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    Marco Mancini

    LA ‘VIA DEL FERRO’ ALLE RUNE:

    UN NUOVO CAPITOLO NELLA STORIA DELLA SCRITTURA 

    the origin of the fu  ! ark remains

    to this day the most baffling of all its mysteries

    (Ralph W.V. Elliott, Runes. An Introduction ,Manchester, Manchester Univ. Press, 1959, p. 3)

    I sentimenti di amicizia che mi legano a Federico Albano Leoni mi hannoindotto a correre un rischio gravissimo. Ho pensato, infatti, di festeggiarLo

    offrendoGli un contributo dedicato al settore di studi con cui, come avete ascoltatodal bell’intervento di Paolo Ramat, Federico ha inaugurato la propria lunga e brillantecarriera di linguista e di linguista storico in modo particolare, il settore dellagermanistica. Fin qui nulla di strano. Sennonché io non sono un cultore di scienzegermanistiche e temo, perciò, che il mio regalo si trasformi in carbone. Non perchéLui sia stato cattivo ma perché io sarò stato inadeguato al cómpito. Insomma: chiedocomprensione al Festeggiato. Sappia Federico che contano soprattutto il gesto el’affetto con i quali oggi partecipo a questo Incontro in Suo onore. Auguri Federico!

    Agli inizi della Sua produzione scientifica Federico Albano Leoni si è occupato più volte degli usi e delle funzioni della scrittura in àmbito germanico. Un simileinteresse maturò in modo quasi naturale a partire dai primi studi attorno all’edizionedel Primo Trattato Grammaticale Islandese , un testo nel quale, come è noto, lequestioni ortografiche (latinografiche, in maniera particolare) e fonologichecostituiscono l’oggetto di attente riflessioni e di proposte interessanti e innovative.

    Quello dei rapporti che intercorrono fra il piano della fonìa e il piano dellagrafia ha rappresentato un filone di ricerche che attraversa molti studi di AlbanoLeoni sino a quelli più recenti dedicati alla fonetica sperimentale. In un lavorocomparso negli Atti della SLI del 1977 sull’interpretazione delle grafie alfabetichenella fonologia diacronica delle lingue (Fonetica storica e grafetica storica ) Albano

    Leoni sottolineava assai giustamente:

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    quando ricostruiamo i suoi di una lingua antica attribuendo alle lettere il valore che noi oggi

    abbiamo ricostruito per la lingua ch fornisce l’alfabeto, saltiamo una mediazione linguisticamentemolto importante (anche se, nella maggior parte dei casi, destinata a rimanere ignota) perché è

    quella in cui è avvenuta la reinterpretazione del rapporto lettere/suoni già all’interno della lingua di partenza, se immaginiamo l’alfabetizzazione come opera di indigeni, o della lingua di arrivo, se la

    immaginiamo opera di stranieri  (Albano Leoni 1977:90-91).

    A questa considerazione Federico ne aggiungeva una più specifica,esemplificandola con due casi prototipicamente distanti: quello della scrittura goticadel IV sec. d.C. (creata da un singolo erudito, il vescovo di fede aria Wulfila) e quellodella scrittura runica. Alla luce della personale competenza in questi due àmbitiAlbano Leoni riteneva fosse scorretto postulare nella fase d’inizio di una tradizionealfabetica un rapporto biunivocamente perfetto fra lettera da un canto e referentefonologico dall’altro, rapporto che sarebbe il frutto di una vera e propria

    “invenzione” da parte del !"#$%& '("'$)&  (un termine, quello di “invenzione”, chenella storia delle scritture andrebbe usato con parsimonia): «tale invenzionecomplessiva – scrive Albano Leoni – non si verifica mai: si hanno invece processi ditrasposizione di sistemi alfabetici da una lingua a un’altra che avvengono attraverso

     progressivi e lenti adattamenti » (Albano Leoni 1977:92). Lo scenario reale chedomina in casi come questi (cito ancora) è quello «delle situazioni bilingui, delleinterferenze, delle interpretazioni, nel quale l’ipotesi di una specularità

    grafico/fonetica arcaica non ha ragion d’essere » (Albano Leoni 1977:92).A nostro avviso simili ragionamenti sono tanto più rilevanti se ci si concentra

    sulla questione dell’origine delle rune germaniche. Su tale argomento Federico, neisuoi lavori (ad esempio l’articolo sulla semantica di termini-chiave quali rún  e stafr  innorreno, Albano Leoni 1972, o quello apparso una decina di anni più tardi Sulledenominazioni dello scrivere nelle lingue germaniche , Albano Leoni 1983), propendedecisamente per la tesi ‘nordetrusca’ che, del resto, vanta una buona schiera disostenitori nel nostro Paese oltre che in Germania.

    Sono passati quarant’anni dacché sono stati pubblicati i suddetti contributi diAlbano Leoni. La bibliografia dedicata alle origini delle rune si è incrementata inmodo a dir poco impressionante, come spesso accade nelle nostre discipline quandoun problema è assai intricato. Epperò, curiosamente, la situazione ermeneutica non è

    mutata di molto. Anzi non è mutata affatto, e di progressi ne sono stati fatti davvero pochi. Uno dei motivi, a mio giudizio, sta precisamente nel fatto che quel preziososuggerimento sul piano metodologico avanzato da Federico tanti anni fa circa imomenti iniziali di una tradizione scrittoria – incluso il fu  ! ark   - non sembra affattoessere stato raccolto o elaborato negli studi runologici.

    Proverò a fare il punto sulla questione dell’origine delle rune. Svolgerò il mioragionamento aiutandomi con una serie di considerazioni sulla trasmissione esull’etnografia delle scritture. Abbozzerò, infine, un’ipotesi esplicativa che combacia

     perfettamente con quanto riportato in alcuni passi del De origine et situ Germanorum ,

    l’unico trattato ‘etnografico’ conservatoci dall’antichità latina, redatto da Tacitoattorno al 98 d.C. Ivi rifluirono notizie storiche e informazioni ricavate da parecchiefonti anteriori, prima fra tutte i Bella Germaniae  di Plinio il Vecchio, un resoconto in

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     prima persona delle campagne contro i Frisoni e i Cauci condotte sotto il comando diCorbulone lungo il limes  renano (47 d.C.).

    «No runological problem – ha scritto Bengt Odenstedt – is so controversial asthe question of the origin of the runic script, and the answers so far provided differ

    greatly » (Odenstedt 1990:145). L’incremento degli ultimi decenni dei giacimentiepigrafici, specie più arcaici (si pensi alle scoperte delle iscrizioni contenute indepositi votivi di armi nelle paludi danesi di Illerup, Nydam nello Jutland, a Vimosein Fionia o a Thorsberg nello Schleswig-Holstein a sud del confine attuale fraGermania e Danimarca) non ha alterato di fatto il quadro delle ipotesi sin quiformulate. Come è noto oggi disponiamo di quasi settemila iscrizioni di cuiapprossimativamente 450 risalenti al periodo nordico antico (fra il 200 e il 700 d.C.),incluse circa duecento brattee. Approssimativamente 25 iscrizioni sono databili agliinizi del III secolo d.C. e sono state rinvenute «across an astonishingly large area,from Scandinavia and North Germany to Eastern Europe » (Loijenga 2003:27).

    L’unico reale progresso scientifico in questo àmbito è costituito dallacancellazione dell’ipotesi continuista sull’origine delle rune, ossia della tesi di quantiritenevano che questa scrittura fosse una invenzione locale, sviluppatasi

     progressivamente dalle antichissime simbologie pre-scrittorie in uso nell’Europa preistorica. Pur lasciando qualche traccia moderna, ad esempio nel volume di Ellis,una ipotesi del genere, alimentata a suo tempo da ideologie malsane (basterebbe

     pensare al bizzarro volume uscito nel 1938 Das Geheimnis der Runen  di Guido vonList), è giustamente apparsa destituita di ogni fondamento e relegata nella soffittadella scienza assieme alle speculazioni magico-cabalistiche sulla funzione delle rune.

    Tre sono le ipotesi che continuano a confrontarsi con inesorabile ciclicità: la‘grecaì, la ‘latina’, la ‘nordetrusca’. Malgrado presuppongano tutte il medesimoarchetipo remoto (le scritture alfabetiche o, più precisamente, le fonografiesegmentali mediterranee, una tesi di per sé autoevidente sia per la funzione sia perl’aspetto dei segni), si dividono poi nell’individuare il predecessore immediato dellaserie runica. E non di rado il tono dei conflitti fra gli studiosi assomiglia a quello deiseguaci delle tre religioni monoteistiche: ci si professa tutti della dinastia di Abramoma si finisce col disputare su ogni cosa. È difficile, specie in questo àmbito, sottrarsiall’impressione che già Musset manifestò con franchezza anni fa, ossia che «la

    runologie reste, dans une large mesure, une science conjecturale, et, comme lesrunologues sont assez peu nombreux, le profane a trop souvent l’impression d’une

    succession de thèses personnelles, voire de modes, lancées par quelques grands noms

    et s’usant à mesure que leurs auteurs vieillissent » (Musset 1965:21).Già Ludwig Wimmer, pioniere nella decifrazione e interpretazione del fu  ! ark ,

    alla luce delle variazioni grafemiche presenti nelle epigrafi arcaiche e studiate oggicon estrema acribia da Odenstedt, Seebold e da altri, postulò l’esistenza di un unicoarchetipo formato da ventiquattro segni la cui datazione predocumentaria resta,tuttavia, molto incerta. La presenza di regole d’uso coerenti sia nel tratteggio

     prevalentemente angoloso e leggero, sia nella direzione di scrittura (che è libera,sinistrorsa, destrorsa e, talvolta, *%+,$"%-./01) confermano la discendenza da unalfabeto  princeps   la cui serialità appare costante fin dalle prime documentazioni del

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    fu  ! ark   (con rarissime eccezioni negli alfabetarî, come nel caso delle sequenze

    rispettivamente * per  !"  ! e *# waz  ", *dagaz  # e *"! ilan  $ a Kylver che compaiono conordine inverso per ciascuna coppia a Vadstena e Grumpan).

