L'Osservatore in cammino - n°2

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L’Osservatore in cammino è un progetto Artlab, Atelier per l’espressione e la produzionecreativa, all’interno del quale competenze,vocazioni, capacità s’integrano e cooperanoinsieme. In particolare, scrittura e illustrazioneinteragiscono per dar vita a una rivista che simuove sul doppio binario dellacomunicazione, quello verbale e quello visivo.L’Osservatore non è solo una rivista diinformazione culturale ma, soprattutto uncantiere libero ed aperto all’incontro, peraccogliere nuove vocazioni ed attitudini, unluogo dove sperimentare e mettere a fruttol’inventiva e le capacità comunicative diquanti desiderino aderire al progetto.Chiunque abbia voglia di partecipare aquesta avventura trimestrale, può inviare isuoi elaborati (scrittura, grafica o illustrazione),in formato elettronico, alla nostra redazione: [email protected] ARTLAB: Salome Onlus - Big Sur - Fondo Verri

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Contenuti

L’Osservatore in cammino è un progetto Artlab,Atelier per l’espressione e la produzionecreativa, all’interno del quale competenze,vocazioni, capacità s’integrano e cooperanoinsieme. In particolare, scrittura e illustrazioneinteragiscono per dar vita a una rivista che simuove sul doppio binario dellacomunicazione, quello verbale e quello visivo.L’Osservatore non è solo una rivista diinformazione culturale ma, soprattutto uncantiere libero ed aperto all’incontro, peraccogliere nuove vocazioni ed attitudini, unluogo dove sperimentare e mettere a fruttol’inventiva e le capacità comunicative diquanti desiderino aderire al progetto.Chiunque abbia voglia di partecipare aquesta avventura trimestrale, può inviare isuoi elaborati (scrittura, grafica o illustrazione),in formato elettronico, alla nostra redazione:[email protected]

La storia di Augusta • 4LA TESTIMONIANZA DI UNA DONNA SCHIACCIATAE RIDOTTA A OGGETTO DAL SISTEMA

Elisa Springer • 4L’AUTRICE DE “IL SILENZIO DEI VIVI”PARLA AGLI ADOLESCENTI

La scrittura come catarsi • 6A COLLOQUIO CON LA SCRITTRICE ROSETTA LOY

Il sentiero dei nidi di ragno • 8ISPIRATO AL ROMANZO DI ITALO CALVINO,UN RACCONTO IN FORMA DI POESIA

Gli alberi di Dachau • 10DOPO UNA VISITA NEL CAMPO DEGLI ORRORI NAZISTI

R’esistere • 11L’ATTORE E REGISTA IPPOLITO CHIARELLOCI PARLA DELLE SUE LOTTE QUOTIDIANE

Africa mon amour • 12DIARIO DI UN VIAGGIO IN BURKINA FASO

Come vuoi Tu. • 18LA TESTIMONIANZA DI UNA DONNA SIEROPOSITIVA,LA SUA BATTAGLIA PACIFICA CONTRO IL PREGIUDIZIO

Le parole di chi non ha parole • 19IL MANIFESTO REALIZZATO DALLA LILA DI LECCEPER LA GIORNATA MONDIALE DELLA LOTTA ALL’AIDS

I film sulla Shoah • 20DA SPIELBERG A BENIGNI: COSÌ IL GRANDE SCHERMORACCONTA IL DRAMMA DEGLI EBREI

Storia, maestra di vita? • 21QUANTI HANNO STUDIATO E COMPRESOPROFONDAMENTE GLI AVVENIMENTI DELLA STORIA?

Una piazza involontaria • 22NELLA MODERNA BERLINO, IL MEMORIALE PER LE VITTIMEDELL’OLOCAUSTO UN LUOGO DA VIVERE ED ATTRAVERSARE

Puoi trovare L’O presso:Libreria Apuliae, LecceLibreria Icaro, LecceLibreria Liberrima, LecceLibreria Palmieri, LecceOfficine Culturali Ergot, LecceL’edicola Bla Bla, LecceTing, oro e design, LecceCaffè Letterario, LecceKoreja, LecceFondo Verri, LecceBig Sur, LecceLibreria I Volatori, Nardò

illustrazione: Annalisa Macagnino

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a terza uscita de L’Osservatore in cammino è dedicata a un tema dalle molteplicisfaccettature: resistere/sopravvivere. L’idea ci è stata suggerita dalla contiguitàtemporale di questo secondo numero con la Giornata della Memoria: d’altronde,non saremmo osservatori se non ci lasciassimo “toccare” da ciò che accade, re-interpretando continuamente il mondo circostante e sforzandoci di guardareoltre l’ovvio e il già detto. Così, in questo numero, non ci limiteremo a commemorare

le vittime della Shoah, esecrando l’orrore, e deplorando la natura, a tratti bestiale, dell’uomo.Tutto questo è già noto, ma quale impatto produce sulle nuove generazioni ascoltare unatestimonianza diretta portata, ad esempio, da Elisa Springer? Cosa significa per una giovanedonna visitare oggi Dachau, entrare nella famigerata stanza della doccia, vedere un passatoche trasuda pianto e dolore? E, ancora, non soltanto i campi di concentramento, in Germania,furono uno strumento atto a mietere vittime, in Italia, gli oppositori, i diversi, eranocondannati alla morte civile e rinchiusi in manicomio, così da essere annientati nel corpoe nell’anima. A raccontarci questa storia è il diario di una donna, Augusta F., vissuta neglianni del secondo conflitto mondiale e ricoverata nel manicomio San Giovanni di Triestecon una diagnosi vaga e contraffatta. Augusta ha trascorso gli anni di reclusione, lottandostrenuamente per la sopravvivenza e documentando le torture subite, come gli ebrei delghetto di Varsavia, come Anna Frank, prima di essere imprigionata e la stessa Elisa Springerdopo esser stata liberata. La scrittura aiuta a sopportare il dolore, allevia il carico di emotivitàconnessa a determinati drammi dell’esistenza.I lettori noteranno che in questo numero sono state prese in considerazione soprattuttotestimonianze di donne e gli articoli recano firme di donne: insomma, donne che scrivonodi donne. È casuale? Probabilmente, non lo è. Talora, la sensibilità femminile ci comunicacose ancora ignote a quella maschile e non teme di svelare il proprio sé, la sofferenza, ilpianto: questo atteggiamento pare a molti una debolezza, ad altri, una forza. E non è esclusoche, ancora ai nostri giorni, le donne siano chiamate a “resistere” più degli uomini: ci riferiamoanche alle piccole resistenze quotidiane, alle lotte che ognuno conduce per scoprire eaffermare la propria identità. Una donna è sempre combattuta fra la sterile omologazionecon l’uomo e la conquista dell’autonomia: non è difficile soltanto “sopravvivere”, bensì anche“convivere” e, proprio nel momento in cui la possibilità della convivenza e, dunque dellareciproca accettazione e comprensione, viene meno, allora, scatta la necessità della sopravvivenza,ossia quel meccanismo di difesa che permette all’individuo o al gruppo di “resistere” agliattacchi dell’intolleranza. C’è stata l’intolleranza del Reich nei confronti degli ebrei, c’èintolleranza fra i gruppi etnici del Burkina Faso - e in questo numero leggerete un reportagesull’Africa in cui il dramma di queste aree, denominate “del terzo mondo”, è descritto conchiarezza e partecipazione emotiva -, tuttavia, l’intolleranza - anzi le intolleranze - regnanoanche fra noi e quotidianamente inquinano le relazioni umane. Non abbiamo smesso diessere Homo homini lupus, non abbiamo smesso di ferirci l’un l’altro e di ferire noi stessi,non abbiamo smesso di non accettarci e, probabilmente, non smetteremo mai del tutto,perché si tratta di atteggiamenti radicati nella natura umana cui facciamo un’immane faticaa resistere. Eppure, è possibile migliorare un po’ ogni giorno, è possibile crescere e maturareuna consapevolezza della diversità intesa come ricchezza. Siamo diversi gli uni dagli altri,ma il bello è proprio questo: altrimenti, sarebbe bastato un unico uomo ad abitare la terra.

ResistereSopravvivere

L’editoriale di Eliana Forcignanò

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illustrazione: Annalisa Macagnino

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La storia di Augusta

Diario di Silvia Perrone

COSÌ IL TOTALITARISMO SI SERVIVADELLA FOLLIA PER CONDANNARE I DISSIDENTI.IN UN DIARIO CURATO DA GIOVANNA DEL GIUDICEPER LA CASA EDITRICE SENSIBILI ALLE FOGLIE,LA TESTIMONIANZA DI UNA DONNASCHIACCIATA E RIDOTTA A OGGETTO DAL SISTEMA.

ra gli strumenti cui il totalitarismo èricorso - e, in alcune parti del mondo,ancora ricorre - per chiudere la bocca

ai dissidenti non si annoverano soltanto leminacce, l’esilio, le percosse, la reclusione indurissimi campi di lavoro, l’eliminazionefisica, bensì anche l’internamento in ospedalepsichiatrico con diagnosi più o meno oscure.Quale migliore strategia per rendereinoffensivo un oppositore che decretarne lamorte civile? Il manicomio ben serviva aquesto scopo: chi metteva piede lì dentro,subito, cessava di essere al mondo, passandodalla condizione di soggetto in grado dipensare, scegliere, agire, a quella di oggettoin balia di aguzzini senza scrupoli: il poteredell’istituzionalizzazione, d’altronde, consistenel tramutare l’individuo con la propriastoria, i propri bisogni, legami, sentimenti,emozioni, ricordi, in entità amorfa e a-storica. Come nella mitologia greca, appenavarcata la soglia del regno degli Inferi, gliuomini diventavano ombre tristi e fugaci,così, in Italia, prima di Basaglia e della Legge180, essere ricoverati in ospedale psichiatricosignificava perdersi in un mondo senza luce,dover rinunciare a se stessi, a un’esistenzadignitosa cui ognuno ha diritto in quantopersona dotata di corpo e anima.Quella di Augusta F., triestina emigrata aTirana, rimpatriata nel ’39 durante laspedizione fascista in Albania e finita inmanicomio per una non meglio precisata“frenosi isterica” - benedetta psicopatologia,sempre prodiga di definizioni e diagnosi! -

F è una storia che, a rileggerla oggi, in un’epocasulla quale volteggia costantemente lo spettrodella controriforma, suscita orrore eraccapriccio. Si tratta di un resocontoautobiografico, pagine di diario che il figliominore della vittima ha ritrovato econsegnato, non a caso, nelle mani diGiovanna Del Giudice, psichiatra ecollaboratrice fra le più strette di FrancoBasaglia. Così, la storia di Augusta F. èdivenuta testimonianza emblematica e fruibileall’opinione pubblica dei delitti che siperpetravano all’interno dell’ospedalepsichiatrico San Giovanni di Trieste, “città- ricorda la Del Giudice - in cui, unico inItalia è esistito un campo di sterminio nazista”.Non ci vuol molto ad accostare la condizionedei prigionieri nei campi di concentramentoe di sterminio nazisti a quella degli internatiin manicomio: insulti, percosse, torture, lavorocoatto, vita di stenti, sradicamento dalcontesto familiare e sociale, morte. Sono idestini che l’intolleranza riserva ai “diversi”,siano essi ebrei, folli, “devianti”, oppositoripolitici. Il diverso atterrisce: minaccia le regoleperché non si conforma a esse, difficilmenteviene assorbito nel tessuto produttivo, siriconosce in valori e modelli di vita noncompatibili con quelli imposti dal poterecostituito, crede in un altro Dio, vive incomunità o gruppi marginali. Ancora oggi,ci s’interroga sulle ragioni dell’odio nutritoda Hitler nei confronti degli ebrei e,puntualmente, non si tiene in debito contola fobia che il nazismo manifestò nei confronti

di Marta Lorenzo

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Elisa Springer,il dovere della testimonianzaL’AUTRICE DE “IL SILENZIO DEI VIVI” PARLA AGLI ADOLESCENTI:“HO VISSUTO PER RACCONTARE CHE LE PIAGHE DEL CORPOSI RIMARGINANO, NON QUELLE DELLO SPIRITO”

tredici anni vorresti esser già entrato di diritto nel mondo degli adulti, tuttavia,a volte, ti accadono cose per sopportare il peso delle quali senti di avere le spalle ancora troppo strette.Qualche giorno fa, mi sono decisa a riordinare la mia biblioteca: gli scaffali più

alti erano coperti da una patina di polvere decisamente poco salubre, da un po’ nonandavo a scartabellare lì sopra e non ricordavo di avervi riposto Elisa Springer. Troppointense le emozioni che i suoi libri mi hanno trasmesso: un tumulto di afflizione, sdegno,vergogna e, insieme, speranza e gioia di vivere. Avevo solo tredici anni quando mi sonoaccostata a essi con tutto il bagaglio di noia e preconcetti che può avere una scolarettacostretta a seguire i “consigli per la lettura” dell’insegnante. Mi è bastato dare un’occhiataalle prime pagine de Il silenzio dei vivi, per accorgermi che questa volta sarebbe stato

