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LUIGI DE ROSA

MARE AMARO(racconti di pesci e strani marinai)

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a mio fratellomarinaio del Caribia

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Indice

Pinnagialla pag. 9

La recluta pag 30

Gara all’inglese pag. 55

Piccolo Glossario pag. 107

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PINNAGIALLA

Introduzione

Ultimo di giugno. Le eliche della nave oceanografica si arrestano nel blu. Il Narvalus rallenta; si smorza nell’immensità la scia lucente di merletti e macchie di spuma. A bordo attendono il momento dell'inevitabile sterminio.

I marinai si affacciano dalla coperta celando il disgusto per ciò che stanno preparando. Uno strumento elettronico, l'ecografo, li avverte: il branco di tonni si avvicina con andatura irregolare, lenta, priva di gioia.

L’umore a bordo non è dei migliori. Mister Sonder fuma come un disperato e François ha gli occhi rossi per la stanchezza.

Pinnagialla sente di essere segnato: un fuoco lo divora da dentro, neppure l’acqua di profondità è riuscita a spegnerlo.

Il Narvalus, secondo gli ordini dell'Istituto, attende quei pesci per sterminarli e mai, sulla nave, vi è stata ansia più penosa, per i vincoli della tradizione: il rispetto per tutto ciò che è messo sotto l'acqua.

Tommaso, la coscienza in rivolta, fa un cenno. Stermineranno la vita in quel tratto: la pesca vi sarà

vietata per alcuni anni. Il mare non ama chi lo offende e la catena alimentare pesce-uomo, se non interrotta, provocherà tragedie: particelle radioattive potrebbero giungere sulla tavola dell'uomo.

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Il braccio della gru ruota e dalla nave viene sganciato un ordigno esplosivo: cullando nella celata doppiezza cento chili di morte, affonda per incrociare il branco.

Ezechiele profeta, questo ultimo di giugno, ancora pare dire: «…alle grida dei nocchieri i lidi tremeranno e tutti quelli che maneggiano il remo, i marinai e i piloti del mare scenderanno dalle navi e si terranno sulla terraferma e grideranno amaramente, cospargendo il capo di polvere e malediranno con animo amaro piangendo e diranno chi fu mai come Tiro, una città ora muta in mezzo al mare».

Ma torniamo un po’ indietro.

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Cronologia

Oggi, primo giugno.Questo mese, forse perché apre la piena estate, è l'inizio del più atteso periodo dell'anno. L'arrivo di meravigliose assolate giornate, colme di sapori resuscitati, oppure il varo finale di un progetto d'ore di riposo, covato nei pochi momenti di sogno che il lavoro ci lascia, sopiscono le piccole depressioni nate con i rigori dell’inverno e tenute a bada con trucchi farmaceutici che lasciano nebbie nei neuroni.

In un cosmo liquido, vicino e tanto sconosciuto, il miracolo della vita attende per sbigottirci. Le anguille dei fiumi tornano ai Sargassi per intrecciare danze d'amore, i salmoni risalgono sfiniti i nordici corsi d'acqua e una forza li guida là, dove sono nati. Gli occhi dell'oceano si schiudono fin sull'abisso; le sue arterie, fiumi d'invisibili correnti, pulsano frenetiche, le sue creature si osservano, si combattono e si accoppiano.

Pinnagialla, un tonno di cinquecento chili, un veterano con quattordici anni di navigazione, fidando nella bussola degli stimoli, seguito dagli esemplari più giovani, dirige allo stretto di Gibilterra per rientrare nel Mediterraneo, mare caldo e sicuro dove potrà innamorarsi senza troppo preoccuparsi, come deve fare nell’oceano per le insidie di pesci più grossi. È un vecchio nuotatore, la sa lunga e ne ha viste di ogni colore. Una brutta cicatrice, proprio sotto l'opercolo, gli ricorda uno spiacevole incontro avvenuto durante il ritorno all’Atlantico.

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Ha buona memoria: il predatore che quel giorno lo assalì gli era sembrato uno strano pesce, goffo, impacciato, ma non per questo meno pericoloso.

Pinnagialla sentì la punta acuminata dell’arpione che gli penetrò nella carne, in un punto non vitale. Il sangue sgorgò vivo, abbondante. Volteggiò straziato dal dolore, tentò di liberarsi con disperazione, puntò il fondo. Sempre più giù, fino a che il tono del sangue cambiò per effetto del diminuito spettro del colore e uscì dalla lacerazione con un riflesso verde. Nella trasparenza marina, in alto sopra di lui, galleggiava una rete che teneva altri tonni uccisi. Avevano ancora negli occhi tondi la stupita espressione della morte inaspettata.

Pinnagialla riuscì a liberarsi dall'arpione e guarì curando la ferita secondo l'insegnamento della natura: stare il più a lungo possibile dove l'acqua è curativa. Passarono anni, prese dal mare le lezioni che gli permisero di divenire capo di un branco.

Adesso è guardingo con i nuovi arrivati: è protettore dei piccoli e sa farsi rispettare dalle femmine che, per fortuna, non mancano. Ha esperienza, conosce le strade del mare e sa stare lontano dai pericoli.

Lisca, un giovane alla prima lunga trasferta, nuota sotto la sua pancia bianca, sereno e vivace. Pinnagialla, (senza darsi spiegazioni), avverte che sarà proprio quel pivello a occupare il suo posto un giorno, quando lui non avrà la forza necessaria a condurre gli altri.

Lisca naviga soddisfatto, contento di tagliare l'acqua dell'oceano, di farsi carezzare la pelle ruvida e, di tanto in tanto, svuota la vescica natatoria per lasciarsi affondare e scendere a rimediare un bocconcino

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prelibato, chili di sarde o di acciughe, e poi in sù nelle onde spumose, vigorose come la sua giovane età, ciarliere sotto il Sole, impennacchiate e buffe dietro il vento e di cattivo umore solo quando rompono e si frangono. Le rincorre, le beve, le trapassa, le gode mai stanco, tinto d'argento. Non vede l’ora di arrivare al Mediterraneo: là le femmine deporranno le uova ed è curioso di scoprire come faranno, perché a lui qualcuno ha detto che i tonni nascono sotto il corallo.

*Non sfuggirà certo all’attento lettore, nell’incedere

del racconto, che queste due creature, Pinnagialla e Lisca, a differenza dei mitici pesci amati da Hemingway, Collodi, Melville, D’Arrigo, Bacchelli, mancano di quell’anima animale idonea a esaltare la tenacia dell’uomo per uscire vittorioso in un ambiente sconfinato e potente qual è il mare. Pinnagialla e i tonnaroti, messi in un panismo di tenue fusione uomo - natura, sono più disposti a penetrare il microcosmo liquido delle lacrime scoppiate da occhi infantili, commossi per una medusa disciolta al Sole, che a gareggiare con mostri e leviatani creati dalle menti di tanti eccezionali scrittori.

Diamo una dimostrazione della loro fragilità.

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Oggi, santissima Trinità.Il salto di mare tra Gallipoli e Santa Maria riflette gli ultimi raggi di un Sole rosso. Con un luccichio di lamine dorate, l’acqua si apre in archi contro l’affilata prora del Narvalus.

La nave mantiene una rotta per Messina con buona velocità. Ha salpato ieri da Napoli, e il comandante, (Tommaso, un tipo silenzioso, di Procida) è ansioso di raggiungere il porto. In Sicilia si dovrà incontrare con i tonnaroti. Mancando l'appoggio di quegli esperti pescatori sarà difficile che la missione giunga al successo, esito che invece pretende l'Istituto per il quale egli lavora da anni, assieme ad altri tecnici, marinari e ricercatori.

Tommaso conosce il valore del lavoro e dell’impegno costante. Collima i tempi della nave con le particolari esigenze dei due ricercatori ospiti: l'ingegnere sanitario mister Sonder, inglese, e un giovane di Parigi, il biologo François che storce il naso quando il collega accende la pipa puzzolente.

Il francese stride con tutto quello che ha intorno: non ha ancora formato il piede marino, ma sul Narvalus ha trovato una calda accoglienza. Cattivo conoscitore di navi, è bravo nel suo campo. La biologia marina lo interessa al punto che l'Istituto lo ha segnalato per la sostituzione del ricercatore titolare, sbarcato per un’embolia. Ha fatto ricerche sulla biodiversità dei fondali pelagici e, senza dubbio, ama il mare e i suoi abitanti. Questo carattere è essenziale per ogni ricercatore naturale, è basilare per ogni successo, piccolo o grande.

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Baggioni, siciliano dello Stretto, è il sommozzatore capo. Pare che il suo motto sia: «il buon sangue viene con l'allegria e insieme curano l'embolia». Non ha tutti i torti, perché i rischi dell’immersione sono tanti, così che oggi è più raro trovare gente che ami farsi calare in mare. Le immersioni sono però necessarie per il laboratorio di mister Sonder e del francese e vanno fatte spesso.

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Oggi, domenica del Corpus Domini.Lisca si affianca al vecchio tonno e gli chiede un racconto che gli rallegri la giornata.

-Vediamo un po', - fa Pinnagialla scacciando con un colpetto di pinna una noiosa remora che vuole ad ogni costo succhiargli sangue.

- Cos’è questa? - domanda Lisca impaurito.- È solo una remora, - ride il tonno, - è come una

zanzara fastidiosa. Ci vuol poco a schiacciarla.- Ma è schifosa! - esclama il giovane.- Anche la remora è importante e ti spigo perché.Pinnagialla inizia a raccontare una strana storia:“Tanto tempo fa, (tu non eri nato e nel mare non

spiravano sapori disgustosi), in un giorno come questo, un pescecane andava a passeggio con la fissa di trovare moglie. Un bravo sarto gli aveva cucito un vestito. Con spavalderia portava sulla parrucca, intrecciata con capelli di sirena, un cappello tessuto da un’orca. Dal panciotto gli pendeva un ciondolo di conchiglie; colletto e polsini avevano ricami dorati. Dandosi arie di grandezza, scorazzava con eleganza facendo occhio di pesce alle femminelle.

- Cerco moglie, avanti belle!Gridava nel quartiere abissale, ma le giovani

scansavano il bravaccio. Così, pur di risolvere la faccenda, il pescecane decise di ricorrere a una ruffiana e si rivolse a una remora per esser presentato a qualche belloccia del posto.

La megera, vedendo la manciata di bei vermoni che le aveva messo sotto il naso quel birbante, si sentì svenire, fece per afferrarne uno, ma il pescecane disse:

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- Basta begole! Prima la moglie e poi i bocconcini.Senza farselo ripetere, l'intrigante si mise alla

ricerca di una che fosse libera, senza granchi per la testa. Siccome era giunta notizia che la sarda aveva rotto il fidanzamento con il tonno, pensò d'andare a parlare a quella verginella che, da quando si era liberata del vecchio innamorato, passava la giornata al balcone suonando il colascione, strumento orribile e rumoroso.

- Oh! Sorella sarda, che fai? Suoni? Guarda che se continuerai così, farai scappare i giovanotti. Se hai voglia di maritarti devi smetterla di fare smorfie.

- Chi pensi si possa interessare a me?- C'è un pescecane che ti vorrebbe come compagna.La sarda lasciò il colascione e scappò a nascondersi

sotto uno scoglio. La prepotenza del tizio era nota in ogni angolo del fondo, anche là dove, ogni anno, le cernie venivano a fare cura d'acque per disintossicarsi.

- Non aver paura. Vieni fuori che te lo presento. E' un gentiluomo. Ti ha portato un regalo signorile.

Lusingata, la sarda venne allo scoperto, fece gli occhi dolci al pescecane intenerito e accettò il regalo, senza preoccuparsi delle conseguenze.

La faccenda non sfuggì alla murena, una linguaccia, che la chiamò traditrice, prima di correre dal tonno, ancora innamorato, e gli raccontò, per filo e per segno, ciò che era accaduto nel quartiere: un vero affronto.

Il tonno, mosso più dalle parole cocenti che dal fatto in sé, decise di affrontare il pescecane. Tornò a casa e

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si armò fino ai denti. Nel quartiere, o lui o il pescecane! Impugnò due pistole, tre baionette, palle, polvere, micce e schegge. Sulle spalle caricò settanta pistoni, ottanta bombe, novanta cannoni e andò incontro al malandrino. Dentro di sé, però, covava la speranza di non incontrare il ribaldo.

Il diavolo, che ama piegare nel verso peggiore gli affari corretti, ci mise le corna e nella piazza i due pesci si scontrarono.

Il tonno si fece coraggio e disse: - Tu mi togli la fidanzata e perciò ti do una legnata!Cosa non successe! Ci fu uno scambio di scortesie.

Botte da orbi, spari, tuoni, fulmini, pugni, schiaffi. Se le dettero di santa ragione e si pestarono tutte le spine.

Sentendo quel baccano, parenti e amici uscirono allo scoperto, gridando in favore dell'uno, o per l'altro. Portarono coltelli e mazze, spade, spadini, pugnali e mortai, tenaglie e martelli.

Un capitone, fiutando un affare, cominciò a vendere sedie a chi non voleva immischiarsi, preferendo assistere alla lite; un sarago passò a vendere noccioline e lupini. Si videro pesci d'ogni ceto; fu una guerra. Si azzuffarono come gatti, in un terribile baccano.”

Pinnagialla giunse alla conclusione:- Il pescecane, dopo le botte ricevute, vomitò

l’anima, e con essa la vescica natatoria e se la dette a pinne... È per questo che da quel giorno corre sempre. Senza vescica, affonderebbe.

- Ora capisco perché è arrabbiato con noi, - esclama Lisca stringendosi all’amico.

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- Non solo con noi. Ha un brutto carattere.- Se dovesse venire a infastidirci, gli darò una

testata, poi un morso e ancora, una testata.Pinnagialla ride divertito alle moine di Lisca.

Accelera l'andatura sollecitando il branco. I maschi adulti diventano impazienti: il tempo diminuisce e le correnti fredde cominciano a calare dal Nord.

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Oggi, diciotto di giugno, Sacro Cuore.Il Narvalus è giunto a Messina. Il comandante Tommaso, non appena completata la manovra di attracco, scende a terra con mister Sonder e François. Dovranno incontrare i tonnaroti del peschereccio Turchino: hanno appuntamento in un bar non lontano dalla cattedrale.

Baggioni, il palombaro, chiede di accordarsi. - Probabilmente avrete problemi d’intesa. Questa

gente usa molto il dialetto e potrò darvi una mano.Giungono sulla piazza nel momento che l’orologio

del campanile inizia il suo concerto di mezzogiorno. Dalle finestrelle della torre compaiono le statuine e, intorno alle lancette, un balletto di ore e stelle, mentre il gallo canta e ruggisce il leone.

Il capo dei tonnaroti ha i capelli bianchi. Porta malamente gli anni: il mare è inclemente e fa invecchiare presto. Giovanni, il rais, è capace di sbrigliare una rete incattivita, ma detesta numeri e teorie. Per lui i tonni sono pesci e non articoli da sistemare in tabulati di laboratorio. La sua vita è tessuta di pesca e tonnare; pensa che morte e vita costituiscano una girandola naturale e ovvia. Non conosce le formule dell'ecologia marina, ma sin da ragazzo gli hanno insegnato che col mare bisogna essere onesti: i disonesti, prima o poi, hanno in sorte una brutta fine.

L’incontro è stato preparato mesi prima, a Procida. Dopo le strette di mano, mangiano un vassoio di cannoli, saporiti quanto il paradiso, e bevono una

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crema di caffè che fischia tra i denti. Ora si tratta di definire dei particolari e stabilire i compensi.

Giovanni consiglia di partire presto se si desidera trovare i tonni con certezza. Baggioni, con battute di spirito e offrendo Toscani, stabilisce l'atmosfera per una discussione cordiale e di collaborazione.

- Esistono dei rischi, - dice rispettosamente il rais. - Un tonno vivo a bordo può spezzare in due un uomo con un colpo di coda. Non sarà semplice.

- Invece penso che ce la possiamo fare, - interviene un tonnaroto, tra i più giovani, secco come una Quaresima.

Suggerisce di usare la tonnara volante; di prendere tonni in mare aperto con la rete mobile. La giovanile sicurezza appare fuori posto, proprio per le regole della tonnara: il rais deve essere l'unico a decidere, a impartire disposizioni. Il vecchio conosce il rischio di limare, di dare rete: la tonnara volante carica di lavoro una sola barca, che dovrà, dopo la cattura, recuperare con rapidità e rischiare strappi, rotture o danni alle persone.

Sfiorando i capelli grigi con mano callosa, Giovanni soffoca la stizza di chi è fatto per non essere contraddetto. Poiché ci tiene al primato della responsabilità, si rivolge al giovane con occhi brillanti.

- Turi, l'Atlantico non è mari di Sicilia! Là non si scherza. Con l'onda alta la motobarca non può chiudere la rete e i tonni scappano.

L'osservazione è giusta. Infatti, la rete calata in acqua dal peschereccio, è allargata in cerchio sul mare. Per quest'ultima operazione è impiegata una motobarca che

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chiude il sacco, prima che i tonni s’immergano una volta intuito il pericolo.

Tommaso rimane a sentire. La discussione s'è accesa tra i tonnaroti, chi più prudente chi più spontaneo. Il comandante vede che la maggioranza degli uomini è dalla sua parte e intuisce la possibilità di spuntarla.

Poiché il lavoro di palombaro è rischioso e i tonnaroti sanno apprezzare chi ha coraggio, è concesso a Baggioni di parlare.

Il siciliano si raschia la gola e sfrega le mani. - Zio Giovà! Se il comandante ci autorizza, noi

subacquei, quando sarà il momento, scenderemo ai lati della corsa dei tonni e aiuteremo i pesci a trovare la rete... che diavolo!

Seguono attimi di silenzio. Giovanni borbotta qualcosa: una pratica fatta di gesti e accenni silenziosi. Espone la decisione:

- Facciamu ‘sta prova in Atlantico.Si stringono ancora le mani; si suggella un patto che

mette l'esperienza a disposizione della scienza ed è l'avvio della missione. È faticoso lavorare nella tonnara per la mattanza, ma catturare tonni vivi in oceano è impegnativo e Mister Sonder vuole marcare alcuni tonni per seguirne gli spostamenti.

Partiranno il giorno dopo; il sangue di Tommaso inizia a frizzare come il vino di Procida.

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Solstizio d'estate.Pinnagialla rallenta l'andatura permettendo al branco di riprendere i giochi interrotti alla fine dell'ultima sosta. Percepisce il solletico di una corrente calda, poco lontana, due o tre oscurità al massimo. Non si sbaglia.

Lo stretto di Gibilterra è dinanzi a loro, a trenta miglia. Il corpo del tonno palpita con nuovo vigore, si muove con maggiore vitalità e la bocca filtra grosse boccate d'acqua. Potrebbe Pinnagialla spiegarsi la cosa se fosse a conoscenza del fatto che stanno attra-versando una zona di mescolamento, tratti di mare dove gli strati più profondi, ricchi di fosfati, riscaldati dalla corrente calda, risalgono in superficie. Il movimento favorisce la crescita e lo sviluppo di microrganismi che sono essenziali per i pesci: autentiche vitamine e proteine che li aiutano in ogni processo vitale.

Lisca vorrebbe scendere nel fondo, quattrocento metri più sotto, per curiosare o intimorire qualche polpo e, perché no, anche assaggiarne la qualità delle carni. Pinnagialla, buon sorvegliante, lo dissuade. In quel punto vi è turbolenza, la corrente è forte e può travolgere con facilità un giovane tonno. Meglio restare uniti.

- Tu non hai ventose, ragazzo! Farai bene se te ne starai in superficie. Anzi, ora che ci penso, perché non vai a corteggiare quella "tonnetta" che già dall'ultima isola ti pinneggia intorno? È il tuo momento.

