LOTTA PER LA CODIFICAZIONE Riassunti Storia Del Diritto Italiano Petronio e Giappichelli

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Storia del diritto italiano riassunti tratti da: Petronio, Lotta per la codificazione, Torino, Giappichelli,dificazione 2002 INDICE INDICE 2 CAPITOLO I 5 § IL PROBLEMA DELL’OGGETTO. 5 § IL PROBLEMA DELLA PERIODIZZAZIONE. 5 § L’ETA’ DELL’ILLUMINISMO. 6 § I TEMPI DELLE CODIFICAZIONI. 7 § I LUOGHI DELLE CODIFICAZIONI. 7 CAPITOLO II 8 § PREMESSE. 8 § QUADRO SINTETICO DELLA STORIA DELL’EUROPA MODERNA. 8 § LA CRISI DELLA SPAGNA. 8 § L’EGEMONIA CULTURALE DELLA FRANCIA. 9 § L’INGHILTERRA E L’OLANDA. 11 § L’ASCESA DELL’AUSTRIA. 12 § I PAESI DI LINGUA TEDESCA E LA RUSSIA. 13 § LA SITUAZIONE DEGLI STATI ITALIANI. 14 CAPITOLO III 16 § PREMESSE. 16 § IL GIUSNATURALISMO E IL POSITIVISMO GIURIDICO. 16 § L’ASSOLUTISMO GIURIDICO. 19 § LA SCUOLA STORICA DEL DIRITTO. 20 § LA PANDETTISTICA. 22

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Storia del diritto italiano    

riassunti tratti da:Petronio, Lotta per la codificazione, Torino, Giappichelli,dificazione 2002

  

INDICEINDICE              2CAPITOLO I              5

§ IL PROBLEMA DELL’OGGETTO.              5§ IL PROBLEMA DELLA PERIODIZZAZIONE.              5§ L’ETA’ DELL’ILLUMINISMO.              6§ I TEMPI DELLE CODIFICAZIONI.              7§ I LUOGHI DELLE CODIFICAZIONI.              7

CAPITOLO II              8§ PREMESSE.              8§ QUADRO SINTETICO DELLA STORIA DELL’EUROPA MODERNA.              8§ LA CRISI DELLA SPAGNA.              8§ L’EGEMONIA CULTURALE DELLA FRANCIA.              9§ L’INGHILTERRA E L’OLANDA.              11§ L’ASCESA DELL’AUSTRIA.              12§ I PAESI DI LINGUA TEDESCA E LA RUSSIA.              13§ LA SITUAZIONE DEGLI STATI ITALIANI.              14

CAPITOLO III              16§ PREMESSE.              16§ IL GIUSNATURALISMO E IL POSITIVISMO GIURIDICO.              16§ L’ASSOLUTISMO GIURIDICO.              19§ LA SCUOLA STORICA DEL DIRITTO.              20§ LA PANDETTISTICA.              22

CAPITOLO IV              24§ CHE COSA E’ UN CODICE OGGI.              24§ I CODICI IN SENSO ATECNICO.              24§ I CODICI IN SENSO TECNICO.              24§ LE DEFINIZIONI DELLE ENCICLOPEDIE CONTEMPORANEE.              25§ LE DEFINIZ DELLA SCIENZA GIURIDICA E LA COMPLETEZZA.              25§ LUIGI MENGONI.              25§ PIERO SCHLESINGER.              26§ ROSARIO NICOLO’.              26

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§ RESCIGNO, FALZEA, SACCO.              27§ DECODIFICAZIONE E RICODIFICAZIONE.              27§ LEGISLAZIONE E SCIENZA GIURIDICA.              27§ I CODICI E UNO STORICO DEL DIR.              28§ LA NOZIONE DI CODICE TRA 1° E 2° ‘800.              28§ LE DEFINIZ DELLE ENCICLOPEDIE DELL’800.              28§ NOZIONE DI CODICE NELLA LETTERATURA GIUR. ITALIANA DELL’800.              29§ FILOMUSI GUELFI.              29§ NOZIONE DI CODICE IN ENCICLOPEDIE TRA ‘800 E ‘900.              29§ UN MITO DA SFATARE: CONSOLIDAZIONI E CODIFICAZIONI.              30§ LA TESI DI MARIO VIORA.              30§ ALTRE POSIZIONI.              31§ IN GUIDO ASTUTI.              31§ IN GIOVANNI TARELLO.              31§ IN NATALINO IRTI.              31§ ACCENNO AL DIBATTITO CONTEMPORANEO IN FRANCIA SULLE CODIFICAZIONI.              32§ COME E’ NATO IL MITO DELLA COMPLETEZZA DEL CODICE? LEGGE 30 VENTOSO.              33§ GENESI STORICA DEL C.C. FRANCESE.              33§ COMMENTO DI MALEVILLE ALL’ART 7.              35§ LA VOCE DI PORTALIS.              35§ PROBLEMI E VALORI DELLE CODIFICAZ DEL ‘700.              35§ LA NOZIONE DI CODICE IN FEDERICO II.              36§ EVOLUZIONE SUCCESSIVA.              36§ DOTTRINA GIURIDICA FRANCESE DOPO LA CODIFICAZ.              36§ RISTAMPE DI OPERE DI ANTICO REGIME.              36§ IL REPERTORIO DI MERLIN.              37§ LA POSIZIONE DELLA SCUOLA DELL’ESEGESI.              37§ LE OPINIONI DI LAURENT.              38§ IL CODICE COME FONTE DI DIR UNIFORME.              38§ I MATERIALI NEL C.C.              38§ UN PRIMO TENTATIVO DI CONCLUSIONE.              38§ I RAPPORTI TRA IL C.C. E LE ALTRE FONTI PREVIGENTI.              39§ ABROGAZIONE DEL DROIT INERMEDIO.              40§ COMPLETEZZA DEL CODICE NEGLI STATI DI LINGUA TEDESCA.              40§ IN PRUSSIA.              40§ L’ESIGENZA SISTEMATICA.              41§ LA POSIZIONE DI ZEILLER.              41§ CONCLUSIONI.              42

CAPITOLO V              43§ PREMESSE.              43§ UNA BATTUTA DI VOLTAIRE.              43§ UNO STATO DI ANTICO REGIME NELLA DESCRIZIONE DI NERI.              43§ IL DIR FEUDALE.              44§ IL DIR ROMANO.              44§ DIR CANONICO.              45§ LA GIURISPRUDENZA.              46§ IL DIRITTO DEI MERCANTI E DELLE ALTRE CORPORAZIONI.              46§ I TANTI, O TROPPI, GIUDICI SPECIALI.              47

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§ DIRITTO ROMANO, CONSUETUDINARIO E REGIO IN FRANCIA.              48§ LA SITUAZIONE DEGLI STATI TEDESCHI E GLI STANDE.              49§ CETI E CLASSI SOCIALI.              49§ IL PRIVILEGIO CARDINE DELL’ANTICO REGIME.              50§ IL PARTICOLARISMO GIURIDICO.              51§ DIRITTO PROPRIO E DIRITTO COMUNE.              51§ IL PROBLEMA DEL SOGGETTO DI DIRITTO SECONDO GIOVANNO TARELLO.              52§ IL PROBLEMA DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIR IN ALCUNE POSIZIONI DELLA STORIOGRAFIA GIURIDICA.              53§ IN FRANCESCO CALASSO.              53§ IN GIOVANNI TARELLO.              54§ IN PAOLO GROSSI.              54§ UN TENTATIVO DI RIAVVICINARSI ALLE FONTI.              55§ LA COMPLESSITA’ DEL SISTEMA E IL RUOLO DELL’INTERPRETAZIONE.              56§ L’INTERPRETAZIONE GIUDIZIARIA.              57§ L’INTERPRETAZIONE DOTTRINARIA.              58§ LA DISPERSIONE DELLE FONTI.              60§ CENNO ALLA SCIENZA GIURIDICA ANTERIORE ALLE CODIFICAZIONI.              61

CAPITOLO VI              63§ PREMESSE.              63§ LA PATRIMONIALIZZAZIONE DEL FEUDO.              63§ LA CRISI DEGLI STATUTI, CITTADINI E FEUDALI.              64§ IL DIR CANONICO E I RAPPORTI CON LA CHIESA.              64§ LA COSTRUZIONE DEL CONCETTO DI STATO.              65§ STATO, SOVRANITA’, LEGGE.              66§ IL RUOLO SEMPRE MINORE DEL DIR ROMANO.              67§ LA CRESCITA DEL DIR PATRIO IN ITALIA.              68§ IL CASO DELL’OLANDA.              68

CAPITOLO VII              70§ L’UTOPIA.              70§ LA CRISI DELLA CULTURA TRADIZIONALE.              71§ IL DIBATTITO FRANCESE TRA ANTICHI E MODERNI.              72§ LA POLEMICA CONTRO IL DIR ROMANO.              74§ IL CASO DI FRANCOIS HOTMAN.              75§ L’ELABORAZIONE DELLE COUTUMES FRANCESI.              75§ LO SFORZO DI UNIFORMARE LE COUTUMES FRANCESI.              76§ IL PESO DEI GIURISTI PRATICI.              77§ IL CASO DI FRANCOIS BOURJON.              78§ IL DIR COME INSIEME DI REGOLE.              79§ IL GIUSNATURALISMO.              79§ LA DIFESA DEL DIR ROMANO COME DIR RAZIONALE.              80§ L’USO DELLA LINGUA FRANCESE.              81§ LA POLEMICA DI MURATORI CONTRO I DIFETTI DELLA GIURISPRUDENZA.              81

CAPITOLO VIII              83§ PREMESSE.              83§ ALCUNI ANNI CRUCIALI.              83§ LE ESIGENZE PRATICHE DEL DIRITTO.              84

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§ DIR SOSTANZIALE E PROCEDURALE IN D’AGUESSEAU.              85§ IL TRIBUNALE DELLA RAGIONE.              86§ L’ILLUMINISMO GIURIDICO.              88§ L’ESPRIT DES LOIS E MOTESQUIEU.              88§ LA VOCE DELL’ENCICLOPEDIA.              89§ SPUNTI SULL’ILLUMINISMO GIURIDICO ITALIANO.              91§ CODICI TENTATI, IN GESTAZIONE E CODICI FATTI.              92§ L’IMMINENZA DELLA RIVOLUZIONE E I RPIMI PROGETTI DI CODIFICAZIONE IN FRANCIA.              93§ CAMBACERES E L’IDEA DI UN CODICE NEOCLASSICO.              94§ LE ULTIME VICENDE DELLA CODIFICAZIONE AUSTRIACA.              95§ CONCLUSIONI.              97

CAPITOLO I

§ IL PROBLEMA DELL’OGGETTO.

In ogni ricerca storica bisogna definire l’ OGGETTO della ricerca e collocarlo nel TEMPO e nello SPAZIO. Per quanto riguarda l’ OGGETTO, anzitutto bisogna distinguere tra CODIFICAZIONE, che è una parola indicante un’ AZIONE (nomina actionis), e CODICE che invece indica il RISULTATO DI UN’AZIONE (nomina rei actae).

Al riguardo bisogna aggiungere che oggi si tende a distinguere tra STORIA DELLA CODIFICAZIONE (con cui ci si riferisce alla fase di formazione dei codici) e STORIA DEI CODICI (con cui ci si riferisce al complesso delle vicende, problemi e soluzioni, che si sono posti all’attenzione di legislatori e giuristi dopo la redazione dei codici).

Da questa distinzione si giunge ad osservare come il codice rappresenta da una parte il punto finale del processo di codificazione, ma anche il punto di partenza per i problemi di interpretazione, applicazione e trasformazione delle norme in esso contenute in considerazione del fatto che la realtà del diritto è un processo in continua evoluzione che trasforma ogni punto di arrivo in un nuovo punto di partenza [ad es: quando si è raggiunto un determinato assetto giuridico, come una determinata disciplina dei rapporti familiari, il mondo del diritto continua a mutare e si creano situazioni e problemi che un tempo non esistevano, come l’esistenza di famiglie di fatto fondate sulla convivenza in assenza del matrimonio, che richiedono un’ulteriore intervento giuridico che stabilisca regole valide anche in quella fattispecie.].

Ma anche questa conclusione va considerata in virtù del tempo e dello spazio in cui è stata osservata: infatti rappresenta la conclusione a cui si è arrivati oggi, dopo che, a partire dalla cultura del romanticismo e dall’affermarsi dello storicismo, ci si è convinti che tutto scorre (Eraclito), e quindi anche il mondo del diritto.

Ma in epoche passate, come nel ‘700 con l’Illuminismo e nell’800 e nel primo ‘900, si era convinti che per ogni problema si potessero individuare soluzioni definitive e valide una volta per tutte.

§ IL PROBLEMA DELLA PERIODIZZAZIONE.

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Per quanto riguarda la COLLOCAZIONE NEL TEMPO, si tratta di stabilire il punto di partenza e di arrivo della formazione dei codici.

Se prendiamo come punto di riferimento lo storicismo (corrente di pensiero che si è affermata prima in Germania e poi in tutta Europa nell’ottocento), dobbiamo pensare che ogni evento attuale sia strettamente collegato ad un evento passato e che quest’ultimo sia a sua volta collegato ad un evento precedente e così via.

Ma seguendo questo parametro se da una parte si può agevolmente indicare quando è accaduto un singolo fatto [la scoperta dell’America], dall’altra risulta difficile stabilire quando è cominciato un processo legato ad una molteplicità di elementi politici, economici, religiosi, culturali [formazione dei codici].

Inoltre una certa vicenda oltre che nel tempo è anche calata nello spazio, con la conseguenza che il punto di partenza e di arrivo di un evento può variare a seconda dell’ambito geografico che si prende in esame.

Tuttavia, in ogni evento è possibile individuare una tendenza forte di fondo che rende omogenea un’epoca, diventando la vicenda centrale e significativa di quel periodo e di quell’ambito geografico.

A queste considerazioni sullo studio dei fatti, bisogna però aggiungere un ulteriore elemento in grado di rendere relative le conclusioni cui si perviene riguardo agli eventi: è necessario infatti tener presente che la storia è fatta di eventi che sono opera degli uomini e che poi vengono collegati dagli studiosi di storia che creano un concetto di cui si servono per catalogare a loro modo la realtà, e quindi renderla comprensibile a sé e agli altri.

Ma una stessa realtà, potrà essere catalogata in modo diverso da ogni studioso a seconda dell’ambito che attira l’attenzione privilegiata dello studioso: quindi, ad es, mentre per lo storico del diritto una det.ta epoca costituisce l’età delle codificazioni (xkè quello ke attira l’attenzione dello studioso è il concetto di codice), per lo studioso di un’altra disciplina quella stessa età sarà invece dell’illuminismo, del romanticismo, etc, a seconda del concetto che attira la sua attenzione [letteratura, romanzo storico].

Dunque, l’età delle codificazioni è una creazione degli storici del diritto che prendendo come riferimento il concetto di codice, definiscono tale una det.ta epoca storica, ordinando fatti e collegando eventi, per dare una spiegazione di questa fetta di realtà a sé e agli altri.

§ L’ETA’ DELL’ILLUMINISMO.

Quindi occorre sempre tenere presente che i concetti storici hanno un valore relativo, e mutano continuamente nel tempo e nello spazio al fine di non dare un valore assoluto a quello che invece è mutevole e relativo.

Una vicenda storica molto importante x capire la storia delle codificazioni è il movimento culturale e politico del ‘700 chiamato illuminismo, che gli uomini hanno creduto si caratterizzasse xkè la luce della ragione si diffondeva a diradare le tenebre del pregiudizio e della tradizione.

Dell’ Illuminismo Emanuel Kant ha dato, ad es, una definizione che ha contribuito a formare il concetto di illuminismo ma che rappresentava la sua risposta personale a quel movimento culturale, risposta diversa da quelle date

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da altri filosofi illuministi e simile ad altre, ma cmq data in un certo momento storico ed in un certo ambito geografico.

(Ha infatti pubblicato su una rivista tedesca, nel 1783, un articolo, "Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo", in cui affermava che l’illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità che è da imputare a lui stesso a causa dell’incapacità di servirsi del proprio intelletto, che non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e di coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! è dunque il motto dell’illuminismo).

§ I TEMPI DELLE CODIFICAZIONI.

Da un certo punto di vista, il processo di formazione dei codici può dirsi concluso, in Italia, con l’unificazione legislativa italiana quando, tra il 1865 e il 1889, sono stati redatti e sono entrati in vigore i codici dello stato unitario, diversi da quelli che erano in vigore negli stati preunitari e da quelli che sono in vigore attualmente. Oppure, da un altro punto di vista, e cioè basandoci sulla distinzione tra il diritto att.te vigente e quello passato, il processo potrebbe dirsi concluso quando si è compiuta la riforma dei codici dello stato italiano unitario e sono stati promulgati i codici contemporanei. In ogni caso, ogni criterio di periodizzazione è chiaramente il frutto di una scelta.

In questo libro la scelta è stata fatta sulla base di due convinzioni principali:

che questo processo può essere studiato, attualmente, dai civilisti, penalisti e altri specialisti, ciascuno nel proprio particolare settore di competenza;

che il processo di formazione dei codici sia largamente collegato con il processo di formazione degli stati unitari, e che quindi possa considerarsi compiuto nel momento in cui si è compiuto anche il processo di unificazione degli stati nazionali.

§ I LUOGHI DELLE CODIFICAZIONI.

Per quanto riguarda l’ambito geografico, lo stesso è costituito dall’Italia. Tuttavia occorrerà tenere presente ke il processo di formazione dei codici non è stato un fenomeno solo italiano, ma si è inserito in un dibattito culturale e politico ke ha riguardato gran parte degli stati d’ Europa.

CAPITOLO II

§ PREMESSE.

Prima di procedere ad un’indagine storico-giuridica, diamo un’occhiata alla situazione dell’Europa moderna.

Nel 1946 è stato pubblicato un libro ("La crisi della coscienza europea" di P. Hazard) che ha contribuito a segnare una svolta nella cultura italiana di allora, bloccata tra la retorica del fascismo e la stanchezza del pensiero di Benedetto Croce che tagliavano l’Italia fuori dalle modernità che nel frattempo emergevano in altre nazioni [ come la considerazione della storia come storia degli uomini e delle cose di cui l’uomo si serve e non più come storia dei soli grandi eventi politici e dei protagonisti maggiori della cultura; come le nuove

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filosofie del novecento; la sociologia; la psicoanalisi; lo stesso diritto, ridotto da Croce a fatto economico].

Nel suo libro, Hazard ha tracciato le linee essenziali delle vicende che in Europa hanno portato dalla stabilità al movimento aprendo le menti a curiosità nuove e impensabili; ed ha tracciato anche la storia delle vicende che hanno portato al declino di alcune grandi potenze [Spagna] e all’affermazione di altre potenze che hanno segnato i secoli successivi (XVII e XVIII). Riconducendo il tutto ad un’unica parola – crisi – per indicare che in momenti di crisi le vicende umane subiscono come un’accelerazione improvvisa e tutto cambia in tempi brevi.

§ QUADRO SINTETICO DELLA STORIA DELL’EUROPA MODERNA.

L’Europa è uscita tra fine ‘600 e inizio ‘700 da una situazione politica e culturale nella quale i giochi sembravano fatti.

Nel secolo XVI, alcune grandi potenze (Spagna e Francia soprattutto) si erano contese l’egemonia sul continente e la SPAGNA era riuscita vincitrice, anche se, alcune potenze minori, come l’Italia, conservavano ancora qualcosa del grande prestigio del passato, cosicché, secondo Hazard, anche se il baricentro d’Europa si era spostato più a nord e la stessa Italia non era più il centro culturale d’Europa, la stessa restava la mèta prediletta di quei giovani che intraprendevano viaggi per fare esperienza di uomini, di arti, di tradizioni, di culture.

§ LA CRISI DELLA SPAGNA.

E’ così seguito il c.d. secolo d’oro per la Spagna, che grazie alla sua flotta era diventata la principale potenza navale dopo che la navigazione, dal chiuso mediterraneo, si era aperta sugli oceani.

Ma questo periodo finì a causa di sopravvenuti fatti politici ed economici, nonché culturali.

Anzitutto, la sua flotta non si riprese più dopo la sconfitta inflitta dall’Inghilterra (1588) a quella che era stata definita l’invincibile armata.

I grandi tesori [oro e argento] che, agli inizi della colonizzazione americana, arrivavano regolarmente dalle colonie dell’America meridionale, più tardi arrivavano in modo sporadico, essendo esposti alle insidie del mare e all’aggressione dei corsari che erano sollecitati a predare i galeoni spagnoli dalle potenze navali rivali della Spagna [Inghilterra e Olanda].

In ogni caso, i tesori che arrivavano erano ingoiati dalle enormi spese militari che doveva affrontare una potenza con ambizioni mondiali o anche dall’eccesso di spese di corte.

Inoltre la Spagna non aveva mai avuto un efficiente sistema bancario in grado di conservare le ricchezze quando ce ne erano in abbondanza e rilasciarle quando scarseggiavano.

Per questo la Spagna soffocava nei debiti (il re Filippo IV ha dichiarato per tre volte bancarotta (1652), cioè che i debiti non sarebbero stati pagati). Nel frattempo emergevano, invece, quelle potenze che [Inghilterra e Olanda] sapevano gestire le proprie entrate.

Infine una burocrazia sempre più farraginosa (alimentata da Filippo II, soprannominato il re burocrate per la sua dedizione al lavoro amministrativo,

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che si rinchiuse nella contraddizione di coltivare pretese universalistiche da una parte ma asservite a una rigida convenienza nazionale dall’altra), il passaggio da una classe dirigente che, all’epoca di Carlo V, era di estrazione sopranazionale, a una classe dirigente formata soprattutto da grandi latifondisti, e in ultimo, una forte tendenza della cultura spagnola ad estraniarsi dal mondo reale per rinchiudersi in sogni impossibili, in aggiunta alla guerra di successione al trono spagnolo (1700-1714), hanno determinato la fine dell’egemonia politica della Spagna sull’Europa a vantaggio dell’Austria.

§ L’EGEMONIA CULTURALE DELLA FRANCIA.

Così mentre in Spagna finiva il secolo d’oro, la FRANCIA diventava il nuovo centro culturale e politico d’Europa.

La lingua francese s’imponeva anche al di fuori dei confini del paese e questo contribuiva a far sì che l’Europa del ‘700 fosse "francese da Gibilterra a Mosca".

Ma l’egemonia francese, ai tempi di Luigi XIV (1638-1715) non è stata esclusivamente culturale, ma anche politica. La monarchia francese si è mossa precocemente sulla strada dell’assolutismo, ossia di un modello di stato che ha posto al centro della sua configurazione la sovranità dello stato incarnata da un principe assoluto che pur libero da controlli esterni, trovava altrove i limiti al proprio potere: primo fra tutti la sottomissione e la corrispondenza del suo agire alle leggi di Dio; alle regole di giustizia naturale che impongono al sovrano di esercitare il proprio potere secondo giustizia e non a discrezione; alle leggi fondamentali dello stato, poiché il principe assoluto deve governare secondo la natura e le condizioni che la propria sovranità impone.

Le teorie dello stato e dei poteri del principe erano inoltre legate alla cultura cristiana (già Giustiniano aveva affermato che era giusto che il principe si sottoponesse alla legge) e al pensiero del filosofo greco Aristotele, e questo connubio tra cristianesimo e aristotelismo ha dato vita, dal ‘500 in poi, alla dottrina del principe cristiano, che descriveva in forma precettiva le virtù che dovevano essere proprie di tale figura.

Strumento di questo assolutismo è stata l’amministrazione (cioè l’insieme degli apparati che servivano a gestire lo stato in tutte le sue articolazioni: finanza, giustizia, difesa, etc.) che ha contribuito alla formazione di alcuni grandi corpi intermedi (detti così perché erano posti tra sudditi e sovrano) che erano dotati di grandi poteri, spesso esercitati in modo arbitrario.

Questi corpi erano coesi al loro interno, tanto da costituire una èlite fornita di grandi privilegi e da dare vita ad un particolare tipo di nobiltà detta di toga per il fatto di fondare il proprio potere sull’esercizio di cariche pubbliche le quali, di regola, erano venali (cioè vendute così come si vendevano le rendite dello stato).

Alcuni grandi sovrani e ministri hanno poi cercato di razionalizzare nel modo migliore le istituzioni pubbliche della Francia. Tra questi si sono distinti il re Luigi XIV e il re sole per lo splendore della sua corte, che ha cercato di avviare la Francia verso un diritto uniforme per tutto il paese. Tuttavia, revocando nel 1685 l’editto di Nantes che per tutto il ‘600 aveva assicurato alla Francia una tolleranza religiosa nei confronti dei protestanti, il re ha rafforzato il modello della sovranità xkè il suo paese non avrebbe avuto altra fede religiosa che la sua, ma ha rotto la pace religiosa e ha costretto ad emigrare in Olanda, in

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Inghilterra, in Germania e in Svizzera c.ca 200.000 sudditi che sono andati a rafforzare con le proprie capacità e ricchezze i paesi dove si sono rifugiati.

Va poi menzionato anche Jean-Baptiste Colbert (1683) che ha cercato di creare una struttura economica e finanziaria in grado di sostenere le pretese di egemonia della Francia [combattendo contro la pigrizia delle classi abbienti che si accontentavano di investimenti tranquilli; tentando di bloccare le importazioni in modo da sorreggere lo sviluppo della produzione interna; creando la Compagnia delle Indie orientali destinata a fare concorrenza alle compagnie d’Inghilterra e Olanda, poi fallita; tentando di costituire una banca pubblica, che non ha finito per chiudere]. Attraverso questi tentativi di rilanciare l’economia francese e i risultati piuttosto magri, la Francia è stata costretta ad accontentarsi di esercitare una forte egemonia culturale e ridimensionare le proprie pretese di egemonia politica ed economica (anche se alla morte di Luigi XIV, nuove industrie, nuove imprese e mentalità, hanno favorito  la propensione a rischiare capitali, diversamente dal passato, da parte di coloro che ne possedevano).

§ L’INGHILTERRA E L’OLANDA.

Intanto la Francia aveva però dovuto fare i conti con altre potenze che nel frattempo si erano affacciate sullo scenario politico.

Si trattava anzitutto dell’INGHILTERRA che a metà ‘600 aveva una capitale fabbricata ancora x la gran parte di case di legno, tanto da andare quasi completamente distrutta in un incendio; che non poteva quasi vantare scrittori di rilievo [ad es. Shakespeare non era ancora considerato come il grande rinnovatore del teatro moderno; Milton (il maggior poeta inglese del seicento) era considerato pericoloso dal punto di vista religioso; etc].

L’Inghilterra aveva inoltre impressionato tutta l’Europa con due rivoluzioni l’una di seguito all’altra, decapitando un re (1649) e cacciandone via un altro (1688), poi sostituito con un principe olandese, Guglielmo d’Orange (1689).

Tuttavia, da poco, questo paese aveva un privilegio: quello di pensare, ma non su galanterie (che erano considerate proprie del genio francese), ma su questioni serie.

Infatti in Inghilterra, poco dopo metà seicento si ragionava di filosofia e di politica, soprattutto con John LOCKE (1632-1704) che ha affrontato il problema della conoscenza movendo dall’indagine sulla natura dell’intelletto umano. Ma Locke non è stato solo un teorico della conoscenza, ma anche un uomo impegnato nella politica del suo tempo, addirittura come ministro del commercio; è intervenuto anche sul piano della scienza della politica con i suoi "Due trattati sul governo civile" dove ha rifiutato ogni regime dominato da una èlite (cioè da una aristocrazia), o da una persona (cioè da un monarca) e si è schierato a favore della monarchia cost.le.

Inoltre egli ha teorizzato l’esistenza di uno stato di natura dove tutti sono uguali e liberi. Tuttavia questa libertà non è assoluta, ma per tutti vale la soggezione alle leggi della natura che impongono di godere la propria libertà contemperandola alla pari libertà altrui, e quindi senza recar danno alla libertà, vita, salute e possessi degli altri. Per questo motivo sono nate le "società politiche", che servono a far rispettare i limiti alle naturali reciproche libertà e che rappresentano un accordo tra gli uomini che acconsentono a che un

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gruppo di uomini (la maggioranza) abbia diritto di decidere per il resto così obbligandosi a sottomettersi a tali decisioni.

Questa concezione politico-filosofica di Locke , fondata sulla legge di natura e su un patto sociale tra gli uomini, costituiva la salvaguardia dei diritti naturali di tutti, anche nei confronti del sovrano, e minava le radici dell’assolutismo.

Accanto a Locke, a fare degli inglesi un popolo di pensatori, ci sono stati anche BERKELEY (1685-1753) e HUME (1711-1776) che hanno entrambi esteso il campo delle proprie indagini al di là della filosofia, fino ad affrontare, come Locke, problemi di carattere politico-economico che acquistavano anche rilievo pratico con implicazioni anche di carattere etico-religioso [come quello della capacità del denaro di produrre interessi, nonostante il divieto che si leggeva nei testi biblici].

C’è poi stato Isaac NEWTON (1642-1727), il padre della scienza sperimentale, il cui pensiero ha pervaso tutta la cultura europea. Ma neanche lui è stato uno scienziato puro, perché si è occupato anche di economia ricoprendo la carica di maestro della moneta scrivendo un saggio sul problema dell’oro e dell’argento e del tasso di cambio rispetto alla moneta.

La cultura inglese è dunque stata soprattutto una cultura che ha affrontato con concretezza i problemi dell’umanità e ha privilegiato soluzioni alle quali si pervenisse attraverso gli esperimenti e l’esplorazione effettiva della realtà. E questo atteggiamento ha così caratterizzato anche la politica inglese e la sua organizzazione sociale: mentre in Francia, come altrove in Europa, la nobiltà non poteva esercitare il commercio e svolgere professioni vili (così ai nobili restavano la vita di corte, le cariche pubbliche, la diplomazia e le armi), in Inghilterra, invece, la nobiltà s’impegnava nell’agricoltura e nel commercio, costruendo immense fortune per sé e per il proprio stato. In questo modo si è formata una mentalità tutta particolare che ha influenzato di sé la cultura europea, quando l’Inghilterra, che ancora non poteva vantare monumenti illustri da visitare, ha cominciato a d iventare anch’essa mèta di pellegrinaggio culturale per la particolarità del proprio modo di vivere e di pensare.

Accanto all’Inghilterra, c’era poi L’OLANDA (il popolo delle Province unite) che si è inserita nel gioco delle potenze europee, seguendo un percorso simile a quello dell’Inghilterra con la quale ha dovuto fare i conti per l’egemonia commerciale sul mare, uscendone sconfitta in una battaglia navale (1654). Pur con questi precedenti non felici, l’Olanda ha stretto con l’Inghilterra un rapporto dinastico quando Guglielmo d’Orange, il suo principe-delegato, è stato chiamato a regnare sull’isola. Era un popolo di pescatori e di navigatori che aveva fondato tutte le proprie ambizioni nel commercio e nei traffici e così era diventato prospero e potente.

Ma era anche il prototipo dello stato tollerante visto che, ad es., quello che non si poteva stampare altrove, si stampava in Olanda; quello che non si poteva insegnare o ascoltare altrove, lo si faceva in Olanda; lì vi trovarono rifugio molti perseguitati scacciati da quella o da questa città (come i protestanti francesi dopo la revoca dell’editto di Nantes) che arricchirono l’Olanda con la propria abilità e conoscenze.

§ L’ASCESA DELL’AUSTRIA.

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L’AUSTRIA era caduta in una grande crisi quando nel 1683 aveva subito l’assedio turco alla propria capitale. Anche se, in realtà, la crisi dell’Austria come stato territoriale era tutt’uno con la crisi del sacro romano impero, dato che dopo la morte (1558) di Carlo V, la linea austriaca degli Asburgo aveva conservato il titolo imperiale. L’impero romano era ormai privo di una solida base territoriale e quindi di forze umane e di mezzi economici propri che gli consentissero di tenere testa agli altri stati nazionali, e dipendeva strettamente dallo stato al quale si legava dal punto di vista dinastico.

