Lotta Europea n°11

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anno 2 numero 11 ECONOMIA TTIP CULTURA PAPA FRANCESCO: UN BILANCIO GEOPOLITICA JIHADISTI DEL TERZO MILLENNIO cr ISIS

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crISIS

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anno 2 numero 11

ECONOMIATTIP

CULTURAPAPA FRANCESCO: UN BILANCIO

GEOPOLITICAJIHADISTI DEL TERZO MILLENNIO

crisis

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Forze Speciali russe (Spetsnaz) in Crimea, a difesa della base navale russa di Sebastopoli

INTERVISTA AL COORDINAMENTOSOLIDALE PER IL DONBASS

L’immagine apparsa sulla coperti-na della “rivista ufficiale dell ’ISIS” DABIQ mostra la bandiera dello Stato Islamico sventolare in cima all ’obelisco di Piazza San Pietro a Roma. Fotografia che accompagna un lungo articolo dove si spiega la lotta contro «Roma» e i «romani», parole che nella terminologia del Califfo hanno un significato più ampio: sono i crociati occidentali.Il Califfo Al-Baghdadi si appel-lava già mesi fa ai musulmani

minacciando: «Marcerete su Roma e prenderete possesso della Terra, a

Dio piacendo»

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SOMMARIO ANNO 2 - NUMERO 11 LOTTA EUROPEA

crISIS: LA FABBRICA DEL TERROREEDITORIALE

P4

LA FINE DI YALTARISIKO

P8L’ORSO E IL DRAGONE

LA STRUMENTALIZZAZIONE DI UNA LOTTAMARE NOSTRUM?

P14P10

AFFRONTARE LA CRISITTIP

LIBERI MERCANTIP24

LOTTA EUROPEA UFFICIO DI REDAZIONE VIA OTTAVIANO, 9 / 00192 ROMA WEB LOTTAEUROPEARIVISTA.BLOGSPOT.IT MAIL [email protected]

P18JIHADISTI DEL TERZO MILLENNIO

PAPA FRANCESCO: UN BILANCIORITORNO AD ITACA

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P20P26P34

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INTERVISTA AL COORDINAMENTOSOLIDALE PER IL DONBASS

P34

AFFRONTARE LA CRISITTIP

P24P26P26P26UNA NUOVA BANCA INTERNAZIONALE P28

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EDITORIALE

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D iciamolo apertamente: noi non crediamo alla teoria dello “Scontro di Civiltà”, professata da un certo tipo di intellighenzia guerrafondaia, impartita a suon di propaganda nelle men-

ti fragili e malleabili dell’uomo moderno e divenuta un dogma, un’ideologia incontrovertibile. Non sosteniamo la tesi secondo la quale le tensioni del nostro tempo sono dovute ad un conflitto epocale tra Occidente e Oriente, tra Cristianesimo e Islam, tra Democrazia e Terrorismo. Riteniamo piuttosto che questi elementi, invece che col-lidere e combattersi, siano intrecciati a filo doppio in una strategia studiata a tavolino e tesa alla creazione di un Caos su scala mondiale dal quale trarre beneficio.

Siamo giunti alle fasi finali di questo processo di guerra in nome del “Divide et Impera”, di cui l’attentato dell’11 Settembre ha segnato il punto di partenza. Allora lo spauracchio rappresentato dal Terrorismo islamico aveva un nome, una sigla che indicava il Male all’ennesima po-tenza: Al Qaeda, organizzazione terroristica creata e vo-luta, sul finire degli anni settanta, dagli Stati Uniti, ai qua-li serviva una forza da armare per contrastare i sovietici che avevano occupato l’Afghanistan. Non fu che l’inizio e da allora si sviluppò un proficuo rapporto, coltivato con la mediazione degli emiri sauditi e di Israele, che nel tempo porterà alla nascita, tra le tante, di una “cordiale amicizia” tra Osama Bin Laden e la famiglia Bush che si incrinerà improvvisamente alla fine del XX secolo e porterà agli

attacchi alle Torri Gemelle ed al Pentagono. In questa occasione l’America si sentì colpita al cuore e di fronte ad una simile tragedia non poté che reagire dichiarando guerra totale ad una certa fetta di mondo.

La tesi del false flag, ovvero di un attentato fabbricato in casa propria per partorire un pretesto che servisse ad en-trare in una nuova fase bellica, prese corpo fin da subito: inizialmente tacciata di follia complottista, questa idea ha pian piano assunto consistenza e credibilità.

Poco prima dell’11 Settembre i neocon repubblicani – tra i quali ricordiamo i nomi di Donald Rumsfield e di Paul Wolfowitz – stilarono un documento in cui si sot-tolineava l’esigenza di un attentato su suolo americano utile alla nuova strategia: prese il nome di “Project for the New American Century” ed auspicava apertamente “una nuova Pearl Harbor”. Non un riferimento casuale: i piani del famoso attacco giapponese alla flotta ameri-cana nel Pacifico, che causò perdite gravissime, furono scoperti con largo anticipo dall’intelligence militare dello Zio Sam, che lasciò comunque che l’incursione nippo-nica avvenisse, per avere il pretesto ideale per entrare in guerra. Stranamente nel 2001 accadde proprio quello che auspicavano Rumsfield & Co, e a metterlo in atto furo-no dei pericolosissimi terroristi islamici, ex amici degli Usa, addestrati ed armati, fino a poco tempo prima dalla CIA. Sarà malafede, ma noi non crediamo a questo tipo di coincidenze.

crisisLA FABBRICA DEL TERRORE

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Il piano poteva quindi avere inizio: l’o-biettivo primario era prendere possesso di determinate aree strategicamente, geopoliticamente ed economicamente fondamentali. Gestire gran parte dei pozzi petroliferi mondiali, dividere e disarticolare per linee etniche e reli-giose gli Stati Islamici più importan-ti: progetto neanche troppo originale, comparso nel 1992 sulla rivista israelia-na Kivunim.

Con la scusa di dare la caccia a Bin Laden gli americani ed i loro alleati accendono focolai di guerra in ogni an-golo del mondo, finanziano ed armano “ribelli” contro regimi laici che fino a quel momento avevano garantito una vita più che dignitosa al proprio popolo, ordinano e mettono in pratica “prima-vere arabe” e “rivoluzioni colorate”. Per cacciare i talebani, distruggono l’Af-ghanistan e si appropriano dei campi di oppio. Per debellare il pericolo delle armi di distruzione di massa, rivelatosi poi una fandonia colossale, attaccano e radono al suolo l’Iraq, per poi giustizia-re Saddam Hussein. Successivamente è il turno della Libia e di Gheddafi. At-tualmente questi paesi sono nel Caos più totale, lasciati nelle mani di bande di criminali al soldo di Washington e soci. Ci hanno provato anche in Liba-no, Iran e Siria, su ordine di Israele, l’u-nica democrazia del Medioriente, e col supporto fondamentale degli sceicchi: solo una forte opposizione dei gover-ni e dei popoli sotto attacco ha evitato ulteriori sciagure. Senza dimenticare la

Striscia di Gaza, scenario dell’atroce genocidio del popolo palestinese, an-che questo praticato col pretesto ed in nome di un’improbabile autodifesa dai razzetti di Hamas.

Dopo più di un decennio di orrori e fal-limenti militari, nonostante tutto, fan-no ancora leva sul terrorismo islamico, come generatore di tensioni e paure collettive: esaurito Al Qaeda, dopo la presunta morte del presunto Bin La-den, bisognava pensare a un nuovo ne-mico, ed ecco salire alla ribalta mondia-le l’ISIS, un accozzaglia di sgozzatori urlanti, guidati dal nuovo Osama, Al Baghdadi, autoproclamatosi Califfo, e sospettato di essere un agente israelia-no. Neanche a dirlo, queste orde asseta-te di sangue, improvvisamente divenute nemiche dell’America e del mondo li-bero e democratico, fino a poco tempo fa erano addestrate da CIA e Mossad in appositi campi militari, armate di tutto punto e lanciate in uno scenario complesso come quello siriano, dove avevano il compito di ribaltare con la forza il governo laico di Assad. Ora che sono passati tra i “cattivi” li bombarda-no, guarda caso proprio su territorio si-riano: che abbiano trovato il modo per attaccare i punti nevralgici di uno Stato che fino ad ora ha dato loro filo da tor-cere? Poco prima, per non farsi mancare nulla, hanno dato un’altra rastrellata in Iraq, con la scusa di proteggere le mi-noranze cristiane e gli yazidi curdi, di cui non si erano mai preoccupati prima.

E così torniamo all’assunto iniziale.

EDITORIALE CRISIS: LA FABBRICA DEL TERRORE

La foto a sinistra ritrae il Senatore degli Stati

Uniti John Mc Cain mentre incontra il capo dei ribel-li del Free Syrian Army

Salim Idris al confine con la turchia. Tra questi nella foto sono ritratti il leader dell ’I-

SIS Abu Bakr Al Baghdadi e l ’ex addetto stampa dell ’ISIS

ucciso qualche mese dopo dall ’esercito siriano.

La foto proverebbe il colle-gamento tra i ribelli siriani,

finanziati dagli Usa per rovesciare Assad e le milizie dell ’ISIS, lo Stato islamico

che si propone di conquistare l ’Iraq e la Siria per instau-

rare la sharia.

In Basso le milizie dell ’I-SIS entrano sfilando nella città di Mosul dopo averla

conquistata. Mosul è tra le più importan-ti città del l ’Iraq dalla quale si può controllare la diga che rifornisce di acqua l ’intera

regione.

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Non è in corso una guerra santa e non siamo attaccati e minacciati dall’Islam tutto, ma da un certo Islam: quello pla-smato e manipolato dalla premiata ditta Usa-Israele-Arabia Saudita, specializ-zato in decapitazioni cinematografiche, stile hollywoodiano, praticate da boia dall’accento inglese. Quello composto da fanatici sunniti, in particolar modo da wahabiti ed altre derivazioni deviate del sunnismo: è questo il tipo di Islam che stanno usando per terrorizzare le vite borghesi degli occidentali e degli europei in particolare.