Da una parte entra, dall'altra esce. Lisca è giovane, avrà modo di cercare grattacapi. A lui basta giocare, saltare, scoprire. Sta nuotando in fretta e si è messo in

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testa di precedere il gruppo di alcune miglia, pieno della compagnia del nuovo amico: l'oceano. Corre, si rotola, morde l'acqua chiara per gioco. Dal verde spunta un delfino, un tipo sornione, muove la coda adagio, è lento e sbuffa, surriscaldato:

- San Gennaro mio! Pure qua fa caldo!Il napoletano, stanco di seguire vaporetti sulla rotta

Napoli Capri Ischia, si è allontanato dal suo golfo per trovare refrigerio nell'oceano.

- Hai l'asma? - lo sfotte Lisca con esuberanza. - A me! Come ti permetti? Guaglione, ti pozza dà

dieci onde avanti e po’ vedi se ti acchiappo!- Mi acchiappi? - Non mi dovessi più chiama' Gennaro Passalacqua.Vanno come siluri elettrici, deciso ognuno a non

darla vinta all'altro, a costo di scoppiare. Gennaro fatica a serrare il ritmo. Sfiata con rumore.

Li vede dall'alto un gabbiano bianco e grigio, incredulo per tanta agilità. Il volatile regola l'incidenza delle bianche ali per adagiarsi comodo sull'aria e li segue planando, incuriosito.

- Se corrono, - dice tra sé, - certo inseguono qualcosa... ma cosa? Vediamo... forse sardine e forse, forse pranzo anch'io!

Nuotano immersi sotto una lama d'acqua trasparente sopra i corpi scuri, affusolati da un lungo adattamento marino di milioni di generazioni. Sfilano in traiettoria retta, tesa incontro al Sole che si avanza nel cielo terso d'Atlantico. Il delfino soffia un richiamo di creatura quasi umana, il suo grido è un vagito di gioia, l'eco di un miracolo solenne quanto la diversità. Risponde il tonno frantumando creste d'onda con colpi di coda,

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nuotando deciso con vigore, sicuro di battere l’antagonista.

*Il vento si è fatto teso. Il mare s'increspa per il

capriccio di masse d'aria; s'imbiancano le acque tinte di smeraldo o d'azzurro. L’ecografo del Narvalus rileva l’assecondarsi d'ombre sommerse: le montagne della piattaforma atlantica che salgono dalla profondità fino a divenire costa. A venticinque miglia da questa, la nave ferma i motori; gli uomini approntano i mezzi per appoggiare il peschereccio del rais.

Dopo la localizzazione dei tonni, la motobarca, staccatasi dal Turchino, parte veloce per stendere la tonnara volante.

Inaspettato, nel campo visivo dei pesci, appare una rete. Il gruppo sbanda. Lisca soffre l'ignoto, ha paura e cerca scampo. Vira di lato e sotto lo strato d'acqua intravede un essere mai veduto: ha una forma allungata, nera, e fa un fottio di bolle d’aria.

Angosciato, perde l’orientamento e finisce nell’ intrico che lo trattiene: vi si torce contro, si rigira inutilmente. Sale, poi scende smarrito, torna indietro, dà colpi di coda.

Il rais ne ha già avuti mille, nelle sue reti, di tipi come quello, poderosi e belli. Sorride: i tonnaroti sanno limare. Le maglie sono rinforzate e quell’esemplare sarà issato a bordo non appena si vorrà spompare delle forze.

Il tonno ricorda i racconti di Pinnagialla e intuisce di essersi imbattuto nel pesce sconosciuto che lanciò i micidiali aculei contro il capo del branco. Gira la testa

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nella disperata ricerca dell’amico. Vede vicno il delfino, fregato pure lui.

- Guagliò! 'sta volta 'ce hanno fatto fessi.Il rassegnato lamento del mammifero non incoraggia

Lisca che va in preda dell'abulia. Si avvia al centro della rete, seguendo gli spazi lasciati liberi, quasi un camminamento di dolore.

*Baggioni, dal vetro della maschera, ha visto il

giovane maschio entrare nella camera, seguito da un grosso delfino. Si aspetta, in breve, l’arrivo del branco.

Eccoli, compatti, spruzzano e fanno un carosello. Agita le braccia per avviarli verso l'imboccatura delle

reti distanti venti o trenta metri. Poi accade il fatto imprevisto: un tonno gli va addosso.

Pinnagialla ha intuito il pericolo; gli si è riproposto quello strano essere che fa bolle, lo stesso che tanto tempo prima tentò dì ucciderlo. L’istinto lo induce ad andargli contro per colpirlo con il muso, incurante dei suoni paurosi fatti dall'uomo che grida nella maschera per sconcertarlo. Lo investe, gli fracassa una spalla, lo sbalza dall'acqua. Resta, così, libero fuori della rete; fa alcuni giri intorno alla tonnara, dove alcuni del gruppo sono intrappolati.

La motobarca ha compiuto il giro e sta raccogliendo la rete. Non appena chiuso il cerchio, va a recuperare il siciliano dolorante e limitato nei movimenti.

A bordo del Narvalus gli sono prestate le prime cure ma Tommaso, conoscendo il peso di un tonno, si preoccupa. Lo manderà via col Turchino al più presto.

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Il rais spara ordini precisi che i tonnaroti eseguono con scrupolo. Mister Sonder e François vogliono il minimo danno per i tonni catturati: i maschi più anziani non sembrano entusiasti delle attenzioni dei ricercatori. Alla fine, con un po' di lotta, si applica una speciale marca alla pinna caudale.

Finita l’operazione, i pesci vengono liberati.Per quelli del Narvalus è solo metà del successo,

perché bisognerà seguire gli spostamenti del branco, ci vorrà pazienza: annotare e registrare, fare analisi, immersioni. Mister Sonder è un oppositore della teoria autoctona. Il tonno non vive stabile nel Mediterraneo, ma si sposta da questo mare all'Atlantico, dopo il periodo dell'amore. Il ricercatore vuol ricavare valori, in tonnellate, della quantità di tonno che ogni anno è lecito pescare in un determinato tratto di mare e ciò per non ostacolare il ripopolamento e bilanciare la biomassa.

- La calcolatrice è nella rete, - dice Sonder, - una pesca con numeri seri dà maggior risultato di un'altra, all'azzardo e al buio.

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Oggi, ultimo di giugno.Il cielo è chiazzato da cumuli di bel tempo; la pressione barica è alta. Nelle acque di Sardegna si fa gran festa: i tonni hanno espulso le uova in grande quantità; le hanno affidate al caldo strato superficiale, perciò si schiuderanno in breve. La gioia è esplosa nel branco per il prodigio: la vita è bella, la continuità è assicurata.

Pinnagialla, con severi colpi di coda, ha calmato i più focosi. Tra poco dovranno ripartire; il viaggio per l'oceano sarà lungo e con la pancia piena si andrà meglio. Varrà molto un’immersione per una razzia di alici, sarde o qualche gustoso bocconcino.

Un gruppo di esploratori scende per la caccia. Il vecchio tonno fa vertiginosi giri concentrici: cinquanta, cento, duecentocinquanta metri sotto. Trovano quantità di cibo e richiamano gli altri: si fermeranno su quel fondale fino a quando le femmine non si saranno ben rimesse. Mangiano con voracità; non devono rincorrere le prede. Lisca ride, dice a Pinnagialla che lì non si perde il gusto a mangiare, perché le sarde si fanno catturare senza difficoltà e gli pare di essere a una fiera di beneficenza.

Pinnagialla, insospettito dal particolare, comincia a guardarsi intorno. Non nota niente, a parte un cumulo di bidoni giacenti sul fondo arenoso. Risale a pelo d’acqua seguito da Lisca, brillante, pieno di piacere e di curiosità per la vita acquatica.

Trascorrono alcune settimane, poi cominciano a navigare inseguendo il Sole. Una notte, per riposare e curare i più piccoli che si stancano in fretta, sostano nei pressi di una montagna bianca e fredda alla deriva.

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Lisca è affascinato da quella massa abbacinante che si lascia dietro veli di acqua gelida.

Una mattina, Pinnagialla si sente intontito. È scosso dai brividi, stenta a riconoscere la rotta, deve sforzarsi per controllare la vescica natatoria. Si piega per il dolore, perde le forze. Decide di chiedere l'aiuto di Lisca. Il giovane tonno gli va vicino e lo sorregge.

- Non temere, Pinnaccia. Vedrai, tra un po' passerà.- Grazie Lisca. Seguiamo il Sole. Pare spento oggi.Pinneggia, pianeggia, pinneggia, il branco incontra la

notte, oscurità che chiuderà il mare e resterà nel cuore delle creature marine fino alla nuova alba, se ci sarà.

Il nemico invisibile è dentro di loro e uccide le cellule, una per una, con metodo impietoso.

I tonni sono afflitti dall’affanno; gli opercoli induriti, abulici. Pinnagialla decide di passare le consegne al nuovo capo, secondo ciò che stabilisce la natura marina nel regno degli abissi: Lisca occuperà il suo posto. Si gira per chiamarlo; lo vede molto indietro, lento, nuota dondolando, intontito. Lo attende. Ha gli occhi assenti, senza tracce di lucentezza.

- Che ti succede? - gli domanda deluso. - La mia mente è pigra. Il giovane tonno guarda l’anziano come la speranza

può fissare un salvatore; emette dei fiochi lamenti e Pinnagialla capisce: la morte sta in ognuno di loro.

Lisca affonda nel buio. Lui riprende a nuotare, in tondo, stanco, un po' di qua un po' di là. La corrente lo trascina. L’acqua superficiale, dove tante volte si è curato un malanno, una ferita, lo tradisce. Il mare rifiuta di tenere con dolcezza il suo corpo e ogni onda,

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dura come scoglio, lo spinge sotto. Si rivolta sulla schiena, esausto. Vede la Luna guizzare sulla liquida lavagna.

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LA RECLUTA

Alle ventitré il treno entra nella stazione. I fanali anteriori, luminosi quanto gli occhi di un misterioso animale, lo fanno sembrare un drago cinese fuggito dalla festa della primavera.

D’inverno, in quella cittadina di costa, vi è poco turismo. Chi parte e chi arriva, di giorno, è la gente legata alla vita dell’arsenale: operai e tecnici che fanno lavori navali ordinari o le riparazioni urgenti alle navi.

Un tuono sordo e lamentoso si fa udire lontano e svogliato; accompagna una fastidiosa acquerugiola che non sa essere né rovescio né umidità lasciata dietro dai cumuli che strisciano bassi.

Poche persone scendono assonnate dai vagoni, così che il controllore può fischiare il via libera. È un segnale acuto, lacerante, a un tratto una chiara provocazione per il capostazione che ha un’aria insonnolita. Giochi di ferrovieri, una pratica per restare svegli dinanzi alla lunga notte.

La motrice si avvia con stridore di ferraglia, sblocca il convoglio nel buio, tra rumore di scambi. Si ode il vetro infranto di una bottiglia lanciata da un finestrino.

Di botto si riapre uno sportello; uno zaino nero, di quelli cerati e rigidi, dotazione degli equipaggi, vola

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fuori con un tonfo, appiattendosi sulla piattaforma. Gli va dietro un giovane marinaio, che insegue alcuni istanti lo sportello prima di chiuderlo.

Il frastuono non piace al capostazione; con aria di rimprovero fissa il marinaio. I pantaloni non ancora scampanati, il solino blu, la divisa di panno stirata e il berretto piatto, non sagomato in forme bizzarre, avvertono che il marinaio è una recluta, forza fresca in arrivo dal centro di addestramento.

Nino è un giovane robusto, ma la stanchezza rallenta i suoi gesti. Solleva con una rotazione del braccio lo zaino in cui il suo corredo è pigiato: unico modo per farvi entrare i panni per l’inverno e l’estate. Dentro ha messo anche le poche manie, non necessarie ma vitali per la sua personalità agitata nella novella situazione di marinaio. Roba di casa sua, oggetti soliti portati via nel momento della partenza: la sveglietta, poco precisa ma di valore affettivo, quasi feticcio del focolare da cui l’hanno avulso in maniera distaccata e fredda, con la cartolina di precetto. Si è portato dietro, inoltre, un libro di meccanica che si ripromette di leggere, e un paio di zoccoli olandesi, ricordo di una ragazza conosciuta l’estate prima al mare della sua isola quando, libero da impegni, andava con lei tra le insenature riparate dal vento. Conserva due ciondoli: il primo, sistemato a un passante dei pantaloni, è un teschio di cristallo che fa bella mostra. Il secondo è uno scheletrino cromato, agganciato allo zaino.

La chiamata alle armi è stata una scocciatura. È orfano; costretto a ingegnarsi per parare le necessità, intristito dal lavoro lento della bottega, (riparazioni per frigoriferi di pescherecci), prova una sorta di molle

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rancore per non avere la vita regalatogli svolte in positivo. Con un sussiego amareggiato sta raggiungendo la nave alla quale è stato assegnato e pensa che non sarà facile sopportare gli altri nel poco spazio di bordo, dove è noto anche il proprio respiro, oltre lo specifico di un uomo, pronunciato o meno secondo natura.

La base navale non è lontana; a piedi una ventina di minuti. Nino si avvia. Sgranchire le gambe gli farà bene: prima che possa rimettere i piedi sulla terraferma, chissà quanto tempo dovrà trascorrere.

Imbocca un viale acciottolato, liscio per l’età e scivoloso. La luce vi si riflette dalle verande dei locali fumosi ove indugiano gli ultimi gruppi di marinai in franchigia: cantano allegri e brilli. La flotta è la prima fonte di reddito per la cittadella e i marinai liberi hanno il diritto di restare a bere fino alla sbornia.

Dinanzi a un pub con panche in noce chiara, Nino si ferma. Pensa di rifornirsi di sigarette e fiammiferi, non sa se a bordo ne troverà. Spinge la porta e s’intrufola riuscendo a passare col voluminoso bagaglio.

Il giovane è contento che dal loro posto i marinai ubriachi non possano vederlo. Sopporterebbe male gli sberleffi. Gli anziani si divertono in modo stupido quando hanno opportunità di sfottere un novellino.

La ragazza che serve al banco ha notato la cautela; intuisce le ragioni dell’ordine dato al solino blu, al cordoncino bianco e al fazzoletto nero.

Nino ammira il visino pulito che si carica con un sorriso bernesco quando lei scopre il pendaglio posto al lato dello zaino. Dovrà ricordarselo per un pezzo

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perché è l’ultimo che vede in quel mese. Non avrà subito libera uscita dalla nave.

«Il folclore te lo porti dietro,» scherza con malizia la biondina che ha riconosciuto la fattura estrosa dello scheletrino. «A bordo non sarai ben visto imbarcando con te quello iettatore».

«È contro il malocchio,» ribatte Nino senza scoraggiarsi. «Mi dai dieci pacchetti di sigarette forti e dei fiammiferi?».

«Fai scorta?» ride lei mentre raduna le cose.«Non si sa mai. Potrebbe esser lunga».«Dove ti hanno destinato?» domanda la vocina

simpatica che permette l’indiscrezione.«Un cacciatorpediniere,» scandisce il giovane carico

di forzato orgoglio.«Oh!» lei finge meraviglia porgendogli un tenero

adocchiamento, «una nave nuova. Molto armata».«Non lo so,» scopre arrendevole Nino, «non ho mai

visto da vicino una nave da guerra. Spero di trovarla subito, lì agli ormeggi; potrei salire su quella sbagliata».

Ridono. Il marinaio ritira il sacchetto e il resto in monetine. Saluta ed esce circospetto, sperando di non essere notato dai colleghi.

Gli anziani, si sa, hanno più fiuto che occhi ed è così che una rumorosa frotta si precipita fuori dal locale accerchiandolo. Sono una decina, qualcuno ha il naso paonazzo, tre imbracciano a mo’ di fucile i filoni di pane dorato e croccante. Si dispongono in doppia fila costringendo Nino a partire sul “passo” e a marciare insieme con loro cantando una canzone oscena, adatta

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alla notte, tanto che uno del gruppo prende il ritmo cacciando fischi che poco hanno di marziale.

Ai cancelli dell’arsenale, la ronda incrocia il drappello che si disperde liberando l’ostaggio. I marinai vanno ognuno alla propria nave.

Le unità sono affiancate, ormeggiate di poppa. Le catene di prora, tese sulle onde piccole e brevi, le fanno sembrare pronte a scattare. A bordo gli equipaggi dormono. Le luci rosse conciliano il sonno pesante degli uomini liberi dal servizio e dalla guardia.

Soffia un vento freddo che taglia intaccature sull’acqua, quasi brividi, e segna una pelle d’oca a coprire il mare della rada dove sta il grande arsenale. Lì il naviglio è protetto. Nessuno può superare gli sbarramenti foranei, né il mare cattivo né altro. I marinai conoscono l’importanza dell’impenetrabilità del porto: i loro sonni non sarebbero tranquilli.

La marea è alta. L’intera flotta pare sospinta sui moli. Camminando lungo la piattaforma, Nino legge i nomi sulle fiancate, (eroi del passato), unico modo per trovare il suo cacciatorpediniere. Ha già passato una trentina di ormeggi e non vede la fine di quel confuso schieramento d’alberi e d’antenne, di strutture tinte di pittura navale, piatta, anonima, grigia.

La scova. Una nube azzurrognola esce dall’alta ciminiera di prora e si mescola alle nubi che s’inseguono con la promessa d’altri rovesci. Lo scafo è macchiato di ruggine, segnato del frusto, tipico neo delle vecchie navi prossime al disarmo.

Si ferma alcuni istanti a studiare la sagoma tozza, il profilo squadrato, le tughe che paiono castelli messi alla rinfusa, uno sull’altro. Ricorda che le navi hanno

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gli oblò, indaga sull’intera fiancata ma non vede una sola di quelle finestrelle. Da quella sarabanda di cavi e lamiere si leva minacciosa una forma severa: il cannone.

La pesantezza del ferro, fusa nel micidiale congegno, freme d’odio in ogni bullone della corazza, e riesce a snellirsi, a perdere consistenza a mano a mano che lo sguardo scivola verso l’estremità della lunga canna, sottile e stretta alla bocca, quasi fragile invito a farsi toccare, o a spingervi contro l’occhio per spiarvi il fondo dell’aberrazione umana.

Nino lo guarda ipnotizzato: un miscuglio di sensazioni, curiosità, paura, rispetto, diffidenza si agitano nel suo petto. Il cannone, poggiato sulla poppa come un elefante sulla pancia di un fachiro, pare voglia schiacciare la nave.

La recluta non può stabilirne il calibro (lui è macchinista) ma sa che ingoia proiettili grossi quanto un braccio. Al corso gli han fatto vedere dei filmati, ma non immaginava che un cannone lo turbasse.

S’infila nella passerella e le tavole di legno scricchiolano poco rassicuranti. In basso, tra nave e banchina, vede acqua inquieta e sporcizia, a galla, intorno alla poppa incrostata d’alghe. Il vento ha spinto la ruminatura del porto da quella parte.

La coperta è scivolosa, un fanale vi riflette una luce giallastra. Adesso ha messo piede a bordo.

Il sottocapo di guardia a poppa lo osserva mentre sale. È un cannoniere grande e grosso, ricco di salute, ha una folta barba; domina il suo sottordine, un armarolo striminzito, che tiene il bavero della cappotta rialzato. Nasconde nel palmo un mozzicone di

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sigaretta. Sbircia il nuovo venuto salito con imperizia: si lascia sfuggire un ghigno.

“Arrivano i rinforzi”.Nino lascia lo zaino e sente la schiena distendersi.

Saluta e cerca le carte d’imbarco. Il sottocapo cannoniere le controlla storcendo il muso di qua e di là, come uno cui nulla stia bene. Nota i ninnoli variopinti della recluta.

