Malatesta - Prologo

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MALATESTA di Valeria F. Brignani 1

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Prima parte di "Malatesta", romanzo a puntate di Valeria Brignani

Transcript of Malatesta - Prologo

MALATESTA

di Valeria F. Brignani

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PROLOGO“NILDE”

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Settantasette giorni insieme

Nilde ha sedici anni e abita coi nonni a Colle Torto, un

piccolo paese di montagna con le strade strette, tortuose e ghiacciate

sei mesi l'anno: la casa del popolo, la chiesa ed una manciata di negozi,

case e capre disperse nel nord del Paese. Conosce Alberto da

settantasette giorni.

Lui abita giù in città, sta passando l'estate ospite dei

nonni dove è stato portato contro la sua volontà, anche se è

maggiorenne e avrebbe potuto andare al mare o girare l'Europa in

autostop, mandare tutti a quel paese o comunque decidere della sua

estate, eppure lui è lì.

Il suo arrivo non è passato inosservato: un grosso SUV

da parecchie decine di migliaia di euro, un uomo e una donna di mezza

età, nei loro vestiti eleganti. Lo hanno lasciato davanti all'edicola. Tutto

il paese osservava la scena. Si vede che sono gente coi soldi e con un

buon lavoro, diceva qualcuno.

Anche Nilde era lì. Avrebbe voluto afferrare per il

colletto qualcuno a caso e urlargli qualcosa, qualsiasi cosa, per farli

smettere di mormorare l'uno nell'orecchio dell'altro, per far loro

distogliere quello sguardo che scrutava e violava, ma non sapeva cosa...

Tra due anni se ne andrà. Ma due anni sono un’infinità per una ragazza

che ne ha appena sedici.

Quell’estate si annunciava lunga, noiosa e uguale a

tutte le altre. Nilde si sarebbe svegliata presto ogni mattina pur non

avendo nulla da fare. Avrebbe camminato nei boschi, ascoltato musica e

letto qualche libro.

Sarebbe andata a dormire senza aver sonno, per

sprofondare nella solitudine e nel buio della sua stanza. Avrebbe

osservato gli aerei che tagliano in due il cielo immaginando di essere lì,

nel sedile accanto al finestrino a guardare Colle Torto dall'alto, per

vedere il niente. Non voleva pensare a cosa sarebbe successo se non

fosse arrivato lui, ma adesso è lì e da settantasette giorni stanno

insieme.

Alberto, agli occhi degli altri, non è altro che il frutto di

un'educazione cittadina e moderna, con quei capelli lunghi, i vestiti

trasandati e quell'attitudine strafottente. Gli abitanti di Colle Torto lo

guardano, mormorano e si chiedono perché sia lì.

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«In questo paese devi chiedere il permesso per poter

respirare i peti degli altri» le aveva detto Nilde, provocando un certo

disgusto ad Alberto.

Nilde sa bene cosa vuol dire avere gli occhi degli altri

puntati addosso: orfana, poco socievole e persino vegetariana.

Ha smesso di mangiare carne da pochi mesi e nell'arco

di quarantotto ore tutto il paese ne era a conoscenza. Pure il prete si era

premurato di parlarle. La scelta di Nilde, archiviata come l'ennesima

stranezza della nipote di Evaristo, smise di alimentare le conversazioni in

piazza, al bar e in chiesa, solo con l'arrivo di Alberto.

A Colle Torto ognuno ha il suo maiale che viene ucciso,

alla prima luna del mese di Ottobre. Si sente l'eco delle grida per tutta la

valle, che suona come lo stridere di chiodi arrugginiti, su migliaia di

lavagne sporche.

C'è una precisa gerarchia che determina la successione

delle macellazioni: il primo è quello della Curia, il secondo quello del

sindaco, il terzo è quello dell'anziano del paese e così via... Tutti gli

uomini di Colle Torto formati, diretti e motivati dal macellaio procedono

all'uccisione del porco.

Nilde, il passato autunno ha fatto scappare il maiale

della sua famiglia, perché gli voleva bene e non voleva che lo

uccidessero. Lo aveva scelto lei alla fiera agricola, per via di quella

macchia nera sull'occhio destro. Si chiamava Pirata ed era così piccolo

che poteva tenerlo in braccio come un grosso gatto.

In Autunno cominciò a provare pena per lui e decise di

liberarlo, ma era così grasso e sedato dalla sovralimentazione che fece

poca strada. Lo trovarono subito e lei per mesi, subì la vista dell'animale

fatto a pezzi, tritato, infilato nel proprio intestino e appeso al soffitto.

Pirata non c'era più, ma c'erano prosciutti, salami, cotiche e sanguinacci

per soddisfare la fame atavica dei nonni.

Da allora smise di dare nomi alle bestie di casa e decise

di diventare vegetariana. Pensò di boicottare la festa con cui si

concludeva la mattanza, ma ci rinunciò in favore di una diplomatica

assenza giustificata.

«Non voglio festeggiare lo sgozzamento di decine e

decine di animali!» aveva protestato Nilde e i nonni, che la lasciarono a

casa per unirsi ai festeggiamenti, dissero che la piccola non stava bene.

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«É perché non mangia carne... le proteine sono

importanti!» sentenziò il macellaio, coccolandosi la pancia tonda con lo

stesso amore di una donna gravida, per il proprio ventre fecondato.

In un paese in cui è inverno sei mesi l'anno bisogna

imparare a fare i conti con la noia. Si guarda tanta televisione, ma non

basta e quindi ci si ubriaca, si parla, si sparla, ci si ubriaca ancora e si

fanno feste per ogni sciocchezza.

Gli abitanti di Colle Torto, noti nella valle come i

Cortesi(non senza una certo sarcasmo), festeggiano i solstizi e le prime

fioriture, l'arrivo degli stormi di uccelli migratori e l'inizio della stagione

della caccia. Durante i festeggiamenti si accendono falò, si ammazzano

animali, si balla e si beve fino allo sfinimento. A Colle Torto pure le

donne muoiono di cirrosi.

Nati e cresciuti in mezzo ai boschi, credono più al

potere della foresta, che a quello dello Spirito Santo, ma ciò nonostante

le diverse generazioni di parroci che si sono susseguiti, hanno fatto un

buon lavoro e ogni abitante di Colle Torto frequenta la chiesa, prende i

sacramenti e teme il male che proviene dalle profondità degli inferi.

La terra che protegge i semi durante l'inverno e nutre le

radici della vita stessa... difficile immaginarla come origine e fine del

peccato e di ogni peccatore.

In ogni modo a Colle Torto è sempre festa e Nilde

vorrebbe scomparire dentro ai suoi vestiti neri.

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Il mondo fuori da qui.

