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1 Lucio Battisti (1943-1998) IL CANTAUTORE CHE SI FECE HEGELIANOIn vista del decennale della morte del vate musicale di Poggio Bustone, una riflessione critico-satirica scritta al momento della sua scomparsa e finora inedita, scaglia i suoi strali sarcastici contro i “battistiani italioti piangenti (un vero popolo pulp)” ed esamina la sua cruciale svolta artistica dalle canzoni lirico-banal- sentimentali e ‘piacionissime’ firmate con Mogol, ai brani pop-concettuali composti col poeta Pasquale Panella, basati su testi esasperatamente paratattici, surreal- automatici, ironico-dadaisti e parodistici, con fili di perle-parole nonsense che abolivano il ‘ritornello acchiappacuori’ per darsi come puro fluxus di straniato impressionismo. ****** di Marco Palladini * Scrissi questo intervento critico-satirico poco tempo dopo la morte di Battisti su richiesta di una rivista che, inopinatamente, chiuse i battenti prima di riuscire a pubblicarlo. È, dunque, rimasto inedito (e dimenticato) per dieci anni, in una cartella del mio cyber-archivio, finché qualche mese fa l’ho riscoperto e riletto, trovandolo ancora attuale e vitale nella sua virulenza sarcastica e mordace. Ho, quindi, deciso finalmente di darne pubblicazione in vista del decennale della morte del Lucio nazionale. Come omaggio controcorrente ed eterodosso alla sua arte canzonettistica nel segno della contraddizione, che tuttora risuona nella mia memoria e dalle casse del mio vetero-hi fi. *** 1. Titoli, lai e geremiadi dai giornali dopo la morte di Battisti il 9 settembre ’98: «Addio, angelo della canzone»… «Ci ritorna in mente»… «Lucio cantava la mia vita»… «Con lui i giorni più belli della mia vita»… «Un rivoluzionario delle emozioni»… «Mogol: con i nostri versi regaliamo emozioni»… «Una vita di Emozioni»… «Fine di un sogno»… «Un cantante per amico»… «Il maestro del beat»… «La colonna sonora di una generazione»…«D’Alema: colonna sonora dei nostri amori»… «Fini: non era di destra, era di tutti»… «Il creatore dei nostri sentimenti»… «L’invasione del mito»… «Ha creato brani mito di tre generazioni»… «Le sue canzoni rimarranno immortali»… «Il popolo dei fan: Lucio, sei immortale»… «È nella storia della musica»… «È morto Lucio. Non c’è più niente da dire»… «Non ce ne sarà più un altro come lui»… «Pregate per lui»… «La sua Italia piange cantando»… (Si potrebbe piantarla qua, magari controinvocando, secondo un titolo romanzesco di Sandro Veronesi: venite, venite B52… e fate di codesta immarcescibile Itaglia della Lagrima una definitiva Hiroshima).

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Lucio Battisti (1943-1998) IL CANTAUTORE CHE SI FECE ‘HEGELIANO’ In vista del decennale della morte del vate musicale di Poggio Bustone, una riflessione critico-satirica scritta al momento della sua scomparsa e finora inedita, scaglia i suoi strali sarcastici contro i “battistiani italioti piangenti (un vero popolo pulp)” ed esamina la sua cruciale svolta artistica dalle canzoni lirico-banal-sentimentali e ‘piacionissime’ firmate con Mogol, ai brani pop-concettuali composti col poeta Pasquale Panella, basati su testi esasperatamente paratattici, surreal-automatici, ironico-dadaisti e parodistici, con fili di perle-parole nonsense che abolivano il ‘ritornello acchiappacuori’ per darsi come puro fluxus di straniato impressionismo.

****** di Marco Palladini * Scrissi questo intervento critico-satirico poco tempo dopo la morte di Battisti su richiesta di una rivista che, inopinatamente, chiuse i battenti prima di riuscire a pubblicarlo. È, dunque, rimasto inedito (e dimenticato) per dieci anni, in una cartella del mio cyber-archivio, finché qualche mese fa l’ho riscoperto e riletto, trovandolo ancora attuale e vitale nella sua virulenza sarcastica e mordace. Ho, quindi, deciso finalmente di darne pubblicazione in vista del decennale della morte del Lucio nazionale. Come omaggio controcorrente ed eterodosso alla sua arte canzonettistica nel segno della contraddizione, che tuttora risuona nella mia memoria e dalle casse del mio vetero-hi fi.