«Da civile fai il becchino?» gli domanda con aria cinica.

«No, però mi piacciono,» risponde Nino. «Di che posto sei?».«Dall’isola di san Vincenzo». Il barbuto sorride con ironia.«E vedrai tu che festa ti faranno qua per il santo

patrono,» aggiunge il sottordine armarolo, secco quanto un’alice salata. «Fai sparire l’ossario».

Il sottocapo si avvicina al banchetto rizzato di fianco alla corazza del cannone. Estrae un brogliaccio e registra l’arrivo. Fa emergere un termos e offre a Nino una tazza di caffè caldo.

Il giovane comincia a capire cos’è una nave ed esplora le mille diavolerie disposte intorno quasi per far dispetto agli imbranati. Nuovamente è attratto dalla gigantesca mole, dalla canna che sporge dalla poppa. Ne avverte sopra la testa la maliosa possanza e si sente scomparire dentro la cappotta di lana, a disagio per la propria insignificanza umana.

Il cannoniere nota quell’imbarazzo. Scherza:«Non star lì! Potrebbe caderti addosso».Il nuovo imbarcato si allontana dalla corazza

sopprimendo l’ansia. I suoi occhi si scontrano in quelli 37

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del sottocapo: due globi neri che non sostano un attimo sotto il sipario delle folte sopracciglia compresse dal berretto, calcato in avanti sulla fronte.

L’anziano gli accenna di seguirlo; si cala in un boccaporto sprofondando nel buio appena chiarito da una debole luce rossa e va innanzi, spedito, per un dedalo di corridoi, soffermandosi a ogni passaggio di paratia stagna per attendere Nino in difficoltà.

«Questi sono i corridoi di centro nave,» dice cacciando un filo di voce da basso, ma sufficiente per essere udito con chiarezza, di notte, in porto, sono oscurati. Ciò per abituarci a camminare al buio casomai in navigazione restassimo senza i generatori di corrente. Presto lo farai anche tu e riconoscerai i riferimenti fosforescenti».

Raggiungono un locale equipaggio; il sottocapo ruota il volantino e il portello cede, lasciando passare l’umore di uomini abbandonati al riposo notturno. L’aria è pesante; due o tre russano forte.

Gli occhi di Nino, assuefatti al sanguigno semi buio, distinguono le cuccette sovrapposte, allineate per tre, agganciate con catene ai bagli che corrono per aria, a sostegno dei ponti superiori. Spinge ancor più lo sguardo: spigoli e superfici sono uniformità piatta che assorbe i corpi distesi; gli oggetti hanno una dimensione indistinta, quasi una mancata volontà di tenere divisi metalli e corpi.

«Questa cuccetta è tua,» gli indica il sottocapo, «la terrai in ordine, porterai le lenzuola in lavanderia ogni sabato, i giorni pari, se non piove, sciorini la coperta sulla tuga di proravia. Quando ti laverai, userai poca acqua. Il cappellano viene a bordo ogni dieci giorni. Se

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sei praticante, dovrai metterti in lista per confessarti. Non ti masturberai a letto, pena gli arresti di rigore».

Una voce di mastino sbraita: silenzio. Il sottocapo esce dal locale. Nell’aria oppressa dai tiepidi respiri, rimasto in mutande, Nino si arrampica sulla terza cuccetta e, spezzato dalla stanchezza, si addormenta.

Inavvertite, passano le poche ore di sonno; alle cinque e trenta si ode il fischio. Si accendono le luci bianche, qualcuno bestemmia, un altro giorno inizia sulla nave: scialba trasparenza di minuti passati in porto, il cacciatorpediniere attraccato alla banchina, oppure in concitata navigazione. Chissà.

Allora?» lo investe una voce gracchiante, «scendi da solo o ti devo buttare di sotto?».

La nequizia in persona, quel capo anziano incaricato della sveglia, e non molla finché Nino non ha chiaro che a bordo non esiste l’incapacità di agire senza motivo. Deve saltare!

«Smidollata gioventù!» borboglia il graduato uscendo dal locale, «noi ci svegliavamo alle quattro, per fare a cannonate. Guarda che mi tocca vedere!».

Di sopra, in quadrato, è affisso l’ordine del giorno: la nave uscirà in mare, per i tiri, assieme ad altre unità.

Colazione, ginnastica, assegnazione dei compiti. V’è fermento di uomini; le manovre si susseguono dall’alto al basso, in lungo e largo: posto di manovra, via alle eliche, mollare gli ormeggi.

Nino ha il posto di lavoro in sala caldaia. L’incalzante movimento dei fuochisti gli chiarisce la lontananza da quella perfetta intesa tra muti uomini attenti alle fiamme e ai livelli d’acqua. È un sincronismo di braccia e pistoni, temperature e

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pressioni che permettono alla nave di muoversi con fremiti misti, umani e meccanici: una fusione di ferro e menti per non spaccare ogni cosa, nella macchina da guerra che si nutre di linfa umana, oltre a decine di tonnellate di nafta.

«Fessacchiotto!» gli manda un fuochista coperto da una tuta unta e puzzolente, «non stare vicino ai focolari. Finirai per arrostirti i testicoli!»

L’aria fresca che i ventilatori pompano dall’esterno stempra appena la temperatura trasmessa dai frontali infuocati. Nino suda. Il capo locale (uno smilzo, nervoso, della capitale) gli assegna il compito di controllare la regolarità della fiamma, per evitare che la ciminiera faccia fumo: il comandante s’incazza.

Nino fa del suo meglio. I bagliori che sfuggono dai portelli gli arrossano il viso. Lo ossessiona l’ansare di una pompa alternativa, che soffia vapore dalle consunte baderne di tenuta, logorate dal movimento dello stantuffo lucido.

Il secondo fuochista, un congedante, se ne sta più lontano possibile, dalla parte della garitta di sfuggita in coperta, un lungo tunnel verticale, l’ultimo cunicolo di speranza per raggiungere la salvezza qualora le fiamme avvolgessero il locale.

Un terzo fuochista si trattiene dalla parte opposta del locale. A tratti bagna la zucca biondiccia sotto lo spurgo della stazione antincendio; i rivoli gli colano per il collo tormentato da un grosso foruncolo. Il fuochista strizza i bubboni senza riguardo. Dopo che il pus dell’ultimo accesso è schizzato centrando il manometro del vapore principale, è apparsa la sua pericolosità.

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«Qualche giorno faremo il botto,» ripete il capo locale come se recitasse una frase propiziatoria. «Qui è tutto uno sfasciume irrecuperabile».

Passati i cinquanta, è un sottufficiale che ha alle spalle una carriera fatta più di ubbidienze che di onori. Benché sia convinto della necessità di un’esercitazione militare, disapprova lo sperpero di energia, termica e muscolare.

«Si potrebbe fare bordello con una sola caldaia. Invece guarda qui! S’incendia Sebastopoli con tutto questo fuoco».

Nino soffre per il puzzo denso: una combinazione di effluvi che lo prendono alla gola. Ha una vertigine, un crampo allo stomaco; si lancia sul buco aperto nella sentina e vomita, avvilito dagli eventi della prima giornata di mare.

«Quando avrai la bontà di esserti consumato, laverai tutta la sentina,» gli grida il capo locale. «E ti dico anche perché. Stasera darò una festa con le zoccole di bordo e ti garantisco un primo invito».

Il fuochista con i bubboni, mosso a compassione, si muove dal suo posto e gli va accanto.

«Non stare a sentirlo quel cornuto,» gli sussurra. «Cristo, uno di questi giorni lo rinchiudo nel collettore principale e lo lesso come una patata. Chi crede di essere? Un dio!».

Il telegrafo di macchina trilla. Dalla plancia chiedono di aumentare i giri. I fuochisti sostituiscono le piastrine dei bruciatori con altre più grandi. I focolari bruciano più vividi. La ciminiera, per un po’, rende all’aria fumo acre e nero. Nino armeggia con la regolazione dell’aria.

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Chiamano dalla plancia; avvisano che fanno tanto fumo e le scaglie nere sporcano le divise bianche degli ufficiali e il cannone.

- Andate a vendere le chiappe ai turchi - mormora il capo locale azzannando una sigaretta. - Nino, alza i giri della turbosoffiante. Stracazzi! Muoviti.

La navigazione procede sopra un mare schiacciato all’orizzonte da un cielo inespressivo ma bizzarro per i giochi di vaporosi cumuli estesi, superbi, orlati di viola.

All’esercitazione è stata assegnata una denominazione brillante, qualcosa come quich o scuic, ma poiché gli ammiragli i nomi li inventano usando fantasia, è inutile stare a stillarsi il cervello per scoprire un senso nascosto nella parola. La manovra impegna una ventina di navi e i loro comandanti sono d’accordo per sparare cannonate rapide, precise, che svuotino la santabarbara. Il baccano servirà, se non altro, a intimorire i vicini di casa e ad avvertire gli eventuali spioni, immersi nei loro sommergibili, o sospesi nel cielo con aerei dotati di radar, che la flotta è pronta. I bollettini avvertono i pescatori di stare lontano dal quadrato di mare destinato all’esercitazione: le palle fischieranno e le mine cadranno per colpire l’ipotetico sottomarino nemico, sollevando colonne d’acqua e ammazzando pesci.

Il caccia viaggia in linea di fila. Con altri quattro protegge il lato destro del convoglio. Le navi sono approntate per il gioco della guerra, le centrali di tiro all’erta, gli ecogoniometri in funzione. Dall’ammiraglia dirigono l’azione: il piano prevede la

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difesa simulata da un ipotetico attacco di potenza aliena.

Nino ricorda lo spezzone di un film.

“...seguendo scrupolosamente le istruzioni ricevute in busta chiusa dal supremo ammiragliato, un incrociatore va all’esercitazione. Altri battelli lo attendono in un punto segreto per dare inizio al balletto di caccia, fregate, navi appoggio piene di carburante, bombe, siluri, dottori pronti a ricucire quanti avessero bisogno. Le nazioni aderenti al patto di “quelli di qua” hanno inviato le loro migliori navi.

«Latitudine tot Nord, longitudine tot Est».La voce laconica dell’ufficiale di rotta avverte il

comandante dei nostri che sono entrati in zona di operazioni. Quest’ultimo si avvicina al tavolo del carteggio e controlla il riporto lisciandosi la cicatrice sulla guancia destra: un brutto segno a uncino. La carta navale è piena di segni comprensibili a pochi eletti.

Gli ecogoniometristi, ragni dalle cento zampe, si muovono sopra una fitta rete di eco mandati nell’abisso e ripresi dalle loro orecchie. Si dispongono all’ascolto dei fondali. L’ammiragliato ha fatto sapere che non accetterà d’essere spiato: i sommergibili dell’accordo di "quelli di là" non saranno tollerati.

Intanto, a cinquanta metri di profondità, il capitano di fregata signor *** rilegge le istruzioni ricevute dal proprio comando in capo e porta il sommergibile nel quadrato di mare, dove si sta svolgendo l’esercitazione di “quelli di qua”. Lui è un cinico sommergibilista della vecchia scuola. Deve creare subbuglio, e non gli

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mancano i mezzi: brucia uranio e se ne sbatte dei consumi.

«Emersione».Una volta a pelo d’acqua, inquadra l’incrociatore e

decide di stuzzicarlo. Tra bolle d’aria, a tre miglia dalla nave, il signor *** arresta il battello stagno e lascia all’avversario la mossa successiva.

Il comandante sfregiato è chiamato dalla centrale radar; va all’interfonico che ha tanti bottoni quanti sono i locali operativi. Si mette in ascolto con l’esaltazione di colui che, conscio della responsabilità conferitagli, è interessato a mostrare il suo potere, specialmente a quei giornalisti che il ministero ha messo a bordo per gli articoli di propaganda. Li irretirà come fa con i suoi cannonieri. Del resto non sono i giornali come i cannoni? Pronti a distruggere i bersagli con i loro articoli che spediscono certe personalità alle stalle, secondo opinioni confezionate, o le disposizioni ricevute: fogli di carta come proiettili.

«Un bersaglio è entrato nel nostro schermo, tre miglia davanti, ore undici, rilevamento 360, velocità zero,» avvertono dal radar.

«Identificato?»«Non risponde, comandante».L’uomo tormenta alcuni istanti il citofono.

L’esperienza gli dice che si tratta di una provocazione. È già accaduto.

«Riprovate in chiaro».Il signor *** non ha alcuna intenzione di farsi

mettere nel barile della salamoia come un’alice. Lui è l’asso dei fondali. È scosso da una risata. Ordina ai

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suoi di ripartire: destinazione il centro del quadrato di mare proibito.

Sull’incrociatore storcono il naso.«È in movimento, comandante. Ora precede la

nostra rotta».«È pazzo,» borbotta lo sfregiato, spazientito.La squadra navale non è lontana ed egli non può

presentarsi al gran gala con un palafreniere sconosciuto. Deve raggiungerlo prima dell’ultimo cancello.

Ordina un’extrapotenza.L’incrociatore abbassa la poppa e balza avanti

sollevando un enorme baffo di prora. La distanza si accorcia.

Il comandante esce sull’ala di plancia, punta il binocolo, ma le dimensioni del sottomarino e i riflessi rossastri del tramonto non gli permettono l’avvistamento. Si avvicina al ripetitore radar posto in un angolo della plancia e vi getta un’occhiata che possa chiarirgli la situazione. Infila un sigaro spento tra i denti.

«L’eco radar è sparita,» si ode dalla centrale.Il lupo di mare pone di lato il berretto con le fronde

d’oro.«Sala ecogoniometro,» chiama nell’interfonico.«In ascolto, signore».«L’avete rilevato? Lo sentite?»«Ecco! …. Si è immerso. È veloce, viene verso di

noi».In plancia, l’attimo d’ansia del comandante è acido.«Distanza».

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«Seicento metri, cinquecentocinquanta, cinquecento…»

«Profondità».«Ventuno metri, comandante».«Fermate le macchine!»Un minuto dopo, il cinico signor *** passa sotto

l’incrociatore.«Si allontana, comandante. Ora dirige verso

l’esterno».Lo sfregiato sospira di sollievo. Rimette la prora

della nave sul luogo della festa. È certo che il sottomarino sarà intercettato da aerei antisom e l’ammiraglio ordinerà a qualcuno di allontanarlo dalla zona riservata alla sua flotta.

L’incrociatore si unisce alle navi per iniziare a manovrare in linea di fila. A turno, tireranno su un bersaglio trainato.

Le cannonate si susseguono rapide: che botti!Tra un bersaglio mancato e un centro, arriva la

notte.

Il signor ***, riportato a galla il sottomarino, piazzato sulla sua torretta, vede una bella Luna sorgere dal mare. L’impicciona giocherà per la riuscita del piano. Ordina al timoniere di riportare il sottomarino verso la flotta. La festa non è finita.

Lo sfregiato ha un moto di rabbia, quando la centrale radar lo avvisa che l’impiccione è riapparso. Sceglie di attuare una manovra eversiva, ma lo anticipano dalla nave ammiraglia.

“Sparategli contro un peperoncino mare - mare”.

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I portelloni della rampa lanciamissili dell’incrociatore si aprono e dal deposito salgono due missili minacciosi.

Il signor *** non crede che gli spareranno contro. Anche lui ha pronto un cetriolo di lusso, ma il mare è di tutti e non è il caso di fare i gradassi.

Lo sfregiato è convinto della manovra in atto. Il rompiscatole dovrà sloggiare. Se dovesse immergersi e rifare il giochino di sfilargli sotto, gli farà cadere sul groppone un po’ di mine. Ai giornalisti presenti a bordo, è meglio mostrare di sbrigare in fretta certe brutte faccende.

Il signor *** non è stupido. Chiede al reattore un megatone in più e il sottomarino parte in una virata, iniziando un girotondo.

I radaristi dell’incrociatore segnalano allo sfregiato una nuova inattesa insidia. L’uomo chiede dettagli.

«Di chi diavolo si tratta?».«Aereo amico in avvicinamento per 269».«Intenzioni?» domanda pensando ai secondi che

corrono.«Non sappiamo, mantiene silenzio radio».L’uomo si passa dorso della mano sul mento sudato.«L’aereo ha lanciato un missile! Il sommergibile è

perduto».«Sono impazziti!» grida lo sfregiato.«Tre minuti all’impatto,» annunciano quelli

dell’eco.Gli equivoci non piacciono al signor *** che teme il

missile sparato dall’aereo. Reagisce. Preme un pulsante: alcuni MK schizzano diretti sulla squadra

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navale. La flotta sarà annientata, trenta secondi dopo di lui.

Lo sfregiato serra gli occhi con raccapriccio. Ci sarà un massacro. Chi ha ordito ciò non può essere che un pazzo.

«Due minuti all’impatto».Ordina di abbandonare la nave; vede gli uomini

uscire dai ponti e saltare in mare. Non tutti riusciranno a salvarsi. Anche coloro che resteranno vivi dopo lo scoppio, saranno contaminati dalla ricaduta del pulviscolo radioattivo.

Un boato. L’incrociatore si spezza in una palla di fuoco; s’incattiviscono i depositi munizioni, la plancia si stacca, proiettata nell’aria. Allo sfregiato tocca l’accelerazione verso l’anima della notte: non può udire altro. Il suo corpo si va mischiando alle schegge”.

Nino si riscuote. Ha bisogno di aria. Il capo locale gli concede di salire in coperta. La puzza di nafta si è impregnata nella sua pelle come l’aroma nelle erbe essiccate. Sente il desiderio di respirare lontano dal locale compresso della caldaia.

Apre il boccaporto e lo acceca la luce del Sole ingigantita dai riflessi di migliaia di goccioline salate. Passando dalla tuga delle motobarche, sulla sinistra della nave, giunge a poppa: il luogo è esposto al vento. Unico riparo è la corazza del cannone. Dietro quella mole, siede su un cono di cime e le sente umide sotto i pantaloni.

La distesa blu è uno spazio infinito. Ecco: infinito palpabile che si stende da ogni parte come un’eternità,

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una misura impietosa per la sua mente che non afferra l’assenza del limite. Scopre la paura. Una sgradevole sensazione che sopraggiunge a tormentarlo con l’angoscia che altre volte ha riflesso la sua solitudine o l’amarezza delle serate consumate in compagnia dell’indifferenza. Desidera la liberazione dalla penosa prigionia cadutagli addosso e sa che non sarà sufficiente il semplice scotimento. È paralizzato. A volte, di notte, quando sta per prender sonno, avverte la pesantezza negli occhi arrivargli da lontano, come una sorta di torpore psichico, un irrigidimento che gli strozza il respiro e gli impedisce i movimenti. Soffre di paralisi notturne, una malattia dalla strana denominazione, catalessia o cosa del genere. Ne fu terrorizzato al punto che credette di morire, poi la cosa si ripeté e scoprì che doveva lottare, cominciare a scuotere il piede prima, sbloccarlo e risvegliare, a tronconi, il corpo abulico, preda dell’inerzia. La volontà era la salvezza. Ha nostalgia della sua isola, della bottega zeppa di frigoriferi da risanare e di condizionatori da ricaricare con gas. Il fumoso cacciatorpediniere, con la sua arma, è paragonabile a una foresta e gli uomini a insetti, ognuno con forza e riti diversi, finalizzati al reciproco annientamento. Vorrebbe trovarsi lontano.

Ecco due fischi di sirena. La nave s’inclina in virata e la candida scia forma un arco tangente all’orizzonte. Da quella parte sono in arrivo due puntini sospesi, quasi immobili, man mano più grossi, ora vicinissimi e bassi sul mare, assordanti reattori sopra la nave, già spariti dalla parte del Sole: dietro di loro solo turbolenza d’ali. La torre del cannone vibra, ruota

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brandeggiando la bocca da fuoco, il cursore insegue invano la traccia: troppo tardi. I piloti ripetono il volo radente, assurdi e veloci per il vecchio sistema di punteria.

