Made in China 2014 - Un anno di Cina al Lavoro

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Il 2014 ha segnato il passaggio a una nuova era politica in Cina ma le premesse per lavoratori e società civile non lasciano tranquilli. MADE IN CHINA Un anno di Cina al lavoro ANNO 3 | 2014 Huang Caigen, in Pesci Piccoli . 2014 VIETNAM Intervista con Angie Tran Ngoc CINA La fine della fabbrica del mondo? CAMBOGIA Intervista con Ath orn BIRMANIA Ritorno a Yangon

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Made in China 2014, un anno di Cina al lavoroPubblicato il terzo numero di “Made in China”, il dossier annuale di ISCOS e Cineresie sulla Cina al lavoro, ovvero sul mondo del lavoro in Cina.Perchè “Made in China”? Per la crescente importanza della realtà cinese nell’economia globale e le relative conseguenze per lavoro e diritti, ISCOS, in collaborazione con il blog Cineresie.info, si è fatto promotore di una newsletter focalizzata sugli aspetti sindacali, sociali, economici e giuridici della situazione lavorativa in Cina. Made in China è uno speciale annuale che nasce da quest'esperienza con l'obiettivo di facilitare ulteriormente la diffusione delle informazioni su una realtà complessa come quella cinese. Questo nella consapevolezza che in un mondo sempre più globalizzato è importante conoscere e comprendere le dinamiche internazionali al fine di difendere in maniera più efficace i diritti dei lavoratori a livello sia locale che globale.

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Il 2014 ha segnato il passaggio a una nuova era politica in Cina ma le premesse per lavoratori e

società civile non lasciano tranquilli.

MADE IN CHINAUn anno di Cina al lavoro

ANNO 3 | 2014

Huang Caigen, in Pesci Piccoli.

2014

VIETNAMIntervista con Angie Tran Ngoc

CINALa fine della fabbrica del mondo?

CAMBOGIAIntervista con Ath Thorn

BIRMANIARitorno a Yangon

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MADE IN CHINA - Un anno di Cina al lavoro (2014)Made in China has been produced with the financial assistance of the European Union. The contents of this document are the sole responsibility of Iscos and can under no circumstances be regarded as reflecting the position of the European Union.

A cura di: Ivan Franceschini, Tommaso FacchinProgetto grafico: Tommaso FacchinHanno collaborato: Laura Battistin

Foto di Copertina:“Pesci Piccoli a Yongkang”, tratto dall’omonimo documentario breve di Tommaso Facchin (2013).

Per ricevere la newsletter mensile Made in China scrivi a [email protected]. La versione pdf di Made in China è scaricabile su www.iscos.cisl.it

Un anno di Cina al lavoroMADE IN CHINA

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4 / Editoriale - Germogli calpestati

6 / Gennaio - Febbraio 2014

7 / Marzo 2014

8 / Generazioni di lavoratori a confronto nel Delta del Fiume delle Perle

9 / Cambogia - Mesi di tensione per i lavoratori cambogiani

12 / Aprile 2014

13 / Maggio 2014

13 / Un’istantanea dei migranti cinesi

14 / Vietnam - Lavoratori vietnamiti sul piede di guerra

20 / Giugno 2014

21 / Luglio - Agosto 2014

22 / Calano i suicidi, soprattutto fra le donne

23 / Cina - Quale futuro per la fabbrica del mondo?

34 / Settembre 2014

35 / Ottobre 2014

37 / I lavoratori cinesi e la Legge sui Contratti di Lavoro

39 / Birmania - Ritorno a Yangon

42 / Novembre 2014

43 / Dicembre 2014

44 / Hong Kong - L’ex colonia diventa grande

Contenuti / MADE IN CHINA 2014

Un anno di Cina al lavoroMADE IN CHINA

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Come da consuetudine, l’uscita di questo terzo numero di Made in China è un’oc-casione per tirare le somme sull’anno ap-

pena concluso. Leggendo queste pagine, scoprirete come il 2014 abbia portato alcune novità per i lavorato-ri cinesi. Sul fronte delle buone notizie, a parte l’introduzione di alcuni miglioramenti a livello legislativo, quali un emendamento alla Legge sulla Sicurezza sul Lavoro, le autorità di Pechino hanno confermato l’intenzione di procedere con una riforma graduale del sistema della registrazio-ne famigliare, il cosiddetto hukou. Stando a una serie di documenti ufficiali pubblicati nel corso di quest’anno, con l’eccezione di alcune mega-città, saranno presto eliminate quelle barriere che oggi impediscono a decine di milioni di migranti di usufruire dei servizi pubblici nei centri urbani in cui lavorano. Anche se la ricezione tra i migran-ti non sempre è stata entusiastica – in fondo, la questione dello hukou rimane strettamente colle-gata a un problema complesso quale quello della terra – diverse provincie cinesi hanno già adottato misure per facilitare il passaggio tra hukou rura-le e urbano, con alcuni governi locali che hanno addirittura eliminato ogni distinzione tra i due status. Purtroppo però le ragioni di preoccupazio-ne non sono poche. A margine delle riforme, nell’anno appena passato le autorità cinesi han-no intrapreso ancora una volta una campagna di intimidazioni e violenze ai danni delle organiz-zazioni della società civile attive nel campo del lavoro. Se già in passato – in particolare nel 2012 – si erano verificate analoghe ondate di repressio-

ne, la sensazione è che oggi la nuova leadership stia agendo in maniera più decisa e sistematica, nell’ottica di una generale riorganizzazione dei rapporti tra stato e società civile. In questo nuovo disegno, sfortunatamente non c’è spazio alcuno per realtà semi-autonome quali le ONG del lavo-ro che abbiamo conosciuto fino ad oggi. Ugual-mente preoccupanti poi sono i nuovi segnali di chiusura sulla questione del diritto di sciopero, espunto in fase di stesura da un regolamento sul-la negoziazione collettiva recentemente adottato nella provincia del Guangdong, così come il ral-lentamento nella crescita dei salari, con neppure due terzi delle provincie e municipalità cinesi che hanno innalzato il salario minimo negli ultimi dodici mesi.

Se 2013 e 2014 sono stati anni di transizione in cui la nuova leadership ha cercato di consoli-dare la propria presa sul potere, il 2015 sarà un momento chiave per comprendere che direzione prenderanno le riforme. Nell’anno a venire, non solo si vedrà come le linee guida per la riforma dello hukou saranno messe in pratica, ma si capi-ranno anche le intenzioni delle autorità di Pechi-no nei confronti delle organizzazioni della società civile, se la campagna intimidatoria proseguirà

Germogli calpestatiDopo due anni di transizione, oggi, nel silenzio, si sta assistendo a un annichilimento della società civile in Cina

EDITORIALE

di Ivan Franceschini

I cambiamenti annunciati nel 2012 sono arrivati, ora i nuovi leader riusciranno ad attuare le

riforme necessarie?

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fino al totale annichilimento di queste realtà, oppure se sarà possibile trovare un compromesso che ne garantisca la sopravvivenza. Certo è che al momento la situazione appare drammatica, con il governo cinese impegnato a rafforzare la pro-pria presa sulla società civile in una nuova svolta autoritaria dopo anni di relativo rilassamento. La sensazione è che oggi la nuova leadership stia agendo in maniera più decisa e sistematica, nell’ottica di una generale riorganizzazione dei rapporti tra stato e società civile. In questo nuovo disegno, sfortunatamente non c’è spazio alcuno per realtà semi-autonome quali le ONG del la-voro che abbiamo conosciuto fino ad oggi. Per questo abbiamo deciso di dedicare la copertina di questo numero a Huang Caigen, fondatore di Little Fish, un’ONG del lavoro con sede a Yon-gkang, già protagonista del documentario breve “Pesci Piccoli a Yongkang”, girato da Tommaso Facchin nel 2013. Al momento, l’esistenza stessa di quest’organizzazione è a rischio a causa della repressione governativa. Per contestualizzare gli eventi, in questa uscita abbiamo deciso di ripubblicare un lungo forum in cui alcuni accademici di primo piano dibattono il futuro della Cina come “fabbrica del mondo” – significativo in quanto fa il punto sul dibattito in corso – e abbiamo inaugurato una nuova rubri-ca di “numeri cinesi”. Inoltre, abbiamo allargato lo sguardo ad altre realtà asiatiche, con una serie di interviste con accademici e sindacalisti che si occupano di questioni del lavoro in paesi come Vietnam, Myanmar, Cambogia e Hong Kong.Ancora per un anno continueremo a tenervi in-formati attraverso la nostra newsletter, che d’ora in poi uscirà a scadenza trimestrale sia in italiano che in inglese. In attesa della prossima uscita, vi auguriamo buona lettura.

Pechino, 28 dicembre 2014

Nanfeng Chuang – 02/2014Come fare la fabbrica del mondo?

Caijing – 05/2014Preoccupazioni “post-rieducazione attraverso il lavoro”

Sanlian Shenghuo Zhoukan – 09/2014I Robot in Cina: una delle industrie del futuro

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Il 20 gennaio, un bambino di nove anni si è impiccato nella casa dei nonni materni a Huayang, nell’Anhui. Aveva appena saputo dalla nonna che anche quest’anno la madre, una lavoratrice migrante, non sarebbe torna-ta a casa per la Festa di Primavera. Xiao Lin (pseudonimo) era ciò che in Cina viene definito un “bimbo in custodia” (liushou ertong), un figlio di migranti affidato alla tutela di parenti, spesso anziani, rimasti in campagna. Si tratta di un fenomeno molto comune, tanto che nella scuola di Xiao Lin, i bambini con entrambi i genitori residenti altrove per ragioni di lavoro erano oltre duecento – un quarto del totale. Stando ai dati raccolti dal censimento nazionale del 2010, si stima che oggi in Cina i “bambini in custodia” siano oltre sessanta milioni.

Il 3 marzo, un migliaio di lavoratori di un impianto della IBM a Shenzhen sono scesi in sciopero per protestare contro i termini del trasferimento di proprietà della fabbrica alla Lenovo. L’operazione, dal valore di 2.3 miliardi di dollari, era stata annunciata già lo scorso gen-naio, ma i dettagli del passaggio sono stati resi noti solamente all’inizio di marzo. In particolare, i lavoratori contestavano la decisione unilaterale dell’azienda di imporre ai dipendenti una scelta tra dimissioni “volontarie” con una liquidazione nettamente inferiore a quanto richiesto dalla legislazione cinese più un bonus di seimila yuan, oppure un’automatica accettazione delle condi-zioni di impiego della Lenovo. Lo sciopero si è concluso il 12 marzo, dopo che oltre la metà dei lavoratori si è dimessa in seguito al licenziamen-to per violazione della disciplina di venti loro rappresentanti. Sebbene IBM e Lenovo si siano impegnate a non effettuare tagli ai salari e al welfare dei lavoratori che rimarranno, la lotta si è spostata nei tribunali.

LEGGI E RIFORME

Il primo marzo è entrato in vigore un nuovo “Regolamento provvisorio sulla somministrazione di manodopera”, promulgato in gennaio dal Ministero delle Risorse Umane e della Sicurezza Sociale. Questo regolamento restringe significativamente le possibilità di abusare dei contratti di sommini-strazione, limitandoli al personale temporaneo (assunto per non più di sei mesi), ausiliario o sosti-tutivo, e stabilendo un tetto del dieci per cento per la forza lavoro così inquadrata. Inoltre, la nuova normativa impone esplicitamente che i lavoratori somministrati godano dello stesso trattamento dei lavoratori di ruolo in materia di welfare, tutele e contributi previdenziali, da versare nel luogo in cui l’azienda ha sede. Alle aziende viene concesso un periodo di due anni per mettersi in regola.

Bambini in custodia, ovvero affidati ai nonni mentre i genitori partono per lavorare. Nel 2010 erano più di sessanta milioni.

Inizio d’anno segnato dalla storia di Xiao Lin, uno dei tanti “figli lasciati indietro” dai lavoratori migranti.

Nuove norme per limitare gli abusi della somministrazione di lavoro

La tragedia di un “figlio lasciato indietro” MIGRANTI

Shenzhen: lavoratori IBM in scioperoSCIOPERI

Shenzhen, Guangdong. Lavoratori IBM sul piede di guerra in occasione del trasferimento della proprietà dell’impianto alla cinese Lenovo.

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Changde: dipendenti Walmart in scio-pero con l’aiuto del sindacato

LEGGI E RIFORME

Dopo che all’inizio di marzo Walmart ha annunciato l’imminente chiusura di cinque supermercati in Cina, centocinquanta dipen-denti della sede di Changde, nella provincia dello Hunan, hanno deciso di scendere in strada per contestare lo scarso preavviso con cui hanno ricevuto la comunicazione e l’ammontare troppo basso delle liquidazioni offerte. Ai lavoratori sono state concesse solamente due settimane per scegliere tra un trasferimento a un’altra sede di Walmart in Cina – la più vicina a un centinaio di chilometri di distanza – oppure accettare una liquidazione il cui ammontare è stato stabilito in maniera unilaterale dall’azien-da. Il 21 marzo, dopo oltre due settimane di picchetto, la polizia è intervenuta per disperdere i manifestanti. Allo stesso tempo, violenze sono scoppiate in un altro im-pianto a Maanshan, provincia dello Anhui. Eccezionalmente, la protesta dei lavoratori di Changde è stata guidata dal presidente della sezione sindacale del negozio, il quale è riuscito a coinvolgere nella lotta anche il sindacato cittadino.

Il 16 marzo le autorità cinesi hanno reso pubblico un ambizioso “Piano per la nuova urbanizzazione nel periodo 2014-2020”. In questo documento, l’urbanizzazione è presentata come una panacea in grado di stimolare i consumi interni e rilanciare lo sviluppo. Come si legge nella prima sezione del Pia-no, oggi in Cina la percentuale di popolazione che vive nelle aree urbane si aggira attorno al 53.7 per cento – anche se non più del 36 per cento ha una registrazione familiare (hukou) urbana – una cifra inferiore tanto alla media del 60 per cento dei paesi in via di sviluppo, quanto a quella dell’80 per cento dei paesi sviluppati.

Il Piano propone di innalzare entro il 2020 la percentuale dei residenti urbani al 60 per cento, e quella dei cittadini con hukou non rurale al 45 per cento. Questo significherebbe integrare nelle città almeno altri cento milioni di individui, in parti-colare lavoratori migranti. Dal punto di vista della riforma dello hukou, l’accesso sarà completamente liberalizzato nei centri urbani di piccole dimensio-ni (sotto il milione di abitanti), liberalizzato “con ordine” nei centri di medie dimensioni (da uno a tre milioni di abitanti), vincolato a certe condizioni “razionali” in centri di grandi dimensioni (dai tre ai cinque milioni di abitanti) e severamente limitato nelle megalopoli (oltre cinque milioni di abitanti). Infine, il Piano prevede l’allargamento della coper-tura dei servizi pubblici e delle reti previdenziali nelle aree urbane a tutti i residenti.

Urbanizzazione. La strategia cinese consiste nel favorire l’integrazione dei migranti soprattutto nei centri di piccole e medie dimensioni.

Un nuovo piano per l’urbanizzazione guarda al prossimo lustro con l’obiet-tivo di integrare nelle città almeno altri cento milioni di persone. Intanto a Changde il sindacato locale si unisce ai lavoratori che protestano.

SCIOPERI

Nuovo piano per l’urbanizzazione 2014-2020

Walmart. Il noto marchio americano è presente in Cina dal 1996 con negozi aperti in almeno 170 città in 21 province.

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All’inizio di gennaio, la Zhongshan Uni-versity di Guangzhou ha pubblicato un rapporto sullo sviluppo dell’area del Delta del Fiume delle Perle nel 2013 che inclu-deva una sezione sui lavoratori migranti di nuova generazione. Secondo questa ricerca, oggi sarebbero circa 50.7 milioni i lavoratori migranti nella zona del Delta, tra cui 32.5 milioni di giovani nati negli anni Ottanta e Novanta. I dati mostrano varie divergenze tra i lavoratori migranti di nuova e vecchia generazione.

Innanzitutto, i giovani migranti sembre-rebbero godere di condizioni lavorative relativamente migliori, con appena il 29% dei giovani intervistati che ha affermato di lavorare sette giorni a settimana, contro il 44.3 % dei vecchi lavoratori.

In secondo luogo, le modalità di consumo dei giovani lavoratori si starebbero avvici-nando sempre più a quelle dei loro coeta-nei nelle aree urbane. Se il 38.92% delle spese mensili dei giovani lavoratori vanno a coprire vitto e alloggio – contro il 49.74% della generazione precedente – essi spen-dono significativamente di più in trucchi, abiti, divertimento e Internet.

NUMERI CINESI

In terzo luogo, le due generazioni perce-pirebbero la propria identità in maniera diversa. Mentre il 43.6% dei lavoratori di vecchia generazione si riconosceva nella definizione di “contadino” e il 35.5 % in quella di “operaio”, tra i nuovi migranti le percentuali sono rispettivamente 18.4% e 53.3%, con un significativo 21.5% che si definiva “confuso”.

Infine, diverso è il senso di appartenenza nelle aree urbane. Mentre il 28.4% dei vec-chi lavoratori affermava di “sentire di non appartenere a questo posto”, nel caso dei giovani la percentuale scendeva al 12.8%. Il 14.5% dei migranti di nuova generazione si riconosceva inoltre nell’affermazione “i residenti urbani discriminano noi lavorato-ri da fuori”, contro il 18.6 % dei migranti più anziani, mentre nel caso dell’afferma-zione “in città siamo persone di serie B” le percentuali erano rispettivamente 5.3% e 16.9%.

Secondo i ricercatori, queste differenze tra le due generazioni di migranti possono essere ricondotte al differente livello di educazione, nonché al fatto che l’esperien-za di crescita dei giovani è decisamente più simile a quella dei loro coetanei nelle città.

Generazioni di lavoratori a confronto nel Delta del Fiume delle Perle

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D: Può presentare ai lettori di questa newslet-ter la sua organizzazione?R: La CCL è una delle principali confederazioni sindacali in Cambogia. In questo paese ci sono sindacati che sono vicini al partito al governo, altri che sono vicini all’opposizione e alcuni al-tri che sono indipendenti. La CCL fa parte di quest’ultimo gruppo. Il nostro obiettivo è assi-curarci che i lavoratori cambogiani siano trattati con giustizia, il che significa buoni salari, buone condizioni lavorative e vera libertà di associa-zione. Per raggiungere questo scopo, lavoriamo su tre aspetti: in primo luogo, formiamo leader sindacali e attivisti sul diritto del lavoro e sugli ultimi sviluppi politici ed economici; in secondo luogo, organizziamo nuovi sindacati industriali o proviamo a rafforzare i sindacati già esistenti; in-fine, rappresentiamo i lavoratori sia alla base che a livello nazionale. Al momento, CCL copre nove settori, inclusi il tessile, il turismo, le costruzioni, i servizi pubblici, l’agricoltura e il lavoro informa-le. Abbiamo filiali in tutto il Paese, per un totale

di oltre ottantamila membri.D: Quali sono state le ragioni alle spalle del recente sciopero dei lavoratori tessili?R: Secondo le conclusioni raggiunte da un comi-tato consultivo composto da rappresentanti del governo, dei datori di lavoro e dei dipendenti, un lavoratore che vive a Phnom Penh oggi spende almeno 157-177 dollari al mese. Eppure il salario minimo rimane a ottanta dollari al mese, quindi puoi immaginare quanto sia dura. Per sopravvi-vere i lavoratori devono fare straordinari, quindi finiscono a lavorare dodici ore al giorno, senza alcun riposo la domenica o durante le feste. Nor-malmente, in questo modo possono guadagnare attorno ai 140 dollari, che pure sono a malapena sufficienti a sopravvivere. Per questo provano a mangiare meno e vivono in condizioni pessime, con sei o più persone in una sola stanza e appe-na un bagno comune all’esterno. Inoltre, molti lavoratori tessili lavorano a stretto contatto con sostanze chimiche, tanto che svenimenti di massa accadono di frequente, specialmente nella sta-

Mesi di tensione per i lavoratori cambogianiIntervista con Ath Thorn, Presidente della Confederazione Cambogiana del Lavoro

Lo scorso tre gennaio, soldati delle forze armate cambogiane hanno aperto il fuoco su una manifestazione di lavoratori alla periferia di Phnom Penh, lasciando sul terreno almeno quattro morti e diverse decine di feriti. Questo ha posto fine a uno sciopero – mirato a chiedere un raddoppio del salario minimo legale a centosessanta dollari – che per due settima-ne ha paralizzato l’industria tessile cambogiana, settore por-tante dell’economia nazionale. Qui di seguito vi proponiamo un’intervista con Ath Thorn, Presidente della Confederazione Cambogiana del Lavoro (CCL), raccolta a Phnom Penh lo scorso 11 gennaio sull’onda di questi eventi.