Ma mentre l’impero romano declinava, l’Austria, tra il ‘600 e il ‘700, è riuscita a riprendersi.

In quell’epoca l’Austria si articolava in diversi stati (l’Austria vera e propria, cioè il cuore della monarchia, gli stati ereditari tedeschi, gli stati dell’Europa centrale aggregati alla monarchia). Al centro di tutto c’era la corte degli Asburgo, che costituiva il vero elemento di unificazione, visto che mancava ancora un’amministrazione centrale che desse unità al paese.

Si trattava di una corte, che pur se sensibile alle esigenze della contro-riforma (tanto da farsi propulsore dell’unificazione religiosa dei diversi paesi che le erano sottoposti attraverso una battaglia contro il protestantesimo), non si era appiattita sulle stesse e anzi lasciò spazio ad una èlite che rappresentava tradizioni diverse anche all’interno del pensiero religioso [gesuiti, agostiniani].

Gli agostiniani erano un ordine religioso formato su una cultura diversa da quella tradizionale fondata su Aristotele ad opera di studiosi cattolici spagnoli. L’agostinismo si rifaceva alle origini del cristianesimo, ad un pensiero portato all’approfondimento dell’interiorità caratterizzato da un forte scetticismo per le opere dell’uomo e da una fiducia assoluta nelle opere di Dio.

Per questo l’Austria si è caratterizzata, anche dal punto di vista religioso, per il fatto di essere aperta a influenze e tradizioni diverse, anche perché il governo di Vienna non è riuscito ad avere il pieno controllo dei sentimenti politici e religiosi del suo popolo, che ha sempre conservato una mentalità soprannazionale.

Comunque, tornando alle vicende politiche, chiusi i conti con l’impero turco, ricacciato verso oriente, la dinastia degli Asburgo si è trovata al centro della politica europea, uscendo vincitrice dalla guerra di successione spagnola, che si è conclusa con i trattati di Utrecht, di Rastatt e di Baden (1714) e riuscendo a imporre verso occidente la propria egemonia in Italia, dove ha conquistato il controllo del ducato di Milano, Toscana e del regno di Napoli. All’accresciuto potere territoriale si è poi accompagnata una adeguata potenza politica ed economica, e una forte attività culturale: infatti Vienna, anche per gli stretti legami con l’Italia, era diventata una capitale non solo politica, ma anche culturale, riempiendosi di intellettuali che facevano da richiamo ad altri studiosi.

§ I PAESI DI LINGUA TEDESCA E LA RUSSIA.

Le vicende della PRUSSIA sono simili a quelle dell’Austria. A metà ‘600 non era che una miriade di staterelli tedeschi che si diversificavano tra di loro per estensione, ricchezza, forza militare e organizzazione politica; e tuttavia è riuscita ad emergere grazie alle guerre [prima quella di successione spagnola,

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poi di successione polacca, austriacae quella dei 7 anni] e grazie all’abilità dei sovrani, soprattutto di Federico II.

Così a metà ‘700 la Prussia si presentava come lo stato meglio amministrato d’Europa, era il chiaro esempio di quello che un buon governo può fare per una nazione. La soluzione trovata dai sovrani per tenere uniti territori diversi anche per tradizioni è stata quella di un forte accentramento: infatti il padre di Federico II aveva detto. "Bisogna servire il re con la vita e col sangue, con tutto ciò che si possiede e rinunciare a tutto eccetto che alla salvezza dell’anima.Quella è riservata a Dio.Ma tutto il resto deve essere mio". Questi concetti della dedizione dei sudditi allo stato, del primato delle esigenze dello stato rispetto a quelle degli individui, ma anche dei doveri dei principi nei confronti dei sudditi e di assicurare loro la pubblica felicità hanno poi innescato un processo di degenerazione degli stati in senso autoritario o totalitario.

Per quanto riguarda la RUSSIA, la stessa era l’ultimo paese d’Europa, in senso geografico, politico e culturale. Aveva oscillato a lungo tra una sua vocazione orientale (asiatica) e una apertura verso occidente: e la scelta avvenne solo con lo zar Pietro il grande. Questi si trovò a che fare con un paese ancora medievale e feudale (la servitù della gleba fu abolita solo nel 1861) non aveva forze con le quali allearsi. La nobiltà e le gerarchie religiose difendevano solo i propri privilegi; i contadini erano solo forze da lavoro arretrati,; non c’era produzione industriale e solo l’esercito contava qualcosa. Così Pietro il grande cercò di intraprendere un’opera di ammodernamento per portarsi alla pari degli altri stati europei [ confiscò proprietà ecclesiastiche, promosse le industrie e le manifatture, obblig_ f2 al lavoro i vagabondi, i disoccupati e gli emarginati; soprattutto impose una divisine della popolazione in tre gruppi – la borghesia elevata dei mercanti e professionisti, la piccola borghesia di piccoli mercanti e artigiani, la plebe formata da lavoratori dipendenti e dai poveri – e fondò sui rappresentanti dei primi due gruppi l’amministrazione locale; poi organizzò un sistema di controlli per assicurarsi che la propria volontà fosse effettivamente eseguita].

Anche in campo culturale lo zar obbligò il popolo a studiare, cercando di formare una moderna ed efficiente classe dirigente. Così alla sua scomparsa lasciò un paese che, se non aveva ancora rotto col passato, era sulla strada per farlo. Ma c’erano ancora mille forze che cercavano di ostacolare o invertire questo cammino.

§ LA SITUAZIONE DEGLI STATI ITALIANI.

L’ITALIA in quegli anni si presentava frazionata in tanti stati regionali che spesso avevano caratteristiche molto diverse. Alcuni di questi stati cominciavano però ad uscire dalla crisi economica e politica che li aveva segnati [ il regno di Sardegna grazie alla capacità del suo re Vittorio Amedeo II di inserirsi nel gioco europeo con una abile politica di alleanze e di guerre; Il ducato di Milano e il granducato di Toscana perchè godettero dell’influenza austriaca].

In alcuni stati gli apparati burocratici furono rinnovati [già l’imperatore Carlo VI tentò una riforma del catasto che doveva fare da supporto alla crescita dell’agricoltura e riportare l’economia locale allo splendore del ‘500. Se l’operazione ebbe successo in Lombardia e nel granducato di Toscana, non lo ebbe invece nel regno di Napoli dove l’agricoltura rimase imperniata sul

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latifondo e molti territori erano incolti].Altri stati, come Venezia, erano invece connotati da una forte decadenza politica ed economica, anche se non culturale.

Per quanto riguarda lo stato della CHIESA, infine, questo era chiuso nella tradizione religiosa e legato a uno sviluppo economico ancora più arretrato e tradizionale di quello napoletano, con enormi tenute agrarie nelle mani di pochi nobili, godute prevalentemente in natura, tanto che di rifiorimento dell’agricoltura si parlò solo nei primi dell’800.

 

CAPITOLO III

§ PREMESSE.

Il dibattito sulla codificazione è naturalmente collegato anche al problema della natura del diritto sul quale si sono distinte diverse correnti di pensiero che si contendono ancora oggi il campo: giusnaturalismo, positivismo giuridico, pandettistica e assolutismo giuridico.

§ IL GIUSNATURALISMO E IL POSITIVISMO GIURIDICO.

Per dare un esempio di quello che sono il giusnaturalismo e il positivismo giuridico, potremmo partire da un dialogo famoso di Socrate (L’Eutifrone) in cui lo stesso ha posto un dilemma ad un giovane (Eutifrone) che non ha saputo risolvere: se fosse vero che "il santo sia amato dagli dei perché santo" (e in questa ipotesi rileva il giusnaturalismo: in quanto la santità è indipendente dalla volontà degli dei) oppure che il santo "sia santo perché amato dagli dei" (e in questa ipotesi rileva il positivismo giuridico, perché il criterio di giustizia, e in questo caso della santità, è la volontà degli dei). Questo problema si è proposto mille volte nella storia dell’umanità, ed anche in tempi non lontani da noi, quando le grandi potenze che hanno vinto la seconda guerra mondiale contro la Germania fascista hanno deciso di  processare, a Norimberga, i principali esponenti del regime nazista. Fare quel processo poneva grandi problemi dal punto di vista giuridico, perché il processo è un percorso giuridico che si svolge attraverso una serie di passaggi che obbediscono all’esigenza di legalità (cioè di conformità al diritto). Il problema principale era che i crimini [ad es., gli eccidi di massa nei campi di sterminio] erano stati commessi in uno stato che non li considerava crimini, ma anzi li aveva voluti e promossi, e un principio fondamentale di civiltà giuridica vuole che nessuno possa essere processato e punito per un fatto che non sia considerato reato dalla legge nel momento in cui il fatto è commesso (nullum crimen sine lege). La soluzione è stata trovata nel concetto di crimini contro l’umanità, quindi nel diritto naturale, cioè in un diritto che esiste nec essariamente e che è indipendente dalle leggi di ciascuno stato, perché è comune a tutta l’umanità, è propria della natura umana.

Noberto BOBBIO in un suo libro (anni ’60) ha cercato di esporre sia cosa si intenda con giusnaturalismo e positivismo giuridico sia lo stato della polemica tra le due scuole di pensiero.

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Per giusnaturalismo, si intende quella corrente che ammette la distinzione tra diritto naturale e diritto positivo e sostiene la supremazia del primo sul secondo in quanto il diritto esiste per il potere della sua giustizia intrinseca (imperio rationis); per positivismo giuridico, invece, s’intende quella corrente che non ammette la distinzione tra diritto naturale e diritto positivo e afferma che non esiste altro diritto se non quello positivo, in quanto il diritto esiste per il potere del legislatore (ratione imperii: in ragione del potere).

Nessuno dei due concetti è stato storicamente sempre uguale a se stesso.

Per quanto riguarda il GIUSNATURALISMO bisogna infatti distinguere tra un giusnaturalismo ANTICO, fondato soprattutto sul pensiero del filosofo greco Aristotele (384-322 a.C.) (e sulla scuola stoica che è nata da lui e che ha trovato a Roma uno dei propri esponenti principali in Marco Tullio Cicerone) che nelle sue opere [l’Etica nicomachea, cioè un trattato di etica indirizzato a Nicomaco] ha sostenuto che del giusto civile una parte è di origine naturale, un’altra si fonda sulla legge. Naturale è quel "giusto" che mantiene ovunque lo stesso effetto e non dipende dal fatto che a uno sembra buono oppure no; fondato sulla legge è quello di cui, invece, non importa nulla di quale siano le sue origini, bensì importa di come esso sia una volta sancito. L’esempio di Aristotele per spiegare tale concetto è sulla regola che prescrive di sacrificare  una o due pecore: in questo caso, la giustezza o meno del sacrificio sarà da ricercarsi nel diritto naturale, mentre il numero di pecore da sacrificare sarà stabilito arbitrariamente dalla legge (oggi potremmo paragonare a questo esempio la prescrizione: sicchè si potrebbe dire che è giusto secondo natura che esista la prescrizione come istituto che fa estinguere i diritti per mancato esercizio, ma che è arbitrario che il termine di prescrizione sia più o meno lungo perché questo è frutto di una scelta umana).

Dal giusnaturalismo antico è poi derivato un giusnaturalismo SCOLASTICO nel quale il diritto naturale è un insieme di principi etici generali che ispirano il legislatore nella formulazione delle regole del diritto positivo.

Vi è poi stato il giusnaturalismo RAZIONALISTICO che afferma, invece, che il diritto naturale è l’insieme dei dictamina recate rationis (dei precetti della giusta ragione) che forniscono la materia della regolamentazione, mentre il diritto positivo è l’insieme degli espedienti pratico-politici che ne determina la forma (ossia: il primo è la parte precettiva della regola; il secondo rende efficace la regola attraverso la previsione di sanzioni).

Il giusnaturalismo di HOBBES ritiene, infine, che nello stato di natura non esista altra regola che l’esigenza di sopravvivenza e quella di osservare i patti o di obbedire al sovrano, sicchè il legislatore è pienamente libero di formulare le leggi come crede.

Per quanto riguarda il POSITIVISMO GIURIDICO lo stesso ha assunto, secondo Bobbio, tre diverse forme: quella IDEOLOGICA, che afferma che le leggi debbono essere obbedite incondizionatamente in quanto leggi; quella di TEORIA GENERALE DEL DIRITTO che fa del diritto un prodotto del solo legislatore; quella che riguarda lo STUDIO SCIENTIFICO del diritto e il compito del giurista, che ha lo scopo di considerare il diritto quale è e non quale dovrebbe essere.

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Poste queste premesse, nel metterle in relazione, Bobbio ha sostenuto che la concezione positivistica del diritto, in termini di teoria generale, si limita a costruire scientificamente il diritto partendo dalla convinzione che esso nasca attraverso la legge, ma in questo senso non ha niente a che vedere con l’esaltazione dello stato come unica fonte del diritto, perché quest’ultima concezione nasce dall’ideologia del positivismo e non dalla concezione scientifica di esso.

Effettivamente, se si considera il diritto solo il diritto positivo, cioè quello prodotto dallo stato, si potrebbe facilmente essere portati a ritenere che solo lo stato è capace di produrre il diritto, e quindi si collocherebbe lo stato al vertice dell’organizzazione sociale (come avviene nelle dittature): ma questo, secondo Bobbio, per l’appunto, non è la conseguenza di una concezione scientifica del diritto, ma di una ideologia legata a giudizi di valore: è bene o non è bene che sia così. La conseguenza di ciò è che un confronto tra giusnaturalismo e positivismo è possibile solo se si prendono come parametri di riferimento due accezioni omogenee: il positivismo e il giusnaturalismo in senso scientifico, oppure in senso ideologico; in quest’ultimo caso si tratterà di un confronto tra due morali, non più dunque di un problema giuridico. Dunque Bobbio ha difeso l ote interpretazione scientifica (teoria generale) del positivismo giuridico, di fronte alle accuse del giusnaturalismo di sconfinare nella statolatria (cioè nel mito dello stato).

Infatti, secondo Bobbio, non reggono le critiche che il giusnaturalismo del secondo dopoguerra ha mosso contro il positivismo indicandolo come ideologia all’origine della giustificazione della dittatura; egli ha al proposito notato che "è strano che si tenda facilmente a dimenticare che i postulati etici del positivismo giuridico [il principio di legalità, l’ordine come fine principale dello stato, la certezza come valore del diritto] siano stati elaborati nel secolo XVIII dalla dottrina liberale [da Montesquieu a Kant] proprio per porre argine al dispotismo, quindi come freni all’arbitrio del principe, come difesa della libertà individuale contro lo strapotere del potere esecutivo, come garanzia di eguaglianza di trattamento contro i privilegi" per concludere che al positivismo giuridico "nato in un’epoca di grande fiducia della bontà delle leggi non possono essere rimproverate le conseguenze che sono state tratte  da quei principi in un regime di cattive leggi" (in quanto sia la morale del positivismo che del giusnaturalismo hanno portato a scelte e concezioni non sempre uguali a sé stesse, in quanto, nel tempo, calate nella storia, e quindi nella mentalità dei vari periodi storici).

Più o meno nei medesimi anni in cui ha scritto Bobbio, un altro filosofo del diritto, Uberto SCARPELLI, ha invece difeso il positivismo, contrariamente da Bobbio, dal punto di vista politico e non scientifico intendendo il diritto come suscettibile di interpretazione, che consiste nel trarre dalle sue norme una guida per i comportamenti e i criteri per giudicarli. Secondo Scarpelli è vero che il positivismo ammette come unica fonte di diritto il potere centralizzato (ed altre fonti, delegate o subordinate, che sono però autorizzate a produrre diritto da quella centrale [leggi regionali]), ma è anche vero che il positivismo non sconfina mai nella statolatria perché il potere centralizzato si esprime nella legge che regola oltre ai poteri subordinati e delegati, regola anche lo stesso potere centralizzato. Questo significa che l’accusa mossa al positivismo di giustificare qualunque fo rma di legislazione e qualunque

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contenuto, è mal posta, perché se si considera il positivismo da questo punto di vista politico, è allora un problema della politica far si che lo stato si dia dei contenuti democratici adeguati e fondi la convivenza civile su valori accettabili per tutti.

§ L’ASSOLUTISMO GIURIDICO.

Quando si parla di assolutismo, lo si potrebbe fare in modi diversi: o con un valore di semplice scansione temporale (l’età dell’assolutismo: i secoli XVII e XVIII); o a scandire epoche e concetti diversi ( età della dittatura, assolutismo, totalitarismo); o accompagnandolo ad un sostantivo per relativizzare un concetto (assolutismo illuminato); o per dargli una precisa collocazione (assolutismo regio in questo o quello stato). In ogni caso, dal XIX secolo in poi (1804-1942 periodo di codificazioni) l’assolutismo ha assunto una connotazione negativa che non aveva originariamente, dato che era pacifico che assolutismo e dispotismo erano e sono due concetti diversi. Ma l’uso corrente di ASSOLUTISMO è quello che lo vede strettamente collegato alla pan-legificazione, cioè alla concentrazione nella legge di tutte le fonti di produzione del diritto.

Per capire L’assolutismo bisogna partire da un’indagine storica delle diverse convinzioni giuridiche.

Nel mondo giuridico medievale era consolidato il principio che nelle cose terrene il sovrano operasse sempre come avrebbe operato Dio (tamquam Deus); da ciò derivavano tre conseguenze:

che l’operato del principe fosse sempre conforme a giustizia;

che coloro che, scelti dal principe, operavano al suo posto, avessero i medesimi poteri del principe;

che anche i giudici loco principi sostituti (nominati in sostituzione del principe) operassero sempre in modo conforme a giustizia.

Senonchè, secoli più tardi questa concezione ha assunto un significato inverso a quello originario ora descritto. Questo perché l’Europa ha attraversato quella crisi, nel senso di profonda rottura col passato, di cui ha scritto Hazard, che prende le mosse dall’umanesimo, quando si è cominciato a relativizzare, storicizzandoli, parole, espressioni, concetti e modi di pensare, anche attraverso le scienze sperimentali del ‘600 e del ’700 [Galilei, Newton, etc], e che procede attraverso il dubbio metodico di Cartesio, il pensiero scettico di Bayle, e altri che non si riconoscono più nel pensiero di Aristotele e S. Tommaso che avevano sostenuto che "era preferibile che regnasse la legge anziché uno qualsiasi dei cittadini, in quanto la legge era la ragione liberata dal desiderio" e che quindi hanno bisogno di cercare altrove queste certezze. Per questo, l’et_ e0 che nasce dall’umanesimo e procede fino a sfociare nell’illuminismo, può essere considerata l’età del dubbio, perché è un’età che non si ritrova nella sicurezza di conoscere una verità già posta da dio nelle cose, ma è una verità che va cercata (tra i tanti lo ha scritto il poeta tedesco Lessing, 1759, che disse: "se Dio tenesse chiusa nella sua destra tutta la verità e nella sua sinistra la ricerca della verità e mi dicesse di scegliere io mi chinerei con umiltà davanti la sua sinistra e gli direi: la pura verità è per te solo") , sicché l’ancoraggio che allora è sembrato più sicuro, non è stato più Dio o l’ordine impresso da lui nelle cose che i giuristi potevano leggere, ma la

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ragionevolezza naturale di certe soluzioni che erano conseguenti al modo di essere della mente umana. La natura si muoveva secondo  leggi fisiche sue proprie che contenevano in sé anche le leggi in campo giuridico; leggi che venivano cercate da prìncipi e giuristi che le fissavano in tavole elementari perché non restassero esposte all’arbitrio delle seduzioni umane. In questo modo il principe e il legislatore diventavano i garanti di queste leggi uguali per tutti. Così si ebbe quindi un passaggio da Dio alla natura e alla ragione escludendo sempre più la divinità dalla filosofia e dalla scienza.

§ LA SCUOLA STORICA DEL DIRITTO.

Agli inizi dell’800 c’è stata, soprattutto in Germania, una forte reazione al giusnaturalismo razionalistico che era stato dominante fino ad allora. Sappiamo che tra le conseguenze del giusnaturalismo c’era la convinzione che il diritto non fosse un fatto nazionale di ciascun popolo, ma dovesse valere comunque e dovunque, proprio xkè si fondava sulla natura umana, sostanzialmente sempre uguale a se stessa [Aristotele diceva che il fuoco brucia dovunque al medesimo modo]. Ma questa convinzione era spesso attenuata dal fatto che gli stessi illuministi erano convinti che sul diritto, così come sulla natura umana, influissero tutta una serie di circostanze variabili [clima, ambiente, vicende] tale che si tendeva a riagganciare il diritto naturale alla storia.

Il romanticismo ha poi smantellato queste convinzioni e ha contrapposto all’universalità e all’immutabilità delle regole voluta dal giusnaturalismo, la loro mutevolezza e quindi la loro relatività nel tempo facendone un prodotto della storia nazionale di ciascun popolo. Anche in questo caso, bisogna cmq osservare come ci si trovi in presenza di un processo storico scandito da una serie di fatti politici, culturali e giuridici, che hanno innescato la tendenza a riscoprire i valori del passato e della tradizione: questo è avvenuto soprattuto in Germania, dove è stata contrapposta l’immaginazione alla ragione e si è creata una frattura tra la cultura razionalista dell’illuminismo e quella immaginifica del romanticismo.

Ad esempio di queste due contrastanti sentenze, possono essere citati Kant (1724-1804; tra i maggiori esponenti dell’illuminismo tedesco) e Herder (1744-1804; tra i principali fondatori del nuovo storicismo).

HERDER è stato attratto da tutto quello che era irrazionale, che era mitico, scoprendo che la lingua di ciascun popolo era strettamente collegata ai suoi moti dell’animo; ha studiato il modo in cui il genio (cioè il modo di essere) di ciascun popolo si esprimeva nella sua organizzazione politica; ha contribuito a fondare l’idea di nazione, che esprimeva la natura e l’identità profonda di ciascun popolo come frutto della sua propria storia; ha fermato la sua attenzione sul mondo delle origini, sul primitivo, che era capace di esprimere, meglio di altre epoche, lo stato originale , e quindi senza contaminazioni, di un popolo. KANT a esprimere il suo disappunto sull’irrazionalismo, quando è apparso uno scritto di Herder sulla storia delle origini, lo ha letto e ha confessato di non averci capito nulla e ha chiesto che qualcuno glielo spiegasse, "perché quello che poteva ancora affer rare erano comuni concetti esposti secondo regola logica".

Cmq in campo giuridico, questo movimento diretto al recupero della storia e dell’identità nazionale, si espresso in una scuola che ha avuto in

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SAVIGNY (1779-1861) tra i suoi esponenti principali, e che ha preso il nome di scuola storica proprio xkè ha rivendicato la storicità del diritto. In una sua famosa opera (La vocazione del ns tempo x la legislaz. e la giurisprudenza), Savigny ha ferocemente criticato i tentativi di codificazione che erano stati intrapresi in tutta Europa nel ‘700 quando in essa si era perduto il senso della grandezza delle altre epoche ed erano subentrate aspettative illimitate verso il presente che si credeva essere destinato alla realizzaz. della perfezione assoluta. Ma i tempi presenti erano, secondo Savigny, cambiati, xkè si era ridestato il senso della storia ed era caduta quella presunzione e questo consentiva di interrogare la storia per sapere come fosse a vvenuta l’evoluzione del diritto presso i vari popoli. La conclusione cui è giunto Savigny è che il diritto si sviluppa insieme al popolo, si perfeziona con esso e si estingue man mano che il popolo perde le sue peculiarità. Ma questo che doveva essere il patrimonio di tutti, diventava poi di competenza di singoli, dei giuristi che si ponevano come mediazione tra popolo e diritto ("il diritto ha una doppia vita: continua ad essere un aspetto della vita complessiva del popolo ma è anche una scienza particolare nelle mani dei giuristi").

Quando le perete arrivarono ad un livello storicamente denominato "Loffa" il responsabile dei Cazzulli in accordo con il consiglio generale puzzolente, stabilì lo "IUS PUZZONE" per determinare lo stato dei livelli di pereta…

Savigny si nutre di una cultura tedesca che non è (come quella illuministica) una cultura individualista, dove ciascuno è se stesso prima ancora di essere parte del tutto; per questo Savigny ragiona in termini di enti collettivi e crede di poter riportare la coscienza dei giuristi alla coscienza popolare senza che sia necessario spiegare come questo avvenga. Savigny da x scontato che esista una coscienza collettiva popolare e che i giuristi partecipano di tale coscienza e sono quindi capaci di leggere nei comportamenti del popolo le regole giuridiche che sono tutt’uno con la sua natura. Ora sembra che la chiave di lettura di questo ragionamento, che individua un nesso organico tra giuristi e popolo, sia di stampo irrazionalistico. E’ un filone culturale quello dell’irrazionalismo che è durato a lungo nella cultura tedesca, fino a diventare il criterio che ha cercato di legittimare i l rapporto tra il popolo e il suo capo (Fuhrer) che si è espresso durante il nazismo in termini di identificazione profonda derivata dall’unità biologica che si trovava nell’appartenenza ad un’unica razza, che ha preteso di farsi egemone.

Come si è detto da Savigny è nata una scuola che voleva essere rivolta sia allo studio storico del diritto sia allo studio sistematico dello stesso, che doveva saper collegare sempre le singole parti al tutto, dato che il diritto non era costituito da una massa di norme, ma da norme che si coordinavano in organismi maggiori (istituti) e attraverso questi in un complesso unitario e organico che formava il sistema. In questo modo il diritto aveva due facce: una storica, che consisteva appunto nel suo divenire storico, nella sua produzione, che doveva essere indagato; una concettuale, che prescindeva dal processo storico e costituiva il "diritto divenuto". In questo modo si sono avuti due Savigny: uno che ha indicato la strada dello studio storico del diritto nel suo collegamento con lo sviluppo sociale; l’altro che si è indirizzato verso studi antiquari, nell’esigenza di ricostruire biografie e profili d i giuristi, opere prodotte, perdendo di vista l’intendimento della connessione sistematica del diritto vigente.

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§ LA PANDETTISTICA.

Abbiamo appena visto come Savigny ha insistito sulla necessità di uno studio sistematico del diritto che illustrasse le affinità x cui singoli concetti giuridici e regole sono connessi in una grande unità.

Così facendo egli ha posto le premesse x uno studio tutto diverso da quello storico che è stato sviluppato da un’altra scuola giuridica che è nata in Germania e si è diffusa, nell’800, in tutta Europa. L’anello di congiunzione tra la scuola storica e quella PANDETTISTISCA è rappresentata da Georg PUCHTA (1798-1842) che ha appunto segnato il passaggio dalla concezione storica del diritto alla giurisprudenza dei concetti. Un suo scritto famoso, Manuale di Pandette, ha così contribuito a dare il nome alla nuova scuola di pensiero. In questo suo scritto Puchta ha preso le distanze da Savigny cercando di costruire la scienza giuridica, che diversamente da Savigny riteneva che fosse la fonte del diritto, secondo una scala di concetti concatenati l’uno all’altro in quella che egli ha definito "genealogia di concetti", a partire dal concetto di diritto fino ai singoli co ncetti dei diritti sogg.vi.

Per questo il diritto non si manifestava né nelle convinzioni popolari né nelle espressioni del legislatore, ma come prodotto di una deduzione scientifica. Così, ad es, la nozione di consuetudine aveva sì un nutrimento storico, ma era stata concettualizzata e appariva così nella concezione del pandettista Windscheid, come in Puchta: "nell’uso si manifesta la convinzione degli utenti che ciò che essi usano sia diritto, ed in questa convinzione sta la ragione della forza obbligatoria del diritto consuetudinario". In questa prospettiva la convinzione da cui nasceva la consuetudine era un fatto di ragione e di logica giuridica, non di sentimento popolare.

In ciò è evidente il circolo vizioso: da una parte si considera l’opinio iuris come elemento costitutivo della norma consuetudinaria (in quanto l’opinio è presupposto necessario dell’obbligatorietà); dall’alra si definisce l’opinio come convinzione di sottoporsi ad una norma giuridica (in altre parole l’opinio presuppone un obbligo preesistente); è un gatto che si morde la coda.

 

CAPITOLO IV

§ CHE COSA E’ UN CODICE OGGI.

Ma… che vuol dì stò simbolo all’inizio? Tu sei una PERETA dei Pereti Cazzulli! Ecco. Quando si parla al plurale di codificazioni non lo si fa per caso: infatti la forma singolare sottende implicitamente la convinzione che il fenomeno delle codificazioni sia unitario, mentre la forma plurale non esprime una convinzione e lascia impregiudicato il problema se quel fenomeno sia unitario, e quindi uguale dappertutto o se si tratti di fenomeni diversi tra loro. In ogni caso partire dalla definizione contemporanea di codice per poi verificare eventuali corrispondenze con le nozioni di codice di altre epoche.

§ I CODICI IN SENSO ATECNICO.

Al riguardo bisogna anzitutto precisare che quando si parla di codice oggi, ci si riferisce solo a quei testi normativi che costituiscono tecnicamente un codice, e

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non anche a quegli altri testi che pur avendo il nome di codice, non lo sono da un punto di vista tecnico. Per fare un esempio dei codici in senso atecnico è sufficiente citare il codice tributario, quello amm.vo, della pesca, dell’edilizia, che non sono codici, ma una raccolta di un certo numero di leggi messe insieme perché si riferiscono ad una certa materia comune [il dir. tributario, il dir. amm.vo, etc]. Una prima differenza di questi testi rispetto ai codici veri e propri sta nel fatto che essi sono formati da molte leggi autonome l’una dall’altra che sono state approvate in tempi diversi; mentre il codice in senso tecnico consiste in una sola legge (il codice è un testo dato  dal legislatore, una legge sola). Una seconda differenza sta nel fatto che di solito i testi di cui parliamo sono sempre opera di privati, x cui possono essere anche diversi tra loro, in quanto rappresentano il punto di vista di chi scrive [ il codice tributario curato da un certo autore potrà comprendere un certo numero di leggi che sono quelle che quell’autore ha ritenuto fosse utile porre insieme, a differenza di un altro autore].

§ I CODICI IN SENSO TECNICO.

Secondo il sistema attuale delle fonti del diritto, il codice in senso tecnico non è altro che una legge, anche se con alcune particolarità: anche se dal punto di vista della forza imperativa non hanno portata maggiore di una legge singola, hanno a loro favore la maggiore estensione e soprattutto la maggiore organicità e importanza di contenuto, in quanto disciplinano complessi di materie che ruotano intorno a principi fondamentali comuni. Oggi, però, la legislazione speciale ci ha abituato a leggi che, dal punto di vista dell’estensione hanno poco da invidiare ad un codice: come, ad es., la L. 23 dic. 1996 n. 662 contenente misure di razionalizzazione della finanza pubblica, che è formata da soli tre articoli, che però sono divisi in 267, 224 e 217 commi, avvicinandosi quantitativamente al c.p.c. originariamente formato da 840 ar t. + 198 art di disposiz. transitorie e attuative.

Ma nessuno ha pensato che questi testi elefantiaci possano essere codici, evidenziando come il requisito della maggiore estensione non sia da solo sufficiente a definire un codice. Infatti, a questo fine, un punto utile di riferimento può essere la maggiore organicità, che non si ritrova nelle leggi contemporanee, così come vi abbiamo invece trovato "l’estensione".

§ LE DEFINIZIONI DELLE ENCICLOPEDIE CONTEMPORANEE.

