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02 Maggio 2013 MARIO CARRARO RIVOLUZIONE DEL PENSIERO 6 AZIENDE D’EPOCA STORIE DELL’ITALIA IMPRENDITORIALE PIERFRANCESCO ANGELERI IBM: LA TRASFORMAZIONE CULTURALE STEFANO MORIGGI COMINCIAMO A PENSARE CON LE MACCHINE! CULTURA&TECNOLOGIA MUSEO DEL CAFFÈ INFORMATICI SENZA FRONTIERE L’IT PER LO SVILUPPO SOCIALE IL VIAGGIO CENTRO RICERCHE E STUDI LIGABUE PERCORSI 60 ANNI DI STORIA E SUCCESSI DEL CICLISMO VENETO SPORT VELA: UNA PASSIONE DI VITA PER TOMMASO CHIEFFI incontri con CULTURA TERRITORIO IMPRESA LA TRADIZIONE COME VALORE PER LO SVILUPPO Gruppo Eurosystem Sistemarca scenari stile libero

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Cultura, Territorio, Impresa, un viaggio nella tradizione e nella storia delle Imprese che hanno fatto la storia della nostra terra... e tanto altro!

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n°02Maggio 2013

MARIO CARRARO RIVOLUZIONE DEL PENSIERO 6 AZIENDE D’EPOCA STORIE DELL’ITALIA IMPRENDITORIALE PIERFRANCESCO ANGELERI IBM: LA TRASFORMAZIONE CULTURALE

STEFANO MORIGGI COMINCIAMO A PENSARE CON LE MACCHINE! CULTURA&TECNOLOGIA MUSEO DEL CAFFÈ INFORMATICI SENZA FRONTIERE L’IT PER LO SVILUPPO SOCIALE

IL VIAGGIO CENTRO RICERCHE E STUDI LIGABUE PERCORSI 60 ANNI DI STORIA E SUCCESSI DEL CICLISMO VENETO SPORT VELA: UNA PASSIONE DI VITA PER TOMMASO CHIEFFI

incontri con

CULTURA TERRITORIO IMPRESALA TRADIZIONE COME VALORE PER LO SVILUPPO

Gruppo Eurosystem Sistemarca

scenari stile libero

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In questo numero Logyn vuole portare un omaggio al territorio e alle imprese che hanno contribuito, nel tempo, allo sviluppo dello stesso.

Uomini, famiglie, comunità che da un’idea, da un sogno, oppure semplicemente dal mero lavoro quotidiano hanno saputo costruire ‘progresso’, contribuendo alla crescita del Paese in cui sono insediate.

In particolare, una parte del Paese è caratterizzata da un’elevata presenza di aziende di piccole e medie dimensioni, che rappresentano la componente principale del tessuto industriale italiano e della sua ricchezza, in termini di occupazione, fatturato e valore aggiunto.

Qui ci sono le loro storie, che in parte raccontano il nostro passato grazie al forte legame con la tradizione e la cultura locale, anche se con lo sguardo rivolto al futuro e al confine da superare!

Questo numero ‘narrato’ è, pertanto, un omaggio al territorio da parte del Gruppo Eurosystem Sistemarca, azienda relativamente ‘giovane’, eppure diventata un punto di riferimento già ‘storico’ tra le imprese venete che operano in IT. Perché forte è il senso di condivisione dello spirito di sacrificio e, nel contempo, del bisogno di generare conoscenza per lo sviluppo del tessuto economico locale che accomuna la gran parte delle PMI del Nord Est.

Infine, una celebrazione del ‘fare impresa’, proprio ora che stiamo vivendo un periodo di grande difficoltà. Per ricordarci che lo sviluppo e la competitività dei territori dipendono dalla capacità e dall’intraprendenza delle persone.

Gian Nello Piccoli

GIAN NELLO PICCOLI Gruppo Eurosystem Sistemarca

editoriale

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IL VIAGGIOCENTRO STUDI

RICERCHE LIGABUE

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MARIO CARRAROLA RIVOLUZIONE

DEL PENSIERO

6 AZIENDE D’EPOCASTORIE DELL’ITALIAIMPRENDITORIALE

STEFANO MORIGGI PENSARE CON LE MACCHINE!

RILEGGERE PLATONE PER CAPIRE L’IPAD

INFORMATICI SENZA FRONTIEREL’IT PER LO SVILUPPO SOCIALE

incontri con

scenari

L’illustrazione in copertina rappresenta l’idea imprenditoriale (lampadina) generata dall’uomo: dalla sua cultura (cervello) e dal suo profondo legame con il territorio e le tradizioni d’origine (radici).

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PERCORSI60 ANNI DI STORIA DEL CICLISMO VENETO

IL VIAGGIOCENTRO STUDI

RICERCHE LIGABUE

stile libero

SOMMARIOeditoriale di Gian Nello Piccoli

incontri con MARIO CARRARO La rivoluzione del pensiero6 AZIENDE D’EPOCA Storie dell’italia imprenditorialePIERFRANCESCO ANGELERI

Ibm: la trasformazione come cambiamento culturale

focusCultura, territorio, impresa: la tradizione come valore di sviluppo

scenariSTEFANO MORIGGI

PENSARE CON LE MACCHINE!

Cultura e tecnologia nella storia dell’espresso italiano

Informatici Senza Frontiere: l’It per lo sviluppo sociale Ritardi di pagamento nelle transazioni commercialiApprendistato e formazione trasversalePolitiche europee per il territorioReti di imprese: la normativa e il contratto

storiesUna storia nella storia: intervista a Stefano Bacci e Stefano Biral Halley Veneto Srl: IT al servizio dell’ITCesped Spa: contabilità sicura e integrata

spazio a yL’orchestrazione dei sistemi

stile libero CONOSCIAMOCI Lavorare con IT e ICTMEDICINA E LAVORO Una vita da medico nelle aziendeIL VIAGGIO Centro Studi e Ricerche LigabuePERCORSI Il personaggio: Marzio Bruseghin60 anni di ciclismo venetoSPORT La vela: una passione di vitaper Tommaso ChieffiCUCINA L’acqua di mare & l’erba voglioUFFICIOVERDE La peoniaFUMETTI La matita di Sue

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Mario Carraro, classe 1929, tutte le mattine legge i giornali americani ed europei sul suo Kindle ed è capace di mandare indietro la segretaria se arriva con mazzette di documenti che era perfettamente inutile stampare. Dell’azienda, fondata a Campodarsego nel 1932 dal padre, Giovanni, e quotata dal 1995 alla Borsa di Milano, è stato presidente dal 1961 fino allo scorso anno, quando la guida di Carraro Group è passata nelle mani del figlio, Enrico. Giro d’affari poco al di sotto del miliardo di euro, Carraro è da anni fra i leader mondiali nel campo delle macchine agricole, dei sistemi di trasmissione e dell’elettronica di potenza.

Presidente, lei alla sua età rilegge i classici su un e-reader mentre ci sono cinquantenni che rifiutano ogni dispositivo che sia più complesso di un telecomando del decoder Sky. C’è qualcosa che non funziona?

Diciamo innanzitutto che io con la tecnologia ho sempre avuto un rapporto un po’ maniacale. Magari anche per la mia pessima calligrafia. Le lettere alla morosa le scrivevo a macchina, se no difficilmente sarei riuscito a farle capire che volevo sposarla. In ogni caso, per tornare più seriamente sul tema, dovrebbe essere sufficiente sapere che nei primi anni ’80 all’interno del nostro Gruppo tutte le aziende comunicavano già per e-mail.

Intervista a Mario Carraro, storico presidente della Federazione Industriali Veneti

LA RIVOLUZIONE DEL PENSIERO

Sognatore, lungimirante, e con una passione maniacale per la tecnologia: per Mario Carraro la grande

rivoluzione è che aziende e persone inizino a pensare con le macchine, più che adattarle alle strutture

esistenti.

GIANNI FAVERO

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incontri con

Un bel po’ prima dell’arrivo di Internet. Come avete fatto?

Una rete dedicata tutta nostra, naturalmente, ed un sistema Ibm che all’epoca era già evoluto. Chi lavorava con me un po’ alla volta ha assorbito questa mentalità.

Ha incontrato resistenze culturali fra i suoi collaboratori?

Alcune ancora oggi mi fanno sorridere. Ad esempio, quando furono introdotti i piccoli calcolatori, precursori dei pc, i periti meccanici facevano la stupida gara per vedere chi era più veloce fra loro e il computer. Loro usavano il regolo,

“Credo che si ragioni ancora troppo adattando le tecnologie alle strutture esistenti, mentre occorre pensare sempre di più ad aziende che nascono con un’adozione totale delle stesse fin dall’origine”.

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strumento che non dava mai un dato esatto. Magari il calcolatore era un po’ più lento ma sulla precisione non si poteva discutere.

Perché non ha aspettato che le macchine diventassero un po’ più veloci prima di acquistarle?

Era la mente dei collaboratori che doveva velocizzarsi. Ricordo che negli anni in cui stavano espandendosi i primi Cad, andai a vederli da vicino alla Ibm di Agrate, con il direttore dell’ufficio tecnico. In realtà lui ne rimase incantato ma concluse che il passo per la nostra azienda sarebbe stato prematuro perchè erano troppo lenti. Io invece volli che li acquistassimo subito, il loro ruolo di plasmatori di mentalità era fondamentale. Qualche anno più tardi le macchine si erano già molto evolute e velocizzate. Nel corso di una visita all’ufficio tecnico per gli auguri di Natale vidi che tutti avevano

i computer ma non si erano affatto eliminati i tecnigrafi. Erano ancora abituati al fatto di esaminare un disegno solo una volta trasferito su carta. Chiamai allora il direttore tecnico e gli ordinai che entro il 1 gennaio tutti i tecnigrafi fossero fatti sparire.

Fra il 1994 ed il 1996 lei fu anche presidente della Federazione degli Industriali del Veneto. Avrà avuto modo di sondare un po’ l’approccio dei suoi colleghi rispetto alle tecnologie di cui stiamo parlando. Il mondo industriale veneto di 20 anni fa era abbastanza attento?

Onestamente avevo la netta sensazione che i miei colleghi mi guardassero un po’ come una macchietta per la mia passione per Internet, allora considerata dai più null’altro che un passatempo. Il primo pc entrò negli uffici di Confindustria solo alla fine degli anni ’80, quando ormai i computer li avevano

Mario Carraroimprenditore e presidenteFederazione Industriali Venetidal 1994 al 1996

Nato nel 1929, sposato, tre figli, con una formazione di tipo umanistico, si dedica in giovane età a varie attività culturali. Nel 1961 rileva assieme al fratello Oscar l’azienda fondata dal padre Giovanni, focalizzandosi sulla produzione dei trattori agricoli e dando così un forte impulso allo sviluppo dell’attività industriale. I nuovi orientamenti del mercato nei primi anni ’70 portano Mario Carraro, presidente della Carraro SpA, ad avviare un processo di diversificazione con l’introduzione dei primi modelli di assali quattro ruote motrici e trasmissioni. Nominato Cavaliere del Lavoro nel 1990, Mario Carraro è stato presidente della Federazione degli Industriali Veneti da aprile 1994 a dicembre 1996. Nel maggio 2001 il Senato Accademico dell’Università di Padova gli ha conferito la laurea ad honorem in Economia e Commercio, per “la capacità di indicare le strade dell’innovazione, dando grande peso alla ricerca, all’internazionalizzazione, all’uso di moderni strumenti finanziari e di efficaci tecniche gestionali”, e perché nella sua attività imprenditoriale, anche con alcuni incisivi scritti di commento su eventi economici e sociali, Carraro ha “costruito una visione dell’attività economica, della gestione dell’azienda e delle persone, dell’impegno sociale che può essere proposta come modello alle giovani generazioni che si avvicinano agli studi economici e manageriali”. Ad aprile 2008 Mario Carraro è stato nominato presidente dell’Advisory Board della Facoltà di Economia dell’Università di Padova, un organismo informale che la Facoltà ha costituito per confrontare le proprie scelte didattiche con le imprese, il mondo della finanza ed Enti pubblici. Dal 2011 è socio onorario dell’Accademia Galileiana di Scienze Lettere ed Arti.

“Abbiamo bisogno di imparare a sognare, a non ridere di fronte a chi immagina automobili che viaggiano senza un guidatore”.

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incontri con

già tutti. Oggi credo che abbiamo superato questa fase però siamo ancora lontani da un’applicazione integrale di questi strumenti.

Cosa intende per applicazione integrale?

Credo che si ragioni ancora troppo adattando le tecnologie alle strutture esistenti, mentre occorre pensare sempre di più ad aziende che nascono con un’adozione totale delle stesse fin dall’origine. Mi spiego in altro modo. Oggi la gran parte di ciò che si fa con il pc è ad imitazione dell’analogico, la mia segretaria non viene da me con un documento se non è stampato, le fatture elettroniche hanno sempre una loro replica su carta. Abbiamo bisogno, al contrario, di inventare il documento, non di imitare quello tradizionale. Questa sarebbe la grande rivoluzione, ma siamo ancora molto lontani, resistono presidenti di aziende importanti che affidano alle segretarie il compito di mandare e ricevere e-mail perchè non lo sanno proprio fare. Del resto, quando un Paese come il nostro è al 50° posto al mondo nell’uso di Internet non può dirsi avanzato.

Spesso la giustificazione per il distacco dalla tecnologia, in generale, è che Internet sia una cosa che solo i giovani, intesi come nativi digitali, possono gestire e comprendere. Si sostiene che è sbagliato trasferire esclusivamente sulla sfera digitale comunicazioni e informazioni di cui un settantenne non potrebbe mai usufruire. È una foglia di fico?

Di recente ho forzato tre miei amici avanti con gli anni ad imparare l’uso del pc e soprattutto del tablet, sono convinto che siano strumenti che aiutano molto un vecchio a stare nel presente. Si possono avere molte più informazioni, leggere più giornali, leggere più libri. Avere insomma tante cose alle quali dovrebbero rinunciare. Ricordo che quando ero bambino i libri da messa erano di due o tre ordini con caratteri di stampa di dimensioni diverse. I vecchi avevano quelli con le parole grandi perché così non avevano bisogno degli occhiali. Adesso con un tablet, se il carattere di un documento è troppo piccolo, basta allargarlo con due dita ed ecco che diventa alla portata di tutti e tutti possono essere aggiornati. Basta volerlo.

La inquieta il fatto che attraverso la Rete si verifichi una formazione dell’opinione con una forza tale da dar vita a veri partiti politici? Nel senso, pensa che le comunità nate on line siano una reale espressione e un modello affidabile di esercizio della democrazia?

Questi sono concetti affascinanti sotto molti aspetti, che, del resto, qualche buon osservatore aveva già profetizzato 20 anni fa. Penso ad esempio a Giovanni Sartori quando si occupò

di come i sondaggi incidessero sulle strategie politiche. In generale posso dire che a mio avviso l’esito di una votazione è insufficiente se non si registra contemporaneamente la reazione dell’elettorato attraverso anche questi strumenti. Chi non faccia parte del Movimento 5 stelle, perchè alla fine è di questo che stiamo parlando, è colpevole di averlo lasciato crescere e non sia stato capace di interpretarlo. Sono stati tutti lì, fermi, muti e vecchi, ad aspettare che questa forza si affermasse. Eppure si poteva comprendere bene già tutto ad esempio in occasione della prima elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti.

Pensa che questo fenomeno continuerà ad aumentare?

Si perchè c’è tutta una popolazione, e questo può anche creare una certa inqueitudine, che si forma soltanto nella comunicazione e nell’apprendimento di pochi concetti molto elementari. Molto elementari necessariamente, faccio fatica a pensare che Kant o Hegel, che pure rimangono fondamentali nella nostra cultura, avrebbero potuto esprimersi attraverso i tweet. Ma anche nell’800 esisteva una parte maggioritaria di popolazione che di Kant ed Hegel non aveva mai sentito parlare. Ripeto, i partiti classici non sono stati capaci di comprendere e reagire. Hanno considerato Twitter una sorta di ‘divertissement’ senza capire che appartiene a quel genere di divertimenti che trasmettono idee, paure e ansie, che generano fenomeni eccezionali ed anche abnormi sul piano della relazione politica.

Tornando più vicino a noi e concludendo. Di cosa hanno bisogno oggi gli eredi di quegli imprenditori che hanno costruito il Nord Est?

C’è una delle ultime copertine dell’Economist che mostra un’automobile con i passeggeri sui sedili posteriori. Abbiamo bisogno di imparare a sognare, a non ridere di fronte a chi immagina automobili che viaggiano senza un guidatore.

“Di recente ho forzato tre miei amici avanti con gli anni ad imparare l’uso del pc e soprattutto del tablet, sono convinto che siano strumenti che aiutano molto un vecchio a stare nel presente. Si possono avere molte più informazioni, leggere più giornali, leggere più libri. Avere insomma tante cose alle quali dovrebbero rinunciare”.

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L’industria in Italia: storia di famiglie e dei loro mestieri

La storia dell’industrializzazione italiana, soprattutto nelle due aree geografiche denominate spesso

come la ‘locomotiva’ d’Italia e indentificate come Nord Ovest e Nord Est è essenzialmente una ‘storia

di famiglie’. Insigni esempi, che hanno saputo creare un modello industriale di alto profilo e hanno

contribuito a far nascere all’estero il mito della creatività italiana. Un tessuto di famiglie spesso di

origine artigiana. Uomini ‘sapienti’ nei loro mestieri che hanno reso l’Italia secondo Paese europeo

nell’esportazione dopo la Germania.

CULTURA, TERRITORIO, IMPRESA: LA TRADIZIONE COME VALORE PER LO SVILUPPO

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focus

È essenzialmente a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale che l’Italia ha conosciuto profondi cambiamenti economici, trasformandosi da Paese più o meno arretrato a una delle maggiori potenze economiche mondiali. Questo, grazie ad un ininterrotto processo di crescita durato fino alla fine degli anni Novanta del XX secolo.

Eppure, soprattutto tra il 1958 e il 1963 l’industria italiana conobbe il suo straordinario sviluppo: tra i settori trainanti il manifatturiero, quello della meccanica, della chimica e dell’elettricità. Allora si cominciò a parlare di ‘miracolo economico’. L’Italia divenne la settima potenza industriale del mondo, anche se l’economia nazionale continuò a presentare sempre due volti differenti: un sud arretrato con un’agricoltura ancora in gran parte latifondistica, e un nord con un forte insediamento industriale, favorito anche dallo sviluppo di moderne infrastrutture.