FINESTRA SULL’ASIA / CAMBOGIA

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gione calda. Per questa ragione, molti lavoratori evitano le fabbriche tessili e cercano di trovare lavoro nei servizi o nel turismo. Alcuni emigra-no in Tailandia, Corea o Malesia. In quanto sin-dacato, ci siamo confrontati diverse volte con le aziende e con il governo negli ultimi anni, ma ogni volta il salario minimo è stato alzato di una manciata di dollari. Quest’anno, siamo rimasti scioccati quando abbiamo sentito che il Comitato Consultivo sul Lavoro aveva deciso di aumentare il salario minimo di appena quindici dollari, da ottanta a novantacinque dollari a partire da aprile del 2014. I lavoratori si aspettavano di ricevere almeno 140 dollari e quindi il 24 dicembre sono scoppiati gli scioperi.

D: Cos’è successo a quel punto? Come sono scoppiate le violenze?R: Il 27 dicembre il governo ha convocato un incontro con i sindacati e i datori di lavoro. Di-verse centinaia di migliaia di lavoratori hanno marciato sul Ministero del Lavoro per chiedere salari più altri. Allora le autorità hanno deciso di aumentare il salario minimo di altri cinque dolla-ri, portandolo a cento, ma questo non è stato ab-bastanza per soddisfare i lavoratori e lo sciopero è proseguito. Il governo a quel punto ha ordinato ai lavoratori di tornare al lavoro ha minacciato di portare in tribunale i sindacati coinvolti nella mo-bilitazione. Quando, il 2 gennaio, i lavoratori si sono rifiutati di obbedire, violenze sono scoppiate nei pressi della fabbrica Yak Jin, un impianto di proprietà coreana e statunitense. Laggiù l’eser-cito è ricorso alla violenza contro i dimostranti, picchiando cinquanta persone, inclusi monaci, attivisti e lavoratori. Quindici persone sono state arrestate, ma grazie all’intervento delle Nazioni Unite, cinque monaci sono stati rilasciati dopo breve tempo. Gli altri rimangono ancora oggi in custodia. Lo stesso giorno, altri dimostranti sono stati picchiati dalla polizia fuori da un’altra area industriale, il Canadia Park. Di prima mattina il giorno successivo, forze speciali dell’esercito sono state spiegate all’esterno del Canadia e hanno iniziato a sparare sulla folla, uccidendo almeno quattro persone e ferendone quaranta. Non solo

altre tredici lavoratori sono stati arrestati, ma di tre persone non si ha più alcuna notizia da allora. [Nota: i ventitré arrestati sono stati rilasciati in giugno]

D: Molte voci si sono levate per criticare la richiesta dei lavoratori e dei sindacati di rad-doppiare il salario minimo, sostenendo che si tratta di una pretesa potenzialmente distrutti-va per l’economia cambogiana. Come risponde a queste critiche?R: L’ammontare di 160 dollari non è una richie-sta arbitraria. Come ho menzionato in preceden-za, una ricerca ha stabilito che un lavoratore a Phnom Penh ha bisogno almeno di 157-177 dol-lari al mese per vivere. Se il governo avesse accet-tato di negoziare con noi e avesse acconsentito ad innalzare il salario minimo a 130 o 140 dollari al mese, credo che avremmo potuto convincere i lavoratori a tornare a lavorare. Non penso che questo sia abbastanza per spaventare gli investi-tori stranieri. Ora come ora, i principali acqui-renti di prodotti tessili cambogiani sono scioccati dal fatto che il governo cambogiano sia ricorso alla violenza contro i lavoratori e hanno chiesto ai propri fornitori di iniziare a negoziare i salari immediatamente. Il costo del lavoro è solamente una piccola percentuale dei costi di un’impresa. In passato, una ricerca ha calcolato che ogni la-voratore portava all’azienda circa 280 dollari al mese, mentre il costo del suo lavoro si aggirava attorno ai 55 dollari. Inoltre, il numero delle fabbriche tessili in Cambogia sta ancora crescen-do: ora ce ne sono circa 960, rispetto alle 500 dell’anno precedente. Se le aziende non traggono vantaggio dalla situazione, perché continuano a venire? Perché non si prendono cura del benes-sere dei propri dipendenti? Se avessero a cuore i dipendenti, i lavoratori avrebbero più capacità e energie da dedicare alla produzione.

D: Avete ricevuto qualche pressione dal gover-no?R: Il governo ha minacciato di sospendere la no-stra licenza e di usare la legge contro di noi. An-che diverse aziende stanno minacciando di farci

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causa per i danni causati dai lavoratori durante lo sciopero. Eppure, secondo la legislazione sul lavoro cambogiana, i lavoratori hanno il diritto di scendere in sciopero se non viene loro permesso di negoziare.

D: Cosa possono fare i sindacati internazionali per sostenere la vostra causa?R: I sindacati internazionali, soprattutto quelli italiani, hanno molta esperienza. Sindacati gio-vani come noi si trovano ad affrontare diversi problemi: da un lato, ci sono i datori di lavoro, che stanno provando a distruggerci; dall’altro, ci sono il governo e i sindacati gialli. Ci troviamo in una situazione pessima. I sindacati internazionali possono aiutarci formando i nostri sindacalisti e i lavoratori, condividendo esperienze e rafforzando il dialogo sociale. Abbiamo bisogno dei sindacati internazionali anche per mettere sotto pressione il governo e gli acquirenti. Questo tipo di coo-perazione sarebbe una grande opportunità per i sindacati cambogiani.

Phnom Penh. Immagini degli scontri fra lavoratori e polizia nel gennaio 2014 (foto: Cambodia CNRP e Luc Forsyth).

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Tra il 14 e il 29 aprile, un massiccio sciopero cui hanno partecipato decine di migliaia di dipendenti ha colpito l’impianto di Dong-guan della Yue Yuen, il più grande produttore di scarpe da ginnastica di marca al mondo. La mobilitazione è iniziata dopo l’ennesi-mo rifiuto da parte dell’azienda di pagare ai lavoratori quanto dovuto per il mancato versamento dei contributi. Lo sciopero, uno dei più grandi registrati in Cina negli ultimi anni, da un lato ha visto un massiccio spiega-mento di polizia e il fermo di alcuni attivisti (poi rilasciati), dall’altro ha portato le autorità locali e il Ministero delle Risorse Umane e della Sicurezza Sociale a schierarsi a favore dei lavoratori. La protesta è rientrata solo dopo che i vertici aziendali hanno accettato di rical-colare il welfare dei lavoratori, con l’aggiunta di un sussidio mensile di 230 yuan, e hanno promesso di pagare quanto dovuto. L’azienda ha dichiarato che lo sciopero ha portato a una perdita diretta di circa 27 milioni di dollari, mentre il welfare aggiuntivo verrà a costare intorno ai 31 milioni di dollari nel solo 2014.

Dongguan, Guangdong. Lavoratori della Yue Yuen, attualmente il più grande produttore di scarpe da ginnastica griffate al mondo. Lo sciopero di aprile ha portato una perdita diretta all’azienda di circa 27 milioni di dollari.

I buoni propositi del sindacato cineseIn occasione delle celebrazioni per il primo mag-gio, il Presidente della Federazione Nazionale dei Sindacati Cinesi (FNSC) Li Jianguo ha tenuto un discorso in cui ha sottolineato l’importanza di tutelare i diritti e gli interessi dei lavoratori nel processo di approfondimento delle riforme. Li ha posto particolare enfasi sulla necessità di servirsi della “mentalità e dei metodi dello stato di diritto” nel condurre l’attività sindacale. Nei giorni suc-cessivi, la FNSC ha pubblicato un piano triennale (2014-2016) per la costruzione di una “schiera di talenti nel campo del diritto” che vadano a raffor-zare i ranghi sindacali.

Yue Yuen, decine di migliaia in sciopero a Dongguan

Decine di migliaia di lavoratori della Yue Yuen scendono in strada a Dongguan per protestare contro il mancato pagamento dei contributi: è uno degli scioperi più grandi registrati in Cina negli ultimi anni.

SCIOPERI SINDACATO

Oggi il sindacato può contare su 2,041 dipendenti con almeno una laurea di primo livello in materie giuridiche, 500 avvocati dotati di regolare licenza, nonché 3,698 arbitri di dispute sul lavoro che prestano servizio part-time. Il piano prevede di portare il numero dei laureati a tremila e quello degli avvocati a mille entro il 2016. Inoltre, ai sindacati a tutti i livelli viene richiesto di promuo-vere la professionalizzazione del proprio personale addetto alla supervisione del lavoro e alla risolu-zione delle dispute.

FNSC: Federazione Nazionale dei Sindacati Cinesi. E’ l’unico sindacato ufficiale in Cina, da sempre in un ruolo di sudditanza rispetto allo Stato-partito, nonostante gli sforzi messi in atto negli ultimi vent’anni per affrancarsi dal pro-prio ingombrante passato e stare dalla parte dei lavoratori.

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Il 7 maggio il tribunale del distretto di Yuexiu a Canton ha condannato tre imputati a pene dai sette mesi ai tre anni per aver obbligato tre minorenni di età compresa tra i tredici e i sedici anni a lavorare in condizioni di schiavitù. Una delle giovani vittime, un ragazzo originario del Sichuan, ha raccontato di essere stato avvicinato da un intermediario nei pressi di una stazione di assistenza subito dopo essere arrivato a Canton in occasione del capodanno lunare del 2013. Ingannandolo con la promessa di un lavoro in fabbrica ben pagato, costui lo aveva portato in

DIRITTI

Canton, Guangdong. Con i suoi quattordici milioni di abitanti è fra le più importanti città cinesi.

Nel mese in cui si celebra la Festa dei Lavoratori, un tribunale di Canton condanna tre imputati per l’ennesimo caso di traffico di esseri umani e schiavitù nel cuore della fabbrica del mondo.

Stando a dati pubblicati in maggio dall’Uf-ficio Statistico Nazionale, nel 2013 in Cina c’erano 268.94 milioni di lavoratori migran-ti, +2.4% rispetto all’anno precedente. Tra questi, 166.1 milioni erano cosiddetti wai-chu nongmingong, migranti che si spostano al di fuori del proprio comune di origine. Di questi migranti sappiamo che il 46.6% sceglieva di recarsi in un’altra provincia, mentre il restante 53.4% rimaneva propria provincia natale. Il 56.8% era occupato nel settore secondario e il 42.6% nel terziario, con una particolare concentrazione nel manifatturiero e nell’edilizia. Il reddito medio mensile pro capite era di 2,609 yuan, il 13.9% in più rispetto all’anno preceden-te. Questa crescita però coincideva con un consistente aumento del costo della vita,

NUMERI CINESI

MAG

Tre condanne per un caso di schiavitù nel centro di Canton

un appartamento blindato in un vicolo nel cen-tro cittadino e lì lo aveva rivenduto a una coppia per trecento yuan. In quella prigione, il ragazzo ha trascorso otto mesi, costretto insieme a due compagni a montare orologi per quattordici o quindici ore al giorno, senza un solo momento di riposo. Solo in ottobre i tre sono stati salvati dalla polizia.

attestatosi sugli 892 yuan mensili, il 21.7% in più rispetto al 2012. Particolarmente onerosi erano i costi per l’alloggio, in media 453 yuan al mese, un aumento del 27%.Il rapporto include una sezione sulla tutela dei diritti. I migranti risultavano lavorare in media 9.9 mesi all’anno, 25.2 giorni al mese e 8.8 ore al giorno. A dispetto dei limiti imposti dalla legislazione sul lavoro cinese, il 41% lavorava più di otto ore al giorno e l’84.7% più di 44 ore a settimana. Lo 0.8% dichiarava di aver avuto problemi di manca-to pagamento dei salari, un aumento dello 0.3% rispetto all’anno precedente.Il tasso di contrattualizzazione del lavoro era del 41.3%, un calo del 2.6% rispetto al 2012. Le cifre riguardanti la partecipazione ai fondi previdenziali, seppure in cresci-ta, rimanevano molto basse. Il 15.7% dei migranti versava i contributi per il fondo pensionistico, il 28.5% per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, il 17.6% per l’assicurazione sanitaria, il 9.1% per l’assicurazione contro la disoccupazione e il 6.6% per la maternità.

Un’istantanea dei migranti cinesi

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Lavoratori vietnamiti sul piede di guerraUna conversazione con Angie Tran Ngoc

FINESTRA SULL’ASIA / VIETNAM

L’undici maggio, l’installazione di una piattaforma petrolifera cine-se in acque contese con il Vietnam ha scatenato un’ondata di pro-teste tra i cittadini vietnamiti. Nei giorni successivi, i lavoratori in diverse aree industriali sono scesi in sciopero contro i propri datori di lavoro cinesi. Questi tragici eventi hanno portato all’attenzione del pubblico mondiale non solo i sommovimenti geopolitici che stanno avendo luogo in Asia Orientale, ma anche l’esistenza – fin troppo spesso ignorata – di una nuova classe operaia vietnamita. Per meglio comprendere le dinamiche dell’attivismo operaio in questo paese, abbiamo intervistato Angie Tran Ngoc, docente di economia politica presso la California State University.

D: Dal 2006 il Vietnam ha vissuto una cresci-ta notevole nel numero delle proteste operaie, tanto che da più parti si è parlato di una “on-data di scioperi”. Purtroppo però non ci sono molti studi che prendono in considerazione il periodo posteriore al 2011. Potrebbe dirci com’è cambiata la situazione negli ultimi anni? Il numero degli scioperi continua a crescere oppure lo scontento operaio si è in qualche modo attenuato?

R: Per prima cosa, capiamo cosa è stata que-st’“ondata di scioperi.” In Ties That Bind, il mio libro del 2013, ho analizzato le organizzazioni dei lavoratori e le proteste operaie in Vietnam nell’arco di oltre un secolo, con un’attenzione particolare all’attivismo nell’era del Doi Moi (rinnovamento o riforme di mercato), dal 1986. Le ondate di scioperi sono state tre, non solo quella del 2006. L’ondata del 2006 riguardava il congelamento settennale del salario minimo. Quegli scioperi costrinsero lo stato a legiferare e i proprietari delle fabbriche a investimento este-ro ad accettare un aumento del 40 per cento del salario minimo. L’anno successivo, i lavoratori

invece chiedevano aumenti salariali adeguati a compensare l’inflazione galoppante, una situazio-ne che portò le autorità a istituzionalizzare degli aggiustamenti annuali dei salari calcolati sulla base dell’inflazione a cominciare dal gennaio del 2008. Infine, nel 2008 gli scioperi prendevano di mira quei datori di lavoro stranieri che ancora rifiutavano di rispettare la decisione di riaggiu-stare i salari annualmente sulla base dell’inflazio-ne. Anche se il mio libro copre gli scioperi dal 1995 al 2011, ho continuato a seguire quanto sta accadendo nelle fabbriche vietnamite. Nel consi-derare i dati statistici, è importante tenere bene in mente the l’economia e la politica vietnamite sono ora intrecciate con il sistema capitalistico globale. L’ingresso nell’Organizzazione Mondia-le del Commercio (OMC) nel gennaio del 2007, la crescente inflazione, la crisi finanziaria globale dell’ultima parte del decennio scorso, così come altre questioni mondiali e regionali, hanno tutte un impatto sui lavoratori vietnamiti.Nonostante il numero degli scioperi riportati sembri essere sceso negli ultimi anni, lo scontento dei lavoratori vietnamiti non si è placato e le azio-ni industriali non sono diminuite. Negli ultimi

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tre anni, gli scioperi riportati mostrano una dimi-nuzione costante: 981 scioperi nel 2011, 539 nel 2012 e 355 nel 2013. La maggior parte di questi scioperi (circa il 70 per cento) ha avuto luogo in fabbriche sindacalizzate; oltre il 70 per cento è successo in imprese di proprietà coreana e taiwa-nese, per lo più impianti in cui si assemblano per l’esportazione prodotti tessili e scarpe di pelle.Ciò però non significa che ci siano stati meno scioperi. Questo perché, da sempre, i giornali vietnamiti progressisti che si occupano di lavoro si tengono in equilibrio su una linea sottile che divide ciò che possono riportare e ciò che invece non possono scrivere a causa dei limiti imposti dal partito-stato. Prima che il Vietnam entrasse nell’OMC, lo stato si sentiva costretto a mostra-re una certa tolleranza nei confronti del dissen-so sul lavoro e della copertura da parte di me-dia “indipendenti.” Questi giornali allora erano in grado di criticare quegli apparati dello stato che, irresponsabilmente, ignoravano le richieste dei lavoratori. Così, essi giocarono un ruolo de-cisivo nel raccontare quotidianamente l’ondata di scioperi del 2006 che portò tutti gli attori chiave al tavolo dei negoziati, sfociando in un aumento del 40 percento del salario minimo e in una suc-cessiva istituzionalizzazione dei riaggiustamenti annuali dei minimi salariali sia per le imprese a investimento estero che per quelle domestiche sulla base dell’inflazione. Tuttavia dopo l’ingresso del Vietnam nell’OMC e man mano che la pre-occupazione dello stato per la propria legittimità aumentava a causa del diffondersi degli scioperi, la situazione è cambiata. Dal 2008, lo stato ha limitato non solo i tentativi di resistenza dei la-voratori, ma anche l’attività di questi media. In generale, meno scioperi sono stati riportati sulle pagine di questi giornali, ma questo non significa che le proteste operaie non continuino a verificar-si regolarmente.

D: In base alla sua esperienza, quali sono le ragioni principali degli scioperi nel Vietnam di oggi? È vero che, come hanno sostenuto in molti, sta avendo luogo una transizione da proteste basate sui diritti a proteste basate su-

gli interessi?

