha optato per la costruzione di un apparato

fondato su sanzioni penali, repressive e preventive, di tipo contravvenzionale, individuabili

nell’arresto e nell’ammenda.

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L’arresto, è una sanzione detentiva e consiste nella privazione della libertà personale per un periodo

limitato di tempo, predeterminato dal legislatore per la durata minima e massima;

l’ammenda, è invece una sanzione pecuniaria che consiste nel pagamento di una somma di denaro

predeterminata, anche in questo caso, per il limite minimo e per quello massimo, dal legislatore.

Nella pratica è ormai socialmente diffusa la concezione che alla repressione dei reati e, quindi,

all’individuazione e punizione dei responsabili, è da preferire la prevenzione dei reati stessi.

La stessa magistratura, in questo ambito, è largamente orientata da molti anni verso un parziale uso

della macchina giudiziaria in chiave preventiva.

Anche il legislatore sembra seguire questo orientamento, che è stato tradotto in norma con

l'emanazione del D.Lgs. 19 dicembre 1994 n. 758 (Modificazioni alla disciplina sanzionatoria in

materia di lavoro).

In forza di tale decreto, gli organi di vigilanza, qualora venga da essi rilevata la presenza di reati

penali di tipo contravvenzionale, commessi con la violazione della normativa di prevenzione

infortuni e di tutela della salute, allo scopo di eliminare la contravvenzione accertata impartiscono

al contravventore un'apposita prescrizione, fissando per la regolarizzazione un termine ritenuto

tecnicamente necessario.

Tale istituto giuridico, che si chiama “prescrizione”, permette di sospendere l'azione giudiziaria

attivando un meccanismo di stimolo alla eliminazione delle violazioni alla normativa di sicurezza e

quindi un meccanismo di prevenzione.

Il contravventore che attui la prescrizione impartitagli viene poi ammesso al pagamento di un quarto

del massimo della pena edittale, ossia, dell'ammenda prevista per quel reato.

Solo nell'ipotesi in cui il contravventore non voglia adempiere, verrà riattivata l'azione giudiziaria in

tutti i suoi passaggi tipici (indagini preliminari, proscioglimento o rinvio a giudizio, dibattimento,

assoluzione o condanna). Come si vede, da un lato, con la previsione di reati di pericolo (le

contravvenzioni), in aggiunta ai reati di danno (delitti di lesioni personali colpose o di omicidio

colposo commessi con violazione della normativa antinfortunistica o di igiene), dall'altro, con

l'istituto della prescrizione, il legislatore ha orientato la repressione dei reati, in questa materia,

verso interessanti e condivisibili prospettive di prevenzione che prevedono la seguente sequenza

procedurale:

in prima fase l’accertamento del pericolo (contravvenzione);

in seconda fase la prescrizione per l'eliminazione del pericolo e quindi l’eliminazione del

pericolo e il pagamento di una multa in sede amministrativa.

I delitti

Quando il reato non si ferma all’aver posto in essere un pericolo ma si traduce in un infortunio sul

lavoro o in una malattia professionale, ossia in un “danno da lavoro”, allora non si parla più di una

contravvenzione bensì dei delitti di lesioni personali colpose o di omicidio colposo, commessi con

violazione della normativa antinfortunistica o d’igiene.

Detto in altri termini, questi delitti vengono commessi quando l’infortunio o la malattia

professionale sono connessi alle violazioni contravvenzionali poc’anzi descritte. Ovviamente è

sempre importante ricordare che quando avvengono infortuni sul lavoro o vengono contratte

malattie professionali, i datori di lavoro, i dirigenti e i preposti, vengono giudicati ed eventualmente

condannati per non aver impedito che l’infortunio avvenisse.

15.1.9 - Organi di vigilanza, controllo e assistenza In materia di sicurezza sul lavoro s’intende per:

vigilanza, la verifica effettuata da Enti di controllo ufficiali, della rispondenza alle

prescrizioni di legge di ambienti, macchine e impianti;

controllo, la verifica periodica, effettuata nei tempi e nei modi di legge, da Enti di controllo

ufficiali o da Organismi notificati, dell’efficienza e della sicurezza di quelle macchine,

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impianti e attrezzature ritenute particolarmente pericolose e, in quanto tali, soggette a norme

di sicurezza specifiche.

