MAGISTRATI DIETRO LE SBARRE

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Un viaggio nella (in)giustizia penale in Italia, scritto da un testimone oculare, un magistrato di sorveglianza che ha deciso di raccontare, da dietro le quinte di tribunali, cancellerie e istituti penitenziari, dove vanno a finire i processi, quelli di cui parlano tutti i giornali e quelli fatalmente ignorati

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Giudici, perché?

Molto spesso, e in termini per lo più denigratori, ci si chiede,anche sui mezzi di comunicazione, perché uno decida di fare ilmagistrato. Un enigma quasi irresolubile, poi, è come si possadecidere di fare il giudice di sorveglianza.

Ammetto di essermi sempre fatto anche io questa domanda,fin da ragazzino, evidentemente già mentalmente perturbato,osservando gli arbitri di calcio: un lavoro, come quello del giu-dice, in cui, per definizione, è difficile che tu accontenti tutti. Unlavoro dove, addirittura, se sei bravo, riesci nell’impresa di scon-tentare tutti (se poi nella stessa misura, vuol dire che sei statoperfetto) e attiri l’attenzione e fai notizia solo quando sbagli.

Le ragioni profonde della mia scelta non le conosco, e, anzi,dubito sia stata una vera e propria scelta.

So solo che all’università ero rimasto molto impressionatodal testo di sociologia del diritto, nel passo in cui si diceva che ilmagistrato gode di particolari garanzie di libertà; e confesso chedi queste, a colpirmi, non era stata tanto la solenne affermazionedi principio, quanto il fatto che si precisasse che non c’eranoorari e si poteva lavorare ovunque e in qualsiasi momento.L’idea, un po’ ottocentesca, di scrivere sentenze o requisitorie investaglia davanti al camino, come un personaggio di Sir ArthurConan Doyle, oppure al tramonto nella brughiera, evidentemen-te mi affascinava.

1.Un grande avvenire dietro le sbarre

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Qualche anno dopo, il mio relatore della tesi avrebbe del restogelato le mie momentanee aspirazioni di fare l’avvocato (troppofesso per riuscire a capire le astuzie del cliente, figuriamoci quel-le della controparte) con una formula pietosa: «Ma perché non fail concorso in magistratura? Noto che lei non riesce a non esami-nare le ragioni di tutti». Probabilmente, e con singolare preveg-genza, voleva dire che non riuscivo a capire le ragioni di nessu-no, le mie per prime.

Il concorso esterno in magistratura

L’anno successivo ero a Roma per le prove scritte. Ho pochiricordi, e nessuno bello. O forse uno sì: le vecchiette che allog-giavano nella casa di riposo/pensione dove mi ero ritirato, insie-me ad altri tapini nei giorni dell’esame e quelli immediatamenteprecedenti (un aspirante uditore non scende al Plaza), ci aveva-no preso a benvolere e si interessavano, con deliziosa sollecitu-dine, alle nostre ambasce concorsuali. Ricordo ancora la signoraRosa (una arzilla novantaquattrenne, vedova di un capitano divascello, che ho promesso sarei tornato a trovare dopo il concor-so ma non l’ho mai fatto) rompere un imbarazzato silenzio altavolo (intorno al quale era radunata una formazione mista stu-denti/centenarie) con un inarrivabile: «Ma il concorso esterno inassociazione mafiosa, poi, come è andato a finire?». In effetti erauna tema “caldo” in quegli anni, causa di crisi di nervi e sceneisteriche nei giorni precedenti alle prove. Ho ben nitida nellamente l’immagine dei corridoi della pensione, la notte, con lastriscia di luce sotto la porta delle studentesse, spettinate e struc-cate, i fitti conciliaboli, le lacrime, le assurde anticipazioni sullepossibili tracce dell’esame. Per cialtronesca esibizione (e soprat-tutto per non disperdere energie nervose, che sono la risorsa piùpreziosa in ogni prova, come 26 esami all’università avevanofinito per insegnarmi) ricordo che passavo il pomeriggio nelroseto, a leggere il giornale con il cappello di paglia, come NanniMoretti sulla barchetta in Bianca, fino a quando la mamma diuna candidata, rugosa come Nefertiti, mi additò, con il bastone

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da passeggio levato in aria, alla figlia: «Maria, guarda quelragazzo. Lui passerà sicuramente, perché è TROPPO freddo». Nonaveva notato che, per la agitazione nervosa, tenevo il giornale alcontrario. Lo presi come un segno di predestinazione e una scenasimile a quella della suora che si ritrae levitando in una nuvoladi vapore all’inizio di Blues Brothers.

Uditorato e pratica professionale: un manuale di sopravvivenza

Superato il concorso iniziava il periodo dell’uditorato: unaspecie di parco giochi, per chi coltivi la perversione degli studigiuridici e sia sopravvissuto al martirio della preparazione edelle prove d’esame. Ci si aggira come reduci dal Vietnam, alritorno nel Vermont, in mezzo a questioni giuridiche e proces-suali, sostanzialmente senza alcuna responsabilità. L’atmosfera è(o era, forse è cambiato tutto) quella di un college o di uno diquei film con marinai e ballerine che andavano di moda decennifa. Abissalmente differente, per dire, da quella dello Studio pro-fessionale europeo. Ho frequentato sufficientemente entrambigli ambienti da poter scrivere una piccola guida di sopravviven-za per praticanti e uditori, ma potrei riassumere la differenza trale due realtà in poche pennellate.

