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02 23 novembre 6 dicembre 2009 Quindicinale di approfondimento della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore www.magzine.it »» Pacchetto sicurezza, la legge è ambigua »» Migranti e salute, a rischiare sono loro »» Andrea Purgatori, Ustica 30 anni dopo »» Una casa rifugio per i giornalisti braccati »» Digitaljournalism, la crisi dell’immagine »» Pacchetto sicurezza, la legge è ambigua »» Migranti e salute, a rischiare sono loro »» Andrea Purgatori , Ustica 30 anni dopo »» Una casa rifugio per i giornalisti braccati »» Digitaljournalism, la crisi dell’immagine magzine I soldati cinesi indossano sempre più spesso il casco blu dell’Onu. Ma dietro l’impegno di peacekeeping ci sono interessi economici nel continente africano. Non sempre legali I soldati cinesi indossano sempre più spesso il casco blu dell’Onu. Ma dietro l’impegno di peacekeeping ci sono interessi economici nel continente africano. Non sempre legali C ina mangia A frica C ina mangia A frica

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mag | zine - La free-press della Scuola di giornalismo dell'Università Cattolica

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0223novembre

6dicembre2009

Quindicinale di approfondimento della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

www.magzine.it

»» Pacchetto sicurezza,la legge è ambigua

»» Migranti e salute,a rischiare sono loro

»» Andrea Purgatori ,Ustica 30 anni dopo

»» Una casa ri f u g i oper i giornalisti braccati

»» Digitaljourn a l i s m ,la crisi dell’immagine

»» Pacchetto sicurezza,la legge è ambigua

»» Migranti e salute,a rischiare sono loro

»» Andrea Purgatori ,Ustica 30 anni dopo

»» Una casa ri f u g i oper i giornalisti braccati

»» Digitaljourn a l i s m ,la crisi dell’immagine

magzine

I soldati cinesi indossano sempre più spesso il casco blu dell’Onu. Ma dietro l’impegno

di peacekeeping ci sono interessi economicinel continente africano. Non sempre legali

I soldati cinesi indossano sempre più spesso il casco blu dell’Onu. Ma dietro l’impegno

di peacekeeping ci sono interessi economicinel continente africano. Non sempre legali

Cina m a n g i aAf r i c a

Cina m a n g i aAf r i c a

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MAGZINE 1 | 23 novembre - 6 dicembre 20092

inchiesta

di Giulia Dedionigi

Negli ultimi anni l’impegno della Cina nelle missioni di cooperazione in A f rica è stato cre s c e n t e.Ma dietroquesta presenza ci sono interessi economici e stra t e g i c i ,come il tra f fico d’armi e il business della ri c o s t ru z i o n e

I-H A O». PE R L E S T R A D E D IM O L T E C I T T Àa f r i c a-

ne i bambini hanno ormai imparato a salu-

tare gli stranieri in cinese. Il nuovo “Grande

balzo” della Cina, infatti, si chiama Africa.

La Repubblica Popolare è attualmente

quattordicesima nella classifica dei Paesi

che contribuiscono alle missioni di pace

Onu nel mondo. Allo stesso tempo, però, dietro una corti-

na di segretezza, sta emergendo come uno dei più gran-

di esportatori di armi. È quanto risulta dal rapporto

annuale dello Stockholm International Peace Rese-

arch Institute( S i p r i ) .

Rispetto ai 64 anni di storia delle operazioni di peacekeeping

dell’Onu, la Cina vi partecipa da meno di 20. Oggi, però, in un

momento in cui i caschi blu devono assumere compiti onerosi in

situazioni di grande complessità, Pechino fornisce più militari, più

poliziotti e più osservatori. E lo fa mettendo in campo più risorse di

Russia, Gran Bretagna e Stati Uniti, tre dei cinque membri perma-

nenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che oltre a decidere in que-

sta sede, operano anche sotto l’egida della Nato.

Quello che emerge dal rapporto Sipri China’s Expanding Role

in Peacekeeping, pubblicato a novembre, è che nei luoghi devastati

dai conflitti il personale del peacekeeping cinese, coi suoi berretti

azzurri e l’emblema dell’Onu, ha dato il benvenuto ai primi segnali di

pace tra le popolazioni locali, accompagnandole nel difficile periodo

di ricostruzione dei loro Paesi. La Cina favorisce una serie di interven-

ti nei settori delle infrastrutture (ferrovie, strade, ponti, dighe), del-

l’edilizia pubblica (scuole, stadi, teatri, edifici governativi) e abitativa,

in estesi programmi di assistenza sanitaria, con costruzioni di ospe-

dali e ambulatori, e nell’invio di personale sanitario e medicinali.

Ma alla base di questo impegno ci sarebbe una serie di motiva-

zioni politiche ed economiche. Si parla, infatti, di “fattori intreccia-

ti” che spingono il Dragone in questa direzione. Innanzitutto la Cina

vuole impegnarsi di più sul sentiero della sicurezza globale per dare

di sé l’immagine di potenza politicamente corretta, bilanciando così

l’influenza dei Paesi occidentali, soprattutto degli Stati Uniti, e facen-

dosi accettare come grande Paese responsabile, pacifico e coopera-

tivo. I più scettici parlano di soft power: la

Cina si farebbe carico dei problemi del

mondo per mostrarsi come una potenza

non aggressiva e per accrescere la propria

influenza nel quadro internazionale.

In secondo luogo, l’impegno corri-

sponde a un diktat del presidente Hu Jin-

tao all’Esercito popolare di libera-

zione. In sostanza, l’unica forza

militare della Cina dovrebbe

contribuire, con le sue mis-

sioni di pace, a fare di Pechino un’autorità rispettata. Da

una prospettiva militare, infatti, i soldati cinesi che coo-

perano con le forze armate straniere hanno l’opportu-

nità di migliorare la propria preparazione, nonché di

familiarizzare con equipaggiamenti tecnologicamente

avanzati ed essere a contatto con una gestione esperta dei conflitti.

Iinfine, i Paesi africani rappresentano da soli più di un terzo dei

destinatari degli aiuti Onu, e la Cina ha puntato gli occhi sugli

interessi economici nel continente. Questo è il punto più scot-

tante. Pechino offre ai suoi partner un pacchetto diplomatico

irresistibile: rispettare il principio di sovranità nazionale e di non

interferenza negli affari interni. La Cina, infatti, non partecipa alle

missioni che non siano state esplicitamente richieste o accettate. È

una strategia “win-win”, si legge nel rapporto annuale del Sipri, e si

pone in alternativa alla linea degli Stati Uniti.

Infatti, se da una parte Washington impone ai paesi con cui

stringe accordi un rigido rispetto dei diritti umani e trasparenza nel-

la gestione dei mercati commerciali, dall’altra la Repubblica Popo-

lare non ha problemi a stringere alleanze prive di condizioni ideolo-

giche ed è indifferente ai processi di democratizzazione. Secondo

China Safari: On the Trail of Beijing’s Expansion in Africa, repor-

tage realizzato dal fotoreporter italiano Paolo Woods, accompa-

gnato da Serge Michel (corrispondente di Le Monde d a l l ’ A f r i c a

occidentale) e Michel Beuret (caporedattore della rivista l ’ H e b -

d o), l’80% delle banche commerciali del mondo applica l’E q u a t o r

N

Pe a c eke ep i n ga l l aci n e s e

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p r i n c i p l e, codice di condotta per i finanziamenti approvato nel 2003

dalla Banca Mondiale; nell’Impero di mezzo, invece, è la C h i n a

Export Import Bank (Exim bank) a gestire quasi tutti i prestiti sen-

za alcun rispetto per gli standard occidentali.

