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1 L.R. 8 ottobre 2009, n. 22, come modificata dalla L.R. 21 dicembre 2010, n. 19: “Interventi della Regione per il riavvio delle attività edilizie al fine di fronteggiare la crisi economica, difendere l’occupazione, migliorare la sicurezza degli edifici e promuovere tecniche di edilizia sostenibile”, c.d. Piano casa regionale. Prof. Fabrizio Lorenzotti (Professore di diritto amministrativo della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Camerino) La relazione contiene quello che si è detto e quello che non si è potuto dire – soprattutto per ragioni di tempo – al Seminario organizzato il 25 febbraio 2011 a Civitanova dal Collegio Provinciale dei Geometri e Geometri laureati di Macerata. LE DATE E LE SCADENZE FISSATE DALLA NORMATIVA: Entrata in vigore La legge 19/2010 è entrata in vigore il 31 dicembre 2010, il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nel BUR n. 114 del 30 dicembre 2010 (art. 11 L.R. 19/2010). Il termine di 45 gg. per le delibere comunali . In base all’art. 9, comma 1, della l.r. 22/2009, entro il termine perentorio di 45 giorni dalla data di entrata in vigore della L.R. 22/2009 (vale a dire entro il 30 novembre 2009), i Comuni potevano limitare l’applicabilità delle disposizioni della legge stessa in relazione a determinati immobili o zone del proprio territorio, sulla base di specifiche motivazioni dovute alla saturazione edificatoria delle aree o ad altre preminenti valutazioni di carattere urbanistico o paesaggistico o ambientale. Un ulteriore contenuto della delibera comunale era che essa poteva stabilire (ai sensi dell’art. 4, comma 1) eventuali e ulteriori deroghe ai parametri urbanistici ed edilizi (altezze, densità edilizia, volumetrie, numero dei piani, altri parametri urbanistico-edilizi): deroghe destinate a prevalere sui regolamenti edilizi e sulle previsioni dei piani urbanistici e territoriali comunali, provinciali e regionali. Poi, in base all’art. 10, comma 1, della legge 19/2010: i Comuni potevano adeguare la suddetta delibera comunale (introducendo più restrizioni oppure più deroghe) limitatamente alle novità contenute nella legge 19/2010, entro il termine perentorio di quarantacinque giorni dalla data della sua entrata in vigore, vale a dire che la delibera comunale di adeguamento doveva essere approvata, a pena di decadenza, entro il 14 febbraio 2011. Ovviamente per stabilire le effettive possibilità di realizzare gli ampliamenti e le demolizioni e ricostruzioni con ampliamento è necessario tenere conto - accanto alle disposizioni della L.R. 22/2009, modificata dalla L.R. 19/2010 – delle disposizioni delle suddette delibere comunali. La presentazione di nuove domande e l’eventuale modificazione delle domande già presentate (art. 10, commi 2 e 3, della L.R. 19/2010) Una volta trascorso il suddetto termine di 45 gg., vale a dire dopo il 14 febbraio 2011, possono essere presentate le nuove domande per gli interventi di ampliamento e di demolizione e ricostruzione. Ugualmente, una volta trascorso tale termine di 45 gg., cioè sempre dopo il 14 febbraio 2011, le domande presentate sulla base della originaria legge regionale 22/2009 possono essere modificate in adeguamento alle nuove disposizioni della L.R. 19/2010. Il termine finale ( art. 9, comma 2, della L.R. 22/2009, come modificato dalla L.R. 19/2010).

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L.R. 8 ottobre 2009, n. 22, come modificata dalla L.R. 21 dicembre 2010, n. 19: “Interventi della Regione per il riavvio delle attività edilizie al fine di fronteggiare la crisi economica, difendere l’occupazione, migliorare la sicurezza degli edifici e promuovere tecniche di edilizia sostenibile”, c.d. Piano casa regionale.

Prof. Fabrizio Lorenzotti (Professore di diritto amministrativo della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Camerino)

La relazione contiene quello che si è detto e quello che non si è potuto dire – soprattutto per ragioni di tempo – al Seminario organizzato il 25 febbraio 2011 a Civitanova dal Collegio Provinciale dei Geometri e Geometri laureati di Macerata.

LE DATE E LE SCADENZE FISSATE DALLA NORMATIVA: Entrata in vigore La legge 19/2010 è entrata in vigore il 31 dicembre 2010, il giorno successivo a

quello della sua pubblicazione nel BUR n. 114 del 30 dicembre 2010 (art. 11 L.R. 19/2010). Il termine di 45 gg. per le delibere comunali. In base all’art. 9, comma 1, della l.r. 22/2009, entro il termine perentorio di 45

giorni dalla data di entrata in vigore della L.R. 22/2009 (vale a dire entro il 30 novembre 2009), i Comuni potevano limitare l’applicabilità delle disposizioni della legge stessa in relazione a determinati immobili o zone del proprio territorio, sulla base di specifiche motivazioni dovute alla saturazione edificatoria delle aree o ad altre preminenti valutazioni di carattere urbanistico o paesaggistico o ambientale.

Un ulteriore contenuto della delibera comunale era che essa poteva stabilire (ai sensi dell’art. 4, comma 1) eventuali e ulteriori deroghe ai parametri urbanistici ed edilizi (altezze, densità edilizia, volumetrie, numero dei piani, altri parametri urbanistico-edilizi): deroghe destinate a prevalere sui regolamenti edilizi e sulle previsioni dei piani urbanistici e territoriali comunali, provinciali e regionali.

Poi, in base all’art. 10, comma 1, della legge 19/2010: i Comuni potevano adeguare la suddetta delibera comunale (introducendo più restrizioni oppure più deroghe) limitatamente alle novità contenute nella legge 19/2010, entro il termine perentorio di quarantacinque giorni dalla data della sua entrata in vigore, vale a dire che la delibera comunale di adeguamento doveva essere approvata, a pena di decadenza, entro il 14 febbraio 2011.

Ovviamente per stabilire le effettive possibilità di realizzare gli ampliamenti e le demolizioni e ricostruzioni con ampliamento è necessario tenere conto - accanto alle disposizioni della L.R. 22/2009, modificata dalla L.R. 19/2010 – delle disposizioni delle suddette delibere comunali.

La presentazione di nuove domande e l’eventuale modificazione delle domande

già presentate (art. 10, commi 2 e 3, della L.R. 19/2010) Una volta trascorso il suddetto termine di 45 gg., vale a dire dopo il 14 febbraio

2011, possono essere presentate le nuove domande per gli interventi di ampliamento e di demolizione e ricostruzione.

Ugualmente, una volta trascorso tale termine di 45 gg., cioè sempre dopo il 14 febbraio 2011, le domande presentate sulla base della originaria legge regionale 22/2009 possono essere modificate in adeguamento alle nuove disposizioni della L.R. 19/2010.

Il termine finale (art. 9, comma 2, della L.R. 22/2009, come modificato dalla L.R.

19/2010).

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Le domande (per realizzare singoli interventi edilizi) o gli strumenti urbanistici di iniziativa privata devono essere presentati al Comune territorialmente competente a partire dal 15 febbraio 2011 e comunque entro e non oltre il 30 giugno 2012 (prima la scadenza era fissata al 31 maggio 2011), a pena di decadenza dal relativo diritto.

Assenza di un termine per gli strumenti urbanistici di iniziativa pubblica Come

accadeva con la l.r. 22/2009, non è previsto un termine per la presentazione degli strumenti urbanistici di iniziativa pubblica. La mancata previsione di un termine ha la seguente giustificazione: la necessità di un successivo piano di iniziativa pubblica (dopo il 30 giugno 2012) può essere determinata dalla presentazione, fino al 30 giugno 2012, di molte domande e piani di iniziativa privata che richiederanno una più organica sistemazione attraverso un piano di iniziativa pubblica.

Gli edifici oggetto degli interventi di ampliamento e di demolizione e

ricostruzione (nuovo art. 4, comma 1) devono essere edifici ultimati alla data del 31 dicembre 2008 oppure (novità) devono essere edifici in corso di ristrutturazione.

Edifici ultimati: ai sensi dell’art. 4, comma 1, per edifici ultimati si intendono quelli così definiti dall’art. 31, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, che, a sua volta, stabilisce “si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente”.

Possiamo aggiungere che “l'esecuzione del rustico” va riferita al completamento di tutte le strutture essenziali del fabbricato, tra le quali vanno annoverate le tamponature esterne, che determinano l'isolamento dell'immobile dalle intemperie e configurano l'opera nella sua fondamentale volumetria (Cons. Stato, Sez. V, 2 ottobre 2000, n. 5216; TAR Campania, Salerno, Sez. II, 27 gennaio 2011, n. 121).

Edifici in corso di ristrutturazione: l’art. 4, comma 1, utilizza una nozione molto ampia di edifici in corso di ristrutturazione che, pertanto comprende non soltanto gli edifici ristrutturati per effetto della L.R. 22/2009, ma tutti gli edifici che – per le più svariate ragioni – possono considerarsi in corso di ristrutturazione al momento della presentazione della domanda di realizzazione dell’ampliamento o della demolizione e ricostruzione con ampliamento.

PARAMETRI URBANISTICO EDILIZI E DEFINIZIONI DEGLI

INTERVENTI EDILIZI. Per i parametri urbanistico edilizi e per le definizioni degli interventi edilizi, si deve

fare riferimento alla normativa statale, regionale e comunale in materia urbanistico-edilizia vigente al momento di entrata in vigore della L.R. 19/2010.

Ad esempio, per la definizione di edificio ci si deve riferire all’art. 13, lettera bb), del regolamento edilizio tipo regionale (RET) o dei regolamenti edilizi comunali, che sono obbligatoriamente adeguati al RET. Così si esprime anche l’Atto di indirizzo approvato dalla Giunta regionale relativamente alla L.R. 22/2009.

L’art. 13, lettera bb) stabilisce: per fabbricato o edificio, “si intende qualsiasi costruzione coperta, comunque infissa al suolo con le più svariate tecnologie, isolata da vie e spazi vuoti, oppure separata da altre costruzioni mediante muri maestri che si elevano, senza soluzioni di continuità, dalle fondamenta al tetto, che disponga di uno o più liberi accessi sulla via e abbia una o più scale autonome. Per fabbricato residenziale si intende quel fabbricato o quella parte di fabbricato destinato esclusivamente o prevalentemente ad abitazione; per fabbricato non residenziale si intende quel fabbricato o quella parte di

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fabbricato destinato esclusivamente o prevalentemente ad uso diverso da quello residenziale”.

Fermo restando quanto appena detto, c’è una novità sugli ampliamenti. Infatti, in base all’art. 13, lettera cc), del RET, per ampliamento: “si intende l'ulteriore costruzione in senso orizzontale o verticale di abitazioni o di vani in un fabbricato già esistente”.

A questo concetto, basato sull’ampliamento come modificazione volumetrica, il nuovo art. 1, comma 8 bis, introdotto dalla legge 19/2010, aggiunge: “L’ampliamento di cui al presente articolo può essere realizzato anche in assenza di modifica della sagoma dell’edificio esistente”. Ad esempio, viene realizzato all’interno dell’edificio un soppalco che aumenta la superficie utile senza aumentare la volumetria e senza incidere sulla sagoma dell’edificio esistente.

Per TAR Lazio, Roma, Sez. I, 18 gennaio 2011, n. 379 la realizzazione di un soppalco (nella fattispecie di mt. 4,80 x 3,70) comporta un aumento della superficie utile, deve essere qualificata come intervento di ristrutturazione edilizia che, ai sensi degli artt. 3 e 10 del D.P.R. n. 380/2001, necessita del permesso di costruire (così anche TAR Campania, Napoli n. 9607/2009; Cass. penale n. 42539/2008).

Al riguardo è importante il rilevante aumento della superficie utile. Per TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 14 gennaio 2011, n. 168, un modesto soppalco,

destinato ad uso deposito o ripostiglio, all'interno di un'unità abitativa di un esercizio commerciale, per ottenere la duplice utilizzazione di un vano, non è idoneo ad incidere sul carico urbanistico della costruzione cui accede; un simile soppalco, secondo la giurisprudenza (TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 20 aprile 2010, n. 2040; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 10 dicembre 2007, n. 15871; TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 11 aprile 2007, n. 3329) è, di regola, opera che, non comportando aumento di volume né aumento della superficie utile, né modifica della destinazione d'uso dell'immobile, non è riconducibile alla categoria della ristrutturazione edilizia, bensì a quella della manutenzione straordinaria.

GLI INTERVENTI DI AMPLIAMENTO (ART. 1) Cumulabilità degli ampliamenti. Nell’atto di indirizzo approvato dalla Giunta

regionale relativamente alla L.R. 22/2009, si affermava: ulteriori capacità edificatorie o eventuali ampliamenti sugli edifici previsti dagli strumenti urbanistici comunali non sono cumulabili con quelli previsti dagli artt. 1 e 2 della legge. Resta sempre realizzabile l'eventuale quota residuale, rispetto alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali, decurtata della quota di ampliamento già realizzata in applicazione della L.R. 22/2009.

Adesso, invece, il nuovo art. 4, comma 2, stabilisce: gli ampliamenti previsti dalla presente legge possono essere realizzati in aggiunta agli incrementi volumetrici eventualmente previsti dagli strumenti urbanistici generali comunali e non ancora utilizzati dagli aventi diritto.

E’ appena il caso di notare che la possibilità di cumulare gli incrementi volumetrici previsti dagli strumenti urbanistici generali comunali con gli incrementi volumetrici previsti dalla L.R. 19/2010 vale sia per gli ampliamenti di cui all’art. 1, sia per le demolizioni e ricostruzioni con ampliamento di cui all’art. 2.

I commi 1, 1bis e 2 dell’art. 1 riguardano gli edifici residenziali. Nuovo comma 1: “E’ consentito l’ampliamento degli edifici residenziali nei limiti

del 20 per cento della volumetria esistente per edificio o per ogni singola unità immobiliare. L’ampliamento di cui al presente comma non può comunque comportare un aumento superiore ad una unità immobiliare rispetto a quelle esistenti.

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Nuovo comma 1 bis: “Per le unità abitative residenziali ubicate in zona agricola, l’ampliamento di cui al comma 1 è consentito sino ad un incremento complessivo massimo di 200 metri cubi”.

Prima, in base alla L.R. 22/2009, era stato fissato il limite dell’incremento complessivo massimo non superiore a 200 mc. per tutti gli edifici residenziali, adesso questo limite vale solo per le unità abitative residenziali in zona agricola. Invece, per le unità abitative residenziali, diverse da quelle agricole, viene fissato un nuovo limite: l’ampliamento non può comunque comportare un aumento superiore ad una unità immobiliare rispetto a quelle esistenti.

Nasce anche il problema di definire le “unità abitative residenziali in zona agricola”. Sono soltanto le residenze vere e proprie o comprendono anche la casa dell’imprenditore agricolo a titolo professionale?

A mio avviso comprendono anche la casa dell’imprenditore agricolo a titolo professionale. Infatti, l’art. 17, comma 3, lettera a), del DPR 380/2001 (testo unico dell’edilizia) fa riferimento agli interventi da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell’imprenditore agricolo a titolo professionale.

