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N on ci vuole molto per ridere delle sgrammaticature con cui si esprimono i principali esponenti del governo in carica. Non solo e non tanto di quelle relative all’uso del con- giuntivo e simili. Soprattutto delle sgrammaticature politico- istituzionali. A memoria d’uomo non si era mai visto un vice- presidente del Consiglio dei ministri minacciare di rivolgersi alla Procura della Repubblica per sindacare gli atti di quello stesso Consiglio. Né si era mai visto un altro vicepresidente del Consiglio inibire l’approdo in un porto italiano ad una nave militare italiana, o entrambi pretendere che il governa- tore della Banca d’Italia ed il presidente dell’Inps – tutti e due di nomina governativa - si candidassero alle elezioni prima di esprimere il proprio parere su questioni di loro stretta compe- tenza istituzionale. Del resto, come già abbiamo fatto notare a suo tempo, è il governo stesso ad essere frutto di una sgrammaticatura: di quel “contratto” stipulato fra “il signor Luigi Di Maio e il signor Matteo Salvini” dei quali si è voluto intenzionalmente ignorare il ruolo politico-istituzionale e la cui esecuzione è stata affidata ad un sensale terzo legittimato esclusivamente dai due contraenti. Per non parlare della disinvoltura con cui si sta lottizzando il bilancio dello Stato in funzione delle rispettive promesse elettorali. Facile riderne, quindi: mentre invece non ci resta che pian- gere sugli effetti di queste stesse sgrammaticature. Innanzi- tutto nei confronti dei cittadini, evocati opportune et impor- tune come unica fonte di legittimità: per esempio nei con- fronti di quanti effettivamente si aspettavano un sostegno al reddito, e si vedono servita la prosecuzione dei lavori social- mente utili con altri mezzi (per di più gravata da una cospicua distorsione di risorse a favore di centri per l’impiego di dub- bia efficacia e di incerto avvio a regime); nei confronti di chi effettivamente si aspettava la flat tax, e trova in tavola uno spezzatino che farà la fortuna dei commercialisti; e nei con- fronti di chi voleva abolire la legge Fornero, e si trova una pensione decurtata quando raggiungerà la mitica “quota 100” (espressione che ricorda sinistramente la “quota 90” con cui esordì un altro governo quasi un secolo fa). Nelle pagine che seguono di questo parlano Bentivogli, Nan- nicini, Leonardi e Cazzola. Le opposizioni parlamentari, invece, sembrano aver delegato la loro funzione ai mercati (quando non al Capo dello Stato, con tutti i rischi di crisi isti- tuzionale che questo comporta), e compulsano ogni giorno i listini di borsa nella speranza che siano gli gnomi di Zurigo a trarle d’impaccio: quando non confidano nei già esecrati eurocrati (ormai peraltro in limine mortis, come non hanno mancato di sottolineare Di Maio e Salvini), cui spetterebbe il compito di avviare le procedure d’infrazione per azzerare una legge di bilancio che minaccia di sfasciare i conti pubblici. Delle piaghe mortali che sì spesse si vedono nel bel corpo del- l’Europa parlano più avanti Ciocca, Cacciari e Borioni: il che non toglie che la sfida programmaticamente mossa dal governo gialloverde all’Unione ed ai mercati sia velleitaria e pericolosa. Ad essere sfidati, infatti, non sono Juncker, Moscovici, e magari Soros e gli altri speculatori che operano sui mercati finanziari. Ad essere sfidato è il principio di realtà, che oggi non prevede la possibilità di isolarsi in un mondo irreversibilmente connesso dalla velocità delle comunicazioni e delle transazioni commerciali. Tuttavia non sarà il malaugurio dei gufi a far cadere il governo Conte. E non sarà nemmeno la boria dei dotti, che si applichi ai congiuntivi come alle sgrammaticature istituzio- nali. Anche perché di dotti non se ne vedono in seno ad un sistema politico che avrebbe dovuto segnare “un autentico cambiamento di regime” che faceva “morire dopo settan- t’anni quel modello di partito-Stato che fu introdotto in Italia dal fascismo e che la Repubblica aveva finito per ereditare, limitandosi a trasformare un singolare in plurale”, come disse Giuliano Amato nel rassegnare le dimissioni del suo governo davanti alla Camera dopo che la manona del pool di Milano aveva inibito alla manina di Scalfaro di firmare il “decreto Conso”. Amato – che in quell’occasione anticipava le tesi sul “lascito fascista” poi esposte da Luciano Cafagna nella Grande sla- vina – auspicava quindi che la seconda Repubblica superasse la partitocrazia. Essa invece ha finito per fondarsi sulla “par- / / 3 / / >>>> editoriale mondoperaio 10/2018 / / / / editoriale Manine >>>> Luigi Covatta