Queste considerazioni sono avvalorate da un altro elemento

che emerge nel rapporto annuale sul mercato bellico: è risaputo che

la Cina è tra i maggiori importatori di armamenti del quinquennio

2004-08, e che copre l’11% del mercato internazionale. In questo

primato è seguita da India, Emirati Arabi Uniti, Corea

del Sud e Grecia. Nulla si sa, invece, sul suo export. Il gover-

no di Pechino non divulga dati sui trasferimenti di armi

all’estero ed è l’unico Paese a non aver sottoscritto neanche

uno degli accordi multilaterali che vietano il trasferimento di

armi. Norinco, Xinxing Corporation, Poly Group: nomi che circola-

no ovunque nel continente nero. In Sudafrica, per esempio, la mag-

gior parte delle rapine a mano armata viene realizzata con la pistola

9mm della Norinco e, tuttavia, nessuna statistica doganale menzio-

na il suo ingresso nel paese.

Agli inizi di novembre, si è tenuta in

Egitto la quarta conferenza mini-

steriale sulla cooperazione sino-

africana con la partecipazione del

primo ministro cinese Wen Jiatao, dei lea-

der e ministri degli esteri di quasi tutti i pae-

si africani. In questa sede la Cina ha stabilito

che cancellerà unilateralmente entro la fine

del 2009 i debiti accumulati da molte nazio-

ni dell’Africa. «I cinesi ci fanno offerte con-

crete, l’Occidente valori intangibili. Ma a che

cosa servono la trasparenza e la g o v e r n a n -

c e, se la gente non ha elettricità né lavoro? La

democrazia non si mangia». Così S e r g e

M o m b o u l i, consigliere dell’attuale presidente del Congo, ha rias-

sunto il successo di Pechino.

Chi ha provato a a dare una spiegazione a queste posizioni è

Cecilia Brighi, coautrice insieme a Irene Panozzo e I l a r i a

Maria Sala, di Safari Africa, la prima vera indagine giornalistica

sul legame sino-africano, stampata in Italia. Dal libro emerge che la

Cina seduce i governi dittatoriali evtando di parlare di democrazia

e trasparenza e alletta gli abitanti costruendo, producendo e inve-

stendo in una terra che l’Occidente giudica buona solo

a ricevere aiuti umanitari. Quale futuro sta offrendo il Dra-

gone all’Africa? «Entro il 2010 - spiega Cecilia Brighi - gli inve-

stimenti della Cina in Africa potrebbero raggiungere i 100

miliardi di euro - nel 2005 erano di soli 39,7 miliardi -. In

assenza, però, di una forte strategia europea, le prospettive di

sviluppo sostenibile sono scarse: sta vincendo il modello economi-

co politico cinese, un modello che crea solo zone franche».

“Lavorate all’estero, realizzate i vostri sogni”. Grazie a manife-

sti del genere, sparsi sui territori delle province cinesi, sarebbero

oltre 500mila le “formiche silenziose” già emigrate in Africa. Il con-

tinente nero rappresenta la promessa di un far west del ventunesi-

mo secolo. Chi tutela i lavoratori? «Non c’è alcun rispetto per i fon-

damentali diritti, nessuno ha sottoscritto alcun patto che tuteli la

libertà di organizzazione sindacale», conclude l’autrice. Non si può

definire neocolonialismo, piuttosto si può parlare di un capitalismo

selvaggio, motore di un boom carico di iniquità, dove i diritti dei lavo-

ratori sono calpestati.

MAGZINE 2 | 23 novembre - 6 dicembre 2009 3

Nel 2010 gli investimenti cinesi in Africa supereranno i centomiliardi di euro. Solo una piccolaparte andrà ai progetti di sviluppo

Per sap e rne di piùCecilia Brighi, Irene Panozzo, Ilaria

Maria Sala, S a f a ri Cinese. P e t r o l i o, ri s o rs e ,

m e r c at i . La Cina alla conquista dell’Afri c a

( O b a rra O ) ; Michel Serge, Michel Beuret,

C i n a f ri c a . Pechino alla conquista del conti -

nente nero (Il Saggiatore ) , in collabora z i o-

ne con il fotografo Paolo Woods.

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’ AS S O C I A Z I O N E S T U D I G I U R I D I C I

sull'emigrazione (Asgi) ha pub-

blicato la notizia che anche in

Sicilia è stata emessa una circo-

lare di chiarimento riguardo la

segnalazione di clandestini da parte del perso-

nale sanitario. Con l’ultima aggiunta, sono 14

gli enti che hanno già emesso la circolare.

Senza distinzioni fra Nord e Sud.

Per capire lo spirito della norma, bisogna

tornare indietro fino al luglio 2008, quando è

entrato in vigore il Pacchetto sicurezza. In un

primo tempo, in una delle sue leggi, era pre-

sente un articolo che abrogava il comma 5 del

decreto legislativo 286\95, in cui si afferma

che «l’accesso alle strutture sanitarie da parte

dello straniero non in regola con le norme sul

soggiorno non può comportare alcun tipo di

segnalazione all’autorità, salvo i casi in cui sia

obbligatorio il referto, a parità di condizioni

con il cittadino italiano».

Secondo Salvatore Geraci, responsabi-

le dell’Area sanitaria della Caritas di Roma,

questa disposizione avrebbe indotto molti stra-

nieri a disertare gli ospedali per timore di esse-

re denunciati. Facendo aumentare così il peri-

colo di epidemie o di parti non assistiti.

«Fortunatamente - spiega Geraci - la grande

mobilitazione della comunità scientifica, della

Chiesa, delle associazioni di volontariato e della

società civile ha bloccato l’articolo. Tuttavia, con

l’introduzione del reato di clandestinità, sorge

una nuova complicazione. Ora sull’immigrato

irregolare pesano due norme in contrasto tra

loro: da una parte il divieto di segnalazione, dal-

l’altra l’obbligo di denuncia. Tutti gli studi stati-

stici dicono che finora prevale il primo».

La situazione ha suscitato nuove polemi-

che. Pierfranco Olivani, presidente del

Naga - Commissione ministeriale Sanità e

Immigrazione, è uno dei firmatari del docu-

mento che chiede il chiarimento delle norme

sulla segnalazione dei clandestini. «Abbiamo

chiamato dei costituzionalisti che ci hanno

confermato che il comma 5 è tuttora valido. La

norma generale è infatti preminente rispetto a

quella particolare. Forti del parere di speciali-

sti, siamo andati dal sottosegretario alla Sanità

Ferruccio Fazio per chiedere una circolare

ministeriale che chiarisse il punto una volta

per tutte. Come prevedibile, però, si è rifiutato.

Abbiamo allora chiesto alle singole Regioni,

perché ad esse è delegato l’amministrazione

della sanità». E sono arrivati a quota 14. Fra

queste, però, pesa l’assenza della Lombardia».

La Lombardia è da sempre la situazione

più delicata - continua Pierfranco Oli-

vani -. Il problema sta nella suddivisio-

ne delle competenze tra Stato e Regio-

ni: la competenza dell’immigrazione è dello Sta-

to, quella della Sanità è delle Regioni. Però i livel-

li essenziali di assistenza sono di nuovo compe-

tenza dello Stato, e la regione Lombardia non fa

le circolari che dovrebbe. Non applica le diretti-

ve che vengono da Roma». Lo stesso Olivani ha

chiesto alla Direzione generale della sanità lom-

barda di unirsi alle Regioni che hanno diffuso la

circolare. «Ma non c’è stata risposta - precisa -.