*** 1. Titoli, lai e geremiadi dai giornali dopo la morte di Battisti il 9 settembre ’98: «Addio, angelo della canzone»… «Ci ritorna in mente»… «Lucio cantava la mia vita»… «Con lui i giorni più belli della mia vita»… «Un rivoluzionario delle emozioni»… «Mogol: con i nostri versi regaliamo emozioni»… «Una vita di Emozioni»… «Fine di un sogno»… «Un cantante per amico»… «Il maestro del beat»… «La colonna sonora di una generazione»…«D’Alema: colonna sonora dei nostri amori»… «Fini: non era di destra, era di tutti»… «Il creatore dei nostri sentimenti»… «L’invasione del mito»… «Ha creato brani mito di tre generazioni»… «Le sue canzoni rimarranno immortali»… «Il popolo dei fan: Lucio, sei immortale»… «È nella storia della musica»… «È morto Lucio. Non c’è più niente da dire»… «Non ce ne sarà più un altro come lui»… «Pregate per lui»… «La sua Italia piange cantando»… (Si potrebbe piantarla qua, magari controinvocando, secondo un titolo romanzesco di Sandro Veronesi: venite, venite B52… e fate di codesta immarcescibile Itaglia della Lagrima una definitiva Hiroshima).

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2. Pure, l’onnivadente, iperretorico, molesto culto battistiano sono convinto che, innanzitutto, abbia quale drastico e fierissimo antagonista proprio lui: Battisti Lucio da Poggio Bustone. Perlomeno il secondo Battisti. Perché ci sono, indiscutibilmente, un primo e un secondo Battisti. Il primo, osmotizzato col paroliere Mogol, è quello beatificato e incensato sino al delirium tremens (e tremends). Il secondo, coniugato col poeta Pasquale Panella, è semplicemente cancellato e denegato dalla commotiva “volontà nazipopolare”. Il punto è che avanti d’essere rifiutato, era stato Battisti a rifiutare senza mezzi termini il “suo” popolo, a voltargli perentoriamente le spalle, a sottrarsi con un’audace mossa del cavallo ad una canonizzazione vieta e cheap nel bieco presepe dell’eterna itaglia piagnona e madonnara. Ma come? Le legioni dei fans non annoveravano anche fiumi di “ggiovani” sessantottisti e progressisti e rivoluzionaristi? Appunto… 3. Sono persuaso che, evoluendo e maturando, pure Battisti avesse alfine percepito che l’hard-cuore di questo popolo di integralisti del sentimento, di mélo-drammatici a oltranza, di adolescenti segaioli forever, di ubriaconi di “emozzioni” (epperò scevri di forti e non transeunti civili passioni), di depensanti innammurati solo di sé (del proprio sottovuoto cerebrale), fosse quello di un pueblo di kriminali, di autentici delinquenti – serial killers d’ogni residua dignitas, sempre pronti a entusiasticamente sbracare e voltagabbanare «nel sole, nel vento, nel sorriso, nel pianto». 4. Non solo, ma anche così si spiega, a mio avviso, il radicale cambio di marcia di Battisti dopo il 1980. Ovvero con il rigetto del melmoso crogiuolo antropologico-subculturale che aveva, sì, decretato il suo enorme successo, ma lo aveva poi imprigionato in un culto di massa tanto asfissiante quanto intollerante di qualunque trasgressione. Non a caso, il primo provvedimento che prese fu quello di rendersi “invisibile”, di eclissarsi totalmente dalla scena pubblica, di azzerare qualsiasi apparizione o traccia di presenza personale, di non concedere più nulla al mortifero kombinat del circuito promozional-mediatico. I mass-merda naturalmente non glie l’hanno fatta passare liscia, cercando di colpirlo attraverso la moglie Grazia Letizia Veronese. Come l’infame nippo-strega Yoko Ono era stata accusata di avere orrendamente plagiato e traviato il buon John Lennon, con ciò distruggendo la bella e dorata e planetaria favola dei Beatles, così sulla signora Veronese in Battisti sono state vomitate le accuse d’essere una maligna arpia, la «massima artefice della fuga di Lucio dal mondo», una despota egoista e gelosa che lo aveva rapito all’adorazione dei suoi ammiratori, una «rediviva maga Circe» che per indurlo a cambiare in quel modo, evidentemente «deve avergli fatto una fattura». Bullshit, cioè stronzate? Ça va sans dire. Eppure gli è codesto il modo puerilmente calunnioso in cui i mass-merda, cavalcando il trivial murmure dei battistiani, hanno schizzato di se medesimi la moglie del cantante, fino a reagire in maniera istericamente indispettita quando lei ha negato di far svolgere pubbliche esequie. 5. Tuttavia questo è poco o niente. Per la scatologica antropofeccia italiota la vera tragedia è stata il nuovo corso artistico di Battisti. Vissuto ora come efferato tradimento dei propri titillamenti «nel cuore, nell’anima», ora come fatto meramente e semplicemente incomprensibile, e comunque da rimuovere rabbiosamente per lasciar corso alla radiosa ecclesia della Nostàlghia, al culto pervasivo del Belpaese per il solo e unico e “nostro” Battisti: quello romantico-mogoliano da qui all’eternità. Il popolo battistiano può genuflettersi singhiozzante e riconoscente, in un estasi di identificazione mistico-infantile, soltanto davanti al vate che intona «Le bionde trecce / gli occhi azzurri e poi / le tue calzette rosse…». Anatema assoluto, invece, sul Battisti “panelliano” accusato di fare dischi «senza amore», di sfornare canzoni come «un incubo… inane e vuoto».