Anche nella fascia settentrionale del Paese ci fu una differenza essenziale: ad un dinamico e intenso processo di industrializzazione e internazionalizzazione del Nord Ovest - già a partire dalla costituzione d’Italia, anche per effetto della politica economica nazionale - si contrappone uno sviluppo nella zona Nord Est, prevalentemente agricola, più ‘dolce’ e inizialmente a carattere artigianale. Nel primo decennio del 1900, infatti, il 55% del valore aggiunto industriale proveniva dal Nord Ovest.

E la fase di industrializzazione italiana arrivò a compimento negli anni ’80, con l’inizio della terziarizzazione dell’economia - che portò lo sviluppo dei servizi bancari, assicurativi, commerciali, finanziari e della comunicazione.

Periodo di grande rilievo fu comunque quello degli anni ’70, in cui cominciò a farsi sentire l’esigenza di rinnovamento dovuta principalmente allo sviluppo di nuove tecnologie e allo sviluppo di settori dove si realizzavano importanti economie di scala. In particolare la siderurgia, l’elettricità, le raffinerie di

petrolio e la meccanica. Si avviò, di conseguenza, una fase di ristrutturazione delle medie e grandi imprese.

Nel periodo del boom economico l’area del Nord Est, che nelle ripartizioni territoriali ufficiali comprende il Veneto, il Friuli Venezia-Giulia, Trentino-Alto Adige ed Emilia Romagna, si distinse in particolare. Pur essendo regioni diverse tra loro, per caratteristiche istituzionali e sociali, ebbero un comune denominatore: la presenza di un fitto tessuto di piccole e medie imprese di matrice familiare che diede vita ad un modello industriale esportato e studiato.

Rispetto ad un Nord Ovest che fu l’area di prima industrializzazione del Paese, il Nord Est ha saputo in 30 anni trasformarsi da area in ritardo di sviluppo ad area evoluta, grazie anche ad un radicamento di tradizione artigianale che servì in molti casi come base per il rilancio delle piccole imprese. Anche se furono determinanti cambiamenti tecnologici e di mercato. Le nuove condizioni, - tra le quali anche l’assenza di grandi aziende guida - gratificarono, infatti, la produzione su scala minore e quindi la flessibilità del capitale e del lavoro tipica delle piccole imprese le quali potevano specializzarsi su determinati tipi di lavorazione.

Il mito del Nord Est nonostante le difficoltà dovette la sua persistenza anche alla robustezza delle reti e dei legami delle imprese - di famiglia - con il territorio locale, nonostante la forte proiezione, quasi fin dall’inizio, sui mercati internazionali.

“Le migrazioni sud - nord dal dopo guerra ad oggi”, Alessandro Gottardi, Fabio Lenzo e Kewjn Witschi, 2003/2004

“L’industria italiana nel contesto internazionale: 150 anni di storia”, Fondazione Manlio Masi, Università di Siena, 2011

“L’economia del Nord Est” - Seminari e convegni. Workshops and Conferences, Banca d’Italia - Eurosistema, ottobre 2011“Il modello Veneto tra storia e futuro”, a.c. di Longo O., Favotto F., Renato G., 2008

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‘Periodo che va dall’Unificazione fino alla prima guerramondiale: coincide con l’espansione dell’industria manifatturiera italiana e rappresenta, per alcuni storici, il ‘vero’ miracolo economico. In questa fase si assiste allo sviluppo di un articolato gruppo di imprese specializzate nei settori della prima rivoluzione industriale e in particolare nel tessile. Al contempo, emerge un nucleo di imprese private, che operano nel settore siderurgico e, più in generale, nei settori ‘nuovi’ della Seconda Rivoluzione industriale. Le attività produttive sono concentrate prevalentemente nel triangolo industriale del Nord Ovest’.

(1861-1913)

‘Si organizza il capitalismo italiano con il rafforzarsi del ruolo dello stato imprenditore, che raggiunge l’apice negli anni Trenta quando, viene creato l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) che si trova a possedere una parte molto importante dell’industria italiana. Al contempo si assiste al consolidamento degli oligopoli dei grandi gruppi privati. Con gli stimoli degli sviluppi bellici, si inizia a gettare le basi per la crescita industriale della fase successiva’.

(1950-1973)

(1919-1939)

Il periodo trale due guerre

Il periodoliberale

Il periodo della Golden Age

“Executive Summary” - Rapporto - Fondazione Manlio Masi, 2005

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13Le fasi dello sviluppo economico italiano

‘Parte l’indomani della seconda guerra mondiale e termina con la crisi petrolifera del 1973. Da un lato, l’impresa pubblica contribuisce a sviluppare i settori cruciali (siderurgia, energia, infrastrutture) per la crescita del Paese. Dall’altro lato, le imprese private riescono ad aumentare la capacità produttiva dell’industria, con risultati importanti nel settore automobilistico e dei beni di consumo durevoli, meno brillanti nella chimica. La crescita coinvolge anche le imprese di piccola e media dimensione. È in questa fase che l’Italia, cogliendo le opportunità offerte dall’apertura dei mercati internazionali e dalla piena affermazione del regime tecnologico della produzione di massa, si avvicina maggiormente alla frontiera tecnologica’.

‘Inizia una profonda ristrutturazione del sistema industriale italiano che paga l’aumento del prezzo delle materie prime. Emergono nuove aree di industrializzazione localizzate nelle regioni del Nord Est e del Centro del paese, si affermano i settori leggeri e decollano le piccole imprese organizzate nei distretti industriali (il terzo capitalismo). Negli ultimi 15 anni continua il ridimensionamento della grande impresa e il panorama industriale italiano, anche in seguito ai processi di privatizzazione degli anni Novanta, si diversifica ulteriormente. Il processo di globalizzazione esercita una forte pressione sulle aree distrettuali che si trovano sottoposte alla concorrenza dei nuovi paesi in via di sviluppo’.

(post anni ’70)

‘L’industria italiana ha fatto fronte alla crescente concorrenza internazionale attraverso strategie più complesse che hanno richiesto ristrutturazioni interne e miglioramenti nella qualità dei prodotti. La capacità di reazione delle imprese italiane, dopo un periodo di difficoltà negli anni a cavallo del passaggio del secolo, ha fatto sì che la dinamica delle esportazioni negli ultimi dieci anni non sia stata dissimile a quella osservata nel decennio precedente’.

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Il periodo di frammentazione/diversificazione

Periodo dell’Euro

(2001-oggi)

focus

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Il Nord Est è area ‘cruciale’ per l’andamento economico del Paese?

Certamente. Negli ultimi decenni il Nord Est ha assunto un ruolo sempre più centrale e di traino per il nostro Paese. Non solo per la posizione geografica che lo vede proiettato verso l’Europa, ma anche per il tessuto sociale che lo compone, grazie al quale si è distinto per la tenacia e la capacità di creare discontinuità positive.

Perchè il mito del Nord Est: quali sono state le condizioni favorevoli che hanno permesso al territorio di vocarsi all’industria.

Se guardo agli ultimi 25 anni, periodo che ho vissuto intensamente all’interno del Gruppo di imprese della mia famiglia, in realtà sembra sia passato molto più tempo. Nei ‘mitici anni ’90’, molte piccole e medie industrie hanno invaso con successo il mondo con i propri prodotti di nicchia. Successi dovuti alle grandi capacità di creazione, innovazione e dedizione al lavoro degli imprenditori e dei loro collaboratori. Ma corroborati anche da condizioni di contesto particolari ora non più presenti e che non saranno ripetibili. In quegli anni il Nord Est e le sue imprese erano per l’Europa, in particolar modo per Francia e Germania, quella minaccia che la Cina è diventata in seguito per noi.

Le caratteristiche peculiari dell’imprenditoria veneta.

Creatività, innovazione e tanta voglia di fare, nonostante le numerose zavorre presenti nel nostro Paese.Il perdurare della crisi ha messo a dura prova i nostri imprenditori, ha però gettato le basi per una evoluzione verso il nuovo manifatturiero. Credo che queste caratteristiche siano tuttora presenti nel dna delle nostre genti e che in mezzo alle tante situazioni critiche di questi anni, a volte drammatiche, si comincino anche ad intravvedere le punte avanzate di quello che potrebbe essere lo sviluppo futuro.

Il Nord Est in poco tempo è diventato esempio nazionale. Quali le differenze con le grandi industrie storiche del Nord Ovest?

Il Nord Est ha vissuto un periodo di eccezionale sviluppo economico e sociale di un territorio con caratteristiche ed

Francesco Peghin Presidente di Fondazione Nord Est

Imprenditore, nato nel 1964 a Udine e residente a Padova. Laureato in Economia presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia nel 1989. Amministratore delegato di Gemap Spa, holding del gruppo di famiglia che gestisce aziende nell’industria meccanica e nei servizi (sanità e turismo) con circa 450 dipendenti. Presidente di Blowtherm Spa di Padova.Da Marzo 2013 è presidente della ‘Fondazione Nordest’, il Centro Studi fondato nel 1999 dalle Confindustrie e dalle Camere di Commercio del Triveneto per studiare l’evoluzione economico sociale del Nord Est.È stato presidente di Confindustria Padova dal 2007 al 2011, vice presidente di Confindustria Veneto con delega a Ricerca e Innovazione dal 2011 al Febbraio 2013 e membro di Giunta di Confindustria Nazionale dal 2007 ad aprile 2013.Presidente del Parco Scientifico e Tecnologico Galileo di Padova dal 2010 al 2012. È vice presidente della ‘Fondazione Città della Speranza’ Onlus attiva nel Veneto a sostegno della ricerca e cura nell’oncologia pediatrica. È vice presidente del Calcio Padova in serie B dal 2011. Come atleta, nel 1995 e 1996 è stato Campione del Mondo di vela sull’imbarcazione ‘Per Elisa’. Risultati che gli sono valsi dal Coni l’attribuzione della Medaglia d’Oro al Valore Atletico.

INTERVISTA AL PRESIDENTE FONDAZIONE NORD EST

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focus

esigenze molto omogenee pur nei diversi campanili. Uno sviluppo non programmato ma reso possibile dalle particolari capacità di una classe di imprenditori e lavoratori eccellenti. Per molto tempo lo slogan ‘piccolo è bello’ ha accompagnato lo sviluppo del territorio, ma ora è giunto il momento di fare sistema. Oggi le imprese del Nord Est si stanno sviluppando per linee orizzontali: cercano alleanze con altre aziende, accorciano e sistematizzano i rapporti all’interno della propria filiera. Perseguendo secondo queste modalità le imprese diventano più grandi, senza farsi più grosse.

Lo sviluppo industriale ha contribuito ad un forte sviluppo del territorio. Quanto e in che termini?

Le trasformazioni che attraversano la popolazione e la struttura produttiva corrono parallele. Lavoro, autonomia, intraprendenza e coesione, sono i caratteri fondativi grazie ai quali si è costruito il Nord Est nel passato e attorno ai quali i nordestini continuano a riconoscersi e indentificarsi oggi.

Gli imprenditori e la crisi del 2008: reazioni e azioni. Il Nord Est nel futuro: necessità d’internazionalizzazione e radicamento al territorio. Quanto hanno investito e investono le imprese del territorio in innovazione?

L’economia nordestina ha una particolare vocazione a relazionarsi con i mercati esteri. Complice una domanda interna che non cresce, la proiezione verso altri Paesi diventa spesso una necessità. Ma non si tratta di delocalizzazione come avvenuto agli inizi degli anni ’90. Prevale, invece, una strategia di internazionalizzazione, ovvero il presidiare i mercati esteri, producendo nei nuovi siti, ma mantenendo la direzione e la progettazione nel Nord Est.Le innovazioni attraversano il sistema delle imprese, le proiettano sui mercati internazionali e modificano il funzionamento dei tradizionali distretti industriali rompendo i loro confini tradizionali e allungando le relazioni e le loro reti di fornitura. Oltre la metà delle imprese che si internazionalizza trascina con sé all’estero tutti i subfornitori.Per favorire l’accelerazione dell’innovazione strategica nelle imprese del Nord Est serve però uno Stato, una Regione e dei Comuni che capiscano che non è più il tempo della esclusiva libera iniziativa delle imprese. Serve che il pubblico faccia squadra non occasionalmente ma strutturalmente con il privato e stimoli il privato a fare squadra.

La tecnologia è la chiave di volta per lo sviluppo futuro delle imprese?

Negli anni ’90 i costi delle nostre produzioni, spesso a basso valore aggiunto, e il rapporto prezzo qualità erano i più

competitivi in Europa e potevano permettere di aggredire con successo anche i nuovi mercati che si aprivano in altre aree del mondo allora prive di produzioni locali competitive.Tutto questo è cambiato, dapprima gradualmente con l’avvento dell’Euro e poi repentinamente dal 2008 con lo tsunami della crisi, diventata strutturale in Europa, e con le rivoluzioni che stanno avvenendo nell’economia globale. I fattori di competitività non sono più gli stessi di prima e la tecnologia è sicuramente uno degli aspetti su cui costruire lo sviluppo futuro. Se le aziende più classicamente legate alla subfornitura stanno incontrando grandi difficoltà, ci sono allo stesso tempo le performance di quelle imprese a punta avanzata, definite ‘multinazionali tascabili’, che proprio grazie alla capacità di innovare, riscuotono successi importanti e rappresentano i nuovi casi da studiare per puntare alla rinascita. Non la fine del manifatturiero quindi, ma un diverso modo di interpretarlo.

Imprese private e Istituzioni. Un commento sulla coesistenza e l’interscambio tra le due realtà, ieri e oggi.

Oggi è imprescindibile, pena l’aggravarsi del declino del nostro Paese e delle capacità di traino di questo territorio, la volontà di trovare formule nuove di coesione tra governi, istituzioni, imprese, sistema universitario formativo. Formule che riescano a marginalizzare le resistenze al cambiamento, i vetero-campanilismi e quegli interessi di parte miopi e poco lungimiranti che nel corso degli anni hanno completamente ingessato l’Italia.C’è bisogno di un innovativo progetto di sviluppo che proprio da queste aree potrebbe prendere corpo imparando dagli errori del passato.

Il Nord Est ‘fra l’Italia e l’Europa’.

Il Nordest gode di un posizionamento geografico favorevole perché è il punto più vicino all’Europa rispetto ai mercati trainanti dell’economia mondiale come Cina e Far East. La domanda interna in questa fase è particolarmente debole e pertanto le aziende nordestine per continuare a crescere hanno bisogno di un respiro sempre più internazionale.Oggi sono le imprese più strutturate che possono meglio reggere una competizione internazionale, ma anche le realtà di dimensioni contenute possono continuare ad offrire performance positive attraverso due condizioni: l’apporto di innovazioni di carattere organizzativo, tecnologico e produttivo e l’inserimento in una filiera, meglio se internazionalizzata.

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PENSARE CON LE MACCHINE! RILEGGERE PLATONE PER CAPIRE L’IPAD

Tutto ciò che non si conosce, spaventa. Fin qui niente di strano. Tuoni e fulmini hanno terrorizzato l’essere umano finché - come ricordava il filosofo napoletano Gianbattista Vico - i nostri lontani progenitori non hanno iniziato a interrogarsi sulle cause e sulla natura di quel “terrificante” fenomeno. A volte, però, ben più che l’oggetto delle nostre paure è ancor più pericolosa l’incapacità di affrontarle. Non di rado, infatti, risulta più rassicurante dare un nome (o un volto) a ciò che ci inquieta, cercando di conviverci al meglio, piuttosto che indagarne l’origine o l’effettiva nocività. E la tecnologia non fa eccezione a questa regola: demonizzare i suoi aspetti (apparentemente!)

più minacciosi rappresenta ancora troppo di frequente una scorciatoia - se non altro psicologica - per mettere al sicuro da “domande indiscrete” convinzioni, valori e visioni del mondo ritenute irrinunciabili. Ormai da anni, per esempio, è molto diffusa - persino tra sedicenti addetti ai lavori - l’idea che l’era del digitale stia ingenerando scompensi incalcolabili sia di ordine relazionale, oltre che didattico, sulle giovani generazioni.Già nel 2009, per citare un caso, un trio di allarmati psicologi (Maria Rita Parsi, Tonino Cantelmi e Francesca Orlando) mettevano in guardia dalla perniciosa pervasività dello “spettro

STEFANO MORIGGI

Nuovi modelli didattici e cultura d’impresa per oltrepassare paure antiche...