In sintesi, in base ai nuovi commi 1 e 1 bis, ci sono due situazioni: 1) edifici residenziali ubicati in tutte le zone, tranne quelle agricole: è possibile

ampliare fino al 20% della volumetria esistente per edificio o per ogni singola unità immobiliare. L’ampliamento non può comunque comportare un aumento superiore ad una unità immobiliare rispetto a quelle esistenti;

2) unità abitative residenziali ubicate in zona agricola, è possibile ampliare fino al 20% della volumetria esistente sino ad un incremento complessivo massimo di 200 metri cubi. Se si rispettano questi limiti in zona agricola, l’ampliamento potrebbe comunque comportare un aumento superiore ad una unità abitativa rispetto a quelle esistenti.

Altra questione: il comma 1 dell’art. 1 utilizza il concetto di unità immobiliare. Che cosa dobbiamo intendere per unità immobiliare ? Il catasto fabbricati considera l’unità immobiliare come la sua unità base. Ma per il

catasto fabbricati l’unità immobiliare urbana (UIU) è una porzione di fabbricato, un intero fabbricato o un insieme di fabbricati che, nello stato in cui si trova, è di per se stesso in grado di produrre un reddito indipendente.

UIU corrispondenti a porzioni di fabbricato sono ad esempio gli appartamenti, i negozi o le autorimesse che, pur non occupando un fabbricato intero, possono produrre un reddito proprio.

Esempi di UIU rappresentate da interi fabbricati sono ville, villini, scuole e alberghi. UIU costituite da un insieme di fabbricati, infine, sono ad esempio le industrie e gli

ospedali. Sempre per il catasto fabbricati un’UIU deve avere - un’ autonomia di reddito - e un’ autonomia funzionale. Il concetto catastale di unità immobiliare può essere di aiuto, ma non è decisivo: in

genere, la giurisprudenza considera irrilevante, sotto il profilo urbanistico, la ripartizione catastale (ad esempio, Consiglio Stato, Sez. IV, 21 settembre 2009, n. 5637).

Probabilmente, il legislatore regionale ha considerato l’unità immobiliare come sinonimo di appartamento e questo criterio può andare bene nella maggior parte dei casi.

Però, può anche presentarsi l’ipotesi di dover ampliare del 20%, ai sensi dell’art. 1, comma 1, un fabbricato di enormi dimensioni e sarà difficile sostenere che non si può realizzare più di un appartamento.

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Comma 2 dell’art. 1: resta identico “Per gli edifici residenziali di cui al comma 1, aventi una superficie complessiva

inferiore a 80 mq, l’ampliamento è consentito fino al raggiungimento della superficie utile netta prevista per gli immobili di cui al comma 3 dell’art. 16 della legge 5 agosto 1978, n. 457”.

Rimane valido quanto affermato nell’Atto di indirizzo approvato dalla Giunta regionale relativamente alla L.R. 22/2009, secondo il quale il limite al quale fa riferimento il comma 2 riguarda gli edifici residenziali, ed è quello di mq. 95 di superficie, misurata al netto dei muri perimetrali e di quelli interni, oltre a mq. 18 per autorimessa o posto macchina; tale limite deve intendersi riferito al singolo edificio, anche se lo stesso è costituito da più unità immobiliari.

Il comma 2 contiene una previsione speciale rispetto alla disposizione di cui al comma 1; pertanto l’obiettivo del raggiungimento dei suddetti mq. 95 oltre a mq. 18 per autorimessa o posto macchina, può comportare un ampliamento dell’edificio anche oltre il limite del 20 per cento della volumetria esistente.

Non a caso il comma 2 dispone che, per gli edifici residenziali di cui al comma 1, l’ampliamento è consentito fino al raggiungimento dei suddetti mq. 95 ecc.

Il comma 2 resta identico, però adesso il nuovo comma 1 riguarda tutti gli edifici residenziali, tranne quelli in zona agricola per i quali c’è il nuovo comma 1 bis.

E’ possibile raggiungere i mq. 95, oltre a mq. 18 per autorimessa o posto macchina, per eventuali mini edifici presenti in zona agricola (caso raro, ma in pratica presente) ?

La risposta è positiva: il comma 2 riguarda tutti gli edifici residenziali, ivi compresi quelli presenti nelle zone agricole; non a caso il nuovo comma 1 bis è dedicato alle nuove unità abitative residenziali in zona agricola.

Per quanto riguarda le modalità di calcolo delle superfici di cui al comma 2, prima

bisogna individuare la superficie complessiva dell’edificio (secondo il REC, la superficie complessiva SC= SUL + 60% superfici accessorie), poi si può definire la Superficie Utile Netta finale (secondo la definizione data del comma 3 dell'art. 16 della legge 457/1978).

I commi 3 e 4 dell’art. 1 riguardano gli edifici non residenziali. Per gli edifici non residenziali, l’Atto di indirizzo approvato dalla Giunta

regionale affermava: in ogni caso l’ampliamento previsto dalla legge non riguarda eventuali pertinenze separate dall’edificio non residenziale, ma solo quest’ultimo.

In realtà, è necessario riconoscere che - se le pertinenze separate costituiscono edifici o fabbricati in base alla definizione fornita dall’art. 13, lettera bb) del RET – l’ampliamento o la demolizione e ricostruzione con ampliamento è possibile anche per esse.

Titolo abilitativo edilizio per gli ampliamenti e per le demolizioni e ricostruzioni

con ampliamento degli edifici non residenziali. Resta valido quanto indicato dall’atto di indirizzo approvato dalla Giunta regionale: si

può fare riferimento alla vigente normativa urbanistica che consente l’approvazione di ampliamenti di un insediamento produttivo (inteso nella sua valenza più ampia, dunque è produttiva anche una attività ricettiva, un laboratorio artigianale, una attività commerciale, art. 1 DPR 447/1998), attraverso l’attivazione della procedura dello Sportello Unico per le Attività Produttive, ai sensi dell’art. 5 del DPR 447/1998 (al quale subentrerà, a partire dal 30 settembre 2011, la disciplina contenuta nel DPR 7 settembre 2010, n. 160).

Comma 3 dell’art. 1: subisce alcune modifiche e risulta ora così formulato: “E’ consentito l’ampliamento degli edifici non residenziali ubicati nelle zone

omogenee a destinazione industriale, artigianale, direzionale, commerciale e agricola di cui al

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D.M. 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, ecc.), nel rispetto della normativa statale e regionale in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, nei limiti del 20% della superficie utile lorda (SUL). L’ampliamento che comporta anche l’incremento dell’altezza dell’edificio, in deroga ai regolamenti edilizi e alle previsioni dei piani urbanistici e territoriali comunali, provinciali e regionali, è consentito nei limiti del 20% della superficie utile lorda (SUL)”.

Sono state soppresse: la necessità di motivare l’ampliamento “in base a specifiche esigenze produttive” e i limiti di 400 mq. e di 100 mq.

In sintesi: gli edifici non residenziali ubicati nelle zone omogenee a destinazione industriale, artigianale, direzionale, commerciale e agricola, nel rispetto della normativa statale e regionale in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, possono essere ampliati nei limiti del 20% della SUL. Questo ampliamento è consentito anche se si verifica un incremento dell’altezza dell’edificio, in deroga ai regolamenti edilizi e alle previsioni dei piani urbanistici e territoriali comunali, provinciali e regionali.

Resta valido quanto affermato dal citato Atto di indirizzo sul fatto che gli edifici non residenziali sono stati suddivisi in due “categorie”, rispettivamente indicate nei commi 3 e 4 dell’art. 1. La suddivisione è stata effettuata a seconda delle zone omogenee in cui si trovano gli edifici non residenziali, e proprio la collocazione nell’una o nell’altra categoria determina le possibilità di ampliamento in mq. (zone omogenee a destinazione industriale, artigianale, direzionale, commerciale e agricola) o in mc. (zone B e C).

Il comma 4 dell’art. 1, in apparenza, non subisce variazioni e recita: “Per gli edifici non residenziali ubicati in zone omogenee con destinazione diversa da

quelle previste al comma 3 (in pratica, si tratta degli edifici non residenziali situati nelle zone B e C), purché conformi alla destinazione della zona in cui sono situati, l’ampliamento è consentito ai sensi del comma 1”.

Pertanto, gli edifici non residenziali ubicati nelle zone omogenee B e C, possono essere ampliati nei limiti del 20 per cento della volumetria esistente.

E’ necessario anche tenere conto del fatto che nel comma 1 non c’è più il limite dei 200 mc., mentre è stato introdotto il limite che l’ampliamento non può comportare un aumento superiore ad una unità immobiliare rispetto a quelle esistenti.

C’è da chiedersi che cosa possa significare il limite di una sola, ulteriore, unità immobiliare per l’ampliamento degli edifici non residenziali nelle zone B e C.

Considerato che le zone B e C sono zone tipicamente residenziali (a volte non esclusivamente residenziali), l’ampliamento dell’edificio non residenziale potrebbe essere accompagnato da una modifica della destinazione d’uso purché conforme alle previsioni dello strumento urbanistico generale comunale, da non residenziale a residenziale, che conduce alla realizzazione di un ulteriore appartamento.

La modifica della destinazione d’uso, in conseguenza degli ampliamenti, è ammissibile, perché il comma 4 dell’art. 1 stabilisce: ““Per gli edifici non residenziali ubicati in zone omogenee con destinazione diversa da quelle previste al comma 3 (in pratica, nelle zone B e C), purché conformi alla destinazione della zona in cui sono situati, l’ampliamento è consentito ai sensi del comma 1”.

La possibilità del mutamento della destinazione d’uso è ribadita dal comma 8 dell’art. 1, nella sua parte iniziale: “L’ampliamento di cui al presente articolo è consentito purché preveda il mantenimento della destinazione in atto o la sua modifica conformemente agli strumenti urbanistici in vigore e garantisca il rispetto degli standard urbanistici di cui all’art. 3 del D.M. 1444/1968”.

Il comma 5 dell’art. 1 riguarda gli edifici ubicati in zona agricola, sia quelli

residenziali sia quelli non residenziali, e non è stato modificato dalla L.R. 19/2010

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“Per gli edifici ubicati in zona agricola costruiti prima del 1950, l’ampliamento di cui ai commi precedenti è consentito a condizione che non vengano alterati il tipo edilizio e le caratteristiche architettoniche”.

Bisogna anche collegare il comma 5 al nuovo comma 1 bis dell’art. 1. Pertanto, per l’ampliamento delle unità abitative residenziali in zona agricola, bisogna osservare il limite dei 200 mc., mentre – per le considerazioni fatte in precedenza – non sussiste il limite di una sola, ulteriore, unità immobiliare.

Invece, gli edifici non residenziali in zona agricola – sempre per le considerazioni svolte in precedenza - possono essere ampliati nei limiti del 20 per cento della superficie utile lorda (SUL), senza ulteriori limitazioni.

Il comma 6 dell’art. 1 è stato integrato con alcune aggiunte alla fine. La parte del comma 6, rimasta uguale, stabilisce: “Previa approvazione di apposito piano di recupero, per gli edifici ubicati in zona

agricola che non presentino le caratteristiche di cui all’art. 15, comma 2, della l.r. 8 marzo 1990, n. 13 (si tratta degli edifici nelle zone agricole che, in base ai censimenti comunali, rivestono valore storico e architettonico anche secondo le indicazioni del PPAR), è consentito accorpare all’edificio principale la volumetria degli accessori di pertinenza per una superficie massima di mq. 70, anche mediante mutamento della loro destinazione d’uso.

Seguono le aggiunte dovute alla L.R. 19/2010: “L’accorpamento di cui al presente comma è cumulabile con l’ampliamento previsto al comma 1. Il piano di recupero non è necessario qualora l’accorpamento riguardi la volumetria di un solo accessorio di pertinenza con superficie massima di 70 mq.".

Le aggiunte precisano che l’accorpamento degli accessori di pertinenza è cumulabile con l’ampliamento del 20% della volumetria esistente. La precisazione era già contenuta nell’atto di indirizzo approvato dalla Giunta relativamente alla L.R. 22/2009, ma recepita nella legge regionale acquista più forza.

Le aggiunte escludono la necessità del piano di recupero quando l’accorpamento riguardi la volumetria di un solo accessorio di pertinenza con superficie massima di 70 mq.

C’è da chiedersi se, negli altri casi, il piano di recupero sia sempre indispensabile ai fini dell’accorpamento. La risposta è che il piano di recupero non sempre è necessario.

Infatti, è sempre vigente l’art. 5, comma 4, della L.R. 13/1990, sull’edilizia nelle zone agricole che stabilisce:

“La realizzazione di nuove abitazioni o l'ampliamento delle esistenti può avvenire anche attraverso la trasformazione di annessi agricoli riconosciuti non più necessari alla conduzione del fondo nel rispetto delle disposizioni dell'articolo 4 e del presente articolo”.

Questo articolo della L.R. 13/1990 riguarda solo l’ampliamento o la ricostruzione di abitazioni preesistenti da parte dell’imprenditore agricolo, mentre il comma 6 dell’art. 1 della normativa regionale sul piano casa riguarda non solo le abitazioni ma gli edifici principali in zona agricola.

L’art. 5, comma 4, della L.R. 13/1990 prevede la trasformazione di annessi agricoli riconosciuti non più necessari alla conduzione del fondo, mentre la perdita di collegamento con la conduzione del fondo non è richiesta dalla normativa regionale sul piano casa.

In sostanza, l’art. 5, comma 4, della L.R. 13/1990 per l’accorpamento di annessi agricoli riconosciuti non più necessari alla conduzione del fondo non richiede il piano di recupero.

Se si sceglie la via del piano di recupero, resta fermo quanto contenuto nell’atto di indirizzo approvato dalla Giunta relativamente alla L.R. 22/2009:

“I piani di recupero ai quali si fa riferimento nel comma 6 sono quelli previsti dalla legge 457/1978; poiché la legge prevede espressamente la possibilità della loro redazione, non necessita la preventiva individuazione delle zone di recupero da parte dei Comuni.

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Inoltre poiché i piani di recupero riguarderanno accorpamenti ed eventualmente anche ampliamenti la cui entità è stata direttamente assentita dalla legge, che di diritto (ope legis) opera una variante agli strumenti urbanistici generali vigenti, non necessità l’effettuazione della verifica di assoggettabilità relativa alla Valutazione Ambientale Strategica.

I piani, anche di iniziativa privata dovranno essere presentati entro il 30 giugno 2012 (data aggiornata per effetto dell’ art. 9, comma 2, della L.R. 22/2009, come modificato dalla L.R. 19/2010) e potranno trovare attuazione nei successivi dieci anni. Sempre per quanto riguarda i piani di recupero si evidenzia che per gli aspetti procedurali trovano applicazione le disposizioni della L.R. 34/1992; in particolare si precisa che i piani di recupero (che – come sopra osservato riguardano accorpamenti ed eventualmente anche ampliamenti la cui entità è stata direttamente assentita dalla legge) sono da considerasi conformi agli strumenti urbanistici generali comunali e pertanto per quanto concerne la loro approvazione trovano applicazione i commi 2 e 3 dell’art. 4 della citata L.R. 34/1992 (diretta approvazione comunale).