Nino osserva le pulsazioni del cannone: pare un muscolo. È attratto dal complesso d’acciaio, affascinato da quella potenza ferrosa. Una nuova emozione gli sboccia dentro: “Chi potrà fargli del male dietro quell’attrezzo? La forza del maschio padrone del mondo è proiettata in quel profilo”. È stravolto. Comprende la necessità di ritrovarsi, di fare il punto reale della sua essenza o sarà travolto dalla maledizione che porta ogni arma da fuoco. Una percezione inattesa lo scuote. Un ragionamento semplice gli passa nella mente: la nave è nel mare, questo sta nell'universo, che se è infinito, è anche Dio. Dunque, egli, sulla nave messa nel mare, è parte di Dio. Amore, quindi, non violenza deve essere la forza. Lo sguardo abbraccia l’immensità in un pacifico caleidoscopio e può affrontare l’oceanica luce che lo avvolge. Si misura oltre la vastità, perduto nel momento di un fortunato incontro con la pace. Aderendo allo spirito, attraversa il materiale ferroso proiettandosi nell’immaterialità del cielo. Si ritrova con una crisi allucinatoria.

Non ode i cenni intorno, i segnali di: “Fuoco”!Un dolore di pugno al petto, una botta lo fa

sussultare e un finimondo gli entra nelle orecchie con dolore, con violenza; schermi di sangue gli passano sugli occhi.

«Basta!» urla.

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Ma i cannonieri non possono udirlo dall’interno della corazza e i colpi si susseguono rapidi: essi gridano per incitarsi, esaltati dal puzzo della polvere da sparo.

Nino scappa verso un portello e rientra sottocoperta. È intontito, si comprime le orecchie, angosciato da un fischio in testa che lo annulla fisicamente. Rimane addossato alla paratia.

Nel corridoio avanza il barbuto sottocapo cannoniere e il suo sottordine. Trovano la recluta e gli ci vuol poco a capire il suo stato.

«Che cosa ci facevi dietro il cannone,» gli domanda il sottordine alzandogli conto il viso le mani pelose.

«Non ti sente,» dice il sottocapo, «ha i timpani malridotti. Portalo in infermeria».

Per un attimo lo sguardo del cannoniere penetra nelle pupille dilatate di Nino. La comunicazione è silenziosa:

“Coraggio, - gli sta dicendo - andrà tutto bene”.«Vieni,» lo guida il sottordine, «ti consegno al

dottore. Vedrai che servizietto ti farà».Il medico, dopo la visita, gli tampona le orecchie e lo

esonera dal servizio. Sarà sordo per un paio di giorni. Nino ne approfitta per leggere alcuni capitoli del

libro di meccanica che si è portato da casa. Non ha dimenticato i cenni di comprensione del barbuto che l’ha soccorso: alla prima occasione lo ringrazierà.

Verso sera il caccia termina la serie di tiri e rientra alla base. Tutti sono soddisfatti per il risultato delle manovre e l’ammiraglio fa trasmettere un elogio per tutti.

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Una mattina giunge la notizia: il cannone sarà sbarcato. L’ammiragliato è deciso a rimodernare la nave.

Arriva un rimorchiatore. Si passano i cavi e il caccia è rimorchiato al largo ove si farà lo sbarco delle munizioni. L’atmosfera che regna nei locali suggerisce che quella è una giornata diversa dalle altre, piena di fermento per l’insolito lavoro. Gli uomini parlano pacatamente del nuovo lanciamissili che sarà installato a poppa. Evitano le arguzie solite, imposte da secolari abitudini: spaccature tra reparti, scontrosità risalenti alla marina velica, livori nati tra marinai e cannonieri all’invenzione dello "sputa fuoco", tra cannonieri e fuochisti, molti anni dopo, alla comparsa del vapore a bordo. L’ufficiale del tiro parla con posatezza al capitano di macchina, si porgono le scuse per l’alterco di un mese prima: una discussione cresciuta solo per stabilire che il lavaggio della ciminiera doveva esser fatto prima che i cannonieri attaccassero a lustrare il cannone perché la fuliggine, cadendo dall’alto impastata con l’acqua, l’avrebbe sporcato. Ora, per tutti gli uomini nessun lavoro consueto, solo sbarco munizioni.

Hanno cominciato lo svuotamento della santabarbara e i contenitori trovano sistemazione nell’apposita bettolina venuta dalla polveriera. Tra un viaggio e il successivo, i marinai passano dal quadrato per bere un bicchiere di vino offerto dal cambusiere: rinvigorisce i muscoli. È una giornata faticosa ma piena di movimento e ripagata dal buon umore. Qualcuno trova anche fiato per cantare: l’intesa è buona. I cannonieri

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passano a braccia i contenitori e i nocchieri li accastellano sulla bettolina che s’immerge sempre più.

Il cacciatorpediniere emerge. Quando si fa sera, è vuoto di munizioni. Si è fatta un’operazione delicata.

Dal ponte si cala una motobarca. Due nocchieri la liberano dai paranchi e la tengono ancorata allo scafo del caccia servendosi dei rampini. Vi scende una comandata di marinai incaricati di scortare le munizioni alla polveriera. Hanno l’aria scocciata, mal sopportano l’idea di seguire la bettolina. Più che il rischio è la lentezza del rimorchiatore che la trascinerà: tra andata e ritorno l’impegno sarà di tre ore.

Il nocchiere al timone dà un trillo di campanello e il motorista ingrana la marcia; la motobarca si avvia di lato al rimorchiatore che sposta la bettolina cacciando un fumo denso e nero. Il cavo di rimorchio si tende; il piccolo convoglio parte in direzione della costa. Il nocchiere decide di portarsi sopravvento al rimorchiatore per togliersi dalla nuvola di fumo.

Seduti sulla parte anteriore della bettolina, Nino e il barbuto parlano indicando, in lontananza, la poppa del caccia premuta dalla mole del cannone. La prora emerge in modo evidente e il nuovo assetto accentua ancor più la pesantezza del cannone. Vedono le luci di posta rimbalzare con riflessi tremuli: ora la sagoma pare quella di una balena.

Nella sera si spandono le scintille incandescenti che fuggono dalla ciminiera del rimorchiatore: paiono furiose lucciole marine.

Nino si oppone al freddo vento che passa dalla prora e che gli fa lacrimare gli occhi.

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«È solo un inutile rottame, il cannone,» dice al sottocapo.

Il barbuto scuote la testa, passa la mano tra i capelli. Nino non capisce che per l’altro quel ferraccio è stato un compagno.

«Credi?» gli domanda.E non trova altre parole per dire al giovane che cosa

ha provato durante tutti quegli anni in un posto dove l’uomo scimmia ha ragione dell’uomo bestia, dove ogni volontà è assorbita dalla gerarchia: una piramide capovolta che entra in petto con la condanna all’obbedienza cieca. Ha scaricato ogni volta la rabbia, gridando forte prima di ogni bordata, si è sentito padrone del mondo quando il re delle guerre ha agito secondo il suo volere, dominato dalla forza di un contadino scappato alla terra, per l’incalzante progresso che vuota i paesi uccidendoli.

«Io non l’avevo mai visto un cannone,» confessa Nino, «quando sono arrivato a bordo mi ha intimorito».

L’aria fredda entra sotto i loro camisacci. Alzano il solino blu sulla nuca. In silenzio, fissano le luci della base che indicano i contorni delle casematte.

«Che farai dopo il congedo?» domanda il barbuto.«Andrò in continente a cercar lavoro».La risposta di Nino rimane sospesa nell’aria come un

destino incerto, accreditato a coloro che vanno per mare, a gente che ha perso la terraferma ma che, in sogno, vede un lavoro che permetta una vita decente, una donna che aspetta dopo avere apparecchiato la tavola, un letto fresco rifatto.

L’anziano cannoniere si agita sul cassero, storce la bocca con un movimento familiare al meccanico, alza

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la mano e la posa con gesto amichevole sulla sua spalla, lo scuote.

«È bella la libertà?».«Ti fa vivo!» dice Nino.Aggiunge che quel valore è fatto di cento organi,

come il corpo umano. Ha testa, braccia, gambe, cuore, fegato, reni, e tutto ciò è racchiuso in una testa. Chi lo indossa deve sentirsi comodo, come quando si ha una pelle su misura. A lui sarebbe piaciuto vivere di amore, e provare le esperienze di uno che dipinge la propria vita, catturando espressioni che accompagnano alla morte, magari con i rimpianti di un primitivo, senza malizia.

«Ricorda, è bello solo essere vivi» dice il cannoniere.

Il giovane non gli crede. La libertà fa provare la sensazione d’immensità: uno pensa e ama e nessuno può bloccarlo.

«L’uomo è libero,» insiste Nino. «È nato così. Non è necessario andare fino a Tahiti».

«T’illudi. Fino a che esiste il cannone, esisteranno le guerre fratricide. Noi non possiamo farci nulla».

D’improvviso qualcuno urla. Appare del fumo sulla bettolina: si alza una fiamma, crepita. Nino e il sottocapo barbuto non hanno modo di arrivare agli estintori. Il tempo si dilata all’infinito. Tutto si fa lento.

La sirena del rimorchiatore fischia con disperazione mentre il timoniere dà barra per allontanarsi. Una serie di esplosioni spacca il mare, gonfia la superficie di schiuma fosforescente.

La bettolina si disintegra.

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L’armonia della sera, che era equilibrata dal buio, è rotta dai fasci luminosi dei riflettori delle motolancie che giungono dalla base in cerca di superstiti.

Il prezzo pagato è doloroso: un sacrificio umano per stivare un centinaio di contenitori per munizioni.

Solo due solini blu restano a galla.

*

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GARA ALL’INGLESE

Londra, Victoria docks, estate 1905Bella linea quella del Maria d’Asburgo, brigantino nato bene, dopo l’unità dell’Italia, nel cantiere di Castellammare: un legno veloce per l’ampia velatura distribuita tra bompresso, trinchetto, maestra e mezzana; una nave calda come il legname del Faito, montagna boscosa che aveva fornito gran parte del legname, per allestire quel corridore a palo.

A comandare la nave vi era il torinese Basile, già capitano di fregata nella Real Marina di Sua Maestà Umberto I. Anche quest’uomo era passato dalle navi armate a quelle commerciali, ma solo dopo una delusione ricevuta, nientedimeno, dallo stesso delfino, il duca. Gli avrebbe fatto dire, costui, con i dovuti modi beninteso, che non era richiesta la sua disponibilità per la spedizione al Polo, quella del ’99! Così, Basile assunse il comando del brigantino, iniziando il nuovo secolo.

I vecchi di bordo ricordavano ancora il varo: lo sposalizio fatto molti anni prima con il mare, un padre che aveva svezzato tutti loro, generoso ma mutevole. Il nostromo Pisacane, gonfio di orgoglio ciociaro, raccontava ai pivelli imbarcati che quel giorno era venuto anche il ministro Giolitti e certo il brigantino

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era la prima nave che lui vedeva varata sotto il tricolore, con lo scudo crociato della dinastia sabauda nella banda di centro.

- Io l’aggio viduto, - giurava mettendo una mano sul cuore - il ministro aveva il pianto dinto il naso e negli occhi.

Pisacane, lì a bordo, era un’istituzione, come certi sagrestani che s’incontrano nelle basiliche, creature che pur avendo il dono di saper essere ultime, sono fantasticamente indispensabili. Sono le sole, infatti, ad avere l’impossibile nel disperato momento della necessità, ad esempio un rocchetto di filo del colore intonato, per ricucire uno strappo ai pantaloni dato dall’incredibile chiodo, o una pozione per calmare un mal di pancia dopo una zuppa di cozze poco oneste. Che altro dire di Pisacane? Si cercava un ago curvo da dieci per riparare l’orlo di un velaccio ed ecco l’uomo farlo emergere dalla cala di prora. Un albero aveva bisogno di nuove sartie, o un marinaio necessità di buglioli per lavare il ponte, stecche di legno, sfilacce, catrame. Niente paura! Pisacane risolveva le necessità.

L’esperienza marinara dei suoi cinquantotto anni lo faceva maestro. Egli, scappato da casa a tredici anni, si era arruolato nella marina da guerra: battezzato alcuni mesi dopo da una palla di fucile, aveva deciso di passare alla marina mercantile. Scelse il Maria d’Asburgo, dove il suo passato gli procurava rispetto.

Ogni anno, durante i mesi estivi, gli allievi dell’Istituto navale di Genova giungevano a bordo per imparare l’arte velica e Pisacane li torchiava al pari di trefoli per una cima, caricando l’incarico di spirito missionario. La catechesi mirava, sopra ogni cosa, a

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metterli in guardia dai pericoli di ogni invenzione che potesse turbare lo spirito velico.

- Vi purificherò, - ripeteva loro, - per voi ci vuole l’aria, il vento che nella notte tempestosa vi stacca le orecchie. A scuola vi hanno intontito con le balle sul vapore: è una diavoleria che non farà navigare a lungo, perché questa è la via, la vela!

Insomma, a bordo, quel rude si muoveva a suo agio. Di vapore neanche un sospiro, nessun rumore strano di ferraglia, alcun parlottio che non fosse quello fraterno del mare contro la prora affinata, o il grido del gabbiano, o la compagnia del vento tra un boccaporto e l’altro. L’unico suo riposto tormento era costituito dalle misteriose scatole luminose alloggiate da poco nella cabina del nuovo ufficiale. Lo odiava. Quel Liprandi, - pensava, - può imbrogliare tutti ma non me, non sono la balia dei fessi. È un’anima dannata.

Ciò che più aveva intristito Pisacane, dopo l’ultima navigazione, - molto veloce tra l’altro - era stato un tramestio mai udito. Gli era parso di percepire un battito, come di un cucchiaio sul tavolo e poi rumori insoliti per le sue orecchie pelose, quasi pigolii, strani tititi… taataataa, titi… taa. Brutto affare! – aveva concluso - Liprandi è un losco figuro.

Diciamo, a questo punto, che l’ufficiale era un dipendente della Società Marconi. Inviato a bordo del brigantino per installarvi la stazione telegrafica, giudicava insormontabile il baratro che divideva i principi rivoluzionari dell’elettrostatica dalle tecniche velistiche di cui era armato il vecchio corridore a palo. L’armatore aveva voluto la radio per ragioni a lui non

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note, ma i marinai mostravano diffidenza per le sue apparecchiature e lo fuggivano.

E non avevano tutti i torti. L’uomo era di un pallore spettrale, sul viso smunto risaltava un alone misterioso che rendeva la sua figura venduta con un patto al malefico arcidiavolo che lo possedeva. Le dita, sottili, curate, si muovevano con eleganza sotto le maniche un po’ larghe della divisa e si posavano con leggerezza sulle cose, quasi farfalle uscite da una malia.

A Pisacane il signor Raffaele Liprandi, trentenne ingegnere, sembrava un alchimista da mandare al rogo in compagnia delle sue trappole. Da quando si era imbarcato, accadeva a bordo l’impensabile: i fuochi di sant’Elmo, che prima si vedevano raramente sui pennoni, scoppiavano frequenti sui puntali degli alberi.

Il brigantino, in Inghilterra, aveva dato fondo ai Victoria Docks: una piattaforma ricavata sulla sponda del Tamigi, là dove il fiume curva verso la foce, costituendo un comodo punto d’attracco per le navi che giungono dalla Manica.

La caligine alzatasi dopo il tramonto soffocò il veliero celandolo alla vista. Il marinaio di guardia allo scalandrone, una solida passerella a gradoni, rabbrividì fino alla schiena.

Approfittando della complice nebbia, una decina di paffuti topi di porto, autentici lords del fiume, squittivano attorno alle bitte richiamati da un odore nuovo, inconsueto: bontà delle croste di parmigiano che il cuoco, maestrino di cucina Cecè, di Bari, stagionava in uno stipetto del locale cottura, in attesa di sbatterle in un pentolone con fagioli e cipolle per un

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minestrone, poco raffinato ma non troppo pesante per i quaranta diavoli dell’’equipaggio.

“Che caspita tengono in corpo? – pensava il maestrino indispettito dalla voracità. - Nu verme solitario? Stanno sempre a cercà maccaruni, stufato di pisielli…”

Dopo anni in cucina, aveva perso, Cecè, il palato. Tutto era scipito. Le lamentele erano di ogni giorno: tre turni di mensa per la ciurma, poi l’apparecchio singolo per il capitano, per finire, il cucinato speciale, pagato a parte, per i dieci allievi dell’Istituto e per i tre ufficiali. Uno di questi, un ingegnere imbarcato poco prima della partenza da Genova, trascorreva gran parte della giornata rinchiuso nella sua cabina, seduto innanzi a una cassa luminosa e si nutriva come un uccellino. Ma lui aveva la coscienza a posto: nella stiva di prora non erano stati imbarcati viveri in abbondanza. Solo il minimo indispensabile per una breve navigazione e ciò lo metteva al riparo da ogni brontolio. Prima di partire dall’Italia qualcuno avrebbe dovuto riempirla quella stiva, o tutti avrebbero mangiato brodo d’acqua di mare e cozze staccate da sotto la chiglia della nave.

*Liprandi si mise al lavoro verso le otto di sera, l’ora

buona per approfittare del miglioramento della trasmissione. Il ticchettio del morse lo impegnò: il messaggio arrivava da un ripetitore, da Berna. Lui trascriveva sibili, tintinnanti suoni, e punti e linee comparivano sotto la penna per trasformarsi in frasi.

Si avvide d’essere egli stesso la persona che avrebbe dovuto ammansire il capitano Basile. Il contenuto

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sibillino del messaggio sarebbe stato per il torinese peggiore di una puntura d’ape.

Tolse dalla testa la cuffia e lo adagiò sul ripiano di mogano. Il difficile era cercare parole giuste, calibrate sull’umore di un uomo gentile, ma imprevedibile, dopo la spossatezza del lavoro.

Nella sua cabina, rivestita con una calda boiserie di noce, Basile consumava da solo, secondo l’usanza concessa al primo gentiluomo del Maria d’Asburgo, una giusta cena. Aveva assaporato un leggero brodino, a bella posta preparato sgrassato dal maestrino Cecè, e fissava soddisfatto la fondina vuota, quasi meravigliato per l’immobilità del piatto: inconsueta stabilità dovuta alle acque quiete di porto.

Ed eccolo lì il suo cuoco, con la camicia bianca e il cappellone a coste, piccolo e litigioso come la gran parte dei baresi imbarcati, intrufolarsi con il secondo piatto: l’anatra inglese arrostita, comprata per lui a terra, viva, irrequieta fino all’attimo finale della rottura del collo, e ancora pulsante dopo la morte, a differenza di tutto ciò che durante i mesi di navigazione era tolto dai barili e dal sale per essere cotto.

Basile gustava la serenità di quella breve sosta, assieme al sapore corposo di una bottiglia di barolo.

L’ufficiale della radio poggiò le nocche sulla porta della cabina e attese, tenendo il foglio sollevato tra indice e medio.

Il cuoco gli aprì: il volto tondo fu di stupore per l’inattesa comparizione. Mai nessuno sul brigantino aveva osato interrompere la cena del capitano.

L’ingegnere, fin troppo esile, passò con facilità tra il riscontro della porticina e il cuoco, rimasto fermo come

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una scultura d’ebete. Affidò il foglio giallognolo, che aveva tra le mani, al capitano che, anziché indispettirsi per l’interruzione della cena, si eccitò e non seppe celare una luce sinistra negli occhi, un’onda interna di piacere che arrotolava una spuma d’esuberanza.