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del digitale”. E nel loro “L’immaginario prigioniero” (Mondadori) sostenevano l’urgenza di recuperare “il significato e il valore di quella ritualità che rafforza e che consente di affondare solide radici nell’esperienza di tutti i giorni”. Ma questa idea di contraffazione esistenziale prodotta dalle “macchine” sui loro più vulnerabili e assidui fruitori - ormai comunemente chiamati “nativi digitali” - aveva già trovato sfogo nella preoccupata analisi di Francesco Alberoni. Il noto sociologo dell’eros, infatti, dalle colonne del Corriere della Sera (23 febbraio 2008) proponeva addirittura una “moratoria periodica di due mesi l’anno” da YouTube e dalle chat quale cura “disintossicante” per giovani “senza radici, senza un rapporto reale e drammatico con la vita, senza la capacità di confrontarsi e di riflettere e con l’illusione di essere perfetti”. E ancor oggi, nonostante la maggior confidenza con i new media, la diffidenza tecnofobica non pare evoluta in una consapevolezza critica dei rischi effettivi e delle reali opportunità. Solo qualche giorno fa, infatti, il filosofo Roberto Casati ha parlato (Il Sole 24Ore, 12 maggio 2013) di un minaccioso “colonialismo tecnologico” per alludere a una “ideologia” dominante destinata a monopolizzare, non senza temibili conseguenze, il mondo della scuola. È un ritratto patologico quello che emerge da questa tipologia di diagnosi dell’era digitale. Il virtuale “intossica”, la tecnologia “sradica” e al contempo impone le sue dinamiche di spaesamento. E a farne le spese sembrano essere il principio di realtà, l’autenticità dell’esperienza, oltre che la possibilità di relazioni che non siano semplici e fugaci connessioni - per dirla con le parole di Zygmunt Bauman. Quando poi queste epocali riflessioni precipitano nello specifico cognitivo dei nativi digitali, quelle che di fatto stanno configurandosi come inedite abilità (e relativi limiti) nel gestire e assimilare informazioni e contenuti, vengono generalmente stigmatizzate quali deficit di apprendimento provocati dalla frequentazione con una rete che “esternalizza” il

sapere annichilendo l’esercizio mnemonico e l’elaborazione concettuale; che non favorisce l’analisi critica, la selezione delle fonti e dei dati e che ostacola la lentezza necessaria alla riflessione. Tuttavia, prima di certificare tale presunta alienazione didattico-esistenziale e di individuare nella tecnologia la “radice” di ogni deriva psico-sociale, occorrerebbe almeno - come suggeriva sempre Vico - accantonare la “boria dei dotti” e scandagliare le proprie paure. Magari cominciando a chiedersi se (e quanto) siano “nuove”; o se, al contrario, non rappresentino piuttosto il ritorno di antichi timori che già avevano scosso il fragile equilibrio dell’animo umano. Basterebbe questo modesto esercizio - e la lettura di qualche classico della storia del pensiero occidentale - per comprendere qualcosa in più del nostro tempo, di noi stessi e anche delle proprie angosce, più o meno fondate che siano. In un celebre passo del Fedro, per esempio, Platone mette in scena un interessante dialogo tra il re Thamus, “che regnava allora sull’intero Egitto” e il dio Theuth, “il primo a scoprire i numeri, il calcolo, la geometria, l’astronomia e inoltre i giochi degli scacchi e dei dadi e soprattutto la scrittura”. Quest’ultimo, esibite con orgoglio le sue “tecniche” al sovrano, auspicava che venissero distribuite al popolo e, alludendo in particolare alla scrittura, aggiungeva: “questo insegnamento, o re, renderà gli Egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché è stato inventato quale rimedio per la memoria e la sapienza”. Ma Thamus, stemperando l’entusiasmo del dio inventore, replicava: “diversi sono colui che è capace di generare gli elementi di una tecnica e colui, invece, che è capace di

scenari

Si occupa di teoria e modelli della razionalità, di fondamenti della probabilità, di pragmatismo americano con particolare attenzione al rapporto tra evoluzione culturale, semiotica e tecnologia. Già docente nelle università di Brescia, Parma, Milano e presso la European School of Molecular Medicine (SEMM), attualmente svolge attività di ricerca presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca e l’Università degli Studi di Bergamo. Esperto di comunicazione e didattica della scienza, è consulente scientifico Rai e su Rai 3 è uno dei volti della trasmissione “E se domani. Quando l’uomo immagina il futuro”. Tra le sue pubblicazioni si ricordano: “Le tre bocche di Cerbero. Il caso di Triora. Le streghe prima di Loudon e Salem” (Bompiani, 2004); (con E. Sindoni) “Perché esiste qualcosa anziché nulla? Vuoto, Nulla, Zero” (Itaca 2004); con P. Giaretta e G. Federspil ha curato “Filosofia della Medicina” (Raffaello Cortina, 2008). Più recentemente (con G. Nicoletti) ha pubblicato “Perché la tecnologia ci rende umani. La carne nelle sue riscritture sintetiche e digitali” (Sironi, 2009); (con A. Incorvaia) “School Rocks. La scuola spacca”, (San Paolo, 2011).

Stefano Moriggistorico e filosofo della scienza

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giudicare quale grado di danno e di utilità essa possegga per coloro che ne faranno uso”. E una volta rivendicati il dovere e la responsabilità di una valutazione più articolata della “tecnica-scrittura”, così proseguiva: “essa procurerà l’oblio nelle anime di coloro che l’apprendono per mancanza di esercizio della memoria, in quanto, confidando nella scrittura, arriveranno a ricordarsi a partire dall’esterno, da segni estranei, non dall’interno di se stessi: non di memoria, ma di richiamo alla memoria hai trovato il rimedio”.In altre parole, esternalizzazione della conoscenza e annichilimento della memoria. Ma non è tutto... “Ai tuoi allievi - incalzava il re - procuri presunzione di sapienza, perché avendo acquisito grazie a te molte informazioni senza insegnamento sembreranno pieni di conoscenza, mentre per lo più saranno privi”. Ovvero, incapacità di elaborare e selezionare saperi attendibili e utili nozioni.Si potrebbe proseguire nella lettura del testo, ma lascio a chi vorrà il piacevole compito di intercettare ulteriori sintonie e assonanze nelle pieghe concettuali del celebre dialogo. I brani sopra riportati, d’altra parte, bastano a far emergere la “familiarità” dei timori platonici. Le paure del filosofo ateniese a fronte della radicale rivoluzione che la diffusione della scrittura alfabetica avrebbe provocato tanto nel modo di ricordare (e dunque di pensare) degli individui, quanto nella vita sociale e culturale della polis, sembrano anticipare i tremori paventati dagli allarmati osservatori dei giorni nostri. Con la differenza, però, che tra le righe del dialogo platonico si coglie la profondità di un’intuizione fondamentale ai fini della comprensione del nostro rapporto con la tecnologia. Infatti, quando, riferendosi alla scrittura, Platone parla di “rimedio”, il sostantivo greco originale è “pharmakon”. E, come ha osservato in un celebre saggio - La farmacia di Platone (Jaca Book, 2007) - il filosofo francofono Jacques Derrida, siamo di fronte a un termine indecidibile. Ovvero, per un greco “pharmakon” significava sia “farmaco” che “veleno”, ma nel senso di un farmaco che avvelena e di un veleno che medica. È dentro questa profonda ambiguità che Platone invita a leggere la drammaticità del passaggio dall’epoca del mito a quella del “logos”, attraverso la diffusione della “tecnica-scrittura”. Insidie e opportunità si co-appartengono nella potenza di un mezzo destinato sì a “sradicare” consuetudini, relazioni, istituzioni e, perciò stesso, portatore di nuovi orizzonti concettuali: tutti da comprendere nella loro profonda e sfaccettata ambiguità.Da grande pensatore, Platone intuisce l’inevitabilità e l’irreversibilità delle trasformazioni implicite nell’interazione “farmacologica” con la “tecnica-alfabetica”. Prospettare terapie “disintossicanti”, da questo punto di vista, sarebbe (stato) quanto meno ingenuo. E comunque un approccio incapace di mettere in luce la complessità del rapporto tra individui e

strumenti. In questo senso, non sarà arduo intendere che la scrittura è stata una “macchina” non meno rivoluzionaria della rete in cui rimodelliamo sempre più il nostro modo di agire e pensare. Lo si è visto, Platone teme la scrittura e i suoi effetti collaterali. Eppure scrive. Sa bene che rigettare il “pharmakon” non servirebbe a nulla. E allora lo assume, studiandone i sintomi che accuratamente descrive. E, al contempo, cerca di far di necessità virtù - scegliendo la forma di dialogo. Pur nella linearità spazio-temporale imposta della nuova “tecnica”, il filosofo riproduce il ritmo dialettico proprio dell’oralità. Analogamente a Platone, anche oggi sarebbe più sensato non lasciarsi vincere dalla paura del veleno, ma ricordare che, se assunto in dosi opportune, può addirittura rivelarsi un farmaco. E trovare le “opportune dosi” significa, appunto, pensare la tecnologia nella sua ambiguità per comprendere quello che siamo e progettare quel che vorremo essere, liberi - per quanto possibile - da false paure e insidiosi pregiudizi. Ripensare, dunque, al ruolo dell’istituzione scolastica e ai metodi della didattica compatibilmente alle caratteristiche cognitive di generazioni cresciute interagendo con schermi interattivi non è la moda del momento, ma l’urgenza culturale e politica di un’epoca che si rende consapevole dei cambiamenti sociali e delle rivoluzioni cognitive che la stanno segnando. E non mi sorprenderebbe se a pungolare istituzioni e intellettuali perché non dimentichino la lezione di Platone si levasse la voce di artigiani e imprenditori. Loro che hanno quotidiana dimestichezza con macchine e strumenti - e che ben conoscono quanto l’evoluzione tecnologica possa modificare non solo i modi e i tempi della lavorazione, ma addirittura la cultura dell’intraprendere - proprio loro (e meglio di altri!) potrebbero avere la sensibilità e la competenza per intuire la necessità di una riflessione su cosa significhi imparare, insegnare (e dunque lavorare) oggi. Proprio loro (e meglio di altri!) potrebbero percepire il bisogno di investire sulla formazione di una classe docente capace di riavviare una dialettica costruttiva con le nuove generazioni di studenti. L’alternativa - come scriveva nel suo “Diario di scuola” (Feltrinelli, 2008) Daniel Pennac - è cercare l’ombra della buona dottrina, la protezione dell’autorità competente, l’avvallo del decreto, la firma in bianco ideologica”. Dopodiché, prosegue lo scrittore francese, non rimane che cullarsi “su certezze che nulla scuote, neppure la smentita quotidiana della realtà”. Ma allora sì ci sarebbero davvero buone ragioni per cominciare ad avere paura del nostro futuro...

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L’innovativa evoluzione del caffè, baluardo di tradizione ed eccellenza nel territorio italiano dal Seicento

ad oggi: il Museo del Caffè Dersut è oggi una realtà culturale consolidata, inserita nella Rete Musei

Trevigiani da marzo 2013.

Quella del caffè è una storia di innovazione e tradizione allo stesso tempo. Bevanda dalle origini antiche ed esotiche, il caffè cresce spontaneamente nell’Abissinia meridionale (l’attuale Etiopia) e viene utilizzato la prima volta dagli Arabi come bevanda eccitante e valido sostituto delle bevande alcoliche vietate dal Corano. Il termine stesso ‘caffè’ potrebbe provenire dall’antica regione di Kaffa in Etiopia, che significa appunto ‘pianta’ o ‘terra di Dio’. Da qui, grazie agli Arabi, il consumo di caffè raggiunge Istanbul nel XVI secolo, laTurchia e, attraverso la Serenissima, arriva in Europa. Le sue proprietà stimolanti, insieme al piacere lento della degustazione, fanno la fortuna dei grandi caffè letterari: dai mitici Florian e Quadri di Venezia, al Pedrocchi di Padova e al Tommaseo di Trieste, fino ai celebratissimi Greco di Roma e Gambrinus di Napoli. Agli inizi del Novecento la svolta innovativa: elementi già esistenti, come il caffè, l’acqua calda, e il concetto di pressione, vengono combinati in maniera diversa per dar vita qualcosa di inedito: l’espresso, di cui l’Italia è sempre stata considerata patria originaria.

Una cultura, quella dell’espresso italiano, che Dersut, torrefazione di Conegliano dal 1949, ha deciso di omaggiare con la realizzazione di un Museo del Caffè dedicato. L’idea nasce nel 2003 dal desiderio del Conte Giorgio Caballini di Sassoferrato, amministratore unico dell’azienda, di diffondere presso chiunque, operatori, consumatori, cittadini e turisti, grandi e piccini, la cultura di questo importante ed assai apprezzato prodotto italiano. Portando, allo stesso tempo, la testimonianza storica della propria famiglia e impresa, da decenni impegnata nella valorizzazione di questo bene. L’organizzazione e lo sviluppo del progetto sono inoltre stati gestiti dalla figlia, avvocato Lara, e dal genero, avvocato Michele Meneghel. Il Museo, inaugurato nel 2010 nelle immediate vicinanze della sede aziendale, illustra con una ricca e pregiata esposizione di pezzi ed un completo percorso storico-didattico dal titolo “...dalla pianta alla tazzina, viaggio nella storia del caffè...”, l’intera filiera del caffè espresso italiano. I pezzi conservati sono oltre un centinaio e sono accompagnati

Cultura e tecnologia nella storia dell’espresso italiano

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scenari

da una ricca documentazione storica. A voler percorrere l’itinerario storico-didattico, si parte da una serra climatizzata con piante di caffè della monorigine Arabica provenienti dal Brasile, si continua con la storia della tostatura, testimoniata da numerosi tostini e macchine tostacaffè, dal 1800 in poi, fino ad arrivare alla prima tostatrice aziendale, quella con cui Dersut ha iniziato la propria attività nel 1949. A seguire una ricca esposizione di macinini, quale importante testimonianza della storia della macinatura, e poi di caffettiere, quale ulteriore testimonianza dell’evoluzione storica delle diverse tipologie di estrazione della bevanda caffè, per concludere, infine, con la storia della macchina per caffè espresso. Secondo le fonti e la documentazione storica quest’ultima inizia con i primi esemplari

di macchine a vapore a colonna, realizzate sul brevetto del milanese Luigi Bezzera nel 1901, seguite poi dalle macchine a leva o pistone, brevettate da Achille Gaggia alla fine degli anni ’30, fino all’avvento della macchina ad erogazione continua con la Faema E 61, ultima tappa dell’affascinante percorso della macchina per caffè espresso. Dei numerosi esemplari esposti in Museo, alcuni sono di proprietà dell’azienda e sono stati meticolosamente conservati nel tempo (come, ad esempio, la prima tostatrice e alcune macchine per caffè espresso), molti altri sono stati acquistati, dopo varie e scrupolose ricerche al fine di allestire il percorso museale. L’evoluzione nel tempo degli strumenti e delle tecniche per l’estrazione del caffè è tracciata e ricostruita attraverso la

Tostatrice Officine Vittoria, Modello 120 Kg, anno 1950, costruita appositamente per Dersut Caffè e utilizzata dall’azienda fino agli inizi degli anni ’90.

Tre esemplari di Tostacaffè: in primo piano macchina torrefattrice, Officine Vittoria, Bologna, anno 1955, alimentata a corrente elettrica con sistema di riscaldamento a gas, portata di tostatura 5 Kg di caffè; in secondo piano macchina torrefattrice delle Officine Meccaniche Bava Giuseppe, Torino, anno 1910, tostacaffè con sistema di riscaldamento a legna, portata di tostatura 5 Kg di caffè; ultimo esemplare, raro tostacaffè, con sistema sferico, prodotto in Germania dalla ditta G.W. Barth, alimentazione a legna o carbone, anno 1880, 5 Kg di tostatura.

Macchine per caffè espresso a leva o pistone, brevettate da Achille Gaggia nel 1938, le prime macchine in grado di produrre un caffè espresso con crema.

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presentazione degli esemplari esposti. ll caffè espresso, infatti, nasce come ‘tazzina nera fumante’ nel 1901 con il brevetto di Luigi Bezzera, un modello che utilizzava il vapore per creare la pressione. Si evolve con la comparsa sulla tazzina della crema grazie al brevetto di Achille Gaggia che nel 1945 vide nella forza muscolare la soluzione a tutti i problemi di creazione della pressione, inventando la famosa macchina a leva e inserendo all’interno del gruppo una molla. E si conclude con il brevetto della Faema E 61, nel 1961 appunto, con la macchina ad erogazione continua che prevede la sostituzione della molla con una pompa elettrica, che garantisce costanza di pressione ad ogni singola erogazione. “Per quanto riguarda l’apporto della componente tecnologica nell’evoluzione degli strumenti e delle tecniche per la produzione del caffè - commenta l’avvocato Lara Caballini - dobbiamo parlare di un buon compromesso tra tradizione ed innovazione tecnologica, ben simboleggiato dalla famosa ‘regola delle 4 M’ che vige per la preparazione di un espresso perfetto: miscela, macinatura, macchina, manualità.

Infatti, nell’epoca dell’elettronica, che ha comunque fatto la sua parte anche nel mondo delle attrezzature per caffè espresso, la ‘manualità’ dell’operatore fa ancora la sostanziale differenza per l’estrazione di un buon espresso”. All’interno del Museo il Centro Formazione Dersut, realizzato al piano superiore dell’edificio museale, per l’organizzazione di corsi teorico-pratici, destinati sia alla clientela, che ai futuri gestori. Il Centro è nato con l’intento di diffondere la preziosa ed affascinante cultura del caffè espresso italiano, anche e soprattutto al fine di migliorare la qualità del prodotto caffè e del servizio al bar. Il Museo del Caffè Dersut recentemente è stato inserito nella ‘Rete Musei Trevigiani’ (http://retemusei.provincia.treviso.it), presentata il 27 marzo 2013 su iniziativa della Provincia di Treviso, che ha messo insieme ben 58 realtà museali del territorio in un sistema che permetterà di unire la propria offerta culturale, nell’ottica di realizzare un progetto comune per la valorizzazione del patrimonio del territorio trevigiano.

Macinino di origine franco/olandese della fine ‘800 - inizi ‘900, di legno con scene ispirate alla vita agreste.

Macinacaffè di fabbricazione spagnola, con corpo in ghisa verniciata, tramoggia e coperchio di ottone e cassettina per la raccolta della polvere di caffè in legno.

Tris di macinini: i più significativi, il primo sulla sinistra modellino tedesco in bachelite di piccole dimensioni, detto “tascabile” o “da campeggio” o “da lavoro” e quello al centro di origine turca.

Macchina per caffè espresso Bezzera, Milano, modello tipo “R1”,

anno 1920

Tradizionali sacchi di juta contenenti ca 60 kg di caffè crudo l’uno, provenienti dai diversi Paesi produttori mondiali, sacchi che vengono caricati in containers su navi per il trasporto sino ai porti di sbarco. Sullo sfondo una macchina crivellatrice degli anni ’60, munita di tre diversi crivelli intercambiabili, impiegata in azienda per selezionare i chicchi in base alle dimensioni (la “dimensione” dei chicchi di caffè verde si chiama, in gergo, crivello).

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informazione pubblicitaria

SICUREZZA DI CLASSE ENTERPRISE ANCHE PER LE SEDI PERIFERICHE GRAZIE ALLE APPLIANCE 1100 DI CHECK POINT

Le soluzioni Next Generation Firewall ora disponibili a costi competitivi per filiali e uffici remoti

Le nuove Appliance 1100, dotate di sicurezza di livello enterprise in un formato desktop compatto, ideale per filiali e uffici remoti. La famiglia di Appliance 1100 offre prestazioni senza eguali, con 1,5 Gbps di throughput massimo del firewall, 220 Mbps di throughput VPN complessivo e un rating di sicurezza di 31 unità SecurityPower™ (SPU).

Le Appliance 1100 di Check Point sfruttano l’ormai nota Software Blade Architecture™, che consente alle aziende di personalizzare la propria piattaforma di sicurezza per soddisfare esigenze attuali e future. Per la prima volta, Check Point rende disponibile l’intera gamma della sua architettura Software Blade su appliance ad un prezzo particolarmente competitivo, che consente ai clienti di implementare qualsiasi combinazione di protezioni su più livelli, tra cui: Firewall, VPN, IPS, Application Control, Mobile Access, Data Loss Prevention, Anti-Bot, Identity Awareness, URL Filtering, Anti-spam e Antivirus. Un attacco informatico può avvenire lungo l’intera rete, dalla sede centrale al data center, fino agli uffici remoti. Se le sedi principali e i data center sono quasi sempre accuratamente protetti, sono proprio le filiali il luogo in cui più spesso si evidenziano lacune legate alla sicurezza. Con la proliferazione di minacce e attacchi sofisticati, gli hacker cercano di prendere possesso di una rete sfruttandone gli anelli più deboli. Le Appliance 1100 offrono a filiali e uffici remoti le stesse solide protezioni di sicurezza che si trovano nelle implementazioni di rete di livello enterprise.