R: Non sono d’accordo con questa impostazione semplicistica e anche quanto emerge sul campo dagli scioperi non supporta l’idea di “una transi-zione da mobilitazioni basate sui diritti a mobili-tazioni basate sugli interessi.” Innanzitutto, dalla mia ricerca è emerso che non è possibile separare i diritti dagli interessi! Si tratta di una biforcazione artificiale e irrealistica, che privilegia il linguag-gio dello “stato di diritto” adottato sin dal 2001, quando il Vietnam si è ulteriormente integrato nel mondo neoliberale, sorvolando su contesti storici e politico-economici molto più comples-si. Una simile divisione non riflette le voci reali dei lavoratori, i quali per identificare le ragioni di uno sciopero spesso usano le parole quyền lợi, “di-ritti e benefici” come un unico concetto intercon-nesso, non due. Anche il sindacato centrale – la Confederazione Generale del Lavoro Vietnamita (CGLV) – ha riconosciuto questa inseparabilità. Dal 2010, essa ha riconosciuto tre categorie di sciopero: scioperi per i diritti; scioperi per gli in-teressi; e una combinazione dei due. Anche nei paesi sviluppati, è forse possibile separare le “assi-curazioni sociali, sanitarie e per la disoccupazio-ne” dagli standard lavorativi minimi?Nei testi delle leggi, questa distinzione tra diritti (requisiti legali stabiliti dalla legislazione sul la-voro) e interessi (richieste superiori ai requisiti legali) tende a servire gli interessi potenti della comunità degli investimenti esteri, non gli inte-ressi dei lavoratori. Questa separazione, codifi-cata in due rispettivi articoli nella sezione sugli scioperi inclusa nel Capitolo 14 della Legge sul Lavoro, permette gli scioperi solamente quando il management non rispetta interessi su cui si è già raggiunto un accordo. Se le violazione invece riguardano “diritti,” i lavoratori devono trovare una soluzione con il management nei tribunali del lavoro, non attraverso gli scioperi. Tuttavia nella vita reale, la maggioranza delle violazioni continua a riguardare standard lavorativi minimi stipulati nella Legge sul Lavoro, e i lavoratori non hanno né il tempo né le risorse necessarie per por-tare in tribunale il management.

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Ad esempio, una delle “violazioni dei diritti” fon-damentali che compare tra le ragioni citate più spesso per gli scioperi “selvaggi” in Vietnam è il mancato pagamento dei contributi sociali e sani-tari da parte delle aziende. Per legge, il manage-ment deve versare il 15 per cento del totale dei salari per l’assicurazione sociale e il 2 per cento per l’assicurazione sanitaria, mentre i lavorato-ri sono tenuti a pagare il 6 per cento del salario all’assicurazione sociale. Tuttavia, mentre i salari dei lavoratori vengono regolarmente dedotti, dei manager privi di scrupoli spesso si appropriano di questi fondi per i propri interessi e non con-tribuiscono al fondo generale per l’assicurazione sociale come richiesto per legge. Per capire meglio le strategie adottate dal management per evitare di versare i contributi ai lavoratori, si può far rife-rimento al mio libro. Una delle modalità più dif-fuse consiste nel non pagare i contributi dei lavo-ratori sulla base dei salari totali – che dovrebbero includere anche gli straordinari – ma solamente sui loro salari di base, cosa che risulta in benefici (assicurazione sociale e sanitaria) sotto-finanziati e assolutamente nessuna assicurazione contro la disoccupazione nel caso in cui la fabbrica chiuda e i lavoratori perdano il lavoro. Un altro esempio dell’inseparabilità di diritti e interessi può essere trovato nella necessità di un salario sufficiente a sopravvivere, superiore al minimo stabilito dallo stato. Nel 2014, il salario minimo per le aree ur-bane (la regione con il livello più elevato rispetto alle aree suburbane e rurali) – circa 128 dollari al mese – copre appena il 75 per cento delle necessi-tà basilari dei lavoratori.Una crisi in corso proprio in questo periodo ben dimostra l’interconnessione di diritti e interessi. Il futuro dei sotto-finanziati fondi di sicurezza/assicurazione sociale, ormai in procinto di col-lassare, è oggetto di discussione nel parlamento vietnamita proprio mentre stiamo parlando! I de-biti si stanno accumulando. Stando a dati dell’Uf-ficio della Sicurezza Sociale vietnamita, alla fine di marzo del 2014 i debiti della sicurezza sociale nazionale ammontavano a oltre 524 milioni di dollari – una crescita del 18 per cento rispetto al 2013 – dei quali 381 milioni erano debiti per la

sicurezza sociale e oltre 143 milioni debiti per la sanità. In una situazione del genere, i lavoratori sono coloro che ci rimettono di più. Centinaia di migliaia di lavoratori si sono trovati con salari ridotti per pagare le tasse, ma il management o si è appropriato di questi soldi per i propri interessi o semplicemente si è rifiutato di contribuire ai fondi previdenziali, ignorando quanto previsto dalla Legge sul Lavoro. I lavoratori poi riman-gono bloccati quando i proprietari o i manager scappano dal paese o si spostano in un’altra regio-ne in Vietnam, lasciandosi alle spalle solo delle proprietà in affitto che non possono essere recu-perate per pagare gli arretrati o i debiti.A causa della propria mobilità, i lavoratori mi-granti soffrono molto più della manodopera locale. Quando perdono il lavoro, e con esso la propria assicurazione sociale e quella sanitaria, non possono permettersi di rimanere in città, ma devono emigrare in qualche altra provincia o re-gione per ricominciare daccapo. Ora come ora, su 300,000 imprese presenti in tutto il paese, so-lamente 150,000 partecipano e contribuiscono ai fondi per la sicurezza sociale (dati del Ministero del Lavoro, degli Invalidi e degli Affari Sociali). D’altra parte, la disciplina finanziaria dello stato nei confronti dei violatori è stata così inadegua-ta e la supervisione così inefficace – i funzionari statali sono oberati di lavoro – che il mancato ri-spetto delle norme non è stato punito e si è fallito nel dare un esempio a altri che portavano avanti le stesse attività illegali. Ancora una volta, i lavo-ratori sono stati coloro che hanno maggiormente sofferto a causa di queste violazioni dei loro dirit-ti basilari. Questa è la ragione per cui sono scesi in sciopero. Molti sindacati locali progressisti li hanno aiutati a portare questi casi in tribunale. Tuttavia, come ho sostenuto nel mio libro, anche con un sistema legale affermato, i tribunali vie-tnamiti hanno fatto ben poco per smascherare e penalizzare i datori di lavoro che ingannavano sia i propri lavoratori che lo stato.

D: Sebbene Cina e Vietnam presentino notevoli affinità dal punto di vista del sistema politico e dell’organizzazione del lavoro, Anita Chan ha

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sostenuto che i lavoratori vietnamiti abbiano un livello di consapevolezza molto più elevato rispetto alle loro controparti cinesi. Secondo Lei, quali sono i fattori che contribuiscono maggiormente a plasmare la consapevolezza del lavoratore vietnamita?

R: Ancora una volta, eviterei di definirla nei ter-mini di una consapevolezza dei “diritti” da parte dei lavoratori vietnamiti, in quanto piuttosto li-mitata – essa comunque privilegia il framework legale del sistema di mercato – e astorica. Non è solamente il linguaggio di “diritti contro interes-si” che plasma la coscienza dei lavoratori in Vie-tnam. Come ho sostenuto nel mio libro, si tratta piuttosto della convergenza di una serie di legami: l’eredità storica socialista – inclusi alcuni diritti acquisiti che i lavoratori si aspettavano sotto il regime socialista, quali ad esempio l’assicurazione sociale, sanitaria e per la disoccupazione – così come quei fattori culturali (genere, luogo d’origi-ne, etnia e religione) che uniscono i lavoratori in tempi buoni e cattivi, permettendo lo sviluppo di una coscienza di classe nei momenti di crisi.In Vietnam, l’eredità storica rimane rilevante. Nella mia ricerca ho trovato prove che dimo-strano come nel processo di privatizzazione del-le imprese statali che ha avuto luogo dal 2002, i lavoratori si aspettassero che lo stato fosse all’al-tezza della visione socialista sotto la quale erano cresciuti. Si aspettavano che lo stato li proteggesse dai predatori (capitalisti) che volevano depredar-li. Presentavano petizioni al governo, lanciavano appelli alla stampa che si occupava di lavoro e ai tribunali del lavoro, chiedendo a questi attori di difendere quegli stessi valori socialisti che lo stato aveva sposato, nonché di garantire loro la liquidazione e il risarcimento che gli spettavano. I giovani lavoratori non statali, che hanno poca o addirittura nessuna esperienza di vita sotto un regime socialista, ugualmente invocavano l’ideo-logia socialista (equità, giustizia, no allo sfrutta-mento) nelle proprie varie forme di lotta. Cer-tamente, le cose potrebbero cambiare in futuro, dato che i lavoratori più giovani, cresciuti in un sistema di mercato con la propria logica e centra-

to sulla crescita degli investimenti esteri diretti, sono molto più distaccati da una simile coscienza della giustizia.Tuttavia, in generale, ciò che i lavoratori hanno ricordato allo stato inviando petizioni e lamentele alla stampa e combattendo i capitalisti di oggi per tornare ad avere indennità non salariali e benefici distribuiti nell’ormai conclusa era socialista era un certo senso di titolarità che non necessariamente coincideva con i diritti. Monitorando gli scioperi negli ultimi anni (fino al 2014), ho scoperto che la maggior parte dei lavoratori esprimono preoc-cupazione per violazioni basilari dei propri diritti e che questi diritti sono strettamente collegati ai cosiddetti “interessi.”

D: Come la Cina, il Vietnam ha una legislazio-ne sul lavoro in continua evoluzione. Solo nel 2012 sono stati introdotti un emendamento alla Legge sul Lavoro e una nuova Legge sui Sindacati. Anche in Vietnam, come in Cina, la legge rimane spesso lettera morta a causa della scarsa volontà dei governi locali di supervisio-narne l’applicazione?

R: La Legge sul Lavoro vietnamita è molto pro-gressista, specialmente per quanto riguarda la tu-tela delle donne. Tuttavia, fin troppo spesso essa non è applicata in maniera appropriata nel con-testo della catena di fornitura globale, con i suoi rapporti di potere sbilanciati. Un esempio è la già menzionata crisi dell’assicurazione sociale. Ecco come funziona la catena di fornitura globale: la maggioranza dei lavoratori vietnamiti si trova al livello più basso (livello tre) e assembla vestiti e scarpe per fabbriche a contratto/fornitori a inve-stimento estero diretto (livello due), i quali a loro volta prendono ordini da imprese multinazionali (livello uno). Le multinazionali sono molto esper-te nel calcolare il prezzo del subappalto sulla base del salario minimo stabilito dal governo (spesso non sufficiente neppure a sopravvivere) e tendono a non approvare le indennità non salariali richie-ste dai fornitori di secondo livello per calmare i lavoratori. A volte, le fabbriche del secondo livel-lo usano questo come scusa per non accettare le

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richieste dai lavoratori, anche quando gli aumen-ti rappresenterebbero solamente una percentuale minima del prezzo di appalto pagato ai fornitori.La Legge sui Sindacati del 2012 ha offerto un modo per rafforzare la posizione dei lavoratori. In essa si riscontra un interessante sviluppo re-cente riguardante il sindacato. Sebbene a oggi la maggior parte degli scioperi abbia avuto luogo in fabbriche sindacalizzate, essi sono comunque considerati scioperi “selvaggi,” in quando non condotti dalla CGLV, ma da lavoratori che spes-so rimanevano in condizioni di clandestinità per evitare di essere presi dallo stato e dal manage-ment. Riconoscendo la debolezza della CGLV e la forza degli scioperi condotti dai lavoratori, il sindacato ha iniziato a servirsi dell’articolo 5 della Legge, là dove si permette ai lavoratori di avvia-re e formare sindacati aziendali autonomamente (sempre sotto gli auspici generali della CGLV), invece di attendere che funzionari del sindacato di livello distrettuale o provinciale approccino il management. I funzionari della CGLV spera-no che questo farà emergere dei leader di base tra i lavoratori stessi, persone aventi lo stesso background dei lavoratori e rispettati da questi ultimi, pertanto in grado di condurre uno sciope-ro quando necessario. Questo rafforzamento dei lavoratori al livello di base è una notizia positiva che ben si accompagna al processo di contratta-zione collettiva. Sarebbe interessante monitorare i risultati di una tale iniziativa, onde facilitare e rafforzare l’organizzazione del lavoro.Inoltre, i sindacati sono stati rafforzati da un fo-rum molto potente: la stampa specializzata sui temi del lavoro. In un mio articolo del settembre del 2007, mi soffermavo sull’importanza dei gior-nali del lavoro, i quali hanno dato ai lavoratori una voce più forte di quanto non accade di solito nell’ambito di sistemi comunisti. Vorrei mettere in evidenza in particolare il ruolo dei due prin-cipali quotidiani del lavoro, centrati sui rapporti tra lavoro e management, soprattutto gli scioperi: il Người Lao Động (Il Lavoratore, forum ufficiale della Federazione del Lavoro della Città di Ho Chi Minh) e il Lao Động (Lavoro, l’organo di stampa del sindacato centrale, la CGLV, basata a

Hanoi, ma con un ufficio anche a sud). Ho sco-perto che sebbene siano tuttora incastonati all’in-terno della struttura dello stato e del sindacato, questi giornali hanno usato le proprie connessio-ni e la propria conoscenza del sistema per ripor-tare conflitti all’interno della struttura dello stato e per mediare tra interessi ufficiali divergenti ri-guardanti l’organizzazione del lavoro a fronte del capitale straniero. I giornalisti hanno tentato di mantenere un equilibrio tra il servire i lavoratori e il dovere di rispondere alle agende politiche del partito, dello stato e dei sindacati.

D: In Cina, la comunità imprenditoriale ha sempre avuto una forte influenza sui processi legislativi che hanno portato all’applicazione di nuove leggi e politiche sul lavoro. Ad esem-pio, nel 2006 le autorità cinesi hanno radi-calmente modificato i contenuti di una bozza della Legge sui Contratti di Lavoro favorevole ai lavoratori per evitare la “fuga dei capitali” minacciata dagli investitori stranieri. Che peso hanno gli interessi della comunità imprendi-toriale nella formulazione delle politiche sul lavoro in Vietnam?

R: Sforzi lobbistici sostanziali in rappresentanza degli interessi imprenditoriali sia delle associa-zioni d’affari vietnamite che dei capitalisti globali (incluse la potente Camera di Commercio Ame-ricana e le camere di commercio dei principali investitori in Vietnam, quali Corea, Taiwan e Giappone) hanno influenzato la legislazione sul lavoro, in particolare la sezione sullo sciopero del-la Legge sul Lavoro e il Capitolo 14 della stessa Legge, riguardante la risoluzione delle dispute sul lavoro. In un mio articolo del dicembre del 2007, ho messo in luce due prospettive opposte che all’epoca già esistevano, ma che sarebbero poi rie-merse con forza nel dibattito del 2011 che avreb-be portato all’approvazione dell’emendamento alla Legge sul lavoro: 1) Le posizioni pro-lavoro dei delegati delle province in cui gli scioperi sono più diffusi, i quali sostenevano l’inseparabilità di diritti e interessi; e 2) Le posizioni di coloro che invece si immischiavano con la comunità degli

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investimenti esteri e volevano permettere ai la-voratori di scioperare solamente quando le viola-zioni riguardavano interessi, non diritti. L’emen-damento del 2012 ha ulteriormente indebolito il ruolo dei lavoratori nel processo di risoluzione degli scioperi.

D: Secondo Lei, cosa possono fare il sindacato e la cooperazione internazionale per promuo-vere la tutela dei diritti dei lavoratori in Vie-tnam?

R: Ho due suggerimenti. In primo luogo, il mo-vimento internazionale dei lavoratori può raffor-zare i diritti sul lavoro in Vietnam contribuendo a potenziare strutture già esistenti: i centri di assi-stenza legale sul lavoro, stabiliti congiuntamente da alcuni sindacati locali e ONG internaziona-li, come Oxfam. Negli ultimi anni, questi centri hanno fornito assistenza legale gratuita a lavora-tori migranti in condizioni di povertà, rafforzan-do così la posizione di questi ultimi nei negoziati con il management. I centri sono situati strategi-camente in aree ad alta intensità di scioperi nel sud (Ho Chi Minh, Dong Nai, Binh Duong), ma più centri sono necessari nelle regioni setten-trionali e centrali, dove pure avvengono sciope-ri. Questo modello può rafforzare direttamente i lavoratori e facilitare la solidarietà globale del lavoro attraverso la condivisione delle pratiche migliori e delle tecniche di negoziato, nonché mettendo in contatto i lavoratori vietnamiti con i lavoratori di altri paesi, sia online che di persona.In secondo luogo, considerando come la CGLV stia cercando di rafforzare la capacità dei lavora-tori di stabilire sindacati a livello aziendale, il mo-vimento internazionale del lavoro può mandare sindacalisti esperti in Vietnam per condividere informazioni ed esperienze, insegnando ai fun-zionari del sindacato vietnamita alcune tecniche di contrattazione da mettere in pratica nella con-trattazione collettiva. I funzionari della CGLV hanno espresso apertamente il bisogno di mi-gliorare le proprie capacità tecniche di contratta-zione. Penso che per essere in grado di negoziare salari sufficienti – non solo salari minimi – e altri

benefici, questi sindacalisti abbiano bisogno di capire come funziona la catena di fornitura glo-bale e il rapporto tra il primo e il secondo livello. Inoltre i sindacalisti e le ONG del lavoro globali possono illustrare alla CGVL il ruolo delle inizia-tive di responsabilità sociale dell’impresa (RSC) nell’economia globale, spiegando loro come ri-chiedere alle imprese multinazionali di applicare genuinamente i codici di condotta (o gli standard lavorativi) – non solo a parole per accontentare i consumatori finali – e come far appello diretta-mente ai consumatori e utilizzatori finali nei pa-esi più sviluppati per migliorare le condizioni di lavoro e di vita in Vietnam.

Ties that Bind: il lavoro in Vietnam dal periodo coloniale a oggi

LIBRI

In questo libro, Angie Tran esplora la storia del lavoro in Vietnam dal periodo coloniale fino ad oggi, ricostruendo una vibrante tradizione di resistenza operaia contro condizioni oppressive. Attraverso interviste con lavoratori, attivisti, giornalisti e funzionari, nonché documenti ufficiali e materiali di proteste clandestine, Ties that Bind analizza una vasta gamma di esperien-ze di lavoratori nelle fabbriche e nei dormitori. Le prove raccolte dimostrano come, in momenti critici, legami culturali condivisi abbiano spinto i lavoratori vietnamiti in direzione di “mo-menti di classe” che li hanno ispirati a battersi collettivamente per i propri diritti. L’indagi-ne dettagliata di Tran non solo mostra come l’attivismo operaio sia un segno distintivo del Vietnam moderno, ma affronta anche una serie di questioni chiave riguardanti il commercio globale e gli operai che lo sostengono. [Ties that Bind, Angie Tran Ngoc, Southeast Asia Program Publications, 2013, pp. 354. ]

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Il due giugno la centotreesima sessione della Conferenza Internazionale del Lavoro dell’Organiz-zazione Internazionale del Lavoro (OIL) ha eletto

Wu Guijun mentre riabbraccia i familiari all’uscita dal carcere lo scorso giugno.

Dopo un anno in carcere rilasciato Wu Guijun

Sindacato cinese confermato nel Consiglio di Amministrazione dell’OIL

All’inizio di giugno le autorità di Shenzhen hanno lasciato cadere le accuse contro Wu Guijun, un lavoratore imprigionato oltre un anno fa per aver partecipato a un’azione collettiva contro la decisio-ne del proprio datore di lavoro di rilocare la pro-duzione in un’area interna del paese. Quando, il 23 maggio del 2013, la polizia aveva attaccato trecento lavoratori in marcia verso la sede del governo citta-dino di Shenzhen, più di venti di loro, tra cui Wu, erano stati arrestati. Nei giorni successivi, tutti sono stati rilasciati, solamente Wu è stato trattenuto con l’accusa di aver “raccolto una folla e aver disturbato l’ordine del trasporto pubblico”. Tuttavia, durante il processo, iniziato lo scorso febbraio, l’accusa non è mai riuscita a portare alcuna prova a supporto della tesi che Wu fosse l’organizzatore della protesta e il 29 maggio di quest’anno l’uomo è stato rilasciato su cauzione. Qualche giorno dopo le accuse sono state lasciate definitivamente cadere. Wu ha ricevuto un risarcimento di 74,455 yuan per i mancati salari nei 371 giorni di detenzione, ma non gli è stato riconosciuto il diritto a un risarcimento per i danni morali.