Nella stessa direzione viaggia la demo-nizzazione della Russia: hanno scelto, loro per noi, che Putin rappresenta un male da debellare, un ennesimo tiranno da ribaltare. La Russia è un altro paese sovrano che vorrebbero smantellare e frazionare in etnie (non riescono ad es-sere originali) perché rappresenta uno Stato forte, in grande ascesa, in grado di imporsi senza scendere a patti. Pu-tin si sta dimostrando, ogni giorno che passa, uno statista serio e coscienzioso, che ha a cuore gli equilibri geopolitici e sociali e la stabilità mondiale. Un uomo che ha già inferto loro dure sconfitte diplomatiche, tra le quali spicca la bril-lante mediazione nella questione siria-

na grazie alla quale è stata evitata una guerra certa. Un capo di stato attento a salvaguardare le tradizioni e l’identità del suo popolo, pronto a battersi dura-mente contro la deriva morale e cultu-rale in cui hanno catapultato il mondo intero. Non possono permetterlo, e così nel corso dell’ultimo periodo hanno ali-mentato il terrorismo ceceno, fomenta-to l’indipendenza delle repubbliche ex sovietiche, aizzato la Georgia, organiz-zato le rivoluzioni colorate, finanziato

la rivolta ucraina e armato il popolo di Piazza Maidan. Hanno piazzato batte-rie di missili che puntano Mosca e han-no imposto sanzioni economiche. In pratica deciso che la Russia va isolata, politicamente e strategicamente, per-ché non si piega alla loro idea di nuo-vo assetto mondiale. Il martellamento mediatico rispolvera termini da guerra fredda e ci impone una visione vecchia di decenni e decenni: la Russia fa parte dell’asse del Male e gli Usa difendono gli interessi del mondo libero.

E l’Europa cosa fa? Che domande! Quello che gli riesce meglio da 70 anni a questa parte: servire i propri padro-ni. Offre basi, partecipa a guerre non sue, avalla bombardamenti, appoggia sanzioni economiche andando contro i propri interessi, attua politiche dettate dagli uffici di Washington e Tel Aviv, viene spolpata dalle iene del FMI e da-gli sciacalli della BCE. Senza fiatare. E gli europei non si accorgono di nulla, troppo impegnati ad avere paura dei terroristi islamici che minacciano di occupare le nostre capitali e di punire gli infedeli sgozzando gli uomini e vio-lentando le donne.

Ma state sereni, dormite sonni tran-quilli, ci pensano gli Stati Uniti, Israele & soci, insomma i Buoni, a difenderci dai terroristi mussulmani cattivi.

Li hanno creati apposta.

Una delle tante vittime dell ’avanzata delle truppe islamiche al soldo di Washington

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L a fine di Yalta si è concretizzata sessantanove anni dopo la fine del secondo conflitto mon-diale. Laddove neppure Reagan e George Bush si erano spinti, si è inoltrato Barack Obama. A

segnare la fine del patto che divise il mondo in aeree d’influenza il cambio al vertice ucraino. Ora ci si inter-roga su come e semmai si ritroverà un punto d’equili-brio tra NATO e i giganti dell’est ossia Russia e Cina.

In Ucraina, sfruttando l’ormai celebre format delle “Ri-voluzioni Colorate” o “Primavere Arabe”, la Nato ha messo piede nel paese che è la porta d’ingresso per la Grande Russia. Questa volta però il tradimento nelle popolazioni Slave è doppio. Da un lato vi è l’abbat-timento di una tradizione secolare tra i due popoli e dall’altro vi è il crollo delle aree d’influenza geopolitica finora conosciute. Si badi a non considerare tale disgre-

gazione tra popoli come quella avvenuta nei Balcani a fine XX secolo, lì vi erano ragioni storiche, politiche e religiose differenti. Infatti, Lubiana e Zagabria prima di essere relegate dagli Inglesi a Belgrado, hanno sem-pre guardato a Vienna e prima ancora a Venezia. Kiev no. Kiev, nel corso della sua storia ha solamente avuto un faro: Mosca. Ora la luce di quel faro è stata spenta dalle spinte atlantiste finanziate dai soliti noti, se non nelle zone orientali, fedeli a se stesse e alla loro identità. Spinte atlantiste, perché ora più che mai è chiaro come Bruxelles sia solo ed esclusivamente il braccio politi-co della NATO. L’Europa dei popoli ancora non esiste e l’attuale Unione Europea fondamentalmente è solo un cuscinetto economico e finanziario che ha lo scopo di promuovere il pensiero atlantico accanto al Medio Oriente e all’Asia.

RISIKO

La fine di Yalta

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Per comprendere cosa sia avvenuto a Kiev e nelle regio-ni russofone bisogna avere un assioma ben a mente: le popolazioni locali hanno un tenore di vita bassissimo. L’attuale crisi è nata con una protesta per la mancata firma dell’accordo di associazione tra Unione Europea e Ucraina, ma il malcontento covava sotto la cenere da molto tempo. Dopo di che sono seguite le barricate, le molotov, i cecchini, i morti, la fuga del presidente Yanu-kovich e il nuovo governo filoatlantista di Petro Poro-shenko. Finito il periodo di gloria dei nazionalisti filo-atlantisti le regioni a maggioranza russa hanno iniziato ad alzare la voce entrando di fatto in guerra con Kiev. Una guerra di divisione territoriale, che messa su questo piano darebbe ragione alle cancellerie occidentali, ma che come nella sopracitata Iugoslavia deve il suo attuale

assetto al rispetto di Yalta e delle sue zone d’equilibrio.

In questo quadro Vladimir Putin ha giocato il suo ruo-lo da protagonista con la caparbietà di un giocatore di scacchi, i cui frutti si vedranno esclusivamente tra un anno. Da un lato, sfruttando il deleterio precedente del Kosovo, Mosca è stata capace di fare della Crimea una terra pienamente russa. Ma essa è la più strategica delle terre Russe: è da lì che le flotte militari Russe hanno accesso diretto al Mar Mediterraneo e alle basi in Siria.

Dopo l’abbattimento dell’aereo malese, i morti e feriti per entrambe le parti, attualmente le terre di Donbass e Novorossiya hanno ritrovato un leggero e fragile punto d’equilibrio grazie al “Patto di Minsk”, un patto che ha visto vincere la linea di Mosca, interessata attualmente

più a proteggere le proprie popolazioni che ad assorbire tali regioni, e regala-to un sorriso amaro agli statunitensi. D’altronde il lavoro per la fine dell’era di Yalta fu concepito ed è iniziato con la visita nel 2010 nei paesi dell’Europa orientale dell’allora Segretario di Stato Hillary Clinton. Il “Patto di Minsk” è stato un lavoro parsimonioso del co-siddetto “Gruppo di Contatto” delle diplomazie. Il Gruppo di Contatto ha trovato un accordo su uno dei punti principali, cioè il ritiro degli armamenti pesanti in un’area di 30km (15km per parte) lungo l’attuale fronte di guerra, da attuarsi in 24 ore dalla firma dell’in-

tesa. La zona è stata posta sotto la su-pervisione dell’Osce. I negoziati però dovranno proseguire su altri importanti argomenti, tra i quali figura il contro-verso status delle regioni orientali, in particolare Donetsk e Lugansk. Così il 20 settembre scorso è stato firmato dal-le parti in conflitto il cosiddetto “patto di Minsk”, che dovrebbe rendere stabi-le il cessate il fuoco raggiunto all’inizio del mese.

Così tra la cronaca e l’analisi geopolitica (per quella economica ci vorrà tempo) si delinea la ricerca per un nuovo status duraturo delle Regioni del Donbass e Novorossiya. Per l’Ucraina ci vorrà più

tempo. Innanzitutto, essa dovrà capire cosa voler essere, se tradire la sua sto-ria o tornare magari rinvigorita nella sua funzione di territorio corridoio delle istanze tra Europa e terre Russe. Sempre che non continui nell’abbrac-cio mortale con l’Unione Europea e la NATO. D’altronde queste ultime il loro obiettivo lo hanno raggiunto. Obiettivo che prevedeva la fine di Yal-ta e una nuova guerra a bassa intensità con Mosca e Pechino. Yalta è morta e statunitensi e unionisti hanno lanciato il loro assalto a quel mondo che non si è assoggettato a loro. E che forse non assoggetteranno mai.

Putin stringe la mano al Re del cioccolato Petro Poroshenko durante il vertice di Mnsk sulla crisi ucraina.

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L a crisi ucraina, quali che siano gli sviluppi delle prossime ore e settimane, ha permesso ai suoi re-sponsabili più o meno palesi di realizzare l’obiet-tivo prefissato: allargare la frattura che divide la

Russia dall’Europa occidentale a compimento del nuovo percorso strategico messo in campo da Obama. Costret-to dalla crisi economica e da un’opinione pubblica interna avversa a nuovi interventi militari e, allo stesso tempo, de-sideroso di mantenere l’aura di democraticità che gli è valsa il Nobel per la pace, egli ha saputo accantonare la dottrina Bush dell’unilateralismo e della guerra preventiva a favore di una politica dell’equilibrio finalizzata essenzialmente ad impedire l’emergere di nuove potenze che possano mettere a rischio la propria egemonia planetaria. La parola d’ordine dell’inquilino della Casa Bianca è una: intervenire laddo-ve una nazione acquisisce potere, fomentando le agitazioni

presenti nel contesto regionale ed esasperando le tensioni con i suoi rivali politici e strategici.

Una politica di containment messa in campo a livello globale, dal Pacifico con il sostegno al riarmo giapponese, sudcore-ano ed australiano in funzione anti-Pechino, all’Africa con un rinnovato interesse per l’Africa orientale (Kenya, Tan-zania ed Uganda, protagonisti del summit estivo alla Casa Bianca) in opposizione al locale attivismo indiano e cinese, all’Europa dove la Russia ha raggiunto negli ultimi anni una pericolosa posizione di forza, resa esplicita dal ruolo di primo piano giocato da Putin nel conflitto siriano (tanto che per lui si è parlato anche di una possibile candidatura al premio Nobel gelosamente custodito da Obama). Una for-za, quella moscovita, basata sull’interdipendenza energetica ed economica tra la Russia e l’Europa occidentale, coltiva-ta con particolare convinzione dalla Germania di Angela

Il Segretario di Stato americano John Kerry saluta il suo uomo di fiducia nella crisi ucrai-na, il presidente Pietro Poroshenko.