    Tutte e tre le ipotesi sull’origine della scrittura runica hanno precedenti

    ottocenteschi; nessuna si può dire abbia realmente finito col prevalere. Ciascuna,infine, appare legata a tradizioni di studio geograficamente ben determinate. Esisteuna scuola che predilige l’ipotesi di un’origine greca delle rune, variamente declinata(Bugge, von Friesen, Kabell, Antonsen, Morris, Miller). Una scuola, assai nutrita, chesostiene l’ipotesi di un’origine latina (Wimmer, Pedersen, Agrell, Askeberg, Moltke,Page, Düwel, Odenstedt, Williams). Infine una scuola, oggi soprattutto italo-tedesca,che sostiene un’origine ‘nordetrusca’ (Marstrander, Hammerström, Krause, Rix, inostri Prosdocimi, Gendre, Marchese, Poli), un’idea che è stata fatta propria anche dastudiosi francesi come il Musset, inglesi come Elliot, americani come Markey,

    australiani come Mees. Non è mia intenzione, ovviamente, ripercorrere i contenuti specifici di questetre diverse posizioni. Chi volesse avere un’idea complessiva degli argomenti in gioco

     può ricorrere con profitto a tre pubblicazioni relativamente recenti: l’articolo di Knirkdedicato alle rune nello Handbook of the North Germanic Languages ; il primo, riccocapitolo del volume di Morris Runic and Mediterranean Epigraphy   (da leggersi in

     parallelo con l’importante recensione-articolo di Odenstedt); e, soprattutto, l’ottimarassegna di Bernard Mees su The North Etruscan Thesis of the Origins of the Runes  comparsa nello “Arkiv” del 2000. Ivi anche la nutrita bibliografia di riferimento,

    oramai secolare.I due difetti principali, a mio modo di vedere, contenuti in tutte – sottolineo –tutte le ipotesi sull’origine delle rune consistono da un canto in una ricostruzioneeccessivamente meccanica e storicamente implausibile delle modalità ditrasmissione, dall’altro in una teoria altrettanto meccanica e forzosa della invenzionedei segni (delle ‘etimologie’ delle figurae , per esprimerci con il metalinguaggio deigrammatici latini).

    La questione non mi pare si ponga nel caso della teoria ‘greca’. Se sitralasciano i tentativi più antichi (Bugge, von Friesen) che, come è stato osservato giàda Pedersen, Krause e Musset, sono inaccettabili sia per motivi cronologici (alla lucedei ritrovamenti di testi della seconda metà del II sec. d.C. una inventio  gotica appareimpossibile) sia per motivi funzionali (un modello corsivo per le epigrafi runiche,apposte per lo più su instrumenta  e con funzioni raramente usuali, è «assurdo » comescriveva Gendre), restano in piedi solo le affermazioni di Antonsen (tutte abbastanzavaghe, per la verità) e, soprattutto, quelle del suo allievo Miller e di Morris. DiMiller, in realtà, converrà parlare a proposito della teoria latina o ‘mista’.

    Quanto a Morris, più che concentrarsi su alcune bizzarrie derivazionali (greco! *fehu f , greco ! *ingwaz  ng , greco ! *raid "  r) come fa Odenstedtnella sua recensione/articolo, sarà sufficiente sottolineare l’evidente infondatezza di

    una ipotesi che postula la trasmissione (anteriormente al 400 a.C.!) del presuntoalfabeto greco alle genti germaniche lungo le rotte commerciali transmarine eterrestri. Dello stesso tenore gli argomenti di Antonsen. Per giustificare la tesi ‘greca’

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     prima mette in dubbio la durata del periodo ‘buio’ anteriore alle primedocumentazioni runiche («findless period ») che, secondo lui, potrebbe esser duratoanche quattro secoli! Quindi, contro la tesi latina, sostiene che «no regard is given tothe fact that all such signs (and also all such capitals) can be derived from Greek

    models », il che è ovvio, sul piano superficiale, vista la storia dell’alfabeto latino. Madella ‘via greca’ Antonsen non fornisce alcun reale supporto storico-documentario. Sinoti poi - cosa grave - che anche lui, come Morris, ritiene che le rune f (*fehu ) e  r (*raid " ) implichino archètipi greci, la qual cosa nel primo caso è impossibile sul

     piano dei valori fonologici (e sembra di capire che Antonsen ignori totalmentel’origine digrafica di latino da ), nel secondo è impossibile sul piano dellaforma della lettera.

    Derivazione dal greco: ma da quale alfabeto? le varianti regionali proprie dellascrittura nella Grecia sia continentale sia insulare e coloniale vanno pur individuate e,soprattutto, vanno motivate sul piano del contatto culturale. Eppoi: perché icommercianti? Questo delle vie commerciali è un motivo ricorrente nella bibliografiarunologica. Molti sono convinti che la trasmissione dell’alfabeto e delle suecomplesse regole d’uso (si pensi al ductus   o a convenzioni quali l’omissione dellanasale anteconsonantica, la grafia scempia anche in sutura di morfema ecc.) sia statosemplicemente il frutto di un contatto commerciale tra genti germaniche e di volta involta, Greci, Latini o popolazioni alpine. Conviene confutare immediatamente questatesi della ‘via commerciale’ alle rune.

    Tutti convengono sul fatto che postulare l’esistenza di un singolo ‘creatore’della scrittura runica (come sosteneva ad esempio Wimmer) equivarrebbe a

    trasformarla in una scrittura irrelata coi modelli mediterranei anche se, come osservaProsdocimi, rispetto ai parametri sui quali si giudica normalmente della formazionedi una scrittura, «è legittimo parlare di creazione autoctona delle rune, anche se intermini diversi da quelli del passato » (Prosdocimi 2004:489). Se von Friesen per lanascita delle rune pensava ancora a contatti fra Greci e Goti lungo le coste del Mar

     Nero, Morris ritiene che la cognizione della scrittura greca da parte dei Germanisarebbe avvenuta lungo le rotte dell’ambra, dal Baltico al Mediterraneo. Entrambe leipotesi, come si è accennato, appaiono infondate per motivazioni che sono insieme dicronologia e di mancanza di reali contatti culturali.

    Ma è soprattutto tra i propugnatori della ipotesi latina che la trafila‘commerciale’ gode di grande favore. Il motivo è presto detto. È ben noto, infatti, chele prime relazioni durature tra popolazioni germaniche e genti romane in epocaaugustea, a séguito delle campagne renane di Druso prima (12-9 a.C.) e di Tiberio edi Germanico poi (4-16 d.C., intramezzate dal massacro delle tre legioni di PublioVaro nella Silua Teotoburgensis  nel settembre del 9 d.C.), furono essenzialmente dinatura commerciale con qualche limitata presenza di contingenti germanici nelle filadelle legioni e, specularmente, con una significativa presenza di soldati romani negliavamposti lungo il Reno. Talvolta quegli stessi soldati, dopo aver messo su famiglia

    con qualche donna locale, al termine del servizio finivano coll’insediarsi stabilmentenelle terre che venivano concesse ai veterani lungo il limes : è il caso, ad esempio, del popolamento degli agri decumates .

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    Si parla generalmente dell’epoca augustea (o, forse, poco prima) come data dinascita delle rune perché, alla luce delle dinamiche note di trasmissione e didiffusione della scrittura, volendo anche ignorare documentazioni precoci come lafibula di Meldorf (prima metà del I sec. d.C.) e il frammento di Osterrönfeld (I sec.

    d.C.), questo torno di tempo deve necessariamente aver corrisposto alla fase diincubazione della scrittura. Non si spiegherebbe altrimenti l’ampia diffusionegeografica del fu  ! ark   nella sua versione canonica con le prime tipizzazioni localicome quelle di h (*hagalaz ),  k (*kaunaz ),  e (*ehwaz ),  r (*raid " ), o ng (*ingwaz )già in epigrafi del II-IV sec. d.C.: «so mature are they that probably a century or so ofrunic history lies behind them » (Page 1987:9).

    Secondo Odenstedt, che ricalca un’analoga posizione espressa da Moltke, «it isfar more likely that it [scil.: the runic script ] was created by a group of people: thesemay have been merchants, as assumed by Moltke, or Germanic soldiers who had

    been in Roman service. The inventors must of course have known Latin well, both

    the script and the language   […] we know that there were lively cntacts betweenGermania libera and the Roman provinces at that time » (Odenstedt 1990:169-170).

    A essere precisi Moltke rivendicava alle popolazioni danesi, lontane dagliinsediamenti renani, la primogenitura delle rune: in tal caso l’alfabeto latino avrebbefunzionato non da fonte diretta quanto piuttosto da principio ispiratore. Si tratta di undettaglio: le suggestioni latine sarebbe giunte comunque attraverso i flussicommerciali.

    Di tenore analogo le osservazioni di Williams, un altro tenace sostenitore della

    ipotesi latina: «considering the time and the place from which the oldest runicinscriptions are known, an alphabet model is most likely to be found among the

    Romans » (Williams 1997:179) e ancora «the point in time at which the Romansattained their maximum territory thus coincides with the earliest point at which the

    runes are likely toh ave been created […] trade was important to both sides; furs,slaves and amber were exchanged for glass and wine, utensils of bronze and later on,

    above all, for gold » (Williams 1997:180). In sostanza, secondo questi autori, ilcontatto commerciale fra tribù germaniche e Romani da Giulio Cesare in poi (di cuiesistono diverse testimonianze letterarie, fra l’altro) non poteva non indurre alcuni

    individui illuminati e appartenenti alle élites   della società germanica a imitare lascrittura latina mediante le rune: «given the contact with Roman culture, it would bea strange thing indie if some Germanic individual had not been impressed by the

    Roman art of writing and tried to imitate it », conclude Henrik Williams (Williams1997:181).