Alberto tira un pugno al volante dell'auto, ma lo fa

piano perché non ha nessuna intenzione di farsi male, oggi. Lui e Nilde

nella Panda 4x4 del nonno, ad ascoltare la musica dal suo lettore con un

auricolare a testa, che è un po' come stare soli anche se sono insieme.

Non sono obbligati a parlare e il silenzio della montagna non risulta così

assordante.

«Qui tutti hanno la Panda o l'Ape» gli aveva detto Nilde,

la prima volta che erano saliti sulla macchina del nonno di Alberto, senza

che lui riuscisse a nascondere una certa vergogna per quella scatoletta

di lamiera marrone.

«Sì marrone, marrone diarrea... ce ne sono parecchie

qui» aveva detto la ragazza divertita, rendendosi conto di non aver mai

considerato l'auto come qualcosa dotato di un'estetica.

«Giù in città come sono le macchine?»

«Non so... sono più grosse e soprattutto non sono

marroni.»

«Beh... qui non siamo in città.» aveva protestato Nilde.

Sono passate diverse settimane e quella scatola di

lamiera color diarrea, è il luogo in cui passano le loro giornate. Alberto e

Nilde si parlano per ore interminabili, ascoltano la musica e si scoprono

l'un l'altro.

A Colle Torto tutti conoscono la ragazza e nessuno le ha

mai chiesto “chi sei?”. Alberto invece lo ha fatto. Ciò che li unisce e la

volontà di essere altrove.

Ora sono nella Panda marrone, i sedili anteriori

abbassati, Nilde e Alberto sono sdraiati sul fianco, uno di fronte all'altro

e si stringono come quei due scheletri di Valdarno abbracciati da seimila

anni.

«Perché sei qua?» gli chiede Nilde

«Niente. Ho fatto incazzare i miei...» risponde Alberto,

frugando frenetico nelle tasche. Trova il cellulare, lo accende e passa

una cuffietta a lei, decretando così la fine della conversazione.

La musica è quella di un'artista morto qualche decennio

prima della loro nascita. Chitarre distorte, amplificatori sibilanti e voci

sporche di rabbia. Ma dopo un paio di brani, Alberto si alza a sedere e

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tira quel pugno al volante.

«Fanculo!» digrigna tra i denti, si toglie l'auricolare

come se si stesse liberando da una ragnatela gigante e guarda negli

occhi Nilde, nascosto dietro ai suoi occhiali da sole.

«Mi sono sdraiato sui binari... non so. Tipo che volevo

farmi fuori.»

«E poi?»

«E poi... un cazzo. Ho avuto paura. Ecco, cosa è

successo. Mi sono alzato e me ne sono tornato a casa.»

Alberto esce dalla macchina e si stiracchia alzando le

braccia al cielo e arcuando la schiena all'indietro, come un gatto che

spazza via l'intorpidimento che gli si è appiccicato dopo una lunga

dormita. Spalanca la bocca e trasforma un pigro sbadiglio in un urlo che

riecheggia tra i boschi. Alcuni corvi rispondono gracchiando e

sollevandosi in volo dalle chiome dei sempreverdi.

Nilde scavalca il cambio e il freno a mano e si mette al

posto di guida.

«Fra due anni e poco più di un mese, faccio la patente»

dice posando le mani sul volante e sterzando a destra e sinistra,

schiaccia l'acceleratore, immaginandosi lanciata ad una velocità

supersonica lontana da Colle Torto.

«Fra un mese è il mio compleanno, faccio sedici anni,

dici che saremo ancora insieme? »

Tra tutte le sfortune che possono affliggere la vita di

un'adolescente, oltre a quella di essere orfana e di vivere in un paesino

sperduto tra i monti, a Nilde è toccata pure quella di compiere gli anni in

estate. Nessuna festa con gli amici e nessun pacchetto da scartare a

parte quello dei nonni. Quest'anno lo festeggerà sola con Alberto, poiché

non ha mai cercato (e mai lo farà) la compagnia delle coetanee di Colle

Torto.

Le osserva. Parla con loro alla fermata dell'autobus.

Vede il loro destino che, come un binario di cemento armato e acciaio, si

srotola passo dopo passo. Assecondare il corso degli eventi, proseguire il

lavoro del padre e sposare l'amico d'infanzia, per esempio. Figliare ed

esprimere più volte nell'arco di una conversazione, quanto sia buona

l'aria di montagna e quanto sia perfetta Colle Torto per crescere la

propria prole. Non provare vergogna per la propria pochezza culturale...

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Nilde schiaccia fino in fondo il pedale dell'acceleratore dell'auto spenta,

«Bruuuum...».

«E tu?» Alberto fa il giro dell'auto, calcia una pigna con

le scarpe da basket logore e si appoggia al cofano.

«Cosa?» le chiede Nilde raggiungendolo e infilandosi

sotto il suo braccio. Lui la stringe a sé.

«Perché sei qui? Cioè... coi tuoi nonni.»

Alberto le chiede ciò che nessuno le aveva domandato

prima. Nilde formula la risposta nella testa un paio di volte, chiedendosi

se sarebbe risultata così patetica anche a voce alta, ma quei secondi di

ritardo e quell'esitazione vengono letti dal ragazzo come chiari e

struggenti segnali di sconforto.

«Scusami, non te lo dovevo chiedere. Sono un

coglione...» balbetta mortificato, liberando Nilde dal suo abbraccio,

allontanandosi dal cofano di qualche passo e voltandole la schiena.

«No... non ti devi scusare..anzi... è che nessuno mi ha

mai fatto questa domanda.»

«Come nessuno?» Alberto si gira verso di lei, senza

guardarla in faccia, calpestando i fiori sul ciglio della strada.

«Nessuno. Nessuno me lo ha mai chiesto perché tutti lo

sanno di già... »

«Ah... Tutti tutti?»

«Sì, tutti lo sanno e nessuno ne parla con me o coi miei

nonni. É una specie di tabù, ecco...»

«Un tabù? In che senso?»

«Mi sa che gli faccio un po' pena, non so... Vedi, i miei

genitori... dunque, mio padre non so chi sia... credo sia un figlio di

puttana che ha sedotto e abbandonato mia madre. Di lui non si sa nulla.

Mia madre... non ho mai conosciuto mia madre.»

Dillo Nilde, dillo ad alta voce. Dì quella parola.

Diglielo...

«É morta. Mia madre è morta» dice come se non le

importasse, lo dice studiandosi una mano, come se non l'avesse mai

vista prima. Con il pollice gratta l'unghia del medio, facendo saltare

piccoli pezzi di smalto scuro.

«É stata uccisa giù in città quando io non avevo

neanche un anno. Dicono che sia stato un pazzo... un drogato o

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qualcosa del genere.»

A Nilde sudano le mani e se le passa più volte sui

pantaloni di velluto nero, ma il sudore non va via. É freddo, viscido e

gelido, collocato sotto troppi strati di pelle per poterlo asciugare.