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6. Ma che cos’è che soprattutto scatena l’irriducibile ostilità della canea sentimental-kriminale italiota? Che cos’è che sconvolge questo ghénos di emotivi mascalzoni? È l’abbandono del “sentimento lirico”. Ovvero qualcosa che nessun italiota d.o.c. può accettare senza sentire mortalmente minacciata la sua stessa identità comune. L’autore di un siffatto, orribile delitto è istantaneamente percepito come un alieno, un mostro da subitamente distruggere se si vuole preservare la sanità e la filo-eugenetica “tradizzione” della razza tricolore. 7. Debbo dire che stando fin da piccino “dalla parte dei mostri”, da sempre militando con inflessibile durezza per l’inappartenenza all’italiotismo (e all’itaglianeria tout-court), dò atto a Lucio Battisti di aver compiuto, vista la posizione privilegiata in cui si trovava, una inversione oltremodo coraggiosa e considerevolmente lucida. La sola, peraltro, idonea a spietatamente autodistruggere l’immagine che il mafiosissimo popolaccio idolatrava e in cui gongolante si riconosceva. Codesta transustanziazione di sé è un evento “eccezziunale veramente”, senza precedenti (né seguiti) nel mondo dell’italica canzonetta. (Il caso di Franco Battiato coi suoi numerosi andirivieni tra sperimentazione, ricerca colta e cantautorato commerciale è assai diverso). Esagerando un po’, si può paragonare Battisti a un prosatore che parte scrivendo come Liala e termina scrivendo come Manganelli. 8. Dimostrando che «il mio canto libero» non era un vacuo slogan, Battisti procedette alla decostruzione del proprio monumento ideal-canzonettaro imboccando, prima parzialmente (album E già, ’82), poi pienamente e risolutamente (album Don Giovanni, ’86), la strada del concettualismo artistico. Una via concettuale più difficoltosa da percorrere sul piano musicale che su quello testuale. Sostengo questo perché è evidente pure ai sordi lo specialissimo talento di Battisti nel “trovare” (come Picasso lui non cercava, istintivamente trovava) le melodie canzonettistiche più giuste, accattivanti e memorabili. Contraddire, contrastare questo spontaneo, naturale genio melodico-piacione non è stato affatto agevole. Tanto è vero che a ben vedere, anzi a ben ascoltare, nelle composizioni del secondo Battisti non è che la tessitura melodica scompaia. Tutt’altro. Essa permane come invincibile dato strutturale del suo fare musica – perché, poi, sempre di pop sound stiamo parlando, mica di avanguardie sonore alla John Cage o Webern o Stockhausen. Ciò che muta è il “trattamento” concettuale a cui è sottoposta la linea melodica battistiana tramite modalità di arrangiamento elettronico, un uso insistito del tappeto ritmico già di cadenza ipnotica moderatamente pre-techno, il ricorso ad una generale ripetitività delle frasi e del tempo musicali (senza variazioni, stacchi, controtempi etc.). L’effetto è, alla lunga, quello di una anestetizzazione, di un raggelamento, anche di un appiattimento del leit-motiv melodico. Ma la trasgressione più osée (e imperdonabile per i suoi detrattori) che Battisti fa alla canonica forma-canzone è l’abolizione del refrain. Ossia di quell’inciso che nel primo Battisti diventava quasi sempre il marchio inconfondibile, la sigla ideologica, l’anthem vincente che tripudiare e canticchiare faceva la banda dei cuori solitari-kriminali degli aficionados. Capite bene che colpo mortale abbia loro inferto il secondo Battisti. 9. Con questa audace abrogazione del ritornello (che non ritornerà più, mai più), Battisti stabilisce l’inedita cifra concettuale in cui si producono brani che si susseguono spesso come un puro fluxus, un’algida, progressiva nouvelle vague musicale, priva di sussulti e di ruffiani compiacimenti. È un’operazione, la sua, necessaria a desituare l’ascolto, a sottrargli i consueti riferimenti, a spazzare via i topoi del già-noto canzonettaro.