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Merkel, unico paese europeo capace di perseguire una propria politica estera, audace in quanto scevra da condiziona-menti esterni (o per lo meno non total-mente succube): basti pensare a come la Cancelliera, al centro delle intercet-tazione NSA, abbia mostrato il corag-gio di saper espellere dal Paese il capo dell’intelligence USA in Germania. Eppure quando il padrone alza la voce anche i cani più riottosi abbassano le orecchie, pastori tedeschi compresi: così anche la Germania, come tutti i restanti governi europei, ha risposto alla chiamata alle armi della NATO, ha applicato le sanzioni sancite da Bruxel-les e per essere più realista del re ha poi

anche invocato un inasprimento delle stesse.

Riunita a Newport in Galles ad inizio settembre, la NATO ha infatti promes-so a Poroshenko 15 milioni di euro per modernizzare l’esercito ed ha deciso di rafforzare la propria presenza al confine con la Russia, inviando ulteriori 5000 uomini nelle proprie basi in Polonia e nei paesi Baltici. La UE ed il Tesoro USA, per parte loro, hanno contem-poraneamente lavorato a colpire le banche, l’industria energetica e quella militare russe, a costo del sacrificio dei propri interessi economici: secondo le stime dell’Eurostat, l’applicazione delle sanzioni in vigore dal 7 agosto (e delle

contromisure attuate dalla Russia) la-sceranno senza lavoro 130.000 europei (10.000 in Italia) e causeranno perdite per un valore di 6,7 miliardi di euro. Ciò nonostante, abbiamo visto giorno dopo giorno congelare i beni e bloccare i visti dei principali oligarchi moscoviti e delle leadership del Donbass e della Crimea, impedire le esportazioni di beni “dual use” e di tecnologie militari, vietare alle Western Big Oil la vendita di attrezzature e servizi estrattivi per progetti in acque profonde o sullo sha-le gas in modo da rallentare le ricerche in Siberia e nell’Artico, precludere alle maggiori banche moscovite l’accesso a prestito di capitali occidentali.

Il meeting della NATO di Newport in Galles. Ad un tavolo informale il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ascolta attentamente gli ordini di Washington per l ’Italia

l’orso e il dragone

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Quest’ultima misura, in particolare, secondo i piani oc-cidentali avrebbe dovuto realizzare l’isolamento di Mo-sca, nell’impossibilità per le imprese russe di accedere a fondi denominati in dollari e in euro. Una previsione che nasconde un errore di valutazione delle forze in campo e dello scenario attuale: in un mondo multipo-lare, in cui gli Stati Uniti e l’Occidente in genere van-no perdendo la propria leadership e il proprio primato economico-finanziario, Mosca non ha bisogno di dol-lari ed euro per acquistare beni e servizi e, al contem-po, quello europeo non costituisce più l’unico mercato di riferimento per le sue produzioni. Si spiega così la più evidente quanto imprevista conseguenza della crisi ucraina: chiusa ad Occidente, Mosca ha rivolto il pro-prio sguardo di interesse ad Oriente, cercando nuove sponde strategiche negli stati centrasiatici, nella Cina e, in misura forse minore, negli altri colleghi del club del BRICS.

Così dal ministero del commercio cinese fanno sapere che la Cina è pronta ad aumentare le esportazioni di prodotti ortofrutticoli in Russia per supplire al vuoto lasciato dalle imprese italiane ed europee (e per pro-muovere lo sviluppo del distretto agricolo dello Shan-dong), in cambio di un aumento delle esportazioni di grano e miele russo. Più interessante il capitolo ener-getico: mentre la Polonia, la Slovacchia e l’Austria (che costituisce un punto di snodo nevralgico per la distri-buzione nel resto d’Europa) hanno già cominciato a rilevare un calo delle consegne di gas del 20/25% e mentre Gazprom rende noto che solo il 10% dei suoi

equipaggiamenti sono prodotti all’estero ed importati (e che pertanto l’embargo sulle tecnologie estrattive non avrà reali conseguenze negative), il viceministro dell’e-nergia Kirill Molodtsov ha rassicurato Pechino di poter adempiere agli accordi sottoscritti per triplicare entro il 2018 la vendita di greggio alla Cina fino ad un milione di barili al giorno grazie proprio alle nuove trivellazioni in Siberia e di poter concludere entro la fine del 2017 la costruzione del Power of Siberia, il più grande progetto costruttivo del mondo dai numeri stratosferici: quattro-mila chilometri di tubature dalla Yakuzia a Vladivostok alla Cina, capaci di portare ogni anno 38 miliardi di metri cubi di gas naturale (la metà dei consumi italiani) per un valore trentennale di 400 miliardi di dollari.

Ma non c’è solo la Cina ad Est. Putin ha infatti firma-to insieme ai presidenti di Bielorussia e Kazakistan il

RISIKO L’ORSO E IL DRAGONE

I costi notevoli dell ’embargo alla Russia per i Paesi UE. Come dichiarato dal Vice-presidente americano Joe Bieden riguardo alle pressio-ni sui paesi europei: “E’ vero che non volevano farlo. E’ stata la leadership america-na e il presidente americano ad insistere, tante di quelle volte da dover mettere in imbarazzo l ’Europa per reagire e decidere per le san-zioni economiche, nonostante i costi”

in basso la rotta del nuovo gasdotto “Power of Siberia” in progetto di costruzione per il 2018.

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documento conclusivo che permetterà nel gennaio 2015 la nascita dell’Unio-ne Eurasiatica, cui aderiranno presto anche l’Armenia, il Kirghizistan ed il Tagikistan: un nuovo soggetto politi-co di 170 milioni di persone (tanta la popolazione dei tre paesi), un grande mercato comune da 66,2 miliardi di dollari di scambi commerciali (il dato si riferisce alla fine del 2013), un gran-de centro estrattivo con riserve di gas e petrolio pari rispettivamente al 20 e al 15% di quelle globali. Ma soprattutto un soggetto capace di collaborare con la Silk road economic belt, una zona eco-

nomica progettata dai cinesi che unirà 24 città dell’Asia centrale. Sarà pure un caso (anche se in politica il caso non esiste), ma gli scontri dell’Euromaiden che hanno portato all’attuale guerra civile sono iniziati proprio quando l’ex presidente ucraino Yanukovich, poi de-posto dai rivoltosi, aveva rifiutato l’as-sociazione all’Unione Europea e mo-strato di voler aderire al nuovo soggetto eurasiatico. E c’è chi ancora crede alle favole raccontate dai media...

L’Unione eurasiatica non è però il solo tavolo di trattativa e di comando al quale la Russia si è seduta negli ulti-

mi tempi per consolidare le relazioni con Pechino e, più in generale, la pro-pria posizione in Asia e sul Pacifico: ci sono anche la CICA (Confidence Bu-ilding Measures in Asia) per discutere di pace e misure di sicurezza, l’APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) per promuovere l’integrazione econo-mica regionale e la SCO (Shanghai Cooperation Organization), istituita nel 2001 per combattere terrorismo, se-paratismo ed estremismo e che si è di-mostrata negli anni un utile strumento per combattere l’ingerenza statunitense nella regione. A partire dal 2005 quan-

do il summit della SCO invitò gli USA ad abbandonare la base militare di Karshi-Khanabad in Uzbekistan, per arrivare alle più recenti opposizioni al mantenimento di una presenza militare americana o NATO in Afghani-stan anche dopo il ritiro delle truppe attualmente previsto per il 2016 e ai progetti per lo scudo missilistico del quale alcune componenti potrebbero essere installate in Afgha-nistan. Anche l’inclusione nell’organizzazione come sog-getti osservatori di paesi scomodi come l’India (potenza atomica) o il Pakistan (ripetutamente accusato di soste-nere i Talebani e per questo ripetutamente bombardato dai droni di Obama) o veri e propri “stati canaglia” come l’Iran non può che essere letto come un evidente sgarbo diplomatico agli Stati Uniti.

Ancora ci sarebbe da parlare della fusione delle due agen-zie di rating russa e cinese, la Rus-Rating e la Dagong, o della creazione da parte dei BRICS di una banca di

finanziamento per progetti infrastrutturali e di un fondo per la stabilizzazione, ma la loro evidente rilevanza quali efficaci alternative al ruolo delle principali agenzie di ra-ting americane, del dollaro come moneta di scambio in-ternazionale e degli organismi internazionali quali il FMI e la Banca Mondiale come regolatori dei mercati finan-ziari ci dispensa dal dilungarci oltre per illustrarli a fondo.

D’altronde la miopia della classe politica europea incapa-ce di mettere in campo una politica indipendente ed au-tonoma è ormai evidente, oggi più che mai, senza bisogno di ulteriori esemplificazioni: per servilismo o pochezza d’intelletto (in ogni caso colpevolmente) è riuscita in un colpo solo a bruciare miliardi di euro in commerci ed in-vestimenti e a tagliare i ponti con quello che, anche solo per questioni geografiche, sarebbe ancora il principale e più naturale partner strategico. Mala tempora currunt!

I leader partecipanti al meeting del Confidence building measures in Asia (CICA) a Shanghai

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Jihadistidel terzo millennioChe l’ISIS sia un prodotto made in U.S.A. quasi non lo nega più nessuno e quasi più nessuno

crede alla favola dei “ribelli moderati” armati e finanziati da Obama contro il legittimo governo di Assad. La storia si ripete sempre, come tragedia prima e come farsa poi.

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C osì dopo aver provato a presentarci l’Uck come un esercito di patrioti kosovari e dopo aver cercato invano l’appoggio dei “talebani moderati” o dei “sunniti moderati” in Afgha-

nistan ed Iraq, Obama ci ha riprovato anche in Siria, chiedendo al Congresso 500 milioni da destinare ai ribelli moderati di Damasco. Gli stessi che, secondo le accuse dei familiari, avrebbero venduto ai miliziani dell’ISIS il giornalista americano Steven Sotloff per 25/50mila dollari. Gli stessi che a Dayr Hafer espon-gono i corpi delle proprie vittime su croci di legno. Due episodi, fra i mille possibili, che dimostrano come l’ISIS ed i “ribelli moderati” altro non siano che due facce della stessa medaglia, coniata a Washington, a Riyad, a Doha, a Kuway City, per abbattere Assad, personaggio scomo-do al centro di un’area fondamentale per la produzione petrolifera. Assad, che, va ricordato, è il presidente di una delle poche nazioni laiche nell’area.