Infatti le grandi enciclopedie giuridiche (e poi anche le enciclopedie e i dizionari non specialistici), che rappresentano la sintesi delle opinioni consolidate in un certo momento, mettono in evidenza l’organicità del codice, che è definito un "corpo organico di norme". Ad es., nel Nuovo digesto italiano degli anni ’30 si trova l’affermazione che " nel linguaggio giuridico, codice significa una raccolta di leggi, che contiene la maggior parte delle norme giuridiche che disciplinano una det.ta materia e che sono sistematicamente disposte in un tutto organico in modo che ne sia più agevole la ricerca e più facile la consultazione". Questa definizione è poi rimasta identica anche nel Nuovissimo digesto italiano degli anni ’60.

 

 

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§ LE DEFINIZ DELLA SCIENZA GIURIDICA E LA COMPLETEZZA.

L’orientamento scientifico che sostiene la natura organica del codice, si sofferma in realtà soprattutto sul fatto che il codice è anche esaustivo nel senso che disciplina in modo completo e sufficiente gli istituti che vi sono trattati. E’ quanto ha ad es., sostenuto Tullio Ascarelli (1945) scrivendo che "il codice è caratterizzato dalla pretesa di costituire un ordinamento giuridico completo e definitivo, che racchiude nelle sue formule la disciplina per tutti i casi possibili". In questo modo egli ha messo in evidenza soprattutto il connotato della completezza, dell’esaustività del codice. Questo significa che un certo istituto, ad es. quello delle locazioni, trova la sua completa disciplina nel codice e che, se mancano altre leggi speciali che le disciplinino, per un certo tipo di locazioni [quelle degli immobili  urbani o fondi rustici] basterà sempre la disciplina dettata dal codice a dirimere le questioni in via diretta o analogica. Questo per sottolineare che l’idea della completezza oggi viene associata immediatamente al codice, perché senza la completezza un codice sarebbe come un deserto senza sabbia.

§ LUIGI MENGONI.

In realtà la scienza giuridica contemporanea si è già rivolta verso altri orizzonti: Luigi MENENGONI (civilista contemporaneo) ha sostenuto che la completezza, come connotato del codice, è stata una ideologia tipica dell’800. Per ideologia chiaramente s’intende una convinzione fondata su una serie di altre convinzioni legate ad una particolare situazione storica, politica, culturale e quindi ad un det.to tempo e ad un det.to luogo; con la conseguenza che essa è mutevole nel tempo xkè rispecchia un complesso di valori mutevoli anch’essi. Da questo punto di vista si potrebbe affermare che il codice completo è il codice come è stato visto nella prospettiva storica, culturale e politica dei giuristi dell’800, convinti che i loro codici rappresentassero un modello definitivo di regolamentazione dei rapporti giuridici.

Nella prospettiva di Mengoni, il valore su cui si fonda oggi il codice non è il fatto che esso debba essere completo, ma la presenza nello stesso di "un nucleo sistematico di concetti", ossia di prìncipi giuridici. Questi concetti costituiscono e garantiscono la costruzione dell’ordinamento secondo criteri razionali e omogenei. In questo modo, secondo Menegoni, il codice non è più l’unica fonte che regola i rapporti tra privati, ma è pur sempre l’elemento di centralità e stabilità all’interno del sistema giuridico [ad es. la legislazione speciale in materia di locazione ben potrà disciplinarne i diversi rapporti, ma dovrà tener conto, come punto di riferimento, dei prìncipi contenuti nel codice, non potendoli stravolgere completamente].

§ PIERO SCHLESINGER.

Anche Piero SCHLESINGER (altro grande civilista), pur sottolineando che il codice non presenta più una "tendenziale esaustività" ribadisce, insieme ad altri autori, la centralità del codice civile come legge fondamentale per i privati. Così si è assistito ad una trasformazione dei rapporti tra codice e leggi speciali: originariamente il codice proprio perché si riteneva fosse "completo", si identificava con l’intero sistema giuridico e non c’era altro diritto se non nel codice. Poi però il mito della completezza è venuto meno e si è insistito sempre più sul ruolo del sistema, ossia dei prìncipi giuridici che enuncino

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organicamente poche verità fondamentali, che hanno in sé la base x le soluzioni x tutte le questioni che possono sorgere.

§ ROSARIO NICOLO’.

Secondo Rosario NICOLO’, attraverso questo processo il giurista si è trovato di fronte al problema di costruire un sistema che sia idoneo a inquadrare e risolvere qualsiasi fattispecie. E la ricerca di un nuovo sistema, che presuppone stabilità, si fa più difficile in un quadro normativo che lungi dal garantire una stabilità di discipline, tende ad un rincorrersi di leggi speciali sollecitate dai diversi interessi emergenti dalle rapide trasformazioni della società moderna. In queste parole si evidenzia chiaramente una crisi della scienza giuridica contemporanea che già dai primi anni ’60 aveva fatto i conti con la crisi del codice e del sistema: quando cioè si trattava di definire che cosa rappresentasse il codice nella società, se un corpo organico e completo di norme, oppure un tessuto di principi che non  forniva la disciplina effettiva, ma il criterio di orientamento sul quale le leggi speciali, la dottrina e la giurisprudenza, dovevano fondare la disciplina effettiva.

§ RESCIGNO, FALZEA, SACCO.

Un altro interrogativo nella scienza civilistica attuale è se sia prospettabile un corpo di regole di comportamento che pretende di avere una lunga durata (visto che il codice è una struttura normativa organica, un insieme di regole ordinate razionalmente nei modi di un sistema: ed ogni sistema possiede una intrinseca rigidità) rispetto ad una società che in nessun momento è uguale a se stessa.

Un codice, infatti, non può essere facilmente modificato, proprio perché è per sua natura organico e sistematico . Ed è proprio a questo riguardo che ci si chiede se le codificazioni non siano ormai una forma superata di legislazione. (RESCIGNO – FALZEA – SACCO ed altri).

§ DECODIFICAZIONE E RICODIFICAZIONE.

Sul valore attuale del codice, Natalino IRTI, ha scritto L’Età della decodificazione, parlando del presente come di un’età in cui non c’è più spazio per i codici. Tuttavia, mentre in Italia si parla molto di decodificazione, in altri paesi, come in Francia, ci sono forti spinte verso una riscoperta della codificazione, ossia verso una ricodificazione (e si è pensato ad una codificazione globale del diritto vigente per l’anno 2000; questo lavoro è andato avanti con celerità e da un rapporto risulta che sono in elaborazione una decina di codici e che altri sono già stati approvati). Ma, come ha osservato Rescigno, oggi i codici hanno perso il valore di centralità nel sistema giuridico; parlare di decodificazione significa esprimere un dato innegabile del nostro sistema politico e sociale, e esprime altresì l’idea di assecondare il legislatore in un  disimpegno dal codice, sottraendo al codice materie che vengono affidate alla legislazione speciale. Ma attraverso queste osservazioni ritorna una domanda fondamentale: che ruolo ha, allora, il codice nella società contemporanea?

§ LEGISLAZIONE E SCIENZA GIURIDICA.

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E ancora, che ruolo hanno il legislatore e il giurista? Una soluzione potrebbe essere che il legislatore e il giurista debbano assecondare le spinte politiche e sociali che portano lontano dal codice e lasciare alla legislazione speciale il compito di regolare di volta in volta i conflitti che emergono. Un’altra soluzione, di segno opposto, potrebbe essere che essi debbano cercare di governare queste spinte nel tentativo di trovare soluzioni non episodiche e legate a interessi settoriali.

Ma questo significa credere ancora che una società possa essere organizzata secondo regole comuni e che dunque esista un criterio comune per regolare i conflitti. Al riguardo bisogna però notare come sia mutata oggi l’idea di codice: allo stesso non si domanda più di essere immutabile, ma lo si crede capace di adattarsi a realtà nuove senza perdere la propria validità. Questa concezione viene sostanzialmente legata a due profili: tecnico-giuridico e della realtà storico-sociale.

Dal punto di vista tecnico è stata posta l’alternativa tra il codice visto come "diritto residuale" e il codice come "diritto comune"; e così Menengoni ha scritto che se si moltiplicano le leggi speciali e se esse prendono il sopravvento sul codice (sia x il loro numero che x l’importanza delle materie cui si riferiscono) il codice non è più una fonte di diritto che disciplini direttamente i rapporti tra privati, ma diventa un diritto residuale (cioè un diritto cui si fa ricorso quando manchino altre norme da applicare). Ma questo, secondo Menengoni, non sminuisce il valore del codice che rimane cmq un punto di riferimento per comprendere e coordinare in modo unitario la legislazione speciale, che altrimenti risulterebbe dispersa in mille parti.

Dal punto di vista storico-sociale, invece, è stato ribadito che il codice rispecchia il tipo di vita di una comunità, quei valori che provengono dal passato e segnano i tratti culturali di una det.ta società. Anche in questo modo il codice non perde il suo valore e diventa un complesso coerente e organico di valori che serve ancora ad orientare gli uomini, ricollegando le società con la storia.

§ I CODICI E UNO STORICO DEL DIR.

(Questa carrellata sul dibattito riguardo ai codici, serve soprattutto a sottolineare come molti problemi si sono presentati più volte nella storia e ogni volta hanno portato a risposte più o meno diverse e originali, proprio xkè calate nel tempo e nello spazio in quella realtà mutevole ch è la storia degli uomini. Serve anche a mettere in luce che la nozione di codice si è ancorata a valori diversi, dalla organicità alla completezza fino alla centralità all’interno di un sistema o addirittura verso la prospettiva di un venir meno della forma codice. In questo modo il primo risultato raggiunto attraverso questo studio, è che la nozione di codice non è mai stata ferma nel tempo e nello spazio, e che per studiare i codici del passato, bisogna interrogarsi anzitutto su cosa siano i codici oggi e confrontare l nostra nozione con quella di altre epoche).

§ LA NOZIONE DI CODICE TRA 1° E 2° ‘800.

Già agli inizi dell’800 c’era una realtà diffusa del diritto codificato: basta, ad es., pensare alla Francia con il codice civile del 1804 o all’Austria con il c.c. del 1811; ed anche ad altri stati, tra cui alcuni stati italiani preunitari, avevano un codice. Ma allora ci si chiede cosa s’intendesse allora x codice?

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§ LE DEFINIZ DELLE ENCICLOPEDIE DELL’800.

Per stabilirlo si può guardare a pochi spunti tratti dalle definizioni presenti nell’enciclopedie dell’800 e dalla letteratura giuridica italiana di tale epoca.

Per quanto riguarda la prima fonte, si può partire da un Dizionario legale pubblicato nel 1834 da Pasquale Liberatore, un giurista che operava nell’ambito napoletano e quindi era molto aperto all’influenza della cultura giuridica francese, che rappresentava una delle scuole della scienza giuridica più importanti nell’800. Per Liberatore il codice era "un corpo di leggi destinate a stabilire le relazioni di socialità, di famiglia, d’interesse tra i membri della stessa società". In queste sue parole si avverte, appunto, l’eco di Portali, uno dei principali artefici del c.c. dei francesi che definisce il codice "un corpo di leggi destinato a dirigere e fissare le relazioni di socialità, di famiglia e di interessi che esistono tra gli uomini di una stessa città".

Giuseppe Maria Regis (nel Dizionario legale teorico-pratico) e Francesco Foramiti (nell’Enciclopedia legale) affermano che il codice è nato dall’esigenza di mettere ordine nel disordine delle molte leggi fino ad allora promulgate, che divennero difficile a conoscersi, presentando anche contrarietà, e quindi di riunirle in una sola raccolta.

§ NOZIONE DI CODICE NELLA LETTERATURA GIUR. ITALIANA DELL’800.

Anche per quanto riguarda la letteratura giuridica italiana dell’800, in molti scritti (Nipoti, Ambrosoli) della seconda metà del secolo vi si legge il ruolo unificante del codice dove l’esigenza di unificazione legislativa era un risvolto dell’unificazione politica ( tenendo presente che questi scritti nascevano proprio negli anni in cui prendeva corpo l’unità d’Italia e si pensava, appunto, ad una sua unificazione anche di tipo legislativo).

§ FILOMUSI GUELFI.

Attraverso uno dei giuristi più famosi e colti di fine secolo, Francesco Filomusi Guelfi, è possibile rilevare quella che era l’opinione consolidata riguardo al codice nel tardo ‘800. In un primo momento, vicino alle opinioni di cui sopra di inizio ‘800, Guelfi non analizza il concetto di codice, ma il suo scopo, ritenendo che come per il c.c. dei francesi esso era stato quello di dare un diritto uguale a tutta la Francia, tenendo conto delle idee della rivoluzione, per il c.c. italiano del 1865 lo scopo era quello di realizzare l’unità del diritto privato come completamento dell’unità politica.

Poi, in opere più mature, Guelfi ha dapprima definito il codice tradizionalmente come una raccolta di leggi, per poi scoprire che il codice si presenta come un organismo, ossia un sistema legislativo che rappresenta la forma più alta e complessa di legge a cui può elevarsi la coscienza giuridica di un popolo; a rivelarci, dunque, che l’opinione consolidata a fine ‘800 riguardo al codice insisteva sulla sua natura organica, esaustiva e sistematica.

§ NOZIONE DI CODICE IN ENCICLOPEDIE TRA ‘800 E ‘900.

Alcuni storici del diritto tra ‘800 e ‘900, come Sclopis e Pertile, rifuggivano dalle concettualizzazioni del codice e ricercavano solo lo scopo per cui era nato il codice. Al riguardo Pertile è stato autore di una periodizzazione del codice (che è rimasta a lungo nella nostra storiografia) in due fasi:in un primo

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tempo ci sono stati codici che non erano altro che collezioni più o meno sistematiche di leggi, mentre poi, all’inizio dell’800, la codificazione si presenta nella forma di legge unica ed organica che pretendeva un impero esclusivo [come i codici francese e austriaco; 1804 e 1811]. Queste riflessioni, stanno ad indicare come, ancora alla fine dell’800, non si era giunti ad un concetto assoluto di codice, come quello denunziato da Menengoni, che ergesse il codice a valore non pi_ f9 calato nella storia del suo tempo, ma collocato in una realtà senza tempo e senza spazio.

§ UN MITO DA SFATARE: CONSOLIDAZIONI E CODIFICAZIONI.

In Italia tra gli studiosi del diritto circola una convinzione: che vi sia una differenza tra i codici e le consolidazioni legislative delle epoche anteriori volte soltanto a riordinare il diritto vigente.

§ LA TESI DI MARIO VIORA.

Questa distinzione è stata posta per la prima volta da Mario VIORA (1903-1986), uno storico del diritto italiano che ha dedicato un suo volume appunto a Consolidazioni e codificazioni. Una prima differenza fondamentale tra i due è di tipo quantitativo e di contenuto: Viora ritiene che la consolidazione è una raccolta di leggi che guarda al passato con lo scopo di semplificare il diritto vecchio senza essere però in grado di mutare il sistema delle fonti in cui si inserisce; a differenza del codice che, in quanto elaborazione di nuove leggi, che abrogano quelle precedenti guardando al futuro, è in grado di mutare in modo radicale tutte le fonti previggenti. Anche se non l’ha chiaramente affermato, da queste riflessioni risulta chiaro che il codice si caratterizza anche per la sua esaustività e completezza.  

Più tardi, ritornando sull’argomento, Viora ha aggiunto anche un secondo criterio di differenziazione, accennando al fatto che il codice si caratterizza anche per voler realizzare l’uguaglianza giuridica di tutti i soggetti ( caratteristica che però è rimasta in ombra rispetto a quelle già viste e che più tardi sarà ripresa da altri autori che ne faranno la componente essenziale dei codici moderni). Riassumendo le tesi di Viora, le caratteristiche salienti di un codice sono:

esso pretende impero esclusivo nel campo del diritto che contempla, abolendo le altre fonti del diritto;

ha per scopo di stabilire il diritto, non di divulgarlo;

perciò esso è legge nuova e non riunione di leggi antiche;

esso contempla una sola parte del diritto, caratteristica che è estranea alle consolidazioni.

Cmq questa distinzione, ha avuto come conseguenza da una parte quella di spezzare la continuità storica del processo di formazione dei codici, perché prima era esistito il processo di consolidazione e poi quello diverso di codificazione; dall’altra quello di creare due categorie irriducibili l’una all’altra, per cui ogni testo o va catalogato nell’una o nell’altra, finendo col forzare la realtà della storia immobilizzando in questo schema anche testi che non rientrano in nessuna delle due.

§ ALTRE POSIZIONI.

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Da allora la coppia consolidazioni-codificazioni è diventata uno strumento per interpretare la storia e a servirsene sono stati in tanti che hanno chi tolto, chi modificato e chi aggiunto qualcosa, contribuendo così a rendere sempre meno utilizzabile questa coppia creata da Viora.

§ IN GUIDO ASTUTI.

Tra questi, si può citare, ad es., Guido ASTUTI (1910-1980; uno storico del diritto italiano) che dapprima non aveva accolto la distinzione tra consolidazioni e codificazioni, ma poi l’aveva fatta propria, lasciando però cadere ogni riferimento ai contenuti normativi, vecchi nelle consolidazioni e nuovi nel codice, guardando altrove. Egli ha affermato che carattere tipico della codificazione è l’unificazione del diritto civile, attuata sostituendo al preesistente sistema pluralistico di fonti normative un unico testo legislativo (in sostanza, solo con l’unificazione del sistema delle fonti del diritto, quindi con la creazione di un testo normativo organicamente compiuto, di valore generale, cioè completo ed esaustivo, si sarebbe in presenza di un codice, mentre tutto il resto sarebbe consolidazione).

§ IN GIOVANNI TARELLO.

Giovanni TARELLO studioso di filosofia del diritto; 1934-1987), riprendendo, senza saperlo lo spunto a cui era giunto anche Viora riguardo all’uguaglianza giuridica dei soggetti come caratteristica del codice, ha osservato che il dibattito teorico dell’illuminismo e il processo politico che era sfociato nella rivoluzione francese avevano portato ad eliminare dal mondo del diritto, le differenze giuridiche tra coloro che appartenevano a ceti diversi (cioè le differenze che facevano esistere statuti soggettivi diversi in virtù dei quali certi diritti spettavano solo ad alcune categorie di persone). In questo modo, mentre l’antico regime era stato caratterizzato dall’esistenza di soggetti giuridici diversi tra loro [nobili, borghesi, contadini], il mondo nuovo nato dall’illuminismo e dalla rivoluzione francese era caratterizzato dall’esistenza di un sogge tto unico, l’uomo in quanto tale, che era titolare di tutti i diritti in modo uguale rispetto ad altri soggetti. Cmq egli sosteneva che i codici avessero realizzato una semplificazione dei sistemi tradizionali abrogando il diritto precedentemente vigente sostenendo che carattere peculiare dei codici è la completezza e l’esaustività.

§ IN NATALINO IRTI.

In tempi recenti anche Natalino IRTI ha ribadito la validità delle consolidazioni e delle codificazioni come categorie contrapposte, definendole però categorie storiche e non, come Viora, categorie logiche (concetti). Secondo Irti consolidazioni e codificazioni sono modi per ricostruire il significato di alcuni periodi storici: consolidazione rappresenta, infatti, la stabilità dopo il movimento, il congelarsi di norme che prima fluivano mutevoli e provvisorie e che ora si connotano attraverso i criteri di ordine e durata. Questa stabilità ha un profondo significato storico: rivela che un certo conflitto di interessi ha trovato una mediazione legislativa, provvista di un consenso sociale, per cui il legislatore è in grado di raccogliere la disciplina della materia in un testo consolidatore, cioè in una struttura di norme capace di durare nel tempo: il diritto che si consolida diventa dun que come un ponte gettato tra il vecchio e il nuovo, in un equilibrio e un assetto di interessi che sono garantiti

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dall’intervento del legislatore. Ma in questo modo si associa alla consolidazione quella definizione di categoria logica, cioè di concetto fermo nel tempo e nello spazio, che Irti aveva invece cercato di negare. Ed inoltre Irti finisce anche con il vedere nelle consolidazioni caratteristiche che Viora ed altri avevano ritenuto invece proprie del codice [il fatto di essere un’opera duratura]. Per quest’uso ambiguo che i vari autori hanno fatto di questa coppia, si ritiene che la stessa non sia uno strumento da utilizzare per fare chiarezza della realtà e che per questo sia piuttosto un mito da sfatare.

§ ACCENNO AL DIBATTITO CONTEMPORANEO IN FRANCIA SULLE CODIFICAZIONI.

Per capire che cosa sia stato e che cosa sia un codice, si può fare riferimento al dibattito che c’è stato in Francia negli ultimi decenni del ‘900, dove dal 1948 in poi ha preso corpo una forte spinta verso la codificazione. In questo dibattito è stata segnalata la dualità intrinseca che si nasconde nella codificazione e si è ritenuto che ci sia una codificazione innovatrice (o riformatrice) che riforma il diritto e una codificazione "a diritto costante" che invece non modifica il diritto salvo che per effetto prodotto dalla codificazione stessa da cui può conseguire una rimodellazione del diritto, motivo per cui non si può parlare di semplice compilazione. Si ritiene quindi che il codice può avere un contenuto innovativo o conservativo, ma in ogni caso si tratterà di codificazione, perché entrambi i process i perseguono obbiettivi comuni anche se con tecniche diverse.

Dunque si è giunti a considerare che non ci sia una differenza tra consolidazione e codificazione, perché ogni volta che si scrive un testo normativo si finisce con l’interpretarlo e quindi per manometterlo (proprio come fa chi traduce un testo e deve scegliere, pur cercando di restare fedele al testo, tra la fedeltà a certe immagini volute dall’autore o alla musicalità, al gioco di rime, etc).

( Spiegazione: Viora aveva distinto tra consolidazioni e codificazioni, ritenendo che le prime non possono essere comprese nel processo di codificazione perché non sono altro che una raccolta volta a ordinare il diritto, senza contenuto innovativo; mentre le seconde creano nuovo diritto, x cui si può parlare di codici. Con questo dibattito si è invece giunti ad osservare che anche le consolidazioni e le compilazioni rientrano nel processo di codificazione xkè anche in quei casi si finisce x innovare il diritto considerando che ogni volta che si scrive un testo normativo si finisce con l’interpretarlo e quindi con l’introdurre qualcosa di nuovo).

§ COME E’ NATO IL MITO DELLA COMPLETEZZA DEL CODICE? LEGGE 30 VENTOSO.

Quando si parla della completezza e dell’esaustività del codice, si chiama in causa il codice civile dei francesi del 1804 e soprattutto l’art. 7 della legge 30 ventoso anno XII n. 3677. Questa legge ha promulgato il codice e nello stesso tempo ha sovvertito il tradizionale sistema delle fonti del diritto e ha abrogato il diritto vigente fino ad allora; per questo si afferma che quello del 1804 sia un modello di codice, perché completo ed esaustivo o auto-integrato, come ha scritto Tarello (cioè capace di integrarsi da solo anche là dove manchi una esplicita previsione di legge).

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(L’art. 7 ha disposto che "a partire dal giorno in cui queste leggi (che formano il codice) sono esecutorie, le leggi romane, le ordinanze, le consuetudini generali o locali, gli statuti, i regolamenti cessano di avere forza di legge generale o particolare nelle materie che formano oggetto delle dette leggi che compongono il codice).

§ GENESI STORICA DEL C.C. FRANCESE.

In Francia si era pensato ad un codice sin dal 1970, quando l’assemblea nazionale che era sorta dalla trasformazione degli stati generali del 1789 con l’obiettivo di rigenerare lo stato attraverso una nuova costituzione, ha decretato che "le leggi civili saranno rivedute e riformate dai legislatori, e che sarà fatto un codice generale di leggi semplici, chiare e conformi alla costituzione". Questo intento, anche se confermato nella costituzione del 1791, è rimasto inconcluso anche per le vicende della rivoluzione, con la fuga del re e lo scontro tra girottini e giacobini (borghesia e popolo). In un turbine di vicende politiche e progetti cost.li si è arrivati, nel 1793, alla redazione della nuova cost.ne, non più borghese ma a carattere ugualitario: il giorno successivo la Convenzione ha decretato che si doveva redigere un progetto di codice civile, e in questo modo è nato il primo progetto di Cambacér ès (1753-1824), il quale avrebbe poi legato il proprio nome alla codificazione in Francia. Questo progetto è stato seguito da un secondo sempre di Cambacérès, che si voleva fondato su concetti più semplici e più filosofici e che per questo è sembrato troppo conciso tanto da essere accantonato. Ma intanto il clima politico della Francia era cambiato, e dal radicalismo della Convenzione si era piegati, dopo la morte di Robespierre (1794) sul moderatismo Direttorio che si apriva con una solenne dichiarazione dei diritti, ma anche dei doveri, dell’uomo e del cittadino. Così si è giunti allo scioglimento della Convenzione nazionale e al governo di un Direttorio esecutivo composto da 5 membri. Così all’interno del consiglio dei cinquecento, che secondo la nuova cost.ne esercitava il potere legislativo insieme al Consiglio degli anziani proponendo leggi, è stata costituita una co mmissione x semplificare e riordinare il diritto e questa ha annunziato che era pronta (1796) x la presentazione di un progetto di codice anche questo predisposto da Cambacérès (era il terzo): ma anche questo testo non è arrivato al traguardo dell’approvazione. Intanto la Francia subiva un altro stravolgimento radicale perché (1799) Napoleone Bonaparte prese il potere istaurando un regime che affiderà a tre consoli: lui stesso come primo console; poi Cambacérès già ministro della giustizia e infine Lebrun. Poi con un decreto nel 1800 Napoleone ha fatto riprendere i lavori di codificazione disponendo che il ministro della giustizia doveva riunire alcuni giuristi x discutere la redazione del codice civile. Questa disposizione ha portato alla redazione di quelle 36 leggi che più tardi sono state riunite insieme con la legge 30 ventoso anno XII.

§ ART 7. Pertanto il testo del codice era già pronto , visto che su di esso si lavorava da anni, quando è stato preparato l’art. 7 della L 30 ventoso anno XII: questo significa che quando si è deciso di redigere il codice non è stato posto il problema di cosa fosse un codice (si partiva infatti dalla nozione consolidata di "leggi semplici, chiare e conformi a cost.ne") e solo successivamente alla sua redazione, inoltre, è stato posto il problema del rapporto tra codice e diritto vigente (quindi contrariamente a quanto richiederebbero la tecnica e la logica).

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Così solo quando è stato preparato e approvato il famoso art. 7 si è aperta la discussione sulla possibilità o meno che il nuovo codice abrogasse in tutto o in parte il diritto precedente. In quella occasione MALEVILLE (che insieme a Cambacérès, Tronchet, Préameneu e Portalis è stato uno dei protagonisti della codificazione civile francese) ha sostenuto che si dovevano abrogare soltanto le norme contrarie al codice e lasciare in vigore le altre, xkè se si fossero abrogate tutte le fonti x non dare ai giudici altra regola che il codice, ci si sarebbe abbandonati al loro arbitrio x un’infinità di questioni. D’altra parte, però, ci si rendeva conto che se si fossero lasciate in vigore le leggi precedenti, non si sarebbe fatto altro che aggiungere il codice all’immensa legislazione da cui si era oppressi. Anche Cambacérès dubitava che il codice fosse completo ed esaustivo (riferime nti alla completezza ed esaustività del codice, come si vede, furono fatti, in quell’occasione, solo di sfuggita) e che dunque contenesse la soluzione x tutti i casi che si potevano presentare, x cui era contrario ad un’abrogazione in blocco dei diritti previgenti; cosa che serviva anche ad evitare, come detto, l’arbitrio dei giudici x i casi non disciplinati dal codice.

Contro le posizioni di chi, come abbiamo visto, propendeva x un modello tradizionale di codice conservando in vigore, anche solo in parte, l’antico regime si era levata la voce di Bigot Préameneu che si è espresso decisamente a favore di un’abrogazione totale, sostenendo che se non si abrogavano i diritti previgenti la Francia avrebbe conservato la distinzione tradizionale tra paesi in cui vigeva il dir. scritto e in cui vigeva il dir. consuetudinario e così sarebbe fallito il disegno dell’unificazione legislativa che aveva ispirato la codificazione. Inoltre la nuova cassazione doveva assicurare l’unità dell’interpretazione del diritto e questo non sarebbe accaduto se si lasciavano in vigore il diritto romano e gli altri diritti.

Ma bisognava pur concedere qualcosa al dir. Romano con la sua tradizione millenaria, x cui Préameneu ha affermato che il diritto romano avrebbe avuto sempre l’autorità di ragione scritta (ratio scripta) e, entro questi limiti, sarebbe stato molto utile, nell’uso pratico, impiegare le massime di equità che esso affermava, senza però essere costretti a servirsi degli errori che a volte conteneva. Così si era giunti ad un accordo: violare le leggi antiche non consentiva di cassare le sentenze, anche se non si negava ai giudici di prenderle come guida.

§ COMMENTO DI MALEVILLE ALL’ART 7.

Maleville ha poi osservato come nel dibattito sull’art. 7 si era parlato solo del dir. Romano e non anche di quello consuetudinario, riconoscendo che quanto detto sul primo vale anche x il secondo.

§ LA VOCE DI PORTALIS.

In questo dibattito PORTALIS ha avuto un ruolo da protagonista per l’autorità di cui godeva e per la capacità di sintetizzare al meglio i termini del problema.Egli si è schierato sulle posizioni di coloro che avevano posto al centro della discussione l’esigenza prioritaria di arrivare ad una vera unificazione giuridica della Francia, dandole una legislazione uniforme; e aveva visto nell’art. 7 del nuovo codice la perfetta realizzazione di questo obiettivo. Portalis infatti, ripercorrendo a grandi linee la storia dei popoli, era giunto a questa conclusione osservando che se i popoli semplici si erano potuti

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accontentare di qualche regola generale e di qualche usanza, con lo sviluppo della civiltà, le leggi differenti ingeneravano solo difficoltà e confusione tra i popoli che nonostante dipendevano dalla stessa autorità, non erano soggetti al medesimo diritto. In questo mod o diventavano estranei l’uno all’altro e finivano per non avere più nemmeno una patria comune. E proprio per evitare questa assurda situazione occorreva che l’ordine civile doveva essere accompagnato anche dall’ordine giuridico (tanto che egli ha affermato che "noi non siamo più provenzali, bretoni, alsaziani, ma francesi").

Nel 1860, in un contesto politico non diverso dalla Francia, anche in Italia, nelle poche discussioni che ci sono state sull’utilità e lo scopo di un codice, si è affermato che l’esigenza di averlo era dettata dal bisogno dell’unificazione giuridica a coronare l’unità nazionale.

§ PROBLEMI E VALORI DELLE CODIFICAZ DEL ‘700.

Ma questa è la concezione moderna di codice che non giova a rivelare quale sia stata la nozione di codice per coloro che nel ‘700 e nell’800 hanno per primi messo mano alla realizzazione dei codici. Infatti per capire il processo storico che ha portato alla codificazione, bisogna interrogarsi sui valori, sui problemi e sulla mentalità dell’epoca. Così, possiamo affermare che l’adolescenza dei codici è stata segnata dalle tensioni tra l’esistenza di uno stato contrassegnato ancora dal dispotismo e dall’arbitrio del sovrano, ma anche dei giudici con la latitudine dei loro poteri [si ricordi il timore di Maleville che per non dare ai giudici altra regola che il codici, ci si abbandonasse al loro arbitrio per un’infinità di questioni] e l’aspirazione ad uno stato nel quale si realizzasse una buona volta il governo delle leggi.

§ LA NOZIONE DI CODICE IN FEDERICO II.

Nel codice di Federico II di Prussia (Code Frédéric), che era stato preparato ma non promulgato, ad esempio lo scopo era quello di stabilire un valore nuovo che era destinato a durare: quello di rimuovere incertezza e confusione e di "stabilire un diritto certo e universale", così come avevano scritto a proposito di questo codice anche Diderot e d’Alembert nella famosa Enciclopedia che è stato uno dei testi fondamentali per la raccolta e la diffusione del pensiero illuminista.

§ EVOLUZIONE SUCCESSIVA.