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Quello che è stato definito come una sorta di “impressionismo pop” è, dunque, funzionale allo scardinamento dell’abituale ricezione, sovverte la pigrizia e gli automatismi di audience dei pavloviani cani italioti, induce uno strappo comunicativo capace, per opposizione e differenza, di piegare il “luogos” creativo della canzone ad una palingenesi che ne ricodifica l’ascolto, lo rivitalizza, lo ri-energizza su un terreno di mobilità, di incertezza, di imprendibilità, di ludica sensorialità, di auto-negazione che sfugge il mimetismo e surfeggia sull’astratto e l’informale. 10. Nessun dubbio che un’operazione concettuale di questa portata sia risultata a dir poco inaudita e rivoluzionaria nel provinciale e culturalmente infimo milieu della musica commerciale italiota. Soprattutto perché effettuata da chi sedeva sul suo trono. È come se Aldo Moro si fosse messo alla testa delle BR per abbattere il regime democristiano. È ovvio che il popolo dei battistiani una cosa del genere non poteva neanche lontanamente accettarla, che doveva furiosamente smentirla: non è lui, non è più lui! (Al pari dei gerarchi democristiani che strillavano di fronte alle lettere di Moro prigioniero: non è lui, è un altro, non lo riconosciamo!). Come avrebbe potuto il popolo battistiano consentire, del resto, a un tale rovesciamento senza veder recisa la sua più profonda matrice, e quindi provare il subitaneo impulso a un suicidio di massa? (Evento, peraltro, che personalmente auspico con tutto il mio incorreggibile animus di perfido mostro…). 11. Per quanto concerne i testi di Panella unanimemente esecrati dall’appecoronato, battistiano pueblo che aveva, invece, designato il parolaio Mogol quale suo diletto vate nazisentimentale, va primieramente sfatata una tediosa leggenda metropolitana. Ovvero che soltanto nel sodalizio (anche “soldalizio”) con il signor Giulio Rapetti, in artigianato Mogol, Battisti avesse trovato il complemento perfetto del suo melodiare, al punto che non si potesse neppure dire dove finiva il lavoro dell’uno e dove incominciava il suggerimento dell’altro. Riguardo ai testi è stato lo stesso paroliere a puntigliosamente chiarire, una volta per tutte, che erano suoi ed esclusivamente suoi: «Nei testi che scrivevo c’era la mia vita, quella che avevo vissuto e quella che avrei voluto vivere, e Lucio la cantava in maniera magica». La medesima leggenda vorrebbe, di contro, che nel rapporto con Panella in sostanza Battisti subisse passivamente gli astrusi scritti del suo partner, o perché creativamente confuso o per qualche bizzarro capriccio. Una simile idiozia nega, prima di tutto, l’evidenza: che la star era il cantautore ed era lui che aveva ogni potere decisionale, non certo il povero scriba. La verità è che Battisti aveva scelto con molta attenzione e lucidità la collaborazione con Panella, poiché reputava la vena poetica dello scrittore romano la più adatta ad esaltare il nuovo corso di canzone pop-concettuale che intendeva sviluppare. E in fase di elaborazione il rapporto tra i due fu sempre assai stretto come ha testimoniato lo stesso Panella: «Nell’intervallo che passava tra un disco e l’altro ci sentivamo praticamente ogni giorno, costruendo strato dopo strato tutto il nuovo long-playing. Poi, da Londra, Battisti mi chiamava spesso per raccontarmi come stava andando la registrazione». 12. L’inveterato j’accuse del popolo bue battistiano ai testi di Panella è un corale ritornello fisso: … non si capisce che dice… è oscuro… è totalmente incomprensibile… parole a vanvera… non ci dà emozioni… dice cose senza senso… così le canzoni non si possono più ricordare e cantare… Rammentiamo la sacrosanta replica del poeta romano: «Il pubblico dice “Mi ha derubato perché non capisco”. Ma cosa vogliono capire? Che la vita è difficile, che l’amore fa soffrire? Vogliono capire solo quello che sanno già. Ma il senso, come loro lo intendono, non esiste. Sono io che non capisco loro».