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diverso: in punta di piedi, mi accingevo a varcare la soglia della Storia e un senso diprofondo timore misto a rispetto mi assaliva. Naturalmente, tutto si compiva a un livelloinconsapevole del mio animo: avevo tredici anni, troppo pochi per comprendere.Elisa venne a trovare me e i miei compagni a scuola. L’auditorium era gremito quella mattina:ho il suo autografo sul libro, un tratto pulito appena un po’ tremulo per l’età ormai avanzatae le molte sofferenze patite. Ciò che la scrittrice raccontava a voce bassa, quasi con vergogna- ma perché? Lei non aveva alcuna colpa! - pareva surreale a noi ragazzi. Lo ricordo benequel volto scavato e la piega sofferente in cui si contraeva la bocca pronunciando parolecome “nazismo”, “fascismo”, “Shoah”. Non sempre il tempo cura le ferite: parlando, Elisanon poteva evitare che, di tanto in tanto, le sfuggisse un singhiozzo. La sua persona, il suopudore, la famiglia, gli amici, la religione in cui credeva erano stati offesi, spregiati, calpestatie, a lungo, lei aveva cercato di dimenticare, di raccogliere i pezzi della propria esistenza, dicondurre una vita normale, da donna normale. Non era servito a nulla.Dopo un interminabile logorio, Elisa aveva compreso che le si apriva dinanzi un’unica viadi salvezza: testimoniare agli altri. Testimoniare per insegnare condivisione e dignità.Testimoniare per non lasciar cadere nel dimenticatoio l’orrore, l’incubo del campo diconcentramento al quale era miracolosamente sfuggita. Lei era sfuggita, ma tanti non cel’avevano fatta: ecco perché quella voce bassa, quel malcelato senso di colpa per essersopravvissuta. Le pareva un privilegio continuare a essere al mondo: oggi, mi ritorna allamente quel numero tatuato sul suo piccolo polso. Quando lo scoprì io e la mia compagnadi banco, sedute vicine, commentammo che quelle cifre impresse in nero sulla carnefacevano venire i brividi lungo la schiena e le lacrime agli occhi. Avevo tredici anni, ma lelacrime mi salgono agli occhi anche adesso che ne ho molti di più.Accomiatandosi, ci disse:“Ho vissuto per raccontare che le ferite del corpo si rimarginanocon il trascorrere del tempo, non quelle dello spirito, le mie sanguinano ancora”.

di ogni possibile “diversità”: ebrei, oppositoripolitici, zingari, omosessuali, malati di mente.Il mito della “razza ariana” da mantenere purae incontaminata a tutti i costi non è altro cheil delirio dell’omologazione assoluta: tuttiuguali nel corpo e nel pensiero, nessunadiversità, dunque, nessuna minaccia.Augusta F. era certamente una “diversa”: unadonna controcorrente che si era fatta notareper la sua mancata adesione al fascismo, perla relazione con un tenente albanese - dalmarito si era separata presto e lui era in carcereda molti anni a Capodistria con l’accusa ditruffa -, per la risolutezza con la quale, dasola, cercava di andare avanti. In manicomio,Augusta è sottoposta a ogni sorta di angherieda parte delle “cuffie” - le infermiere -, e delPrimario, uomo che fa della sua professioneuno strumento di dominio sugli altri. I suoitentativi di uscire, le perorazioni presso parentilontani e conoscenti le valgono unicamentebrevi e illusori periodi di ritorno al mondo,un mondo che, oramai, la respinge, perchésegnata a vita dallo stigma.Aveva due figli, Augusta: entrambi conosconol’esperienza della deportazione in Germaniae il maggiore, Stelio, vi trova la morte. Questadonna non poté esser madre se non durantegli intervalli di libertà dal manicomio: troppobrevi per rimettere insieme i cocci di unafamiglia. Non una, ma più volte, Augustasubì il dramma dell’internamento nella “casadel dolore”: come deve essere, quando cis’illude di aver finalmente riconquistato lalibertà, perderla di nuovo e poi di nuovo epoi di nuovo? Come si fa ad avere ancora laforza di lottare? La speranza di uscirne? Lavoglia di scrivere? Come si fa a sopravvivere?Probabilmente, è l’istinto di conservazionea muovere il corpo e a fornire alla mentel’energia per pensare. Probabilmente, gliaffetti ci danno la forza necessaria ad andareavanti, tuttavia queste sono vane congetture:solo chi ha sperimentato sulla propria pellepuò dare risposta.

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Giovanna Del GiudiceIl manoscritto di Augusta F.Sensibili alle foglie, Roma, 1996

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di Marco RolloIncontri

La scrittura

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os’è la memoria, se non il libro della nostra vita al quale aggiungiamo capitolisu capitoli senza poter mai scrivere la parola “fine”? Non tutte le parti dell’operasono ben limate: sovente, incontriamo frasi incompiute, periodi appena abbozzati,immagini, odori, parole fermati nelle pagine dell’anima, come appunti fretto-losamente presi su un taccuino e non più riordinati. Di tanto in tanto, bastauna folata di vento e il taccuino si apre: ne salta fuori qualcosa che ci colpisce,

un particolare che avevamo assorbito passivamente non volendo o sapendo decifrarne ilsignificato. D’improvviso, quel particolare riemerge alla coscienza e si fa chiaro: oraabbiamo raggiunto la maturità necessaria per comprendere, troppo tardi? No, c’è sempretempo per assumere consapevolezza di se stessi e del mondo circostante: la consapevolezzaè il fondamento dell’azione, il motore che spinge al cambiamento, affinché non si ripetanogli errori già commessi.“Quel che manca ai nostri giovani è la speranza nel futuro: hanno tutto, ma non la speranzadi poter migliorare il domani, così vorrebbero che fossimo noi adulti a dargliela. Amo moltorecarmi nelle scuole e dialogare con i ragazzi, eppure sono dispiaciuta perché percepiscodistintamente in loro questo senso di vuoto incolmabile”. Sono parole della scrittrice RosettaLoy, pronunciate qualche mese fa durante un incontro con i lettori a Lecce, nell’AuditoriumSan Francesco della Scarpa dov’è stata invitata dall’associazione Presidi del Libro perparlare del suo ultimo romanzo Nero l’albero dei ricordi e azzurra l’aria, (Einaudi, 2005).“Il mio libro racconta una storia completamente inventata. - Dice la Loy - Tuttavia, ipersonaggi che vi compaiono non sono soltanto il frutto della mia fantasia, ma individuiin carne e ossa, trasfigurati nella scrittura. Quando si scrive, è inevitabile fare riferimentoal proprio bagaglio di esperienze, sia pur con alcune trasformazioni richieste dalle esigenzenarrative. La memoria nutre l’arte del narrare: non a caso, a ispirarmi è stato un diariorealmente scritto da un giovane soldato, uno studente d’ingegneria italiano, che partecipòalla guerra d’Africa e combatté in prima persona a El Alamein. Questo documento miè stato utile più di qualsiasi saggio o libro di storia, perché mi ha donato ciò che nemmenola monografia più accurata può offrire: i particolari.”Sull’Italia mutilata dalla guerra, Rosetta Loy dice: “Certo, non fu una distruzionecapillare e condotta scientificamente come avvenne per la Germania, ove si agì conl’intento di annientare ciò che rimaneva del Reich, ma fu lo stesso una catastrofe didimensioni notevoli, soprattutto al Settentrione. La famiglia di cui ho narrato le sortinel mio libro, viene molto impoverita dalla guerra e patisce un’inesorabile decadenzache non ha fine con il conflitto, anzi s’intensifica nel generale disorientamento dei mesisuccessivi alla Liberazione ”.Insomma, un ventennio di dittatura, il disastro di una guerra mondiale e un genocidionon si cancellano con un colpo di spugna da una nazione, né si devono cancellare dallamemoria collettiva, per non offendere quanti hanno coraggiosamente lottato con l’intentodi dare un futuro a valori come giustizia e libertà.

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come catarsi“LA SCRITTURA È LIBERAZIONE, CATARSI,RESPIRO, È UN MODO PER INDAGARE SE STESSIE COMUNICARE CON GLI ALTRI”A COLLOQUIO CON ROSETTA LOY, AUTRICEDEL LIBRO LA PAROLA EBREO, RACCONTO DIUN’INFANZIA NELL’ITALIA FASCISTA.

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na donna semplice, cordiale: gli occhiazzurri e la capigliatura d’argento illu-minata dai raggi del sole in un sabato

pomeriggio d’inizio estate. Cammina conpasso sicuro, sorridendo. È Rosetta Loy, lascrittrice, la donna di cultura schietta e lealeche ci prega di riportare fedelmente le suerisposte alle nostre domande, senza manipo-lazioni di sorta. È l’autrice de La parola ebreo,libro in cui un’infanzia serena incrocia latragedia dell’antisemitismo nazifascista senzapoterne comprendere a pieno la gravità. Unabambina che non si spiega perchéall’improvviso i suoi vicini di casa - la signoraDella Seta, la famiglia Levi - siano diversi dalei e, soprattutto, in cosa siano diversi. Ma gliadulti, forse, lo sanno? Forse, gli adulti cono-scono la colpa degli ebrei? No, perché nessunaera la loro colpa, eppure, nell’anno 1938, nonpassava giorno senza che qualcuno - faziosofascista di provincia o studioso affermato -pubblicasse un articolo o rendesse nota lapropria opinione sulla presunta superioritàdella razza ariana. La Chiesa, in un primomomento oppostasi con Pio XI allo scandalodell’antisemitismo, entrò con il successorePio XII in una fase di silenzio assenso eammirazione per i dittatori. L’opinione pub-blica taceva atterrita: cominciava l’incubodella deportazione…

Com’è nata l’idea di scrivere La parolaebreo? E quale messaggio questo libro sipropone di veicolare?

“Ogni libro nasce - o dovrebbe nascere -da un’esigenza profonda e avvertita da chiscrive in maniera inderogabile: la tragediadegli ebrei nel periodo della seconda guerramondiale mi ha sempre coinvolto emotiva-mente, forse per un retaggio dell’infanzia: dapiccola, ho conosciuto persone ebree - eranoi miei vicini di casa - e ricordo di non avermai avuto alcun timore di loro. QuandoMussolini decise di avviare la campagnaantisemita, stentavo a capire perché questagente dovesse lasciare le proprie case, rinun-ciare alle proprie abitudini per andar via. Lascuola, la famiglia non mi diedero mai glistrumenti necessari per capire: dopo il fatidic’45, una autentica censura scese sull’argomento,operando quella che in psicologia è dettarimozione. La verità è che ci si sentiva tutticolpevoli dell’accaduto, perciò nessuno osavaparlarne se non malvolentieri e sotto costri-zione. Pensate che, in Germania, pur di evitareil termine ebreo, hanno preteso da me checambiassi il titolo in Via Flaminia 21.Un’infanzia nell’Italia fascista. La proposta miha offeso non poco e ho risposto che, in talcaso, preferivo non pubblicare: mi pareva ditradire il mio obiettivo che era quello di parlareai giovani, riscattandoli da anni e annid’ignoranza sull’argomento. In questo libro,io parlo soprattutto alle nuove generazioni:è giusto che esse sappiano cos’è accaduto,perché la vergogna per il passato non deveassolutamente tramutarsi in uno scudo diomertà storica”.

Ci parli ancora della reazione che unafamiglia borghese e cattolica come la suaebbe dinanzi alla campagna antisemitaavviata da Mussolini nel ’38.

“Come potete immaginare, nella mia fami-glia, la questione delle leggi razziali e delladiscriminazione nei confronti degli ebrei eratabù. Non che i miei condividesserol’atteggiamento di Mussolini e l’asse con laGermania, tuttavia, nutrivano un profondorispetto per la Chiesa e l’idea che Pio XIInon condannasse apertamente quello scempioli disorientava non poco. Insomma, si preferivachiudere gli occhi alla realtà e rifiutare ilpensiero di ciò che pativano gli ebrei in quellatemperie storica. Io ero troppo piccina percomprendere: ricordo che, all’improvviso, fu

vietato a noi fanciulli d’intonare FaccettaNera, la canzone era diventata proibita perchéinsidiava, con l’invito alla bella abissina, lapurezza della razza ariana. Andando dalfornaio, io osservavo con una certa appren-sione, il negretto dipinto che reggeva fra lemani la cassettina per il denaro, nella qualebastava far scivolare poche lire per vedere ilpupazzo chinare e rialzare il capo in segnodi ringraziamento. Guarda, - mi dicevo -anche lui è una faccetta nera”.