    Una variante di questa teoria ‘anticulturale’ sull’origine del fu  ! ark  è quella che potremmo chiamare la ‘via militare’ alle rune. Sostenuta da Gad Rausing tale ipotesiè stata di recente approfondita in un paragrafo dell’ottimo volume della LooijengaTexts and Contexts of the Oldest Runic Inscriptions. Qui l’autrice si sofferma a lungo

    sul ruolo che potrebbero aver rivestito i veterani stanziati nelle aree della Germaniainferior , in guarnigioni del medio e basso Reno. Questi mercenari di linguagermanica, appartenenti alle tribù del basso Reno (soprattutto Ubii e Batavi ) e

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     parzialmente alfabetizzati in latino, trasformatisi in mercanti «at the basis of theweapon-trade from Rome to the North », dovettero poi diffondere la nuova scrittura etrasmetterla alle élites guerriere della Fionia e del Sjælland. 

    La ferma convinzione di un vaglio delle rune attraverso i canali commerciali

    e/o attraverso quelli militari – entrambi latinografi - ha condotto a ricostruzioni chetalvolta rasentano il grottesco. Si veda la seguente pagina tratta da un intervento diRausing. Merita di essere citata per intero in quanto rappresenta la trascrizione intermini fantapragmatici, per così dire, della trafila ‘commerciale/militare’:

    è probabile che il soldato barbaro al servizio di Roma non leggesse né poesia né letteratura e che

    fosse poco avvezzo ai volumi in latino. Era in grado probabilmente di leggere le iscrizioni sui

    monumenti, sulle monete e sulle pietre sepolcrali tracciate a lettere maiuscole, ma quasi certamenteaveva più familiarità con l’antica scrittura corsiva romana, così come era vergata nei secoli I e II

    d.C. […]. Era questa la scrittura adoperata nelle relazioni e nella corrispondenza e sembra che, nel

    II secolo d.C., essa fosse straordinariamente uniforme in tutto l’impero. Esistono delle somiglianzefra questa scrittura e l’antico futhark ? Facciamo l’ipotesi che un centurione a riposo in Danimarca onella Scania volesse scrivere un messaggio nella propria lingua: aveva adoperato per lungo tempo

    delle stecche di legno per scrivere in latino e sapeva facilmente costruirsi un calamo, ma non aveva probabilmente la gomma arabica che, assieme al carbone e all’acqua, costituiva l’ingrediente per la

    fabbricazione dell’inchiostro. Quasi certamente aveva con sé un coltello ed è abbastanza facile

    incidere delle linee su una superficie lignea piana. Le forme curve delle lettere romane si addicono

    alla scrittura a penna ma non a quella incisa su legno. Per questo il nostro ipotetico centurione

    raddrizzò tutte le curve o le sostituì con degli angoli. Infine completò B e D per eliminare ogni

     possibile fraintendimento, mutando tutti i tratti orizzontali in tratti obliqui (Rausing 1997:23). 

     Non starò a discutere sulle ingenuità di cui è costellata questa pagina diRausing. Si va dal presunto bagaglio letterario dell’inventore delle rune alla graniticacertezza che il tizio dovesse per forza essere un germano in pensione, per di piùstanziatosi in Danimarca e sicuramente un centurione! Un soldato sempliceevidentemente non era all’altezza del gravoso cómpito. A parte le facili ironie e a

     parte il fatto che per il I secolo d.C. la presenza di militari di origine scandinava e, piùin generale, germanica nell’esercito romano era un fatto eccezionale (a differenza diquanto si verificherà a partire dal III secolo d.C.; il caso di auxiliares  come Arminio eil suo clan meritò sintomaticamente più di una citazione), è l’intera ricostruzione

    culturale che in sé appare assurda.Il bisogno di scrittura ‘germanica’ (quello che la Looijenga chiama «the urgefor writing ») nascerebbe in modo spontaneo in un (super)individuo già alfabetizzatoche impiegava normalmente e leggeva altrettanto normalmente la scrittura latina.

     Non si capisce in base a quale necessità comunicativa costui avrebbe dovutoinventare la scrittura runica, una necessità tanto pressante che lo avrebbe addiritturaspinto a trascrivere la propria lingua in una grafia escogitata ex novo .

    In primo luogo, come ha dimostrato Christoph Rüger, la circolazione dellascrittura in area renana «recht klein war », ed era limitata alla burocrazia militare

    (sempre e necessariamente in latino), alla presumibile corrispondenza dei soldati(come si può arguire per analogia con quanto avveniva a Vindolanda  in Britannia o aBu Ndjem in Egitto), al circuito mercantile (bolli, tegole), alle epigrafi sepolcrali o ai

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    monumenti con funzione dedicatoria che spesseggiano nelle diverse località delle province germaniche. Ad esse vanno aggiunte anche le rozze iscrizioni di proprietàdei militari nelle diverse guarnigioni. Nulla ci porta a ritenere che potessero ricorrerespecifici atti scrittorî in dominî tali per cui gli scriventi si decidessero

    improvvisamente ad abbandonare la grafia latina e a crearne una encoria.Le rune più antiche si trovano incise su tipologie di oggetti che escludonorecisamente la maggior parte dei circuiti comunicativi che in àmbito germanico, adifferenza di quanto avveniva in quello latino, restavano affidati all’oralità:comunicazioni e interazioni quotidiane, informali ma anche messaggi solenni,monumentali, politici, celebrativi o religiosi. Le primissime rune compaiono incise

     pressoché unicamente su oggetti mobili, trasportabili e di un qualche pregio, frutto discambi simbolici tra personaggi di rango elevato o su armi deposte in luoghi di culto(spade, manici di scudi, punte di lancia). L’àmbito è quello privato; si trattava di verie propri status symbols , come è stato scritto, che impreziosivano i ktèmata  indipendentemente dal fatto che fossero poi deposti in corredi tombali o in luoghicultuali come le paludi dell’attuale Danimarca. Dobbiamo a un recente contributo diKlaus Düwel una presentazione efficace delle profonde divergenze tra le due culturealfabetiche, quella romana e quella germanica, per molti versi due universi scrittorîdistantissimi fra loro (Düwel 2004). Dunque, al momento della creazione delle rune,non si può parlare di semplice imitazione di usi romani che, semmai, si verificò inepoca più tarda allorché nuove funzioni testuali vennero attribuite progressivamentealla grafia encoria dei Germani.

    In secondo luogo non si vuole certo negare l’esistenza di un solido e fiorente

    commercio lungo il limes  renano. Stanno a dimostrarlo a sufficienza i ricchi correditombali nei quali numerosissimi sono i reperti di fattura romana (specie campana):fibbie, vasi di bronzo e di argento, vasellame di vetro, ceramiche di vario genere, e,soprattutto, armi. Il tutto a documentare un’intensa e fiorente attività dei negotiatores  romani che presenta risvolti addirittura sorprendenti come osservava Malcolm Todd.Il punto è che l’insieme di tali circostanze non costituisce affatto condizionenecessaria e sufficiente per la trasmissione della scrittura.

    La storia complessa e articolata della diffusione degli alfabeti regionali grecinell’Italia antica dimostra che solamente contatti duraturi, solamente la presenza di

    emporia  stabili o di insediamenti di natura coloniale che favoriscono la circolazione el’integrazione culturale, religiosa in primo luogo, rappresentano le reali condizioni di

     possibilità della trasmissione di un alfabetario. Le merci si scambiano senza alcun bisogno di ricorrere alla scrittura. Semmai è l’inventario delle merci (che è una sortadi Listenwissenschaft ) che può, a lungo andare, richiedere l’impiego di mezziscrittorî, come insegna la storia delle grafie del Vicino e Medio oriente antico.

    A differenza di quanto sostengono i teorici dell’origine latina del fu  ! ark , lascrittura è una tecnologia che non viene acquisita mai da un’altra cultura per puraimitazione o per miracolosa contiguità: «quello della scrittura – rammentava Cardona

    - è, tra i vari apprendimenti, il più rigidamente formalizzato » (Cardona 1981:115) e presuppone complesse scelte di natura ideologica, sociale e identitaria, spesso basatesull’esclusione e la distanza rispetto ai modelli, veri o presunti, come avviene nel

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    caso delle scritture celtiche, leponzie in primo luogo, studiate da Solinas eProsdocimi e, molto probabilmente, nel caso del cuneiforme ‘ario’ di Dariol’Achemenide. Scelte che non sono certo affidate al solo contatto fra individuiinteressati alle mere transazioni commerciali.

     Nel mondo germanico, semmai, l’attenzione va focalizzata sulla grandemobilità che caratterizzava gli artigiani che confezionavano gli oggetti iscritti e,soprattutto, sul ruolo delle rune in quanto valore aggiunto negli scambi simboliciintertribali, anche a forte distanza, e nei circuiti religiosi (su oggetti dedicati alledivinità e stipati in luoghi comuni di culto).

    La scrittura deve essere insegnata in modo organico e in modo altrettantoorganico deve essere appresa: «dal punto di vista della scrittura comeinsegnamento/apprendimento, la prospettiva è necessariamente quella del maestro,cioè della tradizione. Ciò vale sia per la trasmissione interna sia per la trasmissione

    esterna, cioè per l’adattamento di un alfabeto ad una varietà linguistica già analfabeta.