“Le filiali possono essere spesso considerate il tallone d’Achille delle aziende, motivo per cui non devono essere trascurate le soluzioni di sicurezza per le sedi remote, indipendentemente dalle loro dimensioni o attività specifiche”, spiega Dorit Dor, vice president of products di Check Point. “Le Appliance 1100 di Check Point offrono agli uffici remoti le migliori prestazioni di sicurezza del mercato, accompagnate da gestione personalizzabile e performance ottimali, oltre che da un prezzo competitivo e una progettazione hardware particolarmente adatta.”

Le Appliance 1100 sono già dotate delle sofisticate tecnologie di sicurezza Check Point per gli uffici di piccole dimensioni (da uno a 100 dipendenti) e offrono gestione locale web-based flessibile e intuitiva e/o gestione centralizzata profile-based attraverso lo SmartCenter di Check Point. Tra le caratteristiche principali delle Appliance 1100 di Check Point:

• Sofisticate soluzioni SmartCenter di Check Point per la gestione della sicurezza che garantiscono implementazioni scalabili, policy di sicurezza coerenti lungo l’intera organizzazione e semplicità di gestione di centinaia di dispositivi.

• Gestione semplice e intuitiva, per implementazioni e configurazioni rapide anche per personale non specializzato in IT.

• Dimensioni compatte da desktop con dieci porte Ethernet da 1-Gigabit.

• Opzioni Internet flessibili per soddisfare le diverse esigenze delle singole filiali.

Opzioni hardware e disponibilità Le Appliance 1100 di Check Point sono disponibili in tre modelli (1120, 1140 e 1180), ognuno dei quali può essere dotato di una diverse opzioni di accesso Internet, tra cui connessione 3G, connettività ADSL e Ethernet.

Per ulteriori informazioni su funzionalità del prodotto e specifiche, è possibile visitare il sito

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Stefano Bacci e Stefano Biral: dal sogno all’azienda di tecnologia

L’informatica entra nella loro vita per caso, quasi come una fantasticheria, si trasforma nel primo

impiego e poi nell’azienda che attualmente dirigono. Oggi tra i soci del Gruppo Eurosystem Sistemarca,

Stefano Bacci e Stefano Biral hanno risposto alle nostre domande raccontando una storia di vita nella

‘storia della tecnologia’.

UNA STORIA NELLA STORIA

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“2001: Odissea nello spazio” e le affascinanti luci provenienti da HAL 9000: quando gli chiedi di descrivere come è nata la passione per l’informatica il suo primo ricordo corre là, al 1972 e ad un film guardato in un cinema. Poi qualcuno a scuola deve avergli spiegato come funzionava davvero un centro di calcolo. E che un tecnico avrebbe dovuto saper leggere quei giochi intermittenti di luci come fossero pagine di un libro. A quel punto ha creduto di aver sbagliato tutto. Comincia così, con una battuta, il racconto di Stefano Bacci, classe ’58, pluri-papà, tra i soci del Gruppo Eurosystem Sistemarca. Ride, ascoltandolo, Stefano Biral, anche lui socio del Gruppo. Ma, dopo averlo avvertito che toccherà anche a lui parlare degli inizi della carriera, si ricompone.

“Negli anni ’70 le macchine utensili venivano pilotate da calcolatori di processi che usavano nastri e schede perforate come supporti. Oggi, questi strumenti non esistono quasi più - prosegue Stefano Bacci - Ricordo ancora una tesina di gruppo realizzata alle superiori: dovevamo sviluppare un linguaggio di programmazione per pilotare il modellino di una piccola stazione ferroviaria e, con un teletype in grado di interfacciarsi con i comandi di accensione e velocità, azionare il trenino. L’obiettivo era anche quello di non farlo scontrare o andar fuori dai binari. Beh... abbiamo cambiato tanti di quei trenini!”.

Sono anni importanti quelli, di rinascita e opportunità per il territorio che inizia a popolarsi di piccolissime realtà imprenditoriali. Così Stefano, terminati gli studi e spedita qualche lettera di presentazione, non attende molto prima di ricevere una telefonata per il suo primo colloquio in Eurosystem, all’epoca nel 1979, una piccola software house a Villorba, in provincia di Treviso. “Avevo letto l’annuncio sul Gazzettino, ho provato a spedire un curriculum e mi hanno subito richiamato. Quando sono arrivato lì ho pensato di aver sbagliato indirizzo! C’era un’unica grande stanza e scrivanie per 4/5 persone al massimo”. Ma l’indirizzo era corretto, al colloquio Stefano fa un’ottima impressione e, dopo qualche giorno, inizia il suo primo lavoro senza immaginare quanto lontano lo avrebbe portato. “Ho partecipato da subito allo sviluppo di un programma per la gestione del ciclo di produzione e ho lavorato sulla mia prima distinta base. A quei tempi si trattava di un’esperienza innovativa, eravamo tra i primi a realizzare programmi per il calcolo dei fabbisogni aziendali e l’automatizzazione dei processi produttivi. La mia giornata lavorativa iniziava alle 9 di mattina e finiva anche molto tardi, a volte oltre mezzanotte. Ma c’erano anche molti ‘tempi morti’ dovuti alla compilazione dei programmi che avveniva su nastro: questo significava che per testare

ogni singola modifica al programma si impiegava almeno un quarto d’ora! La dilatazione dei tempi, d’altra parte, ci costringeva ad essere molto più attenti e a fare uno studio più accurato”.

Stefano inizia a 20 anni, senza neanche l’auto, e ogni giorno a piedi e in treno percorre le stesse strade per tornare a Venezia, dove abita. Poi, nel febbraio dell’80 viene assunto e il suo primo stipendio è di 398 mila lire. “In quegli anni i monitor erano a caratteri e non esisteva la componente grafica - ci racconta - E inizialmente realizzavi le videate di programma su fogli a quadretti. Ricordo che anche nel monitor si leggevano al massimo 80 caratteri per 24 righe di colore verde o azzurro e le videate di inserimento/visualizzazione dei dati venivano realizzate entro questi termini. Se poi si lavorava con i monitor a fosfori verdi, quando provavi ad alzare lo sguardo vedevi il mondo in rosa!”.

Dopo qualche mese dall’ingresso di Stefano, Eurosystem viene contattata da un’azienda di Trieste che vendeva una nuova tipologia di elaboratori che avrebbero facilitato il lavoro: questi, infatti, operavano con un linguaggio di programmazione non più compilato ma interpretato. “Quella collaborazione ha dato una svolta al nostro lavoro. Il numero dei clienti è aumentato, vendevamo le nostre soluzioni a molti comuni, a camere di commercio, oltre che ad aziende commerciali e manifatturiere - aggiunge - l’azienda era cresciuta a tal punto che sentivamo l’esigenza di assumere un’altra persona. E Stefano Biral era lì pronto ad attenderci”.

53 anni, di cui 30 nel campo dell’informatica, Stefano Biral si racconta così: “Da ragazzo ero affascinato da questo mondo. Erano i primi anni, le tecnologie stavano aprendo nuove frontiere e scenari fantascientifici e io sognavo di far parte di questo settore. E poi mi piacevano i flow chart - ride - Ho provato a seguire un corso sul linguaggio di programmazione Cobol, mi è costato moltissimo ma in quell’occasione ho creato i miei primi diagrammi di flusso. E ho capito che le schede perforate, che avevo prima di allora intravisto da qualche parte, servivano a memorizzare solamente 80 caratteri e che c’era una marchingegno fisico che le riordinava. Il mio entusiasimo era alle stelle e ho deciso di provarci”. A pochi giorni dalla fine del servizio militare e

stories

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con un diploma di perito elettrotecnico, anche lui inizia ad inviare diverse lettere ed è presto chiamato e poi assunto in Eurosystem. Era il 1982. “Di informatica sapevo ben poco all’epoca eppure è diventata la linea conduttrice di tutta la mia vita, personale e professionale. Stefano Bacci mi ha insegnato la maggior parte delle cose - confessa - l’altra me l’ha insegnata l’esperienza con i clienti, lo scontrarsi di volta in volta con procedure e processi di gestione da revisionare, ripensare, automatizzare. Non è stato facile ma ricordo ancora che con il primo stipendio ho acquistato un’auto, una ritmo bianca con cui andavo a lavoro ogni giorno”.

A questo punto chiediamo ad entrambi come era lavorare all’epoca: “Beh - comincia Stefano Bacci - ricordo una frase emblematica che mi aveva detto un cliente che seguivamo in quegli anni, cioè che ‘i consulenti di informatica erano le uniche persone che lui pagava per dovergli insegnare le cose’. I nostri interlocutori avevano delle conoscenze molto inferiori rispetto ad oggi e noi, al contrario, eravamo davvero dei portatori di innovazione e progresso”. “Infatti - continua Stefano Biral - le software house erano poche e agli albori, ed erano i clienti per primi a chiedere con determinazione il nostro aiuto. Tante aziende erano alla prima meccanizzazione, questo significava che prima del nostro arrivo libri contabili

e nastrini erano gli strumenti più utilizzati per tenere il calcolo della contabilità. Nel tempo, poi, da tecnici e pionieri siamo diventati dei consulenti, con un compito ancor più difficile: oggi offriamo indirizzi e visioni su come riorganizzare l’azienda, lo facciamo con l’obiettivo di insegnare ai nostri clienti ad utilizzare le tecnologie come strumento, più che fine, per un rinnovamento di natura organizzativa e strategica... una bella differenza! Un aspetto molto bello ed emozionante di questa evoluzione è che alcuni clienti acquisiti in quegli anni sono rimasti con noi fino ad oggi, riponendo fiducia in noi per oltre 30 anni”.

L’84 e l’85 segnano una svolta. Prima Stefano Bacci e poi Stefano Biral vengono inglobati nella società divenendone soci. È un periodo ricco di entusiasmo ma anche di responsabilità e duro lavoro. L’azienda cresce ancora, vengono assunte nuove persone e inizia adesso anche la convergenza con Sistemarca, ex-software house consociata di Eurosystem, che si trasformava in quegli anni in società rivenditrice di hardware andando ad integrare l’offerta della stessa Eurosystem. “Diventare soci a 26 anni è stato strano: avevo avuto la possibilità di andare via e la Direzione ha deciso di trattenermi offrendomi questa opportunità”, racconta Stefano Bacci. “Dal punto di vista lavorativo -

Stefano Biral

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aggiunge Stefano Biral - sono aumentate le responsabilità poichè nel frattempo eravamo diventati 7/8 collaboratori. Sono stati anni in cui ho imparato moltissimo, soprattutto dai clienti. Ricordo che una volta stavo effettuando un’istallazione presso un cliente di Trieste e il programma di fatturazione ad un certo punto è andato in errore 43 (lo spazio previsto per un numero era stato definito troppo piccolo rispetto al numero stesso). Guardo la fattura in analisi che riportava un importo di oltre un miliardo di lire e provo a tranquillizzare il cliente dicendogli ‘non si preoccupi, gli importi sono troppo grandi, sicuramenti sbagliati e per questo è andata in errore’. Ma il cliente risponde: ‘Guardi che questi sono i nostri importi consueti’. Evidentemente l’errore non era quello ma io non l’avrei mai detto: era una delle prime aziende con cui trattavo che poteva permettersi di fatturare cosi tanto ed io, certo, ne ero sorpreso”.

Nel 1987 Eurosystem si trasferisce nella sede attuale di Villorba e al suo interno nasce il primo reparto di Engineering dedicato allo studio delle soluzioni che stavano nascendo: sistemi di rete più complessi, primi database, domini, accessi e stampanti di rete erano gli argomenti più caldi. E qualche anno dopo fanno la comparsa i primi pc e i programmi di DTP, ossia desktop publishing. L’azienda decide allora di

creare una divisione dedicata a queste nuove tecnologie grazie alle quali realizza la sua prima newsletter cartacea. “È stato il nostro primo Logyn - scherza Stefano Bacci - una pubblicazione in bianco e nero con le notizie più importanti sull’azienda che spedivamo a tutti i nostri clienti”. “Eravamo in un periodo di grandi cambiamenti anche se non sempre riuscivi a rendertene conto - commenta Stefano Biral - C’era tutta una serie di prodotti nuovi, si riusciva a studiarli, prestarci attenzione e conoscerli tutti anche in dettaglio. E soprattutto la capacità inventiva era ancora molto importante perché le tecnologie presentavano dei grandi limiti che l’intervento dello sviluppatore permetteva di superare. Si riuscivano a trovare soluzioni e progetti che ti sembravano davvero geniali. Oggi, invece, gli strumenti a nostra disposizione sono così avanzati che ti permettono di fare qualsiasi cosa e il nostro compito è soprattutto quello di capire come integrare le diverse tecnologie per comporre la soluzione più adatta alle esigenze dei clienti. Ricordo ancora che il primo server acquistato come Eurosystem per la gestione di servizi dei clienti era di 10 mega ed io ne ero felicissimo perché mi sembrava di avere spazio a sufficienza per i clienti di tutta Italia. Poi lo abbiamo esteso addirittura fino a 20 mega. Oggi si parla di terabyte!”.

Stefano Bacci

stories

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MAGGIO 2013

Gli anni ’92-’93 e poi il 2004 si rivelano particolarmente difficili. In particolare nei primi anni ’90 vengono fatti grossi investimenti per lo sviluppo di un nuovo software ERP per il quale l’azienda crea una divisione apposita. I clienti si acculturano, evolvono e iniziano a richiedere funzionalità sempre nuove e collegate ai programmi di Word, Excel, e a quelli di grafica. Soprattutto si inizia a sentire l’esigenza di una maggiore sicurezza dei dati e di una velocizzazione delle operazioni.“È stato forse uno dei momenti più complessi di questa nostra storia - racconta Stefano Bacci - Avevamo affrontato molti investimenti per la nascita del nuovo software ERP Freeway® sapendo di non poter vedere un ritorno immediato. Poi, in quegli anni, un cliente mi ha chiesto di rifare il sistema informativo della sua azienda dicendomi che ci sarebbero voluti circa 6 mesi: in realtà sono stato via ben 6 anni, dal 1995 al 2001. Presso il cliente ho seguito tutta la parte di rinnovo del gestionale iniziando a lavorare anche su sistemi di reportistica come Business Objects. Ho fatto un’esperienza diversa ma molto intensa perché abbiamo realizzato anche la gestione di un magazzino robotizzato per materie prime da 4.000 posti pallet integrato all’interno del nostro ERP Freeway®, oltre all’integrazione con analisi di plc direttamente sulle linee di produzione, stampa etichette secondo gli standard europei con affissione diretta sul pallet alla fine della linea di produzione, integrazione con altri ambienti gestionali in ambito internazionale. È stato uno dei momenti più entusiasmanti per me ma anche uno dei più delicati da gestire, che mi ha portato fuori azienda per un periodo lungo oltre a lavorare in ambito internazionale con tutte le problematiche del caso”. Ma l’esperienza è servita e Stefano nel 2001 torna in Eurosystem con l’idea di realizzare nuovi progetti, primo fra questi è la nuova divisione di Business Intelligence. Poi nel 2000 arriva la necessità di adeguare il sistema di datazione dei programmi sviluppati e di effettuare il passaggio da quello a due caratteri (90, 91, ecc.) a quello a quattro cifre (2000, 2001, ecc.). “Ci è toccato rivedere circa 8.000 programmi - ricorda Stefano Bacci - un’impresa non da poco alla quale si è aggiunta l’adattamento al sistema di moneta unico avviato con l’Euro. Infine, nel 2004, dopo aver realizzato un bel numero di istallazioni e aver contribuito al rinnovamento di una gran parte dei nostri clienti, abbiamo

risentito di una fase di difficoltà. Nonostante questo, abbiamo proseguito nella ricerca e nello sviluppo, nell’aggiornamento e nel miglioramento del prodotto. La nostra tenacia è stata premiata: nel 2007 abbiamo rilasciato una nuova versione dell’ERP denominata Freeway® Skyline. Nel frattempo, l’azienda si era trasformata in un Gruppo ricollocando al suo interno la stessa Sistemarca ed era arrivata a contare oltre 100 collaboratori... una bella rimonta insomma!”.

Oggi Stefano e Stefano continuano a lavorare da soci all’interno del Gruppo che comprende ben 4 società, una di queste con sede a Bergamo. La loro è una storia nella storia, il percorso personale dentro quello dell’evoluzione tecnologica che negli ultimi 50 anni ha attraversato il mondo, cambiando anche le loro vite e trasformandole in una appassionata ricerca dell’innovazione. “Con ogni cliente - racconta Stefano Biral - si parte dall’idea e dal proposito di migliorare la vita di quell’azienda ottimizzando i processi lavorativi. Ossia rendendoli più semplici e proficui. Ma nella maggior parte dei casi, arrivare ad ottenere processi fluidi e soluzioni semplici da utilizzare è il risultato di un rinnovamento culturale dell’azienda oltre che di uno studio approfondito della soluzione. Ogni progetto è una sfida perché, in fin dei conti, le aziende sono fatte di persone ed è da lì che passa il primo e vero passo verso l’innovazione. La nostra competenza fornisce poi da indirizzo strategico e la tecnologia da strumento. Infatti, le avventure più belle sono state quelle in cui abbiamo potuto lavorare a stretto contatto con il cliente rientrando nel team di sviluppo dello stesso, carpendo così le dinamiche più profonde di quella realtà e realizzando insieme la trasformazione, culturale e informatica. Sono tanti i clienti che sono cresciuti con noi, piccole realtà adesso di respiro internazionale, come molte delle nostre aziende vinicole e del mobile. Sapere che oggi quelle stesse realtà esportano in tutto il mondo utilizzando da decine di anni il nostro software di gestione ci rende estremamente orgogliosi”. “Una delle più belle sfide affrontate? - ripete la domanda Stefano Biral - Un nuovo cliente che mi aveva raccontato di essere disperato per aver cambiato negli ultimi 5 anni ben 5 software gestionali. Noi eravamo la sesta azienda che ci provava... abbiamo installato Freeway® Skyline ed è lì da oltre 10 anni”. Gli occhi sorridono, la passione brilla e la storia per oggi si chiude qui.

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La nostra terra è fatta da uomini, famiglie, comunità che da un’idea, da un sogno, oppure semplicemente dal mero lavoro quotidiano hanno saputo costruire ‘progresso’, contribuendo alla crescita del Paese in cui sono insediate…

incontri con

Storie dell’Italia imprenditoriale

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Capitolo 1 Si legge, nei documenti dell’epoca, che nel 1897 si insediò a Percoto un certo Orazio Nonino e che lì stabilì la sede della propria distilleria esistita fino ad allora solamente sotto forma di un alambicco itinerante, montato su ruote. “Il nostro marchio rappresenta il simbolo degli alcoli così com’era nel Medioevo”, racconta con il sorriso certo Antonella, una delle tre figlie di Giannola e Benito, quinta generazione dei Nonino.