Nessuno crede più ai soloni dello scontro di civiltà, che faticano a presentarci l’avanzata dell’ISIS come una re-

crudescenza dell’identità islamica e una più moderna guerra fra una civiltà del deserto vivificata da nuovi fu-rori mistici ed un occidente infiacchito da decenni di benessere. Non solo e non tanto per il nome del gruppo jihadista che ricorda più il pantheon egizio che la reli-gione di Maometto, quanto per l’antropologia espressa. L’ISIS è il prodotto più genuino e moderno della cul-tura globalizzata, preso come è dal mito della comu-nicazione e dei nuovi media, vera e propria religione del mondo moderno: tra video ripresi con gli Iphone e tweet lanciati nello spazio della rete, tra proclami di blogger e grafiche da videogiochi splatter, Al-Baghdadi sembra aver letto più i manuali di Ghene Sharp che le Sure del Corano ed essere cresciuto ed educato in una metropoli occidentale più che a Baghdad.

Ma dato che l’immagine non è tutto, è bene scendere sul piano della concretezza e raccontare di come, se-condo i giornali iracheni, i miliziani dell’ISIS abbiano potuto prendere possesso del distretto petrolifero di Mosul senza colpo ferire, accolti dai soldati governativi che offrivano loro armi ed uniformi. Oppure di come Ibrahim al-Duri, già leader del partito di Baath e vera mente strategica dell’ISIS secondo il New York Times,

La cartina dei giacimenti di petrolio e gas al largo delle coste della Scozia, uno dei grandi temi per un’indipen-denza che allontanerebbe le risorse dal controllo diretto di Londra. In rosso sono segnalati i gia-cimenti di petrolio, in verde di gas naturale.

Il giornalista americano James Foley sgozzato da un misterioso militante dell ’ISIS dall ’accento anglosassone che si fa chiamare “John”.

In basso le truppe islamiche in parata a Mosul in Iraq

RISIKO JIHADISTI DEL TERZO MILLENNIO

Al Baghdadi insieme al senatore Mc Cain durante un incontro dei ribelli siriani.

A destra Omar al-Shishani, comandante ceceno dell ’ISIS

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sia potuto sfuggire alla cattura per 11 anni nonostante il suo nome fosse stato inserito nel-la black list dei servizi segreti americani e, dopo aver trova-to rifugio in Qatar, sia potuto tornare alla ribalta.

Oppure di come tra gli orga-nizzatori delle milizie sunnite risulti anche Omar al-Shishani, già noto con il nome di Tarkan Batirashvili che tradisce (insieme alla lunga barba rossa) le sue origini russe: si tratta infatti di un militante georgiano (il giornalista Jeffrey Silverman ne ha parlato come il prodotto della ONG Jvari, istitui-ta congiuntamente dall’intelligence statunitense e dal Consiglio di Sicurezza Nazionale georgiano), impegna-to ieri nella guerriglia georgiana e oggi in quella siriana, due fronti di una medesima guerra geopolitica tra Stati Uniti e Russia. Una guerra combattuta dagli anni ’80 sempre allo stesso modo: armando milizie islamiche, che fossero in Afghanistan, in Cecenia o in Siria ed Iraq. Salvo poi dichiararle nemiche dell’umanità quan-do sfuggono al proprio controllo.

D’altronde lo abbiamo detto all’inizio: la storia si ripete sempre...

Ciò che è sicuro, comunque, è che con la caduta di Mosul, alcuni dei più grandi giacimenti di petrolio al mondo sono improvvisamente caduti nelle mani dei jihadisti e di chi li manovra, proprio nei giorni in cui il governo iracheno si preparava a disporre un signifi-cativo aumento della produzione di greggio, rompendo le uova nel paniere ai sauditi, da sempre fautori nell’O-PEC di una politica di controllo della produzione e quindi del prezzo del petrolio. Ancora una volta siamo di fronte ad un copione già visto: a sfidare la leadership di Riyad nell’OPEC ci hanno già pensato Gheddafi e lo stesso Saddam Hussein e sappiamo come sono andate a finire le cose.

in basso la mappa dei terrirori occupati e delle infrastrutture dell ’ISIS.

a sinistra il ricavato dei giacimenti petroliferi controllati dall ’ISIS e le teste dei militari che hanno resistito esposte come monito.

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i l Medio Oriente è da diversi anni il centro nevralgico della geopoli-tica mondiale; paesi della zona e stati d’oltreoceano sono impegna-

ti nell’interminabile lotta per il con-trollo dell’area, che sappiamo essere un boccone pregiatissimo per la ricchezza di petrolio e gas, oltre ad essere un pun-to di geografico di primaria importan-za. In questo scenario, ben conosciamo il ruolo della Turchia, avamposto oc-cidentale e paese dalle mille facce, un giorno rivolto all’Europa, con il volto scoperto e i principi democratici al pri-mo posto, l’altro rivolto verso Oriente, coperto dal burka e focalizzato sullo smantellamento della laicizzazione. Ma

sempre e comunque piegato alla volon-tà americana.

Abbiamo assistito di recente alla riele-zione del presidente Erdogan, che nella sua rinnovata agenda dovrà far posto alla questione curda, che, dopo la tre-gua fittizia vissuta negli ultimi tempi, torna oggi al centro dell’attenzione. D’altronde utto diventa interessante quando può essere sfruttato a proprio vantaggio.

Per chi non lo sapesse, il problema cur-do affonda le proprie radici agli anni Venti, quando Ataturk costruì le fon-damenta della sua repubblica (laica) sull’esclusione dell’identità religiosa

(l’Islam) e multinazionale (curda) dal-la struttura politica generale del paese, classificandole entrambe come “nemici interni”. Fu però solamente a partire dal 1979, con la fondazione del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, che la situazione si inasprì: a differen-za degli analoghi PDK e UPK, i due partiti indipendentisti curdi in Iraq (la popolazione curda è diffusa nei terri-tori vicini e confinanti della Turchia sud-orientale, dell’Iraq settentrionale e dell’Iran nord-occidentale), nel 1984 il partito di Ocalan (ricordate il suo arre-sto a Roma ordinato dal governo D’A-lema nel 1998?) scelse la via della lotta armata.

La strumentalizzazionedi una lotta

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possono sfruttarlo per i propri scopi nella guerra contro l’Isis. Eppure se agli americani fosse importato realmente qualcosa dei curdi, nel passato avreb-bero concesso loro perlomeno una re-gione autonoma dopo la sconfitta di Saddam. Ma così non è stato perché la zona curda è ricca di pozzi di petrolio, di cui nessuno sarebbe stato desideroso di liberarsi, men che meno il governo Allawi sotto il tutoraggio statunitense. Adesso invece, Washington si è resa conto che la sua strategia militare ba-sata unicamente sul fuoco gestito a distanza non è sufficiente a vincere, e dovrà ricorrere ad un intervento a terra. Come successe in Crozia, dove accanto ai bombardamenti Nato contro i serbi servì l’offensiva croata a terra, come in

Afghanistan dove è stato necessario il sangue versato dall’Alleanza del Nord, come in Kosovo con le milizie dell’Uck, oggi, per sconfiggere l’Isis, i bombarda-menti aerei non bastano e c’è bisogno di un alleato che faccia il lavoro sporco a terra. Tanto più nel contesto turco e contro un nemico che ha dimostrato la massima rapidità negli spostamenti e nei nascondimenti. E cosa c’è di me-glio dei bramosi guerriglieri del PKK e dei peshmerga del Kurdistan iracheno? Intanto Renzi, per non saper né leggere né scrivere e per non venir meno al ruo-lo servile proprio dell’Italia, è andato ad offrire le proprie armi: gli scarti natu-ralmente, i fondi di magazzino non più utilizzabili in ambito NATO...

Uno scontro latente durato 10 anni (è del 1993 la tregua in cambio di un ne-goziato per la pace e l’autonomia del Kurdistan, mai realizzate) che è costata la vita a circa 40000 uomini e che ha co-nosciuto una nuova recrudescenza du-rante la stagione delle primavere arabe: il governo a targa AKP e il presidente Erdogan hanno infatti effettuato un giro di vite e rinvigorito la repressione nel ti-more che le contemporanee rivoluzioni del Maghreb e della vicina Siria potes-sero estendersi in casa propria e portare allo scoppio di una primavera curda in Turchia.

Il tutto nel più totale disinteresse dell’Occidente. Ma oggi all’improvvi-so – stranamente ma non troppo – gli Stati Uniti puntano il faro della propria attenzione sul popolo curdo e le sue ri-chieste di autodeterminazione perché

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E dire che il nome scelto per l’operazione poteva esse-re un’ottima occasione per riuscire ad affrontare una volta per tutte il grave problema dell’immigrazione: Mare Nostrum. Il nome che i romani diedero al Mar

Mediterraneo nel momento in cui i loro possedimenti erano arrivati ad estendersi non solo in Italia e in Europa ma persi-no nel nord Africa e nel Vicino Oriente. Il mare che doveva segnare una presenza attiva delle potenze europee in quella zona del mondo.

Un’occasione sprecata dicevamo perché Mare Nostrum è stato ed è tutto tranne che un’operazione svolta in modo comunitario dal continente europeo. Le autorità italiane nella vana speranza di poter affrontare un problema di per sé delicato che diventa molto ostico nel momento in cui le zone interessate vivono momenti storici particolarmente si-gnificativi, hanno pensato bene di provare a farsene carico in solitudine per dimostrare all’Unione Europea e al mondo che l’Italia può farcela anche da sola. Niente di più sbagliato e assurdo. Impensabile ritenere di poter risolvere con le pro-prie forze fenomeni di scala mondiale.