Nonostante il rilascio di Wu Guijun, lavoratore in carcere da più di un anno, per le organizzazioni della società civile cinesi e straniere l’aria si fa sempre più soffocante.

SINDACATO

DIRITTI

A metà giugno, il sito del governo cittadino di Yuncheng ha riportato, apparentemente per errore, i dettagli di un’indagine sulle attività delle ONG straniere in Cina lanciata di recente dalla Commissione per la Sicurez-za Nazionale, un nuovo ente stabilito dalle autorità centrali per individuare e gestire le minacce interne ed esterne alla sicurezza del paese. A quanto si sa, la campagna è durata da maggio alla fine di luglio ed era finalizzata a gettare le basi per la standardizzazione della gestione delle ONG straniere in Cina. Al momento, la quasi impossibilità di ottenere una registrazione ufficiale come enti no-profit costringe la maggior parte di queste organizzazioni a operare con registrazione commerciale oppure in maniera del tutto clandestina, con tutti i conseguenti rischi per il personale espatriato e i collaboratori locali. In occasione di questa campagna, alle ONG cinesi è stato chiesto non solo se ricevono fondi stranieri, quanto e da chi, ma anche di compilare alcuni moduli con i nomi e le informazioni personali dei dipendenti di ONG estere presenti in Cina, nonché di loro eventuali “cooperanti di parte cinese”.

SOCIETÀ CIVILE

Le autorità cinesi lanciano un’indagine sulle ONG straniere in Cina

Jiang Guangping, vice-presidente e segreta-rio della Federazione Nazionale dei Sindacati Cinesi, tra i quattordici rappresentanti dei lavoratori nel Consiglio di Amministrazio-ne. Per il sindacato ufficiale cinese, eletto per la prima volta come rappresentante dei lavoratori all’OIL nel 2011, si tratta di una conferma. Sebbene nel 1919 la Cina fosse stata tra i paesi fondatori dell’organizzazio-ne, la Repubblica Popolare Cinese è entrata a pieno titolo nell’OIL solamente nel 1983.

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Il 21 luglio, il Guangzhou Ribao ha riportato i risultati di uno studio condotto dai ricercatori del Dipartimento di Medicina della Zhongshan Univer-sity di Guangzhou sui rapporti di polizia in merito alle morti verificatesi a Dongguan negli ultimi vent’anni. In particolare, un dato ha fatto sensa-zione: tra il gennaio del 1990 e l’agosto del 2013, la polizia cittadina ha registrato ben 1,124 casi di sindrome da morte notturna improvvisa, con 697 casi verificatisi tra il 2004 e il 2013. Il 90 per cento delle vittime sarebbero lavoratori di prima linea. In assenza di altre spiegazioni, i ricercatori hanno ricondotto la concentrazione delle morti in questo particolare gruppo sociale alle pessime condizioni di lavoro e alla scarsa igiene degli alloggi.

Dopo che analoghi provvedimenti sono stati cassati in passato a causa della resistenza del-la comunità imprenditoriale di Hong Kong, le autorità del Guangdong hanno messo in agenda un regolamento sui contratti collettivi aziendali redatto lo scorso marzo dalla federazione sindacale provinciale. La nuova bozza impone alle aziende l’obbligo di negoziare salari e altre condizioni di lavoro con i lavoratori qualora un terzo o più dei dipendenti lo richieda, però allo stesso tem-po impegna i lavoratori a non danneggiare il processo produttivo dell’azienda, pena l’incriminazione in accordo con la norma-tiva sull’ordine pubblico. La proposta ha scatenato ancora una volta il panico tra gli imprenditori di Hong Kong.

INCIDENTI

Hong Kong. La comunità imprenditoriale dell’ex colonia britannica non ha mai mancato di far sentire il suo peso contro ogni proposta di legge a favore dei lavoratori.

Il Guangdong discute nuove norme sul lavoro, imprenditori sulle barricate

A Dongguan elevato il numero di morti nel sonno fra i lavoratori

Dongguan. Dati preoccupanti sulla salute dei lavoratori impiegati nella città del Guangdong.

Mentre nel Guangdong si discutono nuove regole sulla negoziazione collet-tiva, la comunità imprenditoriale è ancora una volta sulle barricate e tuona attraverso le pagine dei media locali.

Camere di commercio, rappresentanti 18,000 aziende in 59 settori, hanno unito le forze per protestare, acquistando intere pagine pubblicitarie sui giornali dell’ex-colonia britannica per esprimere il proprio disappunto. A questo attacco ha risposto con una lettera aperta una coalizione di alcune decine di ONG nell’area del Delta del Fiume delle Perle.

LEGGI E RIFORME

INCIDENTI

Esplosione in una fabbrica di ruote nel Jiangsu: 146 morti

Kunshan. Più di duecento i feriti ricoverati negli ospedali.

LUG

2014AGO

Sabato 2 agosto, un’esplosione in una fabbrica di ruote di Kunshan, nella provincia del Jiangsu, ha causato 146 morti e diverse decine di feriti.

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[segue da pagina 21] Stando alle indagini, la de-flagrazione avrebbe avuto luogo per l’accensione di una fiamma in una stanza piena di polveri, in quella che le autorità locali hanno definito una seria violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro. Tre rappresentanti dell’azienda sono stati immediatamente arrestati, mentre il Presidente cinese Xi Jinping e il Primo Ministro Li Keqiang richiedevano un’azione rapida e inviavano sul posto una task force incaricata di verificare le cause del disastro e gestirne le conseguenze. L’a-zienda taiwanese dove si è verificata la tragedia, la Kunshan Zhongrong Metal Products Co. Ltd.,

conta tra i propri clienti alcuni nomi dell’indu-stria automobilistica americana, tra cui la Gene-ral Motors. Sull’onda dell’incidente, le autorità locali hanno chiuso 214 fabbriche a Suzhou e altre 54 a Kunshan.

Uno studio pubblicato nel 2002 dal giornale di medicina britannico Lancet riportava che tra il 1995 e il 1999 in Cina si verificavano annualmente 23.2 suicidi per centomila persone. Stando a uno studio di un gruppo di ricercatori dell’Università di Hong Kong citato dall’Economist, tra il 2009 e il 2011 la proporzione di suicidi tra la popolazione cinese sarebbe scesa a 9.8 su centomila, una diminuzione del 58 per cento. Significativamente, il cambiamento più evidente si sarebbe verificato tra le giovani donne di campagna sotto i trentacinque anni d’età. Se lo studio del 2002 fissava il tasso di suicidi per questo gruppo sociale a 37.8 su centomila, la nuova ricerca mostra come nel 2011 l’indice fosse sceso a poco più di tre su centomila, una diminuzione del 90 per cento. Questo calo è corroborato da un secondo studio che, prendendo in considerazione vent’anni di suicidi nella provincia dello Shandong, ha scoperto un declino del 95 per cento tra le giovani don-ne di campagna sotto i trentacinque anni, fino a 2.6 suicidi su centomila persone nel 2010. Considerato che lo stato cinese in questi anni ha fatto ben poco per migliorare l’of-ferta di servizi per la salute mentale dei cit-tadini, né ha avviato importanti campagne

NUMERI CINESI

per aumentare la consapevolezza del pub-blico in materia, come interpretare questa diminuzione di suicidi tra le ragazze nelle aree rurali? La spiegazione più immediata va rintracciata nelle migrazioni. “Spostarsi nelle città per lavorare – scrive l’Economist– anche se una volta là si viene trattati come cittadini di seconda classe, è stata la salvezza per molte giovani donne di campagna, che sono state così liberate dalla pressione dei genitori, da matrimoni infelici, da suocere opprimenti e da altre forme di stress tipiche della povertà della vita agricola.”

Calano i suicidi, soprattutto fra le donne

The Economist traccia il grafico sopra sulla base di dati della Tsinghua University che mettono a confronto l’incremento della migrazione verso le città (marrone) con il trend discendente di suicidi fra la popolazione rurale (azzurro) .

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Quale futuro per la fabbrica del mondo?Un dibattito con alcuni dei massimi esperti internazionali

FINESTRA SULL’ASIA / CINA

Stephen Wilkes

La Cina sta attraversando una fase di pro-fonda trasformazione, con cambiamenti che interessano non solo la struttura indu-

striale, ma anche il costo del lavoro e l’attivismo operaio. Alcuni dati recenti sono sufficienti a dare un’idea delle possibili conseguenze globali di que-sta transizione. Innanzitutto, secondo la divisione Merril Lynch della Bank of America, l’aumento del costo del lavoro e la minore disponibilità di manodopera hanno fatto sì che nel 2013 la Cina abbia attratto meno investimenti diretti esteri che le principali economie del Sudest asiatico combinate. In secondo luogo, stando a dati del Ministero del Commercio cinese, nei primi cin-que mesi del 2014 gli investimenti diretti esteri dai 28 paesi dell’Unione Europea sono scesi del 22.1 per cento rispetto allo stesso periodo dell’an-

no precedente, attestandosi su un totale di 2.51 miliardi di dollari americani. Infine, secondo un rapporto della Camera di Commercio Americana pubblicato lo scorso aprile, gli investimenti di-retti esteri cinesi negli Stati Uniti hanno ormai superato il flusso di capitali americani in Cina. È giunto forse il momento di decretare la fine della Cina come “fabbrica del mondo”? Quali sono le prospettive per l’attivismo operaio cinese? Abbia-mo sottoposto la questione ad alcuni studiosi di primo piano nel contesto internazionale: Anita Chan (Australian National University), Pun Ngai (Hong Kong University of Science and Techno-logy), Jack Linchuan Qiu (Chinese University of Hong Kong) e Sun Wanning (University of Technology di Sydney).

di Ivan Franceschini e Luigi Tomba

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Nell’ultimo decennio, la Cina è stata spesso descritta come la “fabbrica del mondo,” un termine originaria-

mente coniato per indicare il Regno Unito nel periodo della Rivoluzione Industriale. A vostro avviso, si tratta di una definizione appropriata alla luce della situazione economica e sociale della Cina di oggi? Considerando la questio-ne da un punto di vista storico, secondo voi è possibile individuare delle analogie tra la Cina di oggi e le due precedenti “fabbriche del mon-do,” l’Inghilterra del Diciannovesimo secolo e gli Stati Uniti dell’immediato Dopoguerra?

JACK LINCHUAN QIU: “Fabbrica del mon-do” è un termine appropriato per la Cina del Ventunesimo Secolo, soprattutto in virtù del-la concentrazione dell’industria manifatturiera globale che la caratterizza. Come a Manchester nell’Ottocento e a Detroit dopo la Seconda Guer-ra Mondiale, la concentrazione della forza lavoro è fortemente sbilanciata, sia all’interno del Pae-se che a livello globale, trovandosi a dipendere dall’arrivo di lavoratori migranti e dall’afflusso di capitale domestico e internazionale, canalizzato attraverso istituzioni pubbliche e private. In so-stanza, queste tre storiche “fabbriche del mondo” rappresentano diverse fasi dell’espansione del si-stema capitalista mondiale moderno, un proces-so in cui crescenti proporzioni del territorio, del lavoro e dell’operato di agenzie statali vengono risucchiate nel vortice del capitalismo globale. Tuttavia, come ha scritto Immanuel Wallerstein, le tre “frontiere” dell’espansione sono tutte ine-vitabilmente sottoposte a una contrazione del sistema-mondo, che si manifesta in concomitan-za con la crescita dei salari, l’avanzamento della democratizzazione e la rarefazione delle risorse del pianeta.

Questo parallelo storico, tuttavia, è solo parte della risposta. La “fabbrica del mondo” cinese di oggi presenta anche alcune sostanziali differenze rispetto all’Inghilterra e agli Stati Uniti del passa-to. Economicamente, come si può evincere dall’e-tichetta “Rivoluzione Industriale,” le precedenti “fabbriche del mondo” occupavano una posizione

relativamente centrale nell’indagine intellettuale e nell’opinione pubblica. Le rivoluzioni dell’in-formazione che hanno avuto luogo in quegli anni – dalla tipografia alla metà dell’Ottocento alla ra-dio e televisione alla metà del Novecento – sono sempre state parti integranti della “Rivoluzione Industriale,” senza mai però riuscire ad eclissarla, almeno fino agli anni Novanta, quando la “Ri-voluzione dell’Informazione” ha fatto scivolare la “Rivoluzione Industriale” in secondo piano. Sebbene dagli anni Novanta a oggi la produzione manifatturiera globale abbia continuato a cresce-re, la maggioranza degli intellettuali e del pubbli-co, in Cina come all’estero, considera la “Rivolu-zione Industriale” un fatto del passato, superato e irrilevante ai fini della comprensione della realtà cinese di oggi. Questa fondamentale discordanza tra realtà economica e percezione del pubblico rappresenta un serio ostacolo alla formazione di una nuova classe operaia nella “fabbrica del mon-do.” Inoltre, questo cruciale processo di forma-zione di classe è reso ancor più difficile dal “socia-lismo con caratteristiche cinesi” delle autorità di Pechino, un discorso politico che ha effetti ancor più limitanti sulla formazione della classe operaia di quanto non abbiano avuto le leggi di epoca vittoriana.

ANITA CHAN: In quanto principale produt-tore di merci per i mercati globali del consumo, la Cina può senza ombra di dubbio essere consi-derata la “fabbrica del mondo” di oggi. In nessun momento della storia umana è esistita una forza lavoro industriale delle dimensioni di quella ci-nese attuale. Da questo punto di vista, la Cina segue le orme del Regno Unito della “Rivoluzio-ne Industriale” e degli Stati Uniti della metà del Ventesimo Secolo. In entrambi i casi, questi paesi dominavano la produzione manifatturiera globa-le della propria epoca.

Cina, Regno Unito e Stati Uniti sono diven-tati “fabbrica del mondo” in differenti giunture tecnologiche e socio-politiche. Il Regno Unito introdusse per primo le nuove tecnologie che permettevano la produzione di massa nell’am-bito di un sistema industriale. Subito dopo la

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Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti invece si trovarono a beneficiare dell’espansione dell’e-conomia bellica, proprio nel momento in cui il mondo industrializzato era devastato dalla guerra stessa e dipendeva dagli americani per finanziare la ricostruzione delle proprie economie. Quando, tra la fine del Ventesimo e l’inizio del Ventune-simo Secolo, la Cina è diventata la “fabbrica del mondo,” il mondo era entrato in una nuova fase di rivoluzione tecnologica, in cui comunicazione nel cyberspazio e trasporto integrato via contai-ner avevano accelerato la spedizione di enormi quantità di merci a livello globale. Ciò rappresen-ta una sostanziale differenza rispetto a Inghilter-ra e Stati Uniti. Nella “Rivoluzione Industriale” inglese, le merci inizialmente erano prodotte da capitale locale soprattutto per il consumo dome-stico. Solamente in un secondo momento l’indu-stria britannica assunse un ruolo dominante nelle esportazioni industriali. Negli Stati Uniti del Do-poguerra, l’industria era ugualmente sostenuta da capitale interno, e produceva innanzitutto per il consumo domestico. Tuttavia, oltre mezzo secolo dopo in Cina, una proliferazione di catene pro-duttive globali ha portato capitali da Paesi indu-striali avanzati a delocalizzare la produzione in Paesi poveri per fruire dei vantaggi del basso co-sto del lavoro industriale. In altre parole, in Cina una fiorente industria finalizzata all’esportazione e fondata su tecnologie e capitali esteri ha prece-duto il consumo interno.

Ciò che è rimasto invariato in questi tre casi storici è la sottomissione del lavoro salariato al capitale. Durante la “Rivoluzione Industriale” in-glese, le cosiddette “recinzioni” e il nuovo sistema di produzione organizzato attorno alle fabbriche crearono una nuova classe di lavoratori poveri, costretti a lottare per sbarcare il lunario. Ci volle oltre un secolo prima che la classe operaia inglese, con l’aiuto dei sindacati, riuscisse a garantirsi un minimo di benessere materiale. Negli Stati Uniti, gli anni Cinquanta e Sessanta segnarono un mo-mento di prosperità industriale, caratterizzato da associazionismo operaio e una più equa ridistri-buzione dei redditi e del welfare, durante il quale il benessere materiale della classe media crebbe

significativamente. Tuttavia, alcuni decenni più tardi, l’emergere delle filiere produttive globali segnò l’inizio del declino del lavoro in Occidente e l’emergere di una realtà sempre più diffusa di lavoro industriale sfruttato nel Sud del mondo. L’ascesa della Cina come base di produzione per l’esportazione, favorita da un’ampia disponibilità di lavoro a basso costo, ha scalzato la produzione industriale ad alta intensità di manodopera dalle economie più avanzate e ha contribuito alla dimi-nuzione dei salari reali sia nei Paesi più sviluppati che in quelli del Sud del mondo. Stando a un recente studio, mentre i paesi più poveri in Asia competono per una fetta del mercato delle pro-duzioni ad alta intensità di lavoro, i salari medi dei loro lavoratori sono crollati del 14% solamen-te nell’ultimo decennio. Dopo duecento anni, il mondo del lavoro industriale è tornato alle origi-ni, con il capitale che riprende a reclutare il lavo-ro semplicemente per sfruttarlo.

PUN NGAI: La Cina è largamente riconosciu-ta come “officina del mondo” – un colosso della produzione di massa e della crescita guidata dalle esportazioni che ora è anche seconda economia mondiale per Prodotto Interno Lordo, sempre più vicina agli Stati Uniti. Si tratta di un paese che ha ridefinito la traiettoria del capitalismo glo-bale nel Ventunesimo Secolo. Come ha rilevato Anita, a confronto con le due precedenti “fab-briche del mondo,” la Cina ha una classe operaia di dimensioni inimmaginabili, che comprende oltre un quinto della forza lavoro globale. Mol-ti di questi lavoratori sono impiegati da imprese transnazionali, inclusa la Foxconn, il principale investitore taiwanese nella Repubblica Popolare Cinese e il più grande produttore di elettronica al mondo. Foxconn offre ingegneria e produzione a marchi globali come Apple e produce da sola oltre la metà dei prodotti elettronici mondiali.

Quando, nel 2009 la rivista Time annunciò di aver incluso i lavoratori cinesi tra i candidati al titolo di “persona dell’anno” del 2009, i redattori giustificarono la propria scelta sostenendo che a essi andava il merito di aver illuminato il futuro dell’umanità “guidando il mondo verso la ripre-

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sa economica.” Ma che dire delle loro condizioni lavorative? Sono proprio queste condizioni a evi-denziare alcune analogie tra la Cina di oggi e le due precedenti “fabbriche del mondo.” La nuova generazione di migranti sta lottando per creare un futuro più luminoso nel mezzo di un profon-do cambiamento sociale. La nazione è attraver-sata da profonde tensioni prodotte da differenze tanto territoriali che di classe, e tanto il capitale cinese quanto quello globale hanno collaborato con lo Stato nel creare una nuova classe operaia. Dai primi anni Novanta, consistenti investimen-ti stranieri, uniti alla ristrutturazione e parziale privatizzazione delle aziende statali e alla rapida espansione delle piccole e medie imprese, hanno trasformato radicalmente la società e l’economia della Cina. Il governo ha mantenuto il control-lo solamente di settori chiave quali la finanza, le telecomunicazioni, l’acciaio, l’energia e le risorse naturali. L’economia cinese è oggi caratterizzata da una struttura proprietaria tripartita che inclu-de investimenti stranieri, investimenti privati do-mestici e aziende statali o a proprietà collettiva. Il settore privato, tanto cinese quanto internaziona-le, domina la produzione e l’esportazione di pro-dotti ad alta tecnologia. Le condizioni lavorative in aziende come Foxconn rappresentano un mi-crocosmo delle centinaia di milioni di lavoratori coinvolti nell’industrializzazione e urbanizzazio-ne di un Paese sempre più inserito nell’economia globale. La Cina come officina del mondo porta alle estreme conseguenze lo sviluppo del capita-lismo mondiale e ha il potenziale di accelerare un’eventuale futura crisi economica globale.