Però, un membro della vostra famiglianon si è mai uniformato alle regole…

“Sì, mio fratello Giovanni: il ribelle, lospirito libero. Introduceva spesso in casa librisui crimini nazisti, contrariando i miei genitori.Lui voleva sapere e non si fermava dinanzia nulla: mi ha insegnato ad andare fino infondo alle cose, senza lasciarmi accontentareda spiegazioni di comodo. Giovanni, non acaso, è presente in tutti i miei romanzi: c’èsempre un personaggio con la sua indole, lamedesima sensibilità e i modi di fare.

Quale responsabilità avverte uno scrittoreche ha attraversato questa parte di Storia?

“Non lo so. Non tutti gli scrittori sentonouna responsabilità nella scrittura. Posso dirviciò che sento io: la responsabilità di trasmet-tere, tramandare, far conoscere. Non pretendodi detenere la verità assoluta, ma soltanto diportare la mia esperienza e aprirla agli altri.Ecco, per me la scrittura è questo: raccontodi esperienze, tentativo di sensibilizzare nonsolo l’Altro, ma anche se stessi attraversoun’esplorazione della memoria, che io imma-gino come grande magazzino o cassettierain cui, dapprima, i ricordi si dispongono inordine, poi, sempre più confusi, man manoche la loro mole aumenta e, perciò, si faticaa sistemarli”.

Quando Lei scrive, cosa accade nella suamemoria?

“Si scatena un turbine di ricordi, immagini,frammenti: sembra che esista una forza sco-nosciuta e indomabile capace di agitare il miointimo. A volte, devo persino fermarmi,smettere di scrivere, per lasciar decantare iltutto, inoltre, non posso evitare d’identificarmifin nel midollo con il personaggio di cui narrole vicende: io sento, penso, agisco come lui,tuttavia, ho idea che questo avvenga a ogniscrittore che crede davvero in ciò che scrivee lo ritiene importante prima di tutto per sée dopo per gli altri. Sapete, pare che Flaubert,dopo aver descritto la morte di MadameBovary si sia messo a vomitare: quest’attotestimonia la sua identificazione con il perso-naggio, ma anche una volontà di liberarsi daun peso opprimente. La scrittura è liberazione,catarsi, respiro, è un modo per indagare sestessi e comunicare con gli altri”.

L’intevista

“In questo libro, io parlo soprattuttoalle nuove generazioni: è giusto cheesse sappiano cos’è accaduto, perchéla vergogna per il passato non deveassolutamente tramutarsi in unoscudo di omertà storica”.

LECCE • Via Nazario Sauro, 16/A

Rosetta LoyLa parola ebreoEinaudi, 1997

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ISPIRATO AL ROMANZO DI ITALO CALVINO,UN RACCONTO IN FORMA DI POESIAATTRAVERSO GLI OCCHI DI UN BAMBINO

Re/Visioni

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di Letizia Avantaggiato

Il sentiero dei nidi di ragno

della lotta,quella lotta che è in tutti noi,che si sfogain spari,in nemici uccisi,in un odioselvaggio, crudele,tormentatodalla morsa del riscatto,dalla pauradi non aver nulla da cambiare,nulla da difendere.

Tu,nemica scoperta degli uomini,tu,carnefice della nostra redenzione,perché ti ostini a condannarmiad un eterno vagabondare,bambino povero e sperduto?Un giorno sarò grandee potrò essere cattivo con tutti,vendicarmi di quelliche non sono stati buoni con me.

Sarò grandecon la mia pi- trentotto,seppellita in una nicchianella parete erbosadove sono i nidi di ragno.Quello è un posto magicoche solo io conosco.Laggiù potrò fare strani incantesimi,diventare un re, un dio.Sarò grande.Farò il partigiano per conto mio,ammirato, temuto, rispettato,conteso in battaglia.Nessunopotrà più conficcarmigli aghi dei cinturoni nelle guance,nessunomi manderà a sotterrare i falchi,nessunomi dirà più: “Dài, Pin,

Non c'è nulla di più doloroso al mondoche esser cattivi.Tu me lo insegni.Sono solo.È triste essere come me,un bambinonel mondo dei grandi,sempre un bambino,trattato come qualcosadi divertente e di noioso.Tu, solo tuhai costrettome, noi,loro, tuttia sputare quel marcioche lievita nella coscienza,picchiati, umiliati,sudici di pidocchi,incrostati di sudore e polvere,buttati sulla pagliain silenzio,con le divise a brandelli,le scarpe a pezzi,i capelli e la barba incolti,con le armi che ormaiservono soloa uccidere gli animali selvatici.

Tu, solo tuhai resome, noi,loro, tuttibelve assetate di sangue,larve cannibaliaffamatedi corpi putridi e cavernosi.Noi, loro,io, tuttispintida quel furore antico,da quel peso di maleche si annidanelle piaghe delle nostre storture,della nostra miseria umana.È tutto qui il significato

Protagonista del romanzo è Pin, un bambino proveniente dal mondo della malavita,costretto a confrontarsi con gli anni dell'occupazione nazista in Italia. Pin è cocciuto,vuole appartenere al mondo degli adulti e non si ferma dinanzi a nulla: la prigione,le angherie dei tedeschi, la diffidenza dei partigiani logorano la resistenza solitariadel protagonista, pronto ugualmente a ottenere il suo scopo. Unico conforto è lavicinanza del Cugino, partigiano deluso dalla vita, al quale il piccolo rivela se stesso,trovando il coraggio di condurlo al suo nascondiglio, il “sentiero dei nidi di ragno”.

Italo CalvinoIl sentiero dei nidi di ragnoMondadori, Milano, 2005

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cantacene un po’ una!”

Sarò grande.Non sarò sporco traditore,Pelle,con il suo odio anonimo, sbagliato,con la sua cieca disperazione,con la sua furia spietatacontro di loro,i suoi compagni di ieri,furia senz'odio o rancore,come in un gioco tra compagniche ha per posta la morte.

Sarò grande.Non sarò malato comandante,il Dritto,malato da non poter più stare,da non poter più resistere.Uomo alla deriva,carogna a tutti i costitra i seni dell'amante,predatore di nauseante compassione,flebile respiroalla minaccia della forca,cercata, voluta,trovata.

Sarò grande,uno della banda,fedele berretto russodi Lupo Rosso.A ogni colpo incassatodalla brigata nera,a ogni bomba ad orologeria,a ogni spia che sparisceunanime il sussulto: l'innominato!

Sarò grande,ma adesso bambino,piantonato nel mio regno,nel mio posto magico,dove fanno il nido i ragni.Sorge un'ombra:un omone

con la faccia camusacome un mascherone da fontana.Si dice nemico giuratodelle donne,il solo schifatodi quella rana pelosadi mia sorella, la Nera.È un uomo come tutti gli altri,il Cugino,ma l'ultima personache mi resta al mondo.Mi prende per manola sua mano grandissima,soffice e calda,e non ho più paura,non sono solo.

Tu,grande macchina,spinta da piccoli gestiquotidiani,rompi gli ingranaggidel tuo incessante circuito,in cui tutto deve essere logico,in cui tutto si deve capire!Avanzano impetuosele ragioni individuali,si eclissano inesorabilile ragioni collettive.Se tu sei il mio domaniio sono il tuo presente:se c'è la storia,c'è che noisiamo la storia.

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Scrivere è sempre nasconderequalcosa in modo che venga scopertoItalo Calvino

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à, dove sono morti uomini, hanno piantatoalberi. Si ergono alti, ma secchi, come vestitia lutto attendono l’inverno impassibili. Ioguardo quei rami scheletrici e penso: cosìerano le ossa dei morti, così pulite dalle

carni, consunte, certo non ruvide come legno. Emi chiedo: forse, è solo apparenza? Anche gli alberi,sotto l’impenetrabile corteccia, tremano di paura,perché loro potrebbero tornare. Accompagnati dalclamore della folla, preceduti dal rumore degliscarponi ferrati, aprirebbero ancora il maledettocancello: Arbeit macht frei.“Lavoriamo, dunque! Abbattiamo questi alberi cheimpediscono al sole di splendere sulla nostra vittoria!Lavoriamo affinché si affermi la sola libertà a noisacra: annientare chi non può difendersi.”Il cancello cigola, geme, strazia e i passi ferratirisuonano sempre più vicini, si odono schiacciareresti di foglie accartocciate. Ecco, loro sono qui,sono tornati! Sradicano i tronchi e li bruciano neiforni: disprezzano questo legno pavido e marcioe non sanno che a farlo marcire è stata la paura.Appoggio le labbra alla corteccia: “Avete visto? -domando - Conoscete l’orrore?”Gli alberi mi rispondono: “Di quale orrore parli?”Capisco, allora, di aver preso un abbaglio: no, nonerano qui questi alberi, essi ignorano i cadaveriammucchiati al sole - quasi carne da macello - , ivivi vaganti con occhi incolori, spiritati specchidi anime a brandelli e le urla tonanti degli aguzzini:“Ah, ti abbiamo in pugno finalmente! Traditoredella patria, vergogna dei lavoratori, escremento dinatura, porco d’un comunista, d’un ebreo, d’unpervertito!” E la macabra sinfonia della tortura:“Spogliati! Nudo, come un verme e steso su queltavolaccio! - Ma questi alberi non hanno visto, nonhanno udito, non c’erano. E noi? Forse noi c’eravamo?Io c’ero? Eccomi, ora sono qui, ma ora è tardi.Intirizzisco avvolta nel mio cappotto: fa freddo e, tuttavia, non ho alcun diritto di lamentarmene.Prima di me troppi uomini hanno patito un gelo ben più intenso e nessuno poteva dirlo,bisognava soffrire in silenzio. Mi sembra ancora di vederli, ammassati nella Piazza dell’Appello:indossano la divisa a righe, eppure rimangono immobili, coperti soltanto da una camicia sottilee un paio di pantaloni. Non possono stringersi gli uni agli altri per succhiare dai corpi deperitil’ultimo calore vitale: dalla torre di guardia si affaccia, nera e puntata diritta sulla piazza, unamitragliatrice. Qualsiasi movimento è sospetto e chi l’ha compiuto rischia di essere scaldatodal fuoco dei proiettili.Ma gli alberi non sanno: non era legno dei loro tronchi quello di cui erano costruiti i letti.“Letti”, che nome altisonante per poche assi messe insieme senza alcun riguardo per la normalestatura di un individuo: impossibile distendere le gambe. E in uno stesso giaciglio si dormivain due, in tre: subito, i compagni di letto diventavano anche compagni di malattie. Così sipropagò l’epidemia di tifo, ultimo pedaggio prima della liberazione: infinite anime fuggivanoallora dai corpi sfatti e forni crematori divoravano senza tregua. Fumi di rinnovati sacrificiumani salivano ad un cielo senza Dio.Anche i forni crematori ho visto, ricevendo strane impressioni da quelle bocche di fuoco ormaispente: mi parevano le caldaie di una nave dell’Ottocento e immaginavo mozzi con la faccia neradi fuliggine affaticarsi a spalare il carbone. E un bimbo innocente li confonderà senza indugiocon i forni nei quali si cuoce il pane: enormi pagnotte per sfamare i poveri del mondo, tutti, comenel paese di Bengodi. A quel bimbo ancora speranzoso nel domani, noi non avremo il coraggiodi dire la verità: perché scacciarlo tanto presto dall’Eden dell’infanzia? C’è sempre tempo pervedere Caino che uccide Abele. A scuola, forse, gl’insegneranno ed egli ci odierà non per avergliraccontato la favola della bontà umana, ma perché la bontà umana è soltanto una favola.Presto, nascondiamo gli scarponi ferrati! Il bimbo non deve accorgersi che continuiamo adindossarli, un’ anima senza colpa non deve sapere di esser nata dagli eredi degli antichi carnefici.Saremo noi a sradicare gli alberi di Dachau e faremo stridere la chiave nella serratura delcancello arrugginito: Arbeit macht frei. Dobbiamo temere la nostra ombra non meno di quelladel passato e nasconderci alla vista di chi, per la tenera età, potrebbe assimilare facilmente ilpessimo esempio.No, nessuno perdoni il male commesso, nessuno osi trovare giustificazioni sperando, così, discagionare se stesso e le sue mani sporche di sangue. E voi, amici alberi, quando le vostrechiome torneranno verdi e fluenti, ripetetelo con lo stormire delle foglie al vento: nessunaindulgenza, nessun perdono per gli assassini! E siate testimoni per chi verrà, ognuno devesapere: Die Wahrheit macht frei.