Più tardi i codici sono usciti dalla loro adolescenza e si sono fatti adulti: la rivoluzione ha realizzato modificazioni profonde sul piano dei rapporti sociali ed ha creato, al posto delle diversità tra gli uomini, il cittadino con i suoi diritti e doveri fondamentali e per realizzare il valore illuminista dell’uniformità e della certezza del diritto, si è pensato di recidere lo stretto legame con il diritto romano: ciò è appunto accaduto con il c.c. nato in Francia e con il suo art. 7.

§ DOTTRINA GIURIDICA FRANCESE DOPO LA CODIFICAZ.

In Francia è durata a lungo la convinzione che il c.c. francese avesse realizzato l’unificazione normativa del diritto francese, dando al paese una legislazione uniforme, senza rompere bruscamente con la tradizione del passato. E così NON si è parlato dei caratteri di completezza e di esaustività che sarebbero diventati nell’800 più maturo un tutt’uno con il concetto di codice.

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§ RISTAMPE DI OPERE DI ANTICO REGIME.

Di fronte ad un’opera così innovativa come il c.c. francese ci si sarebbe aspettati che i commenti fondati sui diritti previgenti uscissero di scena e venissero sostituiti da quelli nuovi. Del resto che senso poteva avere in un contesto di rinnovamento radicale della legislazione, conservare opere, soprattutto pratiche, tutte legate alla tradizione del diritto romano e dei diritti consuetudinari francesi, o addirittura ristamparle? Ma questo fu quello che accadde. Così, appunto diversamente da quanto ci si sarebbe aspettati, subito dopo la promulgazione del code civil, tra il 1804 e il 1807, è uscito di nuovo quel Dizionario di diritto e di pratica , che contiene la spiegazione dei termini del diritto, delle ordinanze, delle consuetudini e della pratica di Claude-Joseph De Ferrière, che aveva già avuto almeno 11 edizioni durante l’antico regime.

parNel 1803 in Francia è cominciata poi ad apparire di nuovo, dopo le precedenti edizioni, L’Analisi ragionata del diritto francese di Pierre Louis Gin, che si è conclusa nel 1805. E in quest’anno l’opera è apparsa anche in Italia tradotta da Tommaso Nani che ha affermato che "un nuovo codice non può essere meglio delucidato che con richiamarlo a quelle fonti a cui ben molti degli stabiliti principi furono attinti".

§ IL REPERTORIO DI MERLIN.

Il caso più significativo di questo atteggiamento è rappresentato dall’opera di Philippe Antoine MERLIN (1754-1838; un personaggio che è stato sulla scena politica e amm.va francese dal 1790 in poi, fino a diventare Ministro della giustizia durante il Direttorio, Consigliere di stato a vita e Procuratore generale imperiale presso la Corte di Cassazione). Il suo famoso Repertorio universale e ragionato di giurisprudenza (un opera non originale xkè Merlin aveva acquistato i diritti di un altro famoso repertorio dell’antico regime: Repertorio di giurisprudenza di Guyot ) è stato pubblicato in Francia sin Dl 1807 e ha avuto varie edizioni e tradotto anche in Italia. In esso Merlin ci da questa nozione di codice: una raccolta di leggi, tanto se riunite dal legislatore, quanto dallo zelo di alcuni giureconsulti. Merlin ha così tracciato la storia di tante raccolte  che, nel tempo, si sono fregiate del nome di codice contribuendo a diffondere la convinzione che esistevano codici delle leggi romane, di quelle ecclesiastiche, di quelle francesi. Talvolta le ordinanze avevano preso il nome di codice, o singolarmente o nel loro complesso [così il codice Luigi XIV indicava la raccolta di tutte le ordinanze del re Sole, come codice Luigi XV indicava la raccolta delle sue leggi]. Anche ad una singola legge era talvolta dato il nome di codice. In questo modo si era dunque diffusa la convinzione che di codici ne esistessero tanti, nel passato e nel presente, e che tutti non erano altro che una raccolta di leggi capace di coesistere con i diritti previgenti.

§ LA POSIZIONE DELLA SCUOLA DELL’ESEGESI.

La scuola dell’esegesi fu una scuola giuridica vitale per la Francia almeno per tutta la prima metà dell’800 e ha avuto come caratteristica quella di studiare ed insegnare il diritto con la tecnica del commento articolo per articolo. La scelta di questo metodo provava che i giuristi di quella scuola avevano una scarsa capacità di elaborazione teorica e che quindi si chiedevano solo marginalmente che cosa fosse un codice al punto che in tanti di loro [Toullier,

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Duranton, Demolombe] non si era nemmeno accennato alla nuova idea di uniformità del diritto, ma si era spiegato il testo normativo e basta. Per questo la L. 13 marzo 1804 sulle scuole del diritto aveva disposto che si sarebbe insegnato il diritto civile francese nell’ordine stabilito dal code civil: il diritto naturale e il diritto delle genti e il diritto romano nei suoi rapporti con il diritto francese; pertanto à 8 stato il legislatore a imporre una tecnica di insegnamento, per dare al codice un ruolo preminente rispetto alla scienza giuridica ed evitare, come aveva sostenuto Maleville, di abbandonarsi all’arbitrio dei giudici x una infinità di questioni e di lasciare che si riproducesse l’intrico normativo del quale il codice aveva cercato di venire a capo. Così l’uniformità del diritto introdotta dal codice è stata considerata "un vantaggio inestimabile per la Francia" ed è circolata un po’ dappertutto.

§ LE OPINIONI DI LAURENT.

François LAURENT (1810-1887), un giurista belga culturalmente legato alla tradizione della scuola dell’esegesi ha letto i lavori preparatori al codice francese e ne ha diffuso le idee di fondo, soprattutto quelle di Portalis. Secondo Laurent l’antico regime era stato un regime di diversità e malgrado il potere assoluto dei sovrani non c’era stata un’unità tra territori, a formare un solo stato, e nemmeno tra gli uomini, per la loro distinzioni in ceti diversi, sicchè il diritto non poteva essere unico. Il diritto è l’espressione della società: quando la diversità regna negli spiriti, regna anche nelle leggi. In realtà, solo le raccolte di consuetudini erano come dei codici locali, ma questo valeva, appunto, solo a livello locale, ed era quindi vero quanto affermava Portalis, che "la legge, dappertutto in contrasto con se stessa, divideva i  cittadini anziché unirli, mentre l’unità nazionale richiedeva un diritto nazionale". A questo proposito un altro giurista ha ricordato la battuta di Voltaire che chi viaggiava in Francia cambiava diritto tanto quanto cambiava cavallo.

§ IL CODICE COME FONTE DI DIR UNIFORME.

Da questi spunti emerge chiaramente che il dibattito sul c.c. francese non si è mai incentrato sui caratteri che doveva avere il codice in quanto tale [completezza, esaustività, novità], ma l’unico aspetto significativo che è sempre emerso è la sua capacità di unificare il diritto della Francia, e quindi l’unico connotato che emerge da queste discussioni è quello del codice come legislazione unitaria.

§ I MATERIALI NEL C.C.

Fin qui si sono visti gli scopi e la funzione del codice secondo i commentatori dello stesso, ma un altro aspetto che si deve valutare è quello dei contenuti. L’obiettivo del codice, come aveva affermato Portalis, è stato quello di ispirarsi alla saggezza del diritto romano, di rinunciare solo a quelle consuetudini che erano superate nel loro valore più profondo, di conservare quel che si poteva delle ultime ordinanze reali, di rispettare le leggi pubblicate dalle assemblee nazionali in materia civile quando erano legate a grandi cambiamenti nell’ordine politico: in sostanza si era trattato di operare come una transazione tra diritto romano e consuetudinario, "xkè è utile conservare tutto ciò che non è necessario distruggere: le leggi debbono rispettare le abitudini quando queste non sono dei vizi". Così può dirsi ch e il codice era lo strumento, dal punto di vista dei contenuti, per evitare gli eccessi politici e

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giuridici della rivoluzione che poteva portare ad amare troppo le riforme e i cambiamenti anche radicali, rivendicando a sé un ruolo di ricomposizione dell’equilibrio naturale della società e servendo da ponte tra il passato e il presente.

§ UN PRIMO TENTATIVO DI CONCLUSIONE.

In conclusione il c.c. non è stato considerato dai suoi commentatori un codice che abbia cercato di rompere con il passato dal punto di vista dei materiali giuridici usati; è stato invece un codice che ha ripreso i princìpi, istituti e soluzioni tecniche dal dir. consuetudinario come dal dir. romano, rifondendoli insieme, in un’architettura nuova, che per un verso metteva in mostra i materiali tradizionali usati e x un altro verso li inseriva in un contesto diverso, partecipando allo stesso tempo di tradizione e di rinnovamento.

§ Parr. 27 e 27.1. riuniti nel par. 27.2. che segue

§ I RAPPORTI TRA IL C.C. E LE ALTRE FONTI PREVIGENTI.

Alcune considerazioni sull’art. 7 della L. 30 marzo.

Il codice francese, come sappiamo, non è stato approvato tutto insieme, ma x stralci successivi, con 36 leggi diverse che poi sono state riunite insieme; l’art. 6 ha disposto che ciascuna legge aveva esecuzione dal giorno della sua promulgazione. Dunque le diverse parti del codice sono entrate in vigore in tempi diversi, ma l’abrogazione del diritto romano, di quello consuetudinario, e delle altre fonti indicate nell’art. 7 è avvenuta, anche se con effetto retroattivo, solo con la promulgazione dell’art. 7. Questo significa che c’è stato un periodo (marzo 1803-marzo 1804 quando è stato promulgato l’art. 7) nel quale le singole parti del nuovo codice sono state in vigore senza che fosse abrogato esplicitamente il diritto previgente e anzi sono coesistite con la legislazione previgente contraddicendo l’idea di codice come testo normativo auto-integrato.

Ma un’altra discussione che è seguita all’art. 7 è se lo stesso avesse abrogato davvero tutto il diritto previgente o se l’abrogazione fosse soltanto parziale. Naturalmente da una parte c’è chi ha sostenuto l’abrogazione parziale ipotizzando che il codice avesse abrogato il dir antico solo nelle materie che avevano trovato nel codice la loro disciplina completa, e che invece fossero rimaste in vigore le norme antiche quando il codice non aveva disciplinato compiutamente la materia. Questa tesi è stata, ad es., prospettata dal Journal du Palais, che ha sostenuto che "questa abrogazione deve essere rinchiusa in limiti saggi. Così tutte le volte che i codici non conterranno che alcune disposizioni scarse su certe materie, si potranno invocare le leggi anteriori relative allo stesso oggetto" mentre la tesi opposta "avrebbe x risultato di rendere la nostra legislazione insufficiente su molt i punti".

Per altri, invece, l’abrogazione non poteva che essere totale, e questa è la posizione sostenuta soprattutto da Zachariae e da Laurent.

Secondo Zachariae il nuovo codice aveva abrogato in modo assoluto tutte le leggi previgenti con la sola eccezione di un eventuale richiamo espresso al diritto antico; inoltre, diceva, le leggi antiche che non riguardavano il dir civile o che riguardavano alcune "specialità" di questo dir non regolato dal codice (dir civile speciale) erano state abrogate solo x incompatibilità con il codice. In

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questo modo, però, pur affermando il principio di una abrogazione generale del dir previgente, si è finito col recuperare la distinzione tra dir generale e dir speciale, riaprendo la strada a quelle sottigliezze che il codificatore aveva cercato di eliminare e offrendo la possibilità di considerare ancora in vigore una parte del dir vecchio, se esso non era in contraddizione aperta con il codice.

Laurent ha invece affermato che bastava che una materia fosse oggetto del c.c. perché tutto il dir anteriore concernente questa materia fosse abrogato. Posto in questi ultimi termini, il problema dell’abrogazione non si limitava al solo dir civile, ma trasbordava in quello penale o in quello processuale, che erano stati codificati anch’essi: e anche qui si è applicato il criterio della completezza della disciplina dettata dal codice, affermando, ad es., che erano rimaste in vigore le leggi previgenti in materia di delitti disciplinati dalla legge di polizia rurale in quanto non codificata. In questo modo, però si sono posti i presupposti per recuperare caso x caso, materia x materia, il dir previgente, che non era un dir uniforme x la divisione tra aree di dir scritto e di dir consuetudinario, e quindi per ricreare quella situazione di mancata unificazione giuridica della Francia che il codice aveva cercato di superare.

In realtà la posizione più accreditata è stata quella dell’abrogazione racchiusa in limiti saggi.

§ ABROGAZIONE DEL DROIT INERMEDIO.

Un altro problema intorno l’art. 7 riguarda l’abrogazione o meno da parte di quest’rt, del c.d. DIR INTERMEDIO, cioè delle leggi ke erano state pubblicate dal giugno 1789 sino alla promulgazione del c.c. e ke "talmente modificarono il dir antico, senza abrogarlo interamente, che si riguardano come formanti un dir a parte". Si è posto il problema Mazerat rispondendo con delle osservazioni sostenute anche da Laurent, e cioè che, come si sa, lo scopo dominante di quel tempo era di raggiungere l’unità in fatto di legislazione e x questo "bisognava distruggere in massa le consuetudini, i regolamenti, ecc. per contrario nella legislazione intermedia si dovevano fare troppe distinzioni (tra ciò che andava distrutto e ciò che si voleva tenere); così possiamo dire ke in quest’ultima è stato abrogato tacitamente solo quello che si trova in contraddizio ne con il codice".

§ COMPLETEZZA DEL CODICE NEGLI STATI DI LINGUA TEDESCA.

§ IN PRUSSIA.

Nel caso del codice di Federico II di Prussia (code Frédéric), al quale si è già accennato, la diversa tradizione culturale, le diverse esigenze concrete di politica del diritto, hanno dato una diversa ispirazione al c.c. tedesco rispetto a quello francese nati entrambi da un esigenza di riforma, dovuta x quest’ultimi, come già detto, al problema di un dir disomogeneo, mentre x i primi al problema di un dir senza princìpi di carattere generale e senza sistematica. Infatti Federico II ha cercato di coniugare insieme il dir territoriale prussiano, il dir naturale, il dir romano purgato delle sue eccessive sottigliezze e i principi della ragione cercando di creare "principi generali" x formare un "sistema universale" applicabile a tutti gli stati che prendevano la ragione come fondamento delle proprie leggi.

§ L’ESIGENZA SISTEMATICA.

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Savigny ha contrastato i codici in quasi tutti i suoi scritti principali. La sua critica principale si è appuntata sulla pretesa completezza dei codici. Il codice, infatti, x essere destinato ad n quanto sistemi chiusi e completi, col diritto scientifico, che era invece un rapporto dal quale non si poteva prescindere xkè secondo S. "lo scopo di un codice non può esser e conseguito con la sola scienza o con la sola pratica, ma unicamente con l’unione di entrambe".

§ LA POSIZIONE DI ZEILLER.

Riguardo alla dottrina giuridica austriaca , Franz von ZEILLER (1751-1828) è stato uno dei principali commentatori, oltre che fautore, del codice austriaco promulgato nel 1811, che aveva preso le mosse da un progetto di 60 anni prima di Maria Teresa (imp. 1740.1780) che osservando che la situazione austriaca era caratterizzata dalla coesistenza del dir romano con i principi del dir privato germanico i quali, pur caduti in dimenticanza, venivano però osservati come consuetudini x il loro stretto rapporto con i costumi e gli affari della vita civile, voleva raccogliere la legislazione austriaca x uniformare, senza troppo rinnovare, il diritto. Zeiller, un giusnaturalista allievo di Kant e quindi filosofo della ragione, riteneva che il problema di un ordinamento giuridico fosse quello di consentire a leggi diverse di coesistere tra loro in odo armonico. Egli intendeva dunque la complete zza di un codice come armonia delle parti rispetto al tutto e come possibilità di dedurre razionalmente dai principi generali la soluzione da applicare ai casi, xkè nel dir vi sono regole invariabili che possono dedursi dagli universali principi della ragione e che si possono applicare a tutti i casi.

§ CONCLUSIONI.

In conclusione, possiamo dire che l’impressione che si trae dalla codificazione francese, austriaca, tedesca è che, nel ‘700 e x tutta l’epoca ke è segnata dalla lotta x la codificazione, non si è avuta una nozione omogenea di codice, anche se comune sembra essere stato l’obiettivo: mettere ordine nel disordine delle leggi. Dunque in paesi diversi tra loro x storia politica, x tradizione giuridica, x orientamenti culturali, la parola codice ha celato realtà diverse e talvolta è stata usata x indicare un testo normativo ke realizzasse un dir uniforme, come in Francia; talvolta, invece, si è caricata di una forte valenza concettuale, caratterizzata dalla completezza e dalla sistematicità, come nella Germania di Savigny; talvolta ancora, pur connotando nel senso della completezza un testo normativo la completezza stessa ha significato qualcosa di diverso da quello che poi è diventato, a  fine ‘800, il connotato ideologico del codice, come nell’Austria di Zeiller.

 

 

 

 

CAPITOLO V

§ PREMESSE.

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Per capire il significato della codificazione, bisogna guardare al mondo che ha preceduto la rivoluzione francese e l’età delle codificazioni; un mondo che un grande storico francese vissuto nell’800 (Alexis de Tocqueville, 1805-859) ha chiamato "antico regime" (ancien régime) in contrapposizione tra due epoche. Ma le epoche della storia non possono essere divise con un taglio netto tra vecchio e nuovo, e ciascuna epoca contiene, insieme a quello che la caratterizza, sia i relitti del vecchio sia i fermenti del nuovo. Tuttavia, per rendere più comprensibile questo gioco tra quello che è tradizione consolidata e innovazione, si terranno distinte le ragioni del vecchio e le ragioni del nuovo.

§ UNA BATTUTA DI VOLTAIRE.

VOLTAIRE (1694-1778) aveva scritto che viaggiando x la Francia si cambiava diritto tanto spesso quanto si cambiava cavallo: questa sua affermazione si riferiva al dir consuetudinario francese che insieme al dir romano era uno di quei diritti che ancora si applicavano nella Francia di Voltaire, e ke però, a differenza del dir romano, era diverso da provincia a provincia, con la conseguenza ke la Francia dell’ antico regime era caratterizzata da una grande varietà di dir locali come se non costituisse uno stato unitario. Per un riscontro intuitivo, si può pensare alla situazione italiana all’indomani dell’unità politica conseguita alla proclamazione del regno d’Italia (1861), ma quando non era stata ancora realizzata l’unificazione legislativa che è avvenuta nel 1865: i territori che avevano formato gli ex stati preunitari avevano conservato, provvisoriament e parte della propria legislazione, con la conseguenza ke istituti uguali erano disciplinati in modo diverso o ke, in campo penale, reati uguali erano puniti in modo diverso [come nel caso della pena di morte, rimasta in vigore nel regno d’Italia fino al 1890, ma non nell’ex granducato di toscana, dove era stata abolita già dal 1786 con il c.d. codice Leopoldino].

§ UNO STATO DI ANTICO REGIME NELLA DESCRIZIONE DI NERI.

Pompeo NERI (1706-1776) è stato un uomo politico toscano di grande cultura giuridica e ha ricevuto dal granduca di Toscana l’incarico di redigere un codice di leggi valide x tutto lo stato, e prima di mettersi all’opera ha scritto alcuni Discorsi che dovevano illustrare la situazione vigente allora nel suo stato con i problemi e le difficoltà ke si incontravano a voler mettere "la falce alle radici", riferendosi alle riforme radicali che facessero piazza pulita della tradizione del passato. Il granducato risultava da un’aggregazione di vari stati precedenti i quali, dopo essere stati aggregati insieme, avevano conservato molti tratti della propria diversità originaria tanto ke non c’era mai stato un corpo di leggi generali del granducato di toscana [ si pensi, ad es., al fatto ke ciascuno stato preunitario toscano aveva la sua università, quella d i Pisa x il dominio fiorentino, quella di Siena x lo stato senese e che chi viveva nel territorio senese doveva avere l’autorizzazione del sovrano x andare a studiare a Pisa invece ke a Siena, proprio come se fosse andato a studiare all’estero]. Dall’aggregazione in poi la legislazione del principe si era calata in tutto lo stato, ma in modo non completamente uniforme, visto ke non erano mancate leggi emanate solo x una parte del granducato o riforme adottate x singole provincie. Inoltre, all’interno di ciascuno stato erano ancora in vigore, città x città, statuti locali di epoca anche molto risalente [x es. a Firenze vigeva lo statuto fiorentino compilato nel 1415].

§ I parr 4 e 5 sono compresi nel par 3 che precede.

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§ IL DIR FEUDALE.

Nel granducato, come altrove in Italia e in Europa, era in vigore anche il DIRITTO FEUDALE contenuto nei Libri feudorum ke disciplinavano l’istituto del feudo. Il feudo costituiva come un’isola all’interno dello stato, dato ke era dotato di un suo diritto, diverso da quello del principe, e poneva molti problemi x l’amm.ne della giustizia. Il feudatario era titolare, di regola, anke del potere giurisdizionale nei propri territori (egli, quindi, amm.va la giustizia nei confronti dei propri sudditi), sia in campo civile ke in campo penale, non direttamente, ma attraverso i giudici ke egli aveva nominato, così come faceva anke il principe. Da stato a stato, però, l’intensità dei poteri giurisdizionali del feudatario era molto diversa, con la conseguenza ke c’erano Stati, come il regno di Napoli, in cui il feudatario era titolare di p oteri molto intensi, che gli consentivano di giudicare anke in ultimo grado, e di pronunciare e fare eseguire condanne anche a pene corporali e addirittura condanne a morte. In altri stai, invece, come nel ducato di Milano, il feudatario aveva poteri molto più contenuti, e la sua attività giurisdizionale era sempre sottoposta al controllo dei giudici del principe: il giudice feudale giudicava in primo grado e solo x le cause di valore minore, non poteva comminare pene corporali, e gli stessi giudici feudali erano scelti dal feudatario ma tra coloro che venivano selezionati dalla magistratura suprema del ducato, nominata dal principe. In ogni caso la presenza di una giurisdizione feudale era fonte di problemi concreti xkè spesso il giudice feudale e il giudice cittadino entravano in conflitto contendendosi la decisione di un singolo caso [era quello ke accadeva, ad es., quando una causa civile coinvolgeva da una parte un suddito fe udale e dall’altra una persona ke non viveva in un territorio infeudato, ma in città, e quindi era considerato un cittadino].

§ IL DIR ROMANO.

Accanto al complesso del dir locale toscano, regio e statuario, ke formava il c.d. dir patrio (cioè esclusivo di ogni singolo stato), c’era poi il DIR ROMANO, ereditato dall’antichità classica. Questo diritto era diventato un diritto comune x tutti xkè forniva ai giuristi l’intelaiatura giuridica e logica degli istituti, ke potevano ricevere dal dir del principe la disciplina positiva di questo o quel profilo [sikkè, x sapere cosa fosse la dote, o cosa fosse l’azione nel processo, si doveva ricorrere al diri romano come alla fonte dei principi e dei concetti giuridici; ma x sapere a quanto ammontasse la dote, o cosa succedesse della dote dopo la sua costituzione si doveva ricorrere prevalentemente al dir del principe o al dir locale ke poteva disciplinarne aspetti particolari, o di nuovo al dir romano, se il dir del principe taceva su questo o quell’altro i stituto]. Per questo la formazione tecnica del giurista avveniva ancora soprattutto sui testi del dir romano, e lo studio patrio non era reputato "parte essenziale della scienza di un giurisconsulto ma solo uno studio subalterno di mero fatto", dato ke un vero giurista doveva essere capace di "giudicare in qualunque luogo e in qualunque tempo benkè trovi statuti tra loro differenti".

(saltate molte cose, rileggere e valutare. Par 7 pag 150)

§ DIR CANONICO.

Ritornando alla situazione del granducato di toscana così come la descriveva Pompeo Neri, a rendere ancora più disomogeneo il dir vigente c’era anche il

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DIR CANONICO (cioè il dir ke la chiesa aveva costruito nel corso dei secoli x le proprie esigenze e ke però disciplinava istituti ke si intrecciavano con situazioni disciplinate dal dir civile). Così il dir canonico non era solo il dir di una particolare categoria di persone, gli ecclesiastici, e di una istituzione particolare, la chiesa; era invece un dir ke in tante materie si rivolgeva alla generalità dei sudditi. Il fatto era però ke il dir canonico non andava sempre d’accordo con il dir romano e nemmeno con quello patrio. Basti pensare al caso del matrimonio, dal quale scaturiva la formazione della famiglia ke era importante dal punto di vista civile per i diritti e i doveri ke nasceva no x genitori e figli, x il regime delle successioni, etc. ma esso era importante anke x la chiesa, xkè quest’unione familiare era un sacramento ke attribuiva ai coniugi dir, doveri e divieti significativi dal punto di vista etico-religioso. Dunque x quest’evento si poneva spesso il problema di stabilire a chi spettasse dettarne la disciplina ad es. degli impedimenti matrimoniali tra due soggetti, o del modo di fare il computo dei gradi di parentela, del problema della possibilità o meno di rompere la parola data, etc.

Già Sant’Agostino (354-430) si era posto un problema religioso ke poi è stato alla base della costruzione giuridica dell’istituto della risoluzione del contratto. Il problema era questo: quale comportamento dovesse tenere colui che avendo ricevuto in deposito una spada e avendo promesso di restituirla , poi si accorgeva ke chi gliela aveva data e gliela richiedeva indietro era impazzito e mostrava di volerla usare x uccidere se stesso o qualcun altro. A non restituire una spada, ci si macchiava di menzogna, che come sapeva Sant’Agostino, uccideva l’anima. Ma Sant’Agostino aveva ritenuto che, nel caso, non c’era menzogna xkè al momento della promessa non si poteva pensare ad una pazzia improvvisa e che quindi la promessa fatta non vincolava più se la situazione mutava. Cos’ si è affermato il principio che l’impegno si accompagnava ad una condizione tacita, ossia la clausola "se la situa zione resta com’è"[si res in eodem statu manserit], che poi è diventata "se le cose stanno così" [rebus sic stantibus]. Ma i problemi maggiori emergevano nel processo e nell’amm.ne della giustizia, xkè anche la chiesa aveva i propri tribunali e i propri giudici e pretendeva di giudicare non solo gli enti ecclesiastici, i sacerdoti e i religiosi (cioè quelli ke appartenevano ad un ordine religioso fondato sull’obbligo di rispettare la regola [benedettini, francescani, etc]) ma anche i sudditi che avessero una qualche controversia con un ente ecclesiastico sia ke la questione fosse di dir civile ke fosse di dir penale. Quindi esisteva x il dir canonico, come x quello feudale ed altri, il c.d. privilegio del foro, cioè una situazione di particolare favore ke sottraeva il suddito alla giurisdizione generale del principe e lo sottoponeva ad una giurisdizione speciale.

§ LA GIURISPRUDENZA.

Sempre Neri ha indicato la presenza, affianco a questi "quattro corpi di leggi scritte", di un dir non scritto costituito dalla c.d. interpretatio che si rilevava o dall’opinione dei giureconsulti (e quindi dalle sentenze) che assumeva natura di dir consuetudinario, o dalla scienza giuridica che in qualche modo si avvicinava alla consuetudine, in quanto rappresentava una prassi interpretativa consolidata.

§ IL DIRITTO DEI MERCANTI E DELLE ALTRE CORPORAZIONI.

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Negli stati di antico regime c’erano quindi fonti del diritto molto diversificate tra loro sia dal punto di vista del potere che era capace di produrle sia dal punto di vista dei soggetti che ne erano destinatari [cittadini, sudditi feudali, ecclesiastici, religiosi, etc]. Così per i diversi gruppi di persone si poteva parlare di uno statuto soggettivo particolare, cioè di regole speciali proprie esclusivamente di un gruppo.

Accanto agli statuti sogg.vi, nell’antico regime ci si trovava anche in presenza di statuti reali differenziati, cioè di categorie di beni ke erano sottoposte a un regime giuridico differenziato rispetto ad altri beni [ le terre feudali erano destinate all’infeudazione e non potevano costituire oggetto di rapporti reali di tipo non feudale; i beni immobili ke appartenevano alle chiese o altri enti religiosi erano immuni dal punto di vista fiscale; i beni caduti in successione erano disciplinati da norme ke tenevano conto della loro diversa provenienza; etc].

Tra gli statuti sogg.vi più significativi c’erano quelli ke derivavano dall’appartenenza ad un corpo professionale particolare [le corporazioni: notai, avvocati, mercanti, artigiani, etc] ke era dotato appunto di proprie regole giuridiche (i c.d. statuti) ed anche di propri giudici. Tra i gruppi organizzati più significativi c’era quello dei mercanti, che aveva dato vita ad un diritto, molto spesso non scritto, che si applicava ai soli rapporti tra mercanti o ai rapporti commerciali in genere e che rispondeva all’esigenza prioritaria del commercio che era quella di assicurare la certezza dei rapporti giuridici anche senza il rispetto di forme particolari e di trovare tutela giurisdizionale in modo rapido ( prescindendo dalle molte formalità prescritte x il processo ordinario). Per questo i giuristi avevano teorizzato che "tra i mercanti non è il caso d i mettersi a discutere di sottigliezze giuridiche, ma conviene piuttosto attenersi alla semplice verità dei fatti e alla consuetudine mercantile" e che davanti ai giudici dei mercanti si procedeva in modo semplice e fondato sull’equità e per questo erano nati tanti istituti propri esclusivamente del dir comm.le e riservati ai mercanti [ cambiale, concorso dei creditori, cambio di denaro su piazze diverse].

Per questo tra i mercanti avevano un valore di fonte del diritto gli usi mercantili, cioè le pratiche che si seguivano x stipulare o sciogliere i contratti, magari diversi da piazza a piazza; questi usi mercantili potevano derogare al dir che si applicava tra i non mercanti [contratti stipulati in piena libertà di forme; maturazione automatica di interessi altrimenti vietata, etc].

Dunque anche questi diritti contribuivano a rendere disomogeneo il sistema.

§ I TANTI, O TROPPI, GIUDICI SPECIALI.

Questa situazione era resa ancora più complicata dal fatto che, nella gran parte degli stati di antico regime, le competenze dei giudici si sovrapponevano l’una sull’altra, e il numero dei giudici speciali che erano competenti per un singolo tipo di questioni (civili, penali, amm.ve) era molto elevato.

Il fatto è che gli stati di antico regime non conoscevano affatto il principio di unità della giurisdizione, che è tipico degli stati contemporanei (infatti, nel nostro ordinamento questo principio è sancito dagli artt. 102 e 103 Cost. che attribuiscono la funzione giurisdizionale ai magistrati ordinari, vietano l’istituzione di giudici straordinari o speciali, e riservano al Consiglio di Stato e ai tar la tutela giurisdizionale nei confronti della P.A. sia x gli interessi legittimi

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che x i dir sogg.vi, e, infine, alla Corte dei conti la giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre materie indicate dalla legge).

Invece gli stati di antico regime applicavano il riparto della giurisdizione tra una miriade di giudici speciali [così, ad es, la materia dei redditi era attribuita ad una magistratura che amministrava le rendite dello stato e giudicava le relative controversie, e altrettanto avveniva x altre materie].

Ma questo rendeva complesso il sistema giurisdizionale in quanto diventava difficilissimo trovare il giudice competente [ si pensi al giudice delle strade e al caso in cui una controversia riguardava una strada che correva lungo il confine tra un territorio infeudato e uno non infeudato in cui una eventuale rapina poteva dar luogo ad un conflitto tra giudici diversi (quello delle strade, quello cittadino e quello feudale)]. Lo stato dove le giurisdizioni speciali raggiungevano il più alto numero in Europa era la repubblica di Venezia, per la volontà politica di trovare uno sbocco alle aspirazioni della nobiltà di assicurarsi la possibilità di ricoprire cariche pubbliche.