Nel rilevare la realtà dello sfruttamento negli sweatshop in Cina, spesso si omette di far rife-rimento al fatto che in Cina esiste una legisla-zione sul lavoro piuttosto avanzata, per lo meno per quanto riguarda i diritti individuali. Di fatto, nei vent’anni trascorsi dall’adozione della Legge sul lavoro, le autorità cinesi hanno promosso una notevole azione legislativa in campo lavoristico, accompagnandola ad altrettanto forti campagne di propaganda. Sin dai tempi dello sciopero dei lavoratori della Honda di Nanhai del maggio del 2010, accademici e giornalisti hanno parlato

di un “risveglio dei diritti” che starebbe avendo luogo tra i lavoratori cinesi, in particolare tra i “migranti di nuova generazione”. Secondo voi questo “risveglio” è reale o riflette un certo wi-shful thinking? Da questo punto di vista, lo scio-pero della Honda – in cui i lavoratori non solo richiedevano salari ben più elevati di quanto già non ricevessero ma anche il diritto ad avere un sindacato più rappresentativo – può essere consi-derato un punto di svolta per l’attivismo operaio in Cina oppure si è trattato semplicemente di un caso eccezionale?

JACK LINCHUAN QIU: Un “risveglio” tra i lavoratori cinesi c’è sicuramente stato, anche se dalle mie osservazioni personali tra i migranti della nuova generazione non penso che ciò sia dovuto alle nuove leggi sul lavoro adottate da Pe-chino. Le tipologie di “risveglio dei diritti” pro-poste da accademici e giornalisti spesso riguarda-no solamente la classe media, più di rado la classe operaia, per la quale una concezione dei diritti dovrebbe essere più collettiva che individuale. In questo senso, le nuove leggi sul lavoro, se consi-derate da un punto di vista liberale, potrebbero sembrare progressiste, ma solo su base individua-le. Dal punto di vista della protezione dei diritti collettivi dei lavoratori, esse infatti rimangono insufficienti, calate dall’alto e addirittura poten-zialmente dannose per l’azione dei lavoratori e per il processo di formazione di classe.

In generale, la legislazione sul lavoro cinese mi sembra insignificante sin da quando, nel 1982, il governo ha rimosso il diritto di sciopero dalla Costituzione. La sistematica eliminazione dei di-ritti collettivi sul lavoro emerge anche dalle leggi e dai regolamenti sui sindacati e sulle dispute la-vorative. Sebbene la Legge sui Contratti di La-voro del 2008 contenga notevoli miglioramenti, essa ancora una volta riguarda soprattutto i diritti individuali, interpretati in chiave riformista. Per quanto blanda, la nuova Legge ha prodotto no-tevole reazioni contro gli interessi dei lavoratori, in particolare in momenti critici come all’indo-mani della crisi finanziaria globale. Sono queste ripercussioni e, successivamente, la crescente

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pressione sul lavoro – come si è visto ad esem-pio nel caso dei suicidi alla Foxconn nel 2010 – che hanno provocato il “risveglio” dei lavoratori. Questo è accaduto per colpa della stupidità del capitalismo, non certo per merito della saggezza di Pechino.

Da questo punto di vista, gli scioperi della Honda del 2010 non rappresentano affatto un’ec-cezione o un “punto di svolta” per l’attivismo ope-raio in Cina. Questa vicenda rientra piuttosto in una lunga serie di rivolte in impianti di proprietà giapponese che all’epoca ha trovato ampio spazio tanto sulla stampa commerciale che in quella uf-ficiale. Ciò, tuttavia, accade molto di rado quan-do si tratta di fabbriche di proprietà taiwanese o cinese, dove gli scioperi sono spesso soppressi e/o ostacolati dalla censura. Lo sciopero Honda è stato anche uno dei tanti casi di resistenza collet-tiva dei lavoratori verificatisi all’indomani della tragedia dei suicidi alla Foxconn, un evento che ha sconvolto il mondo intero, portando ad azioni industriali dal sud-ovest al nord-est. Detto ciò, personalmente apprezzo la creatività e solidarietà dei lavoratori Honda, ma non tanto perché essi sono selettivamente ricordati da gruppi per i di-ritti della classe media e dai più importanti mezzi di comunicazione, quanto piuttosto poiché essi rappresentano l’ennesima dimostrazione che un movimento operaio sta crescendo in Cina e che i lavoratori migranti di nuova generazione possono agire collettivamente in maniera efficace. Questo a dispetto del fatto che ben pochi giovani lavora-tori oggi conoscono o ricordano lo sciopero del 2010.

SUN WANNING: Oltre alla questione del di-vario tra diritti individuali e collettivi, è impor-tante ricordare che avere una Legge sul Lavoro è una cosa, ma applicarla in maniera efficace, in modo da proteggere i diritti e gli interessi dei la-voratori, è un’altra faccenda. Inoltre, c’è differen-za tra instillare tra i lavoratori la consapevolez-za dei diritti, e l’assicurarsi che questi lavoratori abbiano le risorse economiche, sociali e culturali necessarie per perseguire i propri diritti per via giudiziaria.

Il gruppo sociale dei lavoratori migranti è mol-to variegato in termini di rapporti con i datori di lavoro, condizioni lavorative, livello di rappre-sentanza organizzata, preparazione tecnica, gene-re, età e condizioni familiari. È pertanto possibile che una particolare “struttura del risentimento” emerga da un insieme unico di problemi che uno specifico individuo in un gruppo di migranti si trova ad affrontare.

A causa di queste differenze interne non è fa-cile, né saggio, ricorrere a generalizzazioni sul livello del “risveglio dei diritti” tra i lavoratori. Ad esempio, l’edilizia è un settore che dà lavoro a molti migranti. I lavoratori edili sono per la mag-gior parte uomini, hanno esperienze di vita molto diverse, sono più vecchi e meno istruiti. Il lavoro stagionale in questo settore occupa circa il un ter-zo dell’intera forza lavoro rurale. Nonostante la legge imponga di stipulare contratti di lavoro, la maggior parte delle aziende edilizie non firmano alcun contratto e addirittura non pagano i salari, oppure pagano solamente alla fine dell’anno o nel momento in cui il lavoratore se ne va. I termini e l’ammontare del pagamento sono spesso basati su accordi verbali tra il lavoratore e l’azienda, spesso stabiliti con l’aiuto di intermediari che agiscono anche nel proprio interesse. Ritardi nel pagamen-to e controversie lavorative sono sistemici nel set-tore edilizio urbano in Cina.

A confronto con i lavoratori edili, gli operai industriali, in particolare quelli nati negli anni Ottanta e Novanta, hanno un livello di istruzione più elevato, arrivano nelle città per sperimentare uno stile di vita diverso e sperano di rimanere nel-le aree urbane permanentemente. Come gli spo-radici – ma non inusuali – scioperi e azioni collet-tive nelle fabbriche cinesi dimostrano, i lavoratori industriali sono il gruppo sociale più conscio dei propri diritti. Tuttavia, a dispetto di queste pro-teste, i sociologi del lavoro ritengono che l’atti-vismo operaio in Cina abbia ancora molta strada da percorrere e che molti ostacoli debbano essere superati prima che si possa iniziare a parlare di una “svolta.”

ANITA CHAN: Non sono d’accordo con la

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valutazione negativa che altri danno della recente legislazione sul lavoro. A mio avviso, il numero e i contenuti delle leggi sul lavoro approvate in Cina negli ultimi vent’anni per regolare le rela-zioni industriali e gli standard lavorativi sono im-pressionanti. Ad esempio, gli standard lavorativi sono fissati a un livello relativamente alto rispetto agli altri paesi in via di sviluppo e la contrattazio-ne collettiva è incoraggiata. Due problemi però ostacolano l’efficacia del diritto del lavoro cinese: il primo è che le regole vengono applicate mol-to di rado; il secondo è il divieto di organizzare sindacati indipendenti. Ciononostante, buone leggi sono sempre meglio che cattive leggi o ad-dirittura nessuna legge. Per due decenni a partire dagli anni Novanta, questa situazione ha creato le condizioni perché le ONG del lavoro, pur rima-nendo ai margini della società, potessero fornire assistenza ai lavoratori. I lavoratori stessi stanno diventando più consapevoli dei propri diritti le-gali e sempre più spesso – anche se ancora non è un fenomeno comune – hanno iniziato a far causa o a lanciare scioperi selvaggi per richiedere che i datori di lavoro rispettino la legge.

Per varie ragioni, sono tuttavia riluttante a porre troppa enfasi sullo sciopero della Honda del 2010 come segnale dell’inizio di una nuova fase del “ri-sveglio dei diritti” tra i lavoratori cinesi. Innan-zitutto, se prendiamo in considerazione la storia recente delle proteste operaie nella provincia del Guangdong, cuore industriale della “fabbrica del mondo,” troviamo che nei quindici anni prece-denti questo sciopero non sono mancate proteste di dimensioni ancora maggiori e altrettanto ben organizzate. Anche la richiesta degli operai della Honda di eleggere i propri rappresentanti sinda-cali non è priva di precedenti. In secondo luogo, è possibile affermare che le proteste operaie dal 2010 a oggi dimostrano il raggiungimento di un nuovo stadio di consapevolezza? Nonostante un aumento del numero di proteste operaie, questo non necessariamente riflette un’improvvisa nuova consapevolezza.. Sembra piuttosto che la crescita dei conflitti sia dovuta ad un’economia in rallen-tamento a causa del calo della domanda interna-zionale di beni di consumo prodotti in Cina, così

come al trasferimento di fabbriche straniere nelle zone più interne, lì dove i salari sono più bassi, oppure in paesi più poveri come il Bangladesh, dove i salari sono appena un quarto di quelli ci-nesi. Le ragioni e la natura delle proteste operaie rimangono alquanto simili a quelle del passato, vale a dire richieste che la legislazione sul lavoro venga rispettata in casi di salari arretrati, calco-lo delle liquidazioni, datori di lavoro irreperibili, straordinari eccessivi, eccetera.

A dispetto dei tentativi di ONG internazionali come il China Labour Bulletin di sostenere che le rivendicazioni operaie in Cina sono maturate ad un punto tale che i lavoratori ormai hanno una più elevata consapevolezza collettiva e ri-chiedono la contrattazione collettiva, la più re-cente “mappa degli scioperi” pubblicata sul loro sito nel novembre del 2013 (http://www.numble.com/PHP/mysql/clbmape.html) mostra come le cinquantadue proteste operaie di ottobre conti-nuassero a presentare i tratti di proteste sponta-nee isolate riguardanti specifici posti di lavoro. Ancora non si sono registrate azioni collettive a livello settoriale, inter-settoriale o inter-regiona-le, così come ancora non si sono levate richieste per un’autentica rappresentanza del lavoro e per la contrattazione collettiva. La storia del lavoro ci insegna che solamente quando i lavoratori com-prendono l’importanza di stabilire organizzazioni collettive sostenibili si può parlare di una nuova fase di “risveglio.” Per il momento, ci troviamo ancora in una fase embrionale di consapevolezza collettiva.

PUN NGAI: Come Jack e Anita, anch’io pen-so chegli scioperi Honda non siano un evento contingente, né un punto di svolta per l’attivi-smo operaio in Cina. Piuttosto, si tratta di un episodio che va visto nel contesto delle lotte ope-raie dello scorso decennio. La stessa nozione di un “risveglio dei diritti” rappresenta il fenomeno della formazione di classe nel suo processo stori-co. Questo “risveglio” ha due risvolti: da un lato, l’assunzione di consapevolezza della posizione antagonista dei lavoratori rispetto al capitale; dall’altro la percezione dell’incapacità dello Stato

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di proteggere i diritti sul lavoro. Sin dagli anni Novanta, le condizioni oppressive con cui una nuova classe operaia cinese al servizio di datori di lavoro domestici e transnazionali si è trovata a confrontarsi hanno portato a un crescendo di pro-teste in cui venivano avanzate richieste specifiche di accesso a diritti economici ed equità sociale. Di fronte al numero sempre crescente di proteste operaie nelle fabbriche dei fornitori, il 26 dicem-bre del 2012 un anonimo dirigente di Apple ha dichiarato al New York Timesche “i giorni della globalizzazione sono finiti.” Mentre la Foxconn e altre grandi imprese stanno costruendo succur-sali e trasferendo impianti dalle aree costiere alle regioni dell’interno, le proteste dei lavoratori si stanno espandendo a tutta la Cina.

In molti impianti Foxconn, ad esempio, all’av-vicinarsi delle scadenze per la consegna dei pro-dotti il management allunga gli orari di lavoro senza garantire adeguato riposo, provocando tensioni. I costi e la qualità del prodotto sono strettamente controllati. In risposta, i lavoratori che contestano optano per strategie organizzati-ve indipendenti che privilegiano l’azione diretta. Consapevoli delle opportunità offerte dai tempi e dalle esigenze di clienti come Apple, Amazon, Microsoft di raggiungere le quote di produzione previste per il lancio di nuovi modelli o in occa-sione della stagione natalizia, i lavoratori hanno iniziato ad organizzarsi nei dormitori, nelle offi-cine o nelle fabbriche per avanzare richieste. La strategia è quella di svergognare la fabbrica del sudore, sollecitando i marchi globali a mostrarsi all’altezza dei propri ideali di cittadinanza azien-dale.

Mentre le dispute legate a salari e welfare, gior-ni di riposo non concessi, abusi da parte degli ad-detti alla sicurezza, accelerazioni nella produzione e pessime condizioni degli alloggi scatenano azio-ni collettive, i funzionari locali, compresi i quadri sindacali, intervengono solamente in conflitti a elevata visibilità. Nella maggior parte dei casi, la solidarietà tra lavoratori cessa di fronte all’intimi-dazione o all’arresto dei loro leader, oppure con l’intervento mediatore dello Stato, che offre con-cessioni limitate che non scalfiscono l’apparato di

potere. In numerose occasioni lo Stato-Partito ci-nese ha parzialmente accolto le richieste avanzate da lavoratori insoddisfatti, contenendo allo stesso tempo il malcontento attraverso meccanismi am-ministrativi e continuando a reprimere con de-cisione le proteste prima che si espandessero su vasta scala.

Per lungo tempo i conflitti sul lavoro hanno avuto breve durata e sono rimasti limitati a una sola o a poche officine, dormitori o fabbriche. Lo Stato ha mantenuto la capacità di interveni-re rapidamente per prevenire ogni significativo coordinamento tra lavoratori. In anni recenti, tuttavia il numero di proteste operaie è esploso, nonostante i tentativi dello Stato di reindirizzare il malcontento dei lavoratori sui tribunali locali e di incoraggiare la mediazione all’interno delle im-prese. È solamente una questione di tempo pri-ma che queste proteste si fondano in movimenti più ampi e sostenutiSempre più lavoratori delle linee di produzione dei grandi marchi globali si rendono conto del nesso che esiste tra il proprio lavoro e i processi del capitalismo globale. Grandi aziende internazionali che impiegano centinaia di migliaia di lavoratori come la Foxconn contribu-iscono quindi alla creazione di una nuova classe operaia.

L’industrializzazione della Cina e la sua tra-sformazione sociale sono naturalmente processi sensibili alle differenze di genere. La migrazione di massa dalle campagne ha coinvolto le donne tanto nel contesto urbano, come lavoratrici do-mestiche o industriali, quanto nel contesto rura-le, in quanto lasciate indietro nei villaggi a gestire la terra e le faccende di casa. L’industrializzazione ha trasformato le strutture sociali della campa-gna lasciando le donne più esposte ad abusi – ad esempio per quanto riguarda i loro diritti alla ter-ra collettiva nei villaggi o agli abusi sul posto di lavoro – e al disagio, una situazione che si riflette nel fatto che in Cina, in controtendenza rispetto al resto del mondo, le donne sono più propense al suicidio degli uomini. Negli anni Cinquanta Mao suggeriva la partecipazione al lavoro delle donne come una forma di liberazione, ma è andata dav-vero così? Secondo voi, oggi la mobilità sul ter-

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ritorio e una maggior partecipazione femminile al lavoro hanno aumentato o ridotto l’autonomia delle donne cinesi? E quali forme di attivismo si possono riscontrare oggi tra le lavoratrici? Quali differenze nelle loro rivendicazioni?

PUN NGAI: Negli ultimi trent’anni, una ra-pida ed estesa riproduzione del capitalismo su scala globale ha contribuito a una drammatica ricostituzione delle relazioni di classe e di genere nel mondo. Un abbandono da parte della poli-tica e dell’intellighenzia dell’“analisi di classe” non è sufficiente a rendere i rapporti di classe in Occidente obsoleti. Piuttosto, ha contribuito a svelarne la crescente importanza nelle società del Terzo Mondo, dove i rapporti di genere sono parte integrante della rapida trasformazione delle relazioni di classe. Il genere occupa un ruolo sto-rico centrale nella formazione delle classi operaie. La classica rappresentazione della classe operaia inglese era il lavoratore maschio che guadagnava il pane per tutta la famiglia, un dipendente quali-ficato sul posto di lavoro, un potenziale militante in occasione di scioperi, nonché un sindacalista. Questa immagine fu messa in discussione dalla rapida espansione della produzione di massa, dal-la trans-nazionalizzazione della produzione, dalla femminizzazione del lavoro nei paesi del Sud del mondo e dall’ascesa delle nuove economie dei servizi in Occidente. Oggi, nessuna discussione della nuova classe operaia è possibile senza consi-derare le lavoratrici.

Il processo di genere nella produzione e ripro-duzione della forza lavoro coinvolge uno speci-fico sistema lavorativo basato sull’esistenza di dormitori, all’interno dei quali si articolano le vite delle lavoratrici migranti. Più specificamen-te, il “sistema dei dormitori” diventa una speci-fica forma di genere di sfruttamento del lavoro finalizzata a sostenere la produzione nelle nuove regioni industrializzate, soprattutto nella Cina meridionale. In queste aree, dominate da impre-se a investimento straniero che si concentrano su prodotti per l’esportazione, l’uso dei dormitori è stato sistematico. Per poter usare la forza lavoro delle lavoratrici migranti cinesi, tutte le impre-

se, indipendentemente dal settore industriale di appartenenza, devono offrire loro un alloggio. Combinando lavoro e alloggio nel sistema lavo-rativo dei dormitori, produzione e riproduzione quotidiana sono riconfigurate nell’interesse del capitale globale, con la riproduzione della forza lavoro controllata interamente da imprese stra-niere o private.

Solamente nell’ultimo decennio, a seguito di una carenza di lavoratrici giovani e single dispo-nibili a lavorare nelle aree costiere della Cina, le fabbriche nelle industrie di trasformazione per l’esportazione hanno cominciato ad assumere sempre più uomini o donne sposate. Oggi, nella classe operaia cinese è possibile vedere una com-posizione più sfumata e complessa dei soggetti di genere.