Il primo problema risiede proprio nel non aver compreso il dato fondamentale di tutto ciò. Le masse di cui sentiamo in questi giorni non vengono in Italia perché attratti dal Bel-paese, dalle sue montagne, dai suoi laghi, dalle sue coste che vogliono rubarci. Non vengono perché attratti da un cer-to benessere occidentale, o perché stufi della loro identità e desiderosi di conoscerne una nuova. Quello che li spinge, la ragione prima di questi grandi movimenti è un’altra: le abissali disparità economico-sociali, ma anche demografiche tra paesi e popoli del pianeta, le tragiche crisi ambientali, il moltiplicarsi incontenibile delle guerre locali e regiona-li e delle persecuzioni di massa, dovute a cause di natura

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politica, etnica, religiosa, tribale e sessuale. Ne consegue che quei movimenti di esseri umani che chiedono asilo e un’opportunità di vita altrove rispetto al luogo di nascita, sono destinati a continuare. Di conseguenza il problema resta ancora tutto in piedi e le modalità con cui le poten-ze mondiali stanno affrontando le questioni nel Vicino Oriente e nel Nord Africa lasciano presagire che passerà ancora tanto tempo prima che l’Occidente trovi una stra-tegia politica per limitare i danni di queste problemati-che, forse perché non vuole affatto limitarle.

La situazione è drammatica e lo è in tutte le sue fasi, dal-la partenza allo sbarco fino all’accoglienza. Ma andiamo con ordine. Sbarcano con tutti i mezzi, ormai: carrette del mare, ex pescherecci che tengono il mare per miracolo (e per ottenere un posto in piedi a bordo si paga quanto per un viaggio su un transatlantico di lusso), gommoni. Su di essi carne umana che ricorda quella degli schiavi nelle stive dei bastimenti che fino a un paio di secoli fa, con le loro povere vite, hanno contribuito a rendere ricco l’Oc-cidente. Ci sono delle donne anche incinte, donne che partoriscono; ci sono bambini che muoiono sul bagna-sciuga o che aprono gli occhi fra quattro stracci, mentre qualcuno pietoso li lava con l’acqua contenuta in una ta-nica da benzina.

Arrivare in Italia è già di per sé un successo e poco im-porta se il passaggio successivo sarà finire nel racket della

prostituzione e negli altri traffici malavitosi. Tutto som-mato la manodopera a basso costo a tanti fa comodo e diciamola tutta: quello dell’accoglienza è diventato a pie-no titolo un vero e proprio business. Lasciamo la parola ai numeri. Secondo le fonti del Ministero dell’Interno, per accogliere i 40.000 immigrati sbarcati solo nel 2013 l’Italia ha speso 1,8 milioni di euro al giorno: soldi che non finiscono nelle mani degli immigrati ma nelle tasche degli enti che gestiscono i centri d’accoglienza (i cosid-detti CARA).

Il guadagno è certo e senza rischio: “una volta vinta la gara d’appalto, basta riempire all’inverosimile i centri. Poi, per ogni singolo immigrato, è lo Stato a pagare una somma che può andare dai 21 euro fino ai 40 euro al giorno, 80 se minorenne. Di questa cifra, al migrante spettano all’in-circa 2,50 euro al giorno pagati in pacchetti di sigarette o in schede telefoniche. Nel migliore dei casi gli viene con-segnata una chiavetta ricaricabile con cui comprare caffè e merendine nei distributori della struttura. Così all’ente restano solo i costi di gestione”: questa la testimonianza raccolta da Di Nicola e Musumeci nel loro “Confessioni di un trafficante di uomini” (Ed. Chiare Lettere).

Il vero affare si fa però con i richiedenti asilo, quelli che rimangono per mesi o anni negli undici CARA dislocati sul territorio nazionale: solo nel mese di marzo 2014, il ministero dell’Interno ha pagato alle cooperative che ge-

RISIKO MARE NOSTRUM?

Le ribellioni degli immigrati nei centri di prima accoglienza

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stiscono i centri 9.582.614 euro.

Con queste cifre non ci stupiamo che da ogni dove giun-gano appelli al benvenuto e all’ospitalità ed è normale che qualcuno si ponga il dubbio che essi siano dettati dall’avidità piuttosto che dalla solidarietà e dal rispetto della dignità umana. Altrimenti non si capirebbe perché la maggior parte dei migranti non riesce ad integrarsi nel tessuto sociale e spesso e volentieri vive ai margini in uno stato d’animo incattivito e senza speranza. E allora scene come quelle che hanno caratterizzato nelle ultime settimane le periferie romane non possono sorprenderci e le considerazioni del sindaco Marino di voler pagare 900 euro a ogni cittadino che ospita un immigrato con-tinuano ad andare nella stessa direzione della pioggia di soldi destinati ai CARA. È semplicemente folle pensare di adottare queste misure che scaricano sulla popolazio-ne problemi prodotti dai governi, a maggior ragione oggi che in tanti vivono al di sotto di quella soglia e che non vedrebbero l’ora di accollarsi un migrante pur di vedere aumentare i loro introiti mensili: tutte le problematiche legate a una convivenza del genere le lasciamo in sospeso per articoli futuri…

Davanti a questo quadro appare difficile continuare a bollare come xenofobo-razzista chi propone misure al-ternative che incentivino il supporto nelle terre di origi-ne dei migranti e che cerchino di porre dei limiti, anche

stringenti, alla regolamentazione sull’immigrazione. Nes-suna posizione texana del tipo: “spariamo ai barconi”, ma piuttosto la lucidità e la ragionevolezza politica di chi sa che può e deve aiutare, in nome della solidarietà. Aiutare, esatto. Non speculare. Perché, stando ai numeri suddetti, proprio di speculazione si parla, e quando di mezzo ci vanno vite umane poco importa se nelle finalità i pro-motori dell’accoglienza volessero tutto l’opposto. Sui fini siamo tutti d’accordo: nessuno vuole vedere morire annegati esseri umani che vivono nel dramma. Ma un po’ di buon senso pratico e ragionevolezza politica non guasterebbe. Il modello multiculturale e multietnico che tanto andava di moda tra la fine degli anni ’90 e il 2000 e che era il motore dell’apertura dei confini è fallito misera-mente. Restano ancora da trovare nuove modalità con cui aiutare queste persone. Un primo passo potrebbe essere quello di disincentivare (e qui ci rendiamo conto quan-to sarebbe importante il ruolo politico dell’UE) guerre e continui conflitti di natura locale, le cui vittime si riversa-no in Europa e non negli States che quei conflitti hanno scatenato e sobillato…

Ecco allora che il gioco delle parti si inverte ed il razzista diventa il buon samaritano e il buon samaritano amante dell’“aprite le frontiere” si ritrova a dover giustificare un circolo vizioso che alimenta sfruttamento, alienazione e odio.

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L a ripresa economica america-na offre segnali intermittenti, l’Europa non vede ancora la luce in fondo al tunnel della

stagnazione e l’Asia è lontana dai ritmi di crescita a cui aveva abituato il mon-do. L’ammontare di debito che su scala globale soffoca i sistemi economici non accenna a ridursi e dal Portogallo (Ban-co Espirito Santo) all’Argentina riaf-fiorano periodicamente episodi di de-fault. Nel mentre, il quadro geopolitico si fa sempre più complesso minaccian-do scenari futuri poco rassicuranti. Da Gaza all’Iraq, dalla Libia alla Siria, fino alla crisi ucraina e la questione scozze-se, i numerosi focolai di crisi tengono in apprensione gli osservatori.

Il mondo economico non vive i suoi giorni più felici, eppure tutto sem-bra tenersi in piedi come per incanto. Gli indici di Borsa americani sono sui massimi storici, i tassi d’interesse sono i più bassi della storia e gli spread sul credito sembrano ignorare l’ampiezza degli stock di debito esistenti (lo spread Italia-Germania si è ridotto da 550 a 150 circa).

Com’è possibile? Alchimie della po-litica monetaria. Magie delle Banche Centrali, protagoniste indiscusse del quadro economico internazionale sin dagli albori della recente crisi finan-ziaria. Sono loro su scala planetaria a sostenere economie e mercati troppo fragili per vivere di luce propria.

L’ultimo lustro ha infatti sancito un’e-poca completamente nuova per la na-tura stessa della politica monetaria. Dinnanzi ad una crisi economica e fi-nanziaria di una tale portata, diminuire e poi azzerare i tassi d’interesse andava considerata come una mossa necessaria ma non sufficiente a stimolare la ripre-

sa. Così diversi istituti hanno dotato il loro arsenale di strumenti più potenti ed in larga parte inediti. Dal fallimento di Lehman Brothers ad oggi, le attività a bilancio delle quattro principali Ban-che Centrali sono aumentate del 170% circa.

Con la creazione di moneta e l’acqui-sto massiccio di attività finanziarie, la Banca Centrale inonda il sistema di liquidità creando un effetto di stimolo indiretto su un’economia depressa. L’e-sperienza più interessante e rappresen-tativa è senza dubbio quella della Fede-ral Reserve, poi in buona parte seguita e nel suo piccolo replicata dalla Bank of England. A partire dal 2009 la Fed ha dato vita a programmi sempre più decisi di Quantitative Easing (alleg-gerimento quantitativo) impegnandosi con sforzi incisivi e costanti nel dichia-rato obiettivo di rilanciare la crescita e ridurre la disoccupazione, con risultati sotto gli occhi di tutti. Dopo aver già fatto leva negli anni 90 su programmi di politica monetaria non convenzio-nale, un anno fa anche la Bank of Japan ha lanciato un nuovo massiccio piano di stimolo.

E la BCE? Sempre troppo poco, o troppo tardi.

Non avendo tra i suoi obiettivi il perseguimento della crescita economica o la riduzione della disoccupazione ma soltanto la stabilità dei prezzi, a Francofor-te hanno sempre fatto spallucce alle legittime richieste da parte degli Stati membri di una poli-tica monetaria più accomodan-te. Dietro l’ossessione per una pretesa autonomia dai governi si cela in realtà la sfera di influen-za di un certo “establishment”

Affrontarela crisi

LIBERI MERCANTI

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ed un desiderio di forte continuità con la vecchia Bundesbank, la cui imposta-zione teorica si sposava al meglio con caratteristiche proprie dell’economia tedesca.