«Mi dispiace» le dice Alberto.

«E di che? Mica l'hai uccisa tu e comunque ero troppo

piccola. Non me la ricordo neanche» dice lei, ingoiando le lacrime che

non vuole versare. Non si può piangere per qualcosa che non si è mai

avuto.

I due giovani amanti tornano nell'automobile e il sole

del pomeriggio estivo si nasconde dietro alla vetta della montagna,

lasciando un senso di vuoto incolmabile dalla mera consapevolezza che

mancano ancora molte ore al buio e al freddo della notte.

Presto il tramonto incendierà il cielo e Nilde e Alberto

torneranno a casa per la cena, mangeranno in fretta pur non avendo

fame, aspettando solo il momento di poter tornare insieme. Loro due

soli nella Panda color diarrea e l'incapacità di ammettere che volendosi

bene, tutto risulta più accettabile.

«É per questo che ti vesti sempre di nero? É una specie

di lutto? No?» le chiede Alberto, intanto che le sue dita sfilano dall'asola

i piccoli bottoni della camicetta nera di lei.»

Il guardaroba di Nilde, persino da bambina, è sempre

stato caratterizzato da una varietà di sfumature che vanno dal nero

pece, al nero antracite, al nero corvino. Il nero serve per non

dimenticare.

«Non è stata una mia scelta, da queste parti si usa

così... E tu? Perché ti metti gli occhiali scuri anche quando il sole non

c'è?»

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Il Lago Bugiardo

“A Forest” The Cure

L'acqua verde e torpida del piccolo lago ha scavato nella

terra una conca, nascondendosi dietro la linea dell'orizzonte. Sta lì,

come accucciata, con le fronde odorose degli abeti a proteggerla dagli

sguardi indiscreti. Bisogna stare attenti a non cadere perché ad un certo

punto, senza alcun preavviso, il sentiero finisce e brusco, precipita per

un paio di metri verso lo specchio d'acqua.

I ragazzi più giovani usavano prendere la rincorsa per

tuffarcisi, ma ora l'acqua è scura e non si può mai sapere cosa

nasconde. Gli adulti sconsigliano di fare il bagno in quella pozza, che un

tempo forniva pesce d'acqua dolce a tutti gli abitanti di Colle Torto.

Ora lì ci vivono solo le carpe, pesci enormi e

antichissimi dello stesso colore del fango, con grosse bocche rosa e

carnose che sbocconcellano la fanghiglia dei fondali in cerca di uova,

vermi, avannotti e altre leccornie. Oltre al colore, del fango ne

condividono anche il sapore, ed è grazie a questa loro caratteristica se

sono state risparmiate dalla voracità degli abitanti di Colle Torto. Le

hanno lasciate crescere indisturbate per decenni, in quello che in paese

viene chiamato il lago bugiardo.

Nilde ha rubato una damigiana di vino dalla cantina

sociale dove continua a lavorare suo nonno Evaristo, sebbene sia in

pensione da millenni. Ha intenzione di ubriacarsi in modo vergognoso, di

farlo insieme ad Alberto e di perdersi nei boschi. Ha preparato dei panini

e dei biscotti per la giornata. Ha recuperato una coperta e un paio di libri

presi in prestito dalla piccola biblioteca di Colle Torto. Sarà il compleanno

più bello della sua vita.

Alberto arranca e ha il fiatone. É rosso in volto, ma non

vuole chiedere alla ragazza di rallentare anche se fa fatica a camminare

sul terreno accidentato del bosco, con le radici nascoste dal fogliame che

tendono tranelli, i rami pronti a colpirti e le ragnatele che si appiccicano

alla faccia. Ha caldo e suda. Nilde ama il suo odore.

Ciò che è il proprio puzzo di sudore per Alberto (motivo

di vergogna, imbarazzo e di lavaggi punitivi e purificatori), è invece

causa di subbuglio ormonale ed anatomico per lei; il cuore pulsante e

impazzito, le finisce nel ventre, per poi scendere ancora ed esploderle in

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mezzo alle gambe come un fulmine, un corto circuito, una scossa

elettrica... e per quanto Nilde si sforzi di mantenere la calma ed essere

razionale, nulla può contro l'innegabile natura dell'animale-uomo e a

quel suo obiettivo primario del proseguimento della specie.

«Leggo Nietzsche e Pasolini, eppure non riesco a fare a

meno di pensare a certe cose... Mi deconcentro. Assecondando la nostra

natura, non dovremmo fare altro che accoppiarci come conigli...»

scrisse in una lettera, che mai avrebbe consegnato, una Nilde

emotivamente sconvolta dalla potenza inaspettata del desiderio

sessuale.

«A Colle Torto sono bravi a far figli. Sembra che non

facciano altro... anche se sospetto che sia in buon parte la quantità di

grappa ingurgitata, piuttosto che i feromoni, a fare copulare e figliare i

pochi Cortesi sessualmente attivi.»

Il lago si svela all'improvviso e lascia Alberto immobile

sui suoi piedi doloranti.

«Vieni a vedere...» dice Nilde, lasciando lo zaino per

terra e calandosi verso la riva.

«Su... muoviti.»

Alberto studia il percorso e si butta giù verso l'acqua,

tenendosi stretto alle radici di un castagno che emergono dalla terra.

Una manciata di piccoli grilli marroni precede ogni suo passo.

«Guarda...»

Nilde si piega sulle ginocchia e con un pezzo di pane tra

le dita, posa le mani sulla superficie dell'acqua, generando mille centri

concentrici.

Le carpe emergono dal fondo del lago e timide si

avvicinano alla mano di Nilde.

«Che bestie!»

«Shhhh» Nilde zittisce Alberto, «Parla piano e muoviti

lentamente, sennò scappano...»

Alberto si avvicina all'acqua e si accuccia vicino a Nilde.

Ha l'orlo sfilacciato dei jeans sporco di fango, trattiene il respiro. I pesci

sono enormi. Le carpe più grosse misurano fino a due o tre spanne,

forse quattro e hanno bocche giganti e tonde, che aperte ricordano una

tazzina da caffè.

«Ora mangiano... vedrai...» e così è, le carpe con le

loro grosse bocche a tazzina di caffè si avvicinano alla mano di Nilde e

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succhiano con degli schiocchi e dei risucchi. Nilde, con la mano libera, le

accarezza la testa e ride forte.

«Mi fate il solletico... piano, piano ce n'è per tutte!»

dice docile alle carpe.

Alberto la contempla infatuato, sorpreso dalla sua

incredibile dolcezza e un po' schifato da quei grossi pesci color fango,

attaccati come ventose alle mani della ragazza.

«Prova anche tu... É divertente.»

Alberto piega il sopracciglio e scruta la massa brulicante

di carpe affamate.

«Non so... fanno un po' schifo...»