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Non ci vuole molto per ridere delle sgrammaticature concui si esprimono i principali esponenti del governo in

carica. Non solo e non tanto di quelle relative all’uso del con-giuntivo e simili. Soprattutto delle sgrammaticature politico-istituzionali. A memoria d’uomo non si era mai visto un vice-presidente del Consiglio dei ministri minacciare di rivolgersialla Procura della Repubblica per sindacare gli atti di quellostesso Consiglio. Né si era mai visto un altro vicepresidentedel Consiglio inibire l’approdo in un porto italiano ad unanave militare italiana, o entrambi pretendere che il governa-tore della Banca d’Italia ed il presidente dell’Inps – tutti e duedi nomina governativa - si candidassero alle elezioni prima diesprimere il proprio parere su questioni di loro stretta compe-tenza istituzionale. Del resto, come già abbiamo fatto notare a suo tempo, è ilgoverno stesso ad essere frutto di una sgrammaticatura: diquel “contratto” stipulato fra “il signor Luigi Di Maio e ilsignor Matteo Salvini” dei quali si è voluto intenzionalmenteignorare il ruolo politico-istituzionale e la cui esecuzione èstata affidata ad un sensale terzo legittimato esclusivamentedai due contraenti. Per non parlare della disinvoltura con cuisi sta lottizzando il bilancio dello Stato in funzione dellerispettive promesse elettorali.Facile riderne, quindi: mentre invece non ci resta che pian-gere sugli effetti di queste stesse sgrammaticature. Innanzi-tutto nei confronti dei cittadini, evocati opportune et impor-tune come unica fonte di legittimità: per esempio nei con-fronti di quanti effettivamente si aspettavano un sostegno alreddito, e si vedono servita la prosecuzione dei lavori social-mente utili con altri mezzi (per di più gravata da una cospicuadistorsione di risorse a favore di centri per l’impiego di dub-bia efficacia e di incerto avvio a regime); nei confronti di chieffettivamente si aspettava la flat tax, e trova in tavola unospezzatino che farà la fortuna dei commercialisti; e nei con-fronti di chi voleva abolire la legge Fornero, e si trova unapensione decurtata quando raggiungerà la mitica “quota 100”(espressione che ricorda sinistramente la “quota 90” con cuiesordì un altro governo quasi un secolo fa).

Nelle pagine che seguono di questo parlano Bentivogli, Nan-nicini, Leonardi e Cazzola. Le opposizioni parlamentari,invece, sembrano aver delegato la loro funzione ai mercati(quando non al Capo dello Stato, con tutti i rischi di crisi isti-tuzionale che questo comporta), e compulsano ogni giorno ilistini di borsa nella speranza che siano gli gnomi di Zurigo atrarle d’impaccio: quando non confidano nei già esecratieurocrati (ormai peraltro in limine mortis, come non hannomancato di sottolineare Di Maio e Salvini), cui spetterebbe ilcompito di avviare le procedure d’infrazione per azzerare unalegge di bilancio che minaccia di sfasciare i conti pubblici.Delle piaghe mortali che sì spesse si vedono nel bel corpo del-l’Europa parlano più avanti Ciocca, Cacciari e Borioni: il chenon toglie che la sfida programmaticamente mossa dalgoverno gialloverde all’Unione ed ai mercati sia velleitaria epericolosa. Ad essere sfidati, infatti, non sono Juncker,Moscovici, e magari Soros e gli altri speculatori che operanosui mercati finanziari. Ad essere sfidato è il principio di realtà,che oggi non prevede la possibilità di isolarsi in un mondoirreversibilmente connesso dalla velocità delle comunicazionie delle transazioni commerciali.Tuttavia non sarà il malaugurio dei gufi a far cadere ilgoverno Conte. E non sarà nemmeno la boria dei dotti, che siapplichi ai congiuntivi come alle sgrammaticature istituzio-nali. Anche perché di dotti non se ne vedono in seno ad unsistema politico che avrebbe dovuto segnare “un autenticocambiamento di regime” che faceva “morire dopo settan-t’anni quel modello di partito-Stato che fu introdotto in Italiadal fascismo e che la Repubblica aveva finito per ereditare,limitandosi a trasformare un singolare in plurale”, come disseGiuliano Amato nel rassegnare le dimissioni del suo governodavanti alla Camera dopo che la manona del pool di Milanoaveva inibito alla manina di Scalfaro di firmare il “decretoConso”.Amato – che in quell’occasione anticipava le tesi sul “lascitofascista” poi esposte da Luciano Cafagna nella Grande sla-vina – auspicava quindi che la seconda Repubblica superassela partitocrazia. Essa invece ha finito per fondarsi sulla “par-

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titocrazia senza partiti”, un ircocervo di cui più volte abbiamoparlato: ed è da qui che deve partire chiunque si proponga dirigenerare il nostro sistema politico.Non saranno infatti né i gufi né i dotti a liberarci dagli scalza-cani che sono saliti al potere. Sarà semmai una riflessione sucome sia stato possibile che questo accadesse. Magari par-tendo dalle illusioni che l’enfasi sulla “democrazia del pub-blico” e sul carattere salvifico del sistema elettorale maggio-ritario alimentarono nei primi anni ’90 del secolo scorso: eprendendo atto del nullismo politico prodotto da accozzaglie

coalizionali che hanno ridotto a caricatura la tanto agognatademocrazia dell’alternanza.Heri dicebamus, dunque. E’ un esercizio per il quale la nostra rivi-sta è particolarmente attrezzata, senza peraltro coltivare patetichenostalgie o velleitari revanscismi, e cercando invece di riannodarei fili di una cultura politica ben consapevole dei vizi e delle debo-lezze della prima Repubblica, ma capace di osservare col dovutodisincanto il fallimento della seconda. E pazienza se si tratterà diuna staffetta fra nonni e nipoti: l’importante è lasciarsi alle spalleil teatrino di cartapesta allestito dalla generazione di mezzo.

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