- È per me, signor Liprandi? - sussurrò accettando il foglio e sforzandosi di tenerne gli occhi discosti: atteggiamento che gli prolungava lo strano piacere di ritardare la lettura, percosso dall’idea che i moderni mezzi gli andassero incontro per aumentare il prestigio.

- Viene da Genova, via Berna. È dell’armatore.Il capitano era orgoglioso: il suo nome si era dilatato

nell’aria, valicando le Alpi, volato sulla Francia, attraversato la Manica, sopra mari e monti, a cavallo di quelle strane cose che, il signor Liprandi glielo aveva spiegato, erano incredibili onde fatte d’etere.

- È un messaggio personale? - domandò accigliato.Il marconista intuì da che parte stesse andando a

parare il signor Basile: era scontento che altri, a bordo, sapessero i fatti suoi e, per giunta, prima di lui.

Liprandi rimediò come poté: - È telegrafia senza fili, per me solo punti e linee,

segnali radio.Il capitano valutò la risposta e decise in cuor suo che

avrebbe accettato ogni futura ingerenza dell’ufficiale. Lo guardò a lungo, con forza, quasi volesse comunicargli telepaticamente un patto: tu scopri i fatti miei, ma sarai muto, sordo e cieco.

- La prego. Discrezione, - e staccò in sillabe l’ultima parola.

Liprandi aveva vissuto con altri certe esperienze, a volte stati d’animo tinti d’imbarazzo. Gli andò in aiuto:

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- Noi abbiamo fatto un giuramento, signore. Il lavoro c’impone delle regole. Anche gli utenti vi devono sottostare.

Basile aggrottò le sopracciglia.- Non è chiaro, nèh, - e qui un colpo di tosse, - mi

pare di non saper leggere. Al punto in cui siamo, leggetelo voi ad alta voce, - e restituì il foglio.

L’ufficiale spostò lo sguardo sul cuoco che, impassibile, assisteva al dialogo. Il comandante lo notò.

- Che cosa ci volete fare? È il progresso, sono le vostre onde che fanno cadere le barriere. Leggete pure, vi prego.

- 345RTRT/76/20.35GMT.- Che roba è questa? - domandò atterrito nell’udire la

sfilza di numeri. Credette di avere male interpretato le poche spiegazioni dategli per una breve comprensione del telegrafo durante la passata navigazione.

- È il numero progressivo dei messaggi in partenza dalla stazione primaria. È indicata l’ora e il codice.

- Gesù! - sospirò accaldato, - andate pure avanti, nèh! Puntate al sodo.

- Armatore Maria d’Asburgo comunica at comandante Basile prendere immediati contatti ambasciata d’Italia per faccenda massima importanza. - STOP - Prevediamo vostro rientro otto giorni ritardo. Firmato: Cacace, segretario. - STOP

Per lunghi attimi nessuno parlò e si poté udire il barbugliare che le budella del maestrino facevano sotto la camicia candida. Il barese si compresse lo stomaco in un momento che richiedeva compostezza. L’aveva

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capito dal livore insolito sul viso del capitano: una maschera terrificante.

- Cacace segretario… - sibilò Basile e un crotalo non avrebbe fatto meglio. - Cacace, il pistola, che mi dice attraverso il vento di restare fuori altre centonovantadue ore. È pazzo! Io non vado per villeggiatura!

Forse si aspettava un messaggio diverso, oppure la vaghezza del testo sommata alla freddezza che pervade qualunque cosa teletrasmessa, lo aveva scosso. Il certo fu che l’appetito svanì. Spinse i piatti da un lato.

L’ufficiale gli disse che poteva chiedere a Cacace maggior chiarezza e al capitano sembrò un’ottima idea, poi, quando ricordò che i messaggi trasmessi gli erano addebitati, rinunciò a quell’eventualità. Avrebbe visitato l’ambasciata italiana. La mattina seguente si sarebbe recato di persona a sentire le importanti notizie.

Il cuoco ritornò dabbasso con l’arrosto intatto. Poiché mal capiva l’italiano, lingua ufficiale del Regno, aveva afferrato solo il senso del dialogo svoltosi tra i due uomini, ma percepì il putiferio. Sedette e tirò l’anatra dinanzi a sé. Ne ingoiò una parte. Fissò le pentole appese ai ganci infilati in una trave che reggeva il soffitto annerito dal fumo, e parlò con una di esse:

- Bella panzona mia, che tengo da dì… Troppi pazzi ccà sopra!

La mattina, il capitano Basile si costrinse a una levataccia. Fece un bagno caldo, il primo dopo un mese di mare, s’insaponò il volto e si rase con serenità, senza temere un improvviso colpo di mare che offrisse al

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rasoio il verso per segnargli le guance. Ma la tranquillità era solo esteriore. Nella testa calva il contenuto del telegramma metteva confusione. “L’intento di Cacace… quale potrà essere il suo intento? Cribbio”. Tutta la notte aveva rovistando la memoria in cerca di un’irregolarità commessa, o di una ripatica non pagata alle autorità doganali, o di qualche danno provocato a cose o persone. Nulla. Per quanto si sforzasse, non gli sovveniva nessuna irregolarità. “Allora cosa possono volere? Giusto un affare diplomatico. Serio ufficiale di marina, quale miglior uomo avrebbe trovato l’ambasciatore? Nèh!”

Decise di indossare l’uniforme delle grandi occasioni e appeso al petto le medaglie e le riconoscenze. Perché no? Era previsto. Pensò al modo d’arrivare all’ambasciata, un po’ di pompa serviva; le spese le avrebbe scaricate sul brogliaccio alla voce: rappresentanze. Una carrozza a quattro posti sarebbe andata bene. Avrebbe portato al seguito due allievi dell’Istituto navale: giovani in gamba. Apicio Caneschi, sì, il toscano con la qualifica di capoclasse, preparato e tanto sicuro; e l’altro grande e grosso, dallo sguardo acceso, il siciliano, conte di Catenalunga. Aveva tale forza e tanta robustezza da non sembrare di nobile casato: un energumeno. Lo aveva ben visto salire a riva per dare due mani di terzaroli al controvelaccio in quella bufera atlantica che aveva strappato fiocco. Altro che conte! Un Golia era quello lì. Che cosa gli aveva detto in proposito il nostromo? “Una vera barbaccia, uno che ha sotto i muscoli la ruvida stoffa del marinaio!” Pisacane era soddisfatto del conte e come suo solito, quando voleva mascherare

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una simpatia, aveva nei riguardi del giovane un’insolita cattiveria, esasperante, tanto che i marinai scambiavano quell’astio per odio; distribuito con giubilo. Lui lo aveva rilevato persino in direzione di Liprandi.

Il capitano terminò la rasatura. Si asciugò e, con cura, ripose nel fodero il rasoio: acciaio dolce comprato a Barcellona. Lo inabissò in un cassetto del comò, sotto un paio di mutande da notte. Non che a bordo avesse nemici al punto da temere scannamenti, ma un anarchico vi si sarebbe mimetizzato senza sforzi. Si avvicinò al megafono d’ottone e fischiò nel portavoce che andava a terminare in plancia.

Ripose il marinaio di guardia che ricevette l’ordine.- Dì al nostromo di chiamare un fiaccheraio, lo

voglio alle sette qua sottobordo. Fate preparare gli allievi Apicio Caneschi e il conte di Catenalunga. Indossino l’uniforme di classe e mandate Pisacane a dire al signor Liprandi che richiedo la sua presenza.

In realtà l’ingegnere romano era l’unico che parlasse inglese e non era male avere un interprete nel malaugurato caso che all’ambasciata d’Italia si fosse dovuto ricorrere ad altra lingua, magari per l’assenza imprevista della sua persona, l’uomo, cioè, incaricato di comunicargli l’impegno diplomatico.

Spinse in testa la feluca e si guardò allo specchio. Entrava stretta. Da quanto non la indossava? Ah! Cinque anni: salita al trono di re Vittorio. Cribbio! Come gli si era ingrossata la testa.

Il dubbio che all’ambasciata si sarebbe potuto trovare di fronte una gentile signora lo assillò un istante. Meglio riprovare qualche inchino, - pensò. - Una veronica fatta bene, valorizza ogni uomo.

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Cominciò eleganti piegamenti nell’angusto spazio, salamelecchi al cassettone, baciamano alla fantastica dama ritta sotto l’oblò. La giacca tirava un po’. Calcolò i centimetri d’arco che poteva disegnare la schiena. Solo un palmo innanzi, non oltre.

Il maestrino di cucina bussò.- Colazione. Biscotti appena sfornati e latte fresco.Per la seconda volta da quando erano a Londra il suo

padrone mandò indietro le vivande. Bevve solo caffè. Cecè tornò sgomento alla cucina: che stava succedendo al capitano? Ogni cristiano attendeva l’arrivo in porto per mangiare ordinatamente!

Questa stessa domanda se la poneva, da un’angolatura diversa, il nostromo impalato sul tappeto di stuoia del lucido corridoio ove alloggiava Liprandi. “Se non busso a chisto, vuole dì che tengo paura di lui… E quando mai è succieso?” Il rozzo marinaio, da qualche tempo digiuno di sensazioni, stentava a stabilire se il mistico disagio provato per l’ingegnere fosse muta paura sorta per l’incomprensibile macchinario racchiuso nella cabina. Trovò il vigore necessario per bussare, ma fu anticipato: la porta si spalancò e Liprandi uscì sul corridoio senza il minimo cricchiare di legno.

- Buongiorno nostromo. Mi cercavate?- Sì, sissignore, - balbettò Pisacane.- Volevate forse dirmi che il capitano mi attende allo

scalandrone per le sette? - Sì. Il capitano sta là.- E si prevede una carrozza per noi?- Sine. Sì.

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Con passi sicuri Liprandi salì sul ponte. Il nostromo, invece, rimase addossato alla porta della cabina. Si reggeva la fronte. Le affermazioni che per il telegrafista erano state semplici deduzioni e collegamenti con la vista, attraverso l’oblò, di ciò che accadeva sul molo, accanto alla nave, erano state per il turbato Pisacane chiaroveggenze, e la cosa aveva confermato ancor più la sua idea: Chillu è satanasso.

Il Sole dissipava la foschia lattiginosa sparsa dall’umidità notturna lungo i moli. La luce risaltò più intensa sulla bianca vernice del brigantino, risplendettero gli ottoni e si riflesse la superba fiancata nelle acque quiete del fiume. Fu un solo guizzante disegno, dallo specchio di poppa alla polena di prora: una sirena pettoruta, incastrata tra bompresso e tagliamare, sospesa a specchiarsi sull’acqua e quasi ridicola per quel piccante enorme seno: il primo attrezzo a entrare in mare quando il Maria d’Asburgo incappellava con un beccheggio più marcato. Certo, lì in porto, la polena aveva un che di scandaloso, ma era stata intagliata per l’oceano e i pesci non danno rilievo a certe licenze erotiche.

Le occhiate furtive che il vetturino menava alla sirena erano più di stupore che di contrarietà. Sollevò il cilindro nell’aria e attese, in quella posa, i quattro uomini che scendevano dalla nave. Quindi frustò il giovane baio che scosse la testa prima di avviarsi: non sopportava il morso. Sferrando il selciato con trotto allegro fu guidato per le vie bagnate e lavate.

Grande novità per il capoclasse Apicio Caneschi e per il conte di Catenalunga, entrambi al primo viaggio all’estero e perciò attenti a non perdere nessuna cosa

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bella che la città porgeva loro: le ragazze avevano i visi sottili, pallidi sotto i cappellini di stoffa; perfette, a ogni buon conto, per quei colori grigi che erano dappertutto, nelle pietre, nell’intonaco dei muri.

Il vetturino rallentò l’andatura e tirò le redini. Ubbidiente, la bestia si accostò al marciapiede, trascinò docile il landò per un austero cancello e poi con allegria nel mezzo del viale alberato di roverelle che, obbligate da decise potature a sfogare i rami da un lato, formavano una galleria verde alla cui fine si vedeva, come nella lente di un cannocchiale, la facciata di un antico palazzo, residenza dell’ambasciatore italiano.

Scesero dalla carrozza, per ultimo Basile preoccupato d’evitare bruschi movimenti. Un maggiordomo li accompagnò al salone e li pregò di attendere. Tutti sedettero nei sofà, tranne il capitano che preferì restare accanto a una finestra orientata verso il parco fiorito. Spingendo lo sguardo tra le piante, teneva le mani raccolte dietro la schiena. Ipotizzò a voce alta:

- Si saprà finalmente che cosa vogliono da me, nèh.Non si capì se si fosse rivolto ai presenti o se avesse

proferito come uno che, sovrappensiero, parli a se stesso, dimentico delle persone che gli stanno intorno.

- Se il capitano volesse dirci quali sono le sue impressioni, potremmo ipotizzare i motivi di questa richiesta presenza.

La voce era del conte di Catenalunga, con vibrazioni piene, tali da far supporre sfrontatezza.

- Avete qualche idea conte? - riprese il capitano accennando amaro un sorriso. - Anche voi signor

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Liprandi, e voi signor Apicio, se avete un sospetto, parlate.

- Potrebbe essere un incarico speciale, - azzardò il capoclasse con marcato accento toscano, - forse vogliono farci imbarcare merce pericolosa. La nostra nave trasporta posta, merce da pochi rischi; però è veloce più delle vaporiere.

- Armi! - tuonò il conte, - munizioni per un posto in guerra. La regione baltica, ad esempio. Da quella parte le rivolte vanno come le prugne.

- Conte, vi prego caldamente di tacere, - quasi supplicò il capitano. - Il Maria d’Asburgo non è adatto per tali trasporti. Gesù! Si correrebbe il rischio d’esser presi a cannonate e noi cosa potremmo fare? Io penso più a documenti da consegnare a qualche nostro ministero. Voi signor Liprandi che ne dite?

Il radiotelegrafista tolse dalle labbra il sigaro appena accesso, soffiò con gusto il fumo piccante e fissò il soffitto.

- Che cosa avete imbarcato nella stiva di prora prima della partenza da Genova?

- Nulla. È vuota. Infatti siamo giunti qua con scarsi viveri. Di solito la si riempie di sussistenza.

- Ciò non vi è parso strano? Credete davvero che l’armatore vi abbia lasciato salpare per l’Inghilterra con la stiva vuota? Pensate, capitano, quale velocità avete raggiunto essendo più leggeri.

Basile soppesò le parole dell’ingegnere. Infatti, la cosa gli era parsa strana, ma non vi aveva dato peso. Con i noli, a volte capita che convenga guadagnar tempo più che imbarcare merce.

- Dove volete arrivare signor Liprandi?72

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- Vi hanno fatto partire in fretta. Perché? Potendo affermare di conoscere un poco la psicologia umana, quell’uomo ha l’accuratezza tesa al guadagno e da ciò arguisco che questo invito non può essere usuale. La prolungata sosta a Londra era prevista da qualche tempo e l’arrivo anticipato avrà spiegazione.

- Cosa può interessare tanto l’armatore da rimettere un carico?

- Soldi, - azzardò Apicio.- Soldi? - ripeté il capitano come se non li

conoscesse.- Chiaro! - si udì il conte. - Soldi! Chissà quale

birberia v’è sotto.- Conte, ancora vi prego, - lo riprese il capitano, -

moderazione.Il capoclasse rinforzò l’illazione, ma con tono più

basso, meno battagliero.- L’armatore avrà giocato sporco. Vi crede stupido.- Signor Apicio! Al nostro rientro a bordo andrete a

riva, rimarrete sei ore sul pennone di velaccio. Là troverete un desolino che vi rinfrescherà le idee.

La porta del salotto si spalancò. Entrò un uomo vestito con ricercatezza: taglio italiano, la cravatta fermata con una spilla di valore. Gli ospiti si levarono.

- Buongiorno a voi tutti, - rispose al saluto con il naso chiuso. - Vogliate scusarmi, il clima inglese è letale. Raffreddore perenne. Chi è il capitano Basile?

- Eccomi, son io signore.L’uomo si rivolse al torinese con leggero disagio.- Perdonate, ammetto di non saper riconoscere né

gradi, né uniformi. Sono il segretario dell’ambasciatore. Sua Eccellenza si scusa.

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- Il clima d’Inghilterra! - ironizzò il conte.- Peggio. La subway!I tre uomini di mare si guardarono imbarazzati,

ignorando il significato di quella parola. Il loro vocabolario era ricco di termini navali. Liprandi arricciò le labbra. Il segretario dette spiegazione.

- Si tratta di un treno che cammina sotto terra. Tutta la città è sottosopra, stanno ampliando le gallerie. Il nostro ambasciatore sta cercando di comprare i progetti per il governo.

Il capitano ingranò:- Se permettete, signore, non ne vedo la ragione. Li

immaginate, in Italia, i treni sottoterra?- Progresso, signore. - Il segretario si soffiò il naso

con energia. Capì che l’incarico datogli presentava delle spigolosità. - Sarà meglio dirvi perché vi hanno voluto qui. Capitano Basile, noi, e tengo a precisarlo, non c’entriamo. L’idea è del vostro armatore che ha buoni amici al ministero degli esteri. Perciò, prima di esporre il progetto, declino ogni responsabilità.

Il torinese invitò l’uomo a proseguire. Qualunque desiderio dell’armatore, l’avrebbe onorato.

- Certo, - concordò il segretario. - Però ora non si sta parlando di ordinario lavoro. L’armatore vuole che partecipiate a una gara di lance scappavia, presso la foce del Tamigi, di fronte all’isola di Sherness. Sono iscritte diverse marine alla competizione. Si aspetta la vittoria. Non vuole rinunciare a guadagnarsi un po’ di pubblicità. Questi i motivi ufficiali.

Nel salone si mossero gli umori dei momenti brutti: il vuoto angoscioso che si avverte come un ronzio quando non è il battito del cuore a saltare nei timpani.

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Così come si squarcia un velo, si aprì la mente del capitano. Vide l’inganno, il ridicolo, il mancato rispetto per una nave che i marosi non avevano affondato. Pensò d’essere considerato alla stregua di un fenomeno da baraccone. Magari l’armatore lo avrebbe deriso da un circolo nautico al successivo, da Genova a Camogli. Oh, l’avesse tra le mani! Legato alla polena per il resto dei suoi giorni, lì lo avrebbe inchiodato. Ora si spiegava tutto: la nuova lancia imbarcata senza apparente motivo, i remi più lunghi del normale, la stiva tenuta sgombra, i dieci allievi in numero doppio rispetto agli anni passati.

- La nave va per ragioni commerciali e perciò credo poco adatti i miei uomini per tale divertimento.

- Qui sta il punto, signor capitano, - incalzò il segretario. - Non è uno spasso. È un’avventura faticosa alla quale, secondo il vostro contratto, potreste sottrarvi.

- Potete starne certo! - sbottò Basile gonfiando le vene del collo. - Quei gagliardi di Genova hanno mal capito chi comanda il brigantino. Cribbio! E con ciò penso di chiudere l’incontro.

- Non siate precipitoso capitano. Mi permetto di osservare che l’armatore ricorda i vostri trascorsi militari ed è questa la causa che l’ha spinto a sceglier voi per la gara. Avete carisma.

- Non mi adulate signor segretario. Ho già detto che non avrete la mia disponibilità. Ci scusate, io e gli ufficiali dobbiamo rientrare.

Ai presenti non passò inosservata la placidità del segretario, la calma di chi ha in mano la situazione: inutile per il capitano appiccare il fuoco alle polveri

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innescando la collera. In breve l’avrebbe soggiogato con una micidiale soffiata.

- Signor Basile, avete pochi giorni per l’allenamento degli uomini. Tra una settimana ci sarà la regata e siamo informati della visita del duca. Egli verrà per assistere, e così l’armatore, le autorità.

- Il duca?! - si meravigliò il torinese per quella che sembrò una confidenza, - il duca sarà a Londra?