    L’insegnamento/apprendimento come  prospettiva del maestro implica conservativitàanche oltre l’ottimalità da ottenere mediante cambiamenti del rapporto grafia-fono

    etc.; […] la prospettiva vale anche per la creazione di nuove scritture: i maestri sono per definizione quelli della scrittura-fonte;   […] il nuovo alfabeto è adattato nonsecondo le necessità della nuova lingua, ma secondo le prospettive della vecchia, che

     possono essere le negative per la nuova» (Prosdocimi 1990:164). Questeaffermazioni di Aldo Prosdocimi, contenute in un noto saggio sulla trasmissione dellascrittura nell’Italia antica, poi ripreso e ampliato in un recente Convegno viterbese,aiutano a saldare il percorso delle nostre riflessioni. Non sfuggirà, infatti, che qui

    Prosdocimi sta dicendo esattamente quel che diceva Federico Albano Leoniquarant’anni fa e che rammentavo all’inizio di questa relazione. L’inerzia dellatradizione domina i rapporti tra grafia e fonia, anche al momento della costituzione diuna nuova tradizione alfabetica. Pertanto qualunque considerazione che muova da

     presunte esigenze di economicità interna o di funzionalità referenziale che presiederebbero alla definizione di una serie alfabetica – si trattasse della scritturaetrusca, venetica, latina o del fu  ! ark   - al di fuori della tradizione e delle modalitàdella sua trasmissione è un semplice miraggio. Prosdocimi si limita ad aggiungere –elemento però decisivo - che una tale inerzia storica si spiega nella prospettiva della

    trasmissione da parte dei ‘datori di scrittura’, cioè dei maestri che insegnano, non dei parlanti che apprendono a scrivere la propria lingua. Se ciò è vero, i ‘datori’ dellascrittura runica non possono certo essere identificati con i Runenmeister   tanto carialla runologia tradizionale. Costoro, abituati a percorrere lunghi tragitti attraverso laGermania libera   per vendere i prodotti della loro arte, impararono la scrittura inluoghi deputati e organizzati a diffonderla, luoghi che, viste le funzioni originariedelle rune, inclusa quella cleromantica di cui parla Tacito in un brano notissimo(Germania  10, 1), dovevano corrispondere a dei santuari. Impararono la scrittura dai

     possessori del corpus princeps  originario, quel corpus  dottrinario di cui entravano a

    far parte anche «lettere o varianti di lettere che non compaiono nelladocumentazione » e che venivano comunque recitate nella ripetizione mnemonicatipica delle fasi dell’apprendimento. Che questi luoghi di apprendimento non possano

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    corrispondere alle guarnigioni lungo il Reno pare accertato alla luce di quanto si èdetto. Di ciò dirò fra poco. Prima, però, un cenno ai risvolti formali dell’ipotesi‘latina’ sull’origine delle rune.

    Prevale oggi la tesi di chi come Wimmer per primo e, dopo di lui, Askerberg,

    Moltke, Odenstedt, Looijenga (ma anche, in parte, Miller) fanno discendere le runedalle lettere della capitale maiuscola di epoca imperiale. La vecchia tesi di Agrell,infatti, di una derivazione dalla corsiva romana appare per molti versi e permotivazioni analoghe a quelle che hanno condotto alla confutazione dell’ipotesi grecadi von Friesen, inaccettabili. Sorprende che questa ipotesi (fra l’altro inconcepibile insede di trasmissione scolastica della scrittura) sia stata infelicemente ripresa daRausing (Rausing 1992).

     Non mi soffermerò sulle singole trafile, opinabili come sono, ma sui principîche le sottendono. Le riassumo comunque qui di séguito per comodità:

    RUNA   Wimmer/Pedersen    Askeberg  Moltke  Odenstedt 

    " F  F  F  F # V  V  V  V $ D  D  D  D %  A    A    A    A  & R  R  R  R ' C  C  C  C 

    ( X  X  X  X ) Q  P  ?P  P * H  H  H  H + N  N  new letter  N , I  I  I  I - G  G  new letter  G . Y  Z  new letter  Z / P  new letter  new letter  new letter 

    0 Z  Y  new letter  Y 1 S  S  S  S 2 T  T  T  T 3 B  B  B  B 4 E  E  M  E 5 M  M  M  M 6 L   L   L   L  7 new letter  new letter  new letter  Q 8 new letter  new letter  new letter  new letter 9 O  O  O  O 

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    Sia nell’ipotesi di Moltke sia in quella di Askeberg, Odenstedt, Looijengaesiste una discrasia tra le funzioni dei segni dell’alfabeto latino e quelle manifestatenel fu  ! ark . Anche Wimmer, che faceva risalire l’alfabeto runico all’intera serie latinacon l’eccezione di , era costretto a ipotizzare diverse ‘rifunzionalizzazioni’ dei

    segni latini (ad esempio !  * ! urisaz   , !  *geb "   g). In questi autoril’identificabilità formale, come criterio euristico, fa aggio sull’originario rapportografema-fonema dell’alfabeto latino. L’unica differenza è che per Moltke sette segnidell’alfabeto latino sarebbero stati abbandonati e sostituiti con nuove creazioni dalRunenmeister  di turno.

    Odenstedt (l’ultimo a formulare una ipotesi ‘latina’ coerente e sistematica) postula identità di forma e di valore in quindici casi (ma senza spiegarecapovolgimenti di lettere rispetto ai presunti archètipi come per *$ ruz  u  e *laukaz  l ,o scarse rassomiglianze come nel caso di n   e ); in sette vi sarebbe accordoformale ma non funzionale (* ! urisaz   rispetto a , *geb "   g   rispetto a ,*wunj "  w   rispetto a

    , *j % ran   j rispetto a , *# waz   ï   rispetto a , *algiz  R  rispetto a , *ingwaz  ng rispetto a ) mentre due sole rune sarebbero invenzioniex novo   * per  !"  p  e *dagaz  d). L’ipotesi di Odenstedt appare a prima vista razionalein quanto, a differenza di quel che pensa Miller (Miller 1994:66), non sostiene inalcun caso che la scrittura runica sia il combinato di due filoni formali. Ma i tre

     principî euristici che adotta finiscono col trasformarsi, in realtà, nell’assolutaarbitrarietà: (1) le lettere tendono a persistere anche se non indicano specifici suoni;(2) nuove lettere sono create solamente se quelle esistenti non sono sufficienti; (3)nuovi suoni sono normalmente rappresentati attraverso vecchie lettere

    rifunzionalizzate.In queste speculazioni etimologiche (si sarebbe tentati di definirle

    metaforicamente ‘varroniane’) si vìola precisamente il principio rigido dellatradizione che presiede a qualunque trasmissione di serie alfabetiche. I maestri discrittura non erano tecnicamente in grado di operare un previo azzeramentofunzionale con conseguente reimpiego arbitrario di singoli grafemi per indicare realtàfonologiche estranee a quelle dei maestri stessi, quasi che la percezione dei segmentifonologici potesse prescindere dalla scrittura. Nella riflessione delle culture

     parzialmente alfabetizzate non esiste il fonema separato dal grafema; esiste il segno

    grafico con i valori fonetici connessivi attraverso la lettura ripetitiva e la conseguentememorizzazione.

     Non si può insomma ritenere che un presunto ‘inventore’ delle rune abbia prima scorporato i referenti fonologici dai segni latini, abbia riapplicatoarbitariamente quegli stessi segni ‘liberi’ a nuovi referenti (l’inventario fonematicodel protogermanico nordoccidentale come sostiene Antonsen). Questo non èavvenuto neppure al momento dell’invenzione dell’alfabeto greco, visto che il

     principio della mater lectionis   operò, nel caso delle vocali, secondo l’acrofonia deigrafònimi, come è stato dimostrato da Ignace Gelb. In definitiva il principio della

    riattribuzione ‘a tavolino’ di valori fonologici a segni di altre tradizioni scrittorie puòvalere per il sillabario cherokee inventato dall’indiano analfabeta Sequoyah, ma non

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    vale mai in sede di trasmissione delle scritture storiche. Dunque non vale neppure peril fu  ! ark .

    Ora, se non si è in grado di dimostrare che la struttura dell’intero corpus  dottrinario dell’alfabeto latino sia stata effettivamente e coerentemente trasmessa ai

     parlanti lingue germaniche (e non è possibile), l’ipotesi latina, già difficilmenteaccettabile per motivi storici come si è visto, appare insostenibile.Resta a questo punto l’ipotesi ‘nordetrusca’. In tal caso sembrano difettare più

    le motivazioni e le trafile storico-culturali, laddove le etimologie formali dei singolisegni appaiono più soddisfacenti e più coerenti sul piano sistemico. Ma anche qui i

     problemi non mancano.Innanzitutto, come ha sottolineato Bernard Mees, chi, come Moltke o Miller,

    ha provato a confutare la tesi ‘nordetrusca’ si è accanito su un bersaglio-fantasma. Unalfabeto ‘nordetrusco’ in quanto tale non esiste, se si applica questo nome alle varieculture grafiche alpine e subalpine in epoca preromana (la coniazione del termine, uniperonimo classificatorio, si deve, come è noto, al Pauli). Esistono bensì tipizzazionilocali dell’alfabeto etrusco settentrionale (ben chiare dopo il ritrovamento dei cippi diRubiera), culturalmente ed etnograficamente distinte, che fanno riferimento a bacinilinguistici differenti: retico, celtico-leponzio, camuno e, naturalmente, venetico.

     Nessuna di queste scritture sembrerebbe rappresentare un archètipo unitario esoddisfacente delle rune germaniche. In nome di un’innegabile ‘aria di famiglia’ cheaccomuna fra loro gli alfabeti nazionali alpini e subalpini gli studiosi hanno fattoricorso a una sorta di florilegio di segni ‘nordetruschi’ per spiegare di volta in volta lesingole rune, cavando i presunti archètipi ora da questa ora da quella tradizione

    alfabetica.Dinnanzi a simili tentativi da parte di Marstrander, Hammarström, Arnzt Eric

    Moltke ebbe buon gioco a stigmatizzare in toto   l’origine ‘nordetrusca’, affermandoche essa presupponeva assurdamente inventori del fu  ! ark  che se ne andavano in giro

     per le Alpi a raccattare segni alfabetici a dritta e a manca («the inventor would havehad to wander from one Alpine tribe to another »). In effetti ancor oggi i sostenitoridella tesi ‘nordetrusca’ non riescono a sottrarsi a questa tentazione. Bernard Meesricorre ora a segni retici ora a segni camuni ora a lettere venetiche. Identica procedurain Thomas Markey, un altro convinto fautore della tesi ‘nordetrusca’ che ha provato a

    consolidare anche con argomenti strettamente etimologici. Anche Krause, purdichiarandosi un assertore della tesi in questione, arriva a postulare, come già altri

     prima di lui, un’origine mista ‘nordetrusco-latina’ per i grafemi runici:

    der Vegleich der einzelnen Runen mit entsprechenden nordetruskischen Buchstaben ergab, dass bei

    weitem nicht alle Runenformen aus der nordetruskischen, mit lateinischen Buchstaben

    durchstzenden Schrift erklärt werden können. Selbstverständlich bleibt in solchen Fällen die

    Annahme offen, dass der Schöpfer der Runenschrift seine Runenreiche nicht sklavisch einem

    bestimmten Musteralphabet entnahm, sondern mehr oder weniger die eigene Phantasie zur Bildungneuer Zeichen schweifen liess » (Krause 1993:41).