Comunque in Lombardia non è stato denuncia-

to nessuno».

Carlo Zocchetti, responsabile della

Direzione generale sanità regionale, conferma

che il Naga ha più volte chiesto alla

Lombardia di chiarire. «Stiamo discutendo il

problema. Per noi, però, la legge è chiara: i

medici e il personale sanitario non devono

denunciare. La Lombardia non ha ritenuto di

dover riproporre in un documento i contenuti

della legge, solo perché non si tratta di un pro-

blema di interpretazione della legge. Anche

perché in quel caso sarebbe compito dello

Stato formulare un documento adeguato».

Ma allora perché tanta insistenza da parte

del Naga? «Sono stati segnalati dei comporta-

menti difformi all’interno del personale sanita-

rio - prosegue Zocchetti -. Mi spiego: se i medi-

ci non denunciano, è capitato che lo facessero

gli infermieri, anche se non è il caso della

Lombardia. C’è il rischio che il migrante,

temendo di poter essere denunciato, non usu-

fruisca dei servizi sanitari di cui ha bisogno». Si

ripropone così una situazione analoga a quan-

do nel pacchetto sicurezza era presente l’arti-

colo per abrogare il comma 5. «Un argomento

di questo tipo - conclude Zocchetti - è a caval-

lo fra la tecnica e la politica. La tecnica può fare

delle proposte e la politica prendere le decisio-

ni. Perciò non so alla fine come deciderà la

Regione». Nell’incertezza, la Caritas rinnova

l’appello: «Il diritto all’accesso alle cure medi-

che è inalienabile. Anche per gli immigrati

i r r e g o l a r i » .

Cure ai clandestini, la normativa è ambigua

Il Pacchetto sicurezza va rato dal Gove rno obb l i g agli ospedali a denu n c i a re gli immigrati irre g o l a ri .Ma non è stata abrogata la norma che impone alp e rsonale sanitario di non segnalare i clandestini

L

MAGZINE 1 | 23 novembre - 6 dicembre 20094

pacchetto sicurezza

di Lorenzo Bagnoli

Associazione studi giuridici sull’immigrazione

Nata nel 1990,riunisce av vo c a t i ,docenti unive-

s i t a ri e opera t o ri del diritto con uno specifi c o

i n t e resse per le questioni giuridiche connesse

a l l ’ i m m i gra z i o n e. O p e ra anche nel campo

della lotta alle discri m i n a z i o n i . w w w. a s g i . i t

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uomo di colore,

scarno, con gli

occhi rossi e

malato di qual-

che patologia

esotica e che arriva in Italia via

mare, in un barcone sovraffollato.

Questo è lo stereotipo mediatico

del migrante. Ma dal punto di

vista sanitario, questa è un'imma-

gine parziale e scorretta.

Roberto Cauda, direttore del-

l’istituto di clinica delle malattie

infettive del Policlinico Gemelli di

Roma, ha il compito di chiarire la

situazione delle patologie infettive

legate all’immigrazione. «Il mes-

saggio fondamentale che voglio

dare - dice il professore - è che

l’emigrato di per sé non è un indi-

viduo a rischio di trasmissione.

Forse è più a rischio di contagio».

C’è un reale rischio che si

diffondano in modo massic -

cio malattie portate in Italia

da immigrati?

Quando parliamo di patolo-

gia del migrante ci rivolgiamo in

genere ai “viaggi della speranza”

via mare. In realtà il flusso di per-

sone è molto più ampio: non si

emigra solo per necessità, a bordo

dei barconi. Il primo concetto da

tenere presente è perciò la globa-

lizzazione, intesa come mobilità

di persone sul piano planetario.

Se non ci fossero questi sposta-

menti le malattie sarebbero desti-

nate a rimanere in un’area. Il

rischio vero però non è legato solo

all’immigrazione. Esistono effetti

climatici che permettono ad alcu-

ni vettori di prosperare in aree

dove prima non c’erano.

Dal punto di vista immuno -

logico, in che condizioni si

trova l’immigrato medio?

Contando che nelle migra-

zioni Sud- Nord si coinvolge spes-

so il soggetto giovane, in grado di

entrare nel mondo del lavoro, la

possibilità che sia affetto da

malattie virali, le più pericolose, è

abbastanza remoto.

Una volta in Italia, quali

sono le malattie che colpi -

scono maggiormente gli

i m m i g r a t i ?

L’85-90% delle patologie

riscontrate sono simili a quelle dei

pazienti italiani. Influenza, raf-

freddore, traumatismi, malattie

cardiovascolari: quadri analoghi a

quelli dei lavoratori italiani. La

differenza tra il magùt lombardo

e il muratore senegalese, da que-

sto punto di vista, non esiste. La

reazione del sistema immunitario

non varia a seconda della prove-

nienza. È molto più rilevante l’età

a n a g r a f i c a

E il restante 10 per cento?

Sono soggetti che provengo-

no da aree del mondo dove ci

sono situazioni di endemia; pos-

sono essere affetti da Hiv, da

tubercolosi, da malaria, da paras-

sitosi intestinale. È chiaro che

sono forme che meritano il mas-

simo dell’attenzione. Gli immigra-

ti non sono tutti sani, ma non c’è

il rischio che trasmettano malattie

alla popolazione residente, pro-

prio perché l’impatto di queste

forme è trascurabile rispetto a

quanto già presente in Italia.

Di cosa si ammalano invece

in Italia?

Soffrono soprattutto di affe-

zioni respiratorie acute. Ciò è

dovuto alle condizioni e all’am-

biente in cui si trovano a vivere.

Anche la condotta personale ha

una certa rilevanza, per esempio

nelle malattie sessualmente tra-

smissibili. Ma non esistono

minacce epidemiche. Il rischio ci

sarebbe se si sottovalutasse il pro-

blema della cura sanitaria degli

immigrati. Anche perché le rela-

zioni tra il Sistema sanitario

nazionale e gli immigrati non

sono così pacifici.

Il reato di clandestinità ha

suscitato una forte reazione

della comunità scientifica.

Si temeva che i clandestini,

intimoriti dalla legge, potes -

sero smettere di usufruire

del Sistema sanitario nazio -

nale, innalzando così il peri -

colo di contagi.

Non voglio entrare nel meri-

to di una dialettica politica. Mi

limito a dire che, per esempio,

una malattia come la tubercolosi

di per sé non è grave. Deve essere

solo ben curata. Nel caso degli

immigrati a volte non accade, ma

non si può limitare il problema al

reato di clandestinità. Proven-

gono da Paesi con culture e tradi-

zioni diverse. Non si può esaurire

tutto nel dibattito politico, vanno

superate le barriere linguistico-

culturali che impediscono una

comunicazione diretta.

Crede che i media abbiano

un atteggiamento corretto

quando si parla di salute?

Nella primavera del 2003 fu

dichiarata l’emergenza di una

malattia molto grave, la Sars, con

una mortalità del 10%. Poteva

essere l’inizio di una pandemia,

soprattutto a marzo. Poi ad aprile

la notizia è stata pressoché sep-

pellita perché era entrata nel vivo

la guerra in Iraq. È riapparsa solo

a maggio-giugno quando fu

dichiarato che l’epidemia era stata

sventata. I media fanno il loro

lavoro: seguono interessi e umori

dell’opinione pubblica, ma non

sempre le informazioni sono del

tutto corrette.