Nonostante questa capacità di controllare la vita e il lavoro, il sistema lavorativo dei dormito-ri in Cina apre anche spazi di lotta e resistenza. Nei dormitori, le lavoratrici – la cui solidarietà si costruisce già attorno ad identita’ di genere – si organizzano anche sulla base di parentela ed et-nia, ricollegandosi così a reti di solidarietà estese al di fuori del posto di lavoro. Creando legami tra donne, queste forme intense di intimità e solida-rietà interferiscono con il controllo manageriale sulle vite dei lavoratori e giocano un ruolo impor-tante anche in network localizzati di dormitorio che danno vita a intensi scambi di informazioni riguardo ad opportunità di lavoro esterne, crean-do e rafforzando il potere dei lavoratori attraver-so la mobilità. Negli scioperi, abbiamo osservato che le lavoratrici donne partecipavano ad azioni collettive insieme alle loro controparti maschili, ricevendo un aiuto organizzativo poco o nullo da parte del sindacato o delle ONG del lavoro. Alcu-ne donne sono persino diventate leader attraverso la costruzione attiva del consenso e lo sviluppo di strategie di sciopero nel corso di azioni collettive.

SUN WANNING: L’accresciuta mobilità ha fornito alle donne maggiori opportunità in ter-mini di scelte lavorative, possibilità matrimoniali e autonomia finanziaria. Una ragione fondamen-tale per cui una giovane donna sceglie di lasciare i

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campi per andare a lavorare in città è evitare ma-trimoni e gravidanze precoci e assicurarsi un fu-turo migliore. Molte giovani migranti nelle città hanno una relativa autonomia nello scegliere un compagno ideale. E alcune dagongmei (un termi-ne che indica giovani donne rurali che lavorano nell’industria manifatturiera, traducibile come “sorelle lavoratrici”) partecipano attivamente alle pratiche di consumo, per quanto in maniera limi-tata, rimodellando la propria identità attraverso mode urbane e cosmetici. Allo stesso tempo, al-cuni accademici sostengono che le donne migran-ti sono ancor più assoggettate a ciò che Pun Ngai in Made in China ha definito le “tre oppressioni” (lo Stato, il capitale e il sistema patriarcale). Ciò avverrebbe, secondo Pun Ngai non a dispetto, ma proprio a causa della loro mobilità.

È tuttavia difficile, se non impossibile, stabilire se la mobilità e l’elevata partecipazione al lavoro abbiano portato a una maggiore o minore auto-nomia delle donne. Le dagongmei impiegate alle catene di montaggio delle fabbriche vivono per la maggior parte nel “regime dei dormitori” già descritto qui sopra da Pun Ngai. Sono soprattut-to giovani tra i ventidue e i ventiquattro anni e non sono sposate. Le lavoratrici di origine rurale che lavorano nei servizi o come domestiche per famiglie benestanti urbane sono molto diverse tra loro. Possono avere tra i quindici e i settant’anni (per la maggior parte hanno tra i trenta e i cin-quant’anni), in molti casi sono sposate con figli e sono meno istruite e versate nell’uso della tecno-logia. Si può affermare con ragionevole certezza che, in varia misura, le donne migranti si trovano a fare i conti con la tensione tra i valori tradizio-nali e lo stile di vita moderno nelle aree urbane.

Organizzazioni che sostengono i diritti e gli in-teressi delle lavoratrici migranti esistono in varie forme, con diversi gradi di autonomia e affiliazio-ne governativa. Ad esempio, la Casa delle Don-ne Migranti è un’ONG attiva sotto gli auspici dell’ufficiale Federazione delle Donne Cinesi. La Casa incoraggia le donne a diventare più forti e offre loro uno spazio in cui parlare di se stesse, garantendo un minimo diempowerment. Allo stesso tempo, incoraggiando le migranti a impe-

gnarsi in progetti di sviluppo personale mirati a migliorare le proprie qualità individuali (suzhi), la Casa implicitamente contribuisce a disciplinare queste donne, rendendole una forza lavoro docile ed economica.

Una tendenza incoraggiante degli ultimi anni, soprattutto nella Cina meridionale, è quella all’auto-rappresentazione letteraria delle donne migranti. Nel loro piccolo, questi lavori letterari offrono una prospettiva alternativa tanto al di-scorso prodotto dallo Stato quanto a quello del mercato sulle esperienze delle lavoratrici migran-ti.Sono un Fiore Fluttuante (Wo Shi Yiduo Piao-lin de Hua), un libro scritto da Fang Yimeng, ne è un buon esempio. Fang descrive la propria opera come l’“auto-narrazione” (zishu) della vita di una donna del Sichuan, una regione interna ancora prevalentemente rurale, impiegata come operaia in una fabbrica a Dongguan. Fang vorrebbe che il libro testimoniasse l’enorme contributo che per-sone come lei hanno dato alla prosperità econo-mica cinese.

Negli ultimi anni, molto si è scritto sull’im-portanza dei nuovi media per l’attivismo opera-io in Cina. In particolare, si è rilevato come per i lavoratori cinesi Internet sia allo stesso tempo una fondamentale fonte di informazione e uno strumento organizzativo cui ricorrere nel caso di mobilitazioni collettive. Inoltre, come dimo-strano diversi casi in cui cittadini cinesi hanno saputo “manipolare” la rete per ottenere il sup-porto dell’opinione pubblica in dispute di lavo-ro, la continua espansione dell’accesso al web e il concomitante sviluppo dei social network hanno aperto nuovi canali attraverso cui i lavoratori ci-nesi hanno la possibilità di comunicare diretta-mente con il pubblico e mettere sotto pressione le autorità. Internet però può anche essere utiliz-zata dalle autorità per manipolare l’informazione e veicolare un certo tipo di messaggio. Secondo voi, Internet giocherà un ruolo determinante nell’emergere di un movimento operaio in Cina o alla fine si rivelerà uno strumento nelle mani delle autorità?

JACK LINCHUAN QIU: La diffusione delle

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nuove tecnologie per l’informazione e comunica-zione ha caratterizzato il periodo più recente delle azioni operaie in Cina. Gli Internet Caffè, molto diffusi nelle aree industrializzate in cui i lavorato-ri migranti si concentrano, e i telefoni cellulari a basso costo, nonché la capacità collettiva dei lavo-ratori di convertire queste tecnologie in strumen-ti di resistenza edempowerment,hanno cambiato le modalità d’azione degli operai.

Il processo di diffusione della tecnologia è sem-plice: la progressiva diminuzione dei prezzi porta ad un aumento della penetrazione delle tecnolo-gie tra i gruppi meno agiati. Tuttavia, di fronte ai contraccolpi del capitale e alle politiche dello Stato, alla diffusione tecnologica non segue au-tomaticamente un processo di empowermentcol-lettivo. Inoltre, l’empowerment dell’individuo, un fenomeno che, soprattutto tra i giovani la-voratori, può essere collegato facilmente all’uso di tecnologie digitali, puo anche risultare in un disempowerment collettivo. Jodi Dean chiama questa trappola individualistica, ingannevole, tecno-feticista e consumistica, “capitalismo co-municativo.” Dean propone quest’idea sulla base delle proprie esperienze nel movimento Occupy, ma non è difficile vedere gli stessi rischi nel caso dell’attivismo operaio in Cina. A mio avviso, que-sto “capitalismo comunicativo” è una trappola ancor più minacciosa per gli attivisti del lavoro di quanto non lo sia la censura ufficiale o la mani-polazione dell’opinione pubblica in rete da parte delle grandicorporation. Questo perché il siste-ma (a) funziona a livello subliminale, a differenza delle misure di censura e manipolazione, di cui le persone sono consapevoli; e (b) minaccia di ghet-tizzare ulteriormente gli attivisti sul lavoro, non solamente rispetto ai lavoratori più anziani che non sono presenti online o ai giovani lavoratori che non usano i microblog, ma anche gli uni con gli altri, nei circoli già di per sé non affiatati dei professionisti delle ONG del lavoro.

Per evitare questa insidia – così come altre minacce, dall’applicazione delle leggi alla ma-nipolazione dell’opinione in rete – è necessario ricordare che la rete e gli altri strumenti di comu-nicazione diffusi tra i lavoratori migranti riman-

gono solo mezzi al servizio di un fine più elevato. Questi strumenti da soli non sono in grado di creare condizioni sufficienti per un cambiamen-to sociale né sono sempre necessari in momenti di crisi. Il fattore decisivo rimangono le perso-ne, i comuni lavoratori cinesi: sono abbastanza motivati per organizzarsi? Quanto significative e durature sono le reti di solidarietà? Quanto effi-caci sono le loro strategie nel cambiare la con-dotta dello Stato e/o delle aziende? L’esperienza suggerisce che quando le condizioni e il momento sono ideali le nuove tecnologie possono fornire un meraviglioso catalizzatore, dotato di un potere di mobilitazione, effetti di espansione delle reti di solidarietàe influenza culturale.

In altre parole, gli attivisti sul lavoro possono servirsi strategicamente di Internet e dei social media per obiettivi di breve periodo. Ma nel lun-go termine, il loro successo dipenderà dalla ma-niera in cui riusciranno ad evitare di essere usati dalle forze sistemiche, statali o commerciali che siano, che strutturano le tecnologie per l’infor-mazione e la comunicazione della classe operaia.

PUN NGAI: Nella nostra ricerca sulla Foxconn, i lavoratori hanno imparato in fretta come servir-si dei nuovi media come strumento organizzativo nel caso di azioni collettive. Mentre gli scioperi diventano sempre più numerosi e una nuova ge-nerazione di lavoratori guadagna familiarità con Internet, i lavoratori acquisiscono nuove capacità comunicative e una maggiore consapevolezza dei propri diritti. Isocial network permettono ai la-voratori di disseminare lettere aperte e richieste urgenti di supporto. I lavoratori della Foxconn si servono dei propri telefoni cellulari per mandare messaggi per attrarre l’attenzione dei giornalisti, generando pressione da parte del pubblico sui propri superiori. Sembra chiaro che lo Stato stia rafforzando il controllo su Internet, eliminando certe notizie e impedendo la diffusione di cer-ti messaggi. Ad esempio, dopo che, alla fine di maggio del 2010, il nono lavoratore si è gettato dal tetto di un dormitorio, riportare i suicidi dei dipendenti della Foxconn è stato proibito. Eppu-re, è ancora complicato per il regime manipolare

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l’opinione pubblica sulla questione dei diritti dei lavoratori, questo perché la maggior parte delle azioni collettive dei lavoratori ha come obiettivo semplicemente la protezione dei propri diritti.

SUN WANNING: La mia ricerca etnografica ha individuato un’infinità di forme di attivismo sul lavoro, molte delle quali coinvolgono l’uso di produzioni digitali, social media e varie tecnolo-gie online. L’utilizzo dei media sociali e della rete da parte delle ONG mostra il potenziale per una nuova forma di politica della classe operaia. Atti-visti impegnati sul tema dei diritti dei lavoratori migranti usano forme di denuncia come docu-mentari, fotografie (spesso scattate con il cellula-re) e la distribuzione di informazioni su strumenti quale il popolare software di messaggistica istan-tanea QQ. Sebbene la scala di queste iniziative rimanga molto limitata, esse non possono essere sottovalutate, questo precisamente perché oggi ancora non esistono “grandi” istituzioni e pra-tiche culturali della classe operaia ufficialmente legittimate.

Allo stesso tempo, non condivido l’ottimismo di coloro che sostengono che una classe operaia nuova, distinta e indipendente sia già emersa – o sia in procinto di emergere – sull’onda delle tec-nologie per l’informazione e comunicazione della classe operaia e delle nuove reti. Di fatto, la ri-cerca etnografica offre un sano antidoto a questo ottimismo, attraente agli occhi degli intellettuali della sinistra occidentale. Nel mio lavoro, ad ogni esempio di auto-empowerment dei lavoratori tra-mite i social media e le tecnologie digitali, corri-spondono numerosi esempi del contrario. L’assor-bimento dei lavoratori migranti nel mondo online e digitale spesso finisce per sviare, piuttosto che incentivare, le possibilità di una loro iniziazione politica. Allo stesso modo, per ogni caso in cui ONG e attivisti nel campo del lavoro mobilitano con successo la consapevolezza della classe operaia attraverso i microblog, i telefoni cellulari e altre piattaforme digitali, troviamo esempi di come questi strumenti siano compromessi o addirittura cooptati dalle istituzioni.

I lavoratori usano le tecnologie digitali ed il

loro potenziale per un’azione politica con una vasta gamma di obiettivi diversi. Indubbiamente, un numero sempre crescente di migranti sta im-parando a usare la macchina fotografica, in parti-colare quelle installate nei telefoni cellulari, per mettere in pratica vari livelli di attivismo politico e culturale. Tuttavia sembra che a oggi né il re-gime né gli attivisti abbiano attinto appieno dal potenziale delle nuove tecnologie per rivoltarle a proprio vantaggio. Ciò che possiamo osservare suggerisce che la maggioranza dei lavoratori mi-granti si serve abitualmente delle tecnologie digi-tali e dei social media per finalità che non vanno oltre il divertimento e le comunicazioni quotidia-ne, ad esempio per rimanere in contatto con ami-ci e parenti, giochi elettronici negli Internet Caf-fè, musica, gioco d’azzardo, mah-jong e lotterie.

(Questo dibattito, preceduto da una nota in-troduttiva dei curatori, è stato pubblicato con il titolo “Il risveglio dei diritti? Un dibattito sul lavoro in Cina” sulla rivista Passato e Presente, 92/2014, pp. 13-30)

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Alla fine di settembre, il Consiglio degli Af-fari di Stato ha pubblicato una nuova “opi-nione” in cui si enunciano le linee guida per le politiche sui servizi ai lavoratori migranti nel prossimo lustro. In questo documento, il governo centrale cinese annuncia l’ambizioso obiettivo di offrire una formazione profes-sionale a venti milioni di lavoratori migranti all’anno fino al 2020, onde innalzare la “qualità” del lavoro, migliorare le condizioni lavorative, assicurare una crescita stabile dei salari, garantire la puntualità nel pagamento degli stipendi ed estendere la copertura delle assicurazioni sociali. Particolare enfasi è po-sta sulla questione della “nuova urbanizzazio-ne”, con il governo centrale che chiede alle autorità locali di “urbanizzare localmente” circa cento milioni di migranti nelle regioni centrali e occidentali del paese, nonché di trasformare cento milioni di persone prove-nienti dalle aree rurali in residenti urbani a tutti gli effetti, eliminando ogni differenza tra cittadini rurali e urbani nella fornitura di servizi pubblici. Purtroppo però il docu-mento, così come innumerevoli proclami precedenti sul tema, non contiene alcun piano dettagliato su come questi obiettivi saranno raggiunti.

Migranti. Secondo i dati più recenti in Cina sarebbe-ro più di 268 milioni.

Nuovo documento del governo centrale sulle politiche sui servizi ai migranti

Ancora una volta, la tragica morte di un giovane dipendente riaccende i riflettori sulla Foxconn. Il 30 settembre il ventiquattrenne Xu Lizhi, originario di Jieyang, Guangdong, si è suicidato gettandosi nel vuoto da un edificio nei pressi dell’impianto di Shenzhen dove era impiegato. Xu era giunto a Shenzhen nel 2010 e aveva immediatamente trovato lavoro nel colosso taiwanese. Lì era rimasto fino al febbraio di quest’anno, quando si era temporanea-mente trasferito a Suzhou per stare con la propria compagna. Era tornato a lavorare alla Foxconn so-lamente un giorno prima di porre fine alla propria vita. Xu era un poeta e covava il sogno, mai realiz-zato, di trovare lavoro in una libreria o biblioteca di Shenzhen. Mentre era ancora in vita, una trentina di sue poesie sono state pubblicate sulla rivista in-terna dell’azienda, “Gente della Foxconn”. Ora che è morto, i suoi scritti – in cui si descrive l’alienazio-ne della vita del migrante alla catena di montaggio – stanno circolando ampliamente in rete, tanto in Cina quanto all’estero. L’ultima poesia, intitolata “In fin di vita” e composta poche ore prima del suicidio, recita:

Voglio dare un’altra occhiata al mare, guardare fino a dove si estende la distesa di lacrime di questa mia

mezza vita/Voglio arrampicarmi ancora una volta su un’alta montagna, nel tentativo di richiamare con le mie grida l’anima perduta/Voglio anche accarezzare

il cielo, toccare quel blu così chiaro/Ma non posso fare niente di tutto questo, quindi lascerò questo mondo/Chi

ha sentito parlare di me/Non si sorprenda della mia dipartita/Ancor meno sospiri o mi pianga/Quando sono

arrivato stavo bene, e sto bene ora che me ne vado.

FOXCONN

Il suicidio di Xu Lizhi, operaio-poeta della Foxconn

Mentre il governo cinese si pone nuovi obiettivi per favorire l’integrazione dei migranti, un giovane poeta si toglie la vita alla Foxconn.

URBANIZZAZIONE

Xu Luzhi. Il “poeta della Foxconn”, aveva 24 anni.

SET

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A metà ottobre, il sindacato ufficiale cinese – la Federazione Nazionale dei Sindacati Cinesi (FNSC) – ha rilasciato nuovi dati sulla diffu-sione dei contratti collettivi in Cina. Alla fine del 2013, in tutto il paese erano stati stipulati circa 2,420,000 contratti collettivi, per una copertura di 6,329,000 imprese e 287 milio-ni di lavoratori; i contratti collettivi salariali invece erano 1,298,000, per una copertura di 3,644,000 imprese e 164 milioni di lavoratori. 28 province o città a livello provinciale aveva-no adottato regolamenti specifici sulla con-trattazione collettiva, con dieci province che avevano adottato anche regole specifiche sulla contrattazione collettiva in materia salariale. Riconoscendo come in genere questi contratti collettivi non facciano altro che ripetere gli standard minimi già previsti dalla legislazione cinese sul lavoro, il 10 ottobre la FNSC ha lanciato un nuovo piano quinquennale sulla negoziazione collettiva (2014-2018) in cui si pone l’enfasi sullo sviluppo dei sindacati settoriali al fine di portare avanti l’attività di negoziazione collettiva non più a livello aziendale, come è stato largamente finora, ma a livello industriale.

Operaie nel Guangdong. Per quanto riguarda i contratti collettivi, l’obiettivo del sindacato è quello di portare avanti la negoziazione non più a livello aziendale ma a livello industriale.

LEGGI E RIFORME

Se il sindacato ufficiale continua a puntare molto sulla negoziazione collettiva, gli ultimi segnali sono tutt’altro che incoraggianti. Il 25 settem-bre le autorità provinciali del Guangdong hanno finalmente approvato le nuove “Regole sulla negoziazione collettiva e i contratti collettivi a livello aziendale”, il regolamento, pubblicato in bozza lo scorso marzo, che negli ultimi mesi aveva scatenato un acceso scontro tra associazioni imprenditoriali, sindacato e attivisti del lavoro (si veda p. 22). Se nella prima bozza si stipulava che, qualora un terzo della loro forza lavoro lo avesse richiesto, i datori di lavoro avessero trenta giorni di tempo per negoziare con i lavoratori e si concedeva ai dipendenti il diritto di scioperare se i negoziati fossero falliti, il regolamento finale – che entrerà in vigore il primo gennaio del 2015 – è molto diverso.

Nuove regole sulla negoziazione collettiva nel Guangdong

Dal Guangdong arrivano alcune novità per la negoziazione collettiva, tra bat-tute d’arresto a livello legislativo e buoni propositi del sindacato ufficiale.

Piano quinquennale del sindacato sulla negoziazione collettiva

SINDACATO

OTT

Non solo il diritto di sciopero è stato eliminato, ma una nuova clausola proibisce esplicitamente ai dipendenti pubblici di intraprendere azioni industriali di questo tipo. Inoltre, la soglia per richiedere un negoziato collettivo è stata alzata da un terzo a metà della forza lavoro e i rappre-sentanti dei lavoratori devono essere nominati dal sindacato. I negoziati possono durare fino a cinque mesi, ma non sono previste penalità per i datori di lavoro che si rifiutano di trattare, con i lavoratori che in caso possono rivalersi solo facendo ricorso in arbitrato.