“SIATE TESTIMONI,OGNUNO DEVE SAPERE:LA VERITÀ RENDE LIBERI”

Visioni

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di Eliana Forcignanò

Gli alberi di Dachau

“Ah, ti abbiamo in pugnofinalmente! Traditore della patria,vergogna dei lavoratori,escremento di natura, porcod’un comunista, d’un ebreo,d’un pervertito!”

illustrazione: Annalisa Macagnino

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di Ippolito Chiarello

a vita è un apostrofo rosso tra le parole r’esistere.Sono nato il 27 gennaio del 1967 e molti anni dopo mi sono accorto che in questogiorno, ogni anno, si celebra la Giornata della Memoria. Sembra quasi un destino,ma gradualmente, o forse da sempre, la mia vita si è adagiata su un cammino“entusiasmante” di sopravvivenza e resistenza attiva. Resistere all’amore, resistere alquotidiano, resistere al lavoro, resistere all’ordine, resistere ai sogni, resistere ai

compromessi, resistere al Sud, resistere alla politica, resistere alle parole vuote, resistere allepromesse inutili, resistere alla fuga, resistere, resistere, resistere…. È un’attività nobile perl’uomo, da insegnare a scuola fin da piccoli, da predicare in famiglia, da praticare nell’aggregazionesociale. Allenarsi alla resistenza produce anime pensanti e riduce la mediocrità del viverepassivamente nell’attesa che qualcun altro lotti per noi. Resistenza presume l’impegno in primalinea nella propria vita e di riflesso nella comunità, grande o piccola che sia (famiglia, gruppo,paese, nazione, mondo, universo, costellazione...).Ogni resistenza virtuosa produce o anela sempre a una scelta o a un risultato migliore. Èinutile pensare, oggi più che mai, di poter vivere senza praticare la nobile arte della resistenza.Qualcuno ha relegato questo termine alla più nota Resistenza Europea durante la SecondaGuerra Mondiale contro il nazismo e il fascismo imperanti, non accorgendosi che ogni giorno

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Esistenze

L

R’esistere“OGGI LA GUERRA È ALZARSI LA MATTINA,IMBRACCIARE IL NOSTRO FUCILE-CELLULAREE BUTTARCI URLANDO TRA LE LINEE NEMICHE”L’ATTORE E REGISTA IPPOLITO CHIARELLOPARLA DELLE SUE LOTTE QUOTIDIANE

Ippolito Chiarello nasce a Corsano (Le)il 27 gennaio del 1967. Dopo l’esperienzacome osservatore del lavoro di Dario Fo, nel1995 incontra la Compagnia Koreja e iniziala sua carriera da attore professionista misu-randosi con lavori sempre più impegnativi(Giardini di Plastica, Acido fenico, Brecht’sdance), sia come attore (Il Piccolo di Milano,Il Valle di Roma, La Fenice di Venezia per labiennale, in Canada, Francia, Spagna, Grecia,Albania, Egitto) che come pedagogo teatrale(Università di Lecce e di Tirana, Istituti diIstruzione Superiore, Istituti di pena e psi-chiatrici). Ha partecipato a progetti cinema-tografici come attore in Albania e in Italia(Illy Pepo, Aldo, Giovanni e Giacomo; Wea-speare, Fluid Video Crew, Gianni De Blasi,Fabrizio Colucci, Roberto Quarta, Sky Disco-very Real Time) e video musicali (ValentinaGiovagnini, Sud Sound System). Firma comesoggettista, sceneggiatore e regista il corto-metraggio “Fumo” che nel 2006 diventeràun film e spots pubblicitari per la comunitàeuropea (Progetto Helianthus)e importantiditte nazionali. Attualmente è impegnato nellospettacolo Oggi Sposi di e con Ippolito Chia-rello, allestimento drammaturgico di SilviaRicciarelli e regia di Maria Cassi di Aringa &Verdurini e con il maestro Luigi Bubbico alpianoforte e alla cura delle musiche.• [email protected]• http://ippoforum.splinder.com

Prima sii libero,dopo chiedi la libertàFernando Pessoa

di più forse l’uomo, più che lottare peresistere, lotta per r’esistere. Una praticaquotidiana necessaria.Oggi non c’è la guerra, o meglio, la guerraè ovunque, ma ci sembra di viverla solocome notizia. Oggi la guerra è alzarsi lamattina, imbracciare il nostro fucile-cellularee buttarci urlando tra le linee nemiche, unnemico invisibile ma tremendamente pre-sente: un lavoro che non riusciamo a“toccare” con mano, una donna o un uomoche non riusciamo a “prenderci”, una terravergine che ci coccola cu lu sule, u mare, uvientu, ma a volte non ci dà il pane, unaclasse dirigente “povera” di sogni, un’umanitàdiffidente, il freddo umido che ti penetranelle ossa, la inevitabile e predicata disonestàper poter sopravvivere.Quelli che non riescono a r’esistere, moltospesso, scelgono di non esistere, cancellanola “r” e l’apostrofo rosso e aggiungono unnero “non”.Mi fa impazzire sentir dire che non sipuò fare niente, non si può fare resistenzacontro l’ordine costituito delle cose. Uomosei destinato ad arrenderti… a chi poi?A te stesso… in fondo l’uomo pratica laresistenza contro un comportamento diun suo simile o gruppo.Io esisto perché r’esisto. Nella mia vita, daquando avevo 16 anni, ho smesso di esisteree ho iniziato a r’esistere. Molto spesso hoavuto momenti difficili, ma mai ho accarez-zato l’idea di arrendermi. Fare l’attore econtemporaneamente riuscire a campare diquesto lavoro non è facile. Lavorare al Sudè ancora più complesso se non si hannospalle larghe e predisposizione ai sogni e alleutopie. Ogni giorno bisogna ricominciareda capo. Io preferisco annegare piuttosto chegalleggiare. Scelgo di resistere per sentireche sono vivo e per fare quello che ho sempresognato. Questa resistenza molte volte dàfastidio e ti porta all’isolamento, ma in unpercorso lungo una vita ti ripaga abbondan-temente.Resistere all’amore mi ha portato a conoscerlomeglio, resistere alle difficoltà mi ha allenatoalla vita di ogni giorno, resistere al Sud miha insegnato a conoscerlo e ad amarlo e anon partire, resistere alle incertezze del miolavoro di artista mi ha portato a diventareun bravo professionista e spero un uomo.

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Africa

REPORTAGE

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l pomeriggio mi ritrovo a fumare con mia madre: ho voglia di ricordare, di farmischiaffeggiare da immagini appena vissute e viste scomparire troppo in fretta,ma non di parlare.Da quando sono rientrata mi sono trincerata in una bolla d’innaturale mutismo:

una mancanza di parole, ma anche un tentativo di mettere ordine nello stato diconfusione puro che sto vivendo.Appena arrivata a Bari, al di là dello stravolgimento fisico per il cambiamentodi temperatura (giusto 30 gradi di differenza...), ho avuto una reazione stranissima,come se i miei sensi stessero percependo odori, ritmi, luci che il mio cervellonon riusciva ad elaborare e riconoscere. Come se per un mese avessi spazzatovia le caselle, i nomi, le coordinate della mia solita vita. Mi sono sentita svuotata,stordita. Per un giorno intero ho avuto paura a uscire di casa, forse per il timoredi reinserirmi in un nuovo e diverso segmento della mia vita e di cercare dinuovo una direzione da darle.Pochi giorni dopo, presa la rincorsa, mi sono lasciata travolgere da un vortice disituazioni, persone e chiacchiere vuote, a una velocità tale da darmi la singolaresensazione di star vivendo a 300 all’ora, quasi nel tentativo di non dare spazio evoce al mio malessere. Faccio cose, vedo persone. Penso realmente di star vivendoun piccolo shock: mi manca tutto. Il calore di tutte le persone che ho incontrato,la loro immediatezza, i loro sguardi pronti ad accogliere quello che accade intorno(ieri camminavo per strada e mi sentivo sola: persone che camminavano con l’ariaassente e la mente rivolta solo a sé), ma anche il caos per le strade, le galline tenuteper le zampe, i bambini bolliti sulla schiena delle loro mamme, il caldo che ti togliele energie, il costante senso d’inadeguatezza e di disagio, i tramonti, la polvere, ipiedi sporchi, il niente che circonda Ouaga...Chi l’avrebbe mai pensato che un luogo che sprofonda nell’ignoranza occidentale,escluso dai percorsi turistici e dimenticato anche da chi ci abita e non vedel’ora di lasciarlo, chi avrebbe creduto che sarebbe riuscito ad annientare tuttii rigidi schemi in cui mi proteggevo, a schiacciare quella che ero sino a farmisentire persa, priva di appigli?Questo viaggio mi ha segnata, come i tagli sui volti dei Burkinabè. È come unospirito che si è intrufolato con forza dentro di me, creando scompiglio.

I

di Elisabetta Lapadula

IL BURKINA FASO, TERRA D’AFRICA, TANTO PIÙ POVERA DIBENI MATERIALI E INSIEME TANTO PIÙ RICCA DI SIGNIFICATIE VALORI RISPETTO ALL’OCCIDENTE INDUSTRIALIZZATO.ELISABETTA, L’AUTRICE DI QUESTO DIARIO DI VIAGGIO, È UNASTUDENTESSA ANDATA IN BURKINA PER RAGGIUNGERE IL

Africamon amour

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L’OSSERVATORE IN CAMMINO 13

Le prime esplorazioniOuagadougou, 4 aprile 2005(…) Ho cominciato a uscire, girando per lopiù a piedi o in taxi (anche il prezzo dellacorsa, come tutte le cose qui in Africa, vienedeciso su contrattazione e soprattutto in baseal colore della pelle: se sei “nassara” il prezzoè sicuramente il doppio del normale), e avagare per l’immensa Ouaga.Dico vagare perché, nonostante si tratti dellacapitale del Burkina Faso, Ouagadougou nonha praticamente nulla da offrire ad un turistadoc: non ci sono chiese da visitare, palazzi daosservare, monumenti da fotografare e l’unicomuseo della città è chiuso da tempo.Trascorro le mie giornate vivendo per le stradedi una capitale totalmente diversa da quelleche la logica europea definirebbe tali, respi-rando l’aria satura di smog e di terra rossa (sì,terra! Tutte le strade qui sono prive di asfalto,oltre che di illuminazione, a esclusione dellearterie principali della “centre ville”), storden-domi per il caldo che diventa sempre menosopportabile. (…) Mi lascio quotidianamenteattraversare, e talvolta dilaniare, da visioni eodori che la mia mente e il mio cuore nonavrebbero mai immaginato di ospitare, dalledecine di persone che conosco ogni giorno(sebbene il mio francese faccia veramentepietà): persone che cercano soldi, che voglionochiacchierare, che cercano di venderti qualsiasicosa perché sei un “bianco pieno di soldi”,uomini che mi chiedono senza troppi proble-

mi il numero di telefono e mi chiedono diuscire o, nella migliore delle ipotesi, di sposarli.No, non è una battuta: sono molto gettonata.Penso sia per le mie dimensioni: consumopoco, occupo poco spazio e ci vuole pocastoffa per confezionarmi vestiti.Ironia a parte, credo che vedere una donnabianca girare da sola sia per loro simbolo dichissà quale libertà, per cui si permettono dirichiamare la mia attenzione, cosa che nonsi azzarderebbero mai a fare con nessun altro,credo, ricorrendo a versi di tutti i generi - dalclassico “psss” ai bacetti volanti, a urla come“ooohh” che tanto mi ricordano la mia caracittà natale - o gridandomi : “nassaraaa!!”,oppure “la blanche!!”, oppure: “la belle!” peri più romantici. Non è piacevole, ve l’assicuro.Sai di non poterti mai mimetizzare e sognidi poter lasciare a casa, almeno per un giorno,la tua buccia pallida e tutti i suoi significati.

L’Altro inaspettatoVenerdì sono stata al CASO, struttura co-struita dai Camilliani che offre gratuitamentericovero e assistenza ai malati, prevalentementedi AIDS, o, come si chiama in francese,SIDA, (a differenza di tutte le altre struttureospedaliere qui in Burkina, che sono a paga-mento). Fino a quel momento non ci ero maistata perché “ti risparmio il CASO per iprimi giorni”: queste erano state le parole dimio fratello.La strada che abbiamo percorso per raggiun-

FRATELLO GIUSEPPE, MEDICO SPECIALIZZANDO IN MALATTIEINFETTIVE CHE IN AFRICA COMPLETAVA IL SUO TIROCINIO.QUESTO VIAGGIO HA RAPPRESENTATO PER LEI UN’ESPERIENZADI MATURAZIONE, A CONTATTO CON UN’UMANITÀFORGIATA DAL DOLORE E DALLA CONTINUA LOTTA PER LASOPRAVVIVENZA. QUI ELISABETTA HA INCONTRATO L’ALTRODA SÉ, HA DONATO E RICEVUTO IN UNO SCAMBIO DAPPRIMATIMIDO E INCERTO, POI SEMPRE PIÙ VIBRANTE E APPASSIONATO.