Ma anche la Francia non era da meno, e proprio al tramonto dell’antico regime, si citava il caso famoso di un suddito che si era rovinato economicamente ancora prima di trovare il giudice davanti al quale far valere le proprie ragioni.

§ DIRITTO ROMANO, CONSUETUDINARIO E REGIO IN FRANCIA.

Infatti, in Francia, si è già visto ke esisteva ali omogenei tra loro ma diversi dagli altri gruppi sociali; questi ceti attribuivano a coloro ke ne facevano parte un complesso di diritti diversi da quelli attribuiti agli estranei al gruppo. I ceti, di regola, erano identificati in base alla nascita di chi vi apparteneva [nobili, borghesi, contadini] o in base ad una situazione sopravvenuta [prendere i voti religiosi ed entrare nel ceto degli ecclesiastici]. I ceti avevano proprie istituzioni e assemblee; erano anche previste assemblee generali (in Francia erano i c.d. stati generali) in cui tutti i gruppi si riunivano divisi x ceto x deliberare su questioni di grande importanza. Naturalmente le diversità dei ceti le si trovavano anke dal punto di vista giuridico. arIn molti stati, come in quelli italiani, le organizzazioni cetuali e i parlamentierano scomparse intorno a metà ‘600, anke se era rimasta la distinzione in ceti.

In Francia, invece, le diversità cetuali erano ancora molto marcate anke alla fine dell’antico regime, tanto ke gli stati generali si riunivano e votavano x ceti, mettendo così in evidenza il fatto di costituire entità separate tra loro; e proprio il rifiuto da parte della borghesia, o terzo stato, nel 1789, di questo tipo di votazione x ceti, con l’affermazione ke si dovesse votare x teste, ha dato inizio, tradizionalmente, alla rivoluzione francese ke ha cambiato tanta parte del mondo e ha posto fine all’antico regime.

(p.s. ciò ke distingue il ceto da una classe sociale è che tra ceti ci sono anke diversità giuridiche)

§ CETI E CLASSI SOCIALI.

Secondo Carlo Marx (1818-1883; è stato il principale teorico dell’esistenza delle classi e dei loro riflessi su tutta l’organizzazione sociale) le CLASSI sono gruppi sciali che si connotano dal punto di vista economico nell’avere o nel non avere a propria disposizione i mezzi di produzione che nella moderna società borghese si identificano con la terra, con gli strumenti industriali e con

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il capitale (inteso come strumento ke consente l’acquisto dei mezzi di produzione) [così, i borghesi svolgono attività di tipo intellettuale o esercitano libere professioni o attività di imprese; le classi subalterne svolgono attività di tipo prevalentemente manuale dove prevale la componente del lavoro proprio rispetto all’impiego di capitale (artigiani); i proletari, non hanno altro ke le proprie capacità lavorative,  intese come forza-lavoro, e vivono di questo].

Nel mondo contemporaneo ci sono state correnti di pensiero ke hanno negato l’esistenza delle classi in senso marxiano. Così, x restare in Italia, durante il fascismo è stata costruita la dottrina corporativa nel tentativo di superare il forte conflitto di classe di allora. Questa dottrina era fondata sulle corporazioni, organismi di dir pubblico riconosciute come "organi dello stato", ke riunivano i datori di lavoro e i lavoratori in una medesima organizzazione di settore [dell’agricoltura, dell’industria, del commercio, ecc] di modo che, ad es., contadini e proprietari terrieri facevano parte della medesima corporazione dell’agricoltura, ke doveva assicurare la conciliazione degli opposti interessi dei datori e dei lavoratori e la loro subordinazione agli interessi superiori della produzione. In ogni caso quando si parla di classi sociali in senso marxiano si fa riferimento ad una connota zione solamente politico-sociale, ma non giuridica, in quanto l’appartenenza a questa o a quella classe non produce conseguenze dal punto di vista del dir privato, penale, processuale, amm.vo, xkè tutti accedono, almeno potenzialmente, ai medesimi diritti, in nome del principio di uguaglianza affermato con la rivoluzione francese e sancito dall’art. 3 della nostra Cost. [semmai saranno condizionamenti di carattere economico ad indurre il figlio di un operaio a fare l’operaio e non il magistrato,; enon regole giuridiche].

Invece i CETI negli stati di antico regime, erano gruppi sociali chiusi in modo che la selezione operata dalla nascita era destinata a protrarsi nel tempo, xkè, di regola, nobile si nasceva e non si diventava [pertanto, x accedere all’avvocatura, ke era considerata la più nobile delle professioni, era necessario essere nobile di nascita, aver continuato a vivere come vivevano i nobili - avendo una casa in città, non lavorando x vivere e non svolgendo professioni considerate incompatibili con la qualità di nobile, o perché manuali ( medico, chirurgo, geometra) o xkè non decorose (era vietato il commercio), non sposandosi con persone di diverso ceto -]. Così, ad es., solo ai nobili erano riservati certi istituti, come il fedecommesso (cioè la possibilità di vincolare parte del patrimonio in modo che si trasferisse di padre in figlio senza la possibilità che i beni vincolati fossero venduti); i nobili erano   puniti x il medesimo reato con pene diverse rispetto a quelle comminate ai borghesi o ai contadini; i nobili non potevano essere sottoposti a tortura nel corso delle indagini penali, come i non nobili.

Questa situazione di disuguaglianza giuridica è cessata, in molti stati d’Europa, con la rivoluzione francese, quando a privilegio giuridico della nascita si è sostituito quello economico, e poi di classe, costituito dalla proprietà.

§ IL PRIVILEGIO CARDINE DELL’ANTICO REGIME.

L’esistenza dei ceti comportava l’esistenza di tante situazioni giuridiche sogg.ve differenziate tra loro, ma non ne costituiva l’unica fonte. Uno dei cardini dell’antico regime era rappresentato dalla disuguaglianza dei soggetti di fronte alla legge a causa del PRIVILEGIO ke consisteva nella

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posizione particolare ke veniva riconosciuta giuridicamente a colui il quale si trovava x nascita in una certa posizione o a colui ke aveva ricevuto una attribuzione particolare da parte del sovrano.

Tra i privilegi più noti c’erano quelli di tipo fiscale, in virtù dei quali alcuni soggetti non erano tenuti al pagamento delle imposte, proprio xkè essi erano privilegiati. Questo privilegio, non riguardava solo il dir pubblico, ma si estendeva anke al dir processuale (c.d. privilegio di foro) dove le cause ke riguardavano det.ti soggetti [magistrati, persone ritenute bisognose di particolare protezione, come le vedove, etc] erano decise solo da tribunali superiori.

Il complesso delle situazioni privilegiate, insieme all’esistenza di isole feudali e di ceti, contribuiva ad erodere i poteri del principe, ke la tradizione giuridica pretendeva assoluti.

§ IL PARTICOLARISMO GIURIDICO.

Il quadro ke si è tratteggiato è stato denominato dagli storici del diritto, particolarismo giuridico, x indicare due tratti peculiari degli ordinamenti giuridici di antico regime: 1. il dir non era uguale x tutto il territorio dello stato, ma variava da zona a zona;

2. il dir non era uguale x tutti i sudditi dello stato, ma variava da ceto a ceto, da gruppo a gruppo, da persona a persona.

§ DIRITTO PROPRIO E DIRITTO COMUNE.

La tradizione del dir medievale ha lasciato in eredità agli ordinamenti giuridici dell’età moderna un dir non uguale x tutto il territorio dello stato e caratterizzato, come si è visto, dalla compresenza di tanti diritti diversi tra loro [il dir del principe, i dir locali, quello feudale, canonico, romano, i privilegi dei ceti privilegiati]. Questa situazione è stata teorizzata dai giuristi dell’età medievale ke hanno utilizzato un testo famoso del digesto ke distingueva tra dir proprio e dir comune, anke se in tutt’altro senso, e così hanno costituito due categorie giuridiche ke descrivevano la realtà ke abbiamo delineato:

da una parte c’era il dir proprio, ke indicava il complesso di regole ke non erano riferibili a tutti, ma solo ad alcuni gruppi, identificati o su base territoriale, e su base personale; dall’altra c’era il dir comune, ke indicava il dir riferibile a tutti i sudditi dell’impero. Ma anke nell’impero, la realtà era ke esistevano stati nazionali [come la Francia ke riuniva insieme tutti coloro ke si sentivano francesi e vivevano su territorio francese] e stati regionali [come in Italia e Germania, ke riunivano insieme tutti coloro ke erano toscani, lombardi, prussiani, etc]. Tutti questi stati si ritenevano svincolati dalla subordinazione all’impero e i loro sovrani proclamavano di avere, nel proprio stato, i medesimi poteri ke l’imperatore aveva sull’impero (rex superiorem non recognoscens in regno suo est imperator). In questo modo anke il dir del principe di un singolo stato, insieme a quello di una città o di una  corporazione, può essere considerato dir proprio. Mentre possono essere considerati dir comune sia il dir romano ke quello canonico, xkè, soprattutto in Italia, erano dir ke si applicavano in tutti i territori quando mancava una disposizione specifica dei diversi dir particolari.

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Così, anke la realtà moderna ha ereditato questo pluralismo giuridico ke si rispecchia sia nelle fonti del diritto sia nell’ordinamento giuridico: infatti il nostro sistema giuridico è caratterizzato dalla distribuzione del potere normativo tra enti diversi, dallo stato agli enti locali.

§ IL PROBLEMA DEL SOGGETTO DI DIRITTO SECONDO GIOVANNO TARELLO.

Giovanni Tarello (1934-1987; un filosofo del dir ke si è interessato anke di storia giuridica) ha insistito sul fatto ke negli stati di antico regime il particolarismo giuridico si risolveva, sostanzialmente, nella mancanza di unificazione del soggetto di diritto, nel senso ke le persone, ke erano i protagonisti principali di ogni attività giuridica, non erano uguali tra loro, con la conseguenza ke i diritti non erano uguali per tutti e quindi nascevano, a proposito della codificazione, notevoli difficoltà x la formulazione di regole giuridiche.

Per Tarello, una regola giuridica è una proposizione, intesa in senso linguistico (cioè soggetto, verbo, predicato e complemento), con un contenuto giuridico. Quando si afferma ke una persona ke ha il potere di disporre e di godere di un bene è proprietaria di quel bene, si ricollega un soggetto giuridico (ke è generale –la persona-) ad un predicato giuridico (cioè ad una qualificazione particolare costruita dal diritto – la proprietà o l’essere proprietario).

Così il soggetto può essere proprietario, usufruttuario, debitore, creditore: in questo modo si costruisce uno schema abbastanza semplice entro il quale organizzare i diritti dei sogg giuridici. Questa situazione, da un punto di vista grafico, potrebbe essere rappresentata ponendo al centro un punto, ke rappresenta la persona, e tutto intorno al sogg la rosa dei dir sogg.vi, ke sono le diverse possibilità offerte dal dir, e stabilendo collegamenti tra persona e diritti, come tanti raggi ke vadano dal centro alla circonferenza.

Se invece i sogg sono diversi tra loro [ad es x ceto] ci potranno essere sia diritti riferibili a dei sogg ma non ad altri [ai nobili ma non ai borghesi] sia modi diversi di atteggiarsi del dir (cioè modi diversi di essere proprietario, creditore o colpevole di un reato). In un tale sistema con sogg diseguali l’articolazione del sistema giuridico diventa molto più complicata, xkè i dir sogg.vi cresceranno in relazione al numero dei diversi titolari [e ci potrà essere una proprietà dei nobili, una dei borghesi, una dei contadini, etc). Da un punto di vista grafico, questa situazione potrebbe essere rappresentata con una figura geometrica che non abbia un centro unico ma tanti centri quanti sono i soggetti, e tutto intorno a loro la rosa dei dir sogg.vi, e stabilendo collegamenti diversi tra ogni singolo centro e diversi punti della figura.

Da queste osservazioni Tarello ha concluso, a proposito dei codici, ke "una codificazione x essere semplice nei contenuti, doveva passare x due strade: l’unificazione del sogg di diritto e l’esclusione dal corpo del dir semplificato di quante più materie fosse possibile".

§ IL PROBLEMA DELL’INTERPRETAZIONE DEL DIR IN ALCUNE POSIZIONI DELLA STORIOGRAFIA GIURIDICA.

Il contributo di Tarello alla storia del dir nell’età moderna è stato, in particolare, quello di aver riproposto un’altra questione dibattuta negli anni precedenti:

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quella dei rapporti tra leggi e interpretazione nell’età dell’antico regime e quello del significato della stessa parola interpretazione.

§ IN FRANCESCO CALASSO.

Calasso aveva sostenuto ke il dir medievale era stato un dir soprattutto legislativo, anke se dottrina e giurisprudenza avevano svolto un ruolo deter.te nella costruzione degli istituti e nell’elaborazione dei concetti giuridici [come dire ke x conoscere un istituto in un certo territorio – ad es la dote – non bastava guardare al complesso dir proprio-dir comune, ma occorreva tener conto dell’elaborazione operata dagli interpreti, le cui opinionisti calavano nal sistema e andavano considerate almeno al pari del dettato normativo].

In questo modo il complesso di regole ke andava sotto il nome di dir comune comprendeva anke la scienza giuridica, sia dottrinaria (opiniones) sia giurisprudenziale (decisiones), ke accompagnava in modo inscindibile la legislazione.

La scienza giuridica aveva, poi, finito con l’assumere un ruolo preminente rispetto alla legislazione, come ha scritto anke Cortese " da noi l’interpretatio è diventata de facto, dal trecento, il vero ius comune vigente"; e quando ormai le dottrine dei giuristi sembravano diventate tutt’uno con il diritto, Muratori (1672-1750) ha denunziato il fatto ke "siam giunti a farsi più conto di queste decisioni e dei pareri dei moderni dottori, ke delle leggi stesse".

Per quanto riguarda Calasso, cmq, egli non era uno statalista, ed anzi, nella sua concezione di dir comune aveva fatto propria la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici ke Santi Romano aveva elaborato in anni non lontani dai suoi. Tuttavia è evidente ke dietro la concezione di Calasso c’era ancora una cultura giuridica segnata dalla centralità dello stato e dal sostanziale primato ke lo stato aveva avuto nella produzione del diritto; concezione ke, diffusasi nel secondo ‘700, attribuiva

alla legge una posizione di assoluta centralità nel ruolo del sistema delle fonti del diritto.

Più tardi, negli anni ’70, le tesi del Calasso sono state criticate da Luigi Lombardi, ke ha sostenuto ke l’età del dir comune è stata segnata da una forte prevalenza della dottrina giuridica rispetto alla legislazione, quindi, quel diritto era stato soprattutto un dir giurisprudenziale, xkè costruito più dagli interpreti ke dai legislatori.

§ IN GIOVANNI TARELLO.

In questo contesto si sono diffuse alcune rimeditazioni sul ruolo dell’interpretazione giuridica nell’età del tardo dir comune. Al riguardo, un importante contributo è stato dato da Tarello ke ha sostenuto ke " gli scrittori di dir comune kiamavano interpretatio il prodotto dell’attività di commento dei dottori e dell’attività di decisione dei tribunali, cui veniva riconosciuta autorità di dir (oggettivo) in tutte le materie non dirett.te disciplinate dalla lex, mentre x lex si intendeva il corpo del dir romano-giustinianeo e la produzione statutaria dei sovrani e degli altri organi delegati".

In una tale concezione l’attività dell’interprete era creativa, in quanto non si limitava ad enunciare, chiarificandoli, il contenuto e il significato di leggi già poste dall’ordinamento, ma costruiva ed elaborava soluzioni giuridiche ai

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problemi giuridici ke altrimenti non avrebbero trovato risposta nel contesto normativo.

Conseguenzialmente, l’attività del giudice, non era semplicemente logico-deduttiva (traendo da una regola data le conseguenze previste x il caso concreto), ma era induttiva e più articolata, xkè egli doveva trovare la soluzione più coerente al caso in un ordinamento in cui non esisteva una soluzione certa da applicare in modo meccanico. [come nel caso dell’intervento di Pepo, sec. XI, ke aveva kiesto la condanna a morte x l’omicidio di uno schiavo, anzikè la multa in denaro prevista dal dir longobardo, xkè la soluzione del caso andava regolata, secondo lui, dal dir naturale ke non conosceva distinzione tra liberi e servi].

Cmq, il ruolo del giudice, in questo modo, era caratterizzato anke da un alto grado di responsabilità, xkè la soluzione dei casi era dirett.te collegata alle sue scelte; e infatti Tarello ha sostenuto ke il passaggio dal dir comune a un dir tot.te legislativo e la stessa codificazione, hanno comportato una "tecnicizzazione della scienza giuridica" e una "deresponsabilizzazione" del giudice riamato ad enunciare ed applicare il dir già posto, anzikè a cooperare alla sua costruzione.

§ IN PAOLO GROSSI.

Anke Grossi ha sostenuto il primato dell’interpretatio nei confronti della legge. Come nelle teorie del Calasso era possibile rilevare la tradizione della centralità dello stato ke le stava alle spalle, così Grossi da una parte non è stato immune alle concezioni del pensiero giuridico europeo dell’800 ke troviamo soprattutto in Germania. Infatti, si è già visto ke la scuola storica tedesca, ke ha avuto in Savigny (1779-1861) uno dei suoi protagonisti principali, aveva diffuso l’opinione ke il dir scaturisse soprattutto dalla tradizione storica di ciascun popolo; ma questo stesso dir contenuto nei comportamenti di ciascun popolo fosse decifrato prevalent.te dai giuristi, i quali elaboravano i concetti, gli istituti e creavano quel tessuto di relazioni ordinato ke costituisce il dir.

Dall’altra la concezione di Grossi si ricollega a una tradizione medievale ke sosteneva ke il dir scritto stava nelle cose, come complesso di rapporti necessari tra gli uomini e tra gli uomini e le cose, ke trovavano la loro matrice in un ordine naturale ke il giurista era kiamato a riconoscere.

Proprio da qui ke forse arriva la concezione di Grossi ke il diritto come scienza giuridica ha una funzione "ordinamentale", cioè capace di porre relazioni ordinate secondo un criterio ke non è soggettivo, cioè del legislatore o dell’interprete, ma ke è oggettivo xkè rispecchia l’ordine delle cose ke precede il legislatore o l’interprete, i quali usano questo criterio ordinamentale, ma non lo inventano. Da qui la condanna di quei movimento riformatori ke, nel ‘700, hanno sostenuto la concentrazione del potere normativo nelle mani del principe, avrebbero posto le premesse del positivismo giuridico e, con esso, dell’assolutismo giuridico. E da qui l’affermazione ke il primato del principe o dello stato assoluto della legislazione, avrebbe appiattito e uniformato le ragioni del particolarismo, e ke proprio x la sua uniformità avrebbe privato gli istituti di quello ke avevano avuto di peculiare.

[Per comprendere quest’ultimo punto di vista ricorriamo ad un esempio: l’antico regime aveva conosciuto tante e diverse forme di dominio dll’uomo sulle cose, ke tutte erano state riportate alla nozione di proprietà, senza però

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ke la proprietà stessa diventasse uniforme e quindi sempre uguale a se stessa; e così c’erano proprietà individuali e proprietà non individuali, nobiliari e borghesi, assolute e parziarie, etc. Con la codificazione, invece, la proprietà si sarebbe impoverita nella nozione unitaria di proprietà privata individuale ed assoluta smarrendo il ricordo di tanti modi diversi di possedere ke avrebbero meglio rispecchiato le sfaccettature dei rapporti possibili tra gli uomini e le cose].

§ UN TENTATIVO DI RIAVVICINARSI ALLE FONTI.

L’attenzione che abbiamo dedicato agli apporti più significativi della storiografia del sec appena concluso, vuole essere un esempio di come la storiografia non possa raggiungere verità assolute, legata com’è alla mentalità, alla cultura, alle passioni di chi ricostruisce la storia e la scrive, sikkè si potrebbe dire ke anke la storia, come la bellezza, è in fondo la pupilla di chi guarda e guardando giudica. Per questo si cercherà di esaminare il modo con cui si sono posti i rapporti tra leggi e interpretazione nell’età del tardo dir comune, cercando di porsi dal punto di vista di coloro ke , in quell’età, hanno esaminato questi rapporti.

Così, anzitutto, distinguiamo tra interpretazione giudiziale e dottrinaria del dir: la giurisprudenza offre, in prevalenza, una interpretazione "orientata ai fatti, in concreto"; la dottrina, invece (cioè l’insieme delle opinioni dei giuristi e degli operatori del dir), è caratterizzata da una interpretazione "orientata ai testi, in astratto"(nel senso ke i giuristi si interrogano sul significato dei testi normativi in astratto, prescindendo dalla soluzione di una specifica controversia.

Pur con queste differenze, la forza dell’interpretazione dottrinaria e di quella giudiziale, non sono diverse, se si prescinde dal singolo caso concreto, xkè l’apporto attuale di entrambe non è vincolante: xkè la dottrina non è posta tra le fonti del diritto; la giurisprudenza, serve a definire il caso concreto, quello in esame, ma non è vincolante in altri casi (art 2909 c.c. dispone ke "l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa").

Quindi, resta sempre vero ke, nel nostro ordinamento, la legge è il principio del ragionamento giuridico e ke dottrina e giurisprudenza siano kiamate, in modo paritario, a ragionare sul testo dato, cercando di estrarne il significato più aderente al modo in cui la legge è stata scritta e voluta dal legislatore.

Invece, non si può dire altrettanto dell’antico regime, quando giudici e interpreti non erano collocati sul medesimo piano, con la conseguenza ke l’interpretazione dottrinaria e quella giurisprudenziale avevano un diverso peso.

§ LA COMPLESSITA’ DEL SISTEMA E IL RUOLO DELL’INTERPRETAZIONE.

Per capire la posizione dell’interprete negli stati d’antico regime, occorre guardare anzitutto al rapporto tra ordinamento e interprete. Il punto di vista dal quale parte l’interprete attuale è ke l’ordinamento contenga un insieme di regole tendenzialmente limitate e sufficientemente generali ke gli consentano, con una certa semplicità, di riportare il caso alla regola prevista in astratto.

Invece, il punto di vista dell’interprete di antico regime, era ke l’ordinamento offriva una grande molteplicità di regole, tutte quante particolari, senza porre

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precetti generali. In questo modo, l’operazione intellettuale di riportare il caso particolare ad una regola particolare, diventava piuttosto complessa, xkè le possibilità di soluzione offerte dall’ordinamento erano molteplici.

[per fare un esempio passato: la scienza giuridica medievale aveva ridotto il concetto unitario di dominio in due categorie – dominio eminente (dominium eminens) e dominio utile (dominium utile) – ke rappresentavano, rispettivamente, la situazione giuridica del titolare del diritto di proprietà ke però non aveva il godimento della cosa –ad es il concedente di enfiteusi– e colui ke, invece, aveva il godimento della cosa ma non era il titolare del dir di proprietà –ad es il concessionario di enfiteusi– . L’interprete doveva fare i conti con questa realtà sfaccettata x capire ki fosse, in effetti, il titolare del dir di proprietà, intesa come complesso di poteri pieni ed esclusivi sulla cosa: la soluzione è mutata nel tempo fino a fare dire ke il vero proprietario era l’utilista -nell’esempio l’enfiteuta– mentre il direttorio –il concedente– ke in origine era considerato  proprietario, fu degradato al rango di colui ke aveva il dir di percepire un canone.

Per fare un esempio attuale: nel caso del divieto di fumo, se lo stesso è formulato in termini generali – come "vietato fumare"- l’attività dell’interprete sarà semplice, xkè il divieto si applikerà sempre; se invece il divieto è posto in termini particolari –come "vietato fumare al cinema"- la soluzione interpretativa è più complessa, xkè l’attività dell’interprete dovrà essere diretta a capire se la fattispecie concreta sottoposta al suo esame – ad es fumare al bar- rientri o meno nel divieto; e per far questo egli deve ragionare tenendo conto della finalità (ratio) del divieto (ke può consistere nel non fumare in luoghi chiusi), oppure considerare il divieto in modo tassativo e non applicarlo al caso non previsto di chi fuma al bar e non al cinema].

L’interprete di antico regime doveva dunque navigare tra le regole, così contribuendo però a rendere più incerto l’ordinamento, xkè accanto alla sua interpretazione, c’era quella di altri interpreti ke potevano avere opinioni diverse.

 

§ L’INTERPRETAZIONE GIUDIZIARIA.

Per l’età dell’antico regime, quando si parla di interpretazione giudiziaria del diritto occorre distinguere tra giudici inferiori e giudici supremi, ke erano collocati su piani e poteri totalmente diversi. Le testimonianze ke ci sono rimaste di decisiones provengono largamente dai tribunali supremi, ed è all’attività di questi tribunali ke si farà riferimento, anke xkè si sa ancora molto poco dell’attività dei tribunali inferiori.

Il ruolo di questi giudici supremi era il ruolo di chi, come il re, era chiamato a creare diritto attraverso procedimenti che non consistevano solo nell’interpretare o nell’applicare la legge, ma nell’enunciare regole di giustizia che il giudice sapeva leggere nel contesto complessivo dell’ordinamento, o addirittura nella propria coscienza.

Il processo che aveva portato all’affermazione di un tale principio così lontano dalla nostra attuale coscienza giuridica, può essere così schematizzato (secondo una dottrina ke risale a due grandi giuristi del sec XIV: Bartolo e Baldo): al vertice dell’ordinamento stava un sovrano ke aveva in terra i

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medesimi poteri di Dio in cielo e ke si avvaleva, nel rendere giustizia, di tribunali (curiae) ke lo rappresentavano e operavano al posto del principe (loco principis costituti), con la conseguenza che queste curiae (che erano chiamate anke senati) avevano il potere di giudicare come avrebbe giudicato Dio stesso, in modo pienamente libero ma secondo giustizia.

Esaminando i poteri dei giudici supremi da un altro punto di vista, altri giuristi avevano teorizzato ke i giudici potessero giudicare secondo verità e coscienza dei fatti, senza essere legati alle prove e alle forme del processo, e quindi non solo in base agli elementi acquisiti al processo dall’istruttoria, ma integrando i fatti con quello di cui erano venuti a conoscenza come un privato qualsiasi non come persona pubblica, cioè come giudice.

Alcuni accostavano questi tribunali o senati di antico regime al senato di Roma, facendone derivare x i primi gli stessi poteri ke erano spettati ai secondi [secondo una celebre costituzione imperiale il principe puniva con la pena di morte, come x il reato di lesa maestà, ki avesse congiurato contro i senatori xkè essi facevano parte dello stesso corpo del principe e avevano i suoi poteri].

Alcuni filoni della cultura giuridica francese e italiana, invece, ritenevano ke le magistrature supreme degli stati di antico regime non si ricollegassero al senato romano, in quanto questo era stato dotato di poteri propri e originari (cioè non derivati dal principe), mentre le prime si ricollegavano al prefetto del pretorio, svolgendo le funzioni ke erano state proprie di lui, ke a sua volta le derivava dall’attribuzione del principe.

In ogni caso, quali che fossero stati i modelli del passato, la realtà istituzionale espressa dai giudici supremi degli stati di antico regime si poteva esprimere nell’affermazione che i giudici supremi potevano far uso di una "podestà arbitraria", ke derivava loro dal fatto di essere collocati al posto del principe e quindi di essere titolari dei poteri ke aveva il principe e di poter usare l’arbitrio del sovrano [dunque potevano riconoscere, ad es, ad alcuni diritti, ke, invece, ad altri negavano].

Per questo i tribunali supremi erano chiamati, per lo più, non ad applicare la legge, ma a rendere giustizia, visto ke si riteneva ke non necessariamente la legge debba essere identificata con la giustizia e che anzi, ci poteva essere giustizia al di là della legge.

Va ricordato ke, però, le decisioni dei giudici supremi non costituivano "precedente", nel senso che, se esse erano rese x fare giustizia, non potevano vincolare il giudice a pronunciarsi nel medesimo modo in un’altra occasione in cui, di nuovo, non era necessario applicare il diritto ma rendere giustizia. Si può dunque concludere ke x i giudici supremi di antico regime, il problema dell’interpretazione è mal posto, xkè, come abbiamo visto, il ruolo di quei giudici è diverso da quello di un interprete, in quanto non si trattava nè di interpretazione né di applicazione delle leggi, ma di attuazione della giustizia.

§ L’INTERPRETAZIONE DOTTRINARIA.

Due costituzioni di Giustiniano, riprodotte entrambe nel codice, contenevano un’affermazione di principio di grande rilievo: poteva interpretare le leggi solo colui che poteva crearle, e quindi l’imperatore, visto che allora solo lui poteva legiferare. In realtà, queste costituzioni non hanno mai impedito

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l’interpretazione dottrinaria del diritto, tanto ke i giuristi dell’antico regime hanno distinto tra i diversi tipi di interpretazione:

quella del legislatore: generale, necessaria e scritta, ke era valida per tutti e vincolante;

quella del giudice: necessaria e scritta, ma non generale, valida e vincolante solo x le parti in giudizio, xkè riguardava il singolo caso concreto;

quella del giurista: scritta e generale, valida x tutti xkè non riguardava un singolo caso concreto, ma non vincolante né x i giudici né x altri interpreti, in quanto esprimeva le convinzioni personali di un privato non munito di autorità pubblica.

E’ evidente ke, in astratto, non ci dovrebbero essere contrasti tra l’interpretazione letterale della norma giuridica e l’interpretazione della volontà che si è espressa nella norma. Tuttavia, non sempre le parole sono usate in modo appropriato, o non sempre avevano un significato univoco che non lasciasse spazio a dubbi. [per fare un es: uno dei frammenti riprodotti nel Codice ke riservava all’imperatore l’interpretazione del dir affermava ke al principe solo (soli imperator) spettava legiferare, e questo frammento offriva all’interprete la possibilità di chiedersi se quella parola "soli" andasse intesa come "soltanto" o come "da solo": nel primo caso, la norma avrebbe escluso che altri, diversi dal principe, potessero legiferare; nel secondo caso avrebbe invece affermato ke altri potessero fare, non da soli, ma insieme, come collegio, quello che il principe poteva fare da solo ( e gli stessi testi giustinianei riconoscevano  al senato o al popolo un potere normativo)].

Così, di fronte ai mille problemi interpretativi, la scienza giuridica medievale aveva costruito una serie di strumenti tecnici –i c.d. argomenta o loci- ke dovevano guidare il giurista nell’attività interpretativa. Tali strumenti si basavano su schemi tipici del ragionamento piegati alle esigenze del diritto [ad es: il basarsi sull’autorità di chi aveva sostenuto una certa tesi (argumentum ad auctoritate o ipse dixit); oppure l’argomento ke portava a conseguenze assurde (ab absurdo); oppure quello fondato sulla contrarietà di due affermazioni ke non potevano essere vere entrambi (a contrario); oppure l’argomento ke vuole ke se due realtà sono simili, non possono essere uguali]. Attraverso questi strumenti logici, ogni parola era anzitutto esaminata nella diversa gamma di significati ke poteva assumere [così, come si insegna ancora oggi, la parola diritto poteva essere intesa in senso soggettivo, come potere di agire (facul tas agendi) o in senso soggettivo, come regola dell’agire (norma agendi)].

Dunque si trattava di concetti correlati tra loro attraverso regole logiche prestabilite e ferree: ad es, se una cosa era simile ad un’altra, questo escludeva necessariamente che fosse uguale, xkè il rapporto di somiglianza esclude necessariamente quello di identità. Ma proprio il rapporto di somiglianza forniva uno degli strumenti interpretativi principali x i giuristi: il c.d. argomento dai simili a simili (a similibus ad similia), xkè consentiva di estendere la regola giuridica dai casi previsti ad altri casi non previsti, ma simili (si trattava, in pratica, dell’interpretazione analogica).