Nelle migrazionidal sud al nord del mondo sonocoinvolti di solitosoggetti giovani,ma la possibilitàche siano affetti da malattie virali è davvero remota

«Il rischio di contag i o ?Èpiù alto per i migra n t i »

MAGZINE 2 | 23 novembre - 6 dicembre 2009 5

di Lore n zo Bag n o l i

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R E N T’A N N I P E R T R O V A R E la prima

prova di una delle (almeno) 30

cosiddette “navi a perdere” a largo

delle coste calabresi. Ovvero le navi

piene di rifiuti tossici affondate su

commissione dalla ‘ndrangheta per far sparire

l’ingombrante carico. Trent’anni. Per trovare

una prova. O meglio: per inciamparci. Perché le

rivelazioni in merito del pentito Francesco Fon-

ti risalgono ai primi anni Novanta; ma solo il

ritrovamento ai primi di settembre del relit-

to del Cunsky al largo di Cetraro, Cosenza,

ha smosso l’inchiesta di una Commissio-

ne parlamentare, chiamata ad appura-

re il livello di coinvolgimento dei servi-

zi segreti deviati, chiamati in causa da Fonti.

A Roma si sono riuniti gli Stati generali del-

l’antimafia, promossi dall’associazione L i b e r a

di don Luigi Ciotti. Però cosa occorre fare per-

ché anche questo non diventi uno scandalo di

Stato presto dimenticato? Anzi una strage di

Stato visto che negli ultimi quindici anni è

aumentato esponenzialmente il numero dei

malati di tumore e leucemia. Non nelle grandi

città ma nei paesini dell‘entroterra. «Degli sver-

samenti sui monti - dice Pino De Masi, refe-

rente di L i b e r a nella spianata di Gioia Tauro -

ne abbiamo sempre sentito parlare, anche le

navi affondate ormai erano diventate una leg-

genda».

Ma come ha fatto la ’ndrangheta ad

affondare 30 navi in trent’anni senza

dare nell’occhio?

Si può quando nessuno se ne deve accor-

gere. È chiaro il coinvolgimento di enti privati

ma anche di governi, attraverso il lavoro dei ser-

vizi segreti deviati.

C’è un’istituzione su sui pesa una parti -

colare responsabilità?

La Regione adesso si è svegliata. Non so se

lo fa perché a marzo ci saranno le amministrati-

ve, o perché le è comodo, visto che ora il control-

lo è passato a Roma.

Cosa occorre fare perché questa vicen -

da non finisca nel dimenticatoio?

Una mossa sarebbe decisiva: inserire i rea-

ti ambientali nel Codice Penale.

E in che modo?

Presentando una proposta di legge attra-

verso la raccolta di firme. Come abbiamo fatto

nel ’95, per far approvare il provvedimento del-

la confisca dei beni ai boss mafiosi.

Dal punto di vista investigativo,

invece, cosa m a n c a ?

Il procuratore della Repubblica di

Catanzaro ha chiesto ufficialmente i

dati su uno dei fusti ritrovati nel

relitto di Cetraro. Tocca esaminar-

li all’Astrea (nave di analisi inviata sul posto dal-

l’Icram, un ente pubblico vigilato dal Ministero

dell’Ambiente, ndr). Ma questi dati ancora non

ci sono. Sospetto che stiano perdendo tempo,

aspettando che l’attenzione sui nostri media si

a b b a s s i .

I calabresi alla fine torneranno a “farsi

i fatti loro”? Anche perché si sa, quando

qualcuno muore per mafia, la gente

pensa: “è andato a cercarsela”.

Ora la comunità calabrese capisce che la

’ndrangheta è responsabile del suo male. Ades-

so le ricollega tutti i morti di tumore degli ultimi

15 anni.

Ma davvero la società calabrese può

cambiare rispetto al passato?

Il problema qui è sempre stato l’ individua-

lismo. Ma la gente è davvero stufa. Anche per-

ché sta perdendo quel poco di beneficio che le

proveniva dal turismo o dalla pesca. Qualcosa

adesso potrebbe veramente cambiare.

Lei parla da sacerdote. Ma sa come fun-

ziona: si pensa “quello è un prete, non ha

niente da perdere”.

È vero. Ma alla gente serve coraggio, ser-

vono esempi. “Annunciare, denunciare, rinun-

ciare”, come diceva il vescovo del Sud fatto san-

to, don Tonino Bello. Lo so bene che è difficile,

ma quella terza parola è necessaria: “rinuncia-

re”. Se la comunità capirà di dover rinunciare a

qualcosa, allora sarà vero cambiamento.

Per sap e rne di piùw w w . l i b e r a . i t : “ A s s o c i a z i o n i , nomi e

n u m e ri contro le mafie”; Carlo Lucarelli,N avi a

p e rd e re (Edizioni A m b i e n t e ) .

Navi a perdere, l’ inchiesta è a rischio

Il ri t rovamento di una nave carica di ri fiuti tossiciin Calabria ha segnato una svolta nelle indaginisulle rotte delle ecomafi e, ma l’omertà diffusa e ilvuoto norm a t ivo rallentano la lotta alla ’ndra n g h e t a

T

MAGZINE 1 | 23 novembre - 6 dicembre 20096

ecomafie

Di Tancredi Palmeri

Page 7: magzine 02

il pizzo continua a spor-

care le mani degli

imprenditori che, per

quiete personale e della

propria attività, non si

ribellano a soprusi e

ricatti. Poi ci sono i ragazzi che

amano la loro isola e vogliono

che anche gli altri apprezzino le

bellezze nascoste della Sicilia.

Sono i ragazzi di Addio Pizzo

Travel, il progetto di turismo

sociale che parte da Capaci.

Attraverso le strade, le case, le

voci di chi ha detto no alle brut-

ture della mafia, prosegue il cam-

mino coraggioso partito nel

2004 con il comitato antiracket

di Addiopizzo.

Un percorso sociale che,

come spiega Dario Riccobono

di Addio Pizzo Travel, all’associa-

zionismo di quegli isolani che

hanno detto no al ricatto unisce

l’imprenditorialità coraggiosa di

tre giovani siciliani, che propon-

gono itinerari turistici di legalità.

E che lottano perché la Sicilia

non sia più sinonimo di mafia

ma piuttosto di quella “terra bel-

lissima” che Paolo Borsellino

aveva sognato.

Come è nato il progetto

Addio Pizzo Travel?

Dalla voglia di valorizzare le

bellezze della nostra terra e di

inventarci un lavoro per non

essere costretti a emigrare.

Abbiamo trasformato una pas-

sione in mestiere, per essere

d’aiuto a tanti imprenditori

coraggiosi. I viag-

giatori che sce-

glieranno la

“vacanza pizzo-

free” utilizzeranno

i servizi delle ditte iscritte alla

lista di Addiopizzo, soggiorne-

ranno e consumeranno i pasti

presso i ristoranti che si sono

ribellati alla mafia, visiteranno le

aziende sorte su terreni confiscati

ai boss mafiosi di Cosa nostra.

Vivranno da protagonisti un per-

corso di riconquista del territorio

e di sviluppo economico nella

legalità, contribuendo alla lotta

per lo sradicamento della mafia.

Cosa vi ha fatto credere in

un progetto di turismo

sociale ?