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REPORTAGE

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gerlo attraversa la zona più povera che sinoad ora avessi visto in tutta Ouaga: sterratanaturalmente, brulicante di gente, di bambinilaceri e scalzi, di polli, capre, rifiuti e cattiviodori. Nessuna abitazione come ce le imma-gineremmo noi, cioè in mattoni e cemento,ma solo costruzioni in terra, terra rossa natu-ralmente, come quelle che finora avevo vistosolo nei villaggi rurali. (Ho fatto uno sforzoenorme per descrivere, anche se così in gene-rale, tutto questo. Provo un enorme fastidioe timore nel disegnare con le mie parole dallapancia piena questo tipo di situazioni, le stesseemozioni che, assieme al rispetto per l’altro,m’impediscono di fotografare. Sento repul-sione verso me stessa, per cui perdonatemise in futuro le immagini descritte sarannocarenti di particolari o insufficienti per lavostra immaginazione. Forse, al mio ritorno,la distanza provvederà a lenire queste sensa-zioni spiacevoli e a farmi sentire di nuovopadrona dei miei racconti).Arrivati al CASO, l’impatto è stato moltopiù forte del previsto, anzi di quello che nonavevo previsto, dato che sulla strada non miero preparata a nulla, lasciandomi totalmenteassorbire da tutto quel movimento che osser-vavo dal finestrino nella nostra auto climatiz-zata e che in alcuni momenti avrei desideratonon vedere.Varcato il cancello, sono stata aggredita daun’immagine che non credo dimenticherò:figure di una magrezza mai vista, mai imma-ginata, di una magrezza che ti fa contare tuttii tubicini blu sotto la pelle. Persone senzamuscolatura, senza forza, dalle articolazionidalle forme singolari, persone che ti domandicome facciano ancora a sorriderti, a stringertila mano e a chiederti: “Come stai?”.Credo che il mio cervello abbia sospeso lesue funzioni per un po’ perché, senza accor-germene, mi sono rinchiusa in un innaturalee prolungato mutismo. Poi, per quanto siaumiliante ammetterlo, è cominciata a montarela paura: ho iniziato a passare in rassegnatutte le ferite che avevo sul corpo, dalle piccolepiaghe ai piedi ai graffi sulle braccia. Questeerano le immagini che prepotentementeoccupavano la mia mente, come se qualcunoal posto mio avesse deciso ch’era arrivato ilmomento di fare un check-up al mio corpo.Pian piano, questi pensieri sono tornati lungola strada da cui erano provenuti, quando sonoriuscita a recepire e a lasciarmi coinvolgeredall’umore sereno di frati, infermieri e pazienti.Questa esperienza ha bruscamente laceratola membrana che mi teneva separata dall’Altro- questa è la sensazione che ho avuto -, chepreservava me stessa dal resto e che mi rendevasolo spettatrice attraverso un vetro insonoriz-zato.Basta. Mi sono svuotata. Pardon, non riescopiù a scrivere.

La visita a Gorom GoromOuagadougou, 11 aprile 2005Di ritorno dalla visita al CASO e dopouna traversata prevalentemente su stradesterrate e in cattive condizioni, tra polveronidi sabbia che entravano dai finestrini -obbligatoriamente aperti per evitare didiventare un bollito misto-, vibrazioni dashakeraggio degli organi interni, continuisbalzi e scossoni e un costante dondoliodel nostro sedile rotto, che con grandeintelligenza avevamo scelto appena saliti,tra donne dai seni smunti che allattavanoi propri bambini e galline starnazzanti,siamo giunti a destinazione.Appena scesi dall’autobus, siamo stati accer-chiati da una frotta di ragazzi: chi si offrivacome guida, chi come accompagnatore, chiper un passaggio, chi per proporre un hotel,chi per un’iniziale innocente chiacchiera perpoi proporti qualcosa da comprare. …Potete

BURKINA

Il Sahel è una regione dell’Africa subsahariana,caratterizzata da una forte povertà socio-economica.In questa area geografica è sito il Burkina Faso,un tempo Alta Volta, dove coesistono più di 60gruppi etnici con caratteristiche sociali e culturalidiverse. Le origini del Burkina Faso risalgonoall’impero dei Mossi e, al contrario di altri paesiafricani, l’amministrazione dell’impero è semprestata gerarchica. Per proteggere il regno furonocreate assemblee legislative e struttureamministrative per fronteggiare l’avanzata deivicini popoli musulmani. Questo spiega perchéil Burkina Faso è ancor oggi uno dei pochi paesidell’Africa occidentale, non a prevalenzamusulmana.Sebbene il Burkina Faso sia da sempre uno trai paesi più poveri al mondo, i suoi abitanti sononoti per l’ospitalità e l’ottimismo, e nonostantedispongano di limitate risorse economiche enaturali, sono stati in grado di erigere un paeseculturalmente sofisticato.Gli abitanti del Sahel devono lottarecostantemente con un ambiente naturalemarginale e deteriorato, pochi mezzi disussistenza, scarsi servizi sociali di base, laminaccia di epidemie di HIV/AIDS e la costantepossibilità di situazioni d’emergenza a causadi siccità e penuria di cibo.In questa difficile realtà, la condizione deibambini é molto fragile, dato l’alto tasso dimalnutrizione, le precarie condizioni sanitariee l’accesso ai servizi sociali di base non sempregarantito. La situazione dei minori èulteriormente aggravata dal lavoro nero cuisono costretti per il sostentamento familiare.La diffusione dell’HIV/AIDS tra bambini eadolescenti in Sahel, secondo dati ufficiali,riguarda il 7% in Burkina e tra il 3 e il 4% inMali. Tuttavia, in molti pensano che i dati sianomolti più alti e che la situazione stiadegenerando, soprattutto a causa dellemigrazioni.Anche la condizione delle donne in BurkinaFaso presenta elementi drammatici: il 76 percento dei soggetti è stato sottoposto a unaqualche forma di mutilazione dei genitalifemminili (MGF). Questa pratica, che costituisceuna delle più gravi violazioni dei diritti umanidelle donne, con conseguenze permanenti sullasalute psico-fisica e che, contribuisce all’altotasso di mortalità materna del paese e facilitala diffusione dell’HIV/AIDS.

BURKINA FASO

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immaginare che piacere questo assalto quandosi ha il cervello in panne per la stanchezza!Un po’ per liberarci da questo piccolo assedio,un po’ per necessità, abbiamo chiesto unpassaggio per l’albergo, dove avevamo decisodi alloggiare per un semplice motivo: l’unicocon aria condizionata.E così, in parte su un carretto trainato da unasino (il mezzo di trasporto più utilizzato),in parte a bordo di un’auto di uno sconosciuto,siamo arrivati in albergo.Sulla via della decomposizione e in procintodi avere le allucinazioni, abbiamo chiesto dipoter mettere qualcosa nello stomaco primadi andare a dormire e, durante l’attesa (nonso se in tutta l’Africa, ma sicuramente inBurkina i tempi di attesa sono qualcosa diestenuante, soprattutto se hai fame. Nonsolo nei ristoranti, ma anche nelle banche,negli uffici, ovunque, ti devi predisporre adaspettare almeno un’ora e mezzo, un’ora sesei fortunato: qui nessuno ha fretta, c’èsempre tempo per la chiacchiera e per itempi rilassati), siamo stati raggiunti da dueragazzi che si proponevano come guide(anche per questo occorre una digressione:qui non esiste privacy, chi vuole si siede altuo tavolo e inizia a parlare, in genere perrifilarti qualcosa con grande stile, e si alzasolo al momento dell’arrivo del pasto).La mattina seguente, dopo una nottata glacialeper il condizionatore in camera che nonpoteva essere regolato e che ci aveva sparatoaddosso un vento nordico per tutta la notte,ci siamo alzati alle 5 per essere alle 6 nellapiazza principale di Dori e poter prendere iltaxi-brusse (una sorta di pulmino, in generescassatissimo, che, riempitosi ben bene digente fino a scoppiare e a farla morire diasfissia, parte per raggiungere tappe fisse) allavolta di Gorom Gorom.Dopo un tempo interminabile di viaggio,siamo arrivati nel villaggio di Gorom Gorom,dove il giovedì si tiene un grande e coloratomercato in cui le diverse etnie che popolanoil Sahel, Touareg, Bella e Peule e Songhai,convergono al centro del villaggio per ilcommercio di alimentari, di bestiame, tessutie altri articoli.Per tutta la mattina, condotti da un gruppettodi bambini che si erano proposti come guidein cambio di un pallone, abbiamo attraversatoil mercato mangiucchiando noccioline, datteri(che ora non voglio vedere più per almenoun anno) e quintali di sabbia, che inevitabil-mente finisci con l’ingurgitare appena apri labocca, o anche semplicemente respirando.Perdonatemi la mancanza di classe, ma lodevo dire: è stato fantastico soffiarsi il nasoe vedere uscire muco rosso-marrone..Alle 3 di pomeriggio, dopo una breve riunionedi frasi sconnesse, abbiamo deciso di tornarea Dori, questa volta a bordo di un autobus.

(…)Venerdì mattina eravamo in giro con lanostra guida, Coket, uno dei due ragazzi chedue sere prima non ci aveva laciati scappare.Dori è un villaggio che affonda tra la sabbiachiara, brulicante di asini, galline, mucche ecapre più che di persone. È abitato per lo piùda Peules e in parte da Bellas, etnia origina-riamente schiava dei Touareg e che si distingueper le caratteristiche abitazioni in paglia e perle sue donne, abbigliate con vestiti coloratis-simi, decorazioni in argento tra i capelli, aipolsi, alle caviglie e orecchini talmente pesantida ridurre le loro orecchie a delle fragili formedi groviera scura.Dopo un giro su quello che dopo la stagionedelle piogge diventa il letto di un barrajii -sono chiamati così i laghi artificiali - e che inquel momento mi sembrava la superficie diun’altro pianeta, talmente secca da esserecrepata, Coket ci ha portati a gironzolare peril mercato, dove, tra spezie e odori sconosciuti,

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noci di cola, verdure, carne alle mosche eanimali anoressici, si è procurato l’occorrenteper cena e colazione sulle dune.

Una proposta di matrimonioandata in fumoOuagadougou, 12 aprile 2005Siamo stati anche a Bani e qui -come se daun paese all’altro si fossero comunicati lapresenza di 2 Toubakou ( che significa “bianco”nella lingua peule, il Foufouldè) siamo statiimmediatamente accolti da un energumenodall’acre odore di sudore stantio che ci pro-poneva la visita guidata del villaggio, delle 9moschee di fango per cui è noto, più il per-nottamento presso il suo hotel. Non ci abbia-mo pensato su molto prima di accettare, datoche si trattava dell’unico albergo del paese:una costruzione di fango, che riproduce lafacciata della grande moschea, con quattrostanze minuscole con tetto e porta in lamiera.La nostra stanza, l’unica occupata natural-mente, consisteva, come le altre 3, in unaspecie di tana di larghezza pari a un materasso,gettato a terra nella polvere rossa, più unospazio largo giusto un piede. Un vero lusso.“Naturalmente non dormirete là dentro per-ché fa troppo caldo” ci dice l’energumeno eci mostra una specie di chaise-longue a duepiazze in canna di bamboo.Dopo averci condotto in giro per il paese efatti arrampicare sulla collina sacra dove siergono sette moschee in fango -bellissime -e da dove si godeva di una vista meravigliosadel paesaggio saheliano alla luce del tramontoe del villaggio, che visto dall’alto sembrava

un ordinato plastico, la nostra guida ci hacondotto dal poliziotto per lasciare i nostripassaporti per la registrazione e poi nuova-mente in albergo.Non lavandomi da più di ventiquattr’ore, nonvedevo l’ora di farmi una doccia per scrostare- non sto esagerando - la sporcizia che mi siera impastata addosso assieme al sudoreconferendomi un bel colorito bruno-rossastro.Quando ho chiesto al nostro albergatore dovefosse il bagno, mi ha accompagnato all’internodi una piccola costruzione fuori dall’albergo,anch’essa in fango con porta in lamiera, masenza chiave e senza tetto, in modo da osser-vare con grande relax il passeggio per la stradae le attività dei vicini. Una cabina divisa indue parti, ciascuna provvista di un buco sulpavimento.Evitandomi l’imbarazzante domanda: “Qualè la doccia e quale il cesso?”, il mio accompa-gnatore ha chiamato un ragazzo e gli haordinato di portare l’acqua.In attesa del suo ritorno, giusto per intratte-nermi, mi ha chiesto di rimanere lì con lui,di sposarlo e, sentendo i miei “No, merci”pronunciati col sorriso stolido, che in queimomenti è l’unica smorfia che la mia facciariesce ad assumere, ha iniziato ad argomentareagitando la mano a mezz’aria come se volessescacciare le mie parole come un pugno dimosche: “In Europa siete lenti. Prima disposarvi ci mettete anni per conoscervi. InBurkina bastano 2 mesi” e, sfoderando la suasaggezza: “Due mesi bastano per conoscereuna donna: apprezzi la sua bellezza, la suagentilezza, la sua cucina”. “Stasera usciamoinsieme perché ci sono alcune cose che dob-

“In Europa siete lenti. Prima disposarvi ci mettete anni perconoscervi. In Burkina bastano2 mesi. Due mesi bastano perconoscere una donna: apprezzila sua bellezza, la sua gentilezza,la sua cucina”

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biamo discutere insieme”.“Viene anche mio fratello” ho detto, nonsapendo cos’altro dire.Avevo appena iniziavo a visualizzarmi, in-durita dal sole, invecchiata prima del tempo,seduta all’ombra di un albero a cucinarecouscous con un bambino sulle spalle e unmarito sdentato, strabico, più vecchio di medi almeno vent’anni e che rutta per apprez-zare la mia cucina, quando le mie fantasiesono state bruscamente interrotte dall’arrivodel ragazzino con un secchio d’acqua e unamini brocca.Rinfrancati dalla doccia, abbiamo deciso diandare dal poliziotto a recuperare i nostri

passaporti. Non credo potrò mai più vivereuna situazione analoga: appena ci ha vistiarrivare, ci ha chiesto come stessimo e seavessimo fretta.“No”“Allora - indicandoci una panca alle sue spalle- sedetevi qui”.Non sapendo bene cosa fare, abbiamo ubbi-dito e assistito per un paio d’ore, come spet-tatori a teatro, alle sue chiacchiere con gliamici, all’ombra di un grande albero.Calato il buio, reso ancora più nero dallatotale mancanza di illuminazione, il nostropoliziotto ciccione si è congedato dai suoicompagni e, chiamato in aiuto un bambinodi passaggio, ha iniziato a recuperare sedie epanche per riportarle all’interno del suo ufficio.Poi, come se solo in quel momento fossimocomparsi nel suo campo visivo, si è avvicinatoa noi e con molta calma ci ha detto: “Midispiace, ma si è fatto buio e non posso piùleggere i vostri passaporti. Tornate domanimattina alle 7, prima di partire”.