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Il punto è questo: che Panella coi suoi testi esasperatamente paratattici, surreal-automatici, qua e là ironico-dadaisti e parodistici, o che inanellano fili di perle-parole nonsense, introduce nel claustrofilico ambito della canzonetta IL DISORDINE. Egli così annienta il patetico ordine del senso comune su cui si reggeva la testualità di Mogol che orgogliosamente esaltava, come un Carducci in trentaduesimo, la banalità e il micro-idillio e il kitsch piccoloborghesi: «Bisogna toccare la corda dei sentimenti, fare un discorso da uomo di ogni giorno a uomini di tutti i giorni, legato ai nostri tempi, ai piccoli fatti». 13. Il fittizio ordine della “canzone popolare” esce a pezzi dall’incontro con la poesia del chaos di Panella, che non a caso beffardamente chiosa: «Sì, vorrebbero annettermi alla canzone, ma non mi avranno». Comunque eccessiva ed eccedente, la sua scrittura alla deriva resta connessa alla canzone per via del progetto pop-concettuale battistiano. Che d’altronde più di tanto non osa, certi equilibri si guarda bene dall’infrangerli. Per esempio, nell’uso della voce si dimostra straordinariamente conservatore, come se non volesse spezzare l’ultimo trait-d’union tra il primo e il secondo Battisti. Forse ebbe, il cantante, la chiara percezione che, inoltrandosi anche in una radicale innovazione della vocalità, avrebbe finito per varcare le estreme colonne d’Ercole della canzone per approdare nel puro mare largo della ricerca musicale. (Non avvenne così per il compianto Demetrio Stratos post-Area – di gran lunga vocalmente più dotato rispetto a Battisti – che, una volta sperimentate le diplo e triplofonìe, non poté logicamente più rientrare nell’ambito pop e rock?). 14. Insomma, pure il secondo, eversivo Battisti rimane, al dunque, saldamente impiantato nel territorio della canzone. Ma è giusto così, ed è meglio così. Quello era ed è stato, sino all’ultimo, il suo terreno “amniotico” e sovrano. Anche in questo Battisti ha mostrato una superiore coscienza dei suoi mezzi e dei suoi limiti, ben più, tanto per non far nomi, di un Battiato che s’è impancato (senza saper scrivere una partitura) a fare il compositore di opere etno-mistico-sinfoniche con risultati sinceramente da dimenticare. È nello specifico territorio della canzone che il secondo Battisti, in compagnia di Panella, ha compiuto la sua piccola-grande rivoluzione concettualista, non solo incompresa, ma ontologicamente inaccettabile, secondo abbiamo variamente ripetuto, da parte del popolo dei battistiani. Un torsolo di analfabeti di andata & ritorno, la cui sensibilità poetica e mentale, nel novanta per cento dei casi, è ancora ferma alla rima cuore/amore, e che ha messo in atto ogni possibile esorcisma per scacciare via l’inconsulto diavolo o malefica diavoleria che aveva dileguato l’idolo carissimo della propria autolatrica adolescenza. Un misoneista popolo di nazisti sentimentali che non è, poi, diverso, anzi in larghissima misura coincide con la sterminata (o meglio da s-terminare) teleplatea del festival di Sanremo, massimo rito trash e sagra democratica-epocale di rispecchiamento collettivo. 15. Hegel (titolo dell’ultimo album di Battisti-Panella): chi era mai costui? Gli italioti piangenti hanno, si sa, un’istintiva antipatia, un viscerale odio per l’essere semplicemente pensante (non dico etero o poetocritico pensante, sarebbe troppo). Intestare un disco al filosofo della “Phänomenologie der Geist” deve essere loro sembrato veramente una provocazione sanguinosa. Ai nostri provoloni (il Gadda eros&priapesco dixit) e sgonnellone, invece, gli va bene qualsivoglia mariuolo truffatore, infame killer, pentitista delatore, ladroncello furbo, fariseo trasformista, figlio-di-puttana-in-servizio-permanente-effettivo, pataccaro stercorario e parassitissimo pappone, purché depensante e arcisinghiozzante e pronto a giurare sulla Madonna, la famiglia e il “tiriamo a campare”.