La storia delle Distillerie NoninoC’è un paese immerso nel verde, a pochi chilometri dal comune friulano di Pavia di Udine, si chiama

Ronchi di Percoto. In questa piccola frazione inizia la storia dell’azienda che ha cambiato il destino del

distillato più povero, la Grappa, trasformandolo in uno dei distillati più richiesti al mondo. Qui inizia la

storia delle Distillerie Nonino, di Benito e Giannola. Famiglia ‘d’annata’, effige sincera di una vita vissuta

con passione e determinazione a tutela del territorio e delle sue tradizioni migliori. Oggi i numeri parlano

da soli: 15 milioni di euro di fatturato, 30 collaboratori, 5 distillerie artigianali.

ENERGIA, PASSIONE, SACRIFICIO: SPIRITO ITALIANO

Distillerie Artigianali Nonino Giannola e Benito in distilleria

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incontri con

Capitolo 2 L’attività continua prosperosa, ma gli anni ’60 segnano una svolta ‘decisiva’: quando una giovane donna, caparbia e appassionata, Giannola Bulfoni, sposa Benito, l’erede della azienda. “Un colpo di fulmine, sentimentale e professionale”. Giannola, donna colta, intelligente e indipendente, arriva carica di un bagaglio di energia e amore per le proprie origini e per la propria terra, il Friuli. Una passione sincera, ereditata dal padre produttore di aratri, studioso di storia e civiltà rurale. Subito Giannola affianca Benito nella vita di tutti i giorni, divisa tra il lavoro e la famiglia, e nella missione che il marito sta portando avanti da anni: produrre una Grappa di altissima qualità che possa essere apprezzata dai palati più raffinati. E Giannola si butta in questa battaglia: comincia la rivincita di una coltivazione agricola pregna di storia e tradizione. La giovane donna inizia a ritagliarsi uno spazio personale all’interno dell’azienda: si occupa dell’acquisto della vinaccia contrattando direttamente con i viticoltori il costo della materia prima. Ci mette poco Giannola a diventare conosciuta ovunque. Ma non basta, moglie e marito sentono di dover lavorare per nobilitare e elevare la Grappa a prodotto di alto livello, realizzandone una in grado di competere con whisky e cognac. “Una bella sfida: perché la Grappa, agli occhi dei consumatori, era sinonimo di osterie paesane. Mia madre si rendeva conto che quel distillato così puro, portava con sé una cultura contadina che infastidiva, forse perché ricordava un passato di miseria e fatica. Lei, che proveniva da una famiglia di contadini e amava degustare sapori e odori della sua terra, si chiedeva perché la gente bevesse cognac francesi e non apprezzasse i frutti locali”. Per Giannola e Benito la Grappa è un prodotto straordinario da ritrovare; occorre, però, abbattere il pregiudizio nell’immaginario comune: “Bisognava puntare alla qualità del prodotto e della lavorazione, e anche sulla sua presentazione al mondo profano”. Arrivano in aiuto le instancabili ricerche di Benito sul metodo di lavorazione originario di questa produzione, ossia l’alambicco discontinuo artigianale. Perchè con questo sistema la materia prima può essere controllata a vista, a differenza di quello che accade nel processo industriale. E Benito ha ragione: la tecnica artigianale trasforma la vinaccia, se fresca e correttamente fermentata, in un liquido cristallino e profumato. Siamo a fine anni ’60, in questo periodo la maggior parte degli altri produttori passano da una distillazione artigianale a una industriale per aumentare la produzione e far fronte alla crescente richiesta di Grappa. Non i Nonino che restano fedeli alla qualità e al metodo artigianale discontinuo.

Capitolo 3 La strada per affermarsi, intanto, si mostra lunga e ricca di detrattori. Giannola e Benito non si danno per vinti e cominciano invece a lavorare sulla qualità della loro ‘sgnapa’ (grappa in dialetto friulano). Il primo dicembre del 1973 creano la

prima Grappa Monovitigno® distillando separatamente le vinacce dell’uva Picolit, creando così un distillato unico e rivoluzionando il sistema di produrre la Grappa. “L’obiettivo restava migliorare qualitativamente la Grappa. I miei genitori iniziarono selezionando le vinacce di singoli produttori, per poi arrivare a sperimentare la distillazione di una singola varietà di vinaccia, per vedere se la Grappa prodotta esprimeva le caratteristiche originarie di quel vitigno. Decisero di iniziare l’esperimento con il Picolit, vitigno raro e nobile, tipico del nostro territorio; mia madre Giannola andò dai vignaioli a richiedere che la vinaccia del Picolit fosse separata dalle altre. E dal momento che questi non volevano saperne di perdere tempo a separare le vinacce delle diverse qualità di uva, chiese aiuto alle loro mogli. Promise loro un pagamento delle vinacce quindici volte superiore per avere la vinaccia del solo Picolit separata dalle altre e, in un’epoca in cui le donne non erano economicamente indipendenti, era una proposta veramente allettante”. Alla prima distillazione di Grappa Monovitigno® Picolit, i Nonino invitano a fare da padrino il giornalista enogastronomo Luigi Veronelli che a quei tempi teneva su Panorama una rinomata rubrica di enogastronomia. Veronelli dopo aver assaggiato la creazione di Giannola e Benito, la settimana seguente, pubblica l’articolo “Picolit, Picolit, che sgnapa!” decantandone le straordinarie qualità. È la svolta. “I nostri genitori si resero anche conto che la Grappa Monovitigno® Picolit era talmente unica che doveva essere riposta in un contenitore che sottolineasse la preziosità del distillato, e non certo nelle fiasche come solitamente si faceva con la Grappa tradizionale - perché tutti dovevano capire al primo impatto visivo che si trattava di un distillato speciale. Al rientro da un viaggio a Conegliano mio padre tornò con un’ampolla da 250 ml in vetro soffiato: era stupenda, attualissima ancora oggi e ci contraddistingue”. Il tappo è argentato, la bottiglia in vetro soffiato a mano, le etichette scritte a mano da Giannola.

Da sinistra: Elisabetta, Cristina e Antonella Nonino con Luigi Veronelli

Giannola e Benito in distilleria

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“Al termine del periodo di riposo della Grappa Monovitigno® Picolit, quando finalmente si decise che era pronta per essere imbottigliata, mia madre addirittura pubblicò sul Messaggero Veneto un articolo che annunciava con orgoglio la sua presentazione in bottiglia e chiamò poi il famoso fotografo Aldo Baldo a immortalare questo momento. La prima produzione, però, andò completamente invenduta”. Il prezzo era proibitivo: ottomila lire (del 1974) per 250 ml, rispetto alle 2.500 di un bottiglione di grappa tradizionale da litro e chi l’aveva ordinata ritirò l’ordine accompagnandolo con una imprecazione. Allora Giannola, piuttosto che svendere quella Grappa superba, decise di offrirla in omaggio a personaggi noti dell’attualità e sommelier, coraggiosamente contattati, come Agnelli, Indro Montanelli, Marcello Mastroianni. E così, nel giro di una decina di anni, il Monovitigno® Nonino si afferma nelle più belle enoteche e nei migliori ristoranti d’Italia. Inoltre, Giannola si rende conto che per far comprendere le qualità del prodotto diventa necessario presentare la Grappa Monovitigno® offrendola personalmente in degustazione o in speciali occasioni, invitando il consumatore a venire direttamente in visita in distilleria.

Capitolo 4 L’anno successivo alla distillazione del Picolit, Giannola e Benito decidono di distillare altri vitigni friulani. Ricercando le vinacce degli antichi vitigni autoctoni friulani scoprono che i più rappresentativi - Ribolla, Schioppettino, Tazzelenghe e Pignolo - sono in via di estinzione, essendone vietata la coltivazione. Il 29 Novembre 1975, con lo scopo di farli ufficialmente riconoscere dagli organi nazionali e comunitari, istituiscono il Premio Nonino Risit d’Âur (barbatella d’oro) da assegnare annualmente al vignaiolo che abbia posto a dimora il miglior impianto di uno o più di questi vitigni. “A quel tempo la CEE, aveva richiesto il censimento dei vitigni presenti sul territorio, le varietà più rare non erano state censite. Pertanto, non essendo riconosciute ufficialmente, non potevano essere commercializzate e venivano piano piano abbandonate”. Nel ’78 i vitigni vengono finalmente autorizzati. I Nonino decidono in seguito di estendere il premio all’ambito letterario, per dare un riconoscimento agli scrittori italiani che promuovono la cultura contadina, e istituiscono così il Premio Nonino di Letteratura. A quest’ultimo si affianca nell’84 il Premio Internazionale Nonino da riservare ad uno scrittore straniero - il primo a ricevere il riconoscimento è il brasiliano Jorge Amado - e infine nel ’90 nasce il Premio Nonino dedicato ad un Maestro del nostro tempo. Tutti e quattro i premi sono nati e realizzati per la

valorizzazione della civiltà contadina.Capitolo 5 Il percorso dei Nonino non si ferma: nell’84 decidono di distillare per la prima volta il frutto intero dell’uva, creando l’Acquavite d’uva ÙE®, ottenendo dopo non poche difficoltà l’autorizzazione di tre diversi Ministeri: Industria, Agricoltura e Sanità. “Papà e mamma si sono trovati nelle cose importanti: l’importanza della famiglia e il lavoro che seguono con grande rigore e passione. Mia madre ha sempre perseguito il suo sogno: nobilitare la grappa, una produzione tradizionale legata alla cultura del nostro territorio, e farla apprezzare a livello internazionale. Ancora oggi imbottigliamo solo grappe e acquaviti distillate con metodo artigianale nei nostri alambicchi discontinui a vapore a Ronchi di Percoto e seguiamo in prima persona tutte le fasi della produzione per garantire la massima qualità del distillato. L’invecchiamento avviene nelle 1750 barriques di legni diversi custodite nelle nostre cantine padronali, senza aggiunta di aromi e/o caramello”. Il 15 Novembre 1989 i Nonino impiantano in Friuli un proprio vigneto sperimentale di Picolit, Ribolla, Fragolino, Schioppettino e Pignolo, di circa 40 ettari, dal quale ricavano le uve per la produzione dell’Acquavite d’uva ÙE®, di qualità e caratteristiche senza eguali.

I Nonino e il territorio... “Alla fine degli anni ’60, per disciplinare la produzione di grappa friulana e tutelarne la specificità, l’associazione dei distillatori friulani decide di creare il consorzio della Grappa Friulana. Mia madre, invitata a farne parte, chiese che nel disciplinare di produzione venisse specificato che la Grappa, per chiamarsi Friulana, doveva essere prodotta con alambicco discontinuo da vinacce friulane. Il consorzio non inserì la richiesta e i miei genitori non vi aderirono. L’episodio esprime tutto il rigore e la volontà di non scendere a compromessi, che fin dall’inizio ha caratterizzato il modo di lavorare dei miei genitori e della nostra azienda”.

1989: la Famiglia Nonino con laGrappa Cru Monovitigno® Picolit.Da sinistra: Elisabetta, Benito,Giannola, Cristina e Antonella Nonino.

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Sigmund Freud sosteneva che “c’è una storia dietro ogni persona. C’è una ragione per cui loro sono

quel che sono”. E c’è una storia dietro a ogni famiglia che è memoria e mappa genetica di eventi passati

e futuri anche del territorio e della Comunità. Questa è la storia dei Fratelli Goppion.

Nell’album di famiglia spicca una foto in bianco e nero che risale a una calda giornata di maggio del 1968. Una bambina in calzettoni bianchi tiene timidamente in mano un vassoio con un paio di forbici posate sopra. Dietro a lei si accalca una folla di persone in abiti da cerimonia e con il sorriso pronto. È senz’altro un giorno di festa per tutti.

La bambina nella foto è Paola Goppion, una dei cugini titolari dell’omonima ditta trevigiana di caffè, e la ricorrenza è l’inaugurazione del nuovo stabilimento costruito lungo la strada napoleonica ottocentesca conosciuta, dalla Comunità trevigiana, come Terraglio. Sicuramente è un giorno di festa per tanti, perché quella nuova costruzione - che nasce da scelte architettoniche definite e studiate per armonizzarsi sapientemente con l’ambiente circostante - riassume uno spaccato di storia economica e sociale di un Veneto imprenditoriale lontano nel tempo, ma

ancora vivo grazie alle nuove generazioni.Lo stabilimento segna una tappa importante nella vita di molte persone: per i Goppion indica l’inizio di un’attività industriale vera e propria, per il territorio trevigiano si tratta di un importante insediamento industriale e l’occasione di sviluppo urbano, e per l’Italia è il principio di una delle prime linee di conservazione del caffè sotto vuoto. Eppure la famiglia in quella primavera del ’68 ha già una storia ventennale alle spalle, che ha preso avvio in una frazione misconosciuta tra Casier e Casale sul Sile - Lughignano

1968, inaugurazione dello stabilimento Goppion

Goppion Caffè dal 1895 ad oggi

STORIA DI UN TERRITORIO E DI UNA FAMIGLIA

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- e che in pochi anni è diventata una delle realtà imprenditoriali più consistente della regione. Paola, ci racconta che il capostipite, Luigi Goppion, fu “uomo estremamente sfortunato”, ma che ha avuto il talento e lo spirito di “inventarsi imprenditore” in un territorio povero economicamente, eppure ricco di aspettative. “Siamo nel 1859. Luigi è orfano, perché abbandonato dalla madre alla nascita e non riconosciuto dal padre. Cresce così, e una volta adulto dimostra intraprendenza e tanta voglia di lavorare: nato e cresciuto a Lughignano, una volta adulto, in pochi anni diventa il titolare del bar e della trattoria, in seguito dell’ufficio postale e del negozio di alimentari. Di fatto del centro vitale del paese. Ed è nel negozio di alimentari che inizia a tostare il caffè, prima da solo e poi assieme alla moglie e al figlio Pietro e in seguito ai nipoti Angelo, Giuseppe, Luigi, Giovanni Olivo e Ottorino. Sempre assieme con sollecitudine. Pietro è mio nonno”.

Ed è il nonno di Paola a continuare le attività in paese, ereditate dal padre, anche se in un secondo momento decide di spostarsi a Treviso portando avanti l’attività di tostatura del caffè e nel contempo impiegandosi come muratore per arrotondare. Angelo viene inviato dall’esercito in Etiopia prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, è circa il 1935. Giovanni lo raggiunge alla conclusione del colonialismo italiano: lì restano a lavorare anche dopo il ritiro delle armate italiane e avviano un negozio alimentare di prodotti italiani. “L’essere nel Paese di origine di uno dei caffè più buoni al mondo deve aver dato loro l’impulso decisivo ad investire ogni guadagno e energia nella lavorazione della bevanda. Tornati a Treviso a metà degli anni ’40, dopo il bombardamento del ’48 rilevano una piccola attività messa in vendita nel cuore della città che si chiama Torrefazione Trevigiana Caffè, al cui nome aggiungono Fratelli Goppion”.

Si apre un nuovo capitolo: quell’attività artigianale cresce grazie all’impegno costante di tutti i familiari. Altri due fratelli, Ottorino e Olivo, decidono di emigrare in Venezuela, terra vergine e ricca di opportunità e fondano una piccola torrefazione ‘Café San Antonio - Hermanos Goppion’. La famiglia, divisa geograficamente ma sempre unita, implementa il ‘mestiere’ di casa, che avrà il suo boom negli anni ’60.

“Siamo passati dal lavoro di retrobottega nell’immediato dopo guerra, ad un piccolo insediamento di carattere artigianale nel centro storico cittadino, a questo stabilimento costruito lungo una delle arterie storiche della provincia, che lega Treviso a Venezia. La nostra storia si accompagna a quella della città di Treviso e del Veneto. Una terra che ha vissuto i drammi delle guerra, ma che ha saputo mantenere lo spirito alto e voglia di lavorare... e tanta intraprendenza! Un ulteriore e significativo

progresso lo conosciamo tra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’80: la nostra attività acquisisce un carattere sempre più industriale, moderno e organizzato, anche se il sapore del ‘lavoro artigianale’ resta sempre all’interno, di noi e dei nostri prodotti. I nostri caffè raccontano della nostra cultura e tradizione familiare. Infatti, sebbene derivi da una pianta che non nasce e cresce qui, il prodotto ha una forte diffusione e caratterizzazione legati al territorio italiano. Caffè come bevanda di consumo, ma anche come espediente di socializzazione”.

Oggi, la Goppion è una PMI consolidata e ben organizzata, dagli anni ’70 è una società per azioni. Oltre alla torrefazione esistono venti caffetterie a marchio, aperte tra gli anni ’60 e ’70, oltre a quella in piazza Borsa che risale al ’48 e che mantiene ancora i locali che un tempo ospitavano la tostatura. Ci sono due depositi, a Venezia e in Friuli. Solo nello stabilimento lavorano 35 persone. Goppion Caffè,

Luigi Goppion

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incontri con

oltre ad essere un marchio consolidato nel triveneto, vende anche bene all’estero, soprattutto nei Paesi dell’Est. L’azienda lavora ancora con il sistema della tentata vendita: furgoncini che hanno il carico di merce fresca e girano per il territorio ogni giorno percorrendo chilometri per incontrare i clienti vecchi e conoscerne di nuovi. Attualmente esistono due linee di produzioni: quella venduta poi con il marchio di famiglia e una particolare lavorazione conto terzi, come quella che l’azienda fa per AltroMercato. Una liaison iniziata 28 anni fa quando la linea di prodotti equosolidale era ancora una piccola attività che si affacciava su un mercato tradizionale, ma con una nuova, consapevole attenzione all’origine dalla quale proviene il prodotto. L’azienda trevigiana in quegli anni inizia l’iter delle certificazioni, anche per il prodotto biologico. Tra queste, la Fairtrade per uno sviluppo sostenibile ed equo: una certificazione di prodotto conforme agli standard sociali, economici e ambientali. In seguito nasce la linea biologica di proprietà chiamata NATIVO. “Fin dall’inizio, i Fratelli Goppion hanno scelto di lavorare caffè di qualità Arabica provenienti dal Centro e Sud America, dalle isole caraibiche, dall’Etiopia. I grani di caffè arrivano allo stabilimento di Treviso verdi da circa 15 luoghi del mondo. Dal Brasile all’Etiopia, dall’Honduras al Guatemala e così via. Combinati differentemente danno vita a 6 miscele per il Bar e almeno 8 per il consumo a casa. Di queste, almeno sei sono in fascia gourmet e dedicate prevalentemente all’uso con la moka. Una scelta di campo che è poi una scelta di vita. Lavorare bene significa riflettere dentro al lavoro stesso un modo di essere; il lavoro è quello che siamo. Ogni luogo ha il suo caffè con il proprio gusto che è il suo patrimonio; la nostra attenzione va a queste diversità, all’esaltazione dei loro aromi. Lavoriamo caffè che hanno composti aromatici naturali di cacao, di fiori, di spezie, di cioccolato, di vaniglia. Tutto questo è un tesoro da preservare e da esaltare; tostiamo separatamente i caffè delle diverse

provenienze perché ognuno sia narrato al meglio e possa dare alla miscela una caratteristica importante e di spicco.Oggi, la nostra fortuna è il nostro assaggiatore, mio cugino, che ha appreso il ‘mestiere’ dal padre Angelo. Un passaggio di consegne diretto e naturale, che ha saputo trasferire anche la passione familiare nella lavorazione. Oggi compriamo un buon prodotto, ricercato attraverso un’attenta selezione anche della filiera di lavorazione in loco. In Sergio Goppion, mio cugino, attuale Amministratore Delegato, riconosco la lucidità che aveva suo padre Angelo, lo stesso pensiero attento e vigile e la passione per il suo prodotto che attraversa trasversalmente tutte le sue scelte. È suo il palato eccellente che garantisce la continuità del nostro sapore in tazzina, responsabilità spartita e condivisa con i nostri bravi tostatori. Ecco perché dicevo che la vita è come il lavoro. Serve far crescere una responsabilità di gruppo, come di famiglia; nulla viene per caso, tutto va costruito, voluto e desiderato. Sono importanti le scelte e la scelta delle persone che le accompagnano, la condivisione e l’energia che ne scaturisce”.La proprietà dell’azienda è rimasta inalterata, giunta ora alla quinta generazione. Paola conferma che sono molto uniti tra loro “perché ci intendiamo e abbiamo gli stessi obiettivi. Abbiamo temperamento e tenacia. E poi ci entusiasmiamo sempre: un prodotto nuovo è un nuovo impulso”.