Fantastico! Mi sembrava di essere in unanovella di Calvino: non poteva essere reale…Dopo essermi un po’ attardata con i bambinidel posto, che, come tutti quelli che ho incon-trato fino ad ora, appena incontrano un biancopartono come un disco registrato: “Tu as lesbonbons? Tu as les Photos? Tu as les bala-fous?”, sono rientrata in albergo cercando dinon travolgere nessuno, di non calpestarepolli e di non andare a sbattere contro unamucca di passaggio, e lì ho trovato mio fratelloe il mio promesso sposo nel bel mezzo di unatrattativa. Seduti a un tavolino, alla luce diuna lampada a petrolio, discutevano di ma-trimonio, la prima parola che ho sentitoappena entrata.Dopo avergli assicurato che era la prima voltache faceva una proposta a una sua ospite edetto che ero molto bella, che voleva un figliometiccio e che voleva rimanessi con lui, hachiamato sua figlia al suo cospetto, le hamesso una mano sulla spalla e, rivolto aGiuseppe: “È bella. Guardala. È bella? Cucinabene. La vuoi una donna burkinabè?”Un timido “No, merci” di risposta è bastatoa far alzare e andar via la figlia, ma non afermare le sue occhiate liquide nei miei con-fronti. Mentre con grande abilità si estirpavauna caccola dal naso, mi guarda e mi dice:“Mon chery!”Penso che sia stato in quel momento che hodeciso di prenderlo realmente sul serio e dipensarci su: non ho mai avuto un uomo cosìromantico.Inutile dire che, nonostante la stanchezza, hotrascorso la notte meno riposante della miavita. Peggio che in bianco: un risvegliarsicontinuo in una pozza di sudore o per ilchiacchiericcio e le urla dei nostri vicini (credoche qui la notte non si dorma o, per lo meno,non per fare tutta una tirata).Alle 6 naturalmente eravamo in piedi, condelle facce da museo degli orrori, e, senzaneanche lavarci (durante questo viaggio hoimparato a convivere con la puzza di sudoree con la sporcizia, che sono praticamenteinevitabili in questi posti, a meno che non cisi lavi più e più volte al giorno. Non ho ancoracapito se si tratta di una conquista: ho sicura-mente vinto molte delle mie fissazioni, mami domando se non abbiamo esagerato unpo’), abbiamo raccattatto quelle poche coseche avevamo con noi, pagato il mio maritomancato e corsi, dopo una puntata dal poli-ziotto minchione, alla fermata degli autobus.Davvero delle giornate ricche di sorprese:l’autobus è arrivato in perfetto orario, ma siè fermato lì senza più ripartire: un guasto almotore.“Se non arriva il meccanico da Ouaga, dovreteprendere il prossimo autobus, che è di un’altracompagnia, ma arriva subito. L’autista cercheràdi trovare un accordo per farvi utilizzare glistessi biglietti”.

REPORTAGE

Durante questo viaggio hoimparato a convivere con la puzzadi sudore e con la sporcizia...Nonho ancora capito se si tratta di unaconquista: ho sicuramente vintomolte delle mie fissazioni.

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chiesto in prestito.In pochi minuti avevamo preso posto nelpullman appena arrivato e stabilito con glialtri viaggiatori rimasti fregati che saremmoandati a chiedere il rimborso del biglietto allaSTMB.…State pensando che tutto si concluda così,con un banale lieto fine?Nooo!! Dopo neanche un quarto d’ora ditragitto, sono stata svegliata - sì, mi ero giàaddormentata, di schianto - da un rumoreproveniente dalla parte anteriore dell’autobus,seguito poi da un fischio.“Scendete tutti”: annuncia il copilota.Chiedendomi cos’altro stesse succedendo, hoseguito gli altri.“Si è rotto il radiatore”: sento chiacchieraretra i miei compagni di avventura e nel frat-tempo mi metto a osservare un gruppo diuomini armeggiare con il motore e riempireil serbatoio.E così ci siamo rimessi su strada, col radiatorerotto e una tranquillità che aleggiava indistur-bata sui volti di tutti, fermandoci di tanto intanto presso villaggi o distributori di benzina(Questo lo devo aggiungere: eravamo cosìevidentemente impresentabili, puzzolenti esfatti, che i bambini che accorrono ad ognifermata non ci chiedevano neanchel’elemosina) per rifondere d’acqua il sebatoio.Alle 9 e mezza o forse più eravamo a casa.…Doccia… Lenzuola… Che meraviglia.

Ritorno in ItaliaOuagadougou, 13 aprile 2005Se devo essere sincera, inizio a sentire un po’di nostalgia, anche se, per quanto mi sforzi,non riesco a immaginare come diavolo faròa rientrare tra le coordinate della quotidianità,a ricostruire le abitudini, gli obiettivi, la miascala delle priorità, che ora mi sembrano cosìlontani e irreali da farmi apparire la mia vitaitaliana come una situazione che non miappartiene più e che ormai può solo farecapolino tra i miei racconti.Ci vediamo tra poco più di una settimanaA preeestooo!!

(Fotografie di Elisabetta Lapadula)

LECCE • P.zza Mazzini, 66

Un po’ sollevata, chiedo: “E a che ora arriva?”“Alle 2”Mi è venuto un nodo allo stomaco mentremi prefiguravo le sei ore e mezza di attesa,sotto quel sole che si stava facendo semprepiù forte, senza nulla da fare, bloccati in quelmaledetto villaggio dimenticato dal mondo,ma ho evitato di esternare i miei pensieri pernon perdere completamente il senno, cercandoinvece di ridere e di calarmi in una dimensionenarrativa: una vera impresa.Naturalmente le mie previsioni erano corrette:una mattinata intera trascorsa sotto una ca-panna di foglie intrecciate e canne, stesi perterra, insozzati come mai dalla sabbia che ditanto in tanto si levava violenta contro di noie in compagnia degli abitanti del luogo, serenie completamente abituati a lasciar scivolarvia le ore, tutte uguali fra loro, tra chiacchierevuote e piccole dormite di tanto in tanto.È stato proprio lì, sotto quel tetto di paglia,che ho provato l’emozione - tutt’ora priva dinome - più forte di tutta la mia permanenzaqui in Burkina: mentre mangiavo la miabrochette (una specie di spiedino di pezzettinidi carne impapricati e infilzati in stecchiniartigianali, che viene venduto e si consumaper strada), ho istintivamente sfilato un pezzodi grasso e l’ho gettato per terra.Senza che avessi il tempo di rendermeneconto, è arrivato un bambino, che l’ha raccoltofurtivamente, forse temendo che potessi cam-biare idea, ed è corso a spartirselo con duedel suo gruppetto.Non credo di essermi mai sentita peggio intutta la mia vita. Mi guardavo attorno, forsein cerca di espressioni da assumere, ma quelloche era successo non pareva aver interessatonessuno.Anche ora mi si rivoltano nello stomaco ilsenso di disagio e di inebetimento provati.(…) Penso che andrò avanti con il raccontoper non lasciarmi avvolgere, proprio oramentre scrivo, dallo sconforto.(…)Dicevo: alle 2 e mezza, ormai senzasperanze - avevo persino interrotto il miopassatempo, ovvero tinteggiare di marrone ifazzoletti di carta nell’asciugarmi il sudoredel viso- ho avvistato un pullman in fondoalla strada.“È arrivato! Oh! È arrivato!”“E l’autista di quello che ci ha lasciati a terra?”:lancio nel vuoto.Ci avviciniamo al mezzo in panne e chiediamoa un altro passeggero: “L’autista?”“È tornato a Ouaga in moto” - come se lacosa non lo turbasse affatto.Non avevamo molto tempo per strabuzzaregli occhi, ridere, incazzarci o perderci inconsiderazioni inutili; d’altra parte penso chein quel momento, pur di cavarci fuori daquella situazione grottesca che stava assumen-do sempre più i toni di un incubo, avremmoraggiunto Ouaga anche a dorso di un asino

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ninoamma, oggi

ho intervi-stato una per-sona sieroposi-

tiva. È la prima volta”. L’hodetto a mia madre perchévolevo scoprirne la reazione:si sarebbe impressionata? Miavrebbe risposto che vado sempre acacciarmi in situazioni difficili?Per lei, come per tutte le madridi questo mondo, io sonoancora una bambina, la suabambina cui bisogna ri-cordare di mettere lasciarpa quando esce dicasa, perché “fuori si gela”.“All’inizio, avevo paura:e, per questo, mi sentivola coscienza sporca. - Hocontinuato, evitando diguardare mia madre negliocchi. Certo, razional-mente, lo so che l’HIV nonsi contrae attraverso unasemplice stretta di mano, ep-pure tremavo dentro e mi ver-gognavo di tremare. Ho cercato dinascondere queste sensazioni e credodi esserci riuscita: non volevo ferire la miainterlocutrice”.Mia madre ha atteso che io smettessi diparlare senza interrompermi: mi sono decisaa tarda sera, mentre lei era già sotto le copertee io sedevo sul bordo del suo letto in pigiama.“Anch’io, al tuo posto, avrei fatto l’intervista.Ha finalmente risposto mamma - E, proba-bilmente, anch’io avrei temuto all’inizio. Sidicono tante cose su questa malattia che ènormale lasciarsi suggestionare, no?” Il suotono sereno, partecipe, mi ha invogliato adandare avanti con il racconto del mio incontrocon V., la donna che aveva accettato di aprireil suo cuore a me, una perfetta sconosciuta,che a me e alla mia scrittura si era affidataper comunicare la sua storia e “gettare unsasso nello stagno”, come lei stessa avevadetto. Perché i sassi smuovono l’acqua e,quando qualcosa si muove, c’è sempre lasperanza del cambiamento.V. viene dal Camerun ed è una suora. Nonè stato facile rompere il ghiaccio: mi ha chiestoquanti anni avessi e, sentito che ne avevosoltanto ventidue, ha detto che preferiva nonraccontare la sua storia a una persona cosìgiovane: “Voi giovani siete molto intelligentiin teoria, ma di fronte alla pratica e alla vitareale vi perdete in un bicchier d’acqua”. Horisposto in maniera cortese che non era ob-bligata a dirmi nulla, tuttavia, devo ammettereche rabbia e delusione mi hanno assalito:insomma, lei si era detta disponibile a rilasciareun’intervista e, ora, cambiava idea accampandoil pretesto della mia età. Mi sentivo quasivittima di un’ingiustizia e non capivo che

bisognava soltanto saper at-tendere: non potevo preten-dere di entrare subito in unaquestione così delicata. Sa-rebbe stato come operare senza

anestesia.Abbiamo cominciato a parlare

dell’immigrazione: V. lamentaval’iniquità della Bossi-Fini che co-stringe gli immigrati a rimanereconfinati nei centri d’accoglienzacome fossero reclusi e colpevolidi chissà quali reati. “Questa nonè accoglienza, è rifiuto. Io holavorato in questi centri e viassicuro che lì dentro regnauna grande tristezza. L’Italianon ci vuole: un immigratopuò ottenere il permesso disoggiorno soltanto spo-sando un cittadino italiano,oppure se richiesto da voicome manodopera. Se unbambino figlio di immigratinasce in Italia, questo non

basta a dichiararlo cittadinoitaliano, anzi, fin dalla nascita,

bisogna ottenere per lui il per-messo di soggiorno, altrimenti è

un clandestino. Il rifiuto, però, nonè soltanto da parte delle istituzioni: io sono

stata la prima negra ad arrivare nel paesinodove abito ancora adesso e, nei primi tempi,quando entravo in chiesa, la gente si scostavacon un senso di diffidenza. Io non ho rinun-ciato a recarmi nella casa di Dio per questo,ma so di molti immigrati che, invece, hannosmesso di andare ad ascoltare la messa, perchési sentivano guardati con sospetto. I sacerdoti,allora, dicono che gli immigrati non frequen-tano la parrocchia, ma non si domandano ilperché: chi andrebbe volentieri dove non sisente accolto?”V. vorrebbe essere accolta non soltanto dallagente che incontra tutti i giorni, ma anchedall’ordine monastico di cui ha sempre desi-derato far parte: le clarisse.“E perché non inoltri domanda d’ammis-sione?” Le ho chiesto.“Perché cinque anni fa ho scoperto di esseresieropositiva e, per entrare in una comunitàmonastica, è richiesto di essere in buonasalute. Nessun convento mi accetta così, anchese io non ho intenzione di arrendermi: andròfino in fondo e consulterò la gerarchia eccle-siastica, perché nei conventi c’è uno statod’ignoranza e arretratezza che non può pro-trarsi ancora. La mia battaglia spianerà lastrada per il futuro. Cristo non ha mai fattodistinzione fra sani e malati e, per seguirlo,non c’era bisogno di esibire un certificatomedico”.Quando V. ha pronunciato la parola“sieropositiva”, di colpo, mi sono resa contoche la paura era svanita. Il suo sguardo dolce,