Un altro metodo interpretativo consisteva nell’enunciare la tesi, e contrapporvi tesi contrarie confutandole x sostenere la validità della propria tesi; ancora un altro metodo era quello di richiamarsi all’autorità di qualche giurista famoso e

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su linee interpretative consolidate xkè sostenute dalla maggioranza (communis opinio): ma secondo molti giuristi la forza dell’interpretazione non stava nel numero degli autori ke vi aderivano, ma nel fondamento giuridico e logico della soluzione prospettata.Così, da la produzione del dir patrio, cioè di quello proprio di ciascuno stato, e ciò contribuiva ad indirizzare la cultura giuridica verso la pratica, allontanandola da interessi di tipo teorico e scientifico. Tuttavia, l’attenzione al dir patrio non ha indotto i giuristi a rinunciare all’uso del latino, ke era la lingua dei dotti e della chiesa, e che però, man mano ke persone normali se ne allontanavano e non la conoscevano più, si è fatta lingua esoterica, riservata a pochi, quasi destinata a celebrare misteri piuttosto ke a fa r circolare idee e conoscenze. E anke quest’uso artificioso del latino ha contribuito a ingenerare, nella cultura corrente, un sospetto verso il mondo dei giuristi, accusati di essere volutamente artificiosi e oscuri.

Ma l’intreccio tra studi teorici e pratici e la forte tradizione culturale che aveva contraddistinto l’umanesimo, sono rimasti vivi in Francia, sia x la vivacità della cultura francese in genere, sia x il peso che vi ha esercitato la filosofia di Cartesio (1596-1650), ke con il suo razionalismo ha contribuito a far costruire il dir secondo schemi logici precisi [elaborando, ad es, una suddivisione dei concetti giuridici x generi e x specie, individuando elementi essenziali e accidentali del contratto, etc (importante: vedi su Cartesio pagg 201/202 freccette)]. Inoltre la cultura giuridica francese si è orientata x l’uso del francese anke in campo giuridico rompendo una tradizione secolare e inserendosi in un circuito culturale più generale così ke non è rimasta estranea a uno dei dibattiti centrali della cultura giuridica francese del secondo ‘600 ke ha influenzato anke il diritto, la famosa polemica tra antichi e moderni ke ha ripro posto un tema già classico durante l’umanesimo: cosa significasse essere antico, cioè imitatore degli antichi, e se bastasse fermarsi ad imitare gli antichi riprendendone modelli e soluzioni, e cosa significasse essere moderni e se occorresse seguire l’esempio degli antichi senza però imitarli, cercando soluzioni nuove x tempi nuovi.

Altrettanto è avvenuto in Olanda e nei paesi di lingua tedesca, dove si sono formate scuole giuridiche legate alla tradizione dell’umanesimo e del razionalismo, che nel tentativo di sistemare in modo logico i diversi materiali giuridici x consentire il passaggio da un’affermazione all’altra attraverso percorsi rigorosi, non trascuravano la soluzione dei casi x favorirne l’uso anche pratico. Così la tendenza a fare del dir un fatto puramente pratico era prevalente in Italia, ma non era assente né in Francia né altrove.

 

CAPITOLO VI

§ PREMESSE.

Accanto alle ragioni del particolarismo il mondo di antico regime ha conosciuto anke ragioni ke spingevano verso l’accentramento, e quindi verso il superamento del particolarismo. In alcuni stati d’Europa la tendenza all’accentramento politico è stata più forte ke altrove, soprattutto in quegli stati ke erano forti x tradizione (come la Francia e, in Italia, quello ke nel 1720 è diventato il regno di Sardegna) oppure x aspirazioni politiche (Austria, Prussica,

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e in Italia, gli stati ke gravitavano nella sfera di influenza austriaca, come il ducato di Milano, il granducato di Toscana, il regno di Napoli). Infatti, la politica di egemonia territoriale, ricorrente nel ‘700, richiedeva la creazione di un apparato statale ben governabile ed omogeneo, e quindi di uno stato-macchina capace di contrastare gli altri stati; e questo imponeva riforme di struttura organizzativa, di carattere economico e politico.

§ LA PATRIMONIALIZZAZIONE DEL FEUDO.

Nello stesso tempo il particolarismo è andato perdendo terreno e non rappresentava più un ostacolo all’accentramento come in precedenza. Un esempio significativo di questo processo è stato il progressivo indeboliment'ec, mentre nei secoli XVI e XVII le controversie tra stato e chiesa finivano attraverso un concordato lasciando ke i conflitti si spegnessero con il passare del tempo, nel corso del secolo XVIII gli stati hanno iniziato a rivendicare in modo concreto la pienezza della propria sovranità, ke non poteva non estendersi, si diceva, anke nei confronti della chiesa in tutte le materie temporali, xkè lo scontro era tra un soggetto che aveva il potere temporale –lo stato- e uno che non l’aveva – la chiesa-.

Dietro questa rivendicazione dei poteri dello stato, stavano spinte politiche, culturali, e giuridiche diverse. Si pensi, ad es, alla dottrina del dir naturale che non ammetteva distinzioni naturali ke si fondassero sulla religione e proclamava, invece, l’uguaglianza naturale di tutti. O si pensi ai filoni dottrinari e culturali dello stesso pensiero cattolico ke hanno preso corpo nella tarda età della controriforma, e ke si sono schierati a favore di una religione tutta calata nella spiritualità interiore dell’uomo, e ke hanno respinto ogni coinvolgimento della sfera religiosa con la sfera politica, con il potere. Questo orientamento si è anke coniugato con la particolare dottrina di sant’Agostino –ci si salva x la grazia non x le opere- ke si è contrapposta alla dottrina dei gesuiti secondo i quali la salvezza spirituale veniva soprattutto dalle opere.

Questo ritorno a sant’Agostino ha avuto come centro di diffusione il convento benedettino di Port Royal e come principale esponente Cornelio Giansenio (1510-1576) ke ha dato il nome al giansenismo e ha contribuito all’affermazione dell’esigenza di una spiritualità tutta interiore ed estranea ai privilegi e poteri mondani.Infine, con gli scritto del vescovo Giustino Febronio, sono stati diffusi sia il richiamo alla semplicità originaria della chiesa sia la convinzione che la chiesa dovesse ritornare, nella propria organizzazione, all’episcopalismo, cioè ad una concezione politica e religiosa ke riconosceva al pontefice un primato solo in onore ma non in potere, e ke invece attribuiva a tutti i vescovi, singolarmente, l’eredità del vangelo, sikkè ciascun vescovo era da considerare papa nella sua diocesi. Anke attraverso questi percorsi è uscita rafforzata la sovranità del principe e quindi dello stato nei confronti della c hiesa, xkè il giansenismo estraniava la chiesa dalla politica attiva e l’episcopalismo indeboliva i poteri centrali della curia romana e rafforzava, invece, i più docili episcopati locali.

§ LA COSTRUZIONE DEL CONCETTO DI STATO.

In questo contesto, mentre alcune fonti tradizionali del dir occupavano uno spazio sempre più relativo, altre si rafforzavano, e questo è avvenuto soprattutto x la legge del principe. Per rendersi conto delle ragioni di questo

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processo ,occorre fare un passo indietro e tornare alla costruzione teorica dei poteri dello stato. Anzitutto bisogna tenere presente Machiavelli che ha posto il problema dei poteri del principe (cioè dello stato) in termini solo politici, separandoli da ogni implicazione di carattere religioso o morale. Egli ha poi anke posto il problema della forma di stato, kiedendosi se fossero migliori le repubbliche o i principati e ha sostenuto ke una persona, da sola, nello stato deve avere l’autorità e il comando se si vuole ke le cose siano ordinate secondo le nuove esigenze della riforma.

Anke più tardi, quando il pensiero politico della controriforma ha combattuto le teorie di Machiavelli (considerandole empie e proibendone la lettura inserendole nell’Index librorum prohibitorum), si è continuato a porre al centro delle riflessioni giuridiche e politiche la figura del principe che incarnava lo stato e quindi aveva il compito di tenerlo unito.

Questo è avvenuto, ad es, nella dottrina della ragion di stato di Botero, ke ha considerato lo stato come un "dominio fermo sopra i popoli" e la ragion di statori del principe facevano equilibrio i poteri dell’aristocrazia. Una costruzione di questo tipo aveva alle proprie spalle la presenza di corpose aristocrazie locali, dotate di un forte potere economico, di una grande rilevanza sociale e di una significativa compatezza nei propri componenti, i quali occupavano le carriere e le cariche pubbliche e si ponevano come un corpo del quale il sovrano non poteva fare a meno nel governare (importante: a questo punto vedi es pag 218). Dunque, i giuristi italiani, non hanno tenuto molto conto della saldatura tra legge e sovranità posta dai giuristi francesi, sia x il peso della monarchia mista, sia x l’influenza del dir romano e del pensiero di Ari stotele.

Un esempio di ciò potrebbero essere di nuovo le opere del cardinale De Luca, in cui ha solo sfiorato, senza una riflessione approfondita, il rapporto tra sovranità e legge, dato ke egli ha esaminato il "difetto di potestà" ritenendo anzitutto ke fosse insito nei legislatori feudatari ke sono sudditi di un altro principe; poi quando si legifera nei confronti dei sudditi di un altro principe, o nei confronti di stranieri e di beni che non sono collocati nel territorio sottoposto al sovrano.

§ IL RUOLO SEMPRE MINORE DEL DIR ROMANO.

Ci troviamo dunque, tra il ‘500 e il ‘600, in un contesto culturale ke cerca affannosamente regole nuove x tempi nuovi ke si interroga sul peso della tradizione ke comincia ad essere messa in discussione; e ci troviamo in un contesto politico in cui il potere si è andato accentrando sempre di più nelle mani del principe e identificando la sovranità con il potere di legiferare o di modificare le leggi. E’ abbastanza conseguente, allora, ke il ruolo tradizionale del dir romano abbia subito un deciso ridimensionamento. Infatti, anke se questo dir conservava un’autorevolezza tutta particolare sul piano scientifico, non erano pochi gli stati in cui trovava uno spazio sempre più circoscritto alla sfera teorica ed era utilizzato sempre meno come dir concretamente vigente nella realtà effettuale.

Quando, in secoli passati, le altre fonti del dir mancavano, il dir romano (i testi giustinianei e le dottrine dei giuristi ke si rifacevano agli stessi) costituiva l’ossatura del ragionamento giuridico e lo strumento x la soluzione dei casi. Ma nel corso dei secoli l’attività di produzione normativa da parte degli ordinamenti che ne avevano il potere [comuni, stati regionali e nazionali,

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corporazioni, gruppi intermedi, ecc] è cresciuta sempre di più e il dir romano ha finito con l’assumere uno spazio residuale, quello ke colmava i vuoti lasciati aperti dal dir speciale, in crescita frenetica ma disordinata. Tuttavia, dove più dove meno, i principi generali del dir romano sono rimasti a lungo (in Italia più ke altrove) [si è già visto ke Pompeo Neri riteneva ke il dir romano rappresentasse un bagaglio di sapienza giuridica ke un vero giurista doveva possedere se voleva essere capace di "giudicare in qualunque luogo e in qualunque temp o benché trovi statuti tra loro differenti".

§ LA CRESCITA DEL DIR PATRIO IN ITALIA.

In Italia, ancora a metà ‘700, i giuristi riservavano molta attenzione al dir patrio (cioè quel dir ke in origine era stato un dir particolare xkè vigeva esclusivamente in un singolo stato) ke inizialmente non aveva il peso ke ha iniziato ad avere quando, nel corso del tempo, il dir particolare di ciascuno stato è andato crescendo sempre di più a discapito del dir romano. Per questo il dir particolare si è proposto all’attenzione dei giuristi come legislazione vigente e x questo è stato necessario raccoglierlo in testi ke fossero abbastanza aggiornati, in modo da consentirne l’applicazione pratica. Così, visto ke il dir patrio regolava la gran parte dei rapporti giuridici, l’attenzione x lo stesso era rivolta alla pratica, mentre solo ori del passato ke l’umanesimo ha consentito di riscoprire c’è stato anke Platone (427-348 a.C.), un filosofo ke nel medioevo è circolato poco, offuscato dalla diffusione del pensiero di Aristotele ke, come sappiamo, ha esercitato un’influenza su alcuni grandi giuristi umanisti come Alciato, Budè e Connan (1530). L’umanesimo ha infatti riproposto agli studiosi anke le opere di Platone, ke, dopo essere state tradotte, hanno trionfato anke in occidente. Se si volesse riassumere in una formula le posizioni rispettive di Platone e Aristotele nella s cienza della politica, si potrebbe dire ke il primo ha cercato di descrivere il mondo x come dovrebbe essere e il secondo ha cercato di descriverlo x come era.

Platone ha infatti posto al centro delle sue riflessioni svolte nel suo "Della repubblica" il problema della giustizia, ke poteva essere presa in significati diversi (il Della repubblica è un dialogo, come quasi tutte le opere di Platone) xkè tutti coloro ke erano intervenuti nella discussione avevano portato con sé il bagaglio delle proprie esperienze, costruendosi un proprio modello di giustizia [un mercante pensava ke fosse giusto rendere ciò ke si era preso ad altri; un secondo ke fosse giusto far bene agli amici e far male ai nemici;etc]. Partendo da questa esigenza di comprendere l’essenza della giustizia, Platone ha poi affrontato il problema di come dovesse essere organizzata la città, ke equivaleva allo stato, e quindi ha affrontato anke il problema del "tipo esemplare di una città perfetta", cioè di uno stato ideale. Questa città doveva essere governata da custodi ke dovevano essere i filosofi. Platone voleva quindi "scorgere in qual m odo si possa governare uno stato nel modo migliore e in qual modo potrà svolgersi la vita dei cittadini secondo ideale di felicità e perfezione". Trattasi dunque di una prospettiva utopistica, in quanto costruisce un modello teorico di stato come dovrebbe essere in contrapposizione a come invece non è nella realtà effettuale (utopia= dal greco où, non, e tòpos, luogo=cioè luogo ke non c’è, ke non esiste).

Dopo l’umanesimo, il modello utopistico di Platone ha dunque avuto una forte ripresa nel ‘500, e così è nata la parola stessa utopia, ke è comparsa nel titolo

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di un’opera di Thomas More (1478-1535; "libello sull’ottimo stato e sulla nuova isola utopia").

L’idea ke ruota intorno al modello utopistico, è nata dal fatto ke si credeva ke fossero esistiti mondi semplici, dove la vita si snoda secondo regole naturali e felici, come nella mitica età dell’oro. Infatti la tradizione e la letteratura classica sono state pervase dal mito ke vi siano state cinque età e quindi cinque razze dell’umanità tutte destinate all’estinzione: quella dell’oro; quella dell’argento caratterizzata da violenza e da disprezzo inconsapevole della legge; quella del bronzo violenta e aggressiva: quella degli eroi e semidei più giusta e migliore xkè conosceva leggi e ordinamenti divini e umani e ke però si è distrutta nelle guerre; quella del ferro degli uomini mortali di adesso, dove la vita umana è segnata da fatica e pene, e tuttavia connotata dall’intelligenza. In futuro, poi, anke questa generazione sarebbe andata distrutta e sostituita da un’altra età nella quale gli  uomini "nascendo avranno già bianche le tempie", cioè saranno già vecchi e quindi esperti e intelligenti, ma useranno queste loro doti a fini ancora una volta malvagi.

Questo mito è stato introdotto nella cultura occidentale dal poeta greco Esiodo (sec VII a.C.), uno scrittore ke ha descritto in modo mitologico, e quindi senza farne storia, le diverse età tra cui quella dell’ora. A questo mito hanno poi attinto scrittori di ogni tipo, guardandolo diversamente secondo le inclinazioni personali o le esigenze del momento: ad es Thomas Hobbes (1588-1679) ha scritto dello stato di natura caratterizzato da una guerra di tutticimento fondata da Galilei dove un medico toscano ha pubblicato un trattato sui microrganismi, dimostrando ke  le cose non imputridiscono se sono al riparo dalle mosche; in Inghilterra, la Royal Society con Halley ha scoperto il moto delle comete dano il suo nome a una famosa comet e con Newton ke ha scoperto le leggi della gravità universale; in Germania, dove si sono portati avanti gli studi sul vuoto ke Pascal aveva iniziato in Francia, etc.

Infine c’era Locke (1632-1704) ke ha fondato l’esistenza di "principi di validità universale necessaria" sulla natura dell’intelletto umano, ancke se la fonte di conoscenza erano i sensi: egli sosteneva infatti ke è la natura dell’intelletto umano ke fa in modo ke l’esperienza di ciascuno sia uguale all’esperienza di tutti gli altri, e ke quello ke ciascuno percepisce con i sensi sia elaborato da tutti nel medesimo modo, producendo le medesime idee.

Tutte queste scoperte scientifiche e approdi filosofici, ci interessano solo xkè hanno cambiato il modo di ragionare degli uomini, e questo ha avuto un peso anke in campo giuridico.

§ IL DIBATTITO FRANCESE TRA ANTICHI E MODERNI.

La Francia, nel filone ke si ricollega all’utopia politica, ha conosciuto un vivace dibattito (querelle) ke ha segnato la propria cultura x tutto il sec di Luigi XIV e ke si è ricollegato ank’esso alla grande tradizione umanistica e rinascimentale. Questa querelle x i toni aspri ke ha avuto è stata paragonata addirittura ad una guerra. La polemica tra antichi e moderni ha riproposto un tema già classico durante l’umanesimo: cosa significasse essere antico e cosa significasse essere moderno; e se bastasse fermarsi ad imitare gli antichi riprendendone modelli e soluzioni,o se invece non fosse necessario seguire l’esempio degli antichi, ma non imitarne i modi e cercare soluzioni nuove x tempi nuovi. La polemica ha anke investito alcuni grandi temi teorici: l’uso della lingua nazionale anzikè del

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latino;la critica filosofica al principio di autorità ke era incarnato ancora da Aristotele (e ke fondava il  sapere sull’autorità di ki aveva fatto una certa affermazione ); la difesa di un modello di uomo colto davvero, capace di ragionare secondo i lumi della propria ragione.

In questo modo, attraverso il ritorno allo spirito dell’umanesimo e del rinascimento, in Francia si sono poste le basi, alla fine del sec di Luigi XIV (‘700), x l’esplosione della cultura dell’illuminismo: quando la filosofia si era già aperta alle novità e le idee inglesi (Locke e Newton) erano fatte circolare insieme a quelle di Cartesio e la ragione aveva esteso il proprio potere in ogni campo; quando il dogma della monarchia fondata sulla grazia divina era stato incrinato x fare posto alla monarchia fondata sulle leggi; quando si era affermata l’idea di progresso e la scienza aveva dilatato il proprio spazio fino alla conquista dell’universo.

Seppure in modo minore, questo dibattito ha interessato anke i giuristi e il mondo del diritto. I giuristi vi hanno partecipato xkè quel dibattito toccava alcuni temi ke non erano estranei al loro mondo giuridico [l’uso della lingua francese al posto della lingua latina , ke toccava l’arte dello scrivere, e quindi del persuadere, ke era un problema dei giuristi e degli operatori del diritto; e toccava anke l’eloquenza ke era un problema di ki esercitava l’avvocatura].

Riguardo alla ramificazione giuridica del dibattito si può citare un personaggio di non grande levatura ke però merita un accenno x gli interessi ke ha sollecitato.

Gabriel Guèret (1641-1688; è stato un avvocato del parlamento di Parigi, e quindi un giurista; ma non ha lasciato opere giuridiche significative, mentre compare come curatore di opere altrui; come operatore del dir il suo merito principale è stato quello di avviare una rivista fortunata ke è durata a lungo, il Journal du Palais dedicata alla pubblicazione sistematica delle decisioni parlamentari) di proprio ha scritto contro l’eccesso di citazioni ke usavano i giuristi, riprendendo e divulgando una polemica ke era già stata degli umanisti e ke ai suoi tempi era propria in tanti campi della cultura. Egli ha immaginato di trovarsi sul Parnaso (il mitico monte dove viveva Apollo, dio delle arti, con le nove muse, ke presiedevano ciascuna un’arte) e di poter colloquiare con i grandi artisti defunti, sia classici ke moderni; nella discussione si dibatteva sugli oratori ke parlvano solo di decadenze, rigetto delle difese, di opposizioni e di eccezioni,  esaltando tutto ciò ke c’era di barbaro nelle trappole procedurali. A chiusura del libro interviene un’ordinanza di Apollo, a definire ogni questione, ke espelle dal proprio regno tutti gli avvocati ke si esprimono x citazioni, x schiamazzi e x declamazioni, quando si dovrebbe usare la ragione. Egli ha quindi espresso lo sprezzo x la decadenza del diritto e in altre pagg la fiducia nella scienza e la sfiducia nella filosofia, ke da millenni ricerca una verità ke non ha mai trovato.

Questi erano spunti ke, come abbiamo detto, già erano conosciuti in passato, ma solo da un ristretto pubblico di tecnici; il merito di Guèret è stato proprio quello di divulgare queste idee nel patrimonio culturale comune, in quanto l’opera non era diretta ad un pubblico specializzato, ma a lettori colti, e le sue opere avevano un formato tascabile così ke sono circolate nelle mani di tante persone.

§ LA POLEMICA CONTRO IL DIR ROMANO.

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Nella cultura europea ci sono state alcune prese di posizione decise contro il dir romano e questo è avvenuto soprattutto in Francia e sin dall’umanesimo giuridico. In particolare sono note le critiche dei giuristi umanisti contro Giustiniano e Triboniano (il ministro al quale i giuristi umanisti hanno attribuito gran parte della responsabilità del grande lavoro di compilazione sfociato nel Corpus iuris civilis). Le ragioni scientifiche della polemica stavano nel fatto che i compilatori, e Triboniano x tutti, avevano contribuito, con la tecnica di lavoro usata (avevano frammentato e sminuzzato le opere dei grandi giureconsulti del periodo aureo), a viziare la compilazione con contraddizioni di ogni tipo. Inoltre, a rafforzare la polemica stava la volontà di collocare il dir romano nella storia, di spezzarne l’autorità e di avviare con ciò stesso la formazione degli stati nazionali.

Anche questo atteggiamento di polemica, non è stato circoscritto al solo campo del dir, ma ha riguardato i "letterati" ito bisognava guardare alla natura, ke dava leggi "sempre più felici di quelle ke diamo noi". Nella situazione in cui invece ci si trovava, ha concluso Montagne, "c’è più da fare a interpretare le interpretazioni ke a interpretare le cose, e ci sono più libri sui libri ke su altri argomenti, non facciamo che commentarci a vicanda . Tutto pullula di commenti, di autori, c’è grande penuria". Così questa ammonizione di Montaigne di guardare alla natura, si portava dietro un’esigenza critica ke era destinata ad incidere sul mondo del diritto: la contrapposizione tra l’esperienza delle cose e l’autorità dei dottori, ka tradotta in termini giuridici significava la prevalenza delle leggi naturali derivate dalle cose rispetto alle dottrine dei giuristi.

§ IL CASO DI FRANCOIS HOTMAN.

Queste idee erano dunque presenti anke tra i giuristi. François Hotman (1524-1590), in uno scritto famoso del ‘500 francese "Antitriboniano", avanzò la proposta, x mettere a freno le liti, di convocare un certo numero di giureconsulti, di persone esperte nelle cose di stato, di avvocati e di pratici, xkè raccogliessero insieme, in volumi scritti in lingua volgare, sia quello ke avessero scelto dai testi giustinianei, sia dai libri dei filosofi ke dalla propria esperienza, creando un nuovo codice (proprio come aveva avuto in mente di fare Giulio Cesare (100-44 a.C.) secondo il racconto dello storico latino Svetonio). Ma Hotman non si è fermato solo a questa proposta, xkè il senso vero della sua opera sta nella critica contro il dir romano e il tribonianismo. Lo spunto gli è offerto dal fatto ke la gioventù francese studiava ancora il dir romano, ma questo studio era secondo lui inutile xkè erano troppi gli istituti ke  erano mutati nel tempo. Una critica particolare era rivolta al fatto ke al dir romano si voleva ancora riconoscere l’autorità di ratio scripta, di bagaglio ineguagliabile di principi giuridici, di senso di giustizia e di equità. Questo, secondo Hotman, era infondato in quanto il dir civile romano non era mai stato costruito x servire come equità o ratio naturale, adatto indifferentemente a tutte le nazioni, ma solo in vista di una esigenza particolare ke era quella di mantenere la borghesia romana in una posizione egemone rispetto a quella degli altri abitanti d’Italia. Quanto a Triboniano, egli aveva sì cercato di mettere ordine in quella confusione di leggi ke era paragonata ad una selva, ma tutti gli storici erano concordi nel ritenere ke quel ministro era avarissimo, ke faceva mercato della giustizia in quanto aboliva e stabiliva le leggi secondo il vantaggio ke gliene veniva. Dunque Hotman ha svalutato il dir romano a dir

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storico e ha difeso il  dir consuetudinario francese, ke rappresentava la fonte attuale di regole anke se dispersa in mille rivoli. Per questo l’idea di fondo di Hotman fu quella di trovare una sintesi tra le due tradizionali fonti di dir, in modo da dar vita ad un dir nazionale francese fondato sulla ragione, ma ke sapesse percepire dal dir romano quanto c’era di buono e valido.

Nel mondo del dir, l’eco immediata di questo suo scritto è stata più di curiosità ke di condivisione. Tuttavia questa critica è circolata largamente altrove ed è stata riscoperta più tardi, a dimostrare ke essa aveva lasciato il segno.

§ L’ELABORAZIONE DELLE COUTUMES FRANCESI.

In realtà in Francia c’era una situazione favorevole alla polemica contro il dir romano, e non solo dal punto di vista politico (cioè della esistenza consolidata di una monarchia forte ed accentrata) ma anke dal punto di vista giuridico. Infatti al dir romano faceva da contrappeso non solo il dir del re ma anke il dir consuetudinario francese ke i giuristi cominciavano a raccogliere e studiare xkè esso era un dir vigente da cui non si poteva quindi prescindere. Adesso si tratta di capire in ke modo convivevano questi diritti in Francia.

Il dir romano aveva sicuramente un valore scientifico e didattico, ma i suoi rapporti con il dir consuetudinario sono stati posti e risolti in modi differenti dai vari giuristi, ke hanno dato prevalenza ora all’uno ora all’altro. Infatti x molti giuristi, la legge era espressione della sovranità piena del sovrano, e il processo di redazione in scritto delle consuetudini è stato inteso come strumento di rafforzamento di questo potere sovrano. Nello stesso tempo, però, altre correnti di pensiero hanno sostenuto ke la stessa legge del principe aveva il proprio fondamento ultimo nel consenso popolare (recuperando così il vecchio mito di una legge ke aveva trasferito al re il potere originario del popolo: la lex regia de imperio). In quest’ultimo contesto alcuni giuristi (come Marc Antoine Despeisses) hanno riportato sia la legge ke le consuetudini all’approvazione popolare e hanno trovato nei princìpi del dir romano gli strumenti x affer mare il valore del dir consuetudinario.

Così, ancora a metà ‘700, circolavano correnti di pensiero sostanzialmente favorevoli al dir romano.

Per quanto riguarda il dir consuetudinario francese, questo era stato alle origini un dir non scritto (come avviene x tutte le consuetudini), però da una certa epoca in poi aveva cominciato ad assumere forma scritta in redazioni private, tanto ke il re Carlo VII aveva disposto con ordinanza (1454) ke tutte le consuetudini del regno fossero redatte in scritto, sottoposte al controllo del parlamento o del suo consiglio x essere approvate da lui, così cercando di realizzare una minore incertezza del dir. L’ordinanza ha posto le basi di un processo di trasformazione delle consuetudini in fonti scritte e ha posto anke le basi di un processo di modifica del testo normativo ke doveva essere approvato dal parlamento, con controllo finale del re cui spettava l’ultima parola. Quest’ultime previsioni hanno contribuito a rafforzare il potere normativo del sovrano e a far emergere la sua legge di fronte alle altre fonti del dir.

§ LO SFORZO DI UNIFORMARE LE COUTUMES FRANCESI.

Le consuetudini in Francia erano molte, e anke se era possibile raggrupparle in famiglie, restava sempre il fatto ke esse rappresentavano un mosaico e quindi

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una realtà disomogenea. Questa situaz rendeva lecita una domanda, se fosse possibile trovare "uno spirito generale del dir francese", cioè se al di là delle differenze specifiche ci fosse un quale sostrato comune, ke in Francia si era cominciato a kiamare esprit. Un altro problema era quello di risolvere i rapporti tra il dir romano e il dir consuetudinario nel quale si respirava un’aria di famiglia e uno spirito generale al di là delle singole differenze ke correvano tra costume e costume. Questa tesi è stata sostenuta in particolare da Guy Coquille (1523- 1603) ke affermava ke il vero dir civile francese era il dir consuetudinario: ma allora ke ruolo aveva il dir romano? Coquille, sapeva bene ke anke in Italia c’era un dir locale (gli statuti cittadini) e ke alcu ni giuristi francesi si erano kiesti se le consuetudini francesi potessero essere assimilate a questi statuti: questa assimilazione però, avrebbe comportato la conseguenza ke il dir consuetudinario francese avrebbe costituito un dir proprio, e quindi speciale, da interpretare in modo restrittivo, e avrebbe posto il problema di capire rispetto a quale diritto fosse speciale la consuetudine

(il discorso va spiegato meglio: il dir statuario italiano era un dir proprio, e questo, x conseguenza, postulava l’esistenza di un altro dir ke non fosse proprio – il principio era contenuto in un passo del dir romano ke voleva ke i popoli vivessero in parte secondo un dir proprio, in parte secondo un dir comune- il dir proprio era dir speciale e come tale poteva derogare al dir romano, ke era dir comune. Mettendo il dir consuetudinario francese sul medesimo piano del dir statuario italiano, esso diventava dir proprio e quindi speciale, e quindi doveva derogare a un altro dir ke fosse dir comune: ma quale poteva essere questo dir comune se non il dir romano?). Ma questo era proprio il risultato a cui Coquille non voleva arrivare, x non ridimensionare il ruolo del dir consuetudinario, x questo egli ha sostenuto ke al dir romano si debba ricorrere quando ci sono lacune nel dir consuetudinario francese.Insieme a Coquille anke Charles Du Moulin (1500-1566) ha difes o il dir consuetudinario sostenendo ke il regno aveva bisogno di un dir chiaro ed equo, semplice e conforme alla ragione, senza incertezze (al contrario la situaz francese dei suoi tempi ricordava piuttosto l’Idra, il mostro mitologico dalle tante teste che, se recise ad una ad una , rispuntavano sempre). L’obiettivo era quello di ridurre le tante consuetudini e di raggrupparle in una trattazione unitaria affidando però questo lavoro, già iniziato con Carlo VII, ad una commissione di esperti (il cui lavoro sarebbe stato a sua volta rivisto da un’altra più ampia commissione e infine promulgato dal re), senza dare ascolto a quelli ke non erano avvocati, ma avvoltoi in toga, in quanto non pensavano al bene di tutti ma solo ai propri affari e ke non avrebbero voluto leggi limpide e semplici xkè quelle avrebbero fatto venir meno molte occasioni di litigi e quindi di guadagni.

§ IL PESO DEI GIURISTI PRATICI.