«Mica avrai paura? Guarda che non hanno i denti...»

«No dai, ora non mi va... magari dopo, eh?»

Nilde si alza di scatto, spaventando i pesci che saltano,

sgusciano e si abissano lì, nelle profondità dell'acqua che cela e

nasconde del Lago Bugiardo.

«Vabbé... non ti piacciono, ho capito.» constata Nilde,

arrampicandosi sulla riva e raggiungendo il sentiero.

Tira fuori la coperta dallo zaino e alza la testa al cielo,

con una mano protegge gli occhi dalla luce del mattino. Appoggiando

pollici ed indici su entrambi i fianchi, si guarda intorno alla ricerca del

posto migliore dove allestire il banchetto del suo compleanno.

«Qui!» fa un paio di passi verso una quercia e con un

gesto deciso lancia la coperta, facendola atterrare sulle foglie e le

ghiande cadute al suolo.

I due si siedono e mangiano in silenzio senza guardarsi

negli occhi. Non hanno mai condiviso un pasto. Non vogliono parlare con

la bocca piena e mostrare ciò che contiene e quindi stanno zitti.

Masticano guardandosi attorno. Ed è dopo aver mangiato e bevuto

parecchi sorsi di vino che i due ragazzi si abbracciano sulla coperta.

Guardano i puntini di cielo azzurro tra le foglie degli alberi. Ascoltano i

corvi che gracchiano e le loro poderose ali che sbattono da un ramo

all'altro. Si sentono i piccoli passi degli scoiattoli e gli spruzzi d'acqua

della carpe che saltano nel Lago Bugiardo.

«I miei hanno trovato il mio video-testamento» dice

Alberto tutto d'un fiato.

«Eh?»

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«Video-testamento... cioè io che mi riprendo e spiego il

perché del mio gesto... del perché mi sarei sdraiato sui binari...»

«Tipo una lettera d'addio? Oh merda... che tristezza.»

«Sì, più o meno. Cosa volevi che usassi? Pergamena e

penna d'oca, eh? Cristo Nilde... quanti cazzo di anni hai? Cinquanta?»

Alberto scansa Nilde da sé e si alza di scatto cercando d'infilare i piedi

nella scarpe abbandonate fuori dalla coperta.

«Scusa...scusa. Non t'interrompo più. É che mi

sembrava un po' ridicolo vederti davanti ad una telecamera del cellulare

a dire “addio mondo crudele”.» Non sa perché fa così... Perché non vuole

prenderlo sul serio? Non può farne a meno. Nilde è furiosa. Perché

voleva farlo? Proprio lui che ha tutto, voleva morire?

Alberto sente quella parte del cervello in cui sonnecchia

la rabbia che pompa sangue e ne chiede ancora. Il vino e il sole, come

una fattore esponenziale, moltiplicano la collera e lui perde il controllo.

«Che cazzo vuoi, eh Nilde? Che cazzo ne puoi sapere tu

di quella che è la mia vita? Sei solo una ragazzina che vive in un buco di

culo di sputo di montagna... »

Nilde, con una bolla di lacrime dietro ai bulbi oculari

pronta ad esplodere, si alza in piedi di colpo e trema di collera. É la

prima volta che litigano ed è strano per entrambi constatare quanto sia

sottile la linea di demarcazione tra odio e amore. Per quanto si amino,

perché è amore quello che li unisce, in questo momento vorrebbero solo

vincere. Uno contro l'altro. Ferirsi fino a far perire l'altro e mandarlo al

tappeto con le peggiori armi, se necessario.

«Hey, non ho scelto io di vivere in un paesino di merda,

non ho scelto di vivere coi miei nonni... Eppure non sono io quella che

si è fatto segare alla maturità e non sono io quella che si è sdraiata su

dei cazzo di binari, o no?»

«É perché Colle Torto fa così schifo che manco i treni ci

arrivano!»

Nilde e Alberto in piedi, uno di fronte all'altro urlano in

mezzo agli alberi del bosco, i corvi gracchiano e le carpe saltano e loro

due, si guardando negli occhi, si sfidano... sanno bene che il prossimo

che parlerà, determinerà l'esito della battaglia. Al prossimo toccherà la

scelta se portare lo scontro all'estremo o se far sgonfiare la tensione.

La collera di Nilde risiede nelle sue braccia, scorre nelle

sue vene e arriva fino alla punta delle dita, fino alle unghie... come rovi

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rampicanti che pungono e la fanno sanguinare. L'orgoglio ferito di

Alberto, la sua frustrazione, albergano invece in quelle vecchie scarpe

sporche e puzzolenti.

La sua reazione ad ogni tipo di conflitto è sempre stata

la medesima: la fuga, ma da Nilde e dalle sue dita puntute che lo

afferrano per la spalla e rivendicano, pretendono una reazione, è

impossibile scappare.

Si amano. Faranno presto la pace. Lo faranno voraci,

baciandosi come se si mordessero, col moccio al naso e le lacrime

secche sulle guance che si leccheranno per sentire il sale.

«Ti amo, sai? Cioè... non l'ho mai detto a nessuno. Ma

credo di amarti.»

«Lo farai anche quando tornerai giù in città. Mi amerai

anche lì?»

«Quando sono con te... io... tu, metti a tacere i miei

demoni.»

Così, i due giovani amanti si promisero l'amore eterno,

fingendo che quell'estate non sarebbe mai finita.

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La visione di Evaristo

Alberto guarda le valigie pronte sul letto della piccola

camera in cui ha dormito nelle ultime settimane. I libri che le ha

prestato Nilde sul comodino e il suo lettore mp3 sul cuscino. Lo regalerà

a Nilde. Ci sono dentro sedici ore di musica che sembra sia stata

composta solo per loro.

Il giorno della partenza si avvicina, tutta la voglia di

tornare in città è svanita come l'asma che lo ha sempre soffocato. Da

quando è a Colle Torto niente più spruzzate di Ventolin.

“Che nome stronzo” pensa Alberto tirando fuori dalla

tasca dei jeans l'erogatore e sparandosi una dose in bocca, più per

abitudine che per necessità. Il sapore schifoso gli ricorda i suoi genitori.

Nilde non ha chiuso occhio. Ha pianto tutta la notte, ha

stretto forte il cuscino tra le braccia. Ne ha affondato le dita dentro fino

a farsi male. Lo ha morso fino a togliersi il respiro. Poi si è alzata e ha

buttato alcuni vestiti in uno zaino e ha cominciato a scrivere una lettera

per i suoi nonni, pur non sapendo cosa scrivere. Perdonatemi...

Ha deciso che seguirà Alberto. Hanno ancora un paio di

giorni a disposizione per progettare tutto quanto. Lui ha amici ovunque,

gente conosciuta su internet, gente che vive dentro a squat meravigliosi

dove una stanza e un materasso lo si trova sempre. Dovranno smettere

di andare a scuola. Lei potrebbe lavorare in una libreria e lui? Lui

potrebbe fare qualsiasi cosa per lei.