Altra questione: la superficie massima di 70 mq è da intendere come SUL? In

base al suddetto Atto di indirizzo: la superficie massima alla quale fa riferimento il comma 6 è la superficie utile lorda (SUL).

Sempre in base all’Atto di indirizzo, al fine di rendere coerente con le misurazioni espresse in metri cubi, il parametro espresso in mq. 70 di cui al comma 6, si assume che a mq. 70 di superficie utile lorda corrispondano mc. 200 di volume vuoto per pieno.

Ulteriore questione: Accorpando gli accessori con cambio di destinazione d'uso

all’immobile principale, ai sensi del comma 6 dell’art. 1, si può computare anche l’ampliamento spettante all’accessorio. Ad esempio, se gli accessori da accorpare misurano mq. 60, l’ampliamento loro spettante è di mq. 12 (il 20% di mq. 60); si arriverebbe a 72 mq., però, ai fini dell’accorpamento, come stabilito dalla norma, non si possono accorpare più di mq. 70.

Il comma 7 dell’art 1 resta identico: “L’ampliamento di cui al presente articolo è

finalizzato a realizzare il miglioramento del comportamento energetico secondo quanto stabilito dal decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192”.

Resta, pertanto, valido quanto contenuto nell’Atto di indirizzo della Giunta regionale: “il miglioramento del comportamento energetico è riferito al solo ampliamento e non anche all’edificio esistente; infatti, l’art. 5, comma 1, commisura il miglioramento del comportamento energetico da conseguire relativamente agli interventi di ampliamento, mentre nelle ipotesi di demolizione richiede il miglioramento dell’efficienza energetica dell’intero edificio. Anche l’art. 3, comma 2, lettere b) e c) del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192, conferma l’applicazione limitata ai soli ampliamenti del miglioramento energetico”.

Art. 1, comma 8. Il primo periodo non subisce modifiche e recita: “L’ampliamento di cui al presente articolo è consentito purché preveda il

mantenimento della destinazione in atto o la sua modifica conformemente agli strumenti urbanistici in vigore e garantisca il rispetto degli standard urbanistici di cui all’art. 3 del D.M. 1444/1968”.

Resta pertanto valido quanto contenuto nell’Atto di indirizzo della Giunta regionale: “L’ampliamento può essere abbinato al cambio di destinazione d’uso purché quest’ultima sia conforme alla previsioni urbanistiche; si sottolinea che - ancorché conforme alla previsioni urbanistiche - il cambio di destinazione d’uso ai sensi della presente legge non è ammesso in assenza di un effettivo ampliamento volumetrico e quindi nel caso di soli

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interventi a carattere conservativo (manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia).

Salvo che per gli edifici residenziali ubicati in zona agricola per i quali sussistano le condizioni di cui all’art. 80, comma 9 del R.E.T. ( “Può essere autorizzata un'altezza diversa da quella indicata ai punti precedenti nelle opere di recupero del patrimonio edilizio esistente, sia nel caso che si mantengano altezze già esistenti e sia nel caso di modifiche alle quote originarie dei solai, quando non si proceda ad un incremento del numero dei piani”), i cambi di destinazione d’uso sono comunque subordinati al rispetto dei requisiti igienico sanitari previsti dalla normativa vigente”.

Tuttavia, è necessario aggiungere che il nuovo art. 1 bis prevede specifici requisiti igienico sanitari per il recupero dei sottotetti.

Resta valido il suddetto Atto di indirizzo anche per quanto riguarda gli standard

urbanistici di riferimento. Stabilisce l’atto di indirizzo: “Oltre alla destinazione d’uso conforme alle previsioni

degli strumenti urbanistici il primo periodo del comma 8 impone il rispetto degli standard urbanistici di cui all’art. 3 del D.M. 1444/1968.

Al riguardo occorre precisare che gli standard di cui al citato art. 3 e le specificazioni di cui all’art. 4 del medesimo D.M. vanno osservati – come è reso palese – dalla formulazione di questi articoli per gli insediamenti residenziali, mentre per gli insediamenti produttivi debbono essere rispettati gli standard così come definiti dall’art. 5 del medesimo D.M.

Più disposizioni della legge in esame considerano inderogabili i limiti e gli standard fissati dal citato D.M. e, ovviamente, ciò vale per quanto da esso dettato dagli artt. 3, 4 e 5 relativamente alle diverse zone omogenee.

Poiché la legge fa riferimento alle quantità minime stabilite dal D.M. 1444/68 per il calcolo degli abitanti insediati o da insediare si deve far riferimento a quanto disposto dall'ultimo comma dell'art. 3 del citato D.M. ed inoltre nelle zone territoriali omogenee C non debbono essere garantiti gli ulteriori 3 mq di verde pubblico richiesti dall’art. 21, comma 4 della L.R. 34/1992.

L’Atto di indirizzo prosegue mostrando degli esempi pratici per il corretto calcolo delle superfici a standard.

Art. 1, comma 8. Il secondo periodo subisce alcune modifiche e adesso recita: “Qualora sia accertata dal Comune l’impossibilità di reperire la quantità minima di

aree da destinare ai suddetti standard e non sia possibile soddisfare altrimenti i relativi fabbisogni, i soggetti interessati si obbligano [sono state soppresse le seguenti parole: “mediante convenzione o atto d’obbligo unilaterale”], a corrispondere al Comune medesimo, nei tempi e secondo i criteri e le garanzie fideiussorie da esso stabiliti, una somma pari al valore di mercato di aree con caratteristiche simili a quelle che avrebbero dovuto cedere e comunque non inferiore ai relativi oneri di urbanizzazione. I proventi della monetizzazione sono utilizzati dal Comune per la realizzazione degli interventi previsti nel piano attuativo per i servizi di cui all’art. 20 della L.R. 5 agosto 1992, n. 34, o, in mancanza di detto piano, per l’acquisizione di aree da destinare a standard urbanistici o per migliorare la quantità degli standard esistenti”.

Resta valido quanto previsto dall’Atto di indirizzo della Giunta regionale

relativamente alla L.R. 22/2009: “Sia per gli insediamenti residenziali, sia per gli insediamenti non residenziali, gli

eventuali standard che non possono essere garantiti con la cessione di aree debbono essere monetizzati.

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Gli interventi previsti dalla presente legge creano nuove superfici e nuove volumetrie, a volte, anche nuove destinazioni e, quindi, aumentano il carico urbanistico; pertanto, sono sempre sottoposti all’obbligo della cessione delle aree a standard o, in alternativa, della loro monetizzazione. Non si ritiene legittimo che i nuovi interventi possano incidere gratuitamente su eventuali aree a standard occasionalmente preesistenti, sia per non creare disparità di trattamento rispetto a quanti in precedenza hanno dovuto cedere le aree, sia perché - in seguito alla realizzazione degli interventi previsti dalla legge - le aree interessate possono risultare ben presto sottodimensionate rispetto al fabbisogno complessivo di standard.

Il secondo periodo del comma 8 deve essere inteso nel senso che l’accertamento del Comune dell’impossibilità di reperire la quantità minima di aree da destinare agli standard riguarda non solo gli aspetti quantitativi, ma anche quelli qualitativi, con ciò significando che il Comune dovrà valutare anche l’effettiva fruibilità e funzionalità delle aree che il richiedente sia in condizione di cedere; in caso contrario il Comune potrà e dovrà richiedere la monetizzazione.

A tal fine, i Comuni possono utilizzare, tra gli altri, i seguenti criteri: a) se le aree da cedere siano adeguate rispetto al tipo di standard da realizzare; b) la conformazione delle aree ovvero l’irregolarità del loro perimetro o la loro

frammentazione; c) l’interclusione in aree private o la non agevole accessibilità delle aree oppure la

distanza dalle altre aree a standard; d) la presenza di servitù, impianti (elettrodotti ecc.), o le caratteristiche geologiche o

idrogeologiche che ne rendono difficile l’utilizzazione; e) se la completa cessione delle aree a standard dovute renda impossibile la

realizzazione degli interventi edilizi previsti dalla legge o il loro ordinato inserimento nel contesto circostante.

Di fatto, poiché anche nell’ipotesi di ampliamento massimo di 200 mc. la quantità di aree a standard da garantire risulterebbe al massimo di circa 45 mq. (ridotta a 22,5 mq. nelle zone territoriali omogenee B, ovvero a 15 nelle zone territoriali omogenee E) si ritiene che i Comuni possano stabilire con la delibera prevista dall’art. 9 comma 1 la possibilità di monetizzare sempre e comunque le citate aree a standard.

Il comma 8, laddove stabilisce che l’importo da corrispondere al Comune, a titolo di monetizzazione, “è una somma pari al valore di mercato di aree con caratteristiche simili a quelle che avrebbero dovuto cedere e comunque non inferiore ai relativi oneri di urbanizzazione” si preoccupa esclusivamente di fissare le modalità di determinazione del quantum della monetizzazione e non modifica gli obblighi relativi al contributo di costruzione (composto dagli oneri di urbanizzazione e dal costo di costruzione), i quali sono e restano disciplinati dall’art. 6, peraltro in modo agevolato, per quanti intendono realizzare gli interventi di ampliamento e di demolizione e ricostruzione previsti dalla legge.

Le parole “relativi oneri di urbanizzazione” vanno letteralmente intese quali oneri necessari ad urbanizzare le aree reperite in sostituzione di quelle che gli interessati avrebbero dovuto cedere.

In assenza del comma 8, gli interventi di ampliamento e di demolizione e ricostruzione previsti dalla legge avrebbero potuto essere realizzati soltanto su aree dotate di standard e per detti interventi i soggetti interessati avrebbero corrisposto il contributo di costruzione.

Il comma 8 ha inteso favorire la realizzazione dei suddetti interventi anche in aree carenti di standard, però i soggetti interessati, oltre al contributo di costruzione agevolato di cui all’art.6, debbono corrispondere una somma a titolo di monetizzazione.

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La somma viene determinata dal comma 8 non soltanto in un importo pari al valore di mercato di aree con caratteristiche simili, ma in una somma “comunque non inferiore ai relativi oneri di urbanizzazione”, cioè agli oneri necessari ad urbanizzare l’area da acquistare.

L’importo da corrispondere al Comune è il maggiore tra quello del valore di mercato di aree con caratteristiche simili a quelle che gli interessati avrebbero dovuto cedere e quello degli oneri di urbanizzazione delle aree sostitutive.

Le somme introitate dai Comuni, a titolo di monetizzazione, debbono essere iscritte in capitoli di bilancio vincolati allo specifico utilizzo per la realizzazione di standard”.

Nuovo comma 8 bis dell’art. 1: “L’ampliamento di cui al presente articolo può essere realizzato anche in assenza di

modifica della sagoma dell’edificio esistente”. Ne abbiamo parlato sopra a proposito dei soppalchi alla fine del paragrafo dedicato ai

“Parametri urbanistico edilizi e definizioni degli interventi edilizi”. IL RECUPERO ABITATIVO DEI SOTTOTETTI (ART. 1 bis) L’art. 1-bis è del tutto nuovo: “1. E’ consentito realizzare l’ampliamento di cui all’art. 1, comma 1, anche mediante

recupero a fini abitativi del piano sottotetto purché sia assicurata per ogni singola unità immobiliare l’altezza media non inferiore a 2,40 mt. per gli spazi ad uso abitativo, riducibile a 2,20 mt. per gli spazi accessori e di servizio.

2. Gli interventi di cui al comma 1 sono effettuati, previo rilascio di idoneo titolo abilitativo e fatto salvo quanto previsto nel comma 1, nell’osservanza delle vigenti prescrizioni igienico-sanitarie e di contenimento del consumo energetico e, nell’ipotesi di edifici ubicati nelle zone omogenee A (centri storici) di cui al d.m. 1444/1968, senza alcuna modificazione delle altezze di colmo e di gronda, nonché delle linee di pendenza delle falde.

3. Nell’ambito degli interventi previsti dal comma 1 é possibile, nel rispetto dei caratteri formali e strutturali dell’edificio, aprire finestre, realizzare abbaini ed installare lucernai al fine di reperire la superficie minima di aeroilluminazione.

4. Il piano sottotetto è quello compreso tra il solaio piano di copertura dell’ultimo piano e le falde del tetto. Ai fini del presente articolo le altezze degli edifici e delle fronti nonché il volume e l’altezza media interna del piano sottotetto sono misurati secondo quanto stabilisce l’art. 13 del Regolamento Edilizio tipo della Regione Marche.”.

Art. 13, lettera t), del RET: “Si intende per piano sottotetto quello compreso tra il

solaio piano di copertura dell'ultimo piano e le falde del tetto. Il piano sottotetto è da considerare abitabile ove pur non risultando destinato ad abitazione presenti un'altezza sufficiente per ottenere l'abitabilità, ai sensi del D.M. 5 luglio 1975 [adesso sostituito dall’art. 1 bis della L.R. 19/2010]. Il piano sottotetto è da considerare utilizzabile (e quindi da conteggiare come superficie utile lorda) quando l'altezza netta interna misurata dal piano del pavimento alla linea di colmo o comunque nel punto più alto, all'intradosso del solaio, è superiore al ml. 1,50”.

La questione della compatibilità delle altezze definite dall’art. 1 bis con le

disposizioni del D.M. 5 luglio 1975. In base all’art. 1 del DM del 1975: “1. L'altezza minima interna utile dei locali adibiti ad abitazione è fissata in m 2,70

riducibili a m 2,40 per i corridoi, i disimpegni in genere, i bagni, i gabinetti ed i ripostigli.

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2. Nei comuni montani al di sopra dei m 1000 sul livello del mare può essere consentita, tenuto conto delle condizioni climatiche locali e della locale tipologia edilizia, una riduzione dell'altezza minima dei locali abitabili a m 2,55.”

Sulle altezze nette degli ambienti abitativi e dei vani accessori delle abitazioni,

c’è da ricordare anche l’art. 43 della legge 457/1978 che, però, vale per le nuove costruzioni, mentre, ai sensi del comma 6 del citato art. 43, le sue disposizioni non si applicano per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente.

Bisogna considerare che da diversi anni parecchie leggi regionali hanno ridotto le

altezze medie e minime per ottenere l’abitabilità dei sottotetti. L.R. Basilicata 8/2002, tanto le altezze medie e minime per locali abitativi e servizi

sono fissate a m. 2,40. L.R. Calabria 19/2002, altezze medie tutte a m. 2,20, altezze minime tutte a m. 1,50. L.R. Campania 15/2000, altezze medie tutte a m. 2,40, altezze minime tutte a m. 1,40. L.R. Emilia Romagna 11/98, altezze medie m. 2,40 per gli abitativi e 2,20 per i

servizi, altezze minime tutte a m. 1,80. L.R. Friuli 44/1985, nei centri storici, altezze medie m. 2,20 per gli abitativi e 2,00

per i servizi, altezze minime 1,50 per gli abitativi e 1,40 per i servizi. L.R. Lombardia, altezze medie tutte a m. 2,40, altezze minime tutte a m. 1,50. Hanno ridotto le altezze medie e minime anche le Regioni Liguria, Piemonte, Valle

d’Aosta e Veneto. Pertanto, le leggi regionali possono stabilire altezze in misura diversa da quelle

stabilite dal D.M. del 1975. Già l’art. 80 del RET aveva fissato un’altezza media invece dell’altezza minima e ora la L.R. 19/2010 fissa minori altezze medie.