In questo modo i giuristi, e soprattutto quelli pratici, hanno messo mano alla costruzione di un dir consuetudinario francese ke è venuto a rappresentare il sostrato giuridico comune del paese, anke se restava sempre fermo ke la Francia non aveva x nulla un dir uniforme (questa tensione tra la realtà effettuale e quella ke era l’azione dei giuristi, e poi dei sovrani, va tenuta sempre presente, xkè è rimasta a lungo uno dei caratteri dominanti della realtà giuridica francese). Certamente anke in Italia cominciava a sedimentarsi, come si è visto, un dir patrio valido x diversi stati regionali, e ad esso si affiancava un dir statuario ancora più localizzato, ma il substrato di questi dir era

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sostanzialmente omogeneo, così come era omogeneo con il dir romano, ke restava il modello al quale si rifacevano tutti quanti i dir vigenti. In una situaz di questo tipo i problemi tecnici e teorici ke i giuristi e i tribunali si tr ovavano a dover affrontare erano, tutto sommato, più semplici da risolvere xkè bastava usare lo strumento dir speciale-dir generale x venirne a capo, individuando le norme di dir speciale ke dovevano essere usate in deroga al dir generale. Il caso della Francia era invece diverso xkè il problema era di far coesistere e di conciliare tanti dir locali non uniformi tra loro, ed essendo questo un problema prevalentemente pratico, è molto probabile ke le soluzioni siano state escogitate da giuristi pratici piuttosto ke da operatori impegnati sul versante teorico. Così dal Praticien françois a cui Guèret si era riferito quando accusava i pratici del suo tempo di leggere solo quel tipo di opere ignorando i classici, si era passati a opere più ambiziose come Le Praticien universel ke si prefiggeva lo scopo di servire a risolvere tutte le più importanti questioni giuridiche davanti a tutte le giurisdizioni del regno e in cui i diversi filoni normativi [dir  romano, canonico, regio, giurisprudenziale, consuetudinario] venivano trattati come se costituissero ormai un tutto omogeneo. In quest’opera si trovano inoltre soluzioni pratiche semplici e chiare, espresse in forma precettiva, e x questo le stesse saranno poi adottate dagli stessi codificatori. (x un es vedi pagg 260-261).

§ IL CASO DI FRANCOIS BOURJON.

In ogni caso è un fatto ke, ormai, a metà ‘700 in Francia circolavano opere giuridiche segnate in modo profondo da uno sforzo di unificazione del dir: circolava, ad es, un testo fondamentale compilato da un avvocato al Parlamento di Parigi, François Bourjon (1740). Quest’opera è più estesa rispetto a quella già ricordata di Loysel e tratta anch’essa del dir delle persone, dei beni, delle cariche pubbliche, delle successioni, delle donazioni, etc. Dal punto di vista della struttura egli ha trasformato le fonti alle quali ha attinto in regole indicando, a commento dell’articolo, la fonte alla quale egli si è rifatto [così, ad es, nel 2 cap del libro 1 dedicato alle limitazioni alla libertà naturale e originaria, si trovano regole riprese dal dir romano, altre dalla costume di Parigi, altre da un trattato sui testamenti]. Egli è partito dal dir comune della Francia, rappresentato, secondo lui,  anzitutto dal dir consuetudinario ke è tendenzialmente uniforme ma con tante sfumature tali da richiedere un lavoro di coordinamento tra le stesse. L’idea di fondo di Bourjon era quella ke il dir consuetudinario francese potesse offrire il piano di un corpo giuridico completo in quanto il mondo del dir consuetudinario era come un insieme di tante carte geografiche particolari nelle quali però mancava il corredo di una carta geografica generale e da questo discendeva la necessità di cogliere innanzi tutto l’esprit complessivo della consuetudine, la sua armonia generale in modo da costruire un mappamondo giuridico. Tra i tanti criteri indicati da Bourjon x giungere a questo risultato ce ne sono alcuni ke meritano di essere ricordati xkè danno conto delle sue idee: costruire un corpo completo ke poggiasse tutte le sue singole parti su una base comune –il dir civile e il dir romano- ke però fosse limitato allo stretto necessario come elemento  di unione; ridurre le consuetudini a principi semplici e generali usando frasi brevi e disporle in modo ke scaturiscano naturalmente le une dalle altre.

§ IL DIR COME INSIEME DI REGOLE.

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La trasformazione del dir in regole giuridiche, anke quando si attingeva da fonti dottrinarie, non è stato un fatto nuovo da parte di Bourjon o di altri autori del suo tempo, in quanto tutti hanno seguito un percorso ke in Francia non era affatto inusuale ke aveva anch’esso una storia alle spalle. Anzitutto al riguardo bisogna notare ke numerose altre opere giuridiche hanno questo tipo di struttura. E poi bisogna dire ke dietro questa tecnica c’eè la cultura di Cartesio ke aveva espresso il suo nuovo metodo di indagine filosofica in una serie di regole le quali, x la loro stessa semplicità di contenuto e di formulazione, si caratterizzavano anke x l’evidenza, cioè x il fatto di non richiedere una dimostrazione analitica.

§ IL GIUSNATURALISMO.

Quello ke si può dire, in generale, del giusnaturalismo dei secoli XVII e XVIII non si può dire di tutti i singoli autori ke si sono ispirati al modello giusnaturalista: questo significa ke si può fare riferimento solo ad una linea di tendenza principale e a quale autore ke possa essere considerato esemplare. La linea di tendenza è rappresentata dal giusnaturalismo laico, cioè dallo sforzo, ke nel tempo è stato fatto, di costruire un modello politico, culturale e giuridico ke si ispirasse a valori esistenti in natura e tuttavia non si fondasse necessariamente su valori religiosi e quindi sull’esistenza di Dio. Da questo punto di vista, un autore fondamentale è rappresentato da Ugo Grozio (1583-1645) e dal suo "Il dir della guerra e della pace". Infatti tradizionalmente si attribuisce a Grozio di aver fondato la dottrina moderna del dir naturale, ke è una dottrina ke presa di per sé, è molto antica in quanto aff onda le proprie radici nel pensiero mitologico, letterario e filosofico greco, prima, e nel pensiero cristiano poi. Grozio però con la sua citata opera ha segnato una forte ripresa della problematica del dir naturale. Egli è stato un autore profondamente cristiano, di profonda religiosità (tant’è ke ha dedicato un suo scritto al vangelo di Luca); tuttavia egli ha cercato di ragionare in termini laici, e ha affermato ke il dir naturale è quel dir ke esiste x la facoltà dell’intelletto umano di distinguere il bene dal male, e ke questo dir naturale resterebbe sempre valido. Dopo questo spunto Grozio è passato ad affermare ke c’è un’altra origine del dir, al di là di quella naturale , ed è quella ke discende dalla volontà di Dio, o ke è stato instillato nell’animo umano da Dio. In ogni caso, a parte queste considerazioni sul rapporto tra dir e divinità, resta di grande rilevanza ke Grozio abbia formulato an ke un’ipotesi unicamente naturalistica dell’origine e della natura del dir , xkè questo distingue le posizioni giusnaturalistiche e razionalistiche di Grozio e dei suoi seguaci sia dal giusnaturalismo cristiano medievale e moderno sia dalle tante altre dottrine [ad es quella del principe cristiano] ke avevano costruito il dir e i poteri del principe su fondamenti religiosi, e quindi ponendo a base del ragionamento l’esistenza di Dio.

Sotto altri profili, invece, l’impostazione di Grozio è molto meno innovativa, xkè egli segue sempre la tradizione umanistica del richiamo alle testimonianze esemplari , letterarie e non, offerte dal mondo classico; e così le fonti sulle quali egli fonda l’esistenza di un dir naturale sono quelle proprie della cultura tradizionale, classica e religiosa [la bibbia, Aristotele, Cicerone, Orazio, Tacito].

In autori successivi è stato sviluppato fino in fondo il processo di separare il dir naturale dalla divinità e di costruirlo solo in termini razionali. Si può prendere come esempio John Locke (1632-1704) ke ha sostenuto ke "le società politiche" sono nate attraverso un accordo di un gruppo di uomini ke hanno "consentito a

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costituire un unico governo, formando un unico corpo politico, in cui la maggioranza ha dir di deliberare e decidere x il resto, avendo, x legge di natura e di ragione, il potere della totalità". Così, in questo sistema ciascuno, "col consentire con altri a costituire un sol corpo politico si sottopone all’obbligazione di sottomettersi alla decisione della maggioranza". In questo modo l’unica vera fonte delle società politiche (cioè degli ordinamenti giuridici), e del dir è posta direttamente nell’esigenza della natura umana di associarsi, e quindi nella natura degli uomini e delle cose , senza più passare a ttraverso una mediazione religiosa.

§ LA DIFESA DEL DIR ROMANO COME DIR RAZIONALE.

Nel contesto di critiche contro il dir romano, a sua difesa si è levata la voce di un famoso giurista razionalista, Jean Domat (1625-1696), educato alla scuola filosofica di Cartesio e sensibile ai valori spirituali del giansenismo.

Questo movimento religioso ha trovato la propria espressione più alta in Blaise Pascal (1623-1662; matematico, fisico, filosofo e moralista). Uno degli scritti più importanti di Pascal, i Pensieri, è stato pubblicato una ventina d’anni prima dell’opera fondamentale di Domat (Le leggi civili nel loro ordine naturale) e una lettura in contrappunto di Pascal e di Domat può essere utile xkè consente di far emergere le tensioni non solo giuridiche, ma culturali, spirituali e morali ke sono sottese a certe posizioni di Domat.

Il giansenismo ha sempre rifiutato di riconoscersi come movimento ereticale all’interno dell’ortodossia cattolica, ed anzi ha rivendicato x sé la vera ortodossia. La dottrina giansenista si è ispirata a certe tesi di sant’Agostino sulla portata irrimediabile, x l’uomo, del peccato originale, e quindi sul ruolo assolutamente centrale ke assume la grazia di Dio nella storia umana, ke è storia ke dal peccato procede verso la salvezza. Solo la grazia di Dio può infatti porre rimedio al peccato, xkè la redenzione da parte dell’uomo è impossibile in quanto la grazia segue un disegno divino, una predestinazione, anche se non priva l’uomo del proprio raziocinio. Accanto alla fede, quindi, sta la ragione ke è l’unico strumento ke l’uomo ha x cercare la strada verso Dio.

Domat cercò anch’egli, nelle sue opere, cartesianamente, i principi primi, direttamente intuitivi, ke consentano di costruire il sistema giuridico senza essere dimostrati e ke nello stesso tempo si pongano come fondamento di tutto il sistema. Per Domat, vero principio primo è, necessariamente, l’amore di Dio, al quale si perviene secondo un percorso logico: le leggi dell’uomo sono le regole della sua condotta, ke lo conducono vero il suo fine , ke si identifica nel sapere x ke cosa l’uomo è stato destinato; ma nulla è degno del fine dell’uomo se non Dio stesso. Da qui allora la conseguenza ke la prima legge è la ricerca di Dio, inteso come il sommo bene x l’uomo; la seconda è quella dell’amore reciproco tra gli uomini, ke diventa a sua volta il fondamento della società umana: posizioni ke coincidono, sul piano giuridico, con quelle religiose di Pascal. Così razionalismo da una parte e giansenismo dall uote altra hanno portato Domat a vedere nel dir romano, da tempo con la qualifica di equità scritta (ratio scripta), una testimonianza della volontà provvidenziale e misteriosa di Dio, ke ha voluto manifestare la sua luce agli infedeli (i romani sono stati pagani) e servirsi di loro x comporre una scienza del dir naturale. Infatti Domat intraprese il tentativo di ricomporre tutto il dir in un ordine naturale, pur nella consapevolezza che in questo dir romano c’erano mille

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difetti e tuttavia un valore profondo da salvare: il fatto ke esso costituisse il deposito delle regole naturali dell’equità. Per Domat l’ordine è necessario xkè esso è lo strumento necessario dell’apprendimento, sicchè la mente, x conoscere le cose, non può prescindere da un criterio di ordine, attraverso le definizioni, i principi, i dettagli. Lo schema di lavoro è quello , quindi, di distinguere le materie del dir e riunirle secondo l’ordine k e esse hanno nel corpo ke compongono naturalmente, cioè razionalmente; dividere ciascuna materia secondo le sue parti e ordinare queste parti secondo le loro regole, principi e definizioni. Procedendo attraverso questi schemi logici, Domat ha costruito un grande corpo giuridico unitario, ke è diventato uno dei serbatoi ai quali si poteva attingere naturalmente sia x apprendere il dir sia x modificarlo, purgandolo dei suoi tanti difetti.

§ L’USO DELLA LINGUA FRANCESE.

Domat si è preoccupato anke di dare conto del fatto ke egli ha scritto in francese anke se quest’uso, nel suo paese, era già abbastanza consolidato. Il francese era ormai una lingua diventata comune a tutte le nazioni, x la sua chiarezza, giustezza, esattezza e dignità ke sono i caratteri essenziali all’espressione delle leggi. Anke Marc Antoine Despesses sosteneva ke i romani avevano scritto le proprie leggi in latino, e i greci in greco, xkè era la loro lingua naturale; ed era quindi giusto ke i francesi abbiano le leggi nella lingua loro propria, in quanto, coloro ke volevano il dir e le leggi francesi in una lingua diversa dal francese volevano profittare dell’ignoranza altrui, e questo testimoniava ke essi erano mossi da una volontà di supremazia.

§ LA POLEMICA DI MURATORI CONTRO I DIFETTI DELLA GIURISPRUDENZA.

Tanta parte dei motivi culturali ke si sono trovati nella querelle tra antichi e moderni, nella polemica anti-romanista di Rabelais, di Montagne o di Hotman, si ritrovano , in Italia, in Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), un sacerdote erudito, sensibile alle culture nuove ma legato all’ortodossia cattolica e timoroso, quindi, di tutto quanto poteva entrare in collisione con la fede. Muratori si è interessato anke di dir e può essere considerato come un momento di collegamento tra il vecchio e il nuovo. In realtà egli è stato aperto a motivi ke la cultura francese o inglese avevano elaborato già prima ke lui nascesse e lui se ne è appropriato in ritardo, segno questo, di un ritardo culturale ke non è dello scrittore ma della cultura italiana nel suo complesso, ke discute ancora, nel primo ‘700, di cultura scientifica, di Galilei, di anti-romanesimo o di anti-tribonianismo e ke soprattutto si ritrae ogni volta k e spunta qualche nuova idea ke possa turbare la fede religiosa tradizionale.

Per quanto riguarda la posizione di Muratori sul dir e sulla giurisprudenza l’idea originaria, contenuta nel suo trattato sul "Buon gusto", era quella di lavorare sodo quasi esclusivamente sulla giurisprudenza piuttosto ke sulla legislazione e quindi di ridurre in un unico corpo la parte migliore della giurisprudenza, cioè della letteratura giuridica e delle decisioni giurisdizionali vere e proprie. Bisognava cioè fare una nuova compilazione di leggi, xkè quella in vigore era soffocata dalle interpretazioni.Il metodo era quello di procedere per gradi facendo un lavoro di selezione dei giuristi e operatori del dir a loro volta impegnati in un lavoro di selezione e raggruppamento del materiale giuridico. Ogni scelta o opinione dei primi gruppi di lavoro formati, sarebbe poi stata

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sottoposta alla valutazione di altri gruppi di giureconsulti, fino a giungere all’approvazione da parte dei giuristi scelti dal principe stesso. Così sarebbe nato il nuovo cod ice ke Muratori avrebbe chiamato carolino in onore del re Carlo VI. Ma questo codice è poi rimasto inedito (è stato pubblicato solo in tempi recenti) e l’unico scritto di dir di Muratori ke sia effettivamente circolato è stato "Dei difetti della giurisprudenza" in cui egli è entrato anke in polemica contro il dir romano prendendo spunto da un passo di Ulpiano ke riteneva ke la giurisprudenza fosse la conoscenza delle cose divine e di quelle umane, la scienza del giusto e dell’ingiusto: questa definizione gli sembrava una "sparata" in quanto, secondo Muratori, nella giurisprudenza regnano infinite discordie e contrarietà e non vi possono regnare certezze, diversamente da quanto avviene nel campo delle scienze naturali. La giurisprudenza è dunque x Muratori il vero male da combattere, il foltissimo bosco ke deve essere purgato da una gran quantità di difetti e di opinioni ke lo deformano. Muratori però non s’illudeva sul fatto ke un  nuovo codice avrebbe completamente eliminato i problemi, xkè l’intelletto umano resta sempre dubbioso (una considerazione questa, ke mostra la distanza ke corre sia con la tradizione razionalistica e scientifica già diffusa in Francia sia con quello ke sarà di lì a poco il "credo" dell’illuminismo, in cui si è convinti della perfettibilità delle cose degli uomini e quindi della possibilità di porre rimedio ai difetti ke altri, cresciuti in un altro momento storico, hanno creduto irrimediabili) e sul nuovo codice ci sarebbero state altrettante dispute come era avvenuto x quello giustinianeo. Inoltre le liti erano eterne come il mondo e dunque i princìpi dovevano limitarsi a fare il possibile in modo da risolvere, intanto, buona parte delle vecchie questioni.

 

CAPITOLO VIII

§ PREMESSE.

L’evoluzione della cultura giuridica in Europa è stata segnata da tutte le vicende che sono state descritte fin’ora:

la polemica contro il dir romano;

la costruzione progressiva di un dir ke si fondasse sulla ragione, secondo un modello ke era vicino a quello delle scienze esatte;

l’esigenza di un rinnovamento culturale profondo ke, nel dir, in Francia si è concretizzato nella polemica degli antichi e dei moderni, mentre in Italia, nella polemica a favore del buon gusto;

il rafforzamento dell’attenzione x il dir patrio, ke in Francia è stato identificato con il dir consuetudinario francese (e ke veniva contrapposto al dir romano ke era sentito come un dir estraneo alla tradizione genuinamente francese) e ke in Italia ha preso corpo nello studio del dir dei singoli stati regionali;

l’affermazione del dir pratico e quindi delle esigenze pratiche del dir, ke hanno fatto constatare le molte disfunzioni del sistema giuridico di allora.

Per questo, ricollegandosi a proposte ke erano state già del rinascimento, si è cominciato a parlare di codificare il diritto.

§ ALCUNI ANNI CRUCIALI.

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Si può dire ke gli anni intorno a metà ‘700 sono stati cruciali dal punto di vista del movimento x la codificazione. In Italia, nel 1723 e nel 1729 sono entrate in vigore, rispettivamente, la prima e la seconda redazione delle Leggi e costituzioni di sua maestà di re Vittorio Amedeo II di Savoia; intorno al 1738, Carlo di Borbone ha pensato a una codificazione nel regno di Napoli; nel 1747 Pompeo Neri ha scritto i propri Discorsi ke dovevano essere di preparazione alla compilazione di un nuovo codice delle leggi municipali della Toscana.

Altrettanto è accaduto in altri stati d’Europa, sia x il dir del processo sia x il dir sostanziale. Per il dir del processo, ke sembrava quello da riformare con più urgenza, a metà secolo si avevano già due codici tedeschi: il Codice federiciano marchico e il Codice giudiziario bavarese, ke contenevano una risistemazione uniforme del dir del processo. Per quanto riguarda il dir sostanziale, ancora in Baviera è stato pubblicato un Codice civile bavarese nel 1756.

In Prussia, Federico II ha promosso nel 1746 una codificazione del dir territoriale tedesco ke doveva ripudiare il dir romano, pubblicata come Code Frèdèric; nel 1753 anke Maria Teresa d’Austria ha nominato una commissione ke doveva formare un codice, quello ke dopo un lavoro di 60 anni è diventato il Codice civile generale per i territori ereditari tedeschi.

In Russia, come abbiamo visto, Caterina II ha cercato di avviare un processo di codificazione dal 1766, ma senza successo, anke se l’ Istruzione ke è stata emanata in quell’occasione costituisce un documento prezioso x capire l’idee dell’imperatrice e il clima politico del periodo.

Da questo rapido quadro sembra essere assente la Francia. La realtà è ke lì la redazione dei codici era stata più precoce ke altrove e quindi qualcosa era già stato fatto a fine ‘600 prima ke in altri paesi cominciassero a fiorire idee di codici.

Cmq x capire quanto è successo in Europa nel periodo in questione occorre tenere presente il discorso già fatto su consolidazioni e codificazioni, e mettersi nella prospettiva di quei decenni quando fare codici ha comportato tante operazioni giuridiche anke diverse tra loro, sicchè quegli anni hanno rappresentato una stagione dei cento fiori ( ad indicare ke x raggiungere uno stesso risultato non esisteva un’unica strada da percorrere, ma tante).

§ LE ESIGENZE PRATICHE DEL DIRITTO.

Per capire come si è giunti all’esigenza di codificare il dir bisogna anzitutto tenere presente quelle ke erano le esigenze pratiche del dir e le polemiche che a causa di queste esigenze ruotavano intorno alle fonti del dir allora vigenti. Una delle situazioni ke la scienza giuridica ha ritenuto essere alla base delle codificazioni, la si ritrovava nel fatto ke il diritto, così come era, era ormai impraticabile, sia x la DISPERSIONE DELLE SUE FONTI, quasi impossibili da reperire, sia x l’assoluta INCERTEZZA KE REGNAVA SUL LORO SIGNIFICATO EFFETTIVO, ke portava come conseguenza la prevalenza dell’interpretazione (e quindi delle dottrine) sulla legislazione. Infatti, il vero vizio di fondo stava nell’eccesso dei commenti ke rendevano oscuro il testo e ke facevano applicare dal giudice non tanto una legge, quanto il pensiero di un giurista su quella legge.

Questa situazione ha fatto spostare l’attenzione soprattutto sul dir del processo, piuttosto ke sul dir sostanziale; questo xkè il processo rappresenta,

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nella vita giuridica, il momento di crisi della legalità, xkè è nel processo ke vengono al pettine i nodi irrisolti del dir sostanziale ke, x come è strutturato, non è capace di stabilire chi abbia torto o ragione, cosa si debba fare o cosa non si debba fare. Occorre però tenere presente, al riguardo, che naturalmente il processo non è solo un momento patologico, cioè la conseguenza di un malessere che deriva da una patologia del diritto, ma è anche un momento fisiologico, connaturato ad un certo livello di litigiosità ke può definirsi naturale. Questo tasso fisiologico di litigiosità può però aumentare considerevolmente quando l’ordinamento nel suo complesso, x come è strutturato (visto ke ci si trova alle prese con un diritto opinabile) non è in grado di rispo ndere alle domande di giustizia degli operatori, e le conseguenze di ciò ricadono nella fase processuale dove gli operatori agiscono in modo arbitrario e incontrollato. Così, quando siamo di fronte ad un ordinamento giudiziario carente, e siamo di fronte ad una litigiosità eccessiva x cause processuali o sostanziali, o x entrambe, e le patologie si intrecciano, i processi diventano eterni e le soluzioni lontane e sempre più incerte nei contenuti: ma questo avviene sempre nel processo, ed è facile la tentazione di ascrivere tutte queste patologie al processo e al dir processuale.

Questo accadeva soprattutto negli stati di antico regime: l’arbitrio del giudice, tanto criticato nel corso del ‘700 ( e di cui si è parlato a proposito del giudice che giudicava come fosse un Dio – tamquam Deus) è, nel medesimo tempo, sia arbitrio ke nasce DAL processo x come esso è organizzato (con eccessivi margini di discrezionalità lasciati al potere decisionale del giudice) sia arbitrio ke nasce NEL processo (cioè ke trova il proprio sfogo nella fase giurisdizionale, ma ke ha le proprie radici nel modo in cui è organizzato il dir sostanziale); in ogni caso l’effetto è lo stesso: quello di una giustizia incerta e imperscrutabile.

E’ stata facile allora la tentazione di scaricare tutte le responsabilità sui giudici o sul processo, senza tenere presenti le responsabilità del dir sostanziale, anke xkè, come detto, i nodi venivano al pettine proprio davanti al giudice, quando si chiedeva una giustizia ke non si riusciva ad ottenere e poteva sembrare ke tutto dipendesse dal giudice.

Queste considerazioni valgono a sottolineare i motivi dei tanti tentativi di riforma ke dal ‘600 al ‘700 hanno messo sotto accusa il modo in cui era amministrata la giustizia e richiesto una semplificazione complessiva dell’ordinamento giuridico, da cui è nata l’idea di fare un codice.

§ DIR SOSTANZIALE E PROCEDURALE IN D’AGUESSEAU.

Henry François D’Aguesseau (1668-1751; è stato cancellerie del re Luigi XV) ha segnalato ke negli ordinamenti evoluti non bastava più la saggezza del magistrato ed era necessario l’intervento della saggezza del legislatore, ke era obbligato a fare gli stessi progressi ke faceva la malizia umana, in modo ke ciascun male trovasse il proprio rimedio, ciascuna frode la propria precauzione , ciascun reato la propria pena (egli era un giansenista e quindi era pervaso dal senso irrimediabile del peccato ke volgeva gli uomini al male).

Secondo D’Aguesseau, la gran parte delle controversie giudiziarie nasceva dalla mancanza di una regola certa ed uniforme x tutto il regno, e questa mancanza si sentiva soprattutto nei paesi in cui si applicavano le coutumes; esse infatti x la loro diversità formavano regole di giustizia ke somigliavano così poco le une alle altre ke quello ke era giusto al di qua di un ruscello era

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ingiusto al di là. Dunque nel medesimo regno, in contrapposizione a quella ke doveva essere la sua unicità, vigevano tante leggi diverse quante erano le città e i distretti. Il tema del particolarismo giuridico ke riguardava il dir sostanziale e quindi la non uniformità delle leggi era ravvisabile anke nel dir processuale dove la mancanza di uniformità nelle forme processuali era esasperata da una giurisprudenza anch’essa non uniforme davanti alle diverse corti del regno tanto da dare occasione ad una miriade di conflitti di giurisdizione, ke nascevano soprattutto  dal desiderio di evitare un tribunale ke seguisse massime contrarie alle pretese di una delle parti, e di cercare di rivolgersi ad un tribunale di orientamento più favorevole.

In questo contesto in cui la malizia umana riusciva a superare le previsioni del legislatore, secondo D’Aguesseau c’erano dei punti sostanziali da affrontare x una riforma sostanziale e duratura ke riguardavano, in modo riduttivo rispetto alle sue considerazioni e alle sue premesse, soprattutto il dir processuale e l’ordinamento giudiziario. La spiegazione di questo suo ripiegamento sta nel fatto ke è sicuramente più facile intervenire sulla procedura piuttosto che sul dir sostanziale, xkè intervenire sul dir sostanziale significava, in realtà, intervenire su strutture sociali radicate ke riguardavano gli interessi concreti degli uomini; mentre nella procedura si interveniva solo sulla forma degli atti.

§ IL TRIBUNALE DELLA RAGIONE.

A sostenere questi propositi di intervento, è venuta, ancora una volta dalla Francia e dall’Inghilterra, una cultura nuova ed aggressiva ke si è diffusa rapidamente per tutta l’Europa, costituendo un’età tendenzialmente omogenea dal punto di vista filosofico, scientifico, letterario, politico e giuridico: l’illuminismo. Si è già vista la definizione ke ne ha dato Kant in una pagina famosa scritta nel 1783 (quando in Germania l’illuminismo cominciava già a declinare e prendevano corpo le nuove tendenze ke sono poi sfociate nel romanticismo e, dal punto di vista giuridico, nella scuola storica del diritto), dove, in poche righe ke riassumono il suo pensiero sull’argomento, ci sono due delle componenti fondamentali dell’illuminismo: 1. il razionalismo, inteso come mito della ragione; 2. il coraggio del razionalismo, accompagnate dalla critica allo stato di minorità ke non deriva dal la mancanza di qualità naturali ma dalla mancanza di coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro (indietro nel riassunto, andarsi a vedere la definizione di Kant dell’illuminismo).

Ma in Kant c’è anke, a guardar bene, la ripresa di un tema ke era stato sviluppato a fondo da Galilei, quando ha fatto porre da Simplicio la domanda "ma quando si lasci Aristotile, chi ne ha da essere scorta nella filosofia? Nominate voi qualche autore" e la risposta che Galilei ha messo in bocca a Salviati, simile a quella data appunto da Kant due secoli dopo, è ke l’intelletto umano, o la ragione, basta a se stesso e non occorre altro.

Anke Voltaire ha insistito sul fatto ke la ragione, protagonista della nuova cultura, aveva finalmente distolto gli uomini dai versi, dalle tragedie, dalle commedie, dall’opera, facendosi adulta ed uscendo così dal chiuso dei salotti dove aveva alimentato la querelle tra antichi e moderni su argomenti letterari in genere. Ora, entrando in altri ambienti, quella medesima ragione che nei salotti della querelle si occupava di romanzi o di riflessioni morali quasi solo x spirito di galanteria, imbastendo discorsi ke restavano più intessuti letteratura

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che di cose, adesso si cimentava con altri temi ke interessavano a uomini che volevano sapere di cose concrete piuttosto che di letteratura [ grani, commerci, prestiti a interessi, investimenti, giustizia, diritto].

In Italia, a differenza che in Francia, l’illuminismo è arrivato con ritardo: infatti solo a metà secolo l’illuminismo ha messo in discussione tutta la tradizione consolidata di un paese che era rimasto aggrappato ai modelli della controriforma e che quando aveva cominciato a distaccarsene lo aveva fatto con grande timidezza e con grande cautela.

In ogni caso bisogna tenere presente, riguardo l’illuminismo e la ragione, ke ci sono stati ovunque tanti diversi razionalismi ke hanno usato la ragione come strumento del proprio lavoro e che tuttavia non possono essere considerati partecipi del movimento cultuale e politico che va sotto l’etichetta di illuminismo. Infatti secondo Kant, c’era stata la ragione dei dogmatici, il cui dominio era dispotico; quella degli scettici, ke portava ad una totale anarchia; quella di Locke, ke aveva costruito una filosofia dell’intelletto, studiando il meccanismo del suo funzionamento; e infine quella dei suoi tempi, ke era "capacità di giudizio". La ragione era infatti concepita come giudice di tutte le cose, capace di istituire "un tribunale ka la garantisca nelle sue giuste pretese, ma che possa per contro sbrigarsi di tutte le pretensioni non mediante sentenze d’autorità, bensì in base alle sue eterne e immutabili leggi", come ha scritto lo  stesso Kant. Questa metafora della ragione-giudice e del tribunale, ricorre anche altrove, ad es negli scritti degli autori della grande Enciclopedia promossa in Francia da Diderot e D’Alambert e ke è stata la sintesi del pensiero illuminista.

Accanto al razionalismo critico, nel quale l’uomo applica la ragione sulle cose, prende così corpo un mondo nuovo nutrito di tante scoperte, scientifiche e letterarie e che investono attività un tempo disprezzate e respinte: come il commercio, ritenuto anch’esso fondato sulla ragione, favorendo rapporti umani, aprendo scambi tra nazioni lontanissime, promovendo le arti, l’industria, la pace e l’abbondanza. Perkè, ormai, la convinzione è quella, tutta borghese, ke sia il commercio a fare la ricchezza delle nazioni, e il modello è rappresentato dall’Inghilterra, dove, secondo Voltaire, " il figlio minore di un pari del regno non disdegna affatto gli affari" in contrapposizione a quanto avviene in Germania dove "non si sa concepire come il figlio di un pari d’Inghilterra sia solo un ricco e potente borghese e non un principe come in Germania", anche se magari si tratta di prìncipi che non possiedono "altra ricchezza che  gli stemmi e l’orgoglio". Per questo Voltaire ritiene che ad uno Stato sia più utile un commerciante che arricchisce il suo paese piuttosto che un signore bene incipriato che sa con precisione a che ora il re si alza o va a dormire.

Il tema del commercio e della ricchezza è in stretta relazione con altri due grandi motivi dell’illuminismo: 1. la trasformazione della società aristocratica in società borghese; 2. l’inserimento tra i valori portanti di tendenze nuove come l’utilitarismo, il gusto del benessere e del lusso. Anche x questo in Francia come in Italia, commercio, agricoltura, moneta, economia politica sono stati posti al centro dell’attenzione e si sono lette e tradotte, intorno al 1755, alcune grandi opere economiche inglesi e si è scritto molto bene su questi temi.

Ad es in Francia, François Quesnay ha pubblicato nel 1758 il "Quadro economico con la sua spiegazione" ke è stato il testo sacro degli economisti

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francesi di allora; e in Italia, l’abate Ferdinando Galiani ha pubblicato, nel 1751, il suo Della moneta ke è stato letto e utilizzato da tanti studiosi; nel ducato di Milano, poi, sempre in quegli anni, Pietro Verri e Cesare Beccaria hanno scoperto anche loro l’economia politica e ne hanno scritto e insegnata contribuendo, in questo modo, a caratterizzare in senso borghese la cultura dell’illuminismo.