Testimonianze di Eliana Forcignanò

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Come vuoi Tu.“CI SONO PERCORSI CHE, PER QUANTO CI SEMBRINO DURIE PERSINO INTOLLERABILI, DOBBIAMO COMUNQUEATTRAVERSARE. PER CRESCERE, COMPRENDERE DI PIÙE DIVENTARE MIGLIORI DI CIÒ CHE ERAVAMO”.

UNA DONNA SIEROPOSITIVA SCEGLIE DI RACCONTARSIPER DARE TESTIMONIANZA DELLA SUA BATTAGLIA PACIFICACONTRO LA MALATTIA...E CONTRO IL PREGIUDIZIO.

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il tono di voce pacato, i modi gentili ma fermiriportavano la calma nel mio animo primain tempesta. Nella gola mi bruciavano lacrimee, anche adesso, mentre scrivo, mi salgonoagli occhi, ripensando a questa donna che,nonostante tutto, ha ancora la forza di sorri-dere e di pregare.“Quando hai saputo, come hai fatto a nonperdere la fede?” Le ho chiesto.“Senza la fede, avrei perso me stessa. - Miha risposto - “Quando ho appreso di esseresieropositiva, sono stata male, non lo nego.Però, è durato poco. Ho preso il mio rosario,mi sono rivolta a Dio e ho detto: Dio mio,come vuoi Tu e, nella preghiera, nell’ab-bandonarmi a Lui, ho trovato la forza. Loso, molti, ammalandosi, perdono la fede,tuttavia esistono anche persone che nonsanno immaginare la loro vita senza questaluce. Io non sapevo nemmeno cosa fossel’HIV e, quando mi hanno dato la terapia,l’ho seguita per un mese, credendo che ba-stasse. Alla visita di controllo, il medico miha spiegato che quella terapia avrei dovutoassumerla a vita e, allora, mi ha assalito unaltro momento di sconforto: sono andata inritiro spirituale per chiedere aiuto a Dio eLui non mi ha lasciata sola.“V., non ti chiedi mai perché sia accadutoproprio a te?” Ho incalzato.“Io mi chiedo ogni giorno perché sia accadutoproprio a me, però so che questo è un misteroche rimarrà tale per tutta la mia vita. Ci sonopercorsi che, per quanto ci sembrino duri epersino intollerabili, dobbiamo comunqueattraversare per crescere, comprendere di piùe diventare migliori di ciò che eravamo.Sperimentare in prima persona la piagadell’isolamento che affligge i sieropositivi ei malati di HIV, scoprire quante personemuoiono di questa malattia nel mio Paese,perché gli Stati Uniti non concedono a noila licenza per produrre i farmaci necessari,ma preferiscono venderceli a prezzi elevati,toccare con mano il pregiudizio che inquinaanche gli ambienti ecclesiastici sono tuttielementi che mi hanno fatto soffrire, ma,nello stesso tempo, hanno accresciuto la miasensibilità e mi hanno reso più capace dilavorare per gli altri. Nessuno di noi lavoraper sé, tutti siamo uno strumento per gli altri”.Congedandomi, avrei voluto abbracciare V.,ma la timidezza me lo ha impedito: ha ra-gione lei a dire che noi europei siamo troppoin punta di forchetta. “Grazie V.” Le ho dettoe, questa volta, non ho esitato a stringerle lamano. Lei mi ha sorriso e ha ricambiato lamia stretta con vigore. Sulla via del ritorno,ero dubbiosa se scrivere questo articolo oppuretenere per me ciò che avevo ricevuto e che,probabilmente, non ho ancora metabolizzatobene, perché molte preziose sfumature disignificato emergono a distanza di tempo.Subito dopo l’incontro non sono riuscita ascrivere: troppe emozioni mi turbinavanonella testa. Oggi, trascorse nemmeno venti-quattro ore, è venuto fuori questo che pro-babilmente non rende nemmeno giustiziaalla ricchezza del mio colloquio con V.:pazienza, glielo dedico lo stesso, perché sappiache mi ha portato un raggio di sole e unesempio di straordinaria forza d’animo dicui non posso che far tesoro.

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Le parole di chi non ha paroleUN MANIFESTO REALIZZATO DALLALEGA ITALIANA PER LA LOTTA ALL’AIDSDI LECCE, PER DENUNCIAREL’INDIFFERENZA DELLE ISTITUZIONI.

“È più facile spaccare un atomo che un pregiudizio”(A.Einstein)Partendo da questa citazione la Lega Italiana perla Lotta contro l’Aids di Lecce ha voluto accoglierela sfida e ha ideato e realizzato un manifesto perpromuovere una campagna sociale contro ilpregiudizio e per la difesa dei diritti delle personesieropositive. Sono loro che parlano ai cittadini,alla gente comune, ai medici, ai dirigenti delleAziende Ospedaliere, alle Istituzioni… parlanodel loro “non poter dire”, della sensazione diessere costretti a tacere per paura di essere rifiutati,giudicati, per paura di non essere più viste comepersone, ma solo come un virus. Lo sguardo delragazzo del manifesto è lo sguardo di tutte lepersone sieropositive del Salento, persone chehanno bisogno innanzitutto di essere ascoltate.Le parole non dette sono le parole di una categoriacostretta a vivere nell’ombra. Usciredall’anonimato ed esporsi in prima persona,rendere pubblica la propria condizione per denun-ciare i disagi che ne derivano e difendere i propridiritti, significherebbe pagare un costo altissimo,quello dell’esclusione sociale.Invece di numeri e cifre, quest’anno la Lila vuolefar parlare le persone e coglie l’occasione del 1°dicembre, Giornata Mondiale della lotta all’Aids,per continuare a dire quelle parole che solo unmanifesto non poteva contenere tutte.“…È come se sei sempre con una maschera, devitenere sempre questa cosa dentro. Io vorrei poterdire a tutti che sono sieropositivo, lo vivrei piùtranquillamente, ma probabilmente per gli altrinon sarebbe la stessa cosa… io la leggo negliocchi la paura della gente quando dico che sonosieropositiva, è uguale alla mia. Io penso sempreche questo dovrebbe avvicinarci, invece non suc-cede quasi mai”.Quello che emerge da questa testimonianza, unadelle tante raccolta in questi anni dalla Lila, è ilbisogno di essere riconosciuti come persone, conun’identità e una personalità proprie e soprattuttocon il diritto ad un progetto di vita.L’Aids è un problema globale ma richiede unaresponsabilità locale e le istituzioni in primisdevono contribuire a dare risposte alle pauredella collettività, devono promuovere un modellosociale tenendo conto che le persone sieroposi-tive sono cittadini come tutti gli altri, con pariopportunità di scelta e con la possibilità di ri-progettarsi e di ri-pensarsi in un tempo futuro.

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di Paola Maggiore

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s’innamora di Dora, cattolica maestra dicittà, la corteggia e, infine, la sposa. Nasceun figlio: Giosué. Purtroppo, però, a romperel’idillio sopraggiungono le leggi razziali.Padre e figlio vengono dunque deportati eDora li segue, pur non essendo ebrea, perstar loro vicina. Guido per proteggere ilfiglio gli fa credere che sia tutto un gioco,in cui bisogna superare delle prove… e giocafino a quando viene brutalmente eliminatoda una mitragliatrice tedesca. Giosué neesce vivo e ritrovando la madre esulta dicen-do: “Abbiamo vinto!”Innumerevoli caratteristiche accomunanoGiosué a un altro bambino, protagonista diJona che visse nella balena: Jona Oberski,ebreo olandese, bambino che ha vissuto daiquattro anni in poi nel campo di Berger-Belsen, bambino mai stato tale, ovvero laricostruzione dello “sterminio” vista da chinon ricorda altro. Per Jona, il lager è qualcosadi normale, è lì che fa le sue prime esperienzedi vita: dolore, rapporti sociali, capacità disopravvivere.Jona assiste alla morte del padre, alla folliae alla morte della madre, vive la dispera-zione e il rifiuto della vita, ma anche illento riprendere e accettare l’esistenza.Storie e ancora storie. Viste su un tele-schermo, ma, non per questo, meno reali,meno forti, meno dure da mandar giù.Un grazie allora a tutti coloro, registi,attori, sceneggiatori... che ci aiutano a nondimenticare!

Cinema

hoah in ebraico vuol dire distruzione.Sull’argomento è stato detto, scrittoe girato più di quanto si possa ri-cordare, tuttavia è interessante sof-

fermarsi su ciò che il cinema ha raccontatodi quegli anni sui quali sono state realizzatenumerose pellicole. Fra le più note si an-noverano, senza dubbio, Schindler’s List, Lavita è bella, Jona che visse nella balena. Puòessere utile procedere a un’analisi dellestorie che questi film narrano.Siamo a Cracovia nel ’39: l’imprenditorespregiudicato e donnaiolo Oskar Schindler,manovrando grazie al suo carisma i verticinazisti, apre una fabbrica che produce pi-gnatte e marmitte, convincendo poi gli ebreigià reclusi nel ghetto a finanziare l’acquistodell’edificio in cambio di occupazione. Inseguito, costruisce un suo personale campo,dove le milizie non hanno accesso se noncon il suo permesso, arrivando, conl’imminente minaccia dello sterminio, edando fondo a tutte le sue finanze, a costruireuna fabbrica di granate, tutte rigorosamentedifettose, nella natia Brunnlitz.Con l’aiuto del fidato Stern compila una listadi 1100 ebrei affinché gli vengano affidaticome operai. Dopo imprevisti e disavventure,Schindler lavora per sette mesi fino al momentoin cui l’armistizio non lo coglie ormai sul lastricoe lo costringe a fuggire potrando però con séun anello d’oro per lui fabbricato dai suoi operaicon incisa una frase del Talmud: “Chi salva unavita salva il mondo intero”. Infatti sono 6000i discendenti degli ebrei da lui salvati che ancoraoggi rendono omaggio a chi ha sacrificatotutto per la loro libertà.Non ce la fa a salvarsi invece Guido, protago-nista de La vita è bella, storia di una deportazionevissuta con gli occhi di un bambino in bilicotra la paura e l’eccitazione del gioco, tra lafiducia nel babbo, sempre sorridente, e lasensazione che qualcosa non va. Una storiad’amore, oltre che di guerra e sangue.Guido, toscano delle montagne ed ebreo,