Sin dal primo lustro dalla sua fondazio-ne, le politiche BCE sono state oggetto di critiche aspre quanto autorevoli, sia nel mondo della ricerca accademica e

degli osservatori economici che nel di-battito politico interno ai paesi-mem-bri. Nel 2008 si sfiorò quasi il ridicolo, quando nel pieno della crisi finanzia-ria internazionale e a poche settimane dal fallimento Lehman, il governatore Trichet pensò bene di alzare i tassi al 4,25% (un anno prima di essere co-stretto a portarli all’1%). E ora che nella sola Eurozona si contano oggi oltre 25 milioni di disoccupati non si può certo dire che la BCE sia esente da responsa-

bilità. Se all’inizio della crisi greca fosse stato approntato un intervento tem-pestivo forse si sarebbe potuto evitare l’effetto contagio su Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia. Ma la tendenza a chiu-dere la stalla quando i buoi sono già scappati sembra quasi una caratteristi-ca endemica al meccanismo decisionale di Francoforte. Per non incentivare ge-stioni troppo allegre della finanza pub-

blica ed imporre di fatto ai singoli Stati governi più o meno commissariati, si è troppo spesso rinunciato ad utilizzare gli strumenti di politica monetaria per alleviare gli effetti di una recessione senza precedenti dalla quale l’Europa non riesce a venir fuori.

Oltre all’eccessivo immobilismo nella gestione della crisi del debito, in parte compensato da interventi ed annun-ci forse risolutivi ma comunque poco tempestivi, nel contesto economico europeo di questi ultimi anni vi sono almeno due elementi essenziali impu-tabili al “regime” di Francoforte.

Il primo è la progressiva distruzione di base monetaria che ha portato l’intera

economia dell’area Euro sull’orlo della deflazione. L’ossessione di combattere i rischi di inflazione ha portato l’Euro-tower a sottovalutare per anni rischi di natura opposta che nel tempo si sono via via aggravati. Economie in fase di depauperamento e sistemi bancari mo-ribondi necessitano di un governo della moneta estremamente accomodante che crei nel sistema la liquidità neces-saria. È sicuramente difficile far bere un cavallo che non ha sete, ma i tentativi della BCE di fornire liquidità al siste-ma per il tramite di prestiti alle banche private si sono rivelati alquanto vellei-tari e sicuramente insufficienti.

Il secondo è dato dall’eccessiva so-pravvalutazione dell’Euro rispetto alle altre valute principali. Se per la strut-tura produttiva tedesca la moneta forte non ha mai costituito un reale handi-cap, lo stesso non può dirsi per i paesi membri della periferia, tanto più in un momento storico in cui viene loro ri-chiesta una stretta fiscale senza prece-denti che richiederebbe una maggiore domanda estera. Per paesi come l’Italia, che hanno basato parte della loro for-tuna su esportazioni e turismo, pensare che l’industria possa sopravvivere ad un euro troppo forte è pura utopia. Con merci rincarate dall’effetto-valuta re-sistere alla concorrenza estera diventa ancora più complicato. L’Italia ha di-strutto in pochi anni un quarto della sua capacità produttiva, e tra le tante concause vi è anche la scarsa competiti-vità estera dovuta al cambio.

Oggi si fa un gran parlare di una svolta decisiva nella politica BCE ed in effetti le ultime mosse di Draghi vanno nel-la giusta direzione. Abbiamo dovuto aspettare che l’inflazione attesa scen-desse in territorio negativo e che dopo anni di ottima salute persino l’econo-mia tedesca desse segnali di cedimento. Per carità, l’idea che qualcosa si muova non può che farci piacere, così come l’e-ventualità che anche nell’establishment dei potentati e dei burocrati ci si muo-va verso più miti consigli. Ma la viva speranza rimane frustrata dalla consa-pevolezza che per arrestare il declino economico dell’Europa servirebbe una discontinuità nella politica economica forte radicale e decisa. Quella che tutti aspettano e nessuno vede.

In alto il Governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi

A sinistra il grafico dell ’andamento dell ’inflazione, in caduta in Italia e nella zona euro.

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s ono sempre più numerose le voci che mettono all’erta dai pericoli insiti nella futura-sempre più probabile e vicina

firma in calce al Transatlantic Trade and Investment Partnership – TTIP. Tra le più autorevoli quella di Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, il cui curriculum (presidente dei consiglieri econmici nell’ammini-strazione Clinton; senior vice presi-dent e chief economist presso la Banca Mondiale) è tale da metterlo al riparo da qualsiasi possibile accusa di antilibe-rismo: “L’accordo di libero scambio tra Ue e Stati uniti è iniquo. L’Europa non dovrebbe firmarlo”.

Ma di cosa stiamo parlando? La spiega-zione più semplice e allo stesso tempo esaustiva l’ha data ancora una volta Sti-glitz: “si tratta di un accordo la cui in-tenzione sarebbe di eliminare gli osta-coli al libero commercio. Tuttavia gli ostacoli al libero scambio sono le regole per la tutela dell’ambiente, della salute, dei consumatori, dei lavoratori”. In ef-fetti, il trattato in corso di negoziato dal giugno 2013 nel più stretto riserbo (gli ultimi incontri e le ultime conferenze tra i gruppi di lavoro americano ed eu-ropeo si sono tenuti a Chevy Chase, nel Maryland, tra il 29 settembre ed il 3 ottobre) è volto ad istituire una zona di libero scambio (Transatlantic Free Tra-de Area – TAFTA) fra le due sponde dell’Atlantico attraverso l’abbattimento di tutte le barriere doganali e legislative che limitano la libertà di investimento e il libero commercio. Considerando che Washington sta lavorando contem-poraneamente sul tavolo speculare del TPP (TransPacific Partnership), risulta chiaro l’obiettivo statunitense di creare un’area di libero scambio che compren-da oltre il 60% del Prodotto Interno Lordo mondiale, in modo da legare a sé il massimo numero di aree geopoli-tiche possibili attraverso quella che può essere definita una rinnovata NATO commerciale.

Nonostante l’obiettivo dichiarato sia quello di risollevare le economie de-presse dell’Occidente attraverso l’a-pertura reciproca a nuovi investimenti, chi realmente sfrutterà le opportunità offerte dall’accordo saranno le grandi multinazionali, a tutto discapito del-la piccola e media impresa, che sarà al contrario schiacciata dal peso crescente di una concorrenza spietata ed incon-

trastabile. D’altronde le cifre messe in campo dall’agenzia austriaca Öfse par-lano chiaro: i mancati incassi da dazi commerciali peseranno sul budget per 2,6 miliardi di euro l’anno; il commer-cio intra-europeo si ridurrebbe del 30%; la disoccupazione aumenterebbe signi-ficativamente anche a lungo termine. Il tutto a fronte di miseri aumenti di PIL calcolabili nell’ordine dello 0,5%.

Ma a farne le spese saranno soprattutto i consumatori e i comuni cittadini so-pra le cui teste saranno prese le deci-sioni finali (inutile dire che non sono previste forme di consultazione popo-lare sull’argomento e che i negoziatori non godono di nessun mandato popo-lare che li investa di un qualche potere e ne legittimi l’attività) e che rischiano di vedersi privati dei più elementari diritti alla tutela della salute, dell’ambiente e

TTIP

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del lavoro. L’omogeneiz-zazione delle legislazioni europea ed americana mette infatti in pericolo la funzione scoiale dei sistemi sanitari nazionali da aprire al libero merca-to (sul modello di quello statunitense e le sue fa-migerati assicurazioni sa-nitarie) così come il principio di precauzione su cui si basa la politica comunitaria in quelle circostanze in cui “vi sono ragionevoli motivi di temere che i potenziali pericoli potrebbero avere effetti negativi sull’ambiente o sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante, ma i dati disponibili non consentono una valutazione parti-colareggiata del rischio”: detto in altre parole, rischia di venire meno la severa legislazione europea ed italiana in materia di protezione dello strato di ozono, lotta ai cambiamenti climatici, produzione e commercializzazioni di alimenti derivati o contenenti OGM. Que-sti ultimi, attualmente vietati, invaderanno i mercati europei che perderanno anche quelle misure a protezione della qualità e delle piccole produzioni rappresentate dai marchi DOP, IGP, STG: al loro posto avremo carni ricche di ormoni, vegetali transgenici e altri prodotti tossici e cancerogeni.

Manifestanti del comitato STOP -TTIP contestano il trattato di libero scambio a

Norimberga durante la campagna eletto-rale del SPD per le europee a maggio

scorso.

A destra il manifesto della campagna di raccolta firme contro il TTIP del

Movimento Sociale Europeo in Italia

Dove l’impianto ideale alla base del TTIP, riassumibile nel predominio de-gli interessi particolari su quelli comu-nitari, si fa più palese è nella previsione di tibunali speciali per la sicurezza degli investitori. In caso di contenzioso tra un investitore ed uno stato, l’imprenditore potrà denunciare lo stato nel caso riten-ga di aver subito un danno nei propri profitti a causa della normativa statale, come già previsto nel NAFTA (North American Free Trade Agreement), il trattato di libero scambio commercia-le fra USA, Canada e Messico: ne ha approfittato ad esempio la Lone Pine Resources che ha citato il governo ca-nadese per un risarcimento di oltre 250 milioni di dollari per mancati guadagni a causa della moratoria imposta dal Quebec sull’estrazione di gas o petrolio da fracking.

E con il fracking il cerchio si chiude e tutto trova la giusta posizione in un disegno complesso ma lineare: ome è ormai noto, grazie a questa pratica estrattiva gli Stati Uniti si preparano a trasformarsi in prospettiva da paese essenzialmente importatore di idrocar-buri a paese esportatore (entro il 2018 gli USA saranno esportatori netti di gas naturale) e l’Europa, sempre più di-stante dalla Russia grazie alle manovre portate avanti da un decennio che han-no trovato nell’attuale crisi ucraina il proprio parossismo, sarà il suo mercato di riferimento. Tutto chiaro ora?

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D a un anno a questa parte circa la Cina – nella persona del presidente Xi Jinping – si è attivata per convincere gli altri paesi asiatici a parte-cipare alla costruzione di una nuova banca di

sviluppo internazionale (Asian Infrastructure Investment Bank) che possa supportare lo sviluppo dei trasporti, delle telecomunicazioni e dei prodotti energetici nella regione. Per raggiungere l’obiettivo Pechino ha calato sul banco i soldi, tanti soldi: si è impegnata a versare la quota mag-giore dei 50 miliardi di dollari del capitale iniziale della banca. Uno sforzo pesante, che però, è facile intuirlo, si tradurrebbe facilmente nell’esercizio incontrastato della propria leadership sul progetto e sul suo futuro funzio-namento.