Nello Studio professionale europeo ti viene inculcato fino dallaprima “cena dello studio”, rituale di iniziazione agghiacciante, chehomo homini lupus e advocatus advocato piranha. Il 60 per centodella giornata lavorativa viene speso nel dichiarato tentativo diparalizzare le manovre dei colleghi (quelli del tuo stesso studio,per lo più) per “accoltellarti alla schiena”. Poco importa che nes-suno dei tentativi sia reale e che quasi tutti i professionisti, presiisolatamente, siano sostanzialmente bravi cristi, perfettamenteconsapevoli di fare una vita assurda, una specie di circo a tre pisteper picchiatelli: varcata la porta dello studio la trasformazione inMister Hyde è pressoché inevitabile. Per sintetizzarlo in una for-mula, l’algoritmo del praticante è: “fingere di essere bravo”.

Diametralmente opposta la realtà dell’uditore: la tatticamigliore è “fingere di essere una capra”. Una delle regole auree

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della Pubblica amministrazione, forse la più importante dopo laprima legge di Canepa su cui ci intratterremo più avanti, che staal moto dei pubblici impiegati come le leggi di Keplero al motodei corpi celesti, è che “più lavoro smaltisci e più lavoro ti arri-verà”. Se ti mostri brillante, sei finito.

Detto in estrema sintesi: un uditore, quand’anche fosseCarnelutti, trapiantato nello Studio professionale europeo sareb-be allontanato a pernacchie dall’ultima segretaria, mentre unpraticante teletrasportato nell’uditorato morirebbe di surmenagealla seconda settimana.

L’atmosfera dell’uditorato, facezie a parte, è comunque moltopiacevole: i colleghi anziani (che sono scelti, di solito, tra quellimeno caratteriali) sono disponibili e affettuosi. Il modo nel qualevieni avvicinato alla pratica giudiziaria è graduale e si respiraun’aria rilassatamente solenne. Anche gli avvocati si prestanocon grande savoir-faire al gioco. Annuiscono pazienti qualsiasiasinata uno spari, alla sola condizione che tu sia cortese nei modie arrivi puntuale all’udienza, in modo da poter constatare il loropuntuale ritardo.

Facce da uditori

I miei compagni di uditorato erano undici, e a rivedere nellamemoria l’istantanea del primo giorno di scuola, mi rendo contodi quanto fossimo figli della selezione di un concorso durissimo(forse secondo solo a quello notarile, tra quelli giuridici), su unabase di partenza di persone dai gusti bizzarri.

Ricordo allora i placidi P, N e G: prendevamo in giro la primasostenendo che ben avrebbe potuto figurare sulla confezione delbrodo Star come casalinga, mamma, moglie perfetta. Gli altridue, invece, rispettivamente nipote e figlio d’arte, ma senza arro-ganza, si facevano benvolere specie dagli organizzatori di parti-te di pallone. Uno aveva l’impatto rassicurante del garzone deldroghiere (e si sarebbe trasformato in un bravissimo giudice,quello cui farei giudicare i miei figli), l’altro era uno tipo AlbertoAngela, in esplorazione (simulata) nelle cancellerie. Potevano

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anche essere una collaudata coppia di doppio a tennis o due tele-cronisti per le partite di calcio su Rai Uno. Decisamente più tem-pestosi gli altri: la puledra Rf (si favoleggiava che nel suo baga-glio non mancassero almeno tre cappelliere e qualche trespolo dipappagallo), Nd, perfetta nella parte di Glenn Close in Attrazionefatale; L, una Silvana Mangano che non avrei visto male ad apri-re la porta al postino vestita solo di un grembiule infarinato; losveltissimo furetto Dv, dall’abilità manovriera sorprendente eDa, con la sua dialettica pugilistica. Menzione speciale per lacompostezza archeologica di Mdb (probabilmente vestito nel suospigato da presidente di sezione fin dall’università): te lo sarestiimmaginato intento a studiare codici, armato di lente d’ingrandi-mento, in un cantiere polveroso dell’Egitto dei Faraoni; e per lageometrica potenza della voce e della logica di Ml, un notaio inpectore che aveva sbriciolato i timpani della commissione esa-minatrice con il bombardamento a tappeto dell’arsenale della suamemoria (ricordava con impressionante esattezza anche tutte leformazioni dell’Inter dal 1956 in poi, ma non credo fossero statemateria d’esame).