L’incontro con don Ciotti

che, quando scrivevo la mia tesi

in marketing turistico, mi inco-

raggiò ad andare avanti. E le

richieste di molti simpatizzanti

sparsi per l’Europa che ci chiede-

vano consigli su locali pizzo-free.

Chi sono gli ideatori?

Facevo un master in econo-

mia e gestione del turismo a

Venezia. Fu lì che mi venne in

mente di coinvolgere altri due

ragazzi: Francesca Vannini

Parenti aveva già seguito pro-

getti di educazione alla

legalità e oggi per

Addiopizzo Travel si

occupa di marketing

turistico e di ammini-

strazione; Edoardo Zaffuto

invece era accompagnatore ciclo-

turistico. Oggi si occupa di pro-

grammazione turistica e della

comunicazione sul web. Io invece

seguo le relazioni pubbliche e la

programmazione turistica.

Cosa devono aspettarsi i

turisti che sceglieranno le

vacanze pizzo-free?

Visite al mercato storico di

Ballarò, alla Partinico di Tele

Jato, al quartiere arabo della

Kalsa, a Corleone, ma anche un

incontro con il fratello di

Peppino Impastato. C’è la possi-

bilità di seguire un tour più

“impegnato” in cui si diventa

protagonisti di questa lotta, si

conosce la storia della mafia e

dell’antimafia dal racconto di chi

giorno per giorno la combatte sul

c a m p o .

C’è qualche analogia con i

Mafia Tour?

No, perché non si dà una

conoscenza stereotipata di Cosa

nostra, non si prendono a

modello mafiosi resi mitici e cari-

smatici da fiction e film, nessuna

foto con coppola e lupara.

Quale risposta ha dato la

c i t t a d i n a n z a ?

Siamo riusciti a creare una

rete che va ben oltre la realtà

regionale, ci sono molti simpatiz-

zanti in giro per il mondo:

Addiopizzo travel nasce anche

per loro.

Che rapporto avete con la

politica?

Noi a modo nostro facciamo

politica, chiedendoci cosa possia-

mo fare per gli altri e per la

nostra terra. Per il resto, con i

partiti non abbiamo alcun rap-

porto, siamo gelosi della nostra

apartiticità. Anche perché non

abbiamo ricevuto appoggio da

n e s s u n o .

Avete paura di eventuali

i n t i m i d a z i o n i ?

Mai ricevuto intimidazioni.

Forse l’attenzione dei media nei

nostri confronti è così alta che

una minaccia sarebbe contropro-

ducente per Cosa nostra. E poi

abbiamo talmente tanto da fare

che non abbiamo il tempo di

avere paura, semmai il timore

più grande è che la nostra terra

non cambi mai. Ma siamo degli

inguaribili ottimisti.

Per saperne di più

I co-ideatori e fondatori di

A d d i o p i z zo Travel sono tre : D a r i o

Riccobono, che si occupa di pro-

grammazione turi s t i c a ;

Francesca Vannini, che segue e

c o o rdina il progetto scuola;

Edoardo Zaffuto, che gestisce la

c o municazione sul we b.

Si possono contattare attrave rso il

sito internet del pro g e t t o :

w w w. a dd i o p i z zo t rav e l . i t

A dd i o p i z zo Trave l ,in viaggio contro la mafia

turismo sociale

MAGZINE 2 | 23 novembre - 6 dicembre 2009 7

di Giuditta Ave l l i n a

Page 8: magzine 02

MAGZINE 1 | 23 novembre - 6 dicembre 20098

giornalismo

di Salvo Catalano

L 27 G I U G N O 1 9 8 0

Andrea Purgatori

aveva 27 anni. Era un

semplice redattore

nel più grande gior-

nale italiano, il C o r -

riere della Sera. Quel giorno la

strage di Ustica con l'abbattimen-

to del Douglas Dc-9 della compa-

gnia Itavia, ha dato una svolta alla

sua vita. L'inchiesta su quei fatti,

portata avanti per trent’anni con

meticolosa costanza e attento stu-

dio, resistendo alle pressioni dei

poteri forti, è diventata il paradig-

ma di un genere giornalistico sem-

pre meno battuto.

Il complesso rapporto con le

fonti e con gli editori, il rispetto

ricambiato nei confronti della

magistratura, le tecniche impre-

scindibili per costruire una buona

inchiesta, il confine tra il mestiere

di giornalista e quello di autore e

scrittore, i limiti delle scuole di

giornalismo e uno sguardo sul pre-

sente: sono i temi di cui abbiamo

discusso con Purgatori. «Non c’è

bisogno di fare delle grandi inchie-

ste - spiega -, basta essere giornali-

sti sul campo. Nel Sud ci sono pre-

cari che per poche centinaia di

euro rischiano la pelle cercando di

fare il proprio lavoro».

Come è nato il tuo interesse

giornalistico per la strage di

U s t i c a ?

In parte casualmente, in par-

te perché mi stavo occupando del-

la smilitarizzazione dei controllori

del traffico aereo. Era un tema

delicato, perché i militari dell’aero-

nautica che volevano diventare

civili rischiavano conseguenze

molto pesanti nel caso in cui fosse-

ro stati trovati. Ero riuscito a crea-

re un rapporto stretto con alcune

fonti di informazione che si fidava-

no di me. Per questo si devono col-

tivare con grande rispetto e atten-

zione le fonti, dando loro il massi-

mo della fiducia. In questo senso

sono contrario al giornalismo

mordi e fuggi per cui la fonte viene

cannibalizzata, diventando merce

da utilizzare senza alcun rispetto.

Il giorno della strage, qual

era il tuo ruolo nella

redazione del Corriere

della Sera?

Il 27 giugno del 1980

ero ancora un redat-

tore, ma almeno

da quattro anni

facevo l’inviato

dall’Italia e dall’estero. Mi ero

occupato dei boat people n e l

sudest asiatico, ero stato in

Tunisia per la rivolta contro Habib

Bourguiba e mi occupavo anche di

problemi di sicurezza del volo. Fu

questo uno dei motivi per cui il

fascicolo di Ustica finì tra le mie

m a n i .

In un articolo del 1999 scrivi

che, a differenza di altre stra -

gi, l’attenzione su Ustica è

stata sempre alta a causa

d e l l ’ i m p o r t a n z a

degli interlocutori

coinvolti. In quel

contesto di pressio -

ni, ma di grande

p a r t e c i p a z i o n e ,

quali sono state le

tue fonti?

La strage di Ustica

è molto diversa dalle

altre stragi italiane. I

miei interlocutori era-

no i militari, e penetra-

re quel mondo era diffi-

cile, a maggior ragione

in un periodo in cui le

forze armate erano

ancora considerate un

universo protetto e

chiuso, che non si apri-

va ai giornali se

non attraverso delle

veline. Ancora più

problematiche le

indagini e i rapporti

con gli apparati dei servizi

segreti italiani e internazio-

nali. Aggiungi le fonti poli-

tiche nazionali e non. Da

questo punto di vista, c’è una gran-

de differenza tra Ustica e, ad esem-

pio, la strategia della tensione. Nel

secondo caso era chiaro che gli

interlocutori potevano essere

gruppi terroristici di estrema

d e s t r a .

Hai seguito un metodo di

lavoro preciso? Come era

organizzata la tua giornata

in quel periodo?