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I film sulla Shoah

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i è consumata un’enorme tragedia, nelsecolo scorso, in Europa. Questa tragediaha un solo, terrificante nome: Shoah.Un’intera progenie è stata cancellata

dalla faccia della terra dai nazisti, con lacomplicità del fascismo.Il popolo ebraico di mezza Europa è statomandato al macello, nel tentativo di annientarnepersino la memoria. Milioni di ebrei sono andatinelle camere a gas, nei forni crematoi; i piùfortunati fucilati in massa, altri torturati e usaticome cavie per esperimenti pseudo-scientifici aberranti, nel tentativo di far diffondere etrionfare quella che veniva considerata la razza perfetta, ossia la razza ariana. Come se esistesseroal mondo razze perfette e imperfette, impure. Il motivo, dicevano loro, era che i progenitoridelle loro vittime erano i responsabili dell’uccisione di Gesù Cristo. Il delitto si vestiva, così,di una sua finta dignità. Peccato che la stessa Chiesa di Roma la pensasse diversamente. Lachiave per capire questo efferato crimine (ammesso che sia d’obbligo comprendere le radicidell’aberrazione), sta nel fatto che qualsiasi persona considerata “diversa” veniva rinchiusa neicampi di concentramento o, nella migliore delle ipotesi, in manicomio. Disabili di ogni genere,malati mentali e omosessuali erano visti come un ostacolo nella creazione della razza pura.Né si può credere che tutto quello che accadde in quegli anni sia imputabile ad una solapersona e che tutti gli altri fossero semplici esecutori materiali: quella ideologia, sostenutaanche da eminenti filosofi dell’epoca, rappresentava un modo di pensare comune. Chi nonera del tutto d’accordo o aveva qualche dubbio sull’operato del nazi-fascismo, veniva zittitocon la forza e col terrore dettato dai più.L’uomo comune, si sa, ha la memoria corta, e così assistiamo oggi a un rigurgito di violenzarazzista, mai sopita completamente. Nuovi adepti di quelle due fazioni responsabili dell’eccidio,nostalgici o neofiti, fanno rivivere in embrione, ma neanche tanto, il terrore passato, con attiisolati o con guerre di Stato: il “diverso” ha ancora motivo di aver paura, che sia esso nero, ebreo,disabile o portatore di qualsiasi altra forma di differenza somatica, prestazionale o sessuale.Allora, viene da chiedersi se il passato ci abbia davvero insegnato qualcosa, o se stiamo perripetere gli stessi errori: intolleranza, sopraffazione, tirannia, vessazione degli “ultimi”.C’è da dire che questa mentalità perversa ha oggi numerosi fieri oppositori. Anche la coscienzacomune è cambiata, almeno in parte o in apparenza.Certo è che la gente si è stancata di assistere alla violenza, ai soprusi, alla prepotenza di pochi.Nonostante ciò, le classi sociali più basse, si orientano nuovamente verso il servilismo, ilclientelismo, il delegare le proprie responsabilità sociali e civili alle alte sfere: nuove pecorepronte a seguire una guida per niente illuminata da buoni sentimenti.Da qualche anno è stata istituita la Giornata della Memoria, proprio al fine di non dimenticarequegli avvenimenti, di una portata biblica, nonché storica.Il pericolo, quando un fatto diventa storia, è che perda l’impatto emotivo di quando è avvenuto,e che venga studiato asetticamente, giustificato persino, catalogato e alla fine archiviato.Aprendo così le porte al suo ripetersi.Un pensatore del passato, tale Vico, diceva che nella storia fatti ed avvenimenti si ripetonociclicamente. Questa teoria è oggi controbattuta da altri studiosi. I Latini dicevano “historiamagistra vitae” e cioè che la storia è una maestra. Ma quanti la conoscono, l’hanno studiata e appresa,e quanti, coloro che non avendo vissuto sulla propria pelle quegli avvenimenti, sono ad essiindifferenti? Quanti addirittura li vedono positivamente e aderiscono con la mente e col cuore aquello stesso modo di pensare? La situazione mondiale attuale non è delle più incoraggianti, mala coscienza popolare dovrebbe essere educata, erudita, dovrebbero esserle dati degli strumenticonoscitivi e degli spunti di riflessione.Per ora stiamo tutti col fiato sospeso a vedere l’evolversi delle tendenze, non senza dareil proprio apporto perché vadano nella giusta direzione. I risultati di questo lavoroappassionato si vedranno col tempo, sperando che siano positivi.

maestra di vita?

Riflessioni

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di Alberto MancaRedazione dei “Naviganti”Periodico del Centro Diurno, CSM Lecce

Storia,

La pace non è assenza di guerra:è una virtù, uno stato d'animo,una disposizione alla benevolenza,alla fiducia, alla giustiziaBaruch De Spinoza

QUANTI HANNO STUDIATO ECOMPRESO GLI AVVENIMENTIDELLA STORIA E QUANTI NONAVENDOLI VISSUTI SULLA PROPRIAPELLE RESTANO AD ESSIINDIFFERENTI? I RIGURGITIDELL'INTOLLERANZA DEI NOSTRIGIORNI SONO GLI STESSI CHE INPASSATO HANNO GENERATOORRORI E OLOCAUSTI.

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pietra grigia, mosso da onde. Non appenaci si avvicina si scopre la struttura a griglia,un labirinto composto da 2.711 pilastri dicalcestruzzo, stele prive di nomi, date,riferimenti storici, che veicolano una forzaevocativa tale da invitare immediatamentelo spettatore a perdersi nell’intreccio deicorridoi. Le altezze delle colonne non sonocasuali, ma risultano dall’intersezione trai vuoti della griglia e le linee guida dellacittà. Ancora ai margini dell’area le stelefanno da cornice alla cupola di vetro delReichstag, agli alberi robusti del Tiergarten,agli edifici diseguali. Man mano che i passicalpestano il tappeto pietroso, la pendenzadel terreno aumenta, le stele crescono,s’innalzano come ombre nella sera,sottraggono luce, spazio, aria; alcune,inclinate di qualche grado determinanouna dissonanza percettiva, minacciosa eopprimente, che allude alla follia nazista.Più ci si addentra più il disorientamento,il senso di abbandono e di solitudine ciinvestono, come onde di un mare fermo.La sensazione è quella di sprofondarenell’oscurità e nel male, in uno spazio chesospende il brulicare della città in fermento.E’ una porzione di memoria che s’imponee chiede d’essere vissuta, non vuole essereammirata, ma letteralmente attraversata dacorpi: uomini e donne che solcano gli stretticorridoi anche per raggiungere il loro postodi lavoro; dando così forma ad un processoche permette all’uomo di accettare il malecome aspetto insopprimibile della vitaquotidiana.Lo stesso Peter Eisenman, l’architetto chenel 1997 si aggiudicò la realizzazione delmemoriale, (l’idea d’innalzare unmonumento in onore delle vittimedell’olocausto fu di Lea Rosh, giornalistatelevisiva, nell’ormai lontano 1988) affermain un’intervista: “Quello che è importanteper la Germania in tutta la vicenda Berlineseè la possibilità di superare i vincoli dellacorrettezza politica riguardo alla storia eall’olocausto. I cittadini dovranno poterdire ‘Questo monumento non mi piace’, o‘Non mi piace Eisenman come architetto’senza per questo sentirsi antisemiti.”Così quest’artista, capace di sfuggire adogni definizione attribuitagli nel corso delsuo lungo lavoro (decostruzionista,concettuale, post-strutturalista, etc.) fastoricamente da contraltare ad un altro

Architetture

di Chiara Spata

noi non interessano i monumenti”,sostenevano gli architetti moderni,parafrasando Frank Llyod Wright,

e avevano ragione. Infatti la parolamonumento, tra le due guerre, era usataper esprimere la potenza di uno Stato,spesso dittatoriale, che intendevamagnificare l’autorità, il comando, lagerarchia. La Mosca di Stalin, le scenografiedi Hitler, la nuova romanità di Mussolini,ma anche i parlamenti classicheggiantidella nuova Finlandia o la sede delle Societàdelle Nazioni a Ginevra, sono tutti esempidi un’interpretazione totalitaria dell’apparatoarchitettonico.Quello che s’ incontra camminando perBerlino, una volta attraversata la porta diBrandeburgo, a un passo dal laReichskanzlei, dove Hitler ordinò losterminio degli ebrei d’Europa, si definiscemonumento, ma è piuttosto un luogo pere della memoria, o come lo ha definitoqualcuno un “non luogo”.Il memoriale per le vittime dell’Olocausto,inaugurato lo scorso maggio 2005, siestende su un’area di diciannovemila metriquadrati, adiacente a Potsdamer Platz. Visi può accedere da ogni lato poiché ècircondato da quattro strade e non haingressi privilegiati. Guardandolo dalontano appare come un vasto oceano di

“A

IL MEMORIALE PER LE VITTIME DELL’OLOCAUSTO SI ESTENDEPER DICIANNOVEMILA METRI QUADRATI, NELLA MODERNABERLINO. È UN MONUMENTO CHE NON VUOLE ESSEREAMMIRATO MA VISSUTO E LETTERALMENTE ATTRAVERSATO.

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UNA PIAZZA

La città ha fondamento sopra un misfatto.Chi rivela questo segreto è perduto. Lospavento mi è servito a tornare indietro.Via dalle smorfie di sarcasmo della tavoladel re, è chiaro. Ma dove. In questo casoneanche tu sapresti consigliarmi, madre,posso interrogare quanto voglio le lineedella mano, linee chiare, va bene, ma chesignifica una cosa del genere oggi e qui.

Christa Wolf

INVOLONTARIA

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di Emanuela MurroneOPTOMETRIACONTATTOLOGIA

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OTTICAMURRONE

architetto, tristemente noto per aver messoil suo genio al servizio del progetto folle diHitler nel Terzo Reich. Albert Speer, estetae cerimoniere del nazional-socialismo,divenuto poi ministro degli armamenti efautore, insieme al Fuhrer, del progetto dicreazione di una nuova, grandiosa Berlino,futura capitale della Germania, padronadel mondo dominato dalla razza ariana.Se Speer è stato, a posteriori, definito“l’architetto del diavolo”, Eisenman saràricordato probabilmente come “l’architettodella memoria”.Per rappresentare la memoria Eisenmansceglie di allontanarsi dalla tradizionecommemorativa tedesca e da quella deimemoriali finora eretti in ricordo delgenocidio degli ebrei. La sua opera è moltodiversa da quelle del Vad Vashem diGerusalemme, del Memorial de la Shoahdi Parigi o del United States HolocaustMuseum di Washinton. Non racconta,evoca. Almeno finché non si entri nel centrodi documentazione sotterraneo, il qualeraddoppia specularmente la struttura disuperficie. Nel piano inferiore, si trovanole ricostruzioni per immagini della guerrae delle deportazioni, integrate da testi esupporti multimediali. Attraverso le cinquestanze che lo compongono si dipananotestimonianze scritte da ebrei durante laprigionia, storie di famiglie disgregatedurante gli anni dell’Olocausto e undatabase consultabile da più terminali cheoffre la possibilità di cercare informazionidettagliate sulle singole persone.L’idea di un’opera così completa edemozionante nasce da una concezione diarchitettura intesa non come spettacolo, népiegata alla dura legge della moda, maaperta ai cambiamenti radicali cui la culturae la società sono soggette. A partire dal ‘68,anno di pubblicazione de La società delloSpettacolo di Guy Debord, la societào c c i d e n t a l e h a a c c r e s c i u t oesponenzialmente il suo apparatospettacolare, ma lo spettacolo mediaticodell’11 settembre, con il crollo delle TwinTowers, ha determinato la fine di unparadigma e l’esordio di una “società del

terrore”. L’architettura, come le altre arti,ha seguito questo cambiamento,cominciando a riflettere, anche in sensoideologico e politico, sul nuovo paradigma.Lo stesso Eisenman scrive : "tutti icambiamenti possono in qualche modo farriferimento a cambiamenti culturali [...],i mutamenti più tangibili [...] sono statideterminati dal progresso tecnologico, dallosviluppo di nuove condizioni d’uso e dalcambiamento del significato di certi ritualie del loro campo di rappresentazione".Nelle sue opere precedenti, l’architettosperimenta nuovi modelli attraverso laricerca di inediti itinerari creativi: esplorale possibilità espressive della geometria noneuclidea, delle spirali del DNA e affrontale Leggi del pensiero (1854), messe a puntoda George Boole e Augustus De Morgan..Per questo progetto, che definisce eglistesso, atipico, in quanto atipico nella suaeccezionalità è stato il fenomenodell’Olocausto, Eisenman si pone, per cosìdire, in secondo piano e afferma che ilprogetto non lo riguarda, come artista,architetto o intellettuale, in prima persona,ma piuttosto ha a che fare con il tipo dirisposta che l’architettura può dare allamemoria.In un’intervita rilasciata all’EspressoEisenman racconta: “Come nella“Recherche” di Proust, in un episodio incui Swann sta facendo una passeggiata,percorre un sentiero e i suoi passi gliricordano di quando una volta a Veneziaaveva camminato su pietre simili a SanMarco. Ecco io volevo ricreare questaesperienza della memoria, del camminarein un campo di pietre. Non una puranostalgia, ma una memoria rivissuta nelpresente”.Pare che Eisenman sia riuscito nel suointento. In una città come Berlino, con unavvenire ancora così difficile da intuire euna storia ormai distante, ma ancoraemotivamente così vicina, attraversarequesta piazza involontaria fatta di spigolie schegge di vita è un’esperienza ches’incunea tra le pieghe dell’animo e apreorizzonti di dialogo inesauribili.

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