Recupero del sottotetto e calcolo dell’altezza media. L'altezza media va calcolata per unità immobiliare o per ogni singolo vano? La risposta sta nell’art. 80 del RET, ai sensi dei commi 6 e 8 (con le misure delle

altezze modificate dalla L.R. 19/2010) si calcolano distintamente: a) l'altezza media dei locali destinati alla residenza e b) l'altezza media dei locali destinati a servizi e accessori.

I sottotetti e le distanze. In materia è molto importante quanto affermato da

TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 27 agosto 2010, n. 3240. In sintesi la sentenza contiene le seguenti fondamentali affermazioni: 1) il recupero del sottotetto rientra nel concetto di ristrutturazione pesante. Il

problema è quello di stabilire fino a che punto la ristrutturazione pesante abbia regole diverse dalla nuova edificazione su area libera;

2) relativamente alla distanza dai confini si può ritenere che il recupero del sottotetto comportante sopraelevazione possa avvenire in deroga alle previsioni stabilite negli strumenti urbanistici comunali. La giurisprudenza (Cass. civ., Sez. II, 11 giugno 2008, n. 15527; Cass. civ., Sez. II, 12 gennaio 2005, n. 400; Cass. civ., Sez. II, 27 maggio 2003, n. 8420; Cass. civ., Sez. II, 8 gennaio 2001, n. 200) si attiene alle seguenti regole:

a) la sopraelevazione, comportando nuovo volume, richiede sempre il rispetto della distanza dai confini, indipendentemente dal fatto che in origine vi sia stata prevenzione nei confronti del proprietario confinante;

b) tuttavia la normativa comunale può stabilire se e a quali condizioni sia ammessa la costruzione senza arretramento.

Nel caso del sottotetto è direttamente il legislatore regionale che pone la disciplina (la sentenza si riferisce alla L.R. Lombardia, ma il discorso vale anche per la L.R.

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Marche 19/2010), sovrapponendosi alle scelte dei singoli comuni, con un chiaro favore per la realizzabilità di questo tipo di interventi.

La finalità che emerge dalle norme regionali è di far prevalere su ogni diversa valutazione comunale l’interesse all’insediamento di nuova volumetria residenziale in continuità con le costruzioni sottostanti. Vi è quindi incompatibilità logica con il vincolo della distanza minima dai confini, che potrebbe compromettere l’utilità del recupero del sottotetto e alterare in modo disarmonico la sagoma degli edifici.

Poiché il legislatore regionale si è sostituito ai comuni in una materia nella disponibilità dei comuni stessi non vi sono altre ragioni che si oppongano alla possibilità di sopraelevare lungo il perimetro dell’edificio esistente;

3) la situazione cambia però radicalmente quando la sopraelevazione si collochi di fronte a pareti finestrate. In questo caso la distanza minima di 10 metri prevista (al di fuori della zona A) dall’art. 9, comma 1, n. 2, del DM 1444/1968 costituisce un ostacolo insuperabile. La giurisprudenza ha chiarito che questa norma per la sua genesi (è stata adottata ex art. 41-quinquies, comma 8, della legge 17.08.1942 n. 1150) e per la sua funzione igienico-sanitaria (evitare intercapedini malsane) costituisce un principio inderogabile della materia (come afferma la sentenza l’art. 9 del D.M. 1444/1968, al comma 1,numero 1, stabilisce: “1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale”).

In particolare si tratta di una norma che prevale sia sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze (Corte Costituzionale 16 giugno 2005, n. 232), sia sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei comuni, in quanto deriva da una fonte normativa statale sovraordinata (Cass. civ., Sez. II, 31 ottobre 2006, n. 23495), sia infine sull’autonomia negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che per la loro natura igienico-sanitaria non sono nella disponibilità delle parti (Cons. Stato, Sez. IV, 12 giugno 2007, n. 3094);

4) la Corte costituzionale, sentenza n. 232/2005, afferma al punto 4 che le normative locali (regionali o comunali) possono prevedere distanze inferiori alla misura minima di cui all’art. 9 del D.M. 1444/1968, però fissa precisi limiti (“le deroghe, per essere legittime, devono attenere agli assetti urbanistici e quindi al governo del territorio e non ai rapporti tra vicini isolatamente considerati in funzione degli interessi privati dei proprietari dei fondi finitimi”).

Se ne deduce che l’introduzione di deroghe è consentita solo nell’ambito della pianificazione urbanistica, come nell’ipotesi espressamente prevista dall’art. 9 comma 3 del DM 1444/1968, che riguarda edifici tra loro omogenei perché inseriti in un piano particolareggiato o in un piano di lottizzazione.

(Altra sentenza importante in materia è Cass. civ., Sez. II, 12 gennaio 2005, n. 400) Affinché sia ammissibile il recupero abitativo dei sottotetti, deve esserci un

sottotetto preesistente. Presupposto fondamentale, affinché possa procedersi al recupero abitativo dei

sottotetti è che il sottotetto abbia, fin dalle origini, dimensioni tali da essere praticabile e, con gli aggiustamenti che si renderanno necessari per essere abitabile, possa raggiungere tale abitabilità. Altrimenti si potrebbe avere la sopraelevazione di un piano ulteriore (TAR Lombardia. Milano, Sez. II, 2 aprile 2010, n. 970).

Secondo TAR Lombardia. Milano, Sez. II, 15 aprile 2003, n. 1007, deve escludersi che la semplice presenza di una copertura a falde possa legittimare la creazione di un sottotetto abitabile, anche in assenza di un volume preesistente che risulti già dotato dei requisiti di accessibilità e di praticabilità. L’inaccessibilità esclude a priori ogni utilizzo del

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sottotetto, che va quindi considerato un mero volume tecnico (intercapedine) tra il piano di copertura e il soffitto dell’ultimo piano praticabile.

Un recupero dei sottotetti eccessivo – Inammissibilità della creazione di un

ulteriore piano abitabile. Consiglio Stato, Sez. IV, 4 febbraio 2008, n. 298 (la sentenza è riferita in sintesi) Una società - avvalendosi della legge regionale lombarda che consente la

trasformazione dei sottotetti non abitabili in unità immobiliari ad uso residenziale in deroga agli indici volumetrici posti dallo strumento urbanistico ed alla normativa edilizia sulle altezze e le aperture - ha ricavato un nuovo piano abitabile da un palazzo ubicato nel pieno centro storico di Milano, in via San Paolo 13-15, esattamente alle spalle di Piazza Duomo.

La società, oltre al previsto intervento di recupero del sottotetto mediante la realizzazione di 15 appartamenti (poi eseguiti in 30 mini appartamenti) di diverso taglio e superficie (al 7° piano), ha altresì effettuato l'ulteriore sopraelevazione dell'edificio (8° piano) onde "poter creare un soprastante piano di posa adeguato per i macchinari dell'aria condizionata e locali ascensori", giardino pensile e porticato condominiale.

I motivi di diritto ruotano attorno all'unica questione di fatto se, in sede di recupero abitabile di un sottotetto esistente, siano ammissibili altri interventi nella specie consistiti nella sopraelevazione di un ulteriore piano (così passando da 7 ad 8 livelli) in pretesa esecuzione di soprastanti vani tecnici (estesi all'intera piastra con gli accorgimenti di un giardino pensile e di un porticato condominiale), ma che nella sostanza (per estensione, altezza, struttura, funzione e sagoma) configurano una vera e propria nuova costruzione. (…).

Gli interventi edilizi finalizzati al recupero del sottotetto possono comportare l'apertura di finestre, lucernari, abbaini e terrazzi per assicurare l'osservanza dei requisiti di aeroilluminazione.

Da ciò deriva, pertanto, che le modifiche di altezza e volumetria, ai sensi della citata normativa regionale, sono ammissibili solo laddove strettamente necessarie a rendere abitabili i predetti volumi, con conseguente esclusione di quelle trasformazioni, che si sostanzino nella creazione di nuove volumetrie, che vengano in qualsiasi modo ad eludere (o, meglio, ad eccedere) lo scopo unico, cui il legislatore regionale ha funzionalizzato le modifiche medesime.

Vale a dire che la ristrutturazione edilizia di un sottotetto non può dare luogo ad un'ulteriore sopraelevazione di piano, altrimenti si entra nel regime ordinario delle edificazioni, specie quanto a volumi ed altezze.

Recupero del sottotetto e condominio TAR Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 19 luglio 2010, n. 541. Il Responsabile del procedimento del Settore Urbanistica ed Edilizia del Comune di

Tortoreto aveva sospeso la richiesta di permesso di costruire per il recupero del sottotetto avanzata dalla ditta ricorrente (proprietaria dell'ultimo piano del fabbricato in condominio e comproprietaria del tetto, quale parte comune di detto condominio), sul rilievo che l'intervento avrebbe comportato una rilevante alterazione dell'estetica e della sagoma del tetto di proprietà condominiale,... "per le quali è necessario acquisire la preventiva approvazione dell'assemblea dei condomini".

Afferma il TAR: ai fini della soluzione della controversia è dirimente il disposto dell'art. 1102 c.c.: "ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa".

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La regola codicistica che disciplina l'uso delle cose comuni attribuisce chiaramente a ciascun comproprietario la facoltà di apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa.

Ne discende che proprio alla luce della norma codicistica richiamata il diritto di realizzare finestre sul tetto comune va riconosciuto a ciascuno dei comproprietari, a condizione che l'iniziativa non comporti una rilevante alterazione dell'estetica e della sagoma del tetto, dovendosi in caso contrario necessariamente subordinare l'intervento al consenso degli altri condomini.

È vero che sul punto la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha di recente (Sez. IV, 4 maggio 2010, n. 2546) avuto modo di precisare che "nell'ambito del condominio, il comproprietario/condomino, proprietario di un piano sottostante alla cosa comune (nella specie, trattasi di tetto comune), può inserire su di essa finestre, abbaini ed ascensore (caso di specie), che non siano incompatibili con la sua destinazione naturale e purché le opere siano eseguite a regola d'arte e non pregiudichino la funzione del bene comune (nella specie, funzione propria di copertura del tetto), né ledano i diritti degli altri condomini sul medesimo"; è, del pari vero che, nel caso di specie, l'intervento che emerge dal progetto, modifica in modo consistente il tetto condominiale.

Cass. Civ., Sez. II, 27 luglio 2006, n. 17099 ha affermato che il condomino

proprietario del piano sottostante al tetto comune può aprire su di esso degli abbaini e delle finestre per dare aria e luce alla sua proprietà, senza necessità della previa approvazione dell'assemblea perché costituiscono modifiche e non innovazioni vere e proprie, le quali sono configurabili solo per nuove opere che immutano la sostanza o alterano la destinazione delle parti comuni, in quanto ne rendono impossibile l'utilizzazione secondo la funzione originaria e che devono pertanto essere deliberate dall'assemblea nell'interesse di tutti i condomini.

GLI INTERVENTI DI DEMOLIZIONE E RICOSTRUZIONE (ART. 2) L’art. 2 della L.R. 22/2009 è stato sostituito integralmente dalla L.R. 19/2010. Resta comunque valido quanto affermato dall’Atto di indirizzo della Giunta

regionale: “gli interventi di cui alla L.R. 22/2009 sono consentiti anche nel caso in cui lo strumento urbanistico comunale e/o i piani attuativi prevedano la possibilità di demolire più edifici e la ricostruzione di un minore numero di edifici. L’incremento della volumetria del 35% (adesso la misura è modificata dal nuovo art. 2, comma 2), si applicherà quindi sull’edificio o sugli edifici nuovi da realizzare”.

Art. 2, commi 1, 2 e 3. Prima per la demolizione e ricostruzione degli edifici residenziali c’era il solo comma

1 dell’art. 2. Adesso per la demolizione e ricostruzione degli edifici residenziali ci sono i primi tre commi del nuovo art. 2 che fissano le seguenti caratteristiche:

“1. È consentita la demolizione anche integrale e la ricostruzione degli edifici residenziali, (appare la precisazione che prima non c’era: con esclusione di quelli ubicati in zona agricola e presenti nella cartografia IGM 1892/1895), che necessitano di essere rinnovati e adeguati sotto il profilo della qualità architettonica (prima c’era in alternativa anche la necessità di adeguamento o rinnovo sotto il profilo della sicurezza antisismica, che però riappare in qualche modo più avanti) con eventuale ampliamento della volumetria esistente da demolire. Poi appaiono le seguenti novità: “E’ ammessa la ricomposizione planivolumetrica anche con forme architettoniche diverse da quelle preesistenti o con eventuale modifica, nell’ambito del lotto originario, dell’area di sedime dell’edificio preesistente e della sagoma. Nelle zone agricole il nuovo edificio potrà essere realizzato entro un raggio di 100 ml. dall’area di sedime di quello preesistente e la

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ricostruzione deve avvenire secondo il tipo edilizio e le caratteristiche edilizie storiche. In ogni caso, gli interventi debbono prevedere il mantenimento della destinazione in atto (questo mantenimento della destinazione in atto era previsto anche del previgente art. 2, mentre appare la precisazione) o la sua modifica conformemente agli strumenti urbanistici in vigore, (poi vengono confermati alcuni requisiti che c’erano anche nel previgente art. 2) migliorare la sicurezza antisismica ai sensi del d.m. 14 gennaio 2008 (Approvazione delle nuove norme tecniche per le costruzioni) in caso di demolizione e ricostruzione parziale, conseguire l’adeguamento sismico in caso di demolizione e ricostruzione totale e migliorare l’efficienza energetico-ambientale degli edifici (non viene riconfermato il requisito dell’utilizzazione di fonti energetiche rinnovabili).

2. L’ampliamento di cui al comma 1 è consentito: a) nel limite del 30 per cento della volumetria esistente da demolire, qualora si

ottenga un aumento del 15 per cento dell’efficienza energetica dell’edificio rispetto ai parametri fissati dal d.lgs. n. 192/2005 e dal d.p.r. 2 aprile 2009 n. 59 (Regolamento di attuazione dell’articolo 4, comma 1, lettere a) e b) del d.lgs. 192/2005);

b) nel limite del 40 per cento della volumetria esistente da demolire, qualora si raggiunga il punteggio 2 della versione sintetica del Protocollo Itaca Marche.

Nella precedente versione dell’art. 2 c’era il limite del 35 per cento della volumetria esistente da demolire, definito attraverso il raggiungimento degli scaglioni di punteggio stabiliti dalla Giunta regionale in base alla versione sintetica del protocollo ITACA Marche.

3. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche agli edifici residenziali, realizzati successivamente al 1° gennaio 1950, ubicati nelle zone territoriali omogenee A che presentino caratteristiche architettoniche, storiche, paesaggistiche ed ambientali non coerenti con il contesto storico e architettonico in cui si inseriscono. In tal caso l'ampliamento é consentito nei limiti ed alle condizioni di cui al comma 2 e previa presentazione di un piano particolareggiato di recupero approvato dal Comune. L’intervento previsto nel presente comma è altresì consentito nel rispetto del tipo edilizio e delle caratteristiche storiche ed architettoniche degli altri edifici della zona”.

Sull’IGM 1892/1895. Come si è detto, il comma 1 esclude la demolizione anche

integrale e la ricostruzione degli edifici residenziali ubicati in zona agricola e presenti nella cartografia IGM 1892/1895.

Tuttavia, resta in vigore anche l’art. 1, comma 2, della L.R. 33/1990: “Ai fini della presente legge sono considerati edifici rurali di carattere storico e architettonico quelli inclusi nell'elenco del comma 2 dell'art. 15 della L.R. 8 marzo 1990, n. 13 "Norme edilizie per il territorio agricolo" e, fino alla sua redazione da parte dei comuni, quelli inclusi nella carta IGM 1892-1895, il cui valore architettonico sia attestato, con perizia giurata, dal tecnico progettista”.

Pertanto, se i Comuni hanno effettuato il censimento degli edifici in zona agricola, i risultati di questo censimento, a mio avviso, prevalgono sulle risultanze dell’IGM 1892/1895. Infatti, i risultati del censimento comunale sono molto più aggiornati e precisi dei dati ricavabili dalla vecchia IGM.

Il nuovo comma 1 dell’art. 2 prevale chiaramente su quanto era contenuto nell’Atto di

indirizzo della Giunta regionale come avvertenza generale sull’art. 2 e che escludeva la demolizione dell’edificio esistente e la sua ricostruzione, anche con ampliamento, in un’altra area.

Per la demolizione e ricostruzione degli edifici non residenziali ci sono i commi 4,

5 e 6 dell’art. 2, prima c’erano i commi 2, 3 e 4 del previgente art. 2.

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Il comma 4 dell’art. 2 è abbastanza complesso e conviene esaminarlo distintamente in base ai periodi che contiene.

Il primo periodo del comma 4 dell’art. 2 è identico a quello che era il primo periodo del vecchio comma 2:

“È consentita la demolizione anche integrale e la ricostruzione degli edifici non residenziali che necessitano di essere rinnovati ed adeguati sotto il profilo della qualità architettonica o della sicurezza antisismica”.

Per gli edifici non residenziali in zona agricola, a prima vista, non è ripetuta l’esclusione di quelli risultanti dall’IGM 1892/1895. Però, è necessario tenere presente che l’art. 4, comma 5, lettera g), esclude dagli interventi di ampliamento e di demolizione e ricostruzione con eventuale ampliamento: gli edifici censiti ai sensi degli artt. 15, comma 3 e 40 delle NTA del PPAR, nonché dell’art. 15, comma 2, della L.R. 8 marzo 1990, n. 13 (Norme edilizie per il territorio agricolo), sottoposti a restauro e a risanamento conservativo. Per i Comuni privi di strumento urbanistico adeguato al PPAR il divieto è riferito agli edifici presenti nella carta IGM 1892/1895.

Il secondo periodo del comma 4 dell’art. 2 è identico a quello che era il secondo

periodo del vecchio comma 2 soltanto nella parte iniziale: “Gli interventi di cui al presente comma devono migliorare la sicurezza antisismica ai

sensi del d.m. 14 gennaio 2008 in caso di demolizione e ricostruzione parziale, conseguire l’adeguamento sismico in caso di demolizione e ricostruzione totale, migliorare la sostenibilità energetico-ambientale degli edifici stessi (fin qui c’è l’identità, poi il nuovo comma 4, secondo periodo prosegue) ai sensi del comma 1, fatta eccezione per quelli non soggetti al rispetto dei limiti imposti dal d.lgs. 192/2005”.

Sul miglioramento sismico e sull’adeguamento sismico le indicazioni fornite dal comma in esame non sono decisive: sulla normativa regionale prevalgono le indicazioni della normativa statale in materia di sicurezza sismica. Pertanto, anche in determinati casi di demolizione e ricostruzione parziale, potrà essere richiesto l’adeguamento sismico.

La DGR 1338/2010. Le linee di indirizzo della DGR 1338/2010 ricordano che, in

caso di sopraelevazione ed ampliamento, il DM 14 gennaio 2008, contenente le nuove norme tecniche per le costruzioni in zone sismiche, obbliga l’adeguamento sismico della struttura esistente, qualunque sia il materiale da utilizzare per la costruzione dell’opera progettata.

Le linee di indirizzo della DGR 1338/2010 individuano una serie di opere che non sono considerate sopraelevazioni ai sensi dell’art. 90 del DPR 380/2001 e per le quali, di conseguenza, non è necessaria la previa certificazione del competente ufficio provinciale del Genio civile.

Seguono 7 casi accompagnati dai rispettivi schemi grafici. Nel secondo periodo del comma 4 dell’art. 2, non c’è il richiamo agli scaglioni di

punteggio, che però appare successivamente, non è più richiesta – a differenza di prima - l’utilizzazione di fonti energetiche rinnovabili. Appare, invece la precisazione, che gli edifici non soggetti al rispetto dei limiti imposti dal d.lgs. 192/2005 non devono migliorare la propria sostenibilità energetico-ambientale.

L’art. 3 del d.lgs 192/2005: al comma 2: prevede, nel caso di ristrutturazione di edifici esistenti e per quanto

riguarda i requisiti minimi prestazionali, un'applicazione graduale in relazione al tipo di intervento. Più precisamente distingue casi di: a) applicazione integrale a tutto l'edificio; b)

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applicazione integrale, ma limitata al solo ampliamento dell'edificio; c) una applicazione limitata al rispetto di specifici parametri, livelli prestazionali e prescrizioni;

al comma 3: esclude dall'applicazione dello stesso d.lgs 192/2005 le seguenti categorie di edifici e di impianti:

a) gli immobili ricadenti nell'ambito della disciplina della parte seconda e dell'art. 136, comma 1, lettere b) e c), del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante il codice dei beni culturali e del paesaggio nei casi in cui il rispetto delle prescrizioni implicherebbe una alterazione inaccettabile del loro carattere o aspetto con particolare riferimento ai caratteri storici o artistici;

b) i fabbricati industriali, artigianali e agricoli non residenziali quando gli ambienti sono riscaldati per esigenze del processo produttivo o utilizzando reflui energetici del processo produttivo non altrimenti utilizzabili;

c) i fabbricati isolati con una superficie utile totale inferiore a 50 metri quadrati; c-bis) gli impianti installati ai fini del processo produttivo realizzato nell'edificio,

anche se utilizzati, in parte non preponderante, per gli usi tipici del settore civile. Il terzo periodo del comma 4 dell’art. 2 è molto simile al terzo periodo del

vecchio comma 2 dell’art. 2. “È consentito il mutamento della destinazione d’uso degli edifici non residenziali,

ubicati nelle zone omogenee B o C di cui al d.m. 1444/1968, non più utilizzati (spariscono - unica novità di questo periodo - le parole “per finalità produttive) prima del 1° gennaio 2007, a condizione che esso sia compatibile con la destinazione di zona prevista dagli strumenti urbanistici e garantisca il rispetto degli standard urbanistici di cui all’art. 3 del d.m. 1444/1968, ovvero l’intervento rientri in un programma di riqualificazione urbanistica ai sensi della l.r. 23 febbraio 2005, n. 16 (Disciplina degli interventi di riqualificazione urbana e indirizzi per le aree produttive ecologicamente attrezzate).

Il quarto e ultimo periodo del comma 4 dell’art. 2 è identico al quarto e ultimo

periodo del vecchio comma 2 dell’art. 2. “In ogni caso, il mutamento della destinazione d’uso non è ammesso per gli edifici

ubicati nelle zone omogenee a destinazione agricola, industriale, artigianale, direzionale e commerciale di cui al d.m. 1444/1968”.

Poiché tutto il comma 4 è dedicato agli edifici non residenziali, anche il divieto di mutamento di destinazione d’uso relativamente agli edifici ubicati nelle zone omogenee a destinazione agricola, industriale, artigianale, direzionale e commerciale opera nei confronti degli edifici non residenziali. Chiaramente in queste zone saranno nettamente prevalenti gli edifici non residenziali, però sicuramente capiterà anche il caso pratico di qualche edificio residenziale.

Questione: Zone agricole. Per gli interventi di demolizione e ricostruzione con

ampliamento degli edifici non residenziali situati in zona agricola, l’art. 2, comma 4, della L.R. 22/2009, non ammette il mutamento di destinazione d’uso.

Invece la L.R 13/1990 ammette il mutamento di destinazione d’uso. L’art. 6, comma 3, della L.R. 13/1990 stabilisce: “Le variazioni delle destinazioni d'uso sono ammesse fermo restando quanto previsto dall'ultimo comma dell'art. 10 della legge 10/1977, a condizione che gli edifici stessi non siano più utilizzati per la conduzione del fondo e che tali variazioni non siano contrastanti con le specifiche normative degli strumenti urbanistici comunali vigenti”.

Esiste dunque una contraddizione tra L.R. 13/1990 e L.R. 22/2009 sul mutamento di destinazione d’uso e abbastanza legittimamente verranno presentate richieste di mutare la destinazione d’uso di un edificio in base alla L.R. 13/1990 e successivamente

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(purché la domanda sia presentata entro il 30 giugno 2012) di procedere alla demolizione e ricostruzione con ampliamento in base alla L.R. 22/2009.

Bisognerà, tuttavia, verificare se esistono disposizioni comunali più restrittive. Infatti, l’art. 1, comma 3, della L.R. 13/1990 dispone: “Le norme della presente legge prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici comunali e dei regolamenti edilizi. Sono fatte comunque salve le normative comunali eventualmente più restrittive di quelle previste dalla presente legge e le prescrizioni contenute nel Piano Paesistico Ambientale regionale”.

Esistono sentenze che si occupano di ristrutturazioni edilizie e addirittura urbanistiche di notevole dimensione in zona agricola, in genere ritenendole ammissibili: TAR Lombardia, Brescia, 31 marzo 2006, n. 354; TAR Umbria, 30 dicembre 2003, n. 1073; TAR Umbria n. 648/2003.

Il comma 5 dell’art. 2 è notevolmente diverso dal vecchio comma 3 dell’art. 2. “L’eventuale ampliamento degli edifici di cui al comma 4, ubicati nelle zone

omogenee a destinazione industriale, artigianale, direzionale, commerciale e agricola di cui al d.m. 1444/1968, è consentito, nel rispetto della normativa statale e regionale in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, nei seguenti limiti:

a) 30 per cento della superficie utile lorda da demolire, qualora si ottenga un aumento del 15 per cento dell’efficienza energetica dell’edificio rispetto ai parametri fissati dal d.lgs. n. 192/2005 e dal d.p.r. 59/2009;

b) 40 per cento della superficie utile lorda da demolire, qualora si raggiunga il punteggio 2 della versione sintetica del Protocollo Itaca Marche”.

Il comma 6 dell’art. 2 è identico al comma 4 del previgente art. 2. Cambia

soltanto la numerazione dei commi di riferimento, data la nuova struttura dell’art. 2. “Per gli edifici non residenziali ubicati in zone omogenee con destinazione diversa da

quelle di cui al comma 5 (in sostanza ubicati nelle zone B e C), purché conformi alla destinazione della zona in cui sono ubicati, gli ampliamenti sono consentiti nei limiti di cui al comma 2”.

Del tutto nuovo è quanto contenuto nel comma 7 dell’art. 2: “Nei casi di demolizione e ricostruzione con ampliamento di cui al presente articolo

la distanza dai confini o dai fabbricati è rispettata con riferimento alla sola parte che costituisce ampliamento o sopraelevazione del preesistente edificio”.

Bisogna fare attenzione al comma 7, perché finora la giurisprudenza è stata di orientamento contrario.

Il comma 7 sopra esaminato ha molti punti in comune con l’art. 38, comma 3, della L.R. Friuli Venezia Giulia 19/2009, in base al quale:

“Gli interventi di ristrutturazione edilizia possono essere attuati contestualmente a interventi di ampliamento all’esterno della sagoma e sedime esistenti. In tali casi, le prescrizioni previste per le nuove costruzioni dagli strumenti urbanistici vigenti o adottati si applicano esclusivamente alle parti dell’immobile oggetto di effettivo incremento dimensionale relativamente al sedime, alla sagoma, al volume e all’altezza. Tali interventi non possono comunque derogare agli indici e ai parametri massimi previsti dagli strumenti urbanistici per l’area oggetto di intervento”.

In sintesi per la normativa della L.R. Friuli, agli interventi di ristrutturazione edilizia con demolizione totale e contestuale ampliamento dovrebbero essere applicabili le norme per le nuove costruzioni relativamente alla parte di edificio non corrispondente con quella preesistente.

Invece per TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 1 ottobre 2007, n. 5831: “La conservazione della distanza preesistente, inferiore alla distanza minima tra fabbricati

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prescritta dal d.m. n. 1444 del 1968, può ritenersi ammissibile nei soli casi di demolizione e ricostruzione fedele (quantomeno nelle medesime dimensioni esterne), configurandosi in tal caso non una nuova costruzione, ma un recupero edilizio realizzato con una serie di interventi assimilabili alla manutenzione straordinaria; nessuna deroga è ammissibile, viceversa, nel caso in cui, previa demolizione di un edificio preesistente, venga ricostruito al suo posto un fabbricato completamente diverso”.

Per TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 4 maggio 2010, n. 1220: la distanza minima tra edifici di cui al D.M. 1444/1968 trova applicazione in caso di nuove costruzioni e non in caso di ristrutturazione mediante demolizione di edificio esistente e costruzione nel rispetto del volume e della sagoma originari, con mantenimento dell’originaria distanza (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.04.2007 n. 1991 e Cass. Civ., sez. II, 27.10.2009, n. 22689).

Per Cons. Stato, Sez. IV, 12 marzo 2009, n. 1491: “Deve rammentarsi che questo Consesso ha già affermato che l’art. 9 D.M. 2 aprile 1968 n. 1444, che pone l’inderogabile distanza minima assoluta di 10 metri tra costruzioni, trae dall’art. 41 quinquies L. 17 agosto 1942 n. 1150 la forza di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché la distanza tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, prederminata con carattere cogente in via generale ed astratta in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima essendo consentita alla Pubblica amministrazione solo la fissazione di distanze superiori (Cons. di Stato, sez. V, n.6399/2006). In particolare l’applicazione dell’art. 9 alla fattispecie edilizia dell’aumento di volume di un edificio esistente si spiega con l’evidente “ratio” di tutelare le posizioni soggettive del confinante, il quale subisce la vicinanza alla medesima distanza originaria di un fabbricato però maggiormente ingombrante, destinatario di un intervento che non può essere collocato nella categoria delle ristrutturazioni con fedele ricostruzione, ma che, rientrando piuttosto in quella della costruzione “ex novo”, deve rispettare la distanza minima stabilita dal cennato art. 9, nella sua cennata valenza integrativa. L’interpretazione contraria, privilegiata dal Comune, comporterebbe peraltro che, successivamente al varo di uno strumento urbanistico conforme al DM n.1444, si pervenga ad una regolamentazione derogatoria che in origine non avrebbe potuto essere adottata ed approvata”.