«Allora è deciso, vengo con te in città...»

Sono per l'ennesima volta nella panda marrone del

nonno di Alberto, stanno ascoltando la musica e hanno paura. Si

stringono le mani. Si accarezzano le dita.

«Dovremmo prenderci la Panda. Sarebbe un'ottima

base d'appoggio per i primi tempi...»

«Beh, sarebbe perfetto... Fino a quando non troviamo

una sistemazione, no? Poi potremmo restituirgliela...»

«Ho un po' di soldi sul conto in posta. Potrei lasciarli a

mio nonno... quanto può valere 'sto catorcio?» Alberto tira fuori il

cellulare e cerca sul web le quotazioni della macchina.

«Di che anno è?» chiede.

«Non so, aspe' che guardo il libretto. Dunque... » Nilde

sfoglia le carte riposte ordinatamente nel portaoggetti.

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«Dov'è che si guarda, eh?»

«Boh... non ho mai guardato un libretto.»

«Neanch'io... che poi non è un libretto vero e proprio,

cioè sono sfogli a cazzo. Ah, forse l'ho trovato. Mmh... Sembra che

questa macchina sia del 1999, cioè tipo che ha la mia età!»

«Mphf...»

«Beh... quanto vale? Anch'io ho dei soldi da parte.

Credo che dovremmo comprarcela...»

«Sto guardando...» dice Alberto, ma la sua ricerca

viene interrotta da una chiamata ed è il telefono di Nilde a suonare.

Ingrid, la barista della Casa Del Popolo e vuole che vada a prendere suo

nonno. Dice che è fuori di sé. Sbuffa... è la terza volta nell'arco

dell'ultimo mese che succede: Nonno Evaristo ha un umore pessimo, il

suo nervosismo e la tacita passività di Nonna Adele, non fanno altro che

legittimare la decisione di Nilde. “Devo scappare via da qui... o

impazzirò” pensa.

Nonno Evaristo, seduto ad un tavolo in fondo alla sala,

è solo e bestemmia contro chiunque si avvicini.

«Lo sai piccola, che sei l'unica che riesce a calmarlo

quando è così...» le dice Ingrid.

Nonno Evaristo ha la testa china appoggiata sul suo

pugno e ogni tanto si colpisce la fronte. Doveva essere un bell'uomo da

giovane o almeno così dicono. Ora è un vecchio, coi capillari rotti sul

naso e la barba sempre sfatta. Sebbene se la faccia ogni mattina (la sua

pelle profuma di schiuma fino alle prime ore del pomeriggio), la sera

sembra che non si rada da settimane. Ora, intorno a sé, emana un sorta

di aura di grappa.

Ad Alberto fa schifo l'odore della grappa, così acre e

pungente. La casa del popolo ne sembra inzuppata, il pavimento è

appiccicoso e per quanto Ingrid lo pulisca, è come se la grappa sia parte

di ogni cosa. Ogni singola molecola di Colle Torto puzza di grappa.

Nonno Evaristo tiene la testa su un pugno e con l'altra

mano avvolge un bicchiere, come si protegge qualcosa di delicato e

prezioso.

Quando entrano nella Casa del Popolo tutti si girano a

guardarli, il figlio di e l'orfana. Su di loro, il peso schiacciante di genitori

troppo ingombranti o troppo fantasmi. Tutti sussurrano qualcosa

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nell'orecchio del vicino. Tutti conoscono la storia di Nilde, ma tutti

devono ricordarsela l'un l'altro quando la vedono.

«Si sta facendo proprio una bella ragazza» dicono,

oppure: “Povera piccola”.

Povera piccola Nilde.

Nilde non è bella... Ossuta e spilungona, ha braccia

lunghissime che pendono da spalle troppo maschili. L'incarnato pallido

tendente al bianco perla (il sole su di lei, non lascia il minimo segno) è

spruzzato di lentiggini pollockiane, che deve aver per forza ereditato dal

padre fantasma. No, non è una bellezza... É acida e acerba come una

mela verde.

«Nonno?!? Sono io, Nilde. Andiamo a casa. É tardi.»

Lui alza la testa e le sorride e la guarda con tutta la

dolcezza e l'amore che gli sono rimasti negli occhi.

«La mia streghetta... quanto sei bella! Sei uguale a...»

Nonostante tutto l'amore che prova, non ce la fa e

abbassa di nuovo lo sguardo, si butta in gola l'ultimo sorso di grappa ed

ogni volta è come se si spegnesse. Nonno Evaristo non riesce più a

guardare Nilde in faccia.

«Assomigli così tanto a tua madre, piccola...»

L'amore, la tenerezza, l'affetto... non bastano a far

tacere il dolore. Ogni giorno che passa Nilde assomiglia sempre di più a

lei ed è insostenibile per un uomo che ha dovuto riconoscere il cadavere

della propria figlia.

Come nel peggiore dei film dell'orrore, Nonno Evaristo

guarda Nilde e la pelle luminosa della ragazza, appassisce nel grigio

livore di quel corpo nella cella frigorifera dell'obitorio. Il piccolo naso

tempestato di efelidi, si accartoccia e si deforma, sfregiato dalla

lacerazione provocata dalla frattura dell'osso nasale. I suoi occhi

perdono luce e vita, diventando una massa rossa-violacea, che sporge

dal volto come bulbi di giacinti troppo grossi per il proprio vaso.

Delle quattro fratture riscontrate nel rapporto del

coroner (il naso, lo zigomo, la mascella e il cranio), solo una risultò

letale per Lisa, la madre di Nilde.

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Un desiderabile sconvolgimento.

Il giorno in cui Nilde ed Alberto dovevano progettare la

propria fuga, si è trasformato in qualcosa di diverso.

Alla casa del Popolo c'era pure Sandro, il nonno di

Alberto e tutti e tre insieme, hanno accompagnato nonno Evaristo a

casa. I vecchi parlano fitti fitti e i giovani stanno fuori, seduti per terra

ad abbracciarsi le ginocchia, cercando di origliare e di captare qualche

parola.

Le sbronze tristi di nonno Evaristo stanno preoccupando

i vecchi della Casa Del Popolo. Tutti uniti hanno deciso di affrontare di

petto la situazione. Evaristo non è più di compagnia e rappresenta una

minaccia per l'allegria paciotta e intrisa di grappa della Casa Del Popolo.

«In effetti negli ultimi tempi, mio nonno sta bevendo

più del solito. Pure mia nonna è fuori. Sono strani, sai? Mi sa che sanno,

cioè sospettano di me e te... insomma... che sappiano qualcosa, ecco.»