Lavoratori in sciopero. La negoziazione collettiva è anche un modo per canalizzare i conflitti industriali.

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LEGGI E RIFORME

La notte del 15 ottobre, alcuni uomini non iden-tificati hanno fatto irruzione nell’ufficio di Small Fish, un’ONG del lavoro basata a Yongkang (Zhejiang), immobilizzando Huang Caigen, il fondatore e responsabile dell’organizzazione, e portando via tutti i mobili e gli oggetti all’inter-no, computer e cellulare compresi. L’aggressione ha avuto luogo dopo mesi di intimidazioni da parte delle autorità locali. Non solo la polizia, giunta sul posto, si è rifiutata di intervenire, spiegando che si trattava di una “disputa civile” che non rientrava nelle proprie competenze, ma la mattina seguente anche i responsabili dell’uf-ficio cittadino della pubblica sicurezza si sono rifiutati di ricevere Huang, dirottandolo sul locale ufficio delle petizioni. Solo alcuni giorni dopo, grazie al fatto che un lavoratore suo amico aveva riconosciuto alcuni degli aggressori ritratti nelle foto scattate quella notte – si trattava di dipendenti del locale dipartimento dei trasporti – Huang è riuscito a individuare i responsabili e a farsi restituire il maltolto, ottenendo per giunta un risarcimento di ottomila yuan contro la promessa di non intraprendere ulteriori azioni legali. In seguito a questi avvenimenti, Huang si è trasferito nell’ufficio di Yiwu dell’organizza-zione, in attesa di trovare una nuova sede da cui ricominciare a lavorare a Yongkang.

Aggressione ai danni di un’ONG del lavoro a Yongkang

Il 30 ottobre il sindaco di Guangzhou ha promulgato un nuovo “Regolamento sull’am-ministrazione delle organizzazioni sociali nella città di Guangzhou”. La bozza del regolamento, sottoposta all’attenzione del pubblico nell’otto-bre del 2013, aveva creato notevole allarme tra le ONG della metropoli meridionale. In parti-colare, una clausola della bozza stabiliva che le organizzazioni finanziate dall’estero andassero considerate alla stregua di uffici di rappre-sentanza o sezioni dei finanziatori stranieri e pertanto avrebbero dovuto avere la licenza re-vocata. Questo avrebbe comportato la chiusura di quelle (poche) organizzazioni della società civile cantonese attive in campi politicamente delicati – come ad esempio il lavoro – le quali si trovano a dipendere in maniera pressoché totale da fondi internazionali.

Guangzhou adotta nuove norme sull’am-ministrazione delle ONG

SOCIETÀ CIVILE

Huang Caigen, lavoratore migrante, ha fondato Small Fish nel 2009 con i soldi di un risarcimento ottenuto per un incidente sul lavoro. Da allora l’ONG offre consulen-za legale gratuita a lavoratori migranti vittime di infortu-ni e organizza attività di educazione al diritto.

Chen Jianhua, sindaco di Guangzhou dal 2011.

OTT Con la chiusura di Little Fish a Yongkang, l’attacco contro le ONG del lavoro si intensifica. Ormai operare in maniera indipendente è quasi impossibile.

Fortunatamente la versione finale del regola-mento, che entrerà in vigore il primo gennaio del 2015, ha eliminato la clausola in questione, istituendo in alternativa l’obbligo per le orga-nizzazioni sociali di far rapporto in dettaglio sui contenuti, le modalità, la scala, i parteci-panti, i tempi, i luoghi e le spese delle attività finanziate dall’estero non oltre quindici giorni prima dell’arrivo dei fondi. Tuttavia, sebbene la nuova formulazione sembri più blanda, la sostanza non cambia, considerato che le ONG attive in campi “sensibili” difficilmente otter-ranno l’approvazione a ricevere fondi esteri per portare avanti i propri progetti.

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Sin dal 2006, quando è stata pubblicata per la prima volta in bozza, la nuova Legge sui Contratti di Lavoro ha suscitato discussio-ni molto accese in Cina. Già all’epoca della stesura, il testo della Legge divenne terreno di scontro tra due diverse correnti di pen-siero nei circoli accademici, economici e politici cinesi: da un lato vi era chi pre-meva per un maggiore interventismo delle autorità nelle relazioni industriali al fine di garantire la tutela dei diritti dei lavoratori; dall’altro coloro che invece sostenevano la necessità di rafforzare l’applicazione delle leggi già esistenti prima di introdurre nuove norme.

Naturalmente, il mondo imprenditoriale si schierò nettamente a favore di questa seconda fazione, arrivando addirittura a paventare l’ipotesi di un’eventuale fuga degli investimenti qualora la nuova legge fosse stata approvata nei termini descritti nella bozza. Dopo un iter legislativo lungo e travagliato, la Legge è entrata in vigore il primo gennaio del 2008.

Che ne è stato dell’allarmismo di quei

NUMERI CINESI

mesi? Qual è stata la ricezione delle nuove regole tra i lavoratori? Alcune risposte a queste domande possono essere individuate in un’indagine realizzata da Mary Galla-gher, John Giles, Albert Park e Meiyan Wang, pubblicata quest’anno sulla rivista accademica Human Relations.

Attraverso una notevole quantità di dati, in questo articolo gli autori dimostrano come la nuova legislazione abbia contribuito a rovesciare la tendenza verso una maggiore informalità nei rapporti di lavoro, una tesi a loro avviso supportata dalla forte consa-pevolezza dei lavoratori riguardo i conte-nuti della legge e una decisa crescita nel numero delle dispute sul lavoro.

Sfogliando i dati, raccolti all’inizio del 2010 in cinque città situate in parti diverse del paese, non mancano le sorprese. In-nanzitutto, i lavoratori all’epoca avrebbero avuto un’opinione positiva sull’applicazio-ne della Legge. Considerando solamente i dati raccolti tra i migranti, l’8.46 per cento considerava l’applicazione della legge “molto buona”, il 47.63 per cento “buona”, il 37.86 per cento “così così” e appena il 5.21 per cento “insoddisfacente”. In secon-do luogo, i lavoratori sembravano essere ben informati riguardo ai contenuti della Legge, con i migranti che in alcuni casi si mostravano addirittura più consapevoli delle loro controparti urbane. La tabella nella pagina seguente, tratta dall’articolo in questione, è emblematica.

Infine, stando all’analisi degli autori, la consapevolezza dei lavoratori sarebbe stata direttamente proporzionale all’età e il livello d’istruzione dei lavoratori, un

I lavoratori cinesi e la Legge sui Contratti di Lavoro

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dato particolarmente interessante alla luce dell’enfasi che negli ultimi anni è stata posta sulla questione del “risveglio dei diritti” tra i giovani lavoratori migranti. Questo punto viene ribadito nelle con-clusioni, là dove gli autori precisano che, soprattutto per quanto riguarda i lavorato-ri migranti, esiste una notevole eterogenei-tà nella soddisfazione verso l’applicazione della Legge, l’avere un contratto di lavoro, la consapevolezza delle nuove norme e la propensione ad avviare una disputa sul lavoro. Inoltre, se il livello di educazione ha un forte impatto su ognuno di questi aspetti – scrivono – ci sono forti differenze tra una città e l’altra per quanto riguarda la severità dell’applicazione della legge

e la probabilità di avere un contratto di lavoro. Che sia il momento di riconsidera-re la retorica sulla “nuova generazione di lavoratori migranti” in Cina e adottare un approccio meno ideologico sulla questione della consapevolezza dei lavoratori cinesi?

Domande Residenti Locali

Migranti

D1. Pensi che al momento dell’assunzione il tuo datore di lavoro debba stabilire un contratto di lavoro con te? (sì)

95.34% 89.48%

D2. Pensi che i datori di lavoro debbano corrisponderti un salario doppio per ogni mese in cui hai lavorato oltre il tempo stabilito per completare un contratto di lavoro? (sì)

85.87% 77.00%

D3. Se un lavoratore viola le regole stabilite da un datore di lavoro, quest’ultimo può terminare il contratto di lavoro del dipendente? (sì)

70.19% 73.60%

D4. Se possiedi i requisiti necessari e chiedi un contratto a tempo indeterminato, il tuo datore di lavoro è obbligato a concederlo? (sì)

70.17% 67.76%

D5. Entro quanto tempo dopo l’assunzione pensi che sia ne-cessario firmare il contratto di lavoro? (un mese)

39.58% 45.83%

D6. Per un contratto di lavoro di un anno, qual è il periodo di prova massimo? (due mesi)

22.04% 23.75%

Punteggio Medio 63.03% 62.90%

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Ritorno a Yangon, per costruire il futuroIntervista con Maung Maung, leader sindacale birmano, da due anni rientrato in patria dall’esilio.

FINESTRA SULL’ASIA / BIRMANIA

D: Può raccontarci brevemente la storia della Federazione dei Sindacati del Myanmar?

R: Nel 1988 lavoravo con il governo nel settore minerario. Dopo aver partecipato come sindaca-lista all’insurrezione popolare di quell’anno, fui licenziato insieme ad altre sei persone. Alcuni di loro furono arrestati, ma io riuscii a fuggire al confine con la Tailandia, dove stabilii un altro sin-dacato. Solamente nel 1991 con altre due persone fondai quella che all’epoca si chiamava Federazio-ni dei Sindacati Birmani. Nel 1992 avviammo i primi contatti con l’International Union of Food, che ci invitò a Ginevra, quindi cominciammo a lavorare con l’OIL sui temi del lavoro forzato e dei bambini soldato. Con l’OIL ci concentram-mo su tre aspetti: stabilire contatti con i sindacati internazionali; provare a organizzare i lavoratori all’interno del paese; e creare sindacati all’interno delle comunità etniche. Nel 1996 avviammo il Comitato d’Inchiesta dell’OIL sul lavoro forzato, sostenuto da molti sindacati internazionali, tra cui anche la CISL e la CGIL. All’epoca il regime militare birmano si rifiutò di collaborare e que-

sto si tradusse in sanzioni. Essendo direttamen-te coinvolti, portavamo investigatori dell’OIL al confine. Avendo lavorato clandestinamente per molti anni per sviluppare dei sindacati, avevamo accesso a informazioni sulla situazione all’interno del paese.

D: Quando avete deciso di rientrare in Myanmar?

R: Siamo tornati nel settembre del 2012 e da quel momento abbiamo ripreso il nostro lavoro organizzativo. Abbiamo aperto il nostro centro di formazione nella periferia di Yangon in novembre e da allora abbiamo tenuto corsi di formazione su questioni sindacali ogni fine settimana. Non appena siamo rientrati dopo tutti quegli anni tra-scorsi in clandestinità, sono andato a incontrare i miei colleghi e abbiamo iniziato a registrarci. Ini-zialmente avevamo 37 sindacati, ma oggi la cifra è salita a 605, circa la metà dei 1,260 sindacati re-gistrati in Myanmar oggi. Poi nel marzo del 2013 abbiamo aperto il nostro ufficio nel centro di Yangon, dove organizziamo altri corsi di forma-

Dopo oltre mezzo secolo d’isolamento imposto dalla giunta militare che nel 1962 ha assunto il controllo del paese, negli ultimi due anni il Myanmar ha fatto importanti passi avanti verso una maggiore apertura a livello internazionale e in direzione di una normalizzazione dei rapporti tra stato e società. Mentre gli investimenti esteri cominciano a riversarsi nel paese, il movimento dei lavoratori birmano sta rapidamente risorgendo dalle ceneri di decenni di dominio militare. In settembre abbiamo incontra-to Maung Maung, leader della Federation of Trade Unions of Myanmar e abbiamo raccolto la sua testimonianza.

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zioni – solamente questo mese (settembre 2014) abbiamo tre attività a Mandalay e una a Yangon. Dobbiamo far comprendere ai nostri membri le responsabilità e il ruolo basilare dei sindacati, così come i principi del negoziato e della contrattazio-ne collettiva. Inoltre, mettiamo i nostri affiliati in contatto con sindacati internazionali e cooperia-mo con altri sindacati a livello regionale. Infine, collaboriamo con gli uffici dell’OIL a Bangkok e Yangon. Le due sedi hanno missioni differenti: con l’ufficio di Bangkok partecipiamo a training sul salario minimo e la contrattazione collettiva; con quello di Yangon organizziamo training di base in materia sindacale.

D: Perché avete deciso di tornare?

R: Il regime militare ha cominciato a cambiare prima del 2012. La questione del lavoro forzato è emblematica. Nel 1998 le autorità birmane ave-vano detto che non c’era lavoro forzato nel paese; poi nel 2000, dopo l’avvio delle sanzioni, hanno ammesso che forse c’era qualcosa; nel 2010 infine hanno permesso all’OIL di aprire un ufficio quag-giù per vedere come risolvere il problema. Questo mostra come i militari siano cambiati negli anni. All’epoca osservavamo questi cambiamenti e ci chiedevamo: questi qui stanno cambiando, se do-vessero esserci ulteriori cambiamenti cosa faremo? Rimarremo all’estero o torneremo per cercare di fare davvero qualcosa? Allora decidemmo che, se mai il governo birmano avesse accettato il nostro impegno nei campi della libertà di associazione, organizzazione del lavoro e sradicamento del la-voro forzato, saremmo tornati. Avevamo questa idea già prima del 2012, poi quell’anno il go-verno passò attraverso l’OIL per chiederci di sua iniziativa un incontro. L’incontro si tenne all’as-semblea generale dell’OIL. In quell’occasione, li informammo sulle nostre intenzioni e accettaro-no. Questa è la ragione per cui siamo tornati.

D: Com’è cambiata la situazione del lavoro in Myanmar negli ultimi anni?

R: In confronto al 1988, la situazione è cambiata

molto. Io la vedo in questo modo: molti dicono, guardate i giornali, ci sono un sacco di dimostra-zioni e scioperi. Ma ciò che stiamo facendo nel campo dell’organizzazione del lavoro mostra che ci sono stati grandi miglioramenti. Appena l’an-no scorso non potevamo fare niente del genere, ma oggi possiamo organizzarci liberamente sen-za essere arrestati. Ci sono tante controversie sul posto di lavoro e ci saranno sempre problemi tra datori di lavoro e dipendenti. Al momento siamo coinvolti in diversi tavoli di discussione con il go-verno, sulla protezione sociale, il salario minimo e il lavoro minorile. Se consideri la situazione da questo punto di vista, anche solo rispetto all’anno scorso ci sono stati grandi miglioramenti. Forse non otteniamo tutto ciò che vogliamo, ma al-meno possiamo prendere parte al dibattito e far sentire la nostra voce. Per me questo è un grande passo avanti.

D: La legislazione sul lavoro del Myanmar sem-bra ottima sulla carta, ma è davvero applicata?

R: I limiti della presente legislazione sul lavoro sono tutti lì. Per quarant’anni siamo stati sotto dominio militare e ora la gente e i lavoratori fan-no fatica a comprendere gli ultimi cambiamenti. Oggi è semplice stabilire un sindacato, ma le fun-zioni del sindacato, quali sono le responsabilità della direzione sindacale, quali sono i compiti e le regole – tutto questo va ancora spiegato. È anche necessario presentare ai lavoratori gli standard in-ternazionali del lavoro. Eppure, il problema non sono solo i lavoratori, ma anche i datori di lavoro e il sistema giudiziario. I datori di lavoro hanno potuto fare quello che volevano per quarant’anni e ora si chiedono perché mai dovrebbero accet-tare le richieste dei lavoratori. Bisogna che tutti assumano consapevolezza che c’è stato un cam-biamento, che le leggi sono cambiate, che la legi-slazione va messa in pratica. Dobbiamo dire che scendere in strada non è democrazia. Sì, è parte del processo democratico, ma se puoi negoziare perché vuoi scendere in strada? Perché non provi a negoziare? Di questo stiamo discutendo anche con i datori di lavoro: volete la gente in strada?

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Volete disordini all’interno delle fabbriche? O vo-lete negoziare? Dovete accettare i sindacati, deve esserci una controparte sociale. Quindi, quando parliamo della legge, dobbiamo guardare anche ai datori di lavoro, che non sono abituati a questo tipo di cambiamento democratico, e ai giudici, che sono abituati a farsi corrompere. E che dire degli avvocati? Ancora oggi non c’è alcun corso di laurea in diritto del lavoro in Myanmar. Ci vor-ranno almeno dai cinque ai dieci anni per cam-biare gradualmente questo paese.

D: Il governo birmano è davvero interessato a mettere in pratica le proprie leggi sul lavoro?

R: Probabilmente quanto sto per dire suone-rà diverso rispetto a quanto ti hanno detto altri che hai intervistato. Nel 1996 sono stato defini-to un terrorista e come tale sono stato trattato dall’Interpol, con tutte le conseguenze del caso. Abbiamo combattuto quando era tempo di com-battere, ma ora che siamo all’interno del paese se vogliamo che la legge cambi, dobbiamo rim-boccarci le maniche e lavorare in questo senso. Non possiamo starcene seduti e lamentarci che la legge è carta straccia. Se rimane solo sulla carta, allora facciamola mettere in pratica! Non è solo responsabilità del governo, dobbiamo far sì che il governo funzioni. Negli ultimi vent’anni eravamo terroristi, ma ora stiamo lavorando all’interno del sistema e dobbiamo darci da fare davvero. Non possiamo fermarci, questo è il motivo per cui la-voriamo tutto il tempo, domeniche incluse. Le leggi sono lì, c’è lo spazio politico, ma dobbiamo continuare a muoverci, non possiamo fermarci. Non possiamo permettere al governo di approva-re una legge e semplicemente sederci. D: Qual è la sua opinione sul livello di consa-pevolezza dei lavoratori e il loro atteggiamento nei confronti del sindacato?

R: La consapevolezza dei lavoratori è molto bassa. Abbiamo ventimila membri, ma possiamo coprir-ne solamente il dieci percento con i nostri trai-ning. Con ognuno dobbiamo partire dalle cose

più basilari, è molto difficile. Non hanno tem-po di leggere, sono impegnati a fare straordinari ogni giorno per guadagnare qualche soldo in più. Questa è la ragione per cui dobbiamo provare ad aiutarli con questo tipo di problemi. Per quanto riguarda il loro atteggiamento nei confronti del sindacato, come in ogni parte del mondo essi si chiedono: cosa ho da guadagnarci? Per questa ra-gione è piuttosto difficile per noi avvicinarli.

D: Nel passato, la vostra organizzazione è stata supportata economicamente dall’Italia. Com’è il suo rapporto con i sindacati italiani?

R: Abbiamo un rapporto molto stretto con i sin-dacati italiani. Sono stato a tre congressi della CISL e due congressi della CGIL. Ho anche vi-sitato l’ufficio della CISL a Roma. Lascia che ti dica che il sostegno finanziario che abbiamo rice-vuto da ISCOS quando operavamo oltre la fron-tiera è stato molto efficace. Tutte le giovani ragaz-ze che ora lavorano per noi sono state sostenute con quei fondi. Questo ci ha permesso di gettare le basi per il nostro ritorno e se oggi possiamo contare su questi numeri è largamente dovuto a quanto abbiamo fatto diversi anni fa clandestina-mente. Grazie alla CISL siamo entrati in contatto con il Centro di Formazione dell’OIL a Torino. Anche se è stata l’OIL a costringere il regime a cambiare, sono stati sindacati a fare pressione e a rendere questo cambiamento possibile.

Yangon. La più grande città della Birmania, nota anche come Rangoon conta più di 4.5 milioni di abitanti.