Qualche novità nel comma 8 dell’art. 2 “Agli interventi di cui al presente articolo si applica quanto previsto all’art. 1, commi

6 e 8.”. La novità sta nell’applicabilità dell’art. 1, comma 6: vale a dire che è possibile

accorpare gli accessori di pertinenza agli edifici ubicati in zona agricola che non presentino le caratteristiche di cui all’art. 15, comma 2, della l.r. 8 marzo 1990, n. 13. L’accorpamento, di regola, avviene previo piano di recupero.

In base all’Atto di indirizzo della Giunta regionale, il riferimento all’art. 1 comma 8 riguarda gli standard e la loro possibile monetizzazione e non il mutamento di destinazione d’uso.

In realtà è più conforme sia alla lettera della legge sia alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali, ritenere che si possa effettuare la demolizione e ricostruzione e contestualmente modificare la destinazione d’uso di un edificio non residenziale adeguandosi allo strumento urbanistico.

INTERVENTI SU OPERE PUBBLICHE E PATRIMONIO IMMOBILIARE

DELLA REGIONE, DEGLI ENTI LOCALI E DEGLI ERAP (ART. 3). L’art. 3 non subisce alcuna modifica ad opera della L.R. 19/2010.

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“1. Gli interventi di cui agli artt. 1 e 2 della presente legge sono consentiti anche per gli edifici destinati a opere pubbliche o di pubblica utilità, compresi gli edifici di edilizia residenziale pubblica, nonché per gli immobili di proprietà della Regione, degli enti locali e delle aziende del servizio sanitario regionale inseriti nel piano delle alienazioni e valorizzazioni di cui all’art. 58 del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133.

2. Gli interventi di cui al presente articolo devono in ogni caso prevedere il miglioramento dell’efficienza energetica e l’utilizzazione di fonti energetiche rinnovabili, nonché il miglioramento o l’adeguamento della sicurezza antisismica degli edifici secondo le previsioni degli artt. 1 e 2. Il piano delle alienazioni e valorizzazioni può prevedere il mutamento di destinazione d’uso degli edifici pubblici, ai sensi dell’art. 58, comma 2, del d.l. 112/2008.

3. Gli interventi relativi alle sedi istituzionali della Regione e degli enti locali, agli asili nido, alle scuole di ogni ordine e grado, agli impianti sportivi di base o polivalenti di proprietà pubblica, in uso a una o più scuole, anche aperti all’utilizzazione da parte della collettività, in quanto attrezzature di interesse generale, sono consentiti anche nelle aree di cui all’art. 4, comma 5, lettere a) e b).

4. Sono consentiti, previo accordo di programma tra gli ERAP ed i Comuni interessati, interventi di demolizione anche integrale e ricostruzione di immobili di edilizia residenziale pubblica di proprietà degli ERAP o dei Comuni, con eventuale ampliamento nel limite del 50 per cento della volumetria esistente”.

Attualmente, il piano comunale delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari

deve tenere conto dell’art. 26 ter della L.R. 34/1992, inserito dall'art. 1 della l.r. 21 gennaio 2011, n. 2.

Ad esempio, il comma 1 di detto art. 26 ter dispone: “1. Il piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari del comune di cui all’art. 58

del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, ecc.), convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133, qualora determini una nuova destinazione urbanistica dei beni ivi inseriti ovvero comporti modifiche volumetriche di tali beni superiori al 10 per cento dei volumi previsti dallo strumento urbanistico generale, costituisce variante allo strumento urbanistico generale medesimo ed è sottoposto alla verifica di conformità da parte della Provincia competente, ai sensi dell’art. 26 della presente legge”. Ecc.

L’Atto di indirizzo della Giunta regionale sulla L.R. 22/2009, a proposito dell’art.

3, comma 4, stabilisce che il comma si riferisce agli immobili di proprietà degli ERAP o dei Comuni. La disposizione non è limitata ai casi in cui gli ERAP o i Comuni sono proprietari esclusivi degli immobili, ma comprende anche i casi in cui in ottemperanza alle leggi sulla alienazione di appartamenti di edilizia residenziale pubblica, parte degli appartamenti siano stati alienati e una parte prevalente dell’edificio, vale a dire superiore al 50%, sia rimasta di proprietà ERAP o comunali.

L’incremento del 50 per cento della volumetria esistente va riferito alla parte di proprietà pubblica e l’ERAP o il Comune definiscono le modalità di intervento sentiti i proprietari privati degli appartamenti.

Però c’è da dubitare – data la lettera della legge e l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge – che l’incremento del 50% si riferisca soltanto alla parte di proprietà pubblica, ma risulta più corretto ritenere che tale incremento riguardi l’intero edificio, compresa la parte di proprietà privata.

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L’AMBITO DI APPLICAZIONE (ART. 4) L’articolo 4 subisce parecchie modifiche, a cominciare dal comma 1. “1. Gli interventi di cui alla presente legge riguardano gli edifici (novità: in corso di

ristrutturazione o quelli) ultimati alla data del 31 dicembre 2008 e sono consentiti, per quanto riguarda le altezze, la densità edilizia, le volumetrie, il numero dei piani e gli altri parametri urbanistico-edilizi individuati dai Comuni con l’atto di cui all’art. 9, comma 1, in deroga ai regolamenti edilizi e alle previsioni dei piani urbanistici e territoriali comunali, provinciali e regionali. La presente legge specifica i casi in cui dette deroghe non sono consentite. Per edifici ultimati si intendono quelli così definiti dall’art. 31, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie). Restano comunque fermi, salvo quanto previsto al comma 2, i limiti inderogabili di altezza e di distanza tra i fabbricati stabiliti dal d.m. 1444/1968, ivi inclusi quelli stabiliti dagli strumenti urbanistici ai sensi dell’art. 8, comma 1, numero 4), del decreto ministeriale medesimo”.

Stando a quanto stabilito dall’ultima parte del comma 1 dell’art. 4, sono

inderogabili i limiti di altezza e di distanza stabiliti dal D.M. 1444/1968. Pertanto, dovrebbero essere derogabili i limiti di densità edilizia stabiliti dal medesimo decreto e ciò potrebbe avere un senso, visto che la L.R. 22/2009, come modificata dalla L.R. 19/2010, prevede ampliamenti di edifici esistenti nonché demolizioni e ricostruzioni con ampliamento.

Per quanto riguarda le distanze legali, bisogna osservare che la giurisprudenza

ammette l'acquisto per usucapione del diritto al mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme del codice civile o da quelle dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali.

Per TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 14 maggio 2010, n. 1733: il diritto di ottenere la riduzione in pristino di un immobile costruito senza il rispetto delle distanze legali non si estingue per il decorso del tempo ma subisce gli effetti dell'usucapione, in quanto quest’ultimo istituto può dar luogo all'acquisto di un contrario (e prevalente) diritto a mantenere la costruzione a distanza inferiore a quella legale.

Per Cassazione, Sez. II, 22 febbraio 2010, n. 4240: in materia di violazione delle distanze legali tra proprietà confinanti, deve ritenersi ammissibile l'acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme del codice civile o da quelle dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali.

Sulle distanze dai confini, la giurisprudenza ammette la derogabilità. Ad esempio TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 19 ottobre 2007, n. 6128, afferma: “La

giurisprudenza ha infatti precisato che le norme sulle distanze dei fabbricati contenute nel D.M. n. 1444/1968, a differenza di quelle sulle distanze dai confini, derogabili mediante una convenzione tra privati, hanno carattere pubblicistico ed inderogabile, in quanto dirette, più che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi generali in materia urbanistica (TAR Liguria, Sez. I, n. 1711/2006).

Sulla deroga alla distanza di mt. 10 tra pareti finestrate TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 8 febbraio 2008, n. 399, afferma: la previsione sulla

distanza minima di m. 10, contenuta nell’art. 9 del D.M. 2 aprile 1968 prevale generalmente su eventuali disposizioni contrastanti di provenienza comunale (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 6909/2005).

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Tuttavia nel menzionato art.9 è altresì contemplata la possibilità di una deroga alla citata distanza nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche.

Nella fattispecie su cui si pronuncia il TAR si era in presenza di una previsione comunale di m. 4,60 come distacco minimo, contenuta nella tavola C degli standard edilizi, oggetto di studi particolareggiati per le zone omogenee B1 e B2, a cui rimandava l’art. 7 delle NTA del Programma di fabbricazione.

(Afferma sempre il TAR) orbene i suindicati studi, costituendo per le cennate zone e per ciascun isolato all’interno delle stesse, uno sviluppo delle previsioni del piano urbanistico generale, in quanto consentono in concreto l’esplicarsi di una attività edilizia - per il tramite di titoli abilitativi – secondo precise indicazioni tipologiche, planovolumetriche, altimetriche e di ubicazione, svolgono nel caso in esame una funzione analoga ai piani attuativi.

In materia bisogna ricordare: a) l’art. 21, commi 5 e 6, della L.R. 34/1992: “5. Per le distanze minime tra fabbricati si applica l'articolo 9 del DM 1444/1968.

Sono fatte salve le maggiori distanze stabilite per le zone sismiche. 6. Minori distanze tra fabbricati e dalle strade sono ammesse nei casi di gruppi di

edifici che formano oggetto di piani urbanistici attuativi planivolumetrici o per interventi puntuali disciplinati dal piano regolatore generale”.

b) l’art. 41 quinquies, comma 6, della legge urbanistica nazionale 1150/1942: “Nei Comuni dotati di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione,

nelle zone in cui siano consentite costruzioni per volumi superiori a tre metri cubi per metro quadrato di area edificabile, ovvero siano consentite altezze superiori a mt. 25, non possono essere realizzati edifici con volumi ed altezze superiori a detti limiti, se non previa approvazione di apposito piano particolareggiato o lottizzazione convenzionata estesi alla intera zona e contenenti la disposizione planivolumetrica degli edifici previsti nella zona stessa”.

Comma 2 dell’art. 4: subisce modificazioni: “Gli interventi di cui alla presente legge, purché non vengano superati i limiti di

incremento rispettivamente stabiliti dagli artt. 1 e 2, comportano anche l’applicazione delle deroghe previste dalla normativa statale, regionale e dai regolamenti edilizi in merito alle distanze minime tra edifici e alle distanze minime di protezione del nastro stradale, nonché alle altezze massime degli edifici, nel rispetto delle disposizioni di cui all’art. 11 del d.lgs. 30 maggio 2008, n. 115 (Attuazione della direttiva 2006/32/CE relativa all’efficienza degli usi finali dell’energia e i servizi energetici e abrogazione della direttiva 93/76/CEE) e alla l.r. 17 giugno 2008, n. 14 (Norme per l’edilizia sostenibile). Poi segue la novità: “Gli ampliamenti previsti dalla presente legge possono essere realizzati in aggiunta agli incrementi volumetrici eventualmente previsti dagli strumenti urbanistici generali comunali e non ancora utilizzati dagli aventi diritto”.

Per l’applicazione del comma 2 dell’art. 4 è importante l’allegato 4 alla

Deliberazione della Giunta regionale 11 maggio 2009, n. 760. La delibera di Giunta (pubblicata nel Bur 22 maggio 2009, n. 49) ha ad oggetto “Lr n.

14/2008 “Norme per l’edilizia sostenibile”- art. 14, comma 2, lett. a): “Linee guida per la valutazione energetico -ambientale degli edifici residenziali”, ecc.

L’allegato 4 contiene l’atto di indirizzo: interpretazione dell'art. 8 della legge regionale n.14/2008 in coerenza con l'art.11 del decreto legislativo 115/2008.

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In particolare, l’allegato 4 riconosce il ruolo essenziale del decreto legislativo 115/2008 perche consente di derogare anche a quanto previsto dalle normative nazionali in merito alle distanze minime tra edifici, alle distanze minime di protezione del nastro stradale, nonché alle altezze massime degli edifici e alle distanze dai confini. E' sufficiente pensare che la normativa statale consente di derogare anche all'art. 873 cod. civ. e al DM 1444/1968, deroghe che non sarebbero state possibili in forza della sola normativa regionale.

Il comma 2 dell'art. 11 del decreto legislativo 115/2008, per gli interventi di riqualificazione energetica di edifici esistenti, consente di derogare in merito alle distanze minime tra edifici e alle distanze minime di protezione del nastro stradale, nella misura massima di 20 cm. per il maggiore spessore delle pareti verticali esterne, nonché alle altezze massime degli edifici, nella misura massima di 25 cm., per il maggior spessore degli elementi di copertura. La deroga può essere esercitata nella misura massima da entrambi gli edifici confinanti.

In ogni caso, non è possibile derogare Ie prescrizioni in materia di sicurezza stradaIe e antisismica (comma 5 dell'art. 11 del decreto legislativo 115/2008).

Pertanto anche i maggiori spessori permessi dai commi 1, 2 e 3 dell'art. 11 della L.R. 14/2008 possono essere realizzati nei limiti dei 25 cm per gli elementi verticali e Ie coperture, nonché di 15 cm per gli elementi orizzontali intermedi.

In base alla L.R. 14/2008 i volumi tecnici non vanno computati nella volumetria e l’allegato 4 specifica cosa intendere per volumi tecnici in coerenza con la Circolare del Ministero dei Lavori pubblici n. 2474 del 31 gennaio 1973. Inoltre, per i volumi tecnici, è ammessa la deroga anche alle altezze degli edifici e alle distanze da strade e fabbricati.

Zone agricole - Nuovo comma 2-bis dell’art. 4 “2 bis. Gli interventi di cui alla presente legge comportano la deroga di tutti i

parametri urbanistico-edilizi previsti dalla l.r. 13/1990, fatta eccezione per l’altezza massima degli edifici in relazione alla loro destinazione d’uso e per le distanze che debbono essere osservate dagli allevamenti di tipo industriale”.

Sulla base del citato comma 2 bis, si possono stabilire quali siano i parametri urbanistico edilizi di cui alla L.R. 13/1990 effettivamente derogabili.