Il mormorio al di là della porta è indecifrabile, ma a

Nilde sembra di sentire il suo nome e quello di Alberto ripetuto in loop,

alternato a parole come sesso, vergine, bambina, scandalo, fuga.

Nilde-Vergine-Alberto-Sesso-Scandalo-Fuga.

E ancora Nilde, Vergine, Alberto, Sesso, Vergogna,

VERGOGNA.

Nilde sente pronunciare la parola incosciente e il

sospetto che abbiano scoperto il suo piano, diventa certezza e

condanna.

“Gli ho spezzato il cuore”, pensa.

Nonna Adele sta piangendo. Nonno Sandro ha in mano

una busta, si siede senza chiedere il permesso di accomodarsi, ma

l'anziana donna neanche lo nota. In qualsiasi altro momento, avrebbe

giudicato il comportamento dell'uomo oltremodo sconveniente. In

qualsiasi altro momento, ma non in questo in cui Nonno Sandro estrae

un paio di fogli dalla busta e fa cadere una foto che raccoglie, prima di

cominciare a leggere.

Nonna Adele intanto, piange sommessa e dà baci a quel

ciondolo che porta al collo, quel maledetto ciondolo che tanto fa infuriare

Nilde, poiché in esso è riposto il sorriso morto della morta Lisa. Morta.

Defunta. Ammazzata. Seppellita al cimitero di Colle Torto. Con tutto il

18

paese al funerale e i giornalisti venuti dalla città.

Le lacrime di nonna Adele in televisione, insieme al

pugno rancoroso di nonno Evaristo che chiedeva giustizia. Nessuno

potrà restituirci nostra figlia, ma...

Da allora sono passati quindici anni.

In ogni stanza della casa ad esclusione del cesso, c'è

una foto di Lisa sorridente. La stessa immagine sulla lapide. La stessa

foto nel ciondolo. Lo stesso sorriso, quegli occhi neri e quello sguardo

duro.

«Com'era, nonna?» chiedeva Nilde da bambina.

«Com'era la mia mamma?» chiedeva facendo coi

pastelli, un brutto ritratto della madre mai vista, se non in quella foto.

«Cosa si staranno dicendo secondo te, eh? Dici che è

tanto grave?»

«Non so... Cazzo, non si sente niente di quello che

dicono».

Nilde si alza decisa, si guarda intorno e si arrampica su

una catasta di legno ammassata al muro esterno della casa. Dall'alto è

possibile, allungandosi sulle punte dei piedi, sbirciare dentro il

lucernario.

«Hey, non t'ammazzare...» bisbiglia Alberto allarmato.

Nilde inciampa e dalla pigna di legna partono un paio di

ceppi che rotolano sulla strada lastricata d pietre.

Il rumore rimbomba nella notte. Per un momento

smettono di respirare, neanche il cuore osa battere, ma poi riprende con

un sordo e cupo tum-tum che sentono nella gola e sconquassa i loro

petti. Strizzano gli occhi e mostrano i denti come se si aspettassero una

grossa sberla corale e punitiva, ma non accade nulla. Nessuno esce dalla

porta a vedere chi o cosa abbia provocato quel rumore, perché tutto

quello che sta accadendo fuori da quelle mura, non è importante.

«No, non può essere solo grave, deve essere per forza

una tragedia...» conclude Nilde.

Alberto si accuccia di fianco a Nilde, appoggia la testa

sulla sua, dà dei leggeri colpetti col collo, come fanno i gatti che cercano

e danno affetto senza voler disturbare. Nilde vorrebbe baciarlo, ma si

vergogna a protendersi verso di lui. Ha fatto le prove davanti allo

specchio ed ha una faccia ridicola.

19

Sentono dei passi. Il nonno di Alberto sta per uscire e

sforza la maniglia interna della porta.

«Andiamo a casa, Alberto. Nilde ha bisogno di dormire,

domani sarà una lunga giornata per lei», lo dice in modo tale da non

lasciare spazio ad alcuna replica.

«Senti, nonno... se è per quello che....», ma il nonno di

Alberto lo interrompe.

«Quello che fate o avete intenzione di fare non è affare

mio, al momento...»

Alberto arrossisce e abbassa la testa e così fa lei.

Sembrano due bambini che sono stati beccati a rubare i fumetti in

edicola.

«Dai la buona notte a Nilde, Alberto.»

«Buonanotte Nilde.»

«Buona notte Alberto e buonanotte signor edicolante.»

Nilde ha paura ad entrare. Tergiversa e si guarda un po'

intorno. Guarda il cielo e pensa alla prima notte insieme ad Alberto e

alla sua meraviglia nel constatare, quanta bellezza ci fosse sopra la sua

testa.

«É qualcosa che non siamo abituati a fare... guardare

all'insù dico... siamo troppo concentrati a non pestare qualche merda di

cane sul marciapiede o non andare addosso a qualcuno. E poi ci sono le

vetrine che colmano i vuoti della nostra attenzione, tra una merda di

cane e un passante. No, non abbiamo proprio tempo di guardare il cielo»

disse Alberto, tenendola stretta tra le braccia.

Vorrebbe essere lì. Vorrebbe tornare indietro di un paio

di mesi a quando tutto era semplice. Lei, Alberto e i baci nella Panda di

lui.

Ha paura della tristezza infinita di suo nonno. Ha paura

che quello che le diranno potrebbe cambiare per sempre la sua vita, ma

ha sedici anni e qualsiasi tipo di sconvolgimento non può che risultarle

desiderabile, dopotutto e così Nilde varca quella soglia.

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Una forma di violenza.

Alberto detestava le menzogne, soprattutto quelle a fin

di bene. Mal sopportava chi nascondeva verità giudicate pericolose,

dolorose o sovversive.

“Forzare all'ingenuità è un forma di violenza e di

oppressione” pensava, eppure aveva deciso di non dirle niente, ed ora

Nilde lo odia.

«Tu lo sapevi!» disse la ragazza accusandolo.

«Nilde... cazzo, come potevo... come facevo... » Alberto

si strinse tra le spalle e abbassò la testa fino a sfiorarsi il petto col

mento. I tendini del collo tirati e doloranti, gli occhi di lei puntati

addosso.

Come poteva? Come poteva raccontare quello che

sapeva? Come poteva svelare una menzogna lunga sedici anni?

«Tu lo sapevi e non mi ha detto niente. Tu lo sapevi,

merda. Come... come hai potuto tenermelo nascosto.»

«Mi dispiace... io... è difficile da spiegare, perdonami.

Io... pensavo che era meglio così. Per te, ecco...»

«Se uguale a tutti gli altri. Sei uguale a loro.»

Nilde urla come non ha mai urlato prima.