Negli anni le nuove tecnologie hanno apportato migliorie fondamentali a livello organizzativo, come nella lavorazione. “L’impianto che abbiamo montato due anni fa controlla l’aroma del caffè dopo la macinatura fino a che non viene messo sotto vuoto. Nelle lattine la qualità e il profumo del macinato vengono preservati con l’immissione di un gas inerte, che occupa lo spazio dell’aria che ossiderebbe il delicato caffè macinato.Queste sono solo alcune della attenzioni che abbiamo alla lavorazione del prodotto che è al centro di tutto. Il packaging ricercato, rappresenta anche uno spazio importante per raccontare il prodotto al nostro pubblico”.

Lo stabilimento della Goppion Caffè si affaccia sul Terraglio, pochi chilometri fuori Treviso. Ha uno stile peculiare: è anticipato da un ampio piazzale dove campeggia un laghetto sempre ben frequentato da papere e volatili. In alto il logo, una grande G su sfondo nero.

“Questa terra è un posto bellissimo e lo stabilimento originario della metà degli anni ’60 esprime uno stile che non è rigoroso ma pulito. Il logo che è sopra lo stabile e firma tutte le nostre produzioni è stato realizzato da un, all’epoca, giovane designer Umberto Facchini, che già si annunciava come architetto capace, moderno e lungimirante. Lavoriamo con grande entusiasmo”.Da sinistra Paola, Sergio, Silvia e Mario Goppion

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La storia delle Cantine Bortolomiol

Lungo la strada del Prosecco, la più antica d’Italia, che si snoda attraverso un vasto teatro naturale

ornato da vigneti, abbazie, chiese e castelli, si stagliano le Cantine Bortolomiol. Storiche anch’esse.

Il personaggio di Bartolomeo Bortolomiol, l’avo di cui in famiglia si tramandano il nome ed il mestiere

attraverso le generazioni, si fa risalire alla meta del 1700, secondo la testimonianza storica dei

documenti. Di lui si narrano e si ricordano l’amore per la terra e l’attitudine a trarne il meglio, e che per

tutta la vita ha coltivato la vite sulle colline di Valdobbiadene.

UN RITORNO ALLE ORIGINI AGRICOLE DEL TERRITORIO: FRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE

Giuliano Bortolomiol davanti alle botti in legno

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incontri con

I tre fratelli Bortolomiol

Di generazione in generazione viene passato il mestiere. E poi è Giuliano Bortolomiol, fondatore della moderna azienda spumantistica, a raccogliere la sua lezione e continuare a credere fortemente nella qualità e nel futuro del Prosecco a denominazione. Obiettivo per il quale ha lavorato tutta una vita. Oggi sono le sue 4 figlie, Maria Elena, Elvira, Luisa e Giuliana ad aver ereditato l’azienda e la passione di famiglia, unitamente alla madre Ottavia, portando comunque attenzione al legame forte con il territorio e alla sua storia. Oggi l’azienda produce 2 milioni di bottiglie di spumante all’anno.

È la famiglia che ci racconta di loro e dell’azienda attraverso aneddoti e commenti.

Tradizione e Territorio i legami da non dimenticare...La storia di famiglia e quella dell’azienda sono indissolubilmente legate al territorio e alla tradizione vitivinicola della regione. Le Cantine Bortolomiol sono culturalmente e storicamente tra le capostipiti della tradizione del Prosecco DOC (Denominazione di Origine Controllata), dal 2009 DOCG (Denominazione di origine controllata e garantita).

Un prodotto pregiato venduto in tutto il mondo, “Sicuramente qualità e competenza sono i fattori che hanno determinato il successo dei nostri vini, acclarato da numerosi e importanti riconoscimenti. Comunque frutto di una sapiente valorizzazione della vocazionalità produttiva dei vigneti - tutti dislocati nella zona DOCG di Valdobbiadene - messa in atto anche attraverso una mirata assistenza tecnica”, ci racconta Giuliana.

Ed è sempre lei a spiegare che il padre Giuliano, del 1922, nasce da famiglia con forti valori e tradizioni. Il periodo della sua formazione professionale è segnato dalla Seconda Guerra Mondiale che lo costringe all’interruzione degli studi, poi ripresi al suo termine. E nell’immediato dopoguerra, di fronte alla desolazione dei vigneti abbandonati, vede con chiarezza la strada da seguire ed apre, con altri pionieri, l’epoca d’oro del Prosecco,

contribuendo alla sua trasformazione da prodotto locale senza troppe pretese a spumante prestigioso e conosciuto a livello nazionale. Oggi persino internazionale.

“Diplomato alla celeberrima e storica Scuola di Enologia di Conegliano, costituisce con alcuni suoi ex compagni di corso la Confraternita del Prosecco nel 1946. Sempre mio padre ricostruisce e ammoderna l’azienda di famiglia, nel 1948, stabilendo i valori e fissando gli obiettivi che hanno segnato fin dall’inizio la sua missione: elevare il Prosecco valorizzandone la qualità e quindi la denominazione. Lui credeva profondamente nel suo vino e ha viaggiato sempre per promuoverlo e venderlo. In uno dei suoi viaggi conosce Ottavia Scagliotti, figlia di un commerciante di vino di Feltre, mia madre che diviene subito una compagna preziosa sia nella vita lavorativa che in quella famigliare. Assieme hanno portato avanti un lavoro, frutto di passione e pregno di valori. Mio padre ha dedicato tutta la sua vita al prosecco, per far conoscere a tutto il mondo le sue caratteristiche gradevoli, esaltando il prodotto e la sua terra. Così facendo ha aiutato un territorio a rinascere dopo il conflitto bellico. Un territorio che quasi nessuno credeva potesse dare sostentamento e che veniva abbandonato. Non si è mai arreso alla convinzione generale della

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popolazione di poter trovare lavoro solo all’estero. Era convinto di dover fare qualcosa. Il riconoscimento della DOCG è stato il coronamento del suo sogno. Bisogna infatti ricordare che fino al 2009 il ‘prosecco’ stava semplicemente ad indicare il nome di un vitigno che, come tale, poteva essere coltivato in qualsiasi parte del mondo. Ma nelle nostre terre, sulle colline tra Conegliano e Valdobbiadene, questo vitigno trovava, sin dal 1500, le condizioni di esposizione e composizione dei terreni più felici, offrendo il meglio di sé. Affinchè dall’esperienza e tradizione contadina lunga secoli si sviluppasse quella qualità ormai riconosciuta in tutto il mondo ci sono voluti intuito, determinazione e perseveranza in un lungo cammino. Qualità che a mio padre non sono mai mancate”.A Giuliano, infatti, si deve la creazione del Prosecco Brut, oggi spumante di successo a livello internazionale. Di lui un ricordo peculiare di un sommelier “Giuliano Bortolomiol era solito tracciare sulle bottiglie migliori una banda rossa da qui l’etichetta e la selezione dei migliori spumanti della casa”.

Oggi l’azienda prosegue il cammino intrapreso dal fondatore sia nel senso della qualità, grazie anche alla collaborazione di tecnici di alta formazione come l’enologo Gianfranco Zanon.

Il futuro è l’ambiente come valore assoluto...“A noi figli e ai nostri eredi il compito dell’apertura fiduciosa a sempre più nuovi mercati commerciali. Ed anche il compito di accogliere e dare il proprio apporto alla vera rivoluzione del futuro che guarda all’ambiente come valore assoluto. Un concetto di qualità a tutela dei consumatori basato sul rispetto della natura e dei suoi ritmi. E tutelare il territorio significa prendersi cura di tutta la filiera produttiva: dai vigneti ai viticoltori, fino alle caratteristiche organolettiche del prodotto. Con dedizione e studio. Per questo io e le mie sorelle Maria Elena, Elvira e Luisa abbiamo sempre creduto nell’investimento nella ricerca e formazione: attualmente sponsorizziamo una

borsa di studio intitolata a nostro padre Giuliano Bortolomiol e organizziamo corsi speciali per i conferitori corredati di assistenza in vigneto e consulenza di esperti agronomi in Tecnologie e strutture, che hanno portato alla ristrutturazione degli stabili e all’aggiornamento dei sistemi e dei mezzi di produzione”.L’azienda ha raggiunto il primo traguardo importante con i vigneti storici, che dopo 3 anni di certificazioni hanno ottenuto tutti la qualifica di biologici.

Ma tutela dell’ambiente è anche recupero e riconversione dei luoghi del territorio che ci appartengono per storia e tradizione...“Per questo abbiamo di recente contribuito alla ristrutturazione di una delle 4 filande di Valdobbiadene che è stata trasformata nella sala di degustazione dell’azienda. L’operazione rientra in realtà in un progetto di più ampio respiro che porterà alla realizzazione di un centro culturale ed enogastronomico dedicato al Prosecco. Le filande valdobbiadenesi erano collegate all’antica tradizione della coltura del baco da seta. Iniziata nelle nostre zone già dal 1600 ad opera della Serenissima Repubblica di Venezia, si è poi sviluppata nell’epoca industriale fino a diventare un efficiente sistema di produzione che ha portato alla realizzazione a Valdobbiadene delle 4 filande. Qui lavoravano bambine, giovani e madri che sostenevano le proprie famiglie affiancando il risultato di un durissimo lavoro a quello prodotto dai loro uomini sulle colline, lì dove la terra diventava vino. La riconversione delle filande ci sembra il modo migliore di conservare il ricordo di quello che le nostre famiglie hanno fatto per questo territorio rinnovando la tradizione storica attraverso la promozione della conoscenza e della cultura di un prodotto che, più di ogni altro, è simbolo, non solo del territorio, ma dell’intero ‘Made in Italy’ ”.

Visite e degustazioni la migliore promozione aziendale anche nel XXI secolo...

Poco lontano dalla sede storica di via Garibaldi, all’interno del complesso del parco della Filandetta, un vero e proprio parco tematico che comprende la cantina di vinificazione, la Sala Filanda e il teatro a gradoni, vengono ospitati durante l’anno visite guidate alla cantina e degustazioni del Prosecco Superiore DOCG e delle migliori selezioni di spumanti. “In diverse occasioni ospitiamo persone, appassionati di vini, esperti oppure turisti, provenienti da tutto il mondo, che accogliamo e accompagniamo in visita alla nostra cantina e al nostro territorio. Spesso organizziamo anche eventi, perché siamo convinte che esista una cultura del territorio e della tradizione da comunicare”.

Famiglia Bortolomiol con l’enologo Gianfranco Zanon

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“Un buon vino è anche merito di una buona botte”.

In Garbellotto, azienda coneglianese che lavora il legno

dal 1775, c’è ‘mestiere’ e ‘tradizione’, abilità tecnica

e attenzione al territorio: valori che sono stati tramandati

per oltre duecento anni di storia.

Garbellotto dal 1775

QUANDO LA ‘TRADIZIONE’ DIVENTA LEADER DI MERCATO

Nata nel XVIII secolo a San Fior da Giuseppe Garbellotto, in seguito fornitore ufficiale della Casa d’Austria, è cresciuta attraverso i secoli fino ai giorni nostri. Tra le peculiarità dei lavori svolti, la residenza del Principe Arcivescovo di Würzburg, in Baviera, un prestigioso castello le cui scale d’accesso sono state affrescate dal Tiepolo, che rimane indiscutibilmente una delle più belle cantine mai arredate dalla Garbellotto. Oggi è un’azienda di nicchia guidata sempre dalla stessa famiglia, ormai giunta alla ottava generazione consecutiva. E nel susseguirsi generazionale non è venuto meno il passaggio

di consegne di quell’arte artigianale sottesa alla creazione delle botti, pur divenendo, oggi, una Spa con leadership mondiale di mercato. Attualmente, la Garbellotto produce 45.000 hl all’anno di bottame, si estende su un’area di 60.340 mq dei quali 14.137 coperti, impiegando circa 70 addetti. Inoltre, negli anni è stata avviata e implementata la conseguente attività di commercio dei legnami, importando dai Paesi del Nord, Europa e America.

Questa è la tradizione di Garbellotto attraverso le parole di Pieremilio...

1923, Giobatta Garbellotto (terzo da sinistra) insieme ai bottai

Pietro Garbellotto (secondo da sinistra) con il ministro dell’agricoltura Fabio Ferrari

Giobatta Garbellotto (a destra con il cappello) con le maestranze

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La storia di un mestiere tramandato di padre in figlio con sapienza: “Siamo una famiglia di artigiani del legno di origine veneta già a partire dal XVIII secolo, epoca in cui governava la Serenissima Repubblica di Venezia. Noti sul territorio per la produzione di botti, tini e barili ma anche per la creazione di mobili d’arte. A quel tempo il laboratorio era nella corte adiacente la casa padronale e impiegava una dozzina di persone. Successivamente, nel XIX, mentre uno dei discendenti, Emilio Garbellotto, emigrò in Brasile e fondò il ramo brasiliano della famiglia che a tutt’oggi continua la tradizione familiare nel legno, Narciso con l’aiuto dei due fratelli rimasti si specializzò nella produzione di botti da cantina. L’attività continuò florida fino alla Prima Guerra Mondiale quando la produzione cessò a causa dell’occupazione austriaca delle terre fino al Piave. A fine guerra Giobatta Garbellotto ripartì spostando l’attività a Conegliano e ricostruendo e organizzando una fiorente produzione industriale di botti, tini e barili. Il figlio Pietro, mio padre, succeduto negli anni, affiancò all’industria di botti il commercio e industria dei legnami, creando una forte sinergia tra le due attività. L’azienda negli ultimi anni è cresciuta ulteriormente e la Garbellotto oggi è l’azienda italiana di punta nel settore, unica al mondo in grado di produrre botti e tini di ogni quantità, formato e specie legnosa, dopo che la grande crisi degli anni ’80 fece chiudere tutte le altre grandi industrie di botti Europee. Da padre in figlio, imparando il mestiere direttamente in fabbrica fin da bambino, siamo arrivati al XXI secolo, ora io assieme ai miei fratelli Piero e Piergregorio siamo l’ottava generazione. E anche noi, fin dai nostri 14 anni, durante le vacanze siamo andati a lavorare nei vari settori della fabbrica per imparare il mestiere”.

Pietro Garbellotto, un uomo di successo e di grandi valori: “Lo fu senza ogni dubbio mio padre, il ‘commendatore’ Pietro. Terminata la Seconda Guerra Mondiale mio nonno lo volle con sè per ricostruire l’azienda danneggiata dalla guerra. E papà già negli anni ’40-‘50, si recava nei boschi di Croazia e Slovenia alla ricerca di materia prima di qualità per i nostri prodotti. Mi raccontava che dormiva in macchina e si portava il cibo in scatola. A forza di viaggiare e informarsi costantemente diventò in pochi anni un grande esperto di foreste e legname, fino a diventare il presidente della FederCommLegno (oggi Federlegno-Arredo) che trattava gli accordi quadro per le importazioni di legname in Italia dall’Europa. Ed è sulla base delle sue esperienze che è stata perfezionata la scala di qualificazione identificativa del rovere. Negli anni viaggiò molto alla ricerca di buon legname nelle regioni dei Balcani, in Cecoslovacchia, Ungheria, ma anche negli Stati

Uniti. Grazie a lui siamo oggi considerati i tra i massimi esperti di Rovere e abbiamo il parco legnami a stagionatura naturale più grande d’Europa e questo ancora oggi fa la differenza. Negli anni ’60 l’azienda si trasferì nuovamente, lungo la Pontebbana. Sempre mio padre, uomo infaticabile, fu tra i fondatori di Unindustria Treviso e promotore (in collaborazione con Unindustria Treviso, FederCommLegno triveneto oggi Federlegno-arredo) del primo corso di ‘Esperto del legno’. Papà fu sempre grande sostenitore dell’importanza del capitale umano e della sua formazione, ed ebbe sempre grande attenzione verso tutti i suoi collaboratori. Un aneddoto di famiglia racconta, che al termine del rapporto lavorativo con un suo dipendente da sempre stimato, invece di pagargli la liquidazione decise di spendere di più ma di regalargli la casa che l’uomo non aveva potuto comprare, garantendone una serena vecchiaia. Non è un caso che negli anni ci sia stato un passaggio di consegne e conoscenze da padre in figlio anche tra coloro che lavorano con noi. Qui si è sempre lavorato in armonia e non abbiamo mai avuto un giorno di sciopero. Papà volle anche che noi avessimo molti interessi perché una buona cultura e il rispetto dei valori morali sono garanzia di un comportamento corretto e onorevole nella vita come nell’impresa. Giovanni Comisso, suo amico, apprezzava in lui quelle doti d’intuito e di volontà che distinguono l’imprenditore di successo”.