Gli articoli di seguito indicati in questo paragrafo sono quelli della L.R. 13/1990: a) art 3, comma 3, la costruzione di un solo fabbricato abitativo il cui volume

complessivo va commisurato alle esigenze della famiglia coltivatrice, senza mai superare i 1.000 mc. fuori terra. Si può derogare ai 1.000 mc.;

b) art. 3, comma 4, le costruzioni di cui all’art. 4 devono avere le seguenti caratteristiche: a) altezza massima ml. 7,50 (non derogabile), misurati a valle per i terreni in declivio; b) distanza minima dai confini di ml. 20 (derogabile);

c) art. 8, attrezzature e infrastrutture necessarie per il diretto svolgimento dell'attività agricola, come silos, serbatoi idrici, depositi per attrezzi, macchine, fertilizzanti, sementi e antiparassitari, ricoveri per bestiame, devono avere le seguenti caratteristiche: a) una superficie coperta proporzionata alle esigenze dell'impresa e comunque non superiore a 200 mq. (derogabile), salvo maggiori esigenze documentate nel piano o nel programma aziendale; b) essere poste a distanza dal fabbricato adibito ad abitazione di almeno ml. 10 (derogabile, però bisogna tenere conto dell’art. 9 del D.M. 1444/1968 sulle distanze tra pareti finestrate); c) svilupparsi su un solo piano (derogabile) e rispettare l'altezza massima di ml. 4,50 (non derogabile) con esclusione dei camini, silos ed altre strutture le cui maggiori altezze rispondono a particolari esigenze tecniche; nei terreni in declivio le costruzioni possono svilupparsi su una altezza massima di ml. 5.50 (non derogabile) misurati a valle; d) avere un volume massimo non superiore all'indice di fabbricabilità fondiaria di 0,03 mc/mq. nel caso in cui siano separate dalle abitazioni, e rientrare nella

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cubatura massima ammessa per l'edificio adibito ad abitazione, nel caso in cui vengano realizzate in aderenza o nell'ambito di quest'ultimo;

d) art. 9, comma 2, le costruzioni per allevamenti devono avere le seguenti caratteristiche: b) rispettare le seguenti distanze minime (non derogabili): dai confini di ml. 40; dal perimetro dei centri abitati di ml. 500, estesa a ml. 1.000 per gli allevamenti di suini; dal più vicino edificio residenziale non rientrante nel complesso aziendale di ml. 100; c) svilupparsi su un solo piano (derogabile) e rispettare l'altezza massima (non derogabile) di ml. 4,50 misurata a valle per i terreni in declivio; sono fatte comunque salve le diverse altezze che rispondono a particolari esigenze tecniche; d) avere un volume massimo non superiore all'indice di fabbricabilità fondiaria di 0,5 mc/mq. (derogabile);

e) art. 10, commi 5 e 6, serre. Le serre con copertura stabile devono altresì rispettare un indice massimo di utlizzazione fondiaria di 0,5 mc/mq. (derogabile). Entrambi i tipi di serre (stabili e stagionali) devono avere le seguenti caratteristiche: a) distanze minime non inferiori a ml. 5 dalle abitazioni esistenti nello stesso fondo e a ml. 10 da tutte le altre abitazioni (derogabili, però bisogna tenere conto dell’art. 9 del D.M. 1444/1968 sulle distanze tra pareti finestrate); b) distanze minime non inferiori a ml. 5 dal confine di proprietà (derogabili, però bisogna tenere conto dell’art. 9 del D.M. 1444/1968 sulle distanze tra pareti finestrate);

f) art. 11, Costruzioni per la lavorazione, conservazione, trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli e per industrie forestali devono rispettare le seguenti prescrizioni: a) avere un volume non superiore all'indice di fabbricabilità fondiaria di 1 mc/mq (derogabile); b) osservare le distanze minime dai confini di ml. 20 derogabile e dalle abitazioni ricadenti nel complesso aziendale di ml. 10. (derogabile, però art. 9 DM 1444/1968);

g) art. 12, tutte le costruzioni da realizzare in zona agricola dovranno rispettare le distanze dalle strade stabilite dal decreto del Ministro dei lavori pubblici 1 aprile 1968, in relazione all'importanza delle stesse (non derogabile) salvo l'ipotesi di cui alla lettera a), comma 2, dell'art. 10 (serre stagionali) e i casi previsti dalla L.R. 21 maggio 1975, n. 34. Nelle zone dichiarate sismiche si osservano per le altezze e le distanze tra i fabbricati, le norme più restrittive eventualmente stabilite dalla legislazione vigente (non derogabile).

Sull’indice di 0,03 mc/mq per le nuove abitazioni in zona agricola. L’Atto di indirizzo della Giunta regionale relativamente alla L.R. 22/2009 afferma: si

evidenzia che i limiti di densità edilizia stabiliti dal D.M. 1444/68 potranno essere derogati (e questo, ad esempio, permetterà di consentire molti interventi in zona agricola che altrimenti sarebbero stati impossibili), mentre rimangono inderogabili quelli di altezza e di distanza tra fabbricati, salvo quanto previsto al successivo comma, ovvero che rimangono comunque valide le deroghe previste dall’art. 11 del D.L.gs. 115/2008 e dall’art. 8 della L.R. 14/2008 relative ai cosiddetti extraspessori necessari per il miglioramento dell’efficienza energetica. (…). In ogni caso, come espressamente stabilito dalla legge, non potranno essere derogate le distanze tra fabbricati stabilite dal D.M 1444/68; per quanto riguarda le distanze dai confini non potranno in ogni caso essere pregiudicati eventuali diritti di terzi, sempre per quanto riguarda le distanze dai confini sono comunque fatte salve eventuali distanze inferiori previste dagli strumenti urbanistici o dai regolamenti edilizi (es. possibilità di allineamenti a fronti preesistenti, etc.).

Sulla legge regionale 34/1975 e sul fronte stradale La legge regionale 34/1975 consente soltanto opere di: manutenzione ordinaria e

straordinaria, compreso il consolidamento; dotazione di servizi igienici e copertura di scale esterne; ampliamento, quando ciò sia necessario, per rendere abitabile l'immobile, sotto il

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profilo igienico - sanitario, con una superficie massima di mq 30. Questo ampliamento non deve comportare l'avanzamento dell'edificio esistente sul fronte stradale.

La L.R. 34/1975 non parla della ristrutturazione edilizia, ma occorre subito notare che, all’epoca della sua entrata in vigore, la legislazione statale e regionale non utilizzava ancora il concetto di ristrutturazione edilizia.

Su questa problematica si può citare un parere reso dal Servizio legislativo della Giunta regionale delle Marche in data 22 luglio 2003, indirizzato al Dirigente del Servizio Urbanistica e Cartografia della Regione e al Sindaco del Comune di Castignano che pone in luce diversi elementi importanti.

In primo luogo, gli interventi consentiti dall’articolo unico della L.R. 34/1975 “vanno letti alla luce della disciplina degli interventi di recupero degli edifici esistenti di cui all’art. 31 della legge 5 agosto 1978, n. 457 (ora art. 3 del DPR 6 giugno 2001, n. 380), consistono pertanto in quelli di manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia…”.

In secondo luogo, il parere pone in evidenza che gli interventi di ristrutturazione edilizia possono essere eseguiti anche con la demolizione dell’edificio e sua ricostruzione”.

Infine il parere conclude: “E’ pertanto possibile, ai sensi della L.R. 34/1975, eseguire un intervento di ristrutturazione edilizia di un edificio esistente all’interno di una fascia di rispetto di una strada (sia essa statale, provinciale o comunale) mediante la sua totale demolizione e la sua ricostruzione ad una maggiore distanza dalla strada all’interno della fascia di rispetto della stessa. Ciò infatti non comporta l’avanzamento dell’edificio sul fronte stradale e garantisce una maggiore sicurezza alla strada ed a coloro che andranno ad abitare nell’edificio così ristrutturato”.

Questa impostazione trova conferma in una sentenza del TAR Veneto, Sez. II, 22 aprile 2003, n. 2407, in un caso di un ricorso proposto da alcuni proprietari contro l’A.N.A.S. – Ente Nazionale Strade e nei confronti di Autostrade – Concessioni e Costruzioni Autostrade S.p.A.

Afferma la sentenza “E’, infatti, possibile ricondurre un intervento di demolizione e successiva ricostruzione nell’ambito della disciplina della ristrutturazione edilizia, così come dettata in base all’art. 31, lettera d) della L. n. 47/85, nella sola ipotesi in cui il nuovo edificio sia fedele rispetto al preesistente per sagoma, volumi e collocazione.

Occorre, quindi, che il manufatto sul quale si svolgono gli interventi rimanga il medesimo per forma, volume ed altezza, in quanto il risultato della ristrutturazione può bensì essere un “organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”, purché però la diversità sia dovuta ad interventi comprendenti il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi del manufatto oppure l’eliminazione, la modifica o l’inserimento di nuovi elementi, non già quando la modifica comporti la realizzazione di nuovi volumi”.

Prosegue la sentenza, quando invece la ristrutturazione comporta un incremento di volume rispetto al preesistente, non è possibile configurare l’intervento quale ristrutturazione, bensì quale nuova edificazione. In caso di nuova edificazione si applica il divieto assoluto di edificazione per le zone assoggettate al vincolo di rispetto autostradale imposto ex D.M. 1.4.1968, quale è quella sulla quale è sorta la nuova costruzione, a nulla rilevando a tale riguardo la collocazione della parte dell’edificio realizzata in ampliamento.

Commi 3 e 4 dell’art. 4 della L.R. 22/2009: non subiscono modificazioni da parte

della L.R. 19/2010. “3. Su uno stesso edificio gli interventi di cui agli articoli 1 e 2 non sono tra loro

cumulabili. L’edificio che ha usufruito nel periodo di efficacia della presente legge di uno di detti interventi non può ulteriormente usufruire di interventi di ampliamento o di demolizione e ricostruzione con ampliamento.

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4. Per gli edifici costituiti da più unità immobiliari appartenenti a diversi proprietari, gli interventi di cui alla presente legge sono consentiti nel rispetto delle norme che disciplinano, a seconda delle situazioni giuridiche coinvolte, la comproprietà o il condominio negli edifici”.

Questione: nel caso di condominio deve esprimersi l'assemblea di condominio? La questione deve tenere conto dell’art. 1120 del codice civile, dedicato alle

“Innovazioni”: “I condomini, con la maggioranza indicata dal comma 5 dell'art. 1136 [le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni devono essere sempre approvate con un numero di voti che rappresenti la maggioranza dei partecipanti al condominio e i due terzi del valore dell'edificio], possono disporre tutte le innovazioni dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni.

Sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino”.

Per la differenza tra “semplici modificazioni” e “innovazioni” dell’edificio in

condominio si richiama quanto detto nella parte finale del paragrafo relativo al “Recupero abitativo dei sottotetti”.

Questione: che cosa può fare il proprietario dell'ultimo piano dell'edificio o il

proprietario esclusivo del lastrico solare? Art. 1127 del codice civile (Costruzione sopra l'ultimo piano dell'edificio): “Il

proprietario dell'ultimo piano dell'edificio può elevare nuovi piani o nuove fabbriche, salvo che risulti altrimenti dal titolo. La stessa facoltà spetta a chi è proprietario esclusivo del lastrico solare. La sopraelevazione non è ammessa se le condizioni statiche dell'edificio non la consentono.

I condomini possono altresì opporsi alla sopraelevazione, se questa pregiudica l'aspetto architettonico dell'edificio ovvero diminuisce notevolmente l'aria o la luce dei piani sottostanti.

Chi fa la sopraelevazione deve corrispondere agli altri condomini un'indennità pari al valore attuale dell'area da occuparsi con la nuova fabbrica, diviso per il numero dei piani, ivi compreso quello da edificare, e detratto l'importo della quota a lui spettante. Egli è inoltre tenuto a ricostruire il lastrico solare di cui tutti o parte dei condomini avevano il diritto di usare”.

Comma 5 dell’art. 4: subisce parecchie modificazioni. “Gli interventi di cui alla presente legge non sono ammessi: a) nelle zone A (centri storici) di cui al d.m. 1444/1968, fatto salvo quanto previsto

dall’art. 1 bis (recupero abitativo dei sottotetti) e dal comma 3 dell’art. 2 (demolizione e ricostruzione con ampliamento di edifici residenziali, realizzati successivamente al 1° gennaio 1950, ubicati nelle zone territoriali omogenee A che presentino caratteristiche architettoniche, storiche, paesaggistiche ed ambientali non coerenti con il contesto storico e architettonico in cui si inseriscono);

b) la lettera b) è abrogata, prima stabiliva: nelle aree di tutela integrale dei piani regolatori comunali adeguati al Piano paesistico ambientale regionale (PPAR). Per i Comuni privi di strumento urbanistico adeguato, si osservano le norme relative agli ambiti di tutela integrale definite dallo stesso PPAR. Però bisogna vedere il successivo comma 5 bis;

c) per quanto riguarda le individuazioni contenute nel (sui piani di bacino bisogna tenere conto anche del successivo comma 5 ter):

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1) piano stralcio di bacino per l’assetto idrogeologico dei bacini di rilievo regionale: nella fascia di territorio inondabile assimilabile a piene con tempi di ritorno fino a duecento anni dei principali corsi d’acqua dei bacini regionali, nelle aree di versante in dissesto AVD_P2 (soppressa), AVD_P3 e AVD_P4 e nelle aree di versante interessate da valanghe a rischio molto elevato AVV_R4;

2) piano stralcio di bacino per l’assetto idrogeologico del bacino interregionale Marecchia-Conca: nelle fasce di territorio con probabilità di esondazione corrispondenti a piene con tempo di ritorno di duecento anni e nelle aree di versante in condizione di dissesto;

3) piano stralcio di bacino per l’assetto idrogeologico del fiume Tronto: nelle aree di versante a pericolosità molto elevata H3 e nelle aree a rischio elevato o molto elevato di inondazione, E3 ed E4;

4) piano stralcio di bacino per l’assetto idrogeologico del fiume Tevere: le zone individuate a rischio molto elevato per fenomeni franosi, R4;

d) per gli immobili ricadenti nelle zone di cui alle lettere a), b) e c) del comma 2 dell’art. 12 della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette) dei parchi e delle riserve naturali (seguono le novità:) ad eccezione di quelli per i quali i piani dei parchi prevedono interventi di recupero mediante ristrutturazione edilizia o demolizione e ricostruzione. In tal caso l’ampliamento consentito dalla presente legge non si somma a quello eventualmente previsto dai suddetti piani;

e) sulle aree dichiarate inedificabili per legge, per sentenza, per provvedimento amministrativo, per contratto o per atto d’obbligo unilaterale (seguono le novità:) ad eccezione di quelli di cui all’atto unilaterale d’obbligo così come previsto al comma 1 dell’art. 14 della l.r. 13/1990; [stabilisce detto art. 14, comma 1: Il rilascio della concessione edilizia per gli interventi di cui ai precedenti artt. 4 e 5 è subordinato alla istituzione di un vincolo a "non aedificandi" su tutte le aree dell'azienda, anche ricadenti in comuni diversi ai sensi del precedente art. 2, utilizzate a fini edificatori con esclusione dell'area iscritta a catasto per l'edificio rurale oggetto della concessione];

f) per gli edifici privati che sorgono su aree demaniali o vincolate ad uso pubblico e per gli edifici anche parzialmente abusivi per i quali non sia intervenuto il condono; Questione: agli effetti della lettera in esame la parola "condono" è da intendersi anche come accertamento di conformità ai sensi dell’art 36 del DPR 380/2001);

g) (vengono aggiunte le seguenti parole evidenziate con la sottolineatura): fatto salvo quanto previsto dall’art. 2, comma 1, per gli edifici censiti ai sensi degli artt. 15, comma 3 e 40 delle NTA del PPAR, nonché dell’art. 15, comma 2, della l.r. 8 marzo 1990, n. 13 (Norme edilizie per il territorio agricolo), sottoposti a restauro e a risanamento conservativo. Per i Comuni privi di strumento urbanistico adeguato al PPAR il divieto è riferito agli edifici presenti nella carta IGM 1892/1895.