§ L’ILLUMINISMO GIURIDICO.

Uno dei motivi ricorrenti dell’illuminismo è stato il confronto ripetuto tra l’Inghilterra da un lato e Francia e altri paesi europei dall’altro; e questo è avvenuto in modo particolare nelle Lettere inglesi di Voltaire ke ha paragonato x l’appunto l’Inghilterra con la Francia. In una di queste lettere Voltaire, confrontando i rispettivi stati, ha elogiato l’Inghilterra in quanto "è stata la sola ke sia giunta a regolare il potere dei re resistendo loro, stabilendo quel saggio governo in cui il principe, onnipotente nel fare del bene, ha le mani impedite a fare il male, dove i signori sono grandi senza insolenza e vassalli, e il popolo partecipa al governo senza confusione". I risultati cui ha chiaramente portato questo confronto, significano ke negli ambienti illuminati l’Inghilterra era ormai diventata un mito e un metro di paragone rispetto ad altri regimi politici.Certo, secondo Voltaire , agli inglesi era costato caro stabilire quella libertà, ma si trattava di un prezzo che gli stessi inglesi ritenevano che valeva la pena di pagare, visto che erano riusciti a demolire l’idolo del potere dispotico e a ridurre il re da padrone del vascello a primo pilota dello stato: questo modello del primo pilota rappresenta la versione laica del principe cristiano, cioè la versione che fonda i poteri del sovrano non più sul modello divino, ma su quello della ragione e delle buone leggi. Nella lettera seguente, Voltaire ha preso in esame non solo lo Stato, ma anche la società inglese come si era venuta strutturando in conseguenza del buon governo, sottolineando come in Inghilterra la giustizia fosse uguale x tutti, tutti pagano le tasse e nessuno è escluso x il fatto di essere nobile o prete, le tasse vengono pagate secondo la propria rendita e non secondo il proprio rango, il contadino non ha i piedi malconci ma mangia pane bianco ed è ben vestito .

Voltaire ha dunque saputo mettere in circolo idee di cui strati sempre più larghi della popolazione europea voleva sentir discutere: i temi illuministici, appunto, del mito delle buone leggi e dei buoni prìncipi.

§ L’ESPRIT DES LOIS E MOTESQUIEU.

E’ accaduto altrettanto con Montesquieu (1689-1755), pochi anni dopo le Lettere di Voltaire è apparso, in Francia, il suo Esprit des lois ke è stata una delle opere ke hanno contribuito a cambiare il corso della storia x le varie impressioni ke ha suscitato. Egli ha studiato diritto ed è diventato presidente del parlamento di Bordeaux, e appena entrato nell’ accademia della propria città ha insistito xkè si passasse dallo studio della musica e delle altre opere di puro diletto allo studio della fisica, convinto ke valesse la pena che ciascuno studiasse le scienze anke se non era particolarmente dotato. Più tardi ha scritto le Lettere persiane, criticando la frivolezza della tradizione francese, i pregiudizi e il disprezzo x le due più rispettabili occupazioni d’un cittadino, il commercio e la magistratura, le dispute inutili, il furore di scrivere prima di pensare e di giudicare prima di conoscere (tutti as petti negativi della Francia dei suoi tempi). Dopo altre opere è uscito Lo spirito delle leggi: in quest’opera i

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meriti del suo autore consistono nel fatto ke Montesquieu ha saputo affrontare x primo il tema del dir e della legalità del filosofo illuminato con spirito cittadino e con la brama di vedere gli uomini felici. Nel libro oltre ke trattare del dir, ha anche parlato di alcuni temi noti del periodo quali il gusto per il commercio, x l’agricoltura, etc. Il punto di partenza di M. è ke esistono leggi fatte dagli uomini e leggi non fatte dagli uomini ke esistevano già in natura come rapporti di giustizia possibili e quindi come leggi possibili: x questo M. si è schierato a favore dell’esistenza originaria di uno stato di natura ed è poi passato ad esaminare le tre diverse forme di stato possibili (repubblicano, monarchico e dispotico).

M. è particolarmente noto x la sua famosa teoria della separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario). In un capitolo dedicato alla costituzione inglese egli ha sostenuto, riguardo ai poteri dei giudici, che detto potere doveva essere nullo, cioè privo di ogni discrezionalità, ed è diventata celebre la sua affermazione ke i giudici non sono ke la bocca ke pronuncia le parole della legge. Molti altri spunti tratti dal suo libro sono diventati capisaldi dell’illuminismo giuridico [ad es: la legge è la ragione umana x il fatto ke essa governa tutti i popoli della terra; la descrizione della complessità delle leggi civili in un governo monarchico, ke poi è stata letta come una critica alla molteplicità delle leggi, anke se il tono di M. è stato descrittivo e non critico; la descrizione del fatto che in una monarchia si giudica secondo la legge, quando essa è chiara, e secondo lo spirito della legge, cioè attraverso l’i nterpretazione, quando essa non è chiara, mentre in una repubblica è nella natura della costituzione ke si giudichi sempre secondo la lettera della legge, dato ke nessun cittadino accetterebbe ke si interpretasse una legge ke riguardi i propri beni, la propria vita e onore (e anke questo passo è stato letto nel senso di una presa di posizione contro l’interpretazione della legge]. Si tratta, cmq, di accenni ke sono rimasti tali sia xkè l’intenzione dell’autore è stata quella di descrivere sistemi giuridici e politici diversi e non di proporre modelli sia xkè forse ha dovuto dissimulare le proprie idee dietro un’obiettività apparente, in modo da non procurarsi guai con il potere costituito ke poteva non gradire un elogio, seppur indiretto, alla monarchia costituzionale.

§ LA VOCE DELL’ENCICLOPEDIA.

Di lì a pochi anni gli spunti di Montesquieu erano già consolidati e la convinzione diffusa dell’illuminismo giuridico è stata quella ke esistesse soprattutto un dir naturale a fondamento di ogni dir positivo. La voce Loi (legge) dell’Enciclopedia si apre con l’affermazione ripresa testualmente da M. ke "in generale la legge è la ragione umana, x il fatto ke essa governa tutti i popoli della terra; e le leggi civili e politiche di ciascuna nazione non devono essere che i diversi casi particolari ai quali si applica la ragione umana". Questa voce contiene, in sintesi, tutti i fondamenti sui quali l’illuminismo giuridico ha costruito la propria nozione di legge: ke lo scopo della legge deve essere la prosperità dei cittadini; ke la buona legge doveva essere giusta, facile da applicare e confacente al governo e al popolo ke la riceveva; ke ogni legge ke non fosse chiara e semplice era viziosa; ke la legge dov eva essere redatta in forma precettiva e ke i preamboli ke di solito si premettevano alle leggi erano sempre superflui (anche se era una tecnica legislativa derivata dall’antichità e ancora in uso nel ‘700, ke voleva ke il legislatore desse conro, all’inizio di ogni legge, dei motivi ke lo avevano indotto a legiferare e degli scopi ke intendeva

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perseguire con la legge). Questa voce ha continuato ad elencare attributi fondamentali della legge:

essa può cambiare nel tempo, ma deve essere scritta in modo semplice e preciso come se fosse destinata a durare nel tempo;

la sua formulazione non deve mai essere vaga, xkè questo da spazio all’arbitrio del giudice;

non può prevedere tutti i casi, così spetta alla ragione confrontare i casi presi in considerazione con quelli omessi;

non si deve fare ricorso alla consuetudine, a meno ke non si tratti di una consuetudine sperimentata e consolidata, tanto da diventare una legge tacita.

Ci sono poi altri due passaggi fondamentali ke vanno ricordati:

il primo è costituito dall’accenno al fatto ke occorre un codice di leggi più complesso quando un popolo è dedito ai commerci e più semplice quando è dedito all’agricoltura; seguito dall’accenno ke in un codice di leggi debbono entrare solo le norme ke riguardano i rapporti con gli altri e non le norme ke disciplinano i rapporti con se stessi [modestia, pudore, decenza], nel senso ke non ci deve essere spazio x regole di comportamento ke riguardano sfere diverse dalla giuridicità, ke è individuata nelle relazioni tra soggetti e non nella morale.

il secondo passaggio riguarda i rapporti tra legge e interpretazione: le leggi sono come un saccheggio nelle mani dei giuristi che le interpretano. Tutte le citazioni, escluse quelle delle leggi, dovrebbero essere vietate nei tribunali, xkè è con la ragione e non con l’autorità ke dovrebbero essere risolti i casi dubbi.

Sono dunque tutti motivi ripresi da quella vicenda ke ha attraversato come un’onda lunga almeno due secoli (‘500 e ‘600) e ke con l’illuminismo giuridico stava dando vita ai principi generali ke avrebbero caratterizzato i nuovi codici.

§ SPUNTI SULL’ILLUMINISMO GIURIDICO ITALIANO.

L’illuminismo giuridico italiano ha raccolto le sollecitazioni culturali dell’illuminismo giuridico francese, anche se si è assistito più che ad una elaborazione originale di idee, ad una loro larga circolazione, soprattutto nel ducato di Milano, nel granducato di Toscana, nel regno di Napoli. In Italia la cultura dell’illuminismo non ha avuto il diritto tra i propri obiettivi principali, anche se, dopo la metà del ‘700, sono da ricordare alcune opere significative che non sempre sono state scritte da giuristi di professione e ke tuttavia hanno esercitato un’influenza decisiva sulla scienza del dir e hanno avuto una grande risonanza. Nel 1764 è stata infatti pubblicata la prima edizione del famoso libro di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, ke si apre con un’introduzione ke riprende con durezza il tema classico dell’antiromanesimo ke ritorna a circolare in ambienti colti uscendo d al chiuso dei pochi addetti ai lavori ("alcuni avanzi di leggi di un antico popolo conquistatore fatte compilare da un principe ke 12 secoli fa regnava a Costantinopoli, ed involte in farraginosi volumi di privati ed oscuri interpreti, formano quella tradizione di opinioni ke in gran parte dell’Europa ha tuttavia il nome di leggi"; a questi "avanzi" era quindi seguita una miriade di interpretazioni: entrambe rappresentavano "uno scolo dei secoli più barbari") .

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Nel medesimo ambiente lombardo dell’Accademia dei pugni, fondata da Pietro Verri, sulla rivista Il caffè (1764-1766) sono stati pubblicati tre articoli di dir ke appartenevano 2 ad Alessandro e uno a Pietro Verri ke dimostrano il modo in cui l’Italia ha recepito l’illuminismo giuridico francese. Nel primo dei due articoli, il Di Giustiniano e delle sue leggi, Alessandro Verri ha ripreso le accuse di Beccaria al Corpus iuris arrivando ad affrontare il momento storico nel quale è stato riscoperto il dir romano, e ha ripreso la polemica umanistica sull’ignoranza dei dottori medievali, i quali lungi dall’essere quei grandi ke si era detto di loro non erano stati altro ke celebri ignoranti ke avevano inondato l’Italia con grossi volumi pieni di interpretazioni e commenti inutili.

L’altro articolo, il Ragionamento sulle leggi civili, tratta in modo più specifico la polemica ke l’illuminismo aveva sollevato contro la tradizione giuridica ke si esprimeva nella molteplicità dei commenti e dell’interpretazioni, vera fonte dell’incertezza del diritto e della confusione ke ne scaturiva. Passando dalle critiche ai rimedi, il giovane Verri ha poi sostenuto ke tutti gli interventi realizzati fino ad allora erano stati inutili [proibire l’interpretazioni delle leggi, proibire la citazione dei giuristi in giudizio, nemmeno basterebbe bruciare i volumi!"]. Quello ke serviva, secondo Verri era un "codice generale e costante" attraverso il quale il legislatore deve più ke edificare smantellare e distruggere la tradizione. Pietro Verri, immaginando di intrattenere una discussione fra amici al caffè, ha sostenuto ke il solo dispotismo utile x la prosperità di una nazione è quello delle leggi.

Cmq, se da Milano si passa a Napoli, ci si trova in una situazione un po’ diversa , sia xkè Milano era inserita direttamente nell’orbita del riformismo austriaco e quindi ne subiva tutte le influenze del suo dinamismo culturale e politico, sia xkè a Milano il ceto dei giuristi era meno consistente e meno forte di quanto non fosse a Napoli. Lì si faceva sentire il peso degli interessi economici e di ceto ke i legisti esprimevano: gli avvocati erano tantissimi, i giudici altrettanto e tra le due categorie si realizzava una saldatura ke aveva a proprio fondamento un’avidità di guadagno ke trovava alimento nella situazione giuridica precostituita. Tuttavia anke nel regno di Napoli ci sono stati giuristi significativi ke hanno affrontato il problema della legislazione, come ha fatto Gaetano Filangieri ke è stato partecipe dell’orientamento tipico dell’illuminismo anke se attraverso una posizione più moderata di quella assunta a  Milano nel circolo del Caffè ( e questo nonostante F. abbia scritto una ventina d’anni dopo Beccarla e i Verri, quando il processo delle riforme era già avviato e consolidato, a testimoniare l’arretratezza dell’illuminismo giuridico nel regno di Napoli). L’illuminismo giuridico ha dunque assunto in Italia toni diversi a seconda della diversità degli ambienti e delle persone dove si sviluppava.

§ CODICI TENTATI, IN GESTAZIONE E CODICI FATTI.

Filangieri ha scritto nel 1780, nemmeno dieci anni prima della rivoluzione francese, quando il processo di codificazione in Italia e in Europa era avviato da qualche tempo senza aver ancora prodotto grandi risultati. In Prussia, dopo l’avvio della codificazione a opera di Federico II, non si era ancora giunti al termine, xkè i diversi giuristi ke avevano lavorato sul progetto, in particolare Samuel von Cocceji (1679-1755), avevano posizioni piuttosto diverse rispetto a quelle del principe, in particolare riguardo al dir romano. Infatti, mentre Federico II aveva in mente una codificazione del dir territoriale germanico ke

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togliesse di mezzo il dir romano e ke applicasse il dir naturale fondato sulla ragione, Cocceio era invece un giusnaturalista convinto e riteneva ke il dir naturale si fondasse sul dir romano in quanto ratio scripta (giustizia scritta) e fin da giovane aveva pensato di riordinare il dir romano.Il suo lavoro era sfociato n el noto code Frèdèric ke non è entrato in vigore, ma è stato pubblicato in tedesco e in francese a dimostrazione del fatto ke in Europa si attribuiva a quel progetto di codice un valore particolare.

In Austria, succedeva praticamente lo stesso e il processo di codificazione andava a rilento anke xkè la politica austriaca puntava principalmente alle riforme in materia economica, fiscale, commerciale e soprattutto nei rapporti con la chiesa, tanto da dar vita ad una corrente particolare di giurisdizionalismo ke ha preso il nome di giuseppinismo (da Giuseppe II, figlio di Maria Teresa, prima associato con lei al trono e poi imperatore (1780-1790). Il giurisdizionalismo attribuiva allo stato un forte potere di intervento nei confronti della chiesa x tutto ciò che riguardava le materie temporali e nella seconda metà del ‘700 ha spazzato via la gran parte dei privilegi della chiesa, sia in materia fiscale, sia in materia di giurisdizione, dove esistevano tribunali speciali riservati agli ecclesiastici. In realtà anke il giurisdizionalismo è stato espressione di quel movimento generale ke, sotto le sollecitazioni dell’illuminismo, ha portato ad inte rventi di razionalizzazione dell’organizzazione dello stato. Se però il processo di codificazione non è decollato, cmq l’Austria ha promosso alcune codificazioni del dir del processo.Nel ducato di Milano, infatti, è stata commissionata a Gabriele Verri (un giurista famoso, padre di Pietro e Alessandro) la redazione di una riforma del dir processuale civile, mentre la parte penale del processo è stata affidata a un giurista toscano ke viveva a Milano (Giuseppe Santucci). La scelta di Gabriele Verri, come quella di Cocceji, fu imposta da circostanze di fatto e non dalle effettive capacità del personaggio ke infatti non era l’uomo adatto x una riforma innovatrice, xkè egli era un buon conoscitore del dir patrio ma non un riformatore, anzi l’opposto ("tutte le cose nuove –ha scritto– debbono sempre temersi, dimostrando la esperienza quanto sia pericoloso al ben pubblico il sovvertimento delle consuetudini antiche"). La  sua formazione culturale era dunque quella di un erudito non di un illuminista, e il progetto ke ne è scaturito è stato corretto e ricorretto e non è stato mai promulgato. Sempre in Austria, in materia processuale, è stata invece portata a termine la codificazione del dir del processo civile (Regolamento generale della procedura giudiziaria x le cause civili, 1781) ke è poi stata introdotta anke nel ducato di Milano.Il senso di questi eventi sta nella constatazione ke là dove sono state tentate codificazioni di ambito abbastanza circoscritto, non tali da mettere in discussione gli equilibri consolidati e l’assetto della società, il processo di codificazione ha raggiunto risultati apprezzabili e piuttosto rapidi; là dove invece si è messo mano a codificazioni di dir civile sostanziale, quello ke toccava più da vicino gli equilibri consolidati, il processo di codificazione si è trascinato a lungo (come è avvenuto in Prussica e in Aust ria dove ad oltre 30 dall’avvio del progetto di codificazione, non si era ancora arrivati in porto).

§ L’IMMINENZA DELLA RIVOLUZIONE E I RPIMI PROGETTI DI CODIFICAZIONE IN FRANCIA.

Negli anni tra il 1780 e il 1790 muoiono Maria Teresa e Giuseppe II e Federico II, i più grandi protagonisti della politica delle riforme sollecitata

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dall’illuminismo, rispettivamente d’Austria e di Prussia, dove si è assistito ad una profonda trasformazione in quei decenni del ‘700 in cui invece, parallelamente, la Francia era rimasta quasi immobile, anke se la sua cultura ha continuato ad elaborare idee ke hanno girato il mondo.

In quegli anni era profondamente cambiata la struttura sociale della Francia, e ad un ceto aristocratico ormai spaccato al proprio interno si è affiancata una borghesia –il terzo stato- ancora eterogenea dal punto di vista economico e culturale, ma accomunata dalla volontà di contare qualcosa. L’aristocrazia, si è detto, era lacerata all’interno xkè ad un forte gruppo rimasto legato alle tradizioni (e quindi ai privilegi fiscali e giuridici ka ancora la contraddistinguevano) si contrapponeva un’aristocrazia illuminata, numericamente inferiore, ke invece elaborava progetti di riforme. La Francia, proprio nel decennio ke ha preceduto la rivoluzione, è stata travagliata da una crisi economica profondissima dovuta all’eccesso di spese di corte e alle troppe campagne militari. Questa crisi significava nuove tasse ke l’aristocrazia, essendo privilegiata, non era disposta a sostenere e ke avrebbero quindi gravato sul terzo sta to e sul clero. In ogni caso, imporre nuove tasse significava la convocazione degli stati generali (cioè dell’assemblea dei rappresentanti della nobiltà, del clero e del terzo stato) i quali dovevano contrattare con il re le nuove imposizioni fiscali. In occasione della convocazione degli stati generali, era usuale ke si preparassero delle petizioni indirizzate al re x esporre le richieste dei ceti e dei loro rappresentanti: i c.d. cahier de doléance (fascicoli di doglianze).

A scorrere questi fascicoli si vede ke i problemi impellenti erano quelli della giustizia, ma soprattutto del processo civile e penale, dell’organizzazione dei tribunali, della rapacità dei giudici [ad es si chiedeva una giustizia meno cara; l’abolizione di tutte le formalità procedurali inutili; l’obbligo x i giudici di conformarsi alla lettera della legge senza potersene discostare x qualsiasi pretesto attraverso l’interpretatio; etc]. Ma tra queste numerosissime richieste ke chiedevano di arrivare ad un dir processuale uniforme, così come doveva essere uniforme il sistema dei pesi e delle misure, ce ne furono pochissime (solo sette) ke toccarono il dir civile sostanziale, e questo colpisce se si tiene presente ke in Francia si è parlato tanto e a lungo sulla codificazione del dir e sulla necessità di riformarlo. Probabilmente il motivo di ciò era ke sul tappeto c’erano altri e più urgenti problemi e soprattutto bisogn a considerare ke x i sudditi tutti i problemi del diritto esplodevano nel processo.

Sta di fatto ke, cmq, il problema di un c.c. francese uniforme fa appena capolino tra mille e mille richieste. Ma allora, come ha preso corpo l’idea di scrivere un c.c. uniforme? Probabilmente una simile idea ha cominciato a prendere corpo dopo l’inizio della rivoluzione e dopo l’abolizione dei privilegi feudali, e quindi dopo ke i sudditi erano diventati tutti uguali, e dopo ke si è cominciato a riordinare alcuni istituti come le successioni, il matrimonio, etc. Così dal principio affermato con la costituzione del 1790 (anno dopo la rivoluzione) si è passati, lentamente ma in modo costante, all’incarico dato a Cambacérès dalla Convenzione del 1793 di redigere, in un mese, l’organizzazione del c.c.. Così si è giunti al primo (ce ne sono stati tre) progetto di codice redatto da Cambaceres presentato in coincidenza con il primo anniversario della caduta della monarchia. Più tardi poi, come sappiamo, Napoleone ha rilanci ato l’idea della codificazione e nel 1800 ha fatto

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riprendere i lavori x la redazione del c.c. Su questa circostanza si hanno particolari anche dettagliati, mentre non si hanno notizie sicure su come si sono svolti i lavori ke hanno portato al primo progetto di Cambaceres e anke agli altri progetti, in quanto è quasi inconcepibile ke in 40 giorni dall’incarico egli sia riuscito a presentare il suo progetto. Si ritiene (secondo Halpérin) comunque ke egli abbia attinto più dalla pratica ke dalla teoria e ke si sia ispirato al Repertorio ragionato di giurisprudenza civile di Guyot e al Dizionario di dir e di pratica di Claude-Joseph De Ferrière dei quali ne ricorrono talune voci.

§ CAMBACERES E L’IDEA DI UN CODICE NEOCLASSICO.

I discorsi di presentazione dei codici sono una miniera preziosa x capire non solo i princìpi generali ke hanno guidato i legislatori, ma i modelli culturali ke li hanno ispirati. Il primo discorso di Cambacérès si apre con una solenne contrapposizione tra le rovine del passato e la costruzione del grande edificio della legislazione civile, ke deve essere grande x la sua semplicità ma altrettanto solido xkè non si leverà sulle sabbie mobili dei sistemi ma sulla terra ferma delle leggi della natura, e sulla terra vergine della repubblica. Qui (come anche nella querelle) C. si conforma al gusto dell’architettura neoclassica, nutrito di un ideale di semplicità maestosa, di una linearità di forme e di una grande solidità di impianto: proprio come avveniva nell’arte greca ke si è voluta imitare non x caso. Allo stesso tempo egli si conforma alla tradizione giusnaturalista quando afferma ke le leggi di una repu bblica nascente sono come le opere della natura, ke i troppi ornamenti degradano e ke devono brillare solo x la loro bellezza. Da un punto di vista tecnico C. prende la posizione di chi, già in passato, aveva riconosciuto l’impossibilità di costruire un codice ke risolvesse tutti i casi (come aveva già sostenuto Portalis dicendo "è un obiettivo ke è impossibile conseguire"). Naturalmente C. ha anke sostenuto che cmq nel codice c’era uno spirito nuovo, di unità e di uguaglianza e ke caduto il particolarismo giuridico (disuguaglianze soggettive e privilegi) il codice poteva essere ben più semplice e di dimensioni ben più modeste di quanto lo sarebbe stato se tutto questo non fosse avvenuto. C. aveva anke affermato, a chiusura della parte generale del proprio discorso, il principio ke la costituzione aveva fissato i dir politici dei francesi e ke spettava alla legislazione regolarne i dir civili. Questa affermazione nasceva chiaramente da s ecoli di contrapposizione allo spirito dell’antico regime in cui non c’era spazio x la certezza dei rapporti giuridici, in cui regnava l’arbitrio dei giudici, in cui mancavano costruzioni lineari dei diritti e dei doveri secondo il gusto del neoclassicismo, e trovavano invece spazio costruzioni giuridiche gotiche, contorte, tormentate, piene di pinnacoli e di mostri. Infine C. ha chiuso il discorso con l’invocazione di considerare il codice come il frutto della libertà e di andare x le città a portare le nuove leggi ke erano il palladio della libertà (ancora una volta ricorrono i moduli espressivi del neoclassicismo: il palladio era il simbolo della dea Atena, detta in questa raffigurazione Pallade Atena, armata, con lo scudo e la lancia armati x proteggere la città, ke così diventava invincibile).

(x sapere: la Francia, nel 1804 ha visto la proclamazione del suo primo codice –il c.c. dei francesi- ai quali ne sono poi seguiti altri non più di antico regime).

§ LE ULTIME VICENDE DELLA CODIFICAZIONE AUSTRIACA.

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Mentre dunque in Francia il codice è come una lunga onda ke ha trovato l’occasione x frangersi negli anni della rivoluzione francese, la vicenda austriaca è stata diversa sia dal punto di vista culturale ke politico. L’idea di una codificazione civile francese è stata lanciata in un momento di crisi politica, quando è stato sradicato l’antico regime e ne nasceva uno nuovo ke al valore di una legislazione uniforme ha unito il modello della separazione dei poteri teorizzato da Montesquieu, della supremazia delle leggi sui giudici, della certezza del dir ke ne conseguiva, dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. La vicenda politica e culturale dell’Austria si è invece svolta secondo tempi diversi da quelli francesi: quando la Francia, a metà ‘700, era uno stato regressivo, l’Austria era uno stato progressivo; quando poi a fine secolo la Francia era uno stato progressivo, l quote Austria era uno stato ke ripiegava su se stesso, ke si chiudeva alle novità imposte altrove dalla borghesia in ascesa. Per questo si tratta di capire come sia possibile coniugare in Austria questo passaggio dal progresso al regresso con la continuazione del processo di codificazione. Una delle tesi più intelligenti ke siano state proposte x spiegare lo sbocco della codificazione austriaca nel codice civile generale austriaco, è quella di Henry Strakosch. Egli ha sostenuto ke l’Austria è passata x fasi diverse: 1. prima, in età teresiana, aveva come obiettivo la realizzazione di un dir uniforme; 2. poi, in età giuseppina, aveva creduto di trovare nel razionalismo più radicale il fondamento ideologico ke facesse da supporto all’unificaz e codificaz del dir; 3. infine, di fronte alla rivoluzione, all’egualitarismo diffuso, alle armi napoleoniche vittoriose x tutta Europa, la monarchia ha cercato nel codice uno strumento x aggregar e intorno alla corona la borghesia che contava e con la quale era necessario fare i conti. In questa impostazione il codice avrebbe rappresentato lo strumento x realizzare il consolidamento politico dell’assolutismo monarchico in un patto stretto con la borghesia; attraverso un riconoscimento contenuto del giusnaturalismo ke però non si estendeva alla sfera del dir pubblico ma restava circoscritto a quella del dir privato; attraverso l’accettazione dei criteri della morale di Kant e della sua dottrina fondata su un concetto di ordine razionale ke però teneva distinte la morale dal diritto (vedere x la dottrina di Kant pagg 337-338-339 freccine).

A voler guardare un po’ più da vicino il codice austriaco x trovarne i principi generali ke lo hanno ispirato, si può ricorrere ad un testo di Franz von Zeiller (un giurista ke è stato allievo di Kant ed è stato anke l’artefice principale del testo definitivo del codice austriaco, nonkè il suo più autorevole commentatore) il "Dei principi del dir civile generale austriaco" ke è una raccolta di note ke egli ha scritto dopo l’entrata in vigore del codice. Il tema di fondo è stato quello dell’interpretazione e della certezza del diritto: secondo Zeiller la legislazione civile di una colta nazione non poteva accontentarsi della "giurisprudenza", ma doveva caratterizzarsi, come già il dir romano, x una severa coerenza data da principii dirigenti. In questo modo, il giudice, partendo dai principi, avrebbe potuto interpretare ed applicare la legge e decidere secondo equità e ragione "in tutti quei casi nei quali la legge non  provvede"; si arrivava così alla soluzione della fattispecie partendo dai princìpi. Per questo il codice austriaco ha stabilito ke "nell’applicare la legge si debba osservare la chiara intenzione del legislatore" cioè la volontà della legge (voluntas legis), e ke in mancanza di questa chiara intenzione "debba decidersi secondo i principi del dir naturale, avendo riguardo alle circostanze raccolte con diligenza e ponderate (ratio legis). Queste regole sono state riprese dal dir romano, infatti

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una considerazione ke si impone è ke il codice austriaco è stato più legato alla tradizione romanistica di quanto non lo sia stato il c.c. francese, ke ha dovuto fare i conti con la massa del dir consuetudinario francese. (vedi nota sul libro pag 339).

§ CONCLUSIONI.

La lotta x la codificazione è dunque iniziata in anni lontani da quelli ke, nel primo decennio dell’800, hanno visto entrare in vigore due grandi codici civili di matrice sostanzialmente giusnaturalistici: il c.c. dei francesi, nato nel contesto della rivoluzione francese (1804) e il c.c. generale austriaco (1811), nato nel contesto della difesa dell’antico regime nel campo della politica e del dir pubblico, ma non nel campo del dir privato.Questi due codici hanno segnato, più del codice territoriale prussiano, la storia giuridica europea, e quella italiana in particolare, visto ke sono stati entrambi in vigore in Italia: quello francese fino alla caduta di Napoleone; quello austriaco nel lombardo-veneto dalla caduta di Napoleone fino alla costituzione del regno d’Italia (1861) e nelle ultime province ex austriache fino alla fine della prima guerra mondiale (1918). Si tratta di due codici profondamente diversi tra loro, d al punto di vista della genesi storica, della struttura, dei contenuti e della tecnica di redazione delle norme. Da quest’ultimo punto di vista si può chiaramente osservare ke il modo in cui sono formulate le norme del c.c. francese risente sia della tendenza di una parte della scienza giuridica francese a concepire il dir come un insieme di proposizioni normative scritte in forma di regola, sia di quanto è stato teorizzato nella voce Legge dell’Enciclopedia sulla formulazione delle leggi in modo semplice, lineare, comprensibile, sia della ben nota polemica sollevata dalla querelle degli antichi e dei moderni (ke aveva posto il problema del modo migliore di recuperare la linearità e l’armonia della tradizione classica e ke aveva riflettuto sulla lingua francese facendone il mito di lingua veramente classica). Dietro il c.c. austriaco non c’è nulla di tutto questo e le proposizioni normative sono spesso complesse e filosofeggianti come,  del resto, si conviene ad un codice ke si è ispirato alla filosofia della pratica di Kant e al suo razionalismo. Riguardo ai contenuti, discutere e confrontarli tra loro sarebbe impossibile, x cui basterà un accenno rapido: il c.c. francese ha fatto propria la tradizione giuridica ke si era consolidata nel dir consuetudinario di una compravendita ad effetti reali, ed ha fatto propria anke la tradizione, proveniente dalle coutumes, ke in materia di cose mobili il possesso valeva come titolo; il c.c. austriaco è invece rimasto ancorato alla tradizione romanistica ke concepiva la compravendita come un contratto ad effetti obbligatori, seguendo anke in questo l’impostazione di Kant e inserendola nel codice (Kant sosteneva ke "x mezzo del contratto, io acquisto soltanto la promessa di un altro (non la cosa promessa). Questo mio diritto è però soltanto un dir personale, cioè un dir di esigere da una persona fisica determinata…ke essa mi fornisca qualche  cosa, e non è un dir reale. Una cosa non è mai acquistata in un contratto x l’accettazione della promessa, ma soltanto x la consegna (traditio) della cosa promessa").