    Markey a sua volta, trattando degli elmi A e B di Negau, sostiene che

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    in the late La Tène period prior to Romanization (and wholesale adoption of the Roman alphabet),

    there seem to have been efforts toward formation of supra-dialectal regional koiné alphabets. Suchefforts may be evidenced at the pre-Roman Celtic settlement on the Magdalensberg, the promontory

    above what became Roman Virunum  just north of modern Klagenfurt. It is primarily within thecontext of these developments, namely, regional koiné alphabets and eastward graphemic drift, that

    we may profitably seek the origins of the Germanic runes  (Markey 2001:83).

    Al centro di questa presunta 3%41)  grafica, per Markey, si collocherebbel’alfabeto camuno. Ma, purtroppo, di una tale ipotesi non esiste alcuna prova, vistoche la diffrazione degli alfabeti di origine etrusca nell’Italia alpina accennaesattamente al contrario, cioè alla mancanza assoluta di una qualche unitarietàgrafica. Ciascun polo alfabetico rappresentava eo ipso   una scrittura ‘nazionale’ a

     pieno titolo.Piuttosto bizzarra, infine, la tesi del «Quellenpluralismus » di Helmut Rix

    secondo cui la scrittura runica sarebbe strutturalmente una scrittura «eklektisch ».Quello che rappresenterebbe il principale difetto della tesi ‘nordetrusca’, l’apparenteirriducibilità delle rune a un’unica fonte alfabetica alpina, in Rix si trasformerebbeastutamente nell’argomento a sostegno più forte. Veicolo della nuova scritturasarebbero stati i soldati di origine germanica in servizio presso le legioni in territorioalpino. Questi mercenari, una volta congedati, avrebbero condotto con sé nellerispettive tribù testi redatti nelle differenti grafie (e lingue) alpine e apposti su oggettifacilmente trasportabili («auf leicht beweglichen Gegenstände »). Gli oggettisarebbero stati poi deposti in luoghi comuni di culto: «dann kam – aus welchemAnlass, werden wir nie erfahren – jemand, der mit Heiligtum und wohl auch mit dem

    Anbringen von Sinnzeichen zu tun hatte, und insofern als Priester zu bezeichnen ist,

    auf den Gedenken, anstelle der Sinnzeichen Wörter in Buchstabenfolge zu schreiben,

    wie er sie in jenen norditalische geschriebenen, ihm von den Weihenden

    vorbuchstabierten Texten vor Augen hatte ».L’ipotesi di Rix, ingegnosa e obiettivamente diversa dalla ‘via militare alle

    rune’ di Rausing, è però indifendibile. Mees l’ha criticata a fondo e con pienaragione. Basti dire che l’idea di mercenari germanici che se ne tornano a casanell’Europa settentrionale con pezzi d’osso o di legno, armi o proiettili iscritti inalfabeti differenti e poi li accumulano in un luogo dove il (solito) inventore ne

    ricaverebbe la composta scrittura runica è francamente ridicola.La situazione parrebbe senza vie d’uscita: l’ipotesi ‘nordetrusca’ rischia di

    configurarsi come una soluzione residuale e abborracciata. In sostanza avrebberagione chi, come Musset, sostiene con estrema cautela che «on voi qu’il s’agit d’unfaisceau de présomptions intéressantes mais non encore de preuves vraiment

    démonstratives » (Musset 1965:55). A rendere il tutto ancor più fragile si aggiungel’imbarazzante presenza nel fu  ! ark   di grafemi che sembrano discendere

    indiscutibilmente dal latino – come notava Krause - quali *fehu   (%), *raid "   (&),

    *berkanan   ('), e anche *ehwaz   ((), *mannaz   ()); secondo altri anche *"! ilan   ($)accennerebbe a un’origine ‘antietrusca’ così come l’indicazione delle sonore (ma quisi tratta di un equivoco sull’impiego del termine ‘nordetrusco’ che, ovviamente, non

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    significa ‘etrusco’ tout court ). Insomma: «to try to fill in the details on the evidencebefore us has not so far met with full success, and there is real danger that the

     plausible thesis of North Italic origin will be discredited by a too rush superstructure

    of detail that suffers from lack of solid evidence and a too patient desire to make what

    facts are available fit into a preconceived scheme » (Elliott 1963:11).Epperò, se si abbandona il paradigma ‘misto’ (la teoria di una mescidanza dicaratteri ‘nordetruschi’ e/o latini), l’ipotesi - che chiamerò ‘alpina’ - acquisisce benaltra credibilità, a patto che si rispettino due precise condizioni:

    (1)  una condizione ‘strutturale’ ovvero, in omaggio al Festeggiato,quella che potremmo chiamare la lex ‘Albano-Prosdocimi’ : per modello

     prevalente un corpus princeps , arricchito di eventuali ‘lettere resuscitate’con i relativi valori fonologici (sempre riconducibili al corpus ), senzadover mai ricorrere ad arbitrarî scorpori fra singole lettere e referenzefonologiche;(2)

     

    una condizione ‘storica’: un percorso culturalmente efunzionalmente plausibile lungo il quale si sarebbe trasmessa la tradizionealfabetica che funse da modello per il fu  ! ark. 

    È un fatto acclarato che l’unica tradizione alfabetica di origine ‘nordetrusca’dotata di un prestigio tale da valicare la dorsale alpina nei decenni immediatamenteanteriori all’espansione augustea fu quella venetica. Il complesso dei lavori diProsdocimi, Scardigli, Marinetti e di Maria Pia Marchese hanno delineato un contesto

    di cultura grafica che rappresenta sicuramente la condizione necessaria per il transitodelle rune attraverso l’area alpina. Maria Pia Marchese, già in un lavoro del 1981,arrivava a ipotizzare una diretta connessione fra le speculazioni alfabetichedocumentate dalle tavolette venetiche atestine presso il santuario della dea Reitia(indizio sicuro di meccanismi di apprendimento della scrittura « per syllabas ») e «lalocalizzazione della matrice della formazione delle rune nell’area alpina alla fine del

    II sec. d.C .».La scelta come milieu   dell’area venetica e di quelle ‘periferiche’ in modo

    specifico (carnica e cadorina a stretto contatto col Noricum   e con la Pannonia

    superior ) si giustifica anche per la diffusione di varianti alfabetiche venetiche al di làdei passi alpini. Non solo: in almeno un paio di casi, in una variante periferica earcaicizzante dell’alfabeto venetico simile a quella delle iscrizioni di Idrija pri Ba5i(Idria della Baccia nell’attuale Slovenia) come ha dimostrato Prosdocimi, sono stateredatte le epigrafi commissionate o forse redatte da individui di lingua germanicaritrovate sull’elmo B di Negau (odierna 6enjak in Slovenia) e a Würmlach sul Passodi Monte Croce Carnico in territorio austriaco (ted. Plöckenpass ). Si potrebbe bendire che il «Bindeglied » che mancava alle ricostruzioni di Pisani sia statoeffettivamente ritrovato (Pisani 1969:412).

    Si noti però che per la Marchese «una cosa appare certa; e cioè che la matricedell’alfabeto runico è duplice: da una parte norditalica, e più specificamente venetica,dall’altra, concomitante, latina » (Marchese 1980-1981:21). Di una tale duplicità di

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    fonti è convinto anche Marcello Meli: «il santuario di Reitia sopravvive fino al II-Isec. a.C. e proprio nell’ultima fase della sua attività si registra la presenza di

    tavolette alfabetiche con alfabeti venetico e latino. Questo fatto avrebbe favorito

    senz’altro la mutazione di segni propri dell’alfabeto latino » (Meli 1988:51).

    Lo stesso pensa, infine, Aldo Prosdocimi il quale è tornato di recente a parlaredell’origine delle rune alla luce di una nuova, interessante scoperta: alcune iscrizionicadorine di dedica (che mostrano legami tipologici con quelle di Làgole di Calalzo,anche sul piano del canone e delle regole scrittorie) ritrovate ad Auronzo in uncontesto archeologico sicuramente di natura religiosa. Il fatto cruciale è che questeepigrafi sono databili al I sec. dopo Cristo, in epoca tardissima e mostrano chiaretracce di interferenze con la scrittura latina (al pari di qualche altro raro caso già notoda Valle e da Gurina). Verrebbe così colmato lo iato cronologico tra il periodo diincubazione della scrittura runica e il suo possibile modello ‘venetico-latino’ di cuigià parlava la Marchese:

    l’aspetto cronologico  – scrive Prosdocimi - pare ora colmato dalla seriorità della veneticità alpina,specificamente cadorina; tuttavia la seriorità della veneticità è necessaria ma non sufficiente né

     primaria quale puro aspetto cronologico: ciò che è primario, da entrambi i fronti, sono i modi storici

    della realtà culturali espresse dalle scritture (alfabeto/i). Dal lato ormai romano c’è un recupero di

    veneticità il che implica ‘scuola’ di scrittura quindi conoscenza di più alfabeti, oltre quello romano

    e venetico, […] Le precondizioni culturali alla creazione dell’alfabeto runico c’erano tutte, in

     particolare c’era la possibilità di mescolare per variare tra forme e contenuti delle lettere così da

     presentare una scrittura alfabetica che non mostrasse dipendenza da alcuna scrittura matrice, in

     particolare da quella romana che era il modello di riferimento egemone ma che si doveva, perché si

    voleva, negare, e questo era lo spirito ideologico di volontà-di-ricezione di una scrittura nazionalegermanica (Prosdocimi 2006:189).

    Il dato rilevante di questo ritrovamento è l’abbassamento drastico dellacronologia. Più in generale, appare comprovata la persistenza e la (relativa) vitalitàdella scrittura venetica in una fase che coincide con il periodo ‘buio’ che dovette

     precedere la creazione e la diffusione delle rune germaniche (sempre se si prescindedai documenti ‘prerunici’ del I secolo d.C.).