Sono sempre andata a letto presto

Quelli che ho elencato finora sono dieci. All’undicesimamaschera va dedicato un ritratto a parte. Il primo giorno di scuo-la, dieci uditori erano assiepati al banco del cancelliere capo, percompletare le operazioni di identificazione e presa di servizio,prima del solenne giuramento davanti alla Corte d’Appello. Sidistingueva in particolare Ml (notaio in pectore anche in questaoccasione): stava producendo all’esterrefatto dirigente una docu-mentazione talmente completa che un maligno, alle sue spalle,ipotizzò che stesse trattando l’acquisto della General Motors.

Un solo uditore stava manifestamente in disparte.Seduta su una panca, in un angolo dietro un muro, le spalle a

tutti gli altri e, soprattutto, alla identificazione, stava Rb. Omeglio, stava una densa nuvola di fumo, giurerei di Nazionalisenza filtro, magari anche spezzate in due, per gustarle meglio,

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dietro un giornale “molto impegnato”. Una delle mie sconfittesalutistiche di quegli anni è stata non essere riuscito a far smet-tere Rb di fumare. Devo però ammettere che tra lei e le sigarettec’era un rapporto complicato e affascinante: per qualche incon-fessabile ragione le sigarette sembravano volerle sfuggire. E leidietro a inseguirle funambolicamente con le labbra. Chi ha avutooccasione di pranzare con lei (brodo di dado con stracchino gua-sto il suo pezzo forte da ammannire all’ospite) sa cosa intendo:una sorta di reincarnazione di Frank Zappa, il cui ipotizzato epi-taffio era: «Scolpì l’aria con le note, visse di soli caffè e tabac-co».

In una parola, un soggetto molto attraente per il dodicesimouditore.

Fattomi da presso, le rivolsi un «Ma non ci siamo già visti daqualche parte?». Poteva sembrare l’approccio di un goffo sedutto-re. Invece era un ricordo preciso: avevo assistito a una sua perfor-mance dieci anni prima, durante una lezione di Diritto amministra-tivo e non me la ero dimenticata. In risposta, ebbi una nuvola difumo, se possibile più intensa e venefica (intenzionalmente rivol-ta − mi parve − al mio detestato indirizzo) e venti sillabe marmo-ree, pronunciate senza togliere lo sguardo dal foglio pensoso:«Impossibile, sono quindici anni che vado a letto presto».

Una donna che cita così superbamente Noodles di C’era unavolta in America e la prima frase de Alla ricerca del tempo per-duto non poteva passare inosservata.

Il giudice è stato creato dal re per farsi dare ragione

L’anno di uditorato, l’ho già detto, è bello, per atmosfera,varietà delle esperienze, novità degli ambienti e delle emozionicui vai incontro giorno dopo giorno: un periodo formativo, e nonsolo dal punto di vista professionale.

Se hai dei buoni maestri, metabolizzi che il lavoro giudizia-rio deve essere prima di tutto normalità, equilibrio e buon senso.Di questo serbo riconoscenza in particolare a S, uno dei respon-sabili della nostra formazione. Con una bella faccia aperta da

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guidatore di corriera, che nessun regista avrebbe mai messo sulloscranno di giudice, e una esperienza da magistrato curioso, cheaveva già allora provato praticamente tutte le funzioni giudizia-rie, ci ripeteva che fare il giudice è prima di tutto un mestiere. Eche un mestiere serve soprattutto a guadagnarsi dignitosamenteda mangiare, svolgendo onestamente un servizio per la colletti-vità. Quel richiamo al mestiere mi colpì subito (e avrebbe conti-nuato a frullarmi nella mente), come un contrappeso alla tenta-zione di certi voli pindarici. In effetti, ho ben presto capito chenon è certo la legge, né tanto meno un giudice, a poter salvare ilmondo. Anzi, che tutto sommato un giudice non può nemmenocambiarlo, il mondo. Lo diceva sempre il mio professore diDiritto amministrativo (quello che aveva avuto uno scontroepico con Rb), con una punta di bonaria amarezza: «Ricordateche il giudice è stato creato dal re per farsi dare ragione...».

Il senso di quella frase lo avrei capito pian piano, insieme conquella, simmetrica, di Dostoevskij, secondo cui è semmai la bel-lezza che lo salverà, il mondo.

È tutto prescritto…

L’uditorato è, di fatto, come la Scuola guida. Si svolge illavoro del giudice con i doppi comandi: al tuo fianco un collegaesperto ti spiega le manovre, incomincia a fartele fare, ripren-dendo il controllo appena prima che tu condanni un avvocato adodici anni di reclusione o vada in camera di consiglio con untestimone al posto di un collega.

Capita anche di trovarsi tra le mani fascicoli particolarmente“scomodi” e, con il tempo, si impara a dominare le proprie emo-zioni, idiosincrasie e paure. Un giorno, ad esempio, era capitatoa Mdb, l’Heinrich Schliemann della giustizia, un bruttissimocaso di violenza carnale e svariati altri delitti di sangue.L’incartamento era schivato da tutti come raccapricciante e, allafine, era finito a lui, considerato la nostra punta di diamante pro-fessionale. Fu, fin dall’inizio, all’altezza delle nostre aspettative.A un certo punto lo vedemmo sfogliare distrattamente le pagine

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