Il mondo, tutto il suo mondo era sorretto da una

menzogna. Svelata la bugia, il suolo sotto i suoi piedi ha cominciato a

tremare ed è crollato lasciandola appesa con le unghie ad un piccolo

brandello di verità: Alberto. “Lui è reale. Quello che provo per lui è

autentico” pensava, ma Nilde scoprì presto che anche quell'oasi di

onestà, non era altro che un miraggio. Lui sapeva e non le aveva detto

nulla. Ora lei è sola e niente potrà essere come prima.

La prima menzogna riguardava la causa del decesso di

Lisa, la madre di Nilde. Da questa prima, ne derivò di conseguenza la

seconda, circa l'artefice dell'azione in oggetto alla prima. La terza, la più

grave, era il risultato della prima menzogna sommata alla seconda.

Quest'ultima, la più difficile ed ingestibile, una volta svelata avrebbe

obbligato i nonni di Nilde a svelare anche le altre. Decisero di non dire

nulla allora, ma questo peso li stava uccidendo lentamente e nessuno a

Colle Torto, avrebbe voluto essere nei loro panni.

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Le tre bugie.

Ci sono cose che solo a ricordarle fanno male, per

quanto lontane, per quanto concluse.

Evaristo e Nilde, quando lei era ancora una bambina

innamorata dell'uomo di casa, usavano guardare la televisione seduti

vicini sul divano. La nipote si accucciava sotto l'ascella del nonno, che

spesso le avvolgeva il volto con la mano, per coprirle gli occhi ed evitare

che assistesse alle scene troppo violente, troppo esplicite oppure difficili

da spiegare.

L'uomo voleva proteggerla, ma Nilde riusciva a sbirciare

tra le fessure delle dita e ciò che non vedeva, se lo immaginava,

completando i pezzi mancanti come in un affresco violento e apocalittico

da restaurare.

In casa Malatesta, anche un semplice poliziesco faceva

scattare la reazione censoria di Evaristo. Al primo segnale di violenza

imminente, la cattiveria nello sguardo di un personaggio o le terribili

immagini dei cadaveri nell'obitorio, le scene di sesso più o meno esplicite

generavano tutte la medesima reazione: il gomito del nonno si piegava e

la sua mano, dallo schienale del divano, andava sugli occhi della piccola

Nilde decretando così, il parziale oscuramento della sua visione.

Eppure a Nilde non servivano gli occhi per vedere.

Dietro alle dita del nonno, l'idea dell'orrore le faceva immaginare tali

abomini da perdere il sonno e anche se si forzava a pensare ad altro,

dentro di lei c'erano solo quelle brutte immagini di carne e violenza.

La bambina insonne, accendeva la luce con il chiaro

intento di smascherare la presenza di quelle oscure figure celate nel

buio. Piuttosto che vivere con il sospetto, preferiva la certezza che

intorno a lei, sotto il suo letto, dietro all'armadio ci fossero assassini,

mostri e macellai.

Nilde li sfidava a farsi avanti, a farle del male, a

combattere, ma i vigliacchi sparivano nel momento in cui i suoi occhi

abituati al buio, abbagliati dalla luce improvvisa della lampadina sul

comodino, la rendevano cieca ed inerme.

«Maledetti codardi...» digrignava tra i denti, spegnendo

la luce e sentendo il fruscio dei loro vestiti, il tintitnnìo delle loro lame e

il loro respiro malato, avvicinarsi a lei.

Le mattine successive, Nonna Adele spegneva la luce

22

sul comodino, le rimboccava le coperte e la lasciava dormire qualche

minuto in più.

Questa notte i mostri sono tornati e non serve a nulla

accendere la luce. Li ha liberati Nonno Evaristo, nel momento in cui ha

levato la mano dagli occhi di Nilde. La ragazza ha visto il male, quello

vero e aveva il sapore del ferro di una lunga corsa e l'odore del sangue

dei maiali. La realtà, celata dietro alle dita del nonno, è peggiore di ciò

che si era immaginata.

«Era per il tuo bene...» si sono giustificati.

Nilde è nella sua cameretta e ha gli occhi sbarrati,

davanti a sé ha un unico fantasma, il più temibile con cui abbia mai

avuto a che fare. Al buio si è annunciato con il cigolìo delle manette e

alla luce della lampadina si è rivelato in tutto il suo orrore.

Un uomo enorme e ammanettato, in ginocchio, con le

mani giunte e le nocche insanguinate, chiede il suo perdono e la chiama

"figlia mia". Sul comodino, la sua lettera.

Ho espiato la mia colpa con lo Stato, ma ciò non mi

rende affatto libero. Non credo di meritare il vostro perdono, ma Nilde è

anche mia figlia e forse l'unica cosa, che ho fatto di buono nella mia

vita. Sono suo padre, dopotutto. Anche se sono un assassino. Anche se

Lisa mi ha nascosto la sua esistenza e voi ora, nascondete la mia, a lei.

Io lo capisco... Nessuno dovrebbe narrare il male, poiché raccontarlo

significa evocarlo, eppure sono convinto che Nilde abbia il diritto di

conoscere la verità.

23

Quindici anni prima.

“King Volcano” Bauhaus

Ci sono voluti più di cinque agenti per placare la furia

dell'assassino.

Il gigante puntava, con i piedi, la fiancata della

macchina e spingeva nella direzione opposta: era una bestia impazzita

dal dolore e nonostante le manette, ci misero quasi mezz'ora per farlo

salire sulla volante.

Gli agenti della polizia, col fiatone e sfiancati dalla lotta,

dovettero sedersi per poter tirare un sospiro di sollievo. Sembrava che

quell'uomo potesse esplodere da un momento all'altro e gli agenti, per

quanto addestrati ad essere razionali e lucidi nei momenti di tensione,

sebbene sapessero come muoversi e cosa fare per immobilizzarlo, non ci

riuscivano.

Lo strazio di quell'uomo ricordava le grida di un maiale

che sta per essere macellato.

Negli anni avevano avuto a che fare con ogni tipo di

pazzo e drogato, ma quella era follia allo stato puro. Un fiume in piena,

uno tsunami, il crollo di una diga, l'esplosione di un vulcano a riposo da

secoli.

Le urla assordavano gli agenti e i volontari della Croce

Rossa accorsi, che cercavano di strappargli il corpo della ragazza dalle

braccia, ma la loro determinazione non poteva competere con quella

forza che pareva sovrannaturale.

Doveva essersi rotto qualcosa nel più profondo

dell'anima e per quanto alla fine riuscirono a placarlo, sedandolo coi

farmaci e ad infilarlo in macchina ammanettato, tutti i cinque agenti e gli

infermieri, sapevano che quell'uomo era morto dentro.

L'ultimo spasmo dell'impiccato, perché la mente di un

uomo non può sopravvivere a quella mole di sofferenza.