Il D.Lgs. 81/2008, nell’art.13, stabilisce che la vigilanza sull’applicazione della legislazione in

materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro è svolta dalle A.S.L. - Aziende sanitarie locali -

territorialmente competenti e, per quanto di competenza, dal Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco,

nonché, per il settore minerario, dal Ministero dell’Industria, e dalle Regioni e dalle Province

autonome di Trento e Bolzano, per le industri estrattive di 2a categoria e per le acque minerali e

termali.

Anche il Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, ferme restando le specifiche

competenze in materia ispettiva attribuitegli dalla legislazione vigente, esercita, con il proprio

personale ispettivo, l’attività di vigilanza sull’applicazione della legislazione in materia di salute e

sicurezza nei luoghi di lavoro.

15.1.10 - I soggetti deputati alla vigilanza, al controllo e all’assistenza

Le A.s.l.

Le A.s.l. gestiscono sul territorio i servizi sanitari di prevenzione, cura e riabilitazione di cui tutta la

popolazione fruisce, ma hanno anche compiti di vigilanza e controllo in materia di prevenzione

degli infortuni e delle malattie professionali.

Sono costituite come “aziende” per sottolinearne l’autonomia e la responsabilità sul piano

organizzativo, tecnico e amministrativo.

La loro attività è coordinata dagli Assessorati regionali alla sanità e per quanto concerne la

prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro, essa viene svolta da un “dipartimento specialistico

qualificato”, denominato “Servizio Prevenzione Igiene Sicurezza Ambienti di Lavoro”.

Le A.s.l.:

hanno il compito di rilevare secondo le situazione tecniche e igieniche delle attività

lavorative: il numero, le cause e le conseguenze degli infortuni e delle malattie professionali,

e svolgono funzioni di vigilanza e controllo sul rispetto delle norme di sicurezza e igiene

negli ambienti di lavoro.

Debbono pertanto:

accertare i fattori di pericolosità e nocività dell’attività e dei luoghi di lavoro effettuando o

richiedendo che vengano effettuati anche opportuni rilievi (ad esempio rilevamenti

sull’entità del rumore o sull’inquinamento ambientale, il controllo del microclima, ecc.),

e individuare, quindi, le idonee misure di prevenzione.

Gli ispettori delle A.s.l.:

hanno facoltà di visitare in ogni parte e in qualunque ora del giorno e della notte, i

laboratori, gli opifici, i cantieri ed i lavori;

possono richiedere l’opera dell’ufficiale sanitario e del medico competente, quando devono

compiere accertamenti sulle condizioni igieniche dei locali di lavoro;

possono accedere alla documentazione riguardante il rapporto di lavoro dei dipendenti

(libretti di lavoro, libri paga, ricevute, contributi, ecc) e alla documentazione tecnica

(collaudi, verifiche, certificazioni, registri di esposizione, cartelle sanitarie del personale

sottoposto a sorveglianza sanitaria, registro degli infortuni, ecc).

Tutta la documentazione, da conservare sul luogo di lavoro, deve essere messa a disposizione degli

ispettori delle A.s.l. che ne facciano richiesta.

Il personale delle A.s.l. è tenuto ad osservare il segreto sui processi e su ogni altro particolare di

lavorazione di cui venga a conoscenza per motivi d’ufficio, essendo, diversamente, soggetto alle

sanzioni previste dall’art. 623 del codice penale.

I Vigili del fuoco

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Il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco fu organizzato su scala nazionale nel 1941, con il compito

di “tutelare l’incolumità delle persone e la salvezza delle cose, mediante la prevenzione e

l’estinzione degli incendi e l’apporto di soccorsi tecnici in genere”.

I comandi dei Vigili del fuoco hanno sede nei capoluoghi di provincia e sono coordinati dagli

Ispettorati regionali. Dipendono dalla Direzione Generale della Protezione Civile e dai Servizi

Antincendio del Ministero dell’Interno. Gli appartenenti al Corpo sono agenti di Pubblica

Sicurezza, gli ufficiali e i sottufficiali sono ufficiali di polizia giudiziaria.