    Trovo invece macchinosa ed artificiosa l’idea di una volontà di Abstand   ‘atavolino’ che avrebbe indotto i creatori del fu  ! ark   a «mescolare per variare »(Prosdocimi), gli archètipi grafemici, in particolare quelli venetici e quelli latini. Unasimile ipotesi, oltre che eccessivamente raffinata e degna più di un sociolinguistaconsapevole che di un utente inconsapevole (lo notava anche Rix), contraddice l’ideastessa che Prosdocimi ha difeso altrove di trasmissioni integrali dei codici alfabetici.

     Non si parla infatti di nuovi segni aggiuntivi come nel caso dell’alfabeto sannita o diquello sabellico rispetto alla scrittura etrusca, o, ancora, come nel caso del grecocopto integrato da grafemi demotici, tutti con valori referenziali del tutto ignotiall’alfabeto  princeps . Lo stesso Antonsen è tornato a ribadire che coloro che creanouna nuova scrittura «take over the entire writing system, which includes such

    intrinsic features as the direction of writing, interpunction, the lack of designation ofnasals before tautosyllabic consonants, or of geminated consonants, and so forth »(Antonsen 2002:108). Si noti, di passaggio, che la mancanza di geminazione e la

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    direzione ora destrorsa ora sinistrorsa ora bustrofedica della scrittura caratterizzano ilvenetico (Lejeune 1974:180-181) ma non la grafia latina tardo-repubblicana.

    Solamente una esplicitazione delle trafile dai grafemi venetici a quelli runici può contribuire a chiarire il primo requisito da noi invocato, quello della sistematicità

    e coerenza del modello appreso e trasmesso. Quindi, identificato il suddetto modello,occorrerà verificare il secondo requisito, quello del percorso culturale.Sul piano grafemico le lettere del fu  ! ark   e i relativi modelli venetici vanno

    suddivisi in sei lotti differenti, mano a mano che l’intervento di riorganizzazionegrafica si fa più incisivo rispetto all’archètipo. Si osserverà che la proposta quiformulata riconduce i 24 segni dell’alfabeto runico a ben 19 lettere della seriealfabetica venetica (cfr. lotti A-D) ossia all’intera serie ‘periferica’ con l’eccezione di da theta ,

    da  pi , da san ; alle 19 lettere germaniche tratte dal veneticovanno aggiunte 2 rune frutto di possibili modificazioni interne allo stesso fu  ! ark   (oforse solamente una se consideriamo p  * per  !"  tratta da

    nella variante ‘coricata’del Magdalensberg); altre 2 rune tratte probabilmente dall’alfabetario retico (lotto E)e 1 runa completamente inventata ex novo  (lotto F).

    Il primo lotto (A) è caratterizzato da una semplice conversione deicorrispondenti segni-modello dell’alfabeto venetico con qualche modificazione‘stilistica’ secondaria consistente nella cancellazione di tratti tondi od orizzontali(come nel caso di j * j % ran  o di a *ansuz  ).

    lotto   A  (1)  =  /l/   venetico ! : /l/  protogermanico; 

    (2)  =  / ;,  /  protogermanico; (4)  =  /j/   venetico, realizzato a Làgole come  ! -  /j/  protogermanico; 

    (5)  =  /h/,  /f/   (Làgole),  /i/   (Idria)  venetici,  realizzato  ‘a  scala’  in  epigrafi  arcaiche  e periferiche (Idria, Negau B) ! *  /h/  protogermanico; 

    (6)  =  /s/   venetico per lo più a tre tratti ! 1  /s/  protogermanico; (7)  =  / ?, @ /   venetici, realizzato nella  variante con tratti paralleli (Opitergium , Padova, 

    Cadore), ! %  /a/  germanico; (8)  =  /  A , B /   venetici ! , /  A , B /  protogermanici. 

    Il secondo lotto (B) è contraddistinto da interventi più marcati sul tratteggiodegli archétipi venetici, per lo più rotazione dei segni (e) o introduzione diallungamenti miranti alla realizzazione simmetrica dei grafemi runici (

    m

    ):

    lotto B

    (9)    =   /m/    venetico,  nella   variante  cadorina  e  carnica  a  quattro  tratti !  5   /m/  protogermanico; 

    (10)  =  / C, D /   venetici, forse nella  variante ‘coricata’ ritrovata sul Magdalensberg ! 4  /e/  protogermanico; 

    Il terzo lotto (C) è quello senza dubbio più interessante; appare contraddistintodall’applicazione di alcuni principî sistematici comprensibili solo alla luce dellafonologia del venetico.

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    lotto C

    (11) la notazione della semivocale labiovelare protogermanica  /w/  si spiega solamente se si muove dalla specifica natura dell’allofono fricativo [E] che doveva essere proprio di  /b/   venetico in 

    posizione intervocalica; è stato dimostrato di recente, infatti, che le sonore  venetiche presentavano allofoni  fricativi  o  approssimanti  in  posizione  post-sonorante;  il  segno   venetico  tagliato  a metà  (storicamente  l’antico    prima  greco  poi  etrusco),  nella  sua  variante  quadrangolare, costituisce dunque l’archétipo di )  /w/; 

    (12)  la  notazione  dell’occlusiva  labiale  sonora  in  posizione  postpausale  o  post-occlusiva (esattamente nella posizione presente nel grafonimo con funzione acrofonica *berkanan ) richiese l’impiego di una ‘lettera morta’, , privo di referenza fonologica in  venetico ma evidentemente presente nella serie recitata dai maestri, come ha ribadito giustamente Prosdocimi nel caso della rinascita di omicron  in  venetico, donde runico 3 =  /b/  protogermanico; 

    (13)  la  notazione  dell’occlusiva  dentale  sonora,  mediante  un  ritocco  simmetrico  che  ha aggiunto due aste  verticali a destra e a sinistra, discende direttamente dal grafema ‘a croce’ che era caratteristico dell’area patavina e che, come è stato più  volte ribadito, è un’evoluzione di antico tau  

    etrusco che, nell’alfabeto  venetico più arcaico indicava  /d/; dunque  venetico  ! runico 8 per protogermanico/d/; solamente  la  tipizzazione patavina dell’alfabetico  venetico è  in qualche modo raccostabile alla forma più antica di *dagaz ; 

    (14)  la  notazione  dell’occlusiva  velare  sonora,  mediante  un  intervento  simmetrico  sulle quattro aste del  segno  ‘a  freccia’  ( di origine  eolica o  ‘azzurra’, dunque  figurativamente un ) che nell’alfabeto  venetico stava a indicare  /g/, ! runico (= protogermanico  /g/; 

    (15)   venetico =  /n/  ! I = protogermanico  /n/; la  variante runica ha eliminato il terzo tratto che tornava  verso l’alto nell’archètipo  venetico. 

    Il quarto, quinto e sesto lotto (D, E, F) sono di complessa dichiarazione. Se si escludono rispettivamente  la tredicesima runa (*" waz , .), per  la quale è ragionevole presumere  una  semplice   variazione  pertinente  rispetto  a  *" saz   (,),  e  la quattordicesima  runa  (* per  #$   / =  protogermanico  /p/),  per  la  quale  esistono  seri indizi di una diretta derivazione da b (anche se  la  pi   trilaterale del Magdalensberg potrebbe  essere  un  interessante  archetipo  del  grafema  runico),  restano  7  rune  da ricondurre  al modello  alfabetico  del  venetico. Di  queste,  quattro  (k , R , r   e  f)  si possono  spiegare mediante  il  ricorso  alla matrice  venetica  (lotto D);  due  (  e  t) accennano, per motivi interni al sistema  venetico, a un modello retico (lotto E); una (K) è una creazione ex  novo  (lotto F). 

    lotto D

    (18)  il  segno  ' per  /k/  protogermanico  rappresenta un  caso  interessante e al  tempo  stesso istruttivo: il grafema, che ricorda la forma del  gamma , è poco coerente con il contesto degli alfabeti ricavati dalla  variante etrusca settentrionale ove,  viceversa, domina esclusivamente il kappa , ma se si pone mente ai documenti atestini e al modo con cui  veniva trascritto e appreso questo specifico segno alfabetico nelle  tavolette ritrovate al santuario della Baratella,  tutto diviene chiaro (cfr. ad esempio Es 25, Es 23, Es 27): il tratto  verticale del kappa  nella nota formula akeo , infatti, coincide perfettamente  con  il  margine  della  casella  ove   veniva  inscritto,  permettendone  una reinterpretazione identica al *kaunaz  runico (la runa ' dalla lettera  venetica K); 

    (19)  il  segno  0  per  /R/   protogermanico  è  di  certo  ricavato  dal  segno  zeta   dell’alfabeto  venetico  princeps : ciò è dimostrato dal  fatto che  il  segno è  impiegato con  il  valore proprio della serie  etrusca  originaria  e  non  con  quello  con  cui  era  utilizzato  nell’area  atestina  dove  invece 

    designava  /d/;  la  variante  non  coricata  di ,  presupposta  necessariamente  dalla  runa R ,che presenta  un’asta   verticale  e  due  tratti  ‘a   ventaglio’  che  si  dipartono  dalla  parte  superiore,  è frequente nell’alfabeto etrusco e nelle  varietà alpine ma non ricorre in  venetico; 

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    (20)  il  segno  "  per  /f/   protogermanico  è  quello  che,  probabilmente  più  di  ogni  altro,  ha indotto  a  scartare  l’ipotesi  ‘nordetrusca’  e  a  propendere  per  quella  latina,   vista  la  perfetta coincidenza formale e referenziale; tuttavia occorre tener conto del fatto che già il sistema  venetico tendeva  alla  semplificazione del digrafo originario   impiegato per  indicare  /f/:  a Làgole – dunque  in area cadorina –  la digrafia è ridotta al solo segno , una semplificazione possibile perché, in modo perfettamente speculare a quanto avvenuto nel Latium  Vetus , la cancellazione di  /h/  ha consentito l’alleggerimento del gruppo  che era stato ereditato dall’alfabeto  princeps  etrusco  anteriore  al VI  secolo  a.C. Non  è  improbabile  che,  vista  la  disponibilità  di  un  grafema runico w  per  /w/  () da   venetico) e  vista d’altronde la necessità di disporre del grafema runico h   (*,  si  rammenti  che  in protogermanico,  a differenza di quanto  avvenne nel  venetico  tardo,  la fricativa  rappresentava  un  fonema  ben  integrato  nel  sistema),  la  digrafia  originaria  (comunque inammissibile in runico) si potesse risolvere attraverso una semplificazione che facesse sopravvivere il solo digammon ; 