- Tra uno o due giorni. È interessato alla regata.Il segretario aveva sparato sui punti di resistenza.Basile non se l’aspettava. Non doveva perdere

quell’occasione. Avrebbe avvicinato il delfino con un motivo valido. Sulle riviste geografiche si vociferava di una prossima spedizione al Polo con una straordinaria macchina volante che galleggiava nell’aria. Avrebbe potuto farsi avanti, sollecitare il duca per un ingaggio.

- L’aspetto cambia. Perché non mi avete informato subito? Il tempo a disposizione è poco. Come si fa ad allenare i rematori. Certo il duca poteva farsi vivo prima.

- Non basteranno gli allenamenti, capitano. In questa regata, oltre ai muscoli, servirà astuzia.

- Siate più chiaro. Una regata o si fa con i remi o non si fa!

- C’e lo studio degli avversari, ad esempio; è necessario tenerli d’occhio, scoprire la loro forza.

- Spionaggio, - suggerì il capitano.- Dite ciò che volete, - continuò il segretario

composto, - i vostri rematori riceveranno informazioni da sfruttare per il buon fine della competizione.

- Ha ragione, nèh. Noi non conosciamo la foce.

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- Perciò voi metterete i muscoli ed io l’astuzia. Un dipendente dell’ambasciata è già al lavoro per trovare le informazioni che vi saranno utili. Verrà a bordo. Il suo nome è Caio Brutòs.

- Caio Brutòs? - fece il capitano allibito.- È il nome che usa sul lavoro.- Uno spione?- No, capitano! È greco. Un osservatore che vi

tornerà comodo. Ora vi devo lasciare. Capirete i miei molteplici impegni.

Salutò i presenti e uscì dal salotto sfiorando il tappeto.

Basile chiamò in mente le parole adatte a far comprendere ai tre uomini come egli fosse stato travolto dalle circostanze. Alla fine le previsioni del signor Liprandi si erano mostrate giuste e ora più che mai aveva bisogno d’avere alleati gli allievi o la regata non si sarebbe fatta. Nel profondo della candida anima sperava ancora in una chiamata del duca. Egli, però, non poteva costringere i dieci allievi a impugnare i remi. Neppure trovava la forza necessaria a confessare loro l’antico desiderio di andare tra i ghiacci polari.

- Signor Apicio, considerate la precedente richiesta decaduta. Starete meglio dabbasso che sul pennone. Signor Liprandi, devo riconoscervi fiuto. A voi, conte, l’opportunità di comandare la lancia scappavia.

Il giovane stava per replicare in maniera diversa da quella sperata, ma lo fermò un cenno di Basile.

- Non è necessario che mi rispondiate ora. Prendete tempo; una vostra decisione andrà bene anche domani.

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Ciò dettò calcò la feluca e si avviò per primo verso l’uscita. Il signor Liprandi scambiò un’occhiata con i due giovani e non poté trattenere un sorriso.

Il cocchiere li caricò e ripartì in direzione dei Victoria docks, fiancheggiando il fiume che scorreva placido.

Gli alberi del brigantino, visibili da lontano, indicavano la posizione del Maria d’Asburgo. Vi erano degli allievi sui pennoni, intenti a sostituire legacci e controllare le trozze. Sul ponte, in basso, i marinai redazzavano i ponti e si preparavano a dispiegare un fiocco da riparare.

Cecè, il maestrino, dopo aver messo a bollire il brodo, era salito in coperta con una lenza, deciso a calare l’amo nelle acque limacciose.

Il nostromo, curioso, gli era andato vicino e aveva acceso la pipa caricata con trinciato. Seguì silenzioso il cuoco nei preparativi di piombatura e poi dové parlare ritenendo mal fatta la cosa:

- A che vuoi pescà?- A fondo!- Te cridi te…Qualche minuto di silenzio. Sputò lontano.

Aggiunse:- Cambia!... Vai meglio a galla.- Scià scià! Meglio a fondo.- Fùttite, - Pisacane terminò qui.L’acqua correva trascinando rami, sterpi del passato

inverno, tronchi secchi. Uscendo dalla poppa si avvolgeva in mulinelli di breve durata.

Il nostromo aspirò il fumo scaldando il fornello.- Cefali?

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- Qualunque fetenzia… fossero pure bavose.Poco lontano, risalendo la corrente del fiume, sfilò

un’imbarcazione di punta: otto canottieri e timoniere.Il montacasca energico li piegava sul bacino. Gli

ordini del timoniere arrivarono alla nave, si persero tra le vele stese a sciorinare, assetate d’aria. Pisacane seguì l’armo di voga con lo sguardo fino a che sparì oltre il profilo di un ponte. Poi tornò a tormentare il maestrino:

- N’abboccano, te lo dico io.- Ci sentono.- Macché! Non se piglia niente. Te lo vuoi mettere in

testa che teniamo la scalogna addosso.- Tu che dici!- È tutta colpa di quel diavolo imbarcato con noi. Il

romano. Quello porta male, stammi a sentì. Hai visto che faccia bianca tiè… pare più morto che vivo. Stamattina, quando so’ andato a chiarmarlo pecché il capitano, già sapeva tutto, mi aspettava. E co’ che occhi m’ha guardato!

- Hai proprio ragione, Pisacà... Il capitano non mangia da due giorni. Mai successo da quando sta a bordo.

- Che ti diceve, io? Co’ quello bisogna stà attenti.La campana di bordo suonò il secondo quarto. I

rumori del porto si mossero ovattati attraverso i canneti ai lati del fiume. Sembrava il mondo intorno essersi fermato rinchiudendo uomini e barche. Gli stessi marinai si muovevano con passi sonnacchiosi, irretiti da quell’atmosfera di placida rilassatezza.

Il Sole estivo, tiepido a quella latitudine, riuscì appena a forare le nubi con lame sottili di luce, e i riflessi che batterono la nave parvero lunari. I gabbiani

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volteggiano intorno, storditi dall’acre fumo che usciva dall’alta ciminiera di una chiatta a vapore che scendeva il Tamigi carica di sabbia nera.

La carrozza con il capitano e gli ufficiali ritornò al porto. Dal cassero di poppa la videro il maestrino e Pisacane. Il signor Basile scese per primo e salì lo scalandrone seguito da Liprandi e dai due allievi.

Il cuoco recuperò la lenza. Pisacane spense la pipa. Lo spasso era finito. Si separarono, ognuno per i fatti propri: il primo alle cucine, il secondo, gridando, all’imbono dei marinai.

- Nostromo, - urlò il capitano non appena sul ponte.Pisacane, nel sentirsi chiamare con tal veemenza,

pensò essere iniziato il giudizio e si precipitò da quella parte, pronto a rendere l’anima avuta in prestito alla nascita. Quando sentì che doveva mettere in acqua la nuova lancia, agitò i marinai in tal maniera che dopo solo due minuti il fiume battezzava il legno.

Il capitano scese alla cucina. Il maestrino intuì che quanto gli era detto con voce asciutta era più che una disposizione, e asserì con energici colpi di testa.

- Ci siamo intesi bene, il mio maestrino! Voglio per i dieci allievi una parte e mezzo in più. E che sia solo per loro, nèh! Li voglio ben nutriti, forti. Sospendetegli il bromuro, devono essere dei tori. Distribuite anche del vino, di quello buono, mezzo litro il giorno, abbondi la mano.

Cecè tentennò.- Capità, però si ha da ffà mercato.- Compri a terra ciò che manca.- E li soldi?- Faccia la lista del cibo e venga da me.

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- Ma quanno facimmo la scorta generale?- Dopo, dopo, - e si allontanò per eclissarsi in cabina.

*Sul brigantino si udirono i rintocchi del terzo quarto

di guardia quando la giornata di lavoro portuale giunse al termine. L’ammaina bandiera fu al tramonto. Si accesero nei locali i fumosi lumi a petrolio che richiamarono nuvole di zanzare. L’equipaggio, libero dai compiti, impiegò il tempo come meglio poté: qualcuno si recò a terra, altri preferirono radunarsi in quadrato per una partita a briscola o a fumare, pochi si dedicarono al rammendo della biancheria o al lavaggio.

Potevano essere le nove, quando una donna vestita di nero, capellino e volto coperto da una spessa veletta, si presentò allo scalandrone. Fu fermata dal marinaio di guardia che accettò diffidente un biglietto su cui era scritto: per il capitano. Il piantone cercò inutilmente d’indovinare il volto della sconosciuta. Il velo non lasciava trasparire nulla. Pregò la visitatrice di attendere, mise il biglietto in una piega del capello floscio, e si allontanò per consegnare il cartoncino al destinatario.

Basile, interrompendo la cena, strappò la busta e lesse due parole: Caio Brutòs. Il sangue gli andò in aceto per quella messinscena e si adirò con il piantone che nulla aveva notato.

- Una donna, hai detto?- Sissignore.- Vai bestia! Fallo salire e accompagnalo da me.Mentre il marinaio usciva, pensò che dei suoi

guardiani potesse fidarsi poco se, da vicino, non riconoscevano un travestito. Il piantone accennò

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all’ospite di seguirlo e fece strada, tra cime e portelli, fino alla cabina del capitano. Bussò e spalancò la porta.

Basile si alzò dal tavolo, aprì le braccia, stizzito:- È necessario tutto ciò, signor Caio Brutòs o come

diamine vi chiamate?- Kalìspera, capitano.L’ospite sollevò la veletta mettendo allo scoperto un

volto asciutto, con un naso camuso sotto di cui alloggiava un paio di baffi neri, a balestra. Sfilò i guanti con difficoltà.

- Perdonate lo stile, - l’uomo porse la mano. - Adesso niente va lasciato al caso e questo travestimento è necessario. Gli inglesi già sanno che voi prenderete parte alla regata e tengono d’occhio il brigantino. Siete spiati giorno e notte. Vogliono conoscere le vostre forze, ed è per questo che non devono sapere del mio appoggio.

- Non pensavo a tanta complicazione, - disse Basile calmando il livore. - Il segretario mi aveva parlato di altri problemi. - Tossì nervosamente, si riprese. - Vi prego, accomodatevi.

Il confidente sedette sul divano di panno verde e poggiò di lato la borsa. Si tolse il cappellino e liberò la capigliatura gonfia e riccia.

- Gradite un bicchiere di vino? - offrì Basile.- Del cordiale, se lo avete. Vi hanno rifilato una bella

gatta da pelare, capitano, - iniziò l’agente aprendo la borsa per infilarvi una mano. - Questa mattina mi sono intrufolato alla sezione sportiva inglese e ho assistito ai controlli giornalieri che fanno ai loro rematori. Ho visto uno di quei giganti spaccare l’ergometro. Hanno muscoli d’acciaio! Da eunuchi di serraglio.

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- Posso immaginarlo. E sono preoccupato. - Riempì due bicchierini e ne porse uno a Brutòs. - Alzerà il tono del mio umore e parleremo meglio del fine ultimo.

- Grazie capitano. In quanto al vostro armatore, davvero ha ordito una cattiveria.

L’uomo di mare sedette di fronte all’altro. Guardò interessato la carta nautica che l’agente distendeva sul tavolo lisciandola con rapidità.

- Dovrei incontrare il capo dei vostri rematori, quello che avrà il comando della lancia.

- Non c’e ancora. I dieci allievi hanno un capoclasse, ma qui, sul Maria d’Asburgo, ubbidiscono al nostromo. Ho chiesto questa mattina al conte di Catenalunga, l’allievo ufficiale più robusto, di assumere il comando della lancia, ma non ha dato disponibilità.

- Obbligatelo.- Non servirebbe. Non è entusiasta della regata.

Posso dirvi, alla luce dei fatti, che ho solo il timoniere, il nostromo, l’unico su cui conto.

Il greco capì la penosa situazione in cui si dibatteva il capitano dal rabbuiarsi del volto, che poi schiariva per un attimo quando l’uomo mandava in corpo un sorso di cordiale.

I pensieri, però, passavano come nuvole su quella fronte corrucciata, impensierita dall’arrivo del duca e dalla propria impotenza. Il capitano trovava ingiusto obbligare i marinai a sforzi non previsti dal contratto. Tornò a riempire i bicchieri.

Caio Brutòs, nel frattempo, aveva cavato dalla borsa una mazzetta di banconote e le aveva sistemate sul tavolo, accanto alla carta nautica zeppa, sul bordo, di note scritte a matita.

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Basile guardò quell’uomo con sorpresa: usava ogni mezzo per corrompere.

- Non credo che questi vostri ingegnosi mezzi aiuteranno la causa. Non sortirete nulla dal conte di Catenalunga.

- Possiamo sempre tentare. Si può avere più luce?Il capitano si alzò per dare stoppino ai lumi a

petrolio fissati, con sospensioni d’ottone, al legno delle paratie e rese la cabina più luminosa.

- Grazie, così va bene. In quanto al conte, - e qui si fermò per affondare di nuovo la mano nella borsa, - è uno che ha piacere di spendere.

Portò fuori delle schede numerate e le sfogliò.- Ecco il curriculum del conte. Vita, morte e

miracoli. È tutto scritto e so il suo punto debole. Gli piace apparire. Emfanìzontai! Come il ministro Venizelos, apparso nell’ultima rivolta cretese. Tenetelo d’occhio.

- In nome del cielo! - s’incollerì il capitano tornando a sedere, - che cosa avete in mente signor Brutòs? Vi portate dietro un archivio! E dite, sono schedato anch’io?

- Di voi, capitano, ho solo il foglio matricolare. Avete alle spalle un’ottima carriera. Al conte offrirò denaro.

- Vi prego di mettere via quella roba. Qui non si fanno ricatti! Passi pure l’offerta di denaro ma non voglio sapere fatti privati! Cribbio, l’onore di un uomo è un fatto personale e non può esserci scheda che valga a decantarlo.

- Come desiderate, capitano. Voglio precisare che noi due combattiamo la stessa guerra e ognuno può

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scegliere le armi che crede adatte, purché sia interessato alla vittoria, - si arrese l’agente riponendo le schede. - Lo facevo per aiutarvi. Proviamo con l’onesto compenso di cento lire per i dieci rematori.

- Cento lire? - gridò Basile afferrandosi al tavolo. - E dite, di grazia, quale buon cuore offre questa bella somma?

- L’armatore, di tasca sua.L’ospite dovette giurare che quella era la verità. Il

capitano non immaginava l’armatore come uomo dedito alla beneficenza: si diceva che avrebbe imbarilato vento, se avesse potuto, per mandare le navi con la bonaccia.

- È la prima volta che sgancia spontaneamente.L’informatore sorrise. Considerò che Basile avrebbe

portato la nave, indenne, fuori da un ciclone, ma non sarebbe uscito salvo da un cicaleccio di maldicenze. Giusto! Il suo ambiente era l’oceano, un posto dove non esistono cattiverie.

- Suvvia, capitano! Presentatemi il conte e cerchiamo di organizzare la regata. I concorrenti sono forti, non vedo grandi speranze, ma dovete battervi.

- Direi che voi tenete più di me alla vittoria. A che titolo, signor Caio Brutòs?

L’agente se fece serio. Spinse in avanti il busto, congiunse le mani con lieve pressione. Chinò la testa e sospirò.

- Volete capire che sono pagato per farvi vincere? Più di quanto voi non crediate. - Guardò negli occhi Basile, con durezza. - E devo essere io il primo a crederci.

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- Una lancia scappavia, caro signore, è una barca spacca ossa. Comprendo l’armatore interessato per motivi pubblicitari alla gara. A voi avranno promesso la Luna.

L’agente avvicinò il volto a quello del capitano. Bisbigliò: - Il Maria d’Asburgo. Ci hanno scommesso molte persone, a favore e contro. Se vincerete la gara, questa nave sarà mia.

Basile s’irrigidì. Le pareti, il soffitto, il pavimento della cabina mandavano riflessi di vetro, bagliori di una provetta contenente veleno. Sentì il cuore balzargli nel petto. Strinse il bicchierino tra le mani e diede una fragorosa risata mentre saltava dalla sedia.

- Voi mi gabbate, state scherzando.Il greco immerse nuovamente le mani nella borsa e

ne cavò un documento firmato dall’armatore. Invitò Basile a leggerlo; la nave poteva cambiare padrone, a condizione che la gara fosse vinta dagli italiani.

- Questo è un vecchio scafo. Che ne farete?- Ho già un nuovo acquirente. In Libia.Basile accusò il colpo. In tutti gli anni trascorsi sul

brigantino non aveva mai considerato un’eventualità tanto buffa. Non trovava parole per commentare ciò che stava accadendo e si sentiva impacciato. Cominciò a percorrere la cabina con un andirivieni da lupo affamato e bofonchiava parole incomprensibili.

L’agente cercò di consolarlo.- Capitano, per voi ci sarà un nuovo guscio: una

vaporiera appena varata. In fondo, qui si tratta di una scommessa tra ricconi e l’armatore ha fiducia in voi.

Basile si sentì prosciugato di pazienza. Il suo orgoglio era stato ferito. L’unica cosa che ancora lo

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spingeva a prendere parte alla gara, era il pensiero del duca. Nel profondo dell’anima gli si muoveva la turbolenta ammirazione per l’esploratore e ora che sarebbe venuto a Londra, avrebbe avuto occasione di parlargli.

- Signor Brutòs, mi sto accorgendo d’essere trattato come un cavallo d’ippodromo. Avrei potuto essere un esploratore del Polo. Lo sapevate?

- Cero. Ma sareste partito con l’uomo sbagliato.Basile si bloccò. Gli occhi si riducevano a due sottili

fessure; le labbra ebbero un tremito.- Tenete troppo a quell’uomo. - La voce dell’agente

suonò spietata. - Voglio confessarvi che l’idea della scommessa non è tutta dell’armatore. Anche il duca ha deciso di puntarvi, beninteso a sfavore. Egli crede che non possiate vincere. Vi giudica molle.

- Voi bestemmiate in turco!- A quest’ora avreste già dovuto ricevere un

telegramma da Genova con accenni a un vostro futuro comando su una vaporiera in allestimento e inoltre l’elenco delle persone che tifano per voi. Il duca non sarà tra queste. Informatevi dal telegrafista.

- Non vi muovete, - ordinò il torinese colmo di eccitazione, - voglio andare in sala di radio. Liprandi è lì. Vedremo!

Aveva già aperto la porta e stava per uscire, quando l’informatore gli ricordò di condurgli gli allievi.

Basile si diresse al ponte di copertino. Avrebbe agito: il duca aveva tradito la sua fiducia, e lui lo avrebbe tradito a sua volta. Fu dinanzi alla cabina di Liprandi.

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L’ingegnere, disteso sulla cuccetta, non si era ancora addormentato e, nell’attesa del sonno, rileggeva Manzoni, quelle grida che l’autore aveva messo nella penna del suo anonimo, ove parlava di bravacci.

- … chi porterà i capelli di tal lunghezza che coprano il fronte fino alle ciglia… o avanti o dopo le orecchie… tre anni di galera…. E parimenti comanda a’ barbieri…

Udì i tocchi e pregò di attendere. Voleva comporsi prima di aprire: non immaginava la fretta dell’altro.

- Signor Liprandi, vi prego, nèh! Quanto vi ci vuole! State attaccato alla corrente?

Stringendo la cinta dei pantaloni, il romano spalancò la porta.

- Scusate, mi ero messo a letto.- Beato voi. Chi dormirà stanotte. Chiudete la porta,

che nessuno ci senta. Sono giunti messaggi?- Nulla.- Potreste verificare?- Provo a chiamare il trasmettitore. Magari a un

messaggio poco importante non danno priorità.- Dopo la notizia dell’assassinio di re Umberto,

questa che attraverserà l’etere per me sarà la più sconvolgente.