Tra i compiti istituzionali dei Vigili del fuoco vi è quello di vigilanza e controllo in materia di

prevenzione incendi nei luoghi di lavoro.

Sono, in particolare, soggette alla diretta vigilanza e controllo dei Vigili del fuoco, le attività a

rischio di incendio contenute nell’allegato I del D.P.R. 1 agosto 2011, n. 151 (Regolamento

Prevenzione Incendi).

Allo scopo, la legge stabilisce l’obbligo di sottoporre ogni progetto di nuova installazione o di

modifica di una esistente, all’approvazione del comando dei Vigili del Fuoco territorialmente

competente al fine di ottenere il rilascio del Certificato di Prevenzione Incendi - C.P.I. -, documento

senza il quale l’attività non può essere esercitata.

I Servizi Ispezioni del Lavoro (già Ispettorato del Lavoro)

La vigilanza dei Servizi Ispezioni del Ministero del Lavoro, istituiti nelle Direzioni Provinciali del

lavoro, opera nell’ambito del quadro del coordinamento territoriale, previsto dall’art. 7 del D.Lgs.

81/2008, e viene effettuata informandone preventivamente il Servizio di Prevenzione e Sicurezza

dell’Azienda Sanitaria Locale competente per territorio, e attiene in particolare:

alle attività nel settore delle costruzioni edili o di genio civile e più in dettaglio ai lavori di

costruzione, manutenzione, riparazione, demolizione, conservazione e risanamento di opere

fisse, permanenti o temporanee, in muratura o cemento armato, opere stradali, lavori in

sotterraneo e gallerie, anche comportanti l’impiego di esplosivi;

ai lavori mediante cassoni in aria compressa e lavori subacquei.

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Questo Manuale è autorizzato dal

e può essere consultato durante le prove d’esame, in quanto conforme al Decreto 6 marzo 1997 n. 176 art. 18 comma 4.

Questa integrazione al Manuale, rilasciata in occasione degli esami abilitanti

2015, è il frutto del lavoro dei docenti e dei coordinatori dei Corsi preparatori agli

esami abilitanti alla professione di Agrotecnico e di Agrotecnico laureato, che

vengono organizzati ogni anno per garantire ai candidati una migliore

preparazione; nel Manuale i materiali e le dispense utilizzate nei Corsi sono state

riordinate, sistematizzate ed integrate per garantirne la massima fruibilità ed

efficacia formativa.

Si ringraziano del lavoro svolto nei Corsi preparatori e della loro preziosa

collaborazione i professori ed i liberi professionisti: Paolo Alessandrini; Claudia

Aprile; Katia Ballardini; Pier Paolo Caldart; Mario Calvi; Antimo Carleo; Ezio

Casali; Gabriele Ceroni; Fabio Colistra; Domenico Collesano; Ubaldo

Cuccillato; Flavio De Bin; Umberto De Col; Giuseppe Dezio; Vittorio Di Perna;

Giorgio Ducco; Guglielmo Faraone; Enrico Fiorini; Antonio Fruci; Alessandro

Gallon; Federico Garibotti; Carmine Giffi; Vincenzo Gonnelli; Rachele Imberti;

Francesco La Bella; Leonardo Loiacono; Michele Maffini;Aldo Maffoni; Paolo

Marciano; Massimo Mazzeo; Marco Meinardi; Enrico Mencherini; Luca

Michieletto; Antonio Molinaro; Moreno Moraldi; Raffaele Nardone; Claudio

Natale; Davide Neri; Giuseppe Nocca; Luciano Nocera; Salvatore Passariello;

Virgilio Pietrograzia; Antonio Pietrosanti; Gennaro Pisciotta; Massimo Rinaldi

Ceroni; Christian Roldo; Teresita Russo; Virginio Russo; Stefano Sanson; Romana

Selli; Ivano Sensi; Gabriele Silletti; Ida Maria Spegis; Alessandro Stoppa; Enrico

Surra; Daniela Tirimbelli; Eraldo Tura; Veronica Valdesi; Alberto Vallati; Pietro

Vena; Maria Zucca.

Si ringrazia in particolare il Prof. Eraldo Tura che ha curato l'integrazione,

nonché quanti altri vi hanno collaborato.