Il tempo stringe e Jinping vorrebbe presentarsi al summit dei leader asiatici di novembre: da qui il pressing serrato degli ultimi giorni sui leader di Corea del Sud e Australia, oggetto allo stesso tempo dell’attenzione uguale e con-traria degli Stati Uniti, preoccupati che la nuova istitu-

zione possa fare ombra alla Banca Mondiale e alla Asian Bank (dominate rispettivamente da U.S.A. e Giappone), soprattutto se fra i soci fondatori dovessero realmente comparire, come sembra probabile, anche i governi di Qa-tar e Arabia Saudita con i rispettivi tesori di petrodolla-ri. Per scongiurare questo pericolo, gli Stati Uniti stanno spingendo a che Seul e Canberra disertino la chiamata di Pechino affinché l’Asian Bank sia sminuita in prestigio e responsabilità, ridotta alla partecipazione dei paesi più piccoli. E perché i sogni di egemonia cinesi risultino evi-denti ai suoi possibili partner: la strategia cinese, neanche troppo nascosta, è quella di ripulire la propria immagine, promettendo vantaggi economici per passare in secondo piano le rivendicazioni territoriali.

Il New York Times ha raccolto le parole di un alto funzio-nario dell’amministrazione Obama, rimasto anonimo per ragioni di convenienza diplomatica, secondo cui la nuo-va banca a guida cinese non sarebbe capace di soddisfare gli standard ambientali e le misure di salvaguardia offerte dalla Banca Mondiale in materia di appalti. “Come po-trebbe il nuovo istituto rappresentare un valore aggiunto? Come potrebbe essere strutturata in modo da non scate-nare una corsa al ribasso sugli standard offerti dagli altri istituti internazionali?”: è questa, in soldoni, la versione raccontata ai capi di stato coinvolti dal Dipartimento del Tesoro americano.

Parole che si scontrano con il pragmatismo cinese che si limita ad offrire una risposta ai bisogni reali di una re-gione che, secondo le stime di cinque anni fa della Asian Development Bank, nei prossimi sei anni avrebbe bisogno di investimenti in infrastrutture fisiche per 8000 miliar-

A sinistra il presidente cinese Xi Jinping ed il presidente del consiglio indiano Narendra Modi dopo la proposta della Cina di partecipazione

alla Asian Infrastructure Investment Bank.

A destra il forum internazionale asiatico al margine del quale è stata lanciata l ’iniziativa di una banca concorrente al WTO e all ’Asian Bank.

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di di dollari: ben oltre quanto la Banca Mondiale potrebbe racimolare ed of-frire. Così come la Cina e la sua banca non avrebbero problemi a superare i paletti posti dagli Stati Uniti che, con la scusa del surriscaldamento globale, si sono opposti ai finanziamenti della Asian Development Bank per nuove centrali elettriche a carbone così come si sono opposti a nuove dighe (e quin-di a nuove centrali idroelettriche) che avessero costretto al trasferimento di persone dai territori coinvolti. Paletti e limitazioni che fanno sì che attual-mente sono necessari 7 anni perché un progetto possa essere finanziato, ren-dendo pressoché inutile il ruolo della banca. “L’energia è uno dei più grandi bisogni di crescita economica in Asia, e la Cina sarà in grado di promettere progetti senza questi ostacoli” ha det-to un anziano funzionario dell’ADB anziano (anch’esso anonimo per evita-re screzi pubblici con Pechino”. Basti pensare che l’ADB ha attualmente 78 miliardi di dollari di capitale, mentre secondo gli annunci di Jinping il nuovo soggetto finanziario disporrebbe di 50 miliardi di dollari di capitale iniziale, a cui si aggiungerebbero altrettanti mi-liardi in arrivo da istituzioni finanziarie e sponsor privati.

Inoltre, l’iniziativa cinese è la diretta conseguenza del mancato adempimen-to delle promesse fatte di Washington circa una maggiore partecipazione di Pechino alla gestione della Banca Mondiale e del Fondo Monetario In-ternazionale: “la Cina non si fida delle attuali istituzioni internazionali perché sa di non essere stata tra i fondatori; sente la mancanza di proprietà su que-ste istituzioni”, ha avuto modo di affer-mare He Fan, vicedirettore dell’Institu-te of World Economics and Politics a Pechino.

A guidare il nuovo gigante della finan-za è pronto Jin Liqun, in passato al co-mando del fondo sovrano cinese non-ché funzionario dell’ADB stessa (che dalla sua nascita nel 1966 ad oggi ha sempre avuto al contrario un presidente giapponese), già attivo nelle trattative: nel mese di agosto ha incontrato l’am-basciatore americano a Pechino, Max Baucus, e a settembre è stato in viaggio a Washington. Riuscirà con il suo giro di incontri a portare a casa il risultato di guadagnare la fiducia di Australia e Corea del Sud? Troppo presto per dir-lo, forse, ma le possibilità ci sono tutte. Benché divisa tra interessi economici filocinesi ed interessi militari filostatu-nitensi, Canberra è pronta a firmare se

la Cina si impegna ad andare incontro alle sue richieste sul regolamento del nuovo istituto bancario: lo ha affermato Peter Drysdale, professore di economia presso l’Australian National University e consigliere del governo, secondo cui la reazione statunitense sarebbe priva di fondamento perché “i cinesi stanno invitando i partner alla partecipazio-ne al finanziamento e alla governance dell’istituto”, e dettata solo dal timore per un’eventuale vittoria economica e diplomatica di Jinping. Porte aperte anche a Seul dove il governo ha elogia-to pubblicamente la proposta di adesio-ne, presa seriamente in considerazione, nonostante la versione contraria fornita da Sydney Seiler, consigliere della Casa Bianca per la Corea, secondo il quale, oltre tutto, la Banca Mondiale e l’Asian Development Bank sarebbero pronte a prendere provvedimenti per ampliare la propria capacità di prestito e, quindi, la propria appetibilità per la fame di soldi dei paesi asiatici.

È chiaro, dunque, come l’egemonia di Washington e la sua capacità di in-fluenzare le scelte dei propri partner siano in declino: d’altronde Singapore, storico alleato americano nell’area, ha già firmato con la Cina la propria ade-sione al progetto.

Una nuova Banca Internazionale

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RITORNO AD ITACA

Papa Francesco:un bilancio

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D overosa premessa a questo articolo, che ci è sembrato indispensabile specie alla luce de-gli eventi che accadono nel mondo in questo periodo, è quella che ci induce a prendere le

distanze da qualunque tentativo sedevacantista o scisma-tico. La nostra formazione politica e spirituale ci insegna a porre sempre un freno al pensiero individuale quando si trova al cospetto di un ideale superiore o di una isti-tuzione millenaria quale possono essere, in questo caso, il papato e la Chiesa di Roma. È quindi con disagio che ci troviamo a dover tracciare il bilancio di questo anno e mezzo di pontificato di Bergoglio, ancor di più perché il bilancio non ci pare si possa definire in attivo. Per usci-re alla meno peggio da questa sensazione proveremo a tracciare una linea critica mettendoci nei panni di fedeli smarriti e non di Soloni presuntuosi.

Per mantenere uno schema ordinato abbiamo individuato tre punti che particolarmente ci hanno scosso in questo periodo di pontificato e che riteniamo sia impossibile non analizzare.

Il primo ruota attorno alla frase pronunciata nel luglio 2013 al ritorno dal viaggio apostolico in Brasile in me-rito allo scottante tema dell’omosessualità. “Se un gay è alla ricerca di Cristo, chi sono io per giudicarlo?”. An-che qui va fatta una doverosa premessa. La frase non è

affatto scandalosa se inserita in un contesto di rapporto personale con la fede: la rivoluzione di Cristo sta proprio nei concetti di misericordia e di perdono, nell’uscire dai canoni della superbia che portano l’uomo ad assolvere se stesso e giudicare l’altro. Quando pronunciava quelle pa-role, però, il Papa non si trovava nel privato inviolabile di un confessionale, ma davanti a molti cronisti appollaiati come sempre alla ricerca dello scoop sensazionale. Come non accorgersi della confusione che può generare una si-mile affermazione tra i fedeli? La prima cosa che salta agli occhi è che essa sminuisce l’autorità stessa non di Bergoglio in quanto individuo ma del Pontefice. Chi sei tu per giudicare? Tu sei il Papa. Rimuovendo la capacità di giudizio su argomenti del genere si mina alle fonda-menta il concetto portante di guida pastorale. Il concetto di giudizio non va però confuso con quello di condanna: la condanna non conosce appello, il giudizio è invece un qualcosa che mantiene fermo un principio pur lasciando la porta aperta alla conversione. È necessario ricordare che il messaggio di Cristo prevede la misericordia verso i peccatori ma è proprio questa misericordia a necessitare della totale fermezza contro il peccato perché sia efficace. Riteniamo che in quel preciso momento Papa France-sco sia stato misericordioso verso gli omosessuali al caro prezzo di abbandonare la misericordia verso tutti gli altri. I fedeli debbono essere guidati specie i più indifesi alle

Le copertine della rivista gay “The Advocate “ e di Rolling Stone celebrano Papa Francesco come personaggio dell ’anno per le sue frasi di apertura riguardanti gli omosessuali.

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insidie e ai tranelli del maligno.

Noi sappiamo come difenderci e fac-ciamo parte di una piccola percentuale che riconosce subito certi pericoli. Ma che ne sarà di un bambino esposto sen-za filtri a parole del genere? Che ne sarà di chi è meno istruito? Suonerà come un’assoluzione perpetua al peccato di omosessualità e non al singolo pecca-tore che si prostra a Cristo portando la Croce del suo peccato e ammettendo la sua colpa.