- Il trasmettitore di Genova non valuta le priorità per i contenuti, bensì per quanto si paga.

Ricordando le abitudini al risparmio che aveva l’armatore, il capitano pregò il radiotelegrafista di chiamare Genova e a malincuore accettò l’addebito.

Liprandi sedette alla radio, indossò la cuffia, ruotò due o tre manopole. Si udirono dei fruscii, qualche sibilo stridulo, fastidioso. Misurò dei valori elettrici su di una scala numerata e batté il tasto con il nervosismo

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dell’alfabeto morse. Dopo alcuni minuti si udirono i ti tiii ta ti. Qualcuno rispondeva.

Quanto sperò Basile che quelli del trasmettitore non trovassero nulla tra i messaggi da spedire al Maria d’Asburgo. Ciò avrebbe significato che l’informatore mentiva e che a Torino lui era stimato; ci sarebbe tornato per una vacanza. Da anni mancava da piazza San Carlo, con i suoi porticati, i bar luminosi e affollati dove, nelle sere nebbiose, incontrava gli amici della giovinezza, appassionati dalle spedizioni italiane.

Il ticchettio cessò. Liprandi trascrisse. Il capitano, da sopra la spalla, allungò il collo e chiese all’ufficiale di affrettarsi a tradurre.

- Da trasmettitore Genova 249/RT.- Lasciate stare i convenevoli signor Liprandi, andate

al sodo perché sono ansioso.- Armatore autorizza massima disponibilità richiesta

ambasciata italiana e prega capitano Basile attenersi istruzioni Caio Brutòs.

- Pezzo di zambracca! - si lasciò scappare il capitano udendo un tal prologo. - Mi ha venduto come un barile di moscato!

- Gara importante per spirito marinaro nostra compagnia. Vittoria trarrà ottimi noli per noi e nuovo comando per voi. Usate testa, non solo muscoli. Attenzione capitano Basile: duca habet scommesso grossa somma vostro ultimo piazzamento. Da parte armatore già donate cento lire ai rematori. Saluti et fraterni abbracci da segretario Cacace.

Il telegrafista sollevò lo sguardo dal foglio, fissò il viso dell’uomo che gli stava addosso e ne vide tra le rughe la burrasca sopraggiunta con la lettura.

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- Signor Liprandi, ho bisogno di voi. Dovete giurarmi però, che non farete parola di quanto sto per chiedervi.

L’ufficiale accennò con un breve inchino. Si rendeva conto della scabrosa posizione del capitano, ma conoscendone i sentimenti giudicò di potergli aiuto.

- Mandate questo all’armatore: in caso di vittoria il premio sarà raddoppiato.

- L’armatore potrebbe irrigidirsi, - celiò Liprandi.- Mi piacerebbe vederlo in una bara. Conosco il mio

equipaggio come l’oste sa del suo vino. Quei diavoli vorranno una ricompensa solo per fare tifo. Ho bisogno di soldi. E poi questa è un’occasione per scucire un po’ di lire all’arpagone.

- Trasmetterò il messaggio. L’informatore è a bordo?- Certo. Che cosa cambia?- Immagino sia vostro desiderio tenerlo all’oscuro.- Me lo chiedete?- Capitano, per evitare che il testo sia intercettato da

altri ricevitori, data l’importanza che gli attribuite, sarà il caso di trasmettere nel codice di cui siamo a conoscenza solo io e il collega di Genova.

- Siete fantastico! - esultò Basile, - accetto l’idea.- Vi costerà sei volte l’intera tariffa.- Ma voi, signor Liprandi, - si lamentò il capitano

lisciandosi il cranio lucido di sudore, - siete forse socio di quel Guglielmo Marconi da cui dipendete?

- Non ho l’onore.- Siete però un suo ottimo dipendente. Cribbio!L’ingegnere, dopo avere aperto un quadernetto

tenuto in un cassetto, riprese a battere sul tasto.

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Basile lasciò la cabina. Si recò in coperta. L’aria fresca della sera gli suggerì di non esporsi troppo e di tenere nascoste le sue decisioni all’equipaggio, finché poteva.

Incontrò Pisacane, sotto l’albero di mezzana.L’uomo, appollaiato sopra una montagna di cime

addugliate, fumava la pipa fissando il triangolo disegnato dalla costellazione del Cigno: era una notte chiara, di quelle che lasciano senza fiato.

- Nostromo.Riconoscendo la voce, il ciociaro scattò in piedi,

poggiò la pipa sul parapetto ma questa cadde nel fiume, accesa com’era: si sentì il tabacco sfriggere non appena toccò l’acqua e la radica affondò.

- Comandate, signore capitano.- Alli vostri comandi. Mannaggia ‘a pippa.- Trovate il conte di Catenalunga e quell’altro, il

capoclasse, Apicio Caneschi. Conduceteli nella mia cabina, e niente scalpore.

Il nostromo si contorse nei locali sottostanti fino a che non li scovò nel quadrato, a fumare e a masticare tabacco in modo sconveniente per due allievi ufficiali. Li tirò via bruscamente, scosso per la perdita della radica bruciacchiata ma confortevole.

Allorché il conte passò l’uscio della cabina di Basile, un profumo femminile passò nel corridoio come una zampata di tigre. Pisacane si voltò congestionato, ma già la porta si era richiusa alle spalle degli allievi non permettendo indiscrezioni.

- Prefumo di cocotta, - pensò salendo in coperta, - oh san Binidettu! Lo capitano è asciuto pazzo se appresenta a due innocenti lu peccatu.

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Dentro di sé attribuì la colpa dell’immoralità alla dannosa presenza di Liprandi. Desiderò tanto avviare una fumata consolatrice, ma con sgomento realizzò d’avere perduto per sempre la pipa. Imprecò e dette un pugno a un parabordo, ma solo per riceverne dolore.

Il capitano, dopo le presentazioni, chiese al conte di troncare la risata per il travestimento dell’agente. Il capoclasse, invece, guardava incredulo Caio Brutòs, infilato in un vestito di donna.

- Vi prego, signori! - Basile s’impose. - Non c’è nulla per cui ridere. Tutt’altro. Sentiamo le novità dall’ospite.

L’agente spiegò il suo piano, espose le speranze dell’armatore, accennò alla loro ricompensa, tacendo la sua. Svolse la carta nautica con la marcatura delle correnti e degli ostacoli.

Il conte Catenalunga lo interruppe. Non avrebbe partecipato alla regata e non si scompose neppure quando il travestito gli mostrò il premio di cento lire offerto dall’armatore. Aggiunse che se doveva battersi per qualcosa, preferiva uno scopo più nobile.

Il greco concluse che il giovanotto parlava sul serio. Un idealista, un siciliano che avrebbe voluto cambiare la consuetudine scordando, però, che in date situazioni - come rimarcò il Gattopardo - i cambi avvengono solo perché nulla cambi: gli armatori, insomma, restano tali, pur nell’alternanza delle rotte e dei noli.

- Se doveste cambiare idea, chiamatemi, - disse l’agente richiudendo la borsa.

Basile preferì prendere tempo. Congedò Caio Brutòs che, prima di completare il travestimento con il cappellino e la veletta, lasciò sul tavolo un rotolo di

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carte nautiche con la proiezione della foce e dello spazio riservato alla regata.

- Vi accompagno al barcarizzo, - si offrì il capitano aprendo la porta. - Voi conte, e voi signor Apicio, aspettate e considerate l’opportunità di guadagnare un soprassoldo.

L’orologio della Torre suonava ventidue colpi. Il greco si allontanò nell’oscurità del porto, sospettando che la regata non si sarebbe fatta e che la nave non sarebbe passata a lui. La programmata vendita sarebbe saltata. Il compratore libico si sarebbe risentito: una mezza promessa fatta a un musulmano era comunque una promessa, una specie di battesimo che anticipava una cresima, in vista di legami maggiori.

Il capitano tornò alla cabina e si pose dinanzi ai due allievi. Pensò che il migliore argomento da addurre fosse la verità e iniziò con la lingua inceppata, arrossendo quando arrivò a confessare una segreta passione, la materializzazione dei suoi sogni: una spedizione al Polo con il duca. Rese palese la mal ripagata devozione e, con umiltà, chiese ai due un filo di comprensione per quella debolezza. Con che faccia sarebbe tornato a Torino? Gli amici lo avrebbero deriso.

- Vi prego di pensare alla mia necessità. Dipende da voi la rivincita sul delfino, oppure il colpo finale a chiusura della beffa voluta da lui. Avrete rimorso per gli sberleffi che mi tireranno in piazza San Carlo.

Tacque e li congedò con un muto saluto. Quando gli allievi furono usciti, serrò la porta, abbassò i lumi preparandosi a trascorrere una notte insonne, tormentato dalle amarezze che provengono dalle

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delusioni inaspettate. Aveva un nodo in gola e gli occhi che gli bruciavano.

*Il giorno nasceva pigro sul braccio di fiume. Un

chiarore ovattato arrivava sul brigantino dalla parte del ponte Waterloo e annunciava che il Sole avrebbe rincorso una parabola limpida e calda. Si cominciarono a distinguere le attrezzature portuali, le gru altissime, pronte a beccare come grandi uccelli il carico stivato nel ventre delle navi, i silos del grano, le sagome delle cannoniere ormeggiate sul Tamigi, gli alberi e i pennoni del brigantino con le vele imbrogliate.

Il conte di Catenalunga aveva discusso con Apicio. Erano d’accordo sul dare aiuto al capitano, ma lui insisteva per rifiutare il premio. Di parere diverso il capoclasse, che vedeva quel denaro come una manna: la paga era bassa e qualche lira in più gli avrebbe fatto comodo, gliene sarebbe venuta un’oncia di sicurezza personale.

Apicio prevedeva che alla fine della crociera estiva si sarebbe trovato a tu per tu con la scelta decisiva per la vita futura: la Toscana avrebbe significato polverosi uffici navali, magari a Livorno, perciò un destino più solido ma, al tempo stesso, lui perdeva l’avventura, pur provando attrazione per terre e genti sconosciute.

Il conte nutriva alte idee. Aveva deciso per l’Istituto navale solo perché il padre lo aveva cacciato da casa. “Sei la rovina del casato. Una vergogna sei qua a Palermo con le tue strampalate fissazioni d’eguaglianza”. Egli sarebbe tornato a casa per buttare via le reliquie e rigirare le terre di Catenalunga, altro che tenervi sopra gli schiavi a zappare dall’alba al

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tramonto! Laggiù, serviva una ventata di progresso, come quella del telegrafo: non voleva udire bestemmiare il Padreterno per motivi di fame.

Dopo una robusta colazione a base di uova fresche, pancetta affumicata, latte di capra e biscotti al burro, lasciarono il quadrato e salirono in coperta.

- Allora, conte? - se ne uscì Apicio - non ti andrebbe uno stravizio, stasera? Ho scoperto un bar dove si mesce una birra nera e amara. Mi accompagnerai?

- Verrò ad assaggiare questa novità e spero di ubriacarmi.

Pisacane li richiamò e li spedì ancora dal capitano.Nell’attesa dei due, Basile incrociava le dita.

Estrasse dallo scaffale una bibbia e la aprì sul tavolo. Accanto vi pose la bottiglia di cordiale sigillata e si accomodò.

Entrando, i giovani trovarono un gesto che li invitava a sedere. Il conte, notando le pagine della Genesi, scambiò un’occhiata con il capoclasse. Basile pescò le parole per avviare il discorso, ma era come se avesse la colla sulla lingua.

- La creazione durò sei giorni. Sarete capaci di allenare un armo di lancia scappavia nella stessa durata?

Fu il conte di Catenalunga a dissolvere l’incaglio.- Signor capitano, all’Istituto eravamo temuti. Non

garantiamo il risultato, ma proveremo.- Conte, nèh! - esclamò Basile - mi fate rinascere.Stappò la bottiglia, versò il liquore fino all’orlo,

porse i bicchieri con mano ferma.- Alla nostra vittoria! - lanciò l’augurio e bevve d’un

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Baciò la bibbia. Informò gli allievi dell’idea di affidare il timone al nostromo. Srotolò la carta nautica lasciatagli da Brutòs e dedicarono la mattinata a studiarla.

- Signori, - disse alla fine, - spaccatevi le ossa. Sarete pur sempre sopra una lancia italiana.

Gli allievi uscirono conoscendo le difficoltà della regata: il vento, la testardaggine della lancia, la forza degli avversari, l’incognita della corrente.

Pisacane, con altri otto allievi, li attendeva all’argano per calare la barca in acqua. La palude d’istinti che delimitava la sua anima gli impediva di comprendere le ragioni di quella storia. Ignorando i motivi che ne avevano creati i presupposti, continuava a imputare alla presenza dell’ufficiale telegrafista gli strani eventi che agitavano la vita del Maria d’Asburgo.

Un mozzo calò la lancia. Lui scese per primo, prese posto e impugnò il timone. Era pronto. Chi, invece, doveva gridare il tempo di voga ai rematori, era il conte di Catenalunga, seduto con Apicio all’ultima panca, per imporre il ritmo della voga.

- Allora? Ci siamo capiti? - esortò il nostromo, - dovremo volare. - E partirono per l’allenamento risalendo il fiume, in direzione del ponte della Torre.

Sul brigantino, l’equipaggio condiva col sale aspri pensieri. La notizia del premio stabilito dell’armatore per i soli rematori montava malumore.

Quali siano i motivi che sottendono un ammutinamento, e che vanno insinuandosi come leve invisibili tra le giunture gerarchiche, che tengono l’ordine e la disciplina in una piramide di uomini insaccati in una nave, non è facile scoprire. Strane

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ragioni provocano attriti che esasperano gli animi sino a creare quell’incontrollato disordine riconosciuto dai codici con il nome di ammutinamento.

A bordo, dove lo spazio è ridotto e la dimensione di ogni uomo subisce interferenze per il gran bugliolo di caratteri e d’idee, infinite sono le forze che tendono alla spaccatura dell’equilibrio. Questo precipita in modo inesorabile quando i marinai sentono imposizioni ingiustificate, o lo sfruttamento, oppure quando si accorgono dei compagni trattati con misure diverse. Fu proprio quest’ultima complicazione a mettere in moto il rancore. La ciurma osservò, giustamente, che avrebbe dato appoggio alla lancia scappavia come “gente” della nave madre, dunque coinvolti nella gara: gli spettava, perciò, un riconoscimento.

Basile ascoltò le ragioni e poiché non riuscì a smuoverli dalla decisione di incrociare le braccia, si recò in sala radio e dettò all’ingegner Liprandi un messaggio urgente da trasmettere all’armatore.

Il baldacchino creò segnali che sarebbero arrivati fino a Genova, avvisando dell’ammutinamento e sollecitando un intervento per la soluzione: un congruo compenso.

Nell’attesa della risposta, Basile chiese umilmente un parere a Liprandi.

- Secondo voi, il tirchio che deciderà?- Gli costerà, ma accetterà. Questa gara è importante

per lui. V’entra, in qualche modo, il prestigio personale. Ma non è da sottovalutare la posta molto alta.

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- Il prestigio... - il capitano guardò in alto; sembrò che contasse le tavole poco assestate della tolda superiore. - il mio è stato tarlato da una mazzetta di banconote.

Nel piccolo locale si udiva il miagolio del fasciame di fiancata, emesso ogni volta che i cavi d’ormeggio si tendevano per effetto della corrente. Il brigantino si lasciava trascinare un po’ dal fiume e, poi, quando i canapi erano tesi, riandava innanzi e recuperava la misura ceduta alla corrente.

L’alterno susseguirsi dei legnosi cigolii ebbe un effetto ipnotico sulla mente del capitano: la svuotò dalle ansie. Si rivide nella piazza San Carlo, sotto i porticati percorsi dai pettegolezzi, da dame civettuole, da snelle ragazze che, in lezioso contegno, passeggiavano per mostrare l’abito uscito dalle mani dorate di una sartina, salutate in una coreografia di cappelli di paglia sollevati con gesti ampi, e lui seduto a un tavolo del nuovo Caffè Torino, mentre si concedeva un bicerin colmo di cioccolato caldo nell'attesa dell’apertura del Balbo.

Il tramestio che il signor Liprandi tracciò dalla radio lo scrollò.

- Genova risponde, capitano.Il telegrafista aggiustò la cuffia, ricevette e iniziò la

trascrizione in lingua.- Appresa grave situazione a bordo concediamo

soprassoldo marinai. Vostro rientro provvedimenti opportuni saranno valutati per ammutinati. Nostra compagnia non adatta beneficenza. Vincete!

Il capitano sfiorò la spalla di Liprandi.

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- Vi ringrazio per la collaborazione. Certo, l’armatore deve essere uscito dai gangheri.

- Gli passerà dopo la regata. I giovanotti hanno buoni muscoli e credo che ce la faranno.

- Siete un ottimo consigliere. Poc’anzi abbiamo accennato al prestigio. Questa regata è importante per l’armatore. Ciò che sta accadendo a bordo mi chiarisce il significato di tale parola. Il prestigio non è per tutti, ingegnere. Da trentacinque anni vado per mare e mi trovo, oggi, oggetto di scommessa. L’armatore ha potere e il prestigio lo indossa o lo leva secondo le situazioni, o le occasioni. Per me, un tal pregio, è come un abito troppo costoso, pertanto non tutti se lo possono permettere. Adesso vi saluto.

Uscì e tornò alla sua cabina, accompagnato da un’ombra di amarezza.

La campana di poppa suonò i rintocchi del mezzodì. Con passi dondolanti, andatura di chi è invecchiato sui corridoi di una nave, Liprandi vide il capitano vagare nell’unico mondo che gli appartenesse: la nave priva d’affetti, avara di ozii, generosa di scomodità presenti in ogni anfratto o cala e sotto tutti i cieli o latitudini.

*Erano trascorsi sei lunghi giorni. Giunse il momento

di spostare la nave alla foce del Tamigi, dinanzi all’Isola dei Molluschi, nell’area della regata.

Il capitano Basile impartiva gli ordini convenzionali per la manovra. Dal cassero alto seguiva gli interventi dei marinai impegnati sui pennoni o accanto ai bozzelli che parevano un po’ induriti, quasi avessero risentito della sosta che durava da una decina di giorni. Bracciati a collo la vela di trinchetto e la maestra, il

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brigantino, con pigrizia, scostò dal molo, prese il centro del fiume aiutato dalla corrente.

Le vele si gonfiarono rallentando lo scarroccio; la nave si raddrizzò, infilò una bava di vento e rispose al timone, elegante e snella. Percorse una ventina di miglia, uscì dalla foce e raggiunse una rada non distante dall’isola. Si ammainarono le vele e fu calata l’ancora.

La sera, vigilia di gara, si arrossava con l’ultima unghia di Sole. Il crepuscolo portò un Giove luminoso; apparve la Luna che facilitò il galoppo dell’immaginazione dei marinai che cercavano nel gioco d’ombre, tra grigi mari di pomice e crateri opachi, una forma allucinante ove apparisse la faccia di un morto affogato, come tramandava la tradizione orale dei vecchi naviganti nelle osterie dei porti.

Le onde radio unirono in un attimo il brigantino alla stazione meteo sulla vicina costa di Brighton. Il radiotelegrafista richiese notizie di maree, venti, correnti che interessavano il tratto di mare tra Ghillingam e Sherness. Riportò le informazioni su di una carta nautica. Segnò il percorso delle lance e marcò con matite colorate le evidenze o ciò che era imprevedibile, come il vento. Salì in coperta tenendo la carta arrotolata sotto un braccio e scartò un Toscano che infilò tra i denti.

Il chiarore lunare, passando i pennoni e le sartie, si divideva in tenere lame di luce che scontravano gli spigoli delle attrezzature che parevano ricoprirsi d’un pulviscolo argenteo. In quella trasparenza Liprandi vide la sagoma di Pisacane. Era accanto alla lancia scappavia, occupato a dare sego sotto la chiglia.