La mia fortuna è stata che, a

cavallo del ’79 e l’80, dopo essermi

occupato moltissimo di terrori-

smo, ho preso un’aspettativa e ho

fatto un master in giornalismo alla

Columbia University. Qui ho

imparato a mettere in forma cose

che prima intuivo e componevo in

modo artigianale, come mi aveva

insegnato qualche giornalista più

anziano e più capace. L’America

mi ha fatto capire come organizza-

re un’inchiesta, programmarla,

fare passo per passo un percorso,

senza che decidessero gli eventi

per me. Sono le basi dell’investiga-

z i o n e .

I

I segre t id iUs t i c a

Per trent’anni A n d rea Purg a t o ri ha portato ava n t il’indagine sulla strage del Dc10 Itav i a .A n c o ra oggiil suo lavo ro è un modello da seguire per i re p o rt e rche vogliono dedicarsi al giornalismo inve s t i g a t ivo

Page 9: magzine 02

Si riesce a insegnare inchie -

sta, oggi, nelle scuole di gior -

nalismo italiane?

Non credo. Sì, se ne parla, ma

l’inchiesta è un genere ormai in

disuso. Spesso si spaccia per

inchiesta un collage di notizie vec-

chie, condite da qualche telefona-

ta, da un parere, da un’opinione.

L’inchiesta è una cosa più com-

plessa, che richiede tempo e stu-

dio. Ad esempio, il collega ameri-

cano che è stato capace di scovare

nei bilanci del Pentagono i fondi

neri che servivano per programmi

di cui il Congresso non era a cono-

scenza, ha impiegato da sei a otto

mesi per imparare a leggere i

bilanci. Esattamente come per la

strage di Ustica io ho dovuto

imparare il linguaggio dei piloti

militari, per essere in grado, non

solo di leggere le carte, ma anche

di fare delle domande che avesse-

ro un senso e mettessero in diffi-

coltà i miei interlocu-

t o r i .

Quali sono gli ele -

menti imprescin -

dibili per affron -

tare un lavoro

d’inchiesta lungo

e difficile?

Anche se può sembrare

banale, la prima regola da tener

sempre presente è cercare non

tanto conferme ai propri dubbi o

sospetti, ma qualche elemento che

li smentisca. Se non c’è nulla che

smentisce l’impianto dell’inchie-

sta, significa che si è sulla strada

giusta. In secondo luogo, bisogna

programmare il lavoro, accettare

in anticipo che aprire una porta

può significare chiuderne altre.

Servono scelte precise di pro-

gramma e di percorso. La diffe-

renza sostanziale tra il giornali-

smo di routine e quello d’inchiesta

è che il primo segue i fatti man

mano che si verificano, mentre il

secondo programma l’indagine

sui fatti secondo un percorso stu-

diato a tavolino, che parta dalle

fonti e dai materiali secondari per

poi arrivare a quelli primari, al

cuore dell’inchiesta.

Come è stato il tuo rapporto

in quegli anni con gli editori

del Corriere della Sera? Sei

stato ostacolato, censurato?

Durante l’inchiesta su Ustica

le pressioni di chi non voleva che

andassi a rovistare in queste

vicende sono state molto forti. Ci

sono stati direttori che mi hanno

sostenuto e altri che hanno avuto

più timori ad andare a fondo. Il

risultato finale è stato positivo, ma

questo ha a che fare non con la

censura, ma con l’autocensura dei

giornalisti. Ci sono momenti, cioè,

in cui il giornalista deve fare una

scelta tra i possibili danni collate-

rali alla carriera e il principio per

cui, se si trova una

notizia, questa va

difesa e pubblicata

dopo essere stata

naturalmente verifi-

c a t a .

Pensi che il tuo

lavoro abbia esercitato una

pressione positiva o negati -

va sulla magistratura? Qua -

li sono stati i rapporti con i

magistrati che si sono occu -

pati dell’inchiesta?

Nel corso dell’inchiesta ho

avuto a che fare con molti magi-

strati, con i quali continuo a darmi

del lei. Oggi c’è una tendenza alla

vicinanza con le fonti di informa-

zione, non solo con la magistratu-

ra ma anche con la politica, che è

estremamente dannosa. Sono

stato interrogato almeno una ven-

tina di volte, mi hanno perquisito

casa e redazione. Sono stato impu-

tato per violazione del segreto

istruttorio, ho pagato anche

un’ammenda. Tuttavia, fino all’ul-

timo abbiamo cercato di mante-

nere quella che dovrebbe essere la

giusta distanza tra chi fa informa-

zione e chi fa indagine. Le due cose

non vanno mescolate mai.

L’inchiesta sulla strage di

Ustica ti ha cambiato la vita?

Ha cambiato la mia carriera

giornalistica, perché capita soltan-

to una volta di avere a che fare con

un evento così importante. Biso-

gna però anche avere la capacità e

la fortuna di capire l’importanza di

un fatto e sentire la necessità di

scavare in profondità.

Andrea Purgatori,I segre-

ti di A bu Omar (Bur).

MAGZINE 2 | 23 novembre - 6 dicembre 2009 9

In una buona inchiesta bisognatrovare non tanto le conferme aipropri dubbi, ma acquisire nuovielementi che li smentiscano

Page 10: magzine 02

L L’ E S T R E M O N O R D

del Pakistan c’è una

regione controllata

dai guerriglieri ta-

lebani, abitata da

più di 1 milione di abitanti. Bahar

fino a quattro mesi fa viveva in

questa regione a pochi chilometri

dal confine afgano e faceva il gior-

nalista. A causa dei suoi articoli è

stato perseguitato, sequestrato,

picchiato e seviziato dai talebani.

Per sfuggire alla morte è scappato

in Francia e da tre mesi vive alla

Maison des journalistes.

«La regione di Swat dalla

quale provengo - racconta B a h a r

(nella foto) - è amministrata dai

talebani che dal 2004 controllano

interamente la zona, tanto che il

governo pakistano non riesce a

intervenire militarmente. La

situazione è peggiorata negli ulti-

mi anni perché i talebani sono

diventati più forti e hanno tolto

sempre più libertà alla popolazio-

ne, soprattutto alle donne». Guar-

dare la tv, ascoltare la radio, balla-

re, tagliarsi la barba sono alcune

delle cose vietate perché conside-

rate anti islamiche, pena la morte

per chi non rispetta i divieti.

Bahar ha scritto degli articoli

contro i talebani prendendo

soprattutto le difese delle donne e

dei bambini. Le conseguenze del

suo lavoro non si sono fatte atten-

dere come lui stesso racconta:

«Per prima cosa sono arrivate le

minacce verbali. I guerriglieri mi

hanno intimato di non scrivere

più contro di loro, di non difende-

re le donne e i bambini altrimenti

mi avrebbero ucciso. Io sono

andato avanti e una sera, mentre

tornavo a casa dal lavoro, alcuni

uomini mi hanno picchiato a san-

gue rompendomi il naso». Le

minacce e i pestaggi non hanno

fermato Bahar che con grande

coraggio ha continuato a denun-

ciare gli abusi dei talebani fino a

quando non è stato rapito. Una

notte è stato prelevato da casa sua

insieme a due cugini. I talebani

l’hanno portato sulle impervie

montagne al confine con l’Afgha-

nistan, dove è rimasto per tre mesi

con la paura di essere ucciso. I suoi

rapitori, invece, lo hanno liberato,

mentre i suoi cugini sono stati

u c c i s i .