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Lo scorso sedici novembre, almeno diciot-to lavoratori sono morti in un incendio in un impianto per l’imballaggio delle carote a Shouguang, Shandong. Appena tre giorni dopo, altre cinque persone sono decedute in circostanze analoghe in una fabbrica di batterie a Dongguan, Guangdong, mentre la settimana successiva trentasette minatori hanno perso la vita in due incidenti nel Liaoning e nel Guizhou. È questo il drammatico contesto in cui il primo dicembre è entrato in vigore un nuovo emendamento alla Legge sulla Sicu-rezza sul Lavoro, adottato lo scorso agosto sull’onda della tragedia che ha portato alla morte di almeno 75 lavoratori in una fabbrica di Kunshan, Jiangsu (si veda p. 21). Le nuove regole prevedono che le imprese responsabili di gravi incidenti possano essere multate tra i duecentomila e i venti milioni di yuan, mentre per i manager l’ammontare andrà dal trenta all’ottanta per cento del loro reddito annuale. Ciò rappresenta un passo avanti rispetto al pas-sato, quando le multe non potevano superare i centomila yuan o una cifra pari a cinque volte gli introiti ricavati dalle operazioni illegali.

Minatori. Squadre di soccorso cercano di salvare de-cine di lavoratori intrappolati sottoterra in una miniera nella provincia del Liaoning.

LEGGI E RIFORME

Migliaia di insegnanti sono scesi in strada in diverse città nella provincia settentrionale dello Heilongjiang per manifestare contro i salari bassi e i contributi obbligatori ai piani pensionistici. Questo ha portato alla sospensione delle lezioni in alcune scuole primarie e secondarie. La protesta è scoppiata alla metà di novembre, quando gli insegnanti della città di Zhaodong, sono scesi in strada per chiedere salari più alti. Quando le auto-rità locali hanno approvato un aumento salariale di 772 yuan, la situazione in città è tornata alla normalità, ma questo non ha impedito alla prote-sta di estendersi ad altre località nella stessa pro-vincia, come le città di Shuangcheng e Shangzhi e le contee di Yilan, Binxian, Bayan e Fangzheng. I salari degli insegnanti in Cina sono notoria-mente bassi. In un’intervista rilasciata alla radio nazionale cinese, un insegnante di Shuangcheng lamentava di guadagnare 2,498 yuan al mese pur avendo venticinque anni di insegnamento alle spalle. Lo scontento sulle pensioni invece scaturi-sce da un piano – adottato dalle autorità locali nel 2004 – che ha imposto ai dipendenti pubblici, in precedenza esentati da ogni contributo, di versare una parte del proprio salario a uno schema pensio-nistico centralizzato provinciale.

Mappa degli scioperi degli insegnanti a partire dal set-tembre del 2014. Fonte: China Labour Bulletin.

Gli incidenti sul lavoro sono un annoso problema al quale si sta cercando di porre rimedio con sanzioni più severi verso i responsabili; in questa direzione va il nuovo emendamento alla Legge sulla Sicurezza del Lavoro.

Emendamento alla Legge sulla Sicurezza sul Lavoro

SCIOPERI

Scioperi degli insegnanti nelle province nord-orientali

NOV

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Una drammatica serie di incidenti riaccende l’attenzione del pubblico sulla questione della sicurezza sul lavoro mentre un nuovo emendamento impone pene più severe per i responsabili.

Il quattro dicembre, il Consiglio degli Affari di Stato ha lanciato una consultazione pubblica su una nuova bozza di regolamento sui permessi di residenza, un importante passo avanti verso la riforma del controverso sistema di registrazione famigliare conosciuto come hukou. Se l’obiettivo finale del regolamento rimane quello di garantire ai cittadini la possibilità di usufruire dei ser-vizi pubblici nel proprio luogo di residenza, la riforma non sarà applicata in maniera uniforme, ma varierà a seconda delle dimensioni dei centri urbani interessati. Qualora il regolamento fosse approvato, le città di piccole e medie dimensioni saranno tenute a eliminare completamente ogni distinzione tra residenti urbani e rurali, mentre i centri più grandi potranno procedere in maniera più graduale. Solo alcune megalopoli, tra cui Pechino, Shanghai e Guangzhou, manterranno uno stretto controllo sulla propria popolazione. La proposta elenca anche alcune condizioni specifiche per i cittadini che intendono richie-dere il trasferimento della propria residenza. Nel frattempo, quattro province cinesi – Henan, Heilongjiang, Hebei e Xinjiang – hanno rimosso ogni distinzione tra residenti rurali e urbani, mentre Guizhou e Jiangxi hanno sottoposto all’attenzione del pubblico delle bozze di regola-menti che contengono misure analoghe.

Hukou, è tempo di consultazione pubblica per una delle riforme più importanti per la società cinese.

LEGGI E RIFORME

Novità per la riforma dello Hukou

DIC

The Government Next Door: Governo di vicinato nella Cina urbana

LIBRI

Le comunità residenziali cinesi sono luoghi in cui si pratica un’intensa attività di governo, nonché arene di interazione politica attiva tra stato e società. In questo libro, Luigi Tomba studia come gli obiettivi di un governo consolidato in un’auto-rità distante si materializzino nella vita quotidiana dei cittadini. I vicinati cinesi rivelano molto sulla natura mutevole delle pratiche di governo nel pae-se. Se l’azione del governo è guidata dalla necessità di preservare la stabilità politica e sociale, queste priorità devono adeguarsi alla progressiva priva-tizzazione degli spazi residenziali urbani e ad una serie di forze sociali sempre più complesse. Il vi-vace resoconto etnografico di Tomba sulla vita nei vicinati a Beijing, Shenyang e Chengdu mostra come le priorità di governo sono “tradotte” a livel-lo locale. Tomba rivela come i vari cluster di spazi residenziali siano governati in maniera più o meno intensa a seconda della condizione sociale dei resi-denti; come le comunità insoddisfatte con un alto tasso di disoccupazione siano ancora gestite con strategie pastorali tipiche della tradizione sociali-sta, mentre ai vicini con un reddito più elevato è concessa una maggiore autonomia in cambio di una maggiore sollecitudine per l’ordine sociale. [ The Government Next Door: Neighborhood Politics in Urban China, Luigi Tomba, Cornell University Press, New York, 2014, pp. 240]

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L’ex-colonia diventa grandeIntervista a Sally Choi: sindacato, diritti e movimento “Occupy Central” diciassette anni dopo il ritorno alla Cina

FINESTRA SULL’ASIA / HONG KONG

Diciassette anni dopo il ritorno alla Cina, i cittadini di Hong Kong si sono ancora una volta mobilitati per pretendere dal

governo di Pechino il diritto di eleggere democra-ticamente i propri leader nelle prossime elezioni, previste per il 2017. Dopo una iniziale manife-stazione di protesta tenutasi lo scorso luglio in concomitanza con il diciassettesimo anniversario del ritorno alla Cina, alla fine di settembre il mo-vimento ha preso piede, prima con una serie di proteste studentesche, poi con il lancio dell’ini-ziativa “Occupy Central” che ha visto decine di migliaia di persone occupare pacificamente alcu-ni luoghi centrali della città. Da allora l’opinione pubblica internazionale ha seguito con appren-sione l’evolvere della vicenda, preoccupata che la situazione degenerasse al punto da portare a una replica degli eventi del 1989 in Cina, un’ap-prensione alimentata dalle violenze della polizia contro i manifestanti nei primi giorni della pro-

testa e dal successivo intervento di “picchiatori” schierati dalla parte delle autorità di Pechino. Nel frattempo, man mano che la protesta si protraeva nel tempo, diverse voci dell’establishment poli-tico, commerciale e finanziario locale e interna-zionale si sono levate per lamentare l’impatto del movimento sull’economia dell’ex-colonia, con il Presidente della Camera di Commercio Italiana a Hong Kong che in un’intervista rilasciata all’i-nizio di novembre paventava un’imminente ridu-zione degli investimenti con conseguenti licen-ziamenti. Un aspetto della protesta che è rimasto relativamente nell’ombra è quello del ruolo di lavoratori e sindacati. Per colmare questa lacuna, abbiamo intervistato Sally Choi della Hong Kong Confederation of Trade Unions (HKCTU), una delle due confederazioni sindacali più influenti di Hong Kong, fondata nel 1990 e schierata da sempre nel campo democratico.

Occupy Central,Andy Vron

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D: Potrebbe presentare la sua organizzazione ai nostri lettori?

R: La Hong Kong Confederation of Trade Unions (HKCTU) è un’organizzazione indipen-dente, fondata nel 1990, che lotta per i diritti dei lavoratori di Hong Kong. Oggi può contare su 180,000 membri, per lo più lavoratori di base, in genere i meno organizzati. La HKCTU crede che solamente attraverso il suffragio universale e un’autentica democrazia, il lavoro possa avere un accesso relativamente paritario al potere politico. Con questa convinzione, l’organizzazione, nei suoi ventiquattro anni di storia ha sempre preso parte al movimento democratico di Hong Kong.

D: Che ruolo ha giocato la sua organizzazione nel movimento Occupy?

R: La HKCTU ha giocato un ruolo attivo nel sostenere il movimento. Nel periodo di prepa-razione di Occupy Central, la HKCTU non ha partecipato ufficialmente. Abbiamo più che altro contribuito attraverso l’educazione della comuni-tà, pubblicizzando l’iniziativa e mobilitando i no-stri affiliati. Durante il boicottaggio delle lezioni, la HKCTU ha stabilito uno stand nel luogo d’in-contro degli studenti per mostrare il proprio so-stegno. Solamente alla fine del boicottaggio delle lezioni, quando gli studenti sono stati sgomberati dalla polizia, la HKCTU ha stabilito un’allean-za con altre organizzazioni civiche per sostenere gli studenti e promuovere la disobbedienza nei confronti del destino di Hong Kong deciso dal governo e dalle élite del business. Dopo l’inizio di Occupy Central – quello che oggi è chiamato il “Movimento degli Ombrelli” – la HKCTU ha organizzato tre squadre di supporto, rispettiva-mente in campo logistico, alimentare e materiale. Esse non solo hanno fornito aggiornamenti sul movimento ai cittadini e ai nostri membri, ma hanno anche organizzato alcune attività per dare ai manifestanti una piattaforma attraverso cui en-trare in contatto gli uni con gli altri, nella convin-zione che questi collegamenti avrebbero prodotto un’energia positiva per il movimento.

D: Più in generale, che ruolo hanno giocato i lavoratori nel movimento?

R: Il “Movimento degli Ombrelli” è mirato al go-verno, non ai datori di lavoro. Di conseguenza, anche se la HKCTU ha organizzato una dimo-strazione subito dopo l’inizio del movimento, solamente alcuni sindacati vi hanno preso parte e non è durata a lungo. Tuttavia, molti sindacati hanno partecipato pubblicando annunci a sup-porto dell’iniziativa. A livello individuale, nella presente fase del movimento si può vedere come molti giovani lavoratori dormano sui luoghi del-la protesta. Alcuni di loro trascorrono le pause pranzo nelle zone della protesta per dimostrare il proprio supporto. Sebbene questa forma di so-stegno sia meno organizzata, nondimeno mostra come il movimento goda dell’appoggio di molti lavoratori.

D: Che aspettative avete per gli sviluppi del movimento nei prossimi mesi?

R: L’impatto del movimento sul governo si riduce man mano che il tempo passa. Da quanto si può vedere, ci sono molti conflitti tra i cittadini. Nei prossimi mesi, il “Movimento degli Ombrelli” potrebbe finire, ma la protesta per una vera de-mocrazia non si fermerà. Ci sono molti cittadini che non hanno partecipato alla protesta, ma che sostengono ugualmente la lotta per la vera demo-crazia a Hong Kong. In questo senso, i cittadini e la HKCTU troveranno altre forme di mobilita-zione per esprimere il loro appello per la demo-crazia.

D: Qual è stato l’impatto del ritorno alla Cina sulle politiche del lavoro e sui diritti dei lavo-ratori a Hong Kong?

R: Il ritorno alla Cina ha creato molti ostacoli per l’adozione di nuove politiche sul lavoro e ha reso la protezione dei diritti dei lavoratori un compito molto difficile. Un esempio può essere individuato nell’attività dell’ultimo Concilio Le-gislativo prima della restituzione alla Cina. Nel

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1997, tredici giorni prima della riconsegna, esso adottò una legge sulla contrattazione collettiva. Tuttavia, dopo il passaggio di consegne, un nuo-vo Consiglio Legislativo Provvisorio, formato da membri non eletti democraticamente, non esitò ad abolire la legge. La struttura stessa del nuovo Consiglio Legi-slativo frena l’adozione di politiche sul lavoro e limita i diritti sul lavoro. Prima della restituzione, i membri del Consiglio erano in grado di presen-tare proposte di legge a livello individuale; ora si richiede che tutte le proposte di legge presentate a livello personale siano approvate da metà dei membri del collegio elettorale funzionale, così come da metà dei membri del collegio elettorale geografico. Mentre i membri del collegio geogra-fico sono eletti direttamente dagli elettori, quelli del collegio funzionale fanno parte dell’élite lo-cale nei vari settori. Ci sono ben poche possibi-lità che questi ultimi approvino una legislazione favorevole al lavoro. Per questa ragione è difficile che una qualsiasi proposta di legge finalizzata a proteggere i diritti sul lavoro finisca nell’agenda del Consiglio Legislativo. Grazie a questo forte potere legislativo, i settori imprenditoriali stanno ostacolando l’avanzamento dei diritti sul lavoro a Hong Kong.

D: La comunità imprenditoriale di Hong Kong è sempre stata molto attiva nell’opporsi all’a-dozione nuove leggi e regolamenti favorevoli ai lavoratori nella Cina continentale. Come si è mossa la sua organizzazione a questo riguardo?

R: Innanzitutto, la HKCTU ha creato un data-base per raccogliere informazioni sulle dispute lavorative nelle imprese di Hong Kong nella Cina continentale. In questo modo, la situazione dello sfruttamento dei lavoratori sul continente da par-te dei nostri imprenditori è stata portata all’atten-zione dei cittadini di Hong Kong, innalzando la consapevolezza del pubblico.La HKCTU ha poi denunciato l’ostruzionismo da parte delle imprese di Hong Kong contro le nuove regole sulla negoziazione collettiva in di-scussione sul continente. A questo riguardo, la

HKCTU ha cercato di portare la situazione all’at-tenzione dell’opinione pubblica, organizzando proteste congiunte con altre organizzazioni. Nel giugno del 2014, la HKCTU ha collaborato con altre organizzazioni del lavoro locali per orga-nizzare una dimostrazione in occasione dell’as-semblea plenaria della Camera di Commercio Generale di Hong Kong. Questa manifestazione prendeva di mira la petizione inviata da sei ca-mere di commercio di Hong Kong a tredici fun-zionari di vari dipartimenti governativi a Hong Kong e in Cina, incluso il Direttore Generale, per esprimere preoccupazione in merito alla nuova le-gislazione sulla negoziazione collettiva in discus-sione sul continente. Questo comporta tutta una serie di conflitti d’interesse, se si considera che i presidenti delle camere di commercio ricoprono ruoli ufficiali sia sul continente che a Hong Kong. Inoltre, in occasione della consultazione pubblica in merito alla nuova bozza di regolamento sulla negoziazione collettiva, la HKCTU ha sottoposto alcune proposte su come proteggere i diritti col-lettivi dei lavoratori sul continente. Infine, la HKCTU ha organizzato proteste a so-stegno di scioperi nella Cina continentale, come ad esempio nel caso della ASM e di Wu Guijun, il lavoratore detenuto per oltre un anno con l’ac-cusa di aver “raccolto una folla e aver disturbato l’ordine del trasporto pubblico”. La Federazio-ne ha anche organizzato dimostrazioni contro fabbriche di Hong Kong per denunciare la loro cattiva condotta sul continente, ad esempio in casi di licenziamenti ingiustificati, risarcimenti inadeguati per rilocazioni industriali, diniego del diritto dei lavoratori ad avere una rappresentan-za. Dopotutto, si tratta di rafforzare la solidarietà con i lavoratori cinesi.

D: Collaborate in qualche modo con organiz-zazioni del lavoro ufficiali o non ufficiali nella Cina continentale?

R: La HKCTU non collabora direttamente con organizzazioni ufficiali o non ufficiali del lavoro nella Cina continentale, ma opera come centro risorse e piattaforma informativa. Il nostro obiet-

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tivo principale è quello di premere per la demo-cratizzazione delle relazioni industriali in Cina. Poiché siamo l’unico sindacato indipendente in Cina, il nostro ruolo principale è quello di fare da ponte tra il movimento dei lavoratori cinesi e le sue controparti a livello globale. Giacché alcune aziende transnazionali hanno aperto filiali a Hong Kong, siamo stati in grado di diffondere notizie di scioperi in tutto il mondo, chiedendo azioni di solidarietà come ad esempio nel caso dello scio-pero della Yue Yuan dello scorso aprile. Questa solidarietà serve per mettere pressione sulle azien-de transnazionali affinché si mostrino reattive nei confronti delle richieste dei lavoratori.Poiché dal 2010 il Dipartimento della Propagan-da del Partito Comunista Cinese ha proibito ai media di coprire gli scioperi, il ruolo della HKC-TU nel diffondere le ultime notizie sul lavoro in Cina tra il pubblico e la comunità sindacale in-ternazionale si è fatto cruciale. Ad esempio, nel caso di Wu Guijun, la HKCTU ha collaborato con i sindacati internazionali per lanciare una campagna fotografica per diffondere la notizia, costruendo in questo modo solidarietà a livello internazionale.

Hong Kong. Alcuni scatti tratti dai giorni di manifestazioni indette dal movimento Occupy Central nell’autunno scorso. (fotografo: Andy Vron)

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Per la crescente importanza della realtà cinese nell’economia globale e le relative conseguenze per lavoro e diritti, ISCOS, in collaborazione con il blog Cineresie.info, si è fatto promotore di una newsletter focalizzata sugli aspetti sindacali, sociali, economici e giuridici della situa-zione lavorativa in Cina. Made in China è uno speciale annuale che nasce da quest’esperienza con l’obiettivo di facilitare ulteriormente la diffusione in ambito sindacale delle informazioni su una realtà complessa come quella cinese. Questo nella consapevolezza che in un mondo sempre più globalizzato è importante conoscere e comprendere le dinamiche internazionali al fine di difendere in maniera più efficace i diritti dei lavoratori a livello sia locale che globale.

Istituto Sindacale per la Cooperazione allo SviluppoL’ISCOS è un’organizzazione non governativa europea, promossa dalla CISL, apprezzata soprattutto nell’area della difesa dei diritti umani. Violazioni delle li-bertà sindacali nei paesi in via di sviluppo, diritti umani calpestati, povertà estre-

ma, emergenze dovute a catastrofi naturali e guerre sono gli scenari nei quali ISCOS agisce dal 1983 portando i valori della solidarietà dei lavoratori italiani ai loro colleghi del Sud del mondo. Dal 2008 siamo attivi in Cina, con iniziative a sostegno dei lavoratori, dei migranti, dei disabili e delle vittime di discriminazione.

CineresieCineresie nasce nel maggio del 2010 come sito d’informazione e analisi sulla società cinese contemporanea. La redazione, composta da giovani ricercatori, si propone di dare alcune letture originali su quello che è la Cina di oggi, scardinando la comune

visione di questo paese come una realtà in bianco e nero. Per raggiungere questo obiettivo, Ci-neresie lascia, per quanto possibile, la parola ai cinesi stessi, fungendo da ponte tra questi ultimi ed il lettore italiano.

Perchè “Made in China”?

Un anno di Cina al lavoroMADE IN CHINA

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