Attenzione alla qualità del lavoro e alla qualità della vita dei collaboratori: “Il 1978 e successivi furono anni senza commesse nei quali avremmo potuto chiudere la fabbrica. Anni difficili per il nostro settore in generale perché la grande industria forniva ai produttori di vino contenitori alternativi alle botti, in acciaio o resina. Ma mio padre continuò lo stesso e con il pensiero delle famiglie che dipendevano dalla nostra attività decise di mantenere le maestranze pur senza lavoro e di pagare gli stipendi di tasca propria agli operai. In quel periodo i bottai vennero momentaneamente spostati nel reparto di commercializzazione del legno, in modo da salvare il know how produttivo acquisito negli anni precedenti. Fu una catastrofe sul piano

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incontri con

finanziario, ma un doveroso sacrificio per portare ai giorni nostri l’arte del bottaio che altrimenti sarebbe scomparsa. Ci salvammo per miracolo grazie alla commessa Gallo: un intraprendente viticoltore italo-americano che ci chiese di costruire 712 tini-botte per la sua cantina in California. Un’impresa proficua che si protrasse per 5 anni. La Garbellotto fece la scelta di continuare nel solco della tradizione artigianale per preservare la maestria e il sapere di una professione antica e di grande pregio. E alla fine siamo stati premiati”.

Prima azienda al mondo a costruire botti con legname certificato, Garbellotto nel 2010 ha ottenuto la prestigiosa certificazione Fsc (Forest Stewardship Council): “Da sempre ci siamo battuti per l’eco-sostenibilità delle foreste, una risorsa importantissima per l’uomo. In special modo per quelle realtà dove acquistiamo il legname. Infatti, abbiamo adottato le certificazioni Fsc e PEFC che attestano specifici requisiti di sostenibilità delle foreste di provenienza. Sono scelte di campo che abbiamo fatto per preservare anche quei valori morali che ci sono stati trasmessi”.

Le industrie di botti non sono da confondere con le industrie specializzate nella costruzione dei barili: “La regola del mestiere, ovvero l’ ‘Arte del Bottaio’ insegna che la botte deve essere assolutamente costruita con la doppia curvatura dei fondi, l’unico modo per contenere perfettamente la spinta del contenuto (principio della diga). La specialità del nostro lavoro consta nella attenta selezione e lavorazione del legname, che poi viene curvato e ‘domato’ con assoluta maestria dai nostri bottai. Mio padre Pietro, grazie alla formazione e all’esperienza acquisita sul campo aveva raggiunto la capacità di esaminare le tavole di legno con particolare perizia e velocità, riconoscendo solo con un infallibile colpo d’occhio quelle di qualità”.

Tradizione di successi di una azienda che ha contribuito ad esportare nel mondo il made in Italy: “La Garbellotto

ancora nel ‘Manuale del Bottaio’ del 1927, edito da Hoepli, veniva citata tra le maggiori realtà italiane nel settore. Numerosi sono stati i riconoscimenti per il nostro lavoro, grazie soprattutto all’operato di chi ci ha preceduto e anche il nostro. Solo negli ultimi anni la nomina ad ambasciatori culturali del Territorio di Conegliano, il Guinness dei Primati del 2010 per la botte più grande del mondo commissionata da una nota azienda Veronese per il suo Amarone e il premio per ‘Le aziende che hanno fatto la storia d’Italia’ in occasione del 150° anniversario del Nostro Paese nel

2011. A oggi attendiamo un’ulteriore Guinness dei Primati”.

lo sguardo verso il futuro, tra tradizione e innovazione: “Nell’ultimo decennio abbiamo avuto una profonda ristrutturazione per permettere all’azienda di resistere agli andamenti economici e di mercato: dalla ottimizzazione delle postazioni di lavoro, alla fondamentale riorganizzazione della rete commerciale con agenti. Inoltre, da sempre un nostro vanto è l’attenta selezione e ricerca del legno di buona qualità e nel terzo millennio oltre all’esperienza avevamo bisogno anche di dati analitici alla mano. Per questo abbiamo avviato una collaborazione con il CNR di Firenze per analizzare lo sviluppo della curva aromatica del rovere nei vari passaggi produttivi. L’esame scientifico dei diversi legni relativamente alla provenienza geografica ha rilevato oggettivamente le diversità. E grazie a queste ricerche abbiamo messo a punto un blend particolare di legni. Comunque la tecnologia, anche se presente, nel nostro settore non è mai preponderante. Il cuore della nostra azienda, così come è sempre stato, resta sempre quella risorsa insostituibile che sono le persone”.

Una curiosità di famiglia: “Un’altra tradizione ricercata negli anni è la trasmissione generazionale di nomi di famiglia quali Piero ed Emilio”.

Da sinistra: Piergregorio, Piero e Pieremilio Garbellotto

L’azienda negli anni ’30

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Veduta della Cartiera

Intervista ad Alberto Marenghi Cartiera Mantovana

La Cartiera Mantovana domina in Italia per la sua longevità: quasi 4 secoli di storia che hanno visto

i proprietari - la famiglia Marenghi - interessati alla produzione della carta: dal primo stabilimento

artigianale a Maglio di Goito del XVII secolo, alle 3 industrie sparse nel Nord Est italiano del XXI secolo.

IL NORD EST STORICO E MANAGERIALE: 400 ANNI DI INDUSTRIA

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Stories

Gruppo Cartiera Mantovana

Si tratta di una storia unica per un’impresa giunta alla 13° generazione. I diversi discendenti, lavorando con passione e senso di responsabilità, hanno saputo nei secoli implementare l’attività di famiglia ottimizzando costi e organizzazione, pur affrontando avversità di ogni tipo. Oggi, lo stabilimento di Maglio produce circa 10mila tonnellate di carta all’anno, mentre quello di Galliera Veneta e quello di Carmignano di Brenta producono circa 85mila tonnellate l’anno di carta. Un’azienda grande e sana. Alberto Marenghi, attuale amministratore delegato del gruppo, ci dice che “non esiste un segreto particolare per questa longevità. La storicità fa senz’altro da collante, ma ha portato ad una cultura imprenditoriale un po’ particolare, in cui la ‘famiglia’ gioca un ruolo importante, soprattutto nelle scelte che devono essere lungimiranti e prudenti. Perché ti senti anello di una catena secolare”.

La Cartiera Mantovana appartiene a ‘Les Hénokiens’, associazione francese che raduna famiglie e imprese storiche. Oggi l’associazione conta più di 30 soci nel mondo. I requisiti per entrare a far parte del club sono 3: almeno 200 anni ininterrotti di proprietà dell’azienda da parte della stessa famiglia, che ne deve detenere ancora oggi il controllo, requisito anche per le società quotate (oggi una sola) e infine che la società sia sana.

La storiaLa Cartiera è stata fondata il primo luglio 1615 da Angelo da Fano che ebbe il ‘privilegio’ - direttamente dal Duca di Mantova, Ferdinando Gonzaga - di produrre carta nella piccola Maglio di Goito, frazione della provincia di Mantova, perché poteva sfruttare l’acqua come forza motrice. Ci racconta Alberto Marenghi, attuale AD dell’industria di famiglia che “Nel documento ufficiale del XVII

secolo si parla di produzione della carta fatta con le ‘strazze’ e le ‘garavelle’ (una specie di colla). Esiste un resoconto puntuale di 4 secoli di storia che i miei antenati hanno ceduto all’archivio storico di Mantova. Tra le pagine anche aneddoti simpatici come il primo logo di famiglia, ossia filigrana personalizzata che Angelo apponeva nei fogli di carta (cfr una A ed una F decorata da una specie di Margherita)”. Dagli stracci lavorati al maglio con la colla, si passò poi alla lavorazione della pasta di legno di pioppo, per arrivare all’introduzione, a inizio ’900, della macchina continua mossa prima dall’acqua e poi dall’energia elettrica. E negli anni Settanta iniziò la lavorazione della carta da macero.L’attività produttiva è continuata per le vie ereditarie, nella linea famigliare, fino a raggiungere l’oggi. Anche se, dopo la morte nel 1996 del padre di Alberto, assunse la presidenza dell’azienda la madre, giovane e con due figli, che fece del proprio meglio per mandare avanti l’azienda. “Mia madre fu forte e determinata. Io fui catapultato fin da giovane 18enne in cartiera, e non mi sono tirato indietro considerando un dovere mandare avanti l’attività storica di famiglia. Mi sono avvalso di ottimi collaborati assieme ai quali abbiamo negli anni modernizzato l’impresa anche managerialmente”.

Innovazione e tecnologia“In 4 secoli siamo passati dalla lavorazione a mano a quella con macchine tecnologicamente avanzate. Eppure mi preme ricordare che in questa attività contano molto le persone che lavorano con passione. È molto importante riuscire a capire ed avere esperienza di come si fa la carta, conoscere le materie prime, come vanno dosate, capire come utilizzare i prodotti chimici, attività che hanno a che fare molto con la professionalità dei nostri tecnici. In cartiera abbiamo persone altamente specializzate”.

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Il primo costo dell’azienda è l’energia, “I tre stabilimenti insieme hanno un consumo di gas metano pari a circa 22.000 appartamenti e dunque una città di oltre 50.000 abitanti”, che crea difficoltà anche nell’esportazione. Eppure l’azienda è competitiva anche in Europa.

Famiglia e territorioLa famiglia è ben conosciuta sul territorio e stimata. “Nella metà dell’800 un mio antenato decise di costruire abitazioni per i lavoratori della cartiera, aveva infatti capito l’importanza di tenere vicino alla fabbrica i collaborati aiutandoli così che poi loro stessi potevano tramandare ai figli il loro mestiere. Mentre mia nonna nel borgo di Maglio fece costruire al termine della guerra anche un chiesetta intitolata a Santa Rita come ringraziamento per lo scampato bombardamento della fabbrica”. E non è un caso che esista una continuità generazionale anche in alcune famiglie di dipendenti dello stabilimento di Mantova. In generale, la famiglia Marenghi ha sempre avuto ottimi rapporti anche con le istituzioni locali, in alcuni casi hanno anche collaborato in progetti di ricerca o richieste di certificazioni, mettendo a disposizione l’esperienza imprenditoriale storica.

Il ricambio generazionaleOggi sono i Marenghi a festeggiare il compleanno della loro industria. Il cambio dei cognomi è soccorso quando un antenato ebbe un’unica figlia che ereditò comunque l’azienda e questo, a seguire nel tempo, successe ancora, anche se l’impresa fu comunque sempre tenuta da un famigliare in linea diretta. “Un altro aneddoto di famiglia, triste, è che negli ultimi 100 anni di storia della cartiera, un padre non ha mai lavorato con un figlio. Mio padre non riuscì mai a lavorare con suo padre, perché mio nonno morì molto giovane e io stesso non sono riuscito a lavorare con mio padre a causa dello stesso motivo. Furono le moglie e madri a tenere insieme azienda e famiglia”.Grazie all’attuale famiglia la Cartiera Mantovana è uno dei

principali leader europei di carta riciclata.“E oggi siamo diventati molto più grandi grazie alla diversificazione. Ho sempre creduto molto, anche se ho dovuto fare scelte importanti e difficili perché all’inizio erano contro tendenza. Dal 1996 ad oggi abbiamo moltiplicato per 20 volte il nostro gruppo. Oggi contiamo 3 stabilimenti, un fatturato di quasi 50 milioni di euro con 130 dipendenti, tenendo conto che siamo partiti nel 1996 con 5 miliardi di lire (circa 2,5 milioni di euro), dunque è stata una grande crescita. Ho sempre creduto nella carta per produrre imballaggi, mai creduto nella carta da stampa: nello stabilimento di Mantova produciamo carta per imballare la frutta e carte per le tovaglie oltre a trasformare materiale plastico sempre per il settore dell’imballaggio; in quello di Cartiera Galliera produciamo carta per l’imballaggio degli alimenti e carte colorate per le tovaglie; nella Cartiera Carmenta invece produciamo carte riciclate per gli shopping-bags e una parte marginale di carte da stampa. Certo è che 3 stabilimenti in 2 regioni differenti hanno bisogno di presenza quasi quotidiana. Quindi l’impegno è tanto. Per fortuna ho dei collaboratori di altissimo livello e cerco di essere un buon ‘direttore d’orchestra’. Loro da me chiedono la sintesi”.

Dopo il passato... il futuroL’azienda sta affrontando la crisi economica in atto grazie soprattutto all’internazionalizzazione, che ha permesso comunque di trarre del vantaggio. Anche se, come sottolinea Alberto Marenghi, si è deciso di esportare all’estero solo dopo aver consolidato il mercato italiano. E il futuro resta sempre un’incognita: “Non credo che necessariamente la nostra azienda debba restare della famiglia per sempre. Piuttosto è importante che essa vada avanti, soprattutto pensando alle persone che ci lavorano. Io ho ricevuto qualcosa in eredità che non ho creato pur portando grande rispetto per quello che ho ricevuto. Per questo, ho cercato nel mio limite di far crescere l’impresa. Ho due figli, un maschio ed una femmina, però non so se loro avranno voglia

di fare questo mestiere”.

Sul piano produttivo, nel XXI secolo la Cartiera Mantovana vanta una produzione di carta e di plastica e ha, come clienti, per lo più il mondo dell’imballaggio. Il domani? “Procedere su questa strada e diversificare ancor più l’azienda. La scelta di carta e plastica ci ha permesso di sopravvivere e su questa scelta dobbiamo riuscire a crescere ulteriormente”.

Oggi, la famiglia Marenghi

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Intervista a Pierstefano Berta, Distellerie Fratelli Ramazzotti

Icona dell’urbanità e modernità milanese, un must dei liquori e delle ricette tipiche lombarde. Inventato a

Milano dal farmacista Ausano Ramazzotti agli inizi dell’800, l’Amaro Ramazzotti ancora oggi è conosciuto e

apprezzato in tutto il mondo. Azienda storica, che in quasi 200 anni di vita ha dato lustro al territorio in cui è

cresciuta e si è ramificata, sempre guidata da uno spirito di innovazione forte che si è poi trasformato nella

scelta dell’internazionalizzazione. Le Distillerie Fratelli Ramazzotti - acquisite nel 1985 dalla multinazionale

Pernod Ricard, co-leader mondiale nel settore Wine & Spirit - esportano oggi in 30 Paesi, dalla Germania,

dove il prodotto risulta essere il più venduto nella categoria degli amari, al Sud Africa e agli USA.

IL NORD OVEST IMPRENDITORIALE: TECNOLOGIA, INNOVAZIONE E INTERNAZIONALIZZAZIONE

1959, il nuovo stabilimento

1848, il primo bar Ramazzotti

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Concetti molto avanzati, soluzioni inedite per il settore degli spiriti, e una tecnologia nella logica della naturalità caratterizzano nel XXI secolo la linea dedicata all’Amaro Ramazzotti. Lo sguardo verso tecniche e metodologie di produzione innovative, nel rispetto della tradizione e dell’idea imprenditoriale originaria dell’azienda, da sempre connota la storia delle Distillerie Fratelli Ramazzotti, facendone oggi un leader del mercato di riferimento.

“Eppure, anche se sembra difficile da credere, la ricetta dell’Amaro Ramazzotti rimane quella autentica e segreta del 1800 - senza l’uso di coloranti o aromatizzanti artificiali - che custodiamo in una cassaforte. Molte delle erbe utilizzate oggi sono le stesse che venivano utilizzate nell’800 per la preparazione di composti medicinali. La nostra è un’azienda che è sempre stata prima nel cambiamento e nella ricerca, pur rimanendo ancorata alle origini dell’Amaro Ramazzotti”, sottolinea Pierstefano Berta, direttore industriale delle Distellerie Fratelli Ramazzotti.

Ma facciamo un passo indietro... Era il 1815 quando Ausano Ramazzotti produsse per la prima volta l’Amaro Ramazzotti mentre l’Europa moderna si affacciava al Congresso di Vienna. Ausano, perfetto conoscitore delle erbe partì da un piccolo laboratorio commerciale vicino all’Arena di Milano, per creare un nuovo liquore particolarmente amabile. Raggiunse il suo obiettivo con un’armoniosa miscela di 33 diverse erbe e radici in alcol. “E dicono che il successo di Amaro Ramazzotti fu immediato”. Tra le altre cose, la sua popolarità fu agevolata dall’apertura dei primi caffè nel centro della città, dove i milanesi si incontravano sempre più spesso per socializzare.

“La Ramazzotti nasce quando in Italia inizia il complesso processo di industrializzazione del settore delle bevande, dei vini e dei liquori, cioè quando le produzioni si trasformano da famigliari e artigianali in vere e proprie imprese. Questo fenomeno vede la sua origine in Lombardia ed in Piemonte, frutto di una ampia discussione torica avvenuta agli inizi dell’800 sulle modalità di sviluppo delle attività di produzione e commercializzazione di vini, vermouth e liquori. È interessante notare che ad avviare le prime attività imprenditoriali non furono solo le famiglie provenienti dal mondo agricolo, ma avvocati, liquoristi, farmacisti, aristocratici che costituirono vere e proprie società di capitali espressamente per investire in una produzione a carattere industriale destinata ad un mercato globale”.

Nel 1848 Ausano decise di aprire il suo locale poco lontano dalla Scala, dove serviva Amaro Ramazzotti invece del caffè. Il fondatore dell’odierno impero Ramazzotti morì nel 1866,

dopo essere riuscito a costruire un’azienda prospera in soli cinquant’anni.

La Ramazzotti accompagna in questo modo il nostro Paese in tutti i grandi cambiamenti avvenuti tra fine ’800 e inizi ’900, avendo sempre un ruolo trainante nella crescita del territorio e nello sviluppo dell’economia.

L’eredità... I nipoti di Ausano - i fratelli Enrico, Carlo, Ausano e Antonio Ramazzotti - nel 1872 spostarono la produzione in un nuovo edificio, in Via Canonica, aumentando la produzione delle bottiglie con l’inconfondibile etichetta blu e rossa, rimasta più o meno invariata fino ad oggi. L’amaro ben presto divenne un punto fermo dello stile di vita nazionale. I bombardamenti del 1943 distrussero l’intero stabilimento e solo grazie alla tenacia di Guido Ramazzotti l’azienda riuscì a riprendersi.

Era il 1959 e l’apertura culturale dei Ramazzotti verso la ricerca e il rinnovamento li guidò nella rapida conquista dei mercati stranieri.

“Importante fu l’apporto della comunicazione e l’Amaro Ramazzotti fu pioniere anche in questo. L’azienda capì subito il ruolo essenziale che la pubblicità svolge nel successo di un marchio e già negli anni ’30 nacque lo storico slogan ‘Un Ramazzotti fa sempre bene... e due ancora meglio!’, che sottolineava i benefici del prodotto: aperitivo, digestivo e tonico rinfrescante. Tutto ciò è ben evidenziato dagli storici manifesti pubblicitari, oggi gelosamente conservati in musei italiani e collezioni private. E poi, nel boom degli anni ’60 e ’70, la Ramazzotti fu una delle prime a investire nella pubblicità televisiva, una novità per l’Italia d’allora”.