«Dopo il rapimento ho capi-

to che il solo modo per salvarmi e

continuare a lottare per il mio Pae-

se era quello di scappare in occi-

dente, dove i giornalisti possono

scrivere senza rischiare la vita -

conclude Bahar. Così sono partito

per la Spagna e, dopo qualche

mese, sono arrivato a Parigi, dove

ho saputo l’esistenza della Maison

des journalistes. Qui mi hanno

accolto e aiutato e da qui voglio

ricominciare a lottare per le donne

del Pakistan».

A

Il rifugio che ospitai giornalisti bra c c at i

« B a h a r ,s c a m p a t oalla furiat a l e b a n a »

libertà di stampa

el mondo sono

numerosi i giornali-

sti costretti a fuggi-

re a causa del loro

lavoro. Spesso

hanno una condanna a morte

pendente o hanno subito violen-

ze e sevizie. Per accogliere alcuni

di loro è stata creata otto anni fa

in Francia la Maison des journa-

listes. I fondatori di questa casa-

rifugio nel centro di Parigi sono

due giornalisti, D a n i e l l e

O h a y o n di Radio France e

Philippe Spinau, ex documen-

tarista e oggi direttore della casa.

In otto anni di vita la Masion des

journalistes ha accolto più di 180

reporter in difficoltà provenienti

da 41 paesi differenti. In questo

momento trovano rifugio al suo

interno uomini e donne fuggiti

da Cuba, Pakistan, Congo,

Gabon, Afghanistan. La maggior

parte di loro è scappato da ditta-

ture di destra e di sinistra che li

hanno condannati a morte e per-

seguitati per gli articoli di denun-

cia contro il regime.

Philippe Spinau è il diretto-

re di questa particolare struttura

dove gli ospiti possono fermarsi

sei mesi al massimo. «Nella

Maison abbiamo a disposizione

15 camere da letto singole per i

nostri ospiti. Accogliamo uomini

e donne di tutte le nazionalità, le

culture e i colori: gialli, neri, rossi,

bianchi a pois - racconta Phlippe

sorridendo. Un punto che ci

tengo a sottolineare è quello del-

l'appartenenza politica, infatti

accogliamo giornalisti di qualsia-

si parte politica, il requisito fon-

damentale è che siano discrimi-

nati nel loro Paese».

Lo stato francese concede lo

status di rifugiati politici ai gior-

nalisti della Maison. Alcuni di

loro sono in attesa di ricevere il

riconoscimento ufficiale ma

durante l’attesa hanno la possibi-

lità di lavorare nella radio e nella

rivista interna, che sia chiama

L’occhio dell’esiliato. Così posso-

no mantenere l’abitudine alla

scrittura e imparare le regole del

giornalismo francese.

Oltre alle attività culturali, i

giornalisti possono frequentare

un corso di francese, per impara-

re la lingua. Per chi ha subito

esperienze di violenza, invece, c’è

l’assistenza di uno psicologo.

«I nostri ospiti hanno avuto

esperienze tragiche - racconta

Philippe -, sono stati sottoposti a

sevizie o, nel caso delle donne, a

violenze sessuali. Chi di loro non

ha subito violenze è comunque

stato costretto a lasciare il pro-

prio Paese, la famiglia, il lavoro a

causa delle minacce di morte

ricevute». Il budget annuale

della Casa del giornalista è di

380 mila euro, una grossa cifra

che ha tre fonti di finanziamento:

la Comunità europea, i media

francesi e il comune di Parigi.

Maison des Jo u rn a l i s t e s35, rue Cauchy - Parigi

m a i s o n . j o u r n a l i s t e s @ w a n a d o o . f r

tel. +33 01 40600402

In otto anni di vitala Maison des journalistes hadato accoglienza a 180 reporterprovenienti da 41paesi diversi. La struttura dàospitalità a tutti,senza distinzionedi razza, religioneo colore politico

di Michela Nana

MAGZINE 1 | 23 novembre - 6 dicembre 200910

di Michela Nana

n

Page 11: magzine 02

I C H I A M O B r a d

Palmer, sono il

papà di Nicklas

Palmer, solda-

to morto in

Iraq il 16 di-

cembre 2006». Poi la voce fra-

na, si interrompe, proseguire

diventa complicato. Nicklas

aveva 19 anni ed è stato ucciso

da un cecchino mentre pattu-

gliava la zona rossa di Falluja.

Il padre racconta la storia di

suo figlio, l’idea di entrare nel-

l’esercito, l’orgoglio della fami-

glia, la parabola di esistenze

normalissime sconvolte dalla

scelta di combattere. Brad è

stato intervistato da un repor-

ter del Denver Post, il quoti-

diano americano più diffuso in

Colorado, nell’ambito di un

progetto multimediale che

traccia “5 anni di guerra”, dal-

la dichiarazione firmata nel

2003 da George W. Bush, f

ino all’incremento delle vio-

lenze nel 2007.

Il media center di d e n -

v e r p o s t . c o m è fra i più curati

del web. Lo spazio dedicato

alle notizie in multimedia è

molto ampio. Video, parole e

foto dialogano sfruttando le

potenzialità della comunica-

zione telematica. Five years

of war”centra il fuoco sul ter-

zo conflitto del golfo, narrando

la guerra attraverso otto punti

di vista differenti, dalle imma-

gini dei civili travolti in batta-

glia, fino agli scatti fra le bare

avvolte nella bandiera duran-

te l’ultimo viaggio dei militari

caduti. Alcune pagine sono

dedicate ai soldati, nati e parti-

ti dal Colorado, uccisi in azio-

ne. Le loro storie, raccontate

dai familiari, ripercorrono la

scelta dell’arruolamento e il

conflitto di chi rimane in

P a t r i a .

Il reportage del D e n v e r

Post è innovativo nella strut-

tura e coraggioso nel contenu-

to. Il percorso multimediale

offre una lettura trasparente

della guerra, lontana dal ten-

tativo di rendere il

conflitto astratto,

edulcorato, parzia-

le. La sezione c i t i -

zens in the crossfi -

r esi apre con l’istan-

tanea di Samar

Hassan, 5 anni, rannicchiata,

piangente e insanguinata al

centro di una stanza buia,

mentre sulla destra un soldato

regge una torcia e il mitraglia-

tore: i genitori della piccola,

spiega la didascalia, sono stati

appena uccisi dai militari

americani. La Timeline della

guerra in Iraq riporta le imma-

gini salienti della tragedia,

inclusa la foto-icona delle tor-

ture nel carcere di Abu Ghraib,

a Bagdad. Mark Echer, Jona-

than Lujan, Mattew Keil,

Nicolas Orchowski e Ray

Robinson sono i protagonisti

della sezione Wounds of war,

dove cinque veterani narrano

il dramma di chi torna dal

fronte come eroe ferito a vita.

«Cosa potrebbe esserci di

meglio? Voglio combattere.

Per questo mi sono arruola-

to». Ian Fischer, 19 anni, ter-

minato il liceo ha deciso di ini-

ziare il percorso che lo con-

durrà in Iraq. Viene da Lake-

wood, Colorado, ed ha braccia

e petto tatuati, esattamente

come il padre che dice: «In

qualità di genitore forse dovrei

impedirgli di fare la guerra». E’

un altro reportage sul Den-

ver post.com a raccontare la

quotidianità e le scelte di un

giovanissimo volontario del-

l’esercito statunitense. Il pro-

getto presenta foto,

video e testi raccolti

per 27 mesi dai croni-

sti del giornale: oltre

due anni nei quali

l’esistenza del dician-

novenne è stata

seguita, dal diploma alla trin-

cea irachena, fino al ritorno a

casa. Un modo per capire

“come si fabbrica un soldato

americano”.