    (21)  il  segno  &  che  indica  /r/   protogermanico  sembra  ben  difficilmente  riconducibile  alla matrice  originaria  venetica  che,  analogamente  ad  altri  sistemi  dell’Italia  antica,  impiega  un  rho  quasi privo di gambo  verticale (in epoca arcaica, cfr. Es 120 da Lozzo o Is 1 da Idria della Baccia in ambiente  carnico) o privo del  tutto  tanto da  rassomigliare,  in questa  seconda  forma,  a un delta  

    angoloso a tre tratti. Si deve però notare che la runa *raid $  presenta una certa  variabilità formale, talvolta con la svasatura inferiore più larga di quella superiore;  Antonsen, in maniera convincente, ha  identificato  una  variante  praticamente  identica  al  rho   angoloso  venetico ma  aperta  in  basso precisamente  nell’iscrizione  protorunica  più  antica,  apposta  sulla  Fibula  di  Meldorf,  e  su  una bratteata  trovata  sull’isola danese di Fionia;  si potrebbe pensare  che  la  forma più  comune  sia  il risultato di un  successivo  e  inevitabile  raccostamento  al modello  latino.mentre quella  svasata  in basso una sorta di forma intermedia tra quella originaria e quella più diffusa. 

    Il  quinto  lotto  (E)  pertiene  esclusivamente  allo  spinoso  e  sinora  irrisolto problema dei  segni per  i  fonemi dentale  sordo  (2  che  indica  /t/  protogermanico) e interdentale sordo ($ che indica  / J /  protogermanico): 

    lotto E

    (22-23)  se  si  contestualizza  la  segnatura  di  questi  fonemi  protogermanici  all’interno dell’ipotesi  venetica  –  e  solo  all’interno  dell’ipotesi  venetica  –  si  può  forse  trovare  una  ratio  soddisfacente. Un segno  venetico ‘a croce’ per la dentale sonora (cfr. sopra n. 13) fu impiegato per indicare protogermanico  /d/; da questo impiego e dal contemporaneo utilizzo di  nell’alfabeto  princeps  per indicare il protogermanico  /R/  si deduce che il modello  venetico cui attinsero i creatori delle  rune  non  poteva  essere  quello  atestino,  bensì  un  modello  più  arcaico  e  periferico, presumibilmente cadorino o carnico. In entrambe queste aree, come osserva Prosdocimi,  il segno per   /t/   era  costituito  da  un’asta  tagliata  da  un  trattino  più  o  meno  a  metà,  un  grafema eccessivamente ambiguo in un sistema runico che già annoverava g  (() e n  (+). Di qui il possibile, 

    eccezionale  ricorso  a  un  grafema  tratto  dall’alfabetario  retico,  un  sistema  di  scrittura  la  cui contiguità  documentaria  con  l’ambiente  venetico  è  ben  dimostrata  dalle  iscrizioni  sugli  elmi  di Negau. Il segno ‘a freccia’ (presente a Sanzeno) rielabora una tendenza delle tipizzazioni retiche a segnare  la  mediante  sovrapposizioni  sull’apice dell’asta. L’impossibilità di  ricorrere ad altri grafemi  per  fonemi  dentali  indusse  probabilmente  ad  attingere  una  seconda  volta  al  repertorio retico: la runa *  # urisaz  ($) deriva pertanto, per semplificazione simmetrica dal grafema ‘a sega’ che il retico documenta a Magrè con tre occhielli  il cui  valore fonologico, dopo gli studi di Pellegrini, Tibiletti Bruno  e  Alberto Mancini,  appare  equivalente  a un  fonema dentale  sordo,  sicuramente non-occlusivo. 

    Il sesto e ultimo lotto (F) è costituito da un solo segno, 7, la runa *Ingwaz  che 

    indicava la sequenza protogermanica [Kg]. 

    lotto  F  

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    (24)  la peculiarità del  valore del segno (su cui si è ampiamente speculato, anche sul piano della  presunta  etimologia  formale),  privo  di  qualunque  riscontro  in  qualsiasi  altra  tradizione alfabetica,  rende  presso  che  certo  che,  in  tal  caso,  ci  si  trova  dinnanzi  a  una  vera  e  propria invenzione.

    I dati formali confermano pienamente la centralità dell’area alpino-danubiananella creazione e successiva diffusione dell’alfabeto runico: «la tecnologia dellascrittura – scrive Diego Poli -  si diffonde in un contesto interetnico fra popoli cheacquisiscono coscienza della propria specificità e si trovano in ascesa nel momento in

    cui si trovano a orbitare verso l’area padano-veneta preromana e romana » (Poli 2010:23). Dobbiamo sempre a Poli un recente e convincente inquadramento delledinamiche che regolarono l’espansione della scrittura nel  Noricum, una regione cheRoma acquisì definitivamente nel 16 a.C. e che fu trasformata da Claudio in

     provincia romana a tutti gli effetti. Il  Noricum  funse da snodo commerciale eculturale tra la  X Regio  augustea e l’Europa latèniana in cui popolazioni celtiche e

     popolazioni germaniche si trovarono per secoli a stretto contatto.L’asse portante di questi contatti fu senza dubbio la rete viaria che i Romani, a

    séguito della fondazione della colonia di  Aquileia (181 a.C.), irradiarono verso nord.La strada più importante di questa rete fu la Claudia Augusta che, in epoca imperiale,garantiva l’allacciamento a sud sia con la trasversale della  Postumia  sia con lacostiera dell’ Annia all’altezza dello snodo di Aquileia. Ma anteriormente all’aperturadi questa via le zone alpine conoscevano già numerose direttrici di attraversamento.

    La più rilevante, nota come compendium  nell’ Itinerarium Antonini, era quella chetoccava Tricesimo e giungeva al paese di Carnia donde si dipartivano due itinerari:uno orientale risaliva la valle del Fella e il canal del Ferro per arrivare a Santicum (Villach sulla Drava) e a Virunum (poco a nord dell’odierna Klagenfurth); l’altra , piùa occidente, giungeva a Iulium Carnicum (Zuglio) e valicava il Passo di Monte CroceCarnico per discendere lungo la valle del Gail e raggiungere  Aguntum  (vicino lamoderna Lienz).

    Questa digressione viaria non è fine a sé stessa. Lungo gli itinerari appenadescritti, infatti, si snodava a nostro avviso un percorso di flussi commerciali legati a

    un bene preziosissimo, il  ferrum Noricum, leggendario per la sua resistenza eimpiegato nella fabbricazione delle armi. La strada del ferro, però, era anchecostellata da centri religiosi, luoghi di culto interetnico nei quali già in epoca

     preromana, come ha intuito Prosdocimi, si incontravano Veneti, Romani, popolazioniceltiche come i… Le tappe di questo percorso sono in parte note e corrispondono

     perfettamente con le vie del commercio del ferro: Würmlach immediatamente a valledel Passo di Monte Croce e Gurina nel Gailtal, l’importante centro economico e

     politico in cima al Magdalensberg (forse l’antica  Noreia) di cui si è portato alla lucerecentemente un complesso impianto cultuale, un centro, peraltro, dove è

    ampiamente documentata la lavorazione dei materiali ferrosi del circondario.Il contesto storico-epigrafico relativo a quest’area di contatto fu già delineato daMaria Pia Marchese. In tutte queste località esistono tracce dell’impiego della

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    scrittura venetica: ciò vale per Würmlach, per Gurina ma anche per il Magdalensbergnon ostante alcuni dubbi sollevati di recente sul frammento ceramico scoperto a suotempo da Egger. A Würmlach, in almeno un’iscrizione (Gt 14), è presente unantroponimo germanico ( Harto) accanto ad altre attestazioni ascrivibili al patrimonio

    onomastico celtico. I legami tra questi santuari e la stipe di Làgole di Calalzo nelcadorino, uno dei centri di scrittura più importanti dell’area venetica montana, èindubitabile e ciò porta a ritenere che, come a Este, anche questi santuari fungesseroda luoghi di apprendimento e di diffusione della scrittura. Ne conosciamorelativamente molti, anche di recente individuazione: a Làgole di Calalzo nel Cadore,a Meggiaro vicino Este, in località Fornace vicino ad Altino, ciascuno focolaio diirradiazione di scritture su ex-voto  o simili. In almeno un caso (Asolo), assaiinteressante, le incisioni alfabetiche fungevano da  sortes, secondo l’autorevoleopinione di Anna Marinetti, una «fenomenologia che trova solidarietà areale nellazona alpina/prealpina», specialmente retica. E la destinazione cleromantica non puònon rammentare analoga destinazione delle notae di cui parla Tacito a proposito delle

     popolazioni germaniche (de origine et situ Germanorum  10, 1-3) e di cui si ha uninteressante e preciso riscontro già per la metà del I secolo a.C. in un passo cesariano(de bello Gallico 1, 50 e, soprattutto, 1, 53).

    La scrittura venetica servì a trascrivere il nome di un germanofono almeno inun altro caso, quello della stipe con gli elmi di Negau la cui funzione di depositoreligioso («external simbolic storage », Markey 2001:75)  è stata definitivamentedimostrata da Thomas Markey. La scritta  Harigasti teiwa  dell’elmo B depostoattorno alla metà del I ecolo a.C., tuttavia, non è in grafia retica come erroneamente si

    ostina a credere Markey bensì in grafia venetica ‘periferica’, una grafia di cuiProsdocimi, dopo averne dichiarato la precisa collocazione paleografica, ha accertatola sopravvivenza sino al I secolo d.C., in piena epoca ‘protorunica’.