«A guardarli da fuori, sembravano due fidanzatini che

bisticciavano» aveva detto qualche testimone non allontanandosi troppo

dalla realtà, perché quelle due persone, che litigavano per strada la

notte dell'ultimo dell'anno, un tempo si erano amati per davvero. Ciò che

rimaneva, era una ragazza priva di sensi, stesa a terra ricoperta di

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sangue ed un giovane uomo con le nocche insanguinate, ammanettato,

sedato, diretto in questura.

Lo conoscevamo.

Era un bravo ragazzo.

Era un drogato.

Veniva da una buona famiglia.

Non mi è mai piaciuto.

Lei, la si vedeva spesso da queste parti.

Delitto passionale.

Raptus di follia.

Sarà stata la droga.

Lui l'aveva afferrata dal collo con la mano sinistra,

mentre la destra stretta in un pungo, aveva colpito per quattro volte

consecutive il volto. Al quarto fendente, la ragazza crollò a terra priva di

sensi, per poi morire dopo una decina di ore in ospedale.

L'assassino in stato confusionale, non smetteva di

urlare e piangere dal dolore e stringendo il corpo a sé, non voleva che

glielo portassero via. Lui che l'aveva ridotta così, lui che aveva fatto in

modo che un persona viva, diventasse carne morente sull'asfalto.

Nessuna droga può provocare o giustificare una tale

follia e gli agenti di polizia lo sapevano bene.

L'uomo da allora, si chiuse in un silenzio inviolabile e

non servirono a niente neanche le botte, i ricatti, gli interminabili

interrogatori o il negargli il cibo e l'acqua, non disse una parola per

parecchie settimane.

Lo nutrirono a forza con delle flebo.

Non parlò col suo avvocato e si rifiutò di vedere sua

madre, con un cenno della testa.

Venne processato per direttissima e solo allora, con un

debole sospiro, ammise la sua colpevolezza e la sua completa

responsabilità, nella morte della giovane ragazza.

Non chiesero riduzioni della pena e non cercarono

attenuanti che giustificassero o spiegassero in qualche modo, le ragioni

che lo portarono a picchiare fino alla morte, quella piccola donna

minuta.

Non si riuscì a ricostruire con precisione i fatti e

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rimasero in sospeso alcuni interrogativi: come ci era arrivata la ragazza,

fuori dalla casa del suo assassino? Perché non aveva con sé ne' soldi, ne'

documenti? Che fine aveva fatto la borsa della vittima? Per esempio...

ma nessuno ritenne necessario colmare quelle lacune, dal momento in

cui il colpevole non voleva altro che essere punito, accettando il

massimo della pena prevista.

Dovettero sorvegliarlo a lungo per paura che cercasse

di uccidersi, ma lui non lo fece. Non ci provò neanche una volta e dopo

mesi, quando la psicologa del carcere riuscì a farlo parlare, lui disse che

non meritava di morire e che avrebbe dovuto portarsi quel peso dentro,

per il resto della sua vita.

La Dottoressa, nella sua carriera, ne aveva visti

parecchi di stronzi e malati che picchiano le donne, eppure in lui c'era

qualcosa di diverso...

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Una foto.

Nella busta che le hanno tenuta nascosta per diversi

mesi, c'è la lettera del padre che ha letto centinaia di volte, ed una foto

che ritrae cinque ragazzi.

Ci sono tre donne e due uomini, che potrebbero avere

dai venti ai trent'anni, Nilde non lo riesce a stabilire.

Hanno vestiti da lavoro e sono alla base di quello che

sembra l'abbozzo di un carro allegorico, come quelli che si bruciano a

Colle Torto quando finisce l'inverno, ma non sono a Colle Torto, sono

altrove... forse giù in città, anche se lì non si fanno queste cose.

Ne' Alberto, ne' le sue compagne di classe hanno mai

costruito un carro o incendiato la vecchia. In città non si celebrano le

stagioni e non s'intonano canti sulla migrazione degli uccelli.

Il giorno del solstizio di primavera a Colle Torto, è la

festa più importante dell'anno.

Si balla per tutta la notte, le donne indossano ghirlande

di fiori di campo, gli uomini intrecciano foglie di quercia per farne delle

grosse corone. Si aprono e si svuotano le botti di vino. Si celebra la

quercia virile e la terra pregna di semenze e si brucia l'effige di una

vecchia e brutta donna. Un uomo vestito da vergine, dà inizio al rogo

tagliandosi le lunghe trecce di una parrucca di paglia.

«É l'unica festa in cui non si ammazzano animali»

aveva detto Nilde ad Alberto, per giustificare il suo entusiasmo.

«Non so... dopo che passiamo mesi e mesi al freddo, ci

viene spontaneo fare festa... cioè, credo sia l'unica celebrazione sensata

qui a Colle Torto.»

I Cortesi intonano cori antichi di secoli. Tutto il paese

canta una canzone dal senso ignoto, che racconta degli animali del

bosco e dei tuberi che riposano sotto terra. Nilde, chiese ai suoi nonni il

significato di tutto questo: l'uomo vestito da donna, le trecce di paglia e

la canzone dei tuberi dormienti, ma non seppero risponderle, poiché

nessuno se lo era mai chiesto.

Al centro della foto c'è Lisa, la madre di Nilde, che

sorride guardando l'obbiettivo. Un uomo enorme, a cui lei è appesa

come un koala, la solleva da terra stringendola. Quell'uomo è suo padre

e Nilde vede per la prima volta il suo volto, quelle braccia e quelle mani

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che hanno percosso, fino ad uccidere sua madre. Eppure nei suoi occhi

c'è qualcosa che ricorda l'adorazione e la tenerezza. Non c'è odio, non

c'è follia.

“Come è possibile? Perché lo hai fatto?” chiede Nilde al

gigante nella foto, da cui ha ereditato le lentiggini.

I cinque ragazzi ritratti sorridono. Sul retro ci sono i

loro nomi e una data.

Arcangelo.

Elsa.

Vera.

Lisa.

Emanuele.

Febbraio 1999

Lisa, la madre di Nilde, è morta nel Dicembre dello

stesso anno. “Cosa può essere successo in soli dieci mesi?” si chiede.

«Solo loro possono sapere ciò che è accaduto. Solo loro

possono raccontarmelo» disse Nilde alla nonna in lacrime, vedendola che

riempiva lo zaino con suoi vestiti nero antracite, nero carbone e nero

pece.

Nonno Evaristo non uscì dalla stanza e non volle vedere

Nilde che lasciava la casa per andare giù in città, assistere per la

seconda volta a quella scena, perdere un'altra figlia.

Nonna Adele le diede un foglio con un indirizzo e un

numero di telefono.

«L'altro ragazzo nella foto, quello che si firma

“Arcangelo”, è mio nipote Aldo. Tua madre e lui erano cugini, oltre che

amici. Ho già parlato con mia sorella e ti ospiteranno loro...»

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