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Evidentemente voleva che il fasciame lo assorbisse durante la notte e, il giorno dopo, in acqua, la barca fosse ben scivolosa.

Si avvicinò silenzioso e Pisacane sobbalzò.- Buonasera nostromo. Con tutto il sego che date,

filerà come un capodoglio.Il marinaio fu sul punto di lanciare il barattolo del

grasso in acqua. Si contenne serrando le mascelle e, muto, continuò il lavoro accelerando la spennellatura. In petto, pregava che l’uomo cambiasse bordo.

- Avete fatto un ottimo addestramento ai rematori, - continuò Liprandi senza scoraggiarsi. - È giusto che ognuno abbia il suo mestiere.

- Signoria, scusate assaie, ma ie nu parlo ittaliano.Pisacane serrò il silenzio e continuò il lavoro.

Ignorando la presenza del telegrafista, passò all’altro lato della lancia e si chinò sotto la sponda per dare altro grasso. Stava in una posizione scomoda, per la vicinanza alla fiancata sinistra del brigantino, ove mancava la balaustra, levata via alcuni giorni prima per agevolare la manovra di ammaraggio della lancia scappavia, e di issare, finito l’allenamento.

- Fumate? - Liprandi, dal suo posto, vedeva solo le gambe del nostromo ma sapeva che l’altro lo udiva.

- Sulo la pippa. - Fu una fredda risposta.- Però la vostra non l’avete più, o sbaglio?Il nostromo non rispose: sintonizzava lo sgnac schiaf

del pennello bagnato di sego, strofinato contro il fasciame, con lo sciacquio delle onde contro la fiancata della nave. L’ingegnere accese un fiammifero e incendiò l’estremità del sigaro. Fece una nuvola di

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fumo, lasciò consumare per intero il fiammifero e vi soffiò sopra.

- Ditemi nostromo, conoscete l’abbazia? Quella di Cassino, intendo. È vero quel che si dice?

- Che sarebbe a dicere?- È bella e i monaci di san Benedetto son puri.- Vuie comme sapite ‘sti cose?- Mi piacerebbe andarvi. Credete troveranno un po’

di tempo per me, quei santi uomini?Il nostromo arrestò la mano e il pennello. Calcò con

l’altra il berretto sulla testa ed emerse dal fianco della barca. Gli posò gli occhi addosso, il labbro inferiore umido di saliva. Non era forse quel tipo un accolito di Satanasso? Come faceva a non spellarsi la lingua parlando di santi? Il diavolo, certe volte, sa mascherarsi.

Liprandi avvertì d’avere smosso l’ottusità di Pisacane. Forse aveva stabilito un contatto e sarebbe riuscito a parlargli, anche se l’altro ribolliva come una botte.

Il marinaio fece oscillare il secchio col sego al punto che la puzza salì nelle narici dell’ingegnere.

- Santo Padre, è disgustoso! - esclamò il romano arretrando, - voi come fate a sopportarlo?

- Abitudine. Pecché v’interessa l’abbazia e i muonaci?

- Mia madre è donna di chiesa. Vuole che ve la conduca: un voto.

- Nu voto? Quale, scusate?Pisacane scansò da un lato il bugliolo puzzolente e

studiò con attenzione la faccia liscia dell’ufficiale.

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Dunque, era un comune mortale e aveva pure una madre, donna devota, per giunta.

- Lei non vuole che io vada per mare e sarebbe felice se cambiassi mestiere. Ha terrore di tutto ciò che si nutre di corrente elettrica. Mi vorrebbe dietro una scrivania a calcolare frequenze radio. Io vivo solo all’aria aperta, con le nuove scoperte del secolo.

Pisacane, nel cervello calloso, pesò le parole del telegrafista. Se davvero la madre pensava così, aveva le sue stesse idee. Semmai, la pecora nera era il figlio.

- Vuie pecché facite fetenzie?- Quali? - domandò meravigliato Liprandi. Non si

aspettava un tale attacco.- Gesù e Maria! - lo sgridò Pisacane agitandogli

dinanzi il pennello. - Diavolirie, e lu fuoco arriva a li pennoni! Pure lu capitano avite indiavolato. Nu portava le zoccole a bordo de ‘sta Maria. Ve pare?

Dopo tale sfuriata il nostromo rabbrividì, ebbe paura d’aver passato la misura. Aspettando una maledizione strinse il pennello più forte. Si sarebbe difeso.

Liprandi scoppiò a ridere, sospirò ingoiando il fumo. Prese a tossire con tali sussulti, che il nostromo credette stesse per strozzarsi.

- Tutto ha spiegazione, - mormorò l’ufficiale asciugando gli occhi lacrimosi. - State tranquillo: la radio è innocua. Anche il papa ne vuole una, a Roma, a San Pietro. Nessuna donna, poi, è mai salita a bordo. Quella che voi avete visto è un greco venduto all’ambasciata, venuto a bordo per convincere il capitano a impegnarsi per la regata. E i fuochi di Sant’Elmo, sui pennoni, sono un risultato elettrostatico, come il fumo che esce dal Toscano.

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- Lo giurate!- Su San Benedetto. La verità, l’armatore vuole

vincere la regata; forti scommesse. Chiedete al Basile se non mi credete.

- Se avite mentito, che satanasso vi cecasse!- Ora, per favore, volete dare un’occhiata?Pisacane gli andò più vicino.- È la carta dov’è segnato il percorso della gara. Voi

sarete il timoniere. Delle cose dovete saperle.Il telegrafista gli mise tra le mani il rotolo e Pisacane

lo prese arricciando il naso. Lo srotolò e guardò interessato.

- È una rotta. Tutta ‘nguacchiata di colore.- Quei segni hanno un significato, non sono

scarabocchi. È il percorso della lancia stabilito con l’aiuto delle informazioni che ho avuto. Menatela in mente. La marea, domani, inizierà dopo l’avvio della gara. Tenetene conto. - Liprandi parlava sicuro di sé e impressionò il nostromo. - Se volete una possibilità, dovete prestarmi ascolto. Forse gli inglesi non hanno queste informazioni.

Pisacane, in un attimo, sentì che l’uomo era sincero. Spegnendo il rude orgoglio, decise di ascoltare.

- Il vento, domani, potrebbe aiutarvi. La corrente della bassa marea vi sarà contraria ma se scadrete a sinistra del percorso, qui da questa parte, - e Liprandi, col dito sulla carta mostrò lo scostamento dalla rotta, - la corrente scema e poi avrete vento a favore. Basterà che vi teniate sotto l’isola, più vicino alla riva.

- È cchieno di secche, - notò il nostromo, preoccupato.

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- Con attenzione, passerete. Non appena doppierete il capo avrete vento alle spalle e vi servirà per lo spunto del finale. A patto che impariate la carta.

Pisacane aveva l’animo in subbuglio. L’agitazione che provava gli saliva dall’esofago, alimentava nuove paure, mistiche: la fiducia in uno sconosciuto e la fede in un’energia ignota qual era l’elettricità.

Senza la pipa non riusciva a concentrarsi. Si grattò la testa. Sputò fuori di bordo. Accettò la carta nautica, si assegnò un gesto di croce, raccolse il secchio puzzolente di sego e si allontanò verso la cala delle vernici.

Liprandi sollevò lo sguardo e fissò il vertice del Cigno. La stella titillava e pareva trasmettesse segnali luminosi con la frequenza di un messaggio morse. Provò a decifrare. Molti impulsi erano senza senso, ma uno sembrò dire: buona sorte!

*Nella rada vi erano molte barche a motore e

tantissime a vela. Osservando da Sherness, l’insenatura pareva tappezzata di foglioline argentee che danzavano intorno al Maria d’Asburgo.

La giornata buona e calda aveva persuaso quelle persone che possedevano un natante a varcare l’estuario e a uscire in mare. Sui velieri era una festa di gran pavesi colorati issati a riva, da un albero all’altro.

Un barcone era stato allestito per le autorità e vi s’imbarcavano i solerti segretari, gli ospiti, le dame. Mosse in direzione del traguardo. Brutòs, vestito degnamente, appariva tranquillo; alzò solo un istante il braccio in segno di saluto.

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Pisacane ammainò la lancia e i dieci allievi si affrettarono a occupare le cinque panche, seduti in coppia, secondo la potenza dei muscoli: a prora il conte e il toscano. L’ultimo a calarsi fu Pisacane. Afferrò il timone, guardò verso l’alto, in attesa di un cenno dal capitano per avviarsi alle boe, sulla linea di partenza.

Il maestrino Cecè, salito dalla cucina, si affacciò al bordo e mise fuori un sacco.

- Pisacaà! - e lasciò cadere di sotto, - Sò babà liquorosi che ho fatto pè vuie. Questi danno forza!... Fagli vedé tu chi siamo!

Basile puntò il cannocchiale sul barcone e cercò la persona che così duramente l’aveva amareggiato. Vide il greco, riconobbe il segretario, un altro signore, molto elegante, forse l’ambasciatore, e accanto a questi un militare in grand’uniforme: il duca!

- Vediamo, - mormorò senza staccare l’occhio dalla lente, - chi di noi piangerà, oggi

Spostò il cannocchiale e per poco non gli scivolò dalle mani: l’armatore vestito di bianco; sulla testa un cappello di paglia. Si sventolava con un ventaglio e sorrideva melenso.

- L’arpia! - pensò il capitano, - è venuto di persona a incassare le scommesse e questa volta spero che ne incassi tanti di quattrini.

Mise a fuoco più in là, sulla linea di partenza, e notò le lance ormai allineate e le bandiere a poppa: italiana, inglese, americana, francese, tedesca, danese. Scuole di marineria rappresentate da giovanotti dotati di muscoli e agonismo. Mancava poco allo START.

Pisacane si guardò intorno. Studiò gli avversari e pensò che la potenza di quelle braccia afferrate ai remi

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avrebbe spostato uno scoglio. Gli inglesi erano pronti a dare battaglia, non meno dei danesi, degli americani e di quei diavoli francesi che si ostinavano a tenere sulla testa il capello floscio con il buffo pompon rosso. I tedeschi, alla destra della sua lancia, non lo preoccuparono, né gli sfuggì che il loro timone era stato ingrandito, segno che avevano qualche difficoltà.

- Guagliuni, le pale all’acqua. Uno sparo: il segnale! Le lance arrancarono i primi

palmi, vinsero l’abbrivo, scivolarono via: l’Isola dei Molluschi sulla sinistra, il mare aperto a destra e davanti, alcune miglia da macinare e il traguardo.

Le barche partirono affiancate, poi si distanziarono. La corrente non aiutava, i remi pesavano e i muscoli dolevano. Pisacane diede barra nell’attimo in cui la lancia anticipava quella tedesca; passò innanzi tagliandogli la via.

Basile, dal suo posto di osservazione, il cannocchiale allungato, vide la manovra. Fremeva e incrociò le dita.

Cecè, il maestrino, risalì in coperta per informarsi: puzzava di tutto e i marinai del brigantino capirono che in cucina, quel giorno, c’era movimento di manzo e salsicce. In verità, il capitano, dopo di avere rifatto le provviste e riempita la cala di prora, aveva ordinato un pasto speciale: quello era un giorno da ricordare.

- Vanno ‘na bellezza, - confessò a se stesso il maestrino che aveva portato una mano alla fronte per non essere abbacinato dal Sole. - Sarà il babà a dargli quella forza. Io di liquore ce n’ho messo! Forza, Pisacà, - gridò con tutto il fiato verso la lancia lontana, in terza posizione e scostata da una parte, prossima alla sponda dell’isola.

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Basile stringeva freneticamente il cannocchiale. Sapeva delle secche affogate da quella parte.

Liprandi, cui non era sfuggita quella sorda agitazione, lo rassicurò:

- Il nostromo sa il fatto suo. La carta l’abbiamo studiata questa notte. Ha dei punti di riferimento validi: sta applicando la tattica.

Basile si meravigliò. Abbassò il cannocchiale.- Come, signor Liprandi? Siete riuscito a parlare con

il nostromo? Credevo avesse terrore di voi.- San Benedetto ha rotto l’incantesimo. Forse

Pisacane vi seguirà sulla nuova vaporiera che l’armatore vi consegnerà al rientro in Italia, se vincerete.

Basile ripuntò il cannocchiale sul barcone delle personalità. Poté vedere l’armatore reggersi la testa; abbandonato sul corrimano dell’imbarcazione. Inquadrò il duca: era sorridente e beato.

Pisacane incalzò, si allineò alla lancia inglese. Il biondo passavoga si accorse del pericolo e aumentò il ritmo per non cedere acqua.

Con selvaggio sforzo, tenendo la rotta diritta, i danesi vollero portarsi in testa inseguendo uno scanso di vento e parve la loro prora andare alla vittoria.

L’energia dei rematori sembrava espulsa nei loro fiati. Rapidi; sopportavano il dolore delle abduzioni dei muscoli, i morsi che i gigli dei remi davano alle loro mani spellate e brucianti di vesciche, il duro delle panche che feriva l’osso sacro.

A meno di un miglio dal traguardo, la corrente si fece più forte. Gli inglesi, padroni di casa, cercarono con disperazione il distacco.

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Pisacane chiese al conte l’estrema tensione, con la disperazione nella voce.

- Conte, jamme,resistete, datemi voga. Tra poco pigliammo viento… Viento dietro, o nu so’ chiù nostromo!

Il giovanotto allargò la palate imponendo ai rematori il vomito dell’anima. Il nostromo diresse più sotto costa, la corrente si fece meno forte, si vedeva dai salti che faceva la lancia, balzi in avanti duri e secchi.

Pisacane sudava; si piegò sul timone, aguzzò lo sguardo in cerca di un’intaccatura che gli dicesse: sono il vento, vieni da questa parte. A un tratto lo riconobbe, dopo una piccola insenatura, teso, creava spruzzi polverosi. Virò per incontrarlo, sdossò l’insenatura. Lo sentì nelle spalle: gli sconvolgeva i capelli.

- Forza guagliù! - gridò sbavando, - pale addritte, ccà passammo a tutti!

Rimontarono; tenendo la rotta segnata da Liprandi mantennero la posizione, lottarono attimi brutali, arrivarono sugli ultimi cento metri come diavoli.

Le barche degli spettatori si radunarono in prossimità del traguardo; la gente era rapita dall’agonismo.

Pisacane bestemmiava, incitava, sputava. Era fatta. Vittoria per l’armo italiano.I rematori si accasciarono sugli scalmi. Il nostromo

era stremato. Senza voce, riportò la lancia sotto la fiancata del Maria d’Asburgo.

Liprandi guardò negli occhi di Pisacane. Si comunicarono muta stima: vento ed elettricità potevano convivere.

La soddisfazione del capitano fu grande, quando vide il duca strappare un pezzo di carta e lanciarne i

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pezzettini in mare. Adesso poteva ritornare a Torino con l’animo sereno e l’altro andare a friggersi al Polo.

Issata la lancia, Basile si congratulò con i vogatori. Poi ordinò di salpare, rotta Sud, destinazione Genova e il premio dell’armatore.

La nave, spiegate le vele, iniziò la fuga preceduta dalla pettoruta polena: protesa innanzi al tagliamare, la sirena si chinava per sfiorare la spuma che ribolliva sulle onde.

Cecè il maestrino si affacciò alla boccaporta con addosso una camicia bianca e il cappellone da cuoco.

- È pronto da magnà, - gridò battendo un coperchio, - chi avesse fame, venesse, accorresse! O butto tutte cose ai pesci.

*

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Piccolo Glossario

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Abbrivo: velocità che perdura in un galleggiante dopo che è cessata la propulsione.Addugliare: raccogliere i canapi a spire.Antisom: antisommergibile.Arrancare: avanzare a stento.A riva: in alto, sull’alberatura.Arpagone: rostro.Baderna: treccia rivestita di grafite o grasso usato come guarnizione di tenuta.Bagli: travi che servono a collegare i fianchi della nave e a sostenere i ponti superiori.Balani: molluschi che creano incrostazioni sotto la chiglia.Barcarizzo: scala di legno che è issata a bordo prima della navigazione.Barra: timone. Dare barra, dare timone.Bettolina: grosso galleggiante per trasporto di cose nel porto.Bitta: colonnetta di legno o ferro fissata sulla nave o sui moli del porto per avvolgervi gomene o catene.Bottazzo: parabordo di legno o gomma che fa da cintura ai fianchi del rimorchiatore.Bracciare a collo: disporre le vele in modo che prendano il vento sulla fronte. Tale manovra consente di rallentare o arrestare il veliero.Brogliaccio: libro di bordo.Brulotto: barca che, carica di polvere, era incendiata e avviata verso la nave nemica.Cala: ripostiglio.Camisaccio: parte superiore delle divise di marinaio, può essere di panno pesante, turchino, o di cotone bianco. Il bavero, ampio e di forma rettangolare, è chiamato “solino”, generalmente di colore azzurro. Carabottino: graticolato di legno usato per la chiusura dei boccaporti o messo come tappeto per camminare all’asciutto.Cassero: sulle moderne navi da guerra, ponte centrale sopraelevato.Chiatta: grosso galleggiante portuario a fondo piatto.

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Cima: corda di canapa, manilla o fibra.Comandata: gruppo di marinai comandati per servizi ausiliari.Comento: luce risultante dall’accoppiamento di tavole. Sulle navi è chiusa con corda catramata o gomma.Crocetta: sulle sommità degli alberi, aste messe a croce e collegate agli stessi per agevolare la migliore tensione delle sartie, cavi, questi ultimi, che messi in tiro assicurano la stabilità degli alberi.Denti di cane: incrostazioni che si formano sotto la chiglia.Desolino: vento fresco di costa.Ecogoniometro: apparecchiatura elettronica per la ricerca di sottomarini.Franchi: marinai liberi dal servizio.Franchigia: libera uscita.Gagliardo: marinaio d’acqua dolce.Giglio: impugnatura del remo.Incappellata: colpo dato dalla prora sull’onda.Incavicchiare: assicurare con il cavicchio, legno che si conficca in un foro a guise di chiodo.Invaso: slitta di legno che sostiene la catena di una nave pronta per il varo.Leviatano: grosso pesce biblico.Manovra: cavo permanente dell’alberatura.Montacasca: movimento del busto fatto da chi rema.Opera viva: parte immersa dell’imbarcazione. Essa riceve dal liquido la spinta verso l’alto permettendo la galleggiabilità del corpo immerso.Pavese: festoni di bandiere o luci alzati sugli alberi.Passavoga: chi conduce la voga.Polena: immagine scolpita sulla prora della nave.Quadrato: sala dove l’equipaggio consuma il pasto.Rais: capo della tonnara.Redazza: grosso fascio di filacce di canapa usato per lavare i ponti.Remora: pesce che ha sulla testa un organo adesivo con il quale si attacca ad altri pesci per farsi trasportare.Santa Barbara: deposito munizioni.

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Scadere: lo spostarsi lateralmente del mezzo galleggiante per effetto del vento.Scappavia: barca a cinque panche con timoniere, usata per regate.Sciorinio: soleggio di coperte e materassi.Scòrbuto: malattia che colpiva i marinai per mancanza di vitamine.Sdossare: doppiare un promontorio, passare oltre.Sentina: parte più bassa della nave. In essa trovano posto i doppi fondi, serbatoi di acqua e carburante.Solino: (vedi camisaccio).Terzarolo: parte della vela che si serra per ridurre la superficie.Tonnaroto: marinaio che lavora in tonnara per la mattanza del tonno.Trefolo: filaccia, il primo elemento nella costruzione delle corde vegetali.Tuga: sovrastruttura alleggerita sui porti superiore della nave.Vivo di volata: apertura della bocca da fuoco.

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