    Le analogie tra grafia venetica ‘periferica’ e rune germaniche sono stateindicate con riferimento alle singole lettere. La logica deduzione è che, lungo la ‘viadel ferro’ e nei santuari che ne segnavano le tappe, la scrittura venetica andavadiffondendosi in concomitanza con l’apertura delle strade romane verso il  Noricum,apertura che si può datare grosso modo attorno alla metà del secolo I a.C. Particolarerilievo, come si è detto, riveste l’attestazione di un frammento in chiara scrittura

    venetica sull’oppidum del Magdalensberg. Non sfugge l’importanza del reperto nonsolo per il ductus  delle singole lettere ma anche per il reperimento in un’areastrettamente connessa con il controllo del mercato del ferro in epoca tardo-latèniana.Attorno a quest’epoca il regnum Noricum  costituiva un’entità politica minacciatadalla pressione dei Galli Boi e degli Elvezi. Cesare ci offre una prova evidentissimadella tenace connessione culturale fra genti noriche e tribù germaniche chegravitavano attorno al medio corso del Reno:

    duae fuerunt Ariouisti uxores, una Sueba natione, quam domo secum duxerat, altera Norica, regis

    Voccionis soror, quam in Gallia duxerat, a fratre missam; utraque in ea fuga periit   (de belloGallico 1, 53).

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    In seno a questi rapporti si colloca il dato culturale fondamentale cui abbiamofatto più volte cenno. In queste zone si produceva il ferro con cui erano temprate learmi romane quali spade, punte di lancia. Queste armi e gli artigiani che lefabbricavano dovevano viaggiare verso nord e i loro prodotti erano senza dubbio

     particolarmente apprezzati («runic writing  – scrive la Looijenga – may have startedas soldiers’ and/or craftsmen’s skill »). Troveremo poi questi stessi oggetti, frutto di bottino o altro, iscritti con rune germaniche nei depositi votivi del II secolo d.C.:

    it appears that the the knowledge of the production of strong iron weapons was not very widespreadamong the German tribes. This probably prompted the import of Roman swords. Lønstrup states

    that over 100 Roman swords have been found in the Illerup bog. The swords may have been bought,captured or obtained as gifts. This last possibility only applies in Germanic foederati  near thelimes , because they were involved in the defence of the Empire. The hundreds of brand-new swordswhich habe been found in Scandinavia and Germany, and partly also in Poland, have been

    obtained as merchandise (Looijenga 2003:92-93).

    È chiaro che di questa direzione di espansione della scrittura parla Tacito in un passo ben noto della Germania, basato molto probabilmente sulla testimonianzaautoptica di Plinio di circa mezzo secolo prima:

    fuisse apud eos  [scil. Germanos ] et Herculem memorant, primumque omnium virorum fortium ituriin proelia canunt. Sunt illis haec quoque carmina, quorum relatu, quem barditum vocant, accenduntanimos futuraeque pugnae fortunam ipso cantu augurantur. Terrent enim trepidantve, prout sonuit

    acies, nec tam vocis ille quam virtutis concentus videtur. Adfectatur praecipue asperitas soni etfractum murmur, obiectis ad os scutis, quo plenior et gravior vox repercussu intumescat. Ceterum et

    Ulixen quidam opinantur longo illo et fabuloso errore in hunc Oceanum delatum adisse Germaniae

    terras, Asciburgiumque, quod in ripa Rheni situm hodieque incolitur, ab illo constitutum

    nominatumque; aram quin etiam Ulixi consecratam, adiecto Laertae patris nomine, eodem loco

    olim repertam, monumentaque et tumulos quosdam Graecis litteris inscriptos in confinio Germaniae

    Raetiaeque adhuc exstare. Quae neque confirmare argumentis neque refellere in animo est: ex

    ingenio suo quisque demat vel addat fidem  (de origine et situ Germanorum 3, 2). 

    A proposito di questo brano Diego Poli ha giustamente osservato che si stacitando «il luogo della prima alfabetizzazione dei Germani, avvenuta per il mezzo ‘dilettere greche’ » (Poli 2009:265). I commentatori per lo più non hanno compreso ilvalore preciso della testimonianza di Tacito. Eduard Norden, nel suo straordinariolibro sulle origini germaniche nell’opera tacitiana, ritenne che più che di iscrizioni‘nordetrusche’ (geograficamente non ben collocate) come pensava il Mommsen,Tacito si stesse riferendo alle iscrizioni in caratteri greci proprie delle popolazionigalliche di cui parlava anche Cesare (de bello Gallico 1, 29 e 6, 14).

    I commentatori hanno oscillato tra queste due ipotesi. Valmaggi rinviava ai«caratteri etruschi» di cui parlava genericamente Mommsen, e lo stesso faceva ilFurneaux (« probably the inscriptions were Etruscan; that language being akin to the Raetian and its alphabet from a Greek source»); nulla in Robinson e Fehrle-

    Hünnerkopf; Schweizer-Sidler si limitavano a presentare sia l’ipotesi gallo-greca siaquella ‘nordetrusca’ senza prendere posizione; Lund rimanda alle iscrizioni greche dicui parlano «einige Antiquare»; Anderson metteva in dubbio tutte le interpretazioni

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     possibili, inclusa quella ‘nordetrusca’ in quanto « such inscriptions have not been found anywhere near the boundary bettween Germany and Raetia» e più o menodella stessa opinione è l’italiano Galli; quanto a Much, nel suo famoso commento allaGermania, propende per l’interpretazione ‘nordetrusca’ pur con seri dubbi sulla

    collocazione troppo a settentrione di queste epigrafi, escludendo comunque (ecorrettamente) qualunque possibile allusione all’impiego dell’alfabeto massaliota da parte dei Celti. Non molti progressi nei commentatori moderni: per Risari « potrebbetrattarsi o di scrittura retica o nord-etrusca (derivata da quella greco-calcidese di

    Cuma) o di iscrizioni celtiche in alfabeto greco»; anche Rives parla di «Gallo-Greekinscriptions»; Lenaz crede, forse, a «iscrizioni sepolcrali etrusche o celtiche inalfabeto greco». Oniga, infine, sembrerebbe preferire l’ipotesi che dietro questaespressione si celassero «le tracce epigrafiche dell’antica civiltà retica».

    Pare indubitabile che Tacito collochi le tracce dell’espansione dell’alfabetoverso nord al di qua del limes  danubiano, più a occidente rispetto a quanto a noirisulta circa l’area di contatto transalpina fra cultura grafica venetica e popolazioniceltiche e germaniche. Ma si tratta di un’interpretazione solo parzialmente corretta. In

     primo luogo non si può parlare di iscrizioni greche (cioè galliche in grafia massaliota) sensu strictiore: queste testimonianze, infatti, sono documentate nell’area della Narbonense e non al confine germanico lungo il Danubio.

    In secondo luogo c’è un equivoco ermeneutico sulla dizione stessa di “letteregreche”. Poli ha acutamente osservato che «la menzione delle lettere greche appareessere un topos della interpretazione greco-romana, utilizzato per denominare

    indistintamente gli alfabeti “delle origini”» (Poli 2009:265). Una ricerca in corso di

    stampa dedicata alla citazione di testi protolatini presso gli storici romani (di cui hoanticipato i contenuti in due conferenze recenti) dimostra in maniera inoppugnabileche dietro l’espressione generica «Graecae litterae» si celavano per lo più scritturedal ductus  arcaico, che sul suolo italico erano superficialmente prossime ai modellietruschi e, di conseguenza, a quelli greci. Generalmente la direzione di scrittura diqueste epigrafi, a quel che è dato capire, era sinistrorsa, un elemento che nerafforzava la connotazione di estraneità e distanza culturale.

    In terzo luogo Tacito sembra impiegare la denominazione geografica (nongeopolitica, cioè di vera e propria prouincia) di Raetia con un’accezione molto ampia

    che, evidentemente, inglobava il  Noricum, la cui autonomia etnica non era piùindividuabile ai suoi tempi. Solo così si comprende quanto scrive all’inizio dellaGermania  ossia che «Germania omnis a Gallis Raetisque et Pannoniis, Rheno et Danuvio fluminibus, a Sarmatis Dacisque mutuo metu aut montibus separatur » (deorigine et situ Germanorum 1, 1). Pertanto il passo tacitiano combacia perfettamentecon l’area di contatto interculturale che abbiamo provato qui a individuare. Leiscrizioni di cui parla (o, meglio, di cui parlava Plinio) sono iscrizioni in caratterivenetici.

    Se quanto detto è vero, Tacito non fa che confermare puntualmente la

    ricostruzione dei percorsi che hanno condotto la scrittura venetica ad essere insegnatain luoghi di culto delle Alpi orientali e trasmessa, attraverso gli artigiani del ferro (i primi  Runenmeister   a noi noti), alle popolazioni germaniche lungo il Reno. La

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    mobilità caratterizza i supporti sui quali vennero apposte le prime iscrizioni runiche,molte delle quali inesorabilmente perdute in quanto su materiali organici deperibili.Di contro all’argomento più frequentemente impiegato dai sostenitori della tesi latinacontro la tesi ‘nordetrusca’ ossia la enorme distanza fra la presunta culla delle rune e

    le prime documentazioni, pertanto, «numerose sono le motivazioni che convincono anon caricare di peso probatorio l’assunto secondo cui ci debba essere prossimità geografica con i luoghi dei ritrovamenti delle prime iscrizioni» (Poli 2009:273).

    La scrittura runica veniva apposta su oggetti di impiego bellico che fungevanoda  status  symbols  delle nuove élite  germaniche createsi grazie all’incremento diricchezza nelle aree di contatto tra Roma e la Germania libera. L’impiego delle runeera funzionale non tanto all’indicazione della proprietà quanto alla valorizzazionedegli oggetti destinati o allo scambio prestigioso o all’offerta votiva nelle paludi enelle stipi scandinave.

    Tramontate la ‘via commerciale’ e la ‘via militare’ di impronta greco-latina,ecco dunque la ricostruzione – tutta ancora da studiare ed, eventualmente, daconsolidare – di una possibile ‘via del ferro’ alle rune di diretta provenienza venetica.