Nuovo comma 5 bis dell’art. 4: “Negli ambiti di tutela integrale definiti dal PPAR o dalle disposizioni dei piani

regolatori comunali ad esso adeguati sono ammessi gli interventi di ampliamento, nonché gli interventi di demolizione e ricostruzione con i limiti di cui all’art. 1, comma 1; in quest’ultimo caso il nuovo edificio deve occupare almeno la metà dell’area di sedime di quello preesistente e la ricostruzione deve avvenire secondo il tipo edilizio e le caratteristiche edilizie storiche”.

Questione: le aree di tutela integrale e le esenzioni previste dall’art. 60 del PPAR A proposito dell’art. 4, comma 5, l’Atto di indirizzo della Giunta regionale sulla L.R.

22/2009 stabilisce: per quanto riguarda le aree di tutela integrale – anche se altrimenti denominate dai PRG comunali adeguati al PPAR - valgono comunque le esenzioni previste dall’art. 60 del PPAR o quelle richiamate negli strumenti urbanistici ad esso adeguati.

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Nuovo comma 5 ter dell’art. 4: “In deroga ai divieti stabiliti dal comma 5, lettera c), nelle fasce di territorio

inondabile da piene con tempi di ritorno sino a 200 anni individuate dai Piani stralcio di bacino per l’assetto idrogeologico (PAI), sono ammessi gli interventi di cui all’articolo 1 ricadenti nelle zone urbanistiche per le quali i procedimenti di mitigazione del rischio di cui all’art. 23 delle NTA del PAI dei bacini regionali o analoghi siano stati regolarmente conclusi con l’atto comunale di recepimento delle prescrizioni regionali e con l’effettiva realizzazione delle opere previste nel piano di mitigazione, nonché gli interventi di cui all’articolo 1 in cui il piano base della nuova opera è collocato al di sopra del livello atteso stimato per la piena di 50 cm. e l’opera stessa non prevede comunque attacchi a terra.

Commi 6 e 7 dell’art. 4 non subiscono modificazioni. “Per gli interventi sugli immobili aventi valore artistico, storico, culturale o

paesaggistico è fatto salvo quanto stabilito dal d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137).

Per gli edifici e gli impianti esistenti delle strutture ricettive ricadenti nell’ambito di applicazione della l.r. 11 luglio 2006, n. 9 (Testo unico delle norme regionali in materia di turismo), gli incrementi volumetrici restano disciplinati dall’art. 19 della legge regionale medesima. Nelle strutture ricettive alberghiere di cui al capo I del titolo II della l.r. 9/2006, nel caso di ristrutturazione edilizia o urbanistica con demolizione e ricostruzione secondo le procedure di cui all’art. 19 della citata l.r. 9/2006, è consentito un incremento volumetrico sino al 35 per cento rispetto al volume preesistente. I piani particolareggiati ed i piani di recupero di cui al citato art. 19 possono essere anche di iniziativa privata”.

Sulle strutture ricettive di cui all’art. 4, comma 7, è necessario osservare che la

L.R 9/2006 individua sia strutture ricettive alberghiere (art. 10) che si distinguono in alberghi, residenze turistico-alberghiere e alberghi diffusi, sia strutture ricettive all’aria aperta (art. 11) che si distinguono in villaggi turistici e campeggi.

Una piccola modifica del comma 8 dell’art. 4. “Le norme della presente legge non possono essere applicate agli edifici aventi

destinazione commerciale, quando comportano una deroga alle disposizioni di cui alla l.r. 10 novembre 2009, n. 27 (Testo unico in materia di commercio), circa i limiti dimensionali delle strutture di vendita e la dotazione minima di parcheggi. [le parole “ l.r. 4 ottobre 1999, n.26 (Norme ed indirizzi per il settore del commercio)” sono sostituite dalle seguenti: “l.r. 10 novembre 2009, n. 27 (Testo unico in materia di commercio)”].

Sugli edifici con destinazione commerciale è sempre valido l’Atto di indirizzo

della Giunta regionale: il comma 8 dell’art. 4 deve essere letto nel senso che non è consentita l’applicazione della legge qualora gli incrementi determinino un passaggio da un esercizio di vicinato ad una media struttura di vendita, oppure da una media struttura di vendita a una grande struttura di vendita.

Comma 9 dell’art. 4 non subisce modificazioni. “L’applicazione delle disposizioni di cui alla presente legge non può in ogni caso

derogare le prescrizioni in materia di sicurezza stradale e antisismica, né gli interventi in essa previsti possono essere considerati interventi in sanatoria. Nelle zone di protezione stradale di cui al d.m. 1444/1968, gli interventi di cui alla presente legge sono consentiti purché non comportino l’avanzamento dell’edificio esistente sul fronte stradale”.

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Il comma 9 dell’art. 4 non è modificato ed sempre valido l’Atto di indirizzo della Giunta regionale: Il riferimento al D.M. 1444/1968 per le zone di protezione stradale va inteso come riferimento al D.M. 1 aprile 1968, n. 1404 (Distanze minime a protezione del nastro stradale da osservarsi nella edificazione fuori del perimetro dei centri abitati, di cui all'art. 19 della legge 6 agosto 1967, n. 765).

IL PROCEDIMENTO PER IL RILASCIO DEL TITOLO ABILITATIVO

EDILIZIO (ART. 5). Il comma 1 dell’art. 5 subisce modifiche. “Il rilascio del titolo abilitativo edilizio avviene secondo quanto previsto dalla

normativa statale e regionale vigente. Alla domanda o denuncia del proprietario interessato, o al progetto nel caso di opere pubbliche, deve essere allegata anche una relazione, redatta dal progettista o da un tecnico abilitato, che asseveri, relativamente agli interventi di ampliamento, il miglioramento del comportamento energetico da conseguire (parole soppresse: nonché il mantenimento della destinazione in atto nei casi previsti dalla presente legge) e, relativamente agli interventi di cui all’art. 3, il miglioramento o l’adeguamento della sicurezza antisismica. Per gli interventi di demolizione e ricostruzione, la relazione del tecnico abilitato deve asseverare la necessità del rinnovamento e dell’adeguamento o del miglioramento dell’edificio sotto il profilo della sicurezza antisismica, (parole soppresse: il mantenimento della destinazione in atto nei casi previsti dalla presente legge), nonché il miglioramento dell’efficienza energetica e l’utilizzazione di fonti energetiche rinnovabili secondo quanto previsto dalla presente legge.

Resta valido l’Atto di indirizzo della Giunta regionale: per gli aspetti energetici, la

disposizione in esame ha volutamente utilizzato il termine “asseverazione” e non quello di “certificazione”, per intendere una valutazione agile e semplificata che il progettista o altro tecnico abilitato possono svolgere.

Questione: alla domanda per ottenere il titolo abilitativo edilizio deve essere allegata

anche una relazione, redatta dal progettista o da un tecnico abilitato, che ha un duplice contenuto, da distinguere a seconda che si ricada nell’ampliamento (di cui all’art. 1) o nella demolizione e ricostruzione con ampliamento (di cui all’art. 2).

La relazione per gli interventi di ampliamento e il suo duplice contenuto: 1°: asseverazione del miglioramento del comportamento energetico da conseguire

relativamente ai soli interventi di ampliamento e non a tutto l’edificio. Bisogna tenere conto del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192 (cfr. art. 1, comma 7, della L.R. 22/2009). Da ricordare che l’art. 3, comma 3, del decreto 192/2005 esclude che lo stesso decreto sia applicabile per determinati edifici ed impianti.

Non è più richiesta l’asseverazione circa il mantenimento della destinazione in atto nei casi previsti dalla legge;

2°: asseverazione del miglioramento o dell’adeguamento della sicurezza antisismica. La relazione per gli interventi di demolizione e ricostruzione con ampliamento e il

suo duplice contenuto: 1°) asseverazione del miglioramento dell’efficienza energetica di tutto l’edificio e

l’utilizzazione di fonti energetiche rinnovabili secondo quanto previsto dalla presente legge (in realtà le disposizioni specifiche che imponevano l’utilizzazione delle fonti rinnovabili sono state soppresse);

Non è più richiesta l’asseverazione circa il mantenimento della destinazione in atto nei casi previsti dalla legge;

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2°) asseverazione della necessità del rinnovamento e dell’adeguamento o del miglioramento dell’edificio sotto il profilo della sicurezza antisismica. Al riguardo, nonostante le parole usate dalla disposizione in esame, su adeguamento e miglioramento sismico deve essere rispettata la normativa in materia di sicurezza sismica, non derogabile dalle leggi regionali.

I commi 2, 3, 4 e 5 dell’art. 5 non subiscono modifiche. “2. L’utilizzo delle tecniche costruttive e il rispetto delle condizioni di cui al comma 1

sono attestati dal direttore dei lavori o da altro professionista abilitato con la comunicazione di ultimazione dei lavori. In mancanza di detti requisiti, non può essere certificata l’agibilità delle opere realizzate. L’attestazione deve riguardare anche il rispetto della normativa statale e regionale vigente in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

3. Gli interventi che riguardano parti strutturali non possono essere realizzati in mancanza della documentazione attestante il rispetto della normativa antisismica vigente.

4. Per i procedimenti di cui alla presente legge gli Enti locali possono stabilire l’incremento dei diritti di segreteria in misura non superiore al 100 per cento. Le risorse così determinate sono utilizzate per l’attivazione di progetti di produttività finalizzati alla gestione dei procedimenti medesimi, nonché allo svolgimento dei successivi controlli.

5. Salvo quanto previsto dall’art. 1, comma 8, gli interventi di cui alla presente legge sono subordinati all’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria o alla previsione da parte del Comune dell’attuazione delle stesse nel successivo triennio, ovvero all’impegno degli interessati di procedere all’attuazione o all’adeguamento delle medesime contemporaneamente alla realizzazione degli interventi”.

Nuovo comma 5 bis dell’art. 5: “5 bis. Ai fini della presente legge per destinazione in atto si intende quella

legittimata alla data della domanda di cui al comma 1”. LA RIDUZIONE DEL CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE (ART. 6) L’art. 6 subisce una piccola modifica al comma 3 “1. Per gli interventi di ampliamento il contributo di costruzione, se dovuto, è

commisurato al solo ampliamento ridotto del 20 per cento. 2. Per gli interventi di demolizione e ricostruzione il contributo di costruzione, se

dovuto, è determinato in ragione dell’80 per cento per la parte eseguita in ampliamento e del 20 per cento per la parte ricostruita.

3. La riduzione del contributo di costruzione di cui ai commi 1 e 2 non si applica ai casi di mutamento della destinazione d’uso di cui all’articolo 2. I Comuni destinano tale contributo agli interventi di messa in sicurezza degli edifici scolastici. [1. Al comma 3 dell’articolo 6 le parole; “di cui all’articolo 2, comma 2" sono sostituite dalle seguenti: “di cui all’articolo 2"].

4. Il contributo di costruzione non è dovuto qualora gli interventi di demolizione e ricostruzione comportino l’accessibilità totale dell’unità immobiliare ai fini del superamento delle barriere architettoniche.

5. Restano ferme le ipotesi di riduzione del contributo di costruzione previste dalla normativa vigente”.

Resta valido sul comma 4 l’Atto di indirizzo della Giunta regionale: “il comma deve

essere inteso esattamente nella sua disposizione letterale e quindi qualora gli interventi di demolizione e ricostruzione comportino l’accessibilità dell’unità immobiliare ai fini del superamento delle barriere architettoniche il contributo di costruzione non è dovuto.

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Al riguardo il Regolamento per l'eliminazione delle barriere architettoniche (DM 14 giugno 1989, n. 236), all’art. 3, comma 1, stabilisce:

“In relazione alle finalità delle presenti norme si considerano tre livelli di qualità dello spazio costruito.

L'accessibilità esprime il più alto livello in quanto ne consente la totale fruizione nell'immediato.

La visitabilità rappresenta un livello di accessibilità limitato ad una parte più o meno estesa dell'edificio o delle unità immobiliari, che consente comunque ogni tipo di relazione fondamentale anche alla persona con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale.

La adattabilità rappresenta un livello ridotto di qualità, potenzialmente suscettibile, per originaria previsione progettuale, di trasformazione in livello di accessibilità; l'adattabilità è, pertanto, un'accessibilità differita”.

I CONTROLLI E LE SANZIONI (ART. 7) L’art. 7 subisce una modifica al comma 1 “1. Ferme le attività di vigilanza previste dalla normativa vigente, la Giunta regionale

dispone semestralmente, in collaborazione con i Comuni, accertamenti e ispezioni a campione su almeno il 3 per cento degli edifici oggetto degli interventi di cui alla presente legge, con priorità per quelli aventi una volumetria superiore a 5.000 metri cubi, e sui livelli di efficienza conseguiti. I controlli a campione possono svolgersi entro cinque anni dalla data di fine lavori. [Al comma 1 dell’articolo 7 le parole: “sugli edifici oggetto degli interventi di cui alla presente legge" sono sostituite dalle seguenti: “su almeno il 3 per cento degli edifici oggetto degli interventi di cui alla presente legge, con priorità per quelli aventi una volumetria superiore a 5.000 metri cubi"].

2. Il mancato riscontro di quanto attestato ai sensi dell’articolo 5, commi 1 e 2, ferma restando l’eventuale applicazione delle sanzioni e dei provvedimenti di cui al titolo IV del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), comporta l’irrogazione di una sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento del valore venale dell’immobile conseguente alla realizzazione dei maggiori volumi o delle maggiori superfici, nonché l’annullamento delle riduzioni del contributo di costruzione di cui all’articolo 6”.

Art. 8 (Contratti di lavori pubblici sotto soglia comunitaria) Viene abrogata la lettera a) del comma 1, quella che disponeva “i soggetti da

invitare, nel rispetto dei principi di non discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità e trasparenza, sono individuati previa pubblicazione di un avviso nell’albo pretorio del Comune ove si eseguono i lavori e nell’albo della stazione appaltante. Per la Regione e per gli enti e le aziende da essa dipendenti, l’avviso è pubblicato nel Bollettino ufficiale della Regione; [la lettera a) è stata abrogata con la precisazione: “Sono fatti salvi i procedimenti attivati sulla base di bandi pubblicati prima dell’entrata in vigore della presente legge”.

In sostanza, a forza di abrogazioni successive, l’art. 8 si è ridotto ad una disposizione

abbastanza marginale: “1. Ai contratti di lavori di cui al comma 7 bis dell’articolo 122 del decreto legislativo

12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), da affidare nel territorio regionale, si applicano le seguenti norme integrative:

(lettere a e b abrogate) c) per la stima degli importi da porre a base della procedura, le stazioni appaltanti

utilizzano i propri prezzari e, in mancanza, il prezzario regionale, formalmente adottati ai

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sensi dell’articolo 133, comma 8, del decreto legislativo 163/2006 e vigenti al momento dell’avvio della procedura”.

Artt. 9 e 10: Se ne è parlato all’inizio della presente relazione a proposito delle date e

scadenze fissate dalla normativa.