Alla fine del reportage il

protagonista, ancora giova-

nissimo, decide di sposare

Devin la fidanzata del liceo:

«So che andiamo contro i

grandi numeri - dice irritato e

pieno di speranza - ma io

odio le statistiche! Chi ha il

diritto di dire che non possia-

mo sposarci a questa età?».

Intanto i fidanzatini hanno

già comprato un cane: Kyra,

un cucciolo di Pit-bull .

Vivranno tutti insieme in

Colorado. Almeno, fino alla

prossima missione di Ian.

Un fazzoletto di pianure e iso-

lotti affacciati sull’Atlantico

compone la Guinea Bissau,

fra i più poveri e piccoli Stati d’Africa. Da

alcuni anni l’ex colonia portoghese è

diventata crocevia dello spaccio interna-

zionale di droga. Un mercato che vede in

prima linea funzionari di governo corrot-

ti. Il reportage vincitore del premio L e n s

Culture International Exposurep a r t e

dal 2 marzo 2009, giorno dell’assassinio

del presidente della repubblica Joao Ber-

nardo Vieira, protagonista delle grandi

spedizioni di droga, ucciso a colpi di

mitra e machete da un manipolo di sol-

dati ansiosi di sbarcare nel circolo esclu-

sivo dei trafficanti. Il fotografo M a r c o

V e r n a s c h i, nato a Torino ma di stanza a

Buenos Aires, ha scelto di coprire la storia

dimenticata della Guinea Bisseau attra-

verso un racconto in bianco e nero.

L’obiettivo segue le bande di criminali

attraverso i bassifondi della capitale.

Il lavoro di Marco Vernaschi rientra

in un progetto più ampio focalizzato sul-

l’illegalità delle organizzazioni terroristi-

che in Africa, fra multinazionali del terro-

re come Al Qaeda e gruppi di narcotraffi-

canti. «Quando si vuole raccontare la tra-

gedia che circonda il mondo della droga

non si può evitare di essere coinvolti -

spiega l’autore -. Per questo ho dovuto

creare un forte legame con i personaggi

che ho fotografato.»

Per sap e rne di piùw w w . l e n s c u l t u r e . c o m

La lunga guerradel Denver Post

In un perc o rso mu l t i m e d i a l e, il D e nver Po s tha ri c o s t ruito “5 anni di guerra ” in Iraq a part i redalla dichiarazione fi rmata nel 2003 dagli Usa

M

multimedia

Guinea Bissau,t e rra di spaccio

MAGZINE 2 | 23 novembre - 6 dicembre 2009 11

di Gregorio Romeo

di Gregorio Ro m e o

Per sap e rne di piùw w w . d e n v e r p o s t . c o m

Page 12: magzine 02

E N T O D I C R I S I s u l

fotogiornalismo o

allarme preventi-

vo? Forse tutt’e

due. Certo è che le

richieste d’aiuto lanciate da alcu-

ni siti di riferimento evidenziano

un problema nuovo: anche per il

web mancano i soldi.

A dicembre si spegneranno,

forse per sempre, i server dello

storico sito di fotogiornalismo

d i g i t a l j o u r n a l i s t . o r g f o n d a t o

dodici anni fa, e curato da

Dirck Halstead. Sulla home-

page, sotto l’indicazione

November 2009, Issue 145,

campeggia in rosso accesso il

link per una donazione, con la

quale salvare un caposaldo del

racconto giornalistico per imma-

gini. La crisi è dovuta allo spon-

sor (Canon) che ha tagliato i

fondi, a causa del crollo quadri-

mestrale dei profitti.

D i g i t a l j o u r n a l i s t è una

piattaforma di discussione con-

centrata sulle nuove tecnologie,

sui media digitali, ma anche sul-

l’etica del giornalismo e sul

c o p y l e f t dei contenuti web. Sul

numero di novembre trova

posto un reportage fotografico

sulla caduta del muro di Berlino,

integrato da un’intervista al gior-

nalista Peter Turnley, autore

di molti fotoreportage sulla

guerra del Golfo, sulla Bosnia,

sulla Somalia, trasmesso

anche dalla Cbs; una rubrica di

domande e risposte sulle tec-

niche di inquadratura, ripresa,

ed uso pratico della macchina

fotografica; reviews aggiornate

su marche e modelli di digitali

e tanti dibattiti sul giornalismo

multimediale.

F o t o i n f o . n e t non ha più

un’homepage, o meglio ce

l’ha, ma per arrivarci occorre

passare prima per una scher-

mata arancione sulla quale

caratteri bianchi lanciano un

appello: «Se pensi che il foto -

giornalismo abbia un ruolo

fondamentale nella società

dell’informazione e se pensi

che il lavoro di Fotografia &

Informazione sia importante,

allora aiutaci a tenerla viva.

Un versamento, per quanto

piccolo, ci può aiutare».

Crisi anche per il sito che

da oltre dieci anni tiene aggior-

nati i fotogiornalisti italiani,

rastrella le novità del sulla rete e

lancia nuovi progetti di photo e

video reporting. Su F o t o i n f o . n e t

si trovano fondamentali notizie

per gli addetti ai lavori: come la

nuova regolamentazione del-

l’esercito americano per i foto-

video giornalisti embedded o

l’apertura di nuovi archivi, ulti-

mo quello del World Press

P h o t o, con diecimila immagini a

disposizione, dal 1955 ad oggi. Ci

sono anche rubriche per chi

volesse diventare un fotogiorna-

lista, con indirizzi di corsi e

m a s t e r .

Digital Jo u rn a l i s t sLa crisi del fotogiornalismo passa anche dal we b.D i g i t a l j o u rn a l i s t . o rg, il maggior sito americano perf o t o re p o rt e r, chiuderà i battenti a dicembre. M e n t reFo t o i n f o.net apre una raccolta fondi per soprav v ive re

Rivista quindicinale re a l i z z a t a

dal Master in Giorn a l i s m o

dell’Università Cattolica - Almed

© 2009 - Università Cattolica

del Sacro Cuore

D I R E T T O R EMatteo Scanni

C O O R D I N A T O R ILaura Silvia Battaglia,

O rnella Sinigaglia

R E D A Z I O N EFabrizio Aurilia, Giuditta

Avellina, Chiara Av e s a n i ,

L o renzo Bagnoli, Va l e r i o

Bassan, Marco Billeci, Raff a e l e

Buscemi, Salvo Catalano,

Francesco Cremonesi, Giulia

Dedionigi, Tiziana De Giorgio,

Viviana D’Introno, Fabio Di

To d a ro, Tatiana Donno, Robert o

Dupplicato, Fabio Forlano,

Carlotta Garancini, Ivica

Graziani, Andrea Legni,

Floriana Liuni, Cristina Lonigro ,

P i e rfrancesco Loreto, Alessia

Lucchese, Daniela Maggi,

Paolo Massa, Daniele Monaco,

Michela Nana, Ambra Notari,

Ta n c redi Palmeri, Cinzia Petito,

Simona Peverelli, Gre g o r i o

Romeo, Alessia Scurati, Luigi

S e renelli, Alessandro Socini,

A n d rea To r rente, Enrico Tu rc a t o ,

R o b e rto Usai, Cesare Zanotto,

Vesna Zujovic

A M M I N I S T R A Z I O N EUniversità Cattolica

del Sacro Cuore

largo Gemelli, 1

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Matteo Scanni

SE R V I C E P R O V I D E R

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di Fabrizio Aurilia

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