Nella stessa circostanza il Papa mostrò cenni di apertura anche ai divorziati in merito alla questione della ricezione della Santa Comunione. Qui vale lo stesso discorso di prima, ma le cose, se possibile, peggiorano. Un vecchio detto recitava che due indizi fanno una pro-va. Nel sesto numero di Lotta Europea

dedicato alla Famiglia avevamo pun-tualmente e sotto diversi punti di vista posto l’accento sull’attacco frontale alla famiglia tradizionale. Sebbene questo attacco sia in atto in vari fasi da mol-tissimo tempo, dicemmo allora che ci sembrava di trovarci a uno di quei cro-cevia storici, come se fosse partito un segnale da determinati centri di potere, affinché si facesse un lungo passo avanti nell’evoluzione di questo attacco. Un po’ come successe sul finire degli anni 60. Il divorzio è un cancro che ha minato alle fondamenta l’unione sacra di un uomo e una donna e che ha reso infe-

lici e insicuri i figli; a pensarci bene è il tradimento di una promessa compiuta davanti agli occhi di Dio in persona (o per chi non crede di fronte all’intera comunità di appartenenza). La Chiesa e il Papa come rappresentante di Cri-sto in terra hanno fatto da testimoni a quella promessa e ora lo stesso Ponte-fice vorrebbe autorizzare a romperla? Al di fuori della spiritualità, il nostro concetto di onore e la nostra formazio-ne politica ci hanno insegnato che una promessa non si rompe mai per nessun motivo.

Entrambe questi episodi ci sembra che

riconducano a quel concetto di spi-ritualità fai-da-te che detronizza l’autorità di Cristo per lasciare spa-zio all’uomo. In queste circostanze il Papa è diventato ministro degli uomini, autorizzandoli a perdo-nare se stessi a aprendo la strada a un circolo vizioso pericolosissimo che allontana dal pentimento per il semplice fatto che lo si giudica un percorso che si può compiere da soli. Dove sarebbe quindi la miseri-cordia se si è lasciati appunto soli? La misericordia è il contrario del permissivismo. È il contrario per-ché il permissivismo porta le anime a perdersi e la misericordia sta in-vece nel fare in modo che le anime non si perdano.

La sintesi perfetta di quanto finora

RITORNO AD ITACA PAPA FRANCESCO: UN BILANCIO

Al centro il Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia, presieduto da Papa Francesco, il quale ha visto importanti aperture ai gay, ai conviventi, ai matrimoni civili e

ai divorziati risposati.

A sinistra il Cardinale Bagnasco dà la comunione al trans Vladimir Luxuria.

A destra il massone Scalfari, proprie-tario del quotidiano “la Repubblica”

fautore della famosa intervista a Papa Bergoglio .

In basso a destra il Papa “emerito” Bene-detto XVI prega con il “Vescovo di Roma”

Papa Francesco.

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esposta la troviamo in un terzo episo-dio. Nel settembre 2014, rispondendo a Eugenio Scalfari in una delle tante puntate di quello scambio epistolare a noi sembrato più un evento mondano che un confronto filosofico, Papa Fran-cesco, in merito al rapporto della fede cristiana con i non credenti afferma che in fondo la salvezza è aperta a chi agi-sce secondo la propria coscienza. L’in-vasione di campo nella profonda teo-logia è qui evidente rispetto alle altre due uscite che sembravano molto più circostanziali. Qui, a nostro avviso, si mette in discussione lo stesso peccato originale e la figura salvifica del Cristo.

La coscienza dell’uomo è nella storia il pericolo maggiore cui l’uomo stesso è esposto. Subordinata a Cristo, essa è lo strumento più affascinante di vittoria, ma fuori dalla Via e dalla Verità non potrà che trovarsi fuori dalla Vita, in-tesa come vittoria sulla Morte e quindi eterna. Con quella lettera tutto il cat-tolicesimo viene messo in discussione. Cosa resta del Sacramento della Con-fessione, in un simile scenario? Che fine fa la distinzione netta tra Bene e Male in senso assoluto se ogni uomo in coscienza può distinguerli in senso relativo? Come si può difendere un pa-trimonio come la tradizione Cattolica

porgendo il fianco in questo modo ai suoi nemici più accaniti?

È tremendo accorgersi che mentre sua Santità giocava con il massone Scalfa-ri, abbassandosi al suo stesso piano per dialogarci alla pari senza esprimere al-cuna auctoritas e presenziando in con-tinuazione sui rotocalchi mondani, in Medio Oriente si preparava l’ennesimo tragico olocausto di un popolo di biso-gnosi di vera misericordia per il quale sono state spese pochissime parole. Parole di circostanze, di un pacifismo senza presa di posizione. Un pacifismo che segue la linea venuta fuori dalle cir-costanze che abbiamo analizzato, e cioè un pacifismo mancante di quella che è la distinzione tra la verità e la men-zogna, tra il bene e il male. Nell’esta-te 2014 in Palestina abbiano assistito nell’imbarazzo mediatico generale a una delle più atroci manifestazioni di cattiveria umana, che si permette di rendersi sempre più manifesta e traco-tante, proprio perché la capacita di giu-dizio dell’uomo è stata fatta ammalare di un virus partito dal suo stesso centro nevralgico. Fortunatamente sappiamo che contro questo virus finché ci sarà vita ci sarà speranza di cura.

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Come è nato e cosa si prefigge il Co-ordinamento Solidale per il Donbass?

Il Coordinamento Solidale nasce dall’esigenza di creare un fronte unito in Italia di solidarietà estesa al movi-mento di resistenza popolare e di au-todeterminazione nazionale del popolo del Donbass. Quello a cui siamo stati costretti ad assistere è stato un vero e proprio genocidio ad opera dei reparti armati (formalmente regolari, ma effet-tivamente arruolati tra le torme di tep-pisti che hanno rappresentato il nerbo delle proteste di Maidan) al soldo della junta di Kiev. Per fortuna la pulizia et-nica portata avanti con ogni spregevole mezzo, e testimoniata dal recente ri-trovamento delle fosse comuni, è stata arrestata dall’istituzione repentina di varie repubbliche popolari e poi dell’en-tità statuale della Nuova Russia (Novo-rossiya). Già da tempo noi seguivamo i fatti ucraini: due nostri militanti hanno monitorato la situazione del Maidan a fianco dei partiti filorussi prima per-seguitati dai manifestanti (pochi, ma estremamente violenti) e poi messi fuo-ri legge con il nuovo governo, arrivato al potere non eletto come nella miglio-re tradizione atlantico-golpista. Appe-

na la Nuova Russia è sorta è stato per noi un obbligo rispondere al richiamo del valore di questi eroi suscitati dalla situazione catastrofica.

Il Coordinamento Solidale per il Donbass nasce per questo. Raggrup-pare la solidarietà italiana (e prossima-mente europea) che si adopera per il Donbass e smuovere l’opinione pubbli-ca in favore di un Popolo che resiste alla propria persecuzione. Il nostro compito è quello di dimostrare al Popolo fratel-lo della Nuova Russia che, malgrado il nostro governo (anch’esso golpista come quello di Kiev), il Popolo italiano non è complice delle manovre genoci-de dell’imperialismo internazionale nei loro confronti, e che è pronto ad aiutarli con ogni mezzo.

Risvegliare la coscienza degli Europei sul Donbass significa renderli consape-voli della causa internazionale comune di tutti i patrioti e i difensori delle tra-dizioni e differenze culturali contro il nemico comune.

Cosa rappresenta in effetti la batta-glia per il Donbass? Perché un patrio-ta europeo dovrebbe schierarsi dalla parte della Nuova Russia?

Quello che sta accadendo in questi giorni in tutto il mondo, la catena di destabilizzazioni sequenziali che stan-no facendo vacillare tutti gli oppositori all’ordine mondiale a guida statuniten-se deve farci riflettere. Il caso ucraino si inserisce proprio in questo fenomeno. Gli USA, i primi nemici dei Popoli, portano avanti la guerra alla Federa-zione Russa con ogni mezzo, compreso quello del terrorismo, come in Cecenia oggi a Kiev. Di fronte ad un contesto mondiale, dove ad ogni azione geogra-ficamente localizzata corrisponde una reazione globale, noi crediamo che i pa-trioti europei – noi compresi – debbano sostenere attivamente la transizione ad un assetto internazionale multipolare, ovvero aperto alla differenza dei mo-delli di sviluppo dei Popoli ed alla pre-

A sinistra, il coordinatore nazionale Orazio Gnerre in visita a Donetsk

ricevuto da Pavel Gubarev, governatore della Repubblica Popolare di Donetsk e

capo dei ribelli della Nuova Russia.

In Alto il presidio a Roma in contempo-ranea con altre piazze europee.

A sinistra la raccolta di aiuti tramite i gazebo nelle piazze e la manifestazione

di sostegno al Donbass a Milano

Lotta Europea intervista

il Coordinamento Solidale per il

Donbass

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servazione della loro identità culturale. Questo modello è apertamente soste-nuto dai Paesi BRICS, in particolar modo dalla Federazione Russa.

Quale è o quale dovrebbe essere il rapporto tra Russia ed Europa in un simile contesto?

Il primo interesse dei patrioti europei – la liberazione del Continente dai lacci del controllo strategico della NATO e da quello economico del capitalismo finanziario – può essere ottenuto anche grazie ad una Federazione Russa forte,

unita, e che abbia compiuto il proprio processo di integrazione regionale con i Paesi eurasiatici. Una Russia come attore regionale eurasiatico forte, con le spalle coperte dal gigante cinese, ha come unico interesse quello della libe-razione del grande spazio geopolitico dell’Europa occidentale per intrattene-re ottimi rapporti di vicinato ed isolare il continente dalle nefande ingerenze nordatlantiche.

In più oggi per noi la Russia rappresen-ta un faro luminoso di difesa dei propri

valori culturali, della propria autonomia politica ed economica, della dignità na-zionale. Questo è un palese guanto di sfida lanciato in faccia all’élite globale che avversa la libertà dei Popoli, quello europeo in primis.

Si può quindi affermare che il soste-gno al Donbass si inserisce in una battaglia di più ampio respiro?

Certamente. È proprio in quest’ottica di liberazione europea che va letta la battaglia per la Nuova Russia. Il Popolo del Donbass ha reagito da subito in fa-vore della propria storia. L’opzione per la propria tradizione e la scelta dell’au-todeterminazione equivale ad una presa di posizione in favore di un futuro mul-tipolare. È con personaggi eroici come Igor Strelkov e Pavel Gubarev che è ri-nato lo spirito tradizionale della Russia. E parimenti è con loro che è iniziata

la battaglia per l’indipendenza dai lacci dell’usura finanziaria. È la stessa guerra di sempre dei principi assoluti contro l’oro. L’archetipo sostanziale ritorna, e tutti i veri patrioti lo avvertono. La Nuova Russia ha in sé lo stesso spirito di Fiume. Non è più un luogo, ma una stato dello spirito.

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