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16. Questo popolo mammozzone dall’8 settembre endokakogenetico, d’altronde, si riproduce pressocché intatto, si ripresenta immodificabile, fedelissimo a se stesso di generazione in generazione. La sua (per ora) postrema incarnazione è la generazione pulp dei Brizzi “fruscianti” e Aldo Nove “woobindeschi” col supporto del teorico-spazzatura Tom Labranca. Una generazione che trova la sua fulgida sintesi nel “fabiofazismo” della tv di Stato. Una generazione che, a vent’anni o poco più, di già si strugge e protonostalgizza sulle merendine e le bibitine (o i biberon) e i cartoni giapponesi e le magliettine e le discotechine e le motorette e le vacanzine della sua infanzia o prima adolescenza di appena ieri pomeriggio. Una generazione di fintissimi “cannibbbali” e cattivisti per posa tarantinesca che fa tanto trend, invero più sentimentalisti-opportunisti e imbelli e “spallati” della campionessa italica ufficiale di cuor-buonismo: T’amaro Susanna (lei sì, così lesbica e così devota, che c’ha “più coglioni” di tutti loro). Una generazione postmodernamente scemissima capace di riciclare il peggio del peggio del “subpop” nazionale (da Orietta Berti ai Cugini di Campagna, dai pantaloni bicolori a zampa d’elefante al Solex, dalle scarpe con le megazeppe ai “filme” di Alvaro Vitali e via zatterando) ed elevarlo al rango di cult. Una generazione che non gli scappa, manco per sbaglio, un residuale lampo d’intelligenza e, al contrario, deflata una permanente giovanile demenza, peraltro bubbonizzata da ammiccamenti parakulissimi, propri di chi sta, comunque, sempre allineato e coperto col gusto di massa più vieto e coprofilo. Una generazione lowbrow del conformismo innato in cui gioiosamente si compie la philomalogenetica agnizione della scalcagnata genìa traditional dei compari merendari e cellulitiche (o siliconate) smandrappone “pizza, sole & chitarrino”. È così che si chiude (provvisoriamente) il cerchio, e gli italioti piangenti finalmente apprendono, in fin di Novecento, di essere un vero PULP PEOPLE. 17. Di una cosa, però, in limine, sono certo: che Battisti, ovunque (o novunque) nei cieli adesso si trovi, non ha più alcuna intenzione di cantare per loro.

****** P.S. - Per codesto demolirico e acefalico e lagrimogeno e “autocompiacionissimo” popoletto pulp mi pare opportuno ricordare Uno mejo dell’antro, il meraviglioso sonetto di “Peppe er tosto” Belli, atemporale satura (ancorché scritta il 27 gennaio 1832) dell’invariante cromosoma della stirpe dei trafelati catto-zellones. Sono tali poetofanie a guidare il controcanto della mia personalissima fiesta mobile versus l’imminente anno giubilare (scadenza fatale/ferale di un billennio più che pulpista?). Leggete e godete (se potete): Miodine, Checcaccio, Gurgumella, Cacasangue, Dograzzia, Finocchietto, Scanna, Bebberebbè, Roscio, Panzella, Palagrossa, Codone, Merluzzetto, Cacaritto, Ciociò, Sgorgio, Trippella, Rinzo, Sturbalaluna, Pidocchietto, Puntattacchi, Fregnone, Gammardella, Ciriàco, Lecchestrèfina, er Bojetto, Manfredonio, Chichì, Chiappa, Ficozza, Grillo, Chiodo, Tribuzzio, Spaccarapa,

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Fregassecco, er Ruffiano e Mastr’Ingozza. Questi sò li cristiani, sora crapa, C’a Ssampietro stacconno la carrozza, E sse portonno in pricissione er Papa.