Un “diverso” passaggio generazionale... Le Distillerie Fratelli Ramazzotti furono acquisite nel 1985 dal Gruppo francese Pernod Ricard, che da allora ha mantenuto sempre viva la filosofia aziendale italiana, riuscendo negli anni anche a consolidare la notorietà del marchio nei 30 paesi dove è distribuito. La PRI (Pernod Ricard Italia) è rappresentativa oggi dell’evoluzione e trasformazione delle Distillerie Fratelli Ramazzotti, con circa 162 dipendenti e 65 agenti e un fatturato totale di circa 230 milioni di euro di cui 36 derivano dall’estero. L’obiettivo della multinazionale continua ad essere quello di promuovere e diffondere l’associazione del brand a tutti i valori positivi dell’essere e vivere italiano: gioia di vivere, creatività e spontaneità.

“Gli eredi Ramazzotti, pur non essendo interessati a lavorare nel settore delle bevande alcoliche, erano ben consapevoli del

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incontri con

valore storico e culturale della loro impresa. Per questo non ebbero difficoltà a vendere l’azienda, avendo individuato un cliente interessato a mantenere viva la mission aziendale e il rapporto con il territorio. Di fatto questa cessione societaria incarna benissimo il grande movimento di internazionalizzazione delle imprese di questo territorio avvenuto tra gli anni ’80 e ’90, quando le grandi aziende straniere stavano progressivamente ampliando le loro attività, unendosi a partner e realtà locali che avevano una produzione di alto livello e la vocazione per l’estero. A conferma della scelta della famiglia originaria, la Pernod Ricard ha sempre dato grande autonomia e responsabilizzazione alle filiali in loco, preservando le radici e i legami con il territorio e mantenendo vivo il sentimento di responsabilità sociale d’impresa, che viene declinato in azioni e progetti peculiari”.

Innovazione, responsabilità sociale e approccio eco-sostenibile... La Pernod Ricard Italia ha trasferito, nel 1995, gli stabilimenti di produzione a Canelli, cittadina piemontese a pochi chilometri dal capoluogo lombardo, mantenendo l’approccio verso la naturalità e l’ecosostenibilità: ad esempio lo stabilimento è alimentato con energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili certificate attraverso il sistema R.E.C.S. - un sistema di certificazione che verifica i parametri definiti dalla direttiva della Comunità Europea 2009/28.

“Una scelta e una filosofia di vita, nel rispetto del territorio che abitiamo e all’insegna di un vivere sano e naturale”.

L’Amaro rimane l’esclusiva miscela di 33 erbe e radici provenienti da tutto il mondo creata nel 1815. Le principali componenti del gusto sono ancora oggi le arance dolci di Sicilia, le arance amare di Curaçao, l’anice stellato della Cina e il cardamomo indiano.

“Le erbe sono raccolte nei Paesi originari, perché solo lì mantengono i sapori e la cultura del territorio autoctono. Ad esempio la zedoaria, il cardamomo e i chiodi di garofano che compriamo direttamente da produttori locali dell’India. Ed il processo produttivo è ancora lo stesso di 200 anni fa, anche se nel tempo sono state introdotte le migliori tecniche disponibili. Come quella per l’imbottigliamento in assenza di ossigeno, nella quale primeggiamo grazie all’utilizzo di macchine all’avanguardia anche dal punto di vista elettronico. Per quanto riguarda gli ingredienti, facciamo in modo che siano testati sin dall’inizio, e selezionati secondo rigidi standard qualitativi. Per esempio, le scorze di arancia che conferiscono ad Amaro Ramazzotti il suo gusto unico vengono sempre sbucciate a mano. Attualmente, grazie all’introduzione della tecnologia che ha automatizzato i processi e ammodernato gli stabilimenti, bastano trenta persone per gestire l’intero processo produttivo. E la nuova linea di

produzione nello stabilimento di Canelli è in grado di riempire, confezionare ed inscatolare fino a 20.000 bottiglie l’ora”.

A proposito dell’India, nell’ambito del suo Piano di Sviluppo Sostenibile, l’azienda ha lanciato il progetto di acquisto equo-solidale e biologico di piante aromatiche in India. Si tratta di un progetto pilota di acquisto di erbe e spezie direttamente dai piccoli produttori locali, in un’ottica di responsabilità sociale, al fine di favorirne l’imprenditorialità grazie all’acquisto diretto di piante aromatiche ed alla creazione di un fondo di micro-finanza dedicato.

“La tecnologia ci ha aiutato negli anni e ci aiuta a mantenere l’eccellenza nella qualità e nelle performance industriali . Tecnologia avanzata, non invasiva, ma utilizzata con una chiara logica: cioè quella del rispetto della naturalità delle materie prime lavorate. Un esempio di progetto ecosostenibile è senz’altro la nuova linea, a partire dal 2010, di bottiglie più leggere in favore di una riduzione dell’impatto ambientale”.

Il futuro... Pierstefano Berta, direttore industriale delle Distellerie Fratelli Ramazzotti con ‘spirito’ sottolinea che il ‘ragionamento’ sul domani è ancora in atto, e che sicuramente si tratterà di un “cambiamento nella tradizione”, come è nella filosofia dell’azienda sin dalla sua nascita.

Pierstefano Berta, Direttore Industriale stabilimento Ramazzotti

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MAGGIO 2013

L’associazione nasce a Treviso, ma oggi ha sedi in tutti Italia. Combatte contro

l’isolamento tecnologico di territori e fasce della popolazione, unendo competenze ed

esperienze di volontari provenienti dal mondo delle nuove tecnologie e non solo.

TECNOLOGIE DELL’INFORMAZIONE PER LO SVILUPPO SOCIALE DEL TERRITORIOInformatici Senza Frontiere: una ONLUS per abbattere il divario digitale

“Le più belle storie nascono così, per caso, in un territorio che si è sempre distinto per la capacità di fare e intraprendere delle sue persone e dall’incontro tra due mani, quella di un medico e l’altra di un tecnico informatico”, spiega il presidente Girolamo Botter. È questo il racconto di ISF (Informatici Senza Frontiere), ONLUS trevigiana speciale, a cui si deve il merito di aver avviato un’impresa inedita con la forza di una visione aperta e lungimirante su quanto le più moderne tecnologie possono fare

per lo sviluppo sociale e culturale delle aree meno sviluppate.

Da una conversazione del 2005 tra Girolamo Botter - all’epoca manager informatico - e il dottor Mario Marsiaj - coordinatore e sostenitore dell’ospedale St. Luke di Angal in Uganda - arriva l’idea, semplice, di portare tecnologie di ultima generazione negli ospedali delle zone meno sviluppate al fine di migliorare l’operatività quotidiana con appositi strumenti di gestione. Il

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progetto di Girolamo viene subito abbracciato da altri 5 manager veneti, tutti operanti nel settore informatico e membri del Club Bit (comunità professionale di responsabili dei sistemi informativi nata nel 1994 sotto l’egida di Unindustria Treviso) che decidono di unire le loro competenze realizzando un software open source per la gestione ospedaliera. Da lì il coinvolgimento delle scuole, in particolare l’Istituto Tecnico Volterra di San Donà di Piave (TV), che collabora alla progettazione e allo sviluppo della soluzione offrendo a una delle sue classi la possibilità di mettersi in gioco e lavorare su Java, linguaggio di programmazione con cui il software viene realizzato. Open Hospital - dal nome del programma - viene installato e implementato presso il St. Luke Hospital per la prima volta nel 2006.

Tecnologia e formazione nella ricetta dell’associazione che decide di affiancare, alla fase di implementazione hardware e software, anche corsi di informatica per rendere il personale dell’ospedale autonomo nell’utilizzo di pc e programmi. Una sfida, quella di portare progresso tecnologico laddove persiste uno stato di arretratezza, che si trasforma in un successo, con un miglioramento sensibile della capacità e facilità di gestione delle attività da parte del personale ospedaliero. Attualmente, Open Hospital è alla sua settima versione ed è stato installato in più di dieci realtà, tra cui Kenya, Afghanistan, Albania, Benin e Congo. Recentemente ISF ha anche annunciato un’importante partnership con CUAMM Medici per l’Africa che consentirà la diffusione del programma in tutti gli ospedali africani della rete CUAMM.

Nel frattempo ISF è cresciuta fino a diventare una realtà associativa importante con oltre 300 iscritti, volontari di estrazione informatica ma anche esperti di marketing e comunicazione, e sedi in tutta Italia (Lombardia, Piemonte, Toscana, Puglia, Calabria, Lazio): con l’unico scopo di contribuire a fare dell’innovazione tecnologica stimolo e strumento per lo sviluppo civile e sociale di realtà e territori meno fortunati, diminuendo così una parte del divario digitale esistente tra sud e nord del mondo. “I fondatori e i soci volontari credono profondamente che l’accesso alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione debbano diventare un ‘must’, ovvero un bene di prima necessità

in queste zone, per creare nuove opportunità, migliorare la vita quotidiana e concorrere al progresso”, spiegano i rappresentanti di ISF.

Eppure il divario digitale è una realtà a carattere, non solo globale, ma nazionale e locale: matura spesso tra fasce di popolazione dello stesso paese, ma con differenti diritti e possibilità, o differenti abilità. ISF, infatti, si occupa di offrire corsi e strumenti di alfabetizzazione informatica nelle carceri, negli ospedali, tra persone che vivono situazioni di emarginazione o di disabilità, disponendo aule di informatica in realtà difficili come il quartiere Scampia a Napoli e la casa Ospitalità di Mestre, oppure realizzando piccoli sistemi informativi per realtà particolari, quali il reparto di lungodegenza infantile dell’ospedale di Brescia, o alcuni ospedali rurali africani. Reti informatiche che permettono, con poche risorse e in completa autonomia, un miglioramento nella gestione delle operazioni basilari e quotidiane. Tanti sono i progetti già realizzati dall’associazione ma ci piace ricordarne alcuni come I.S.A., acronimo dello slogan ‘I Speak Again’, il progetto ‘Emilia, terra che rifiorisce’ per fornire servizi di assistenza tecnica ad alcuni comuni colpiti dal sisma del 2012, supportando alcune scuole del territorio con materiale tecnologico e sostegno organizzativo. Inoltre, è senz’altro da citare il progetto ‘Detenuti Hitech’, che coinvolge i detenuti del carcere di Santa Bona a Treviso, destinando loro una formazione e alfabetizzazione informatica primaria in modo da offrire un’opportunità di reinserimento futura nel mondo del lavoro e nella società. Recentemente, inoltre, è stato realizzato all’interno del penitenziario un laboratorio tecnologico, dove i detenuti imparano a riparare hardware e componenti informatiche, permettendo loro di sviluppare delle competenze professionali specifiche. ISF, dunque, intende rendere produttive realtà nel territorio spesso sottovalutate per farne fucine di sviluppo e ripartenza.

I.S.A. (I Speak Again) è il nome di una tastiera virtuale progettata e realizzata da ISF per restituire la parola a chi per malattia ha perso la possibilità di parlare o muoversi. L’idea nasce a seguito dell’incontro con un malato di SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica) che utilizzava in fase terminale della malattia un software molto costoso e avanzato per comunicare con i suoi familiari. Con lo sviluppo di questo progetto, nato nel 2011, ISF ha cercato, in maniera semplice, di restituirgli la possibilità di esprimere i propri bisogni, anche banali, ma fondamentali. Con I.S.A., infatti, sono sufficienti un pc e una connessione: si calibrano inizialmente i movimenti del viso o dell’occhio, e con una connessione ad Internet o intranet o sullo stesso pc, si possono digitare con il movimento dell’occhio o del viso le lettere che compaiono sulla tastiera virtuale così da comporre la frase che permetterà di far capire a chi segue ciò di cui la persona ha bisogno o che vuole esprimere.Infatti, ISA è proprio questo, un’applicazione web on-line, ma installabile anche in locale. Lanciabile da una comune cartella scaricabile in formato zip, disponibile per tutti. Proprio relativamente alla possibilità di superare le disabilità grazie all’uso delle più moderne tecnologie, ISF è intervenuta a fine maggio in una riunione dell’ITU (International Telecommunication Union), una delle agenzie specializzate delle Nazioni Unite, a presentare i suoi progetti open source rivolti alla disabilità. Da Treviso all’ONU, insomma, per l’orgoglio del territorio locale.

ISAI speak again

Scenari

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MAGGIO 2013

Nasce a Roma nel 1958 dove, attualmente, abita ed esercita la sua professione. Per lavoro trascorre lunghi periodi all’estero e risiede ad Amsterdam, Parigi e New York. Laureato in Ingegneria Civile Idraulica presso l’Università ‘La Sapienza’, Pierfrancesco Angeleri inizia la carriera professionale come consulente nell’ambito della progettazione strutturale. Entra in IBM nel 1985 come ricercatore presso il Centro di Ricerca Europeo per il Supercalcolo denominato ECSEC (European Center for Engineering and Scientific Computing). Dopo un periodo nella ricerca, nel 1993 entra nella divisione ‘Sales&Marketing’ di IBM dove ricopre diversi

incarichi manageriali a Roma e a Milano. Nel 1998 viene nominato direttore generale della Divisione ‘Printing Systems’ per l’Europa con sede ad Amsterdam. Nel 2002 assume la guida della Divisione Prodotti Intel della IBM Europa con sede a Parigi. Torna in Italia nel 2004 dove ricopre diversi ruoli nell’ambito della Direzione Generale della IBM Italia. Diventa, in seguito, responsabile della Divisione Server, della Divisione SWG, per poi assumere nel 2008 la responsabilità della Divisione Piccola e Media Impresa. Dal 1 luglio del 2012 ricopre il ruolo di responsabile della Business Partner Organization.

Intervista a Pierfrancesco Angeleri,vice-presidente Business Partner Organization-IBM Italia

IBM: LA TRASFORMAZIONE COME CAMBIAMENTO CULTURALE INNANZITUTTO

Pierfrancesco Angeleri, intervistato da Logyn, ha parlato della mission e dei valori che hanno da sempre

caratterizzato IBM e, conseguentemente, il suo lavoro. La sua è una lunga e prestigiosa carriera che ha

abbracciato anche gli anni topici dello sviluppo tecnologico nel mondo e in Italia.

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IBM: LA TRASFORMAZIONE COME CAMBIAMENTO CULTURALE INNANZITUTTO

Il suo percorso in IBM è indicativo: simbolo di fiducia nell’azienda. Ci racconta cosa hanno significato questi anni nella multinazionale americana?

Sono in IBM dagli inizi degli anni ’80: nasco e cresco in IBM, condividendone la mission aziendale... un vero e proprio pensiero culturale. Si può dire che sono un uomo ‘monoazienda’, anche se in realtà IBM è ragguagliabile a un macrocosmo, sia in termini di appartenenza geografica che di copertura di progetti, iniziative, prodotti. Questa specificità mi ha permesso di diversificare le esperienze professionali, consentendomi nel contempo una crescita di competenze anche a livello manageriale. Infatti, pur provenendo da una formazione prettamente tecnica, sono entrato in azienda come ricercatore per poi svolgere una carriera di natura commerciale. E ho potuto ricoprire diversi ruoli in tutti i settori: dalle soluzioni software, all’ambito servizi e ai diversi filoni di industria per i quali IBM opera. Negli ultimi anni mi sono impegnato, inoltre, nel sostegno a progetti nell’ambito della ‘Corporate Social Responsability’. Questo peculiare percorso professionale mi ha fatto crescere significativamente. In base alla sua esperienza personale, quanto è cambiata IBM negli anni?

L’IBM ha cent’anni di storia, della quale io copro un pezzetto di 30 anni. Segmento di tempo ad ogni modo rilevante, perché caratterizzato da grandi trasformazioni: tecnologiche innanzitutto, ma anche economiche e sociali a livello globale. La società è cambiata in questi anni a livello internazionale, e si è reso necessario spesso non rimanere ‘rigidi’ nelle idee ma mutare per adeguarsi alla nuova dinamicità generalizzata. Una trasformazione soprattutto di pensiero, direi ‘culturale’.

Oggi ricopre un incarico importante nella Business Partner Organization: cosa significa essere business partner IBM?

Oggi il BP (business partner) è un vero e proprio partner di lavoro: rappresenta IBM nella propria area geografica e opera portando ai clienti prodotti IBM, integrandoli con le proprie competenze e le personali soluzioni. Quindi, il BP non è più semplicemente un fornitore ma è un’azienda ‘operante’ che risolve i problemi di un cliente, ricevendo da IBM anche tutta una serie di attività di supporto. Questa peculiarità differenzia i BP IBM da quelli di altri brand sul mercato. Perché in questo nuovo modo di concepire il ruolo è sotteso anche un cambiamento di visione che IBM incoraggia: oggi, infatti, nessun consumatore compra più prodotti, ma ‘pezzi’ che vanno a soddisfare precise esigenze evidenziate all’interno dell’organizzazione. Questo vale ancora di più quando si acquistano tecnologie: quello che serve sono ‘soluzioni integrate’ che mettono insieme quei pezzi per soddisfare le esigenze del cliente. Un importante passaggio ‘culturale’ e materiale rispetto al ciclo di vendita di 15 anni fa.

E la trasformazione delle imprese e dei bisogni delle stesse negli anni come è avvenuta? Si può parlare anche per loro di cambiamento ‘culturale’?

Oggi, soprattutto le PMI vivono un momento di profonda evoluzione: agli inizi del 2000 si vedeva la trasformazione come un processo discontinuo, che avveniva una volta aprendo di seguito un periodo di stabilità. Nel tempo le fasi di cambiamento e di tranquillità si sono sempre più compattate, per arrivare, con la crisi del 2008, a una trasformazione persistente. Quindi, il concetto del cambiamento è diventato in ogni impresa un elemento imprescindibile, direi vitale, per restare in buona salute all’interno del proprio business, portando, nel contempo, a vivere come in un costante cantiere aperto per non essere emarginati. Così le PMI guardano all’innovazione e al futuro. Non a caso, le imprese che sono riuscite ad avere successo sono quelle che hanno al proprio interno un’unità vocata a individuare quello che deve accadere ‘dopodomani’: con la ricerca, con indagini di marketing, con sistemi di analisi, etc. Un’attività che deve

incontri con

Pierfrancesco Angeleri

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MAGGIO 2013

essere riconosciuta all’interno della struttura aziendale, capace di intercettare e comprendere gli andamenti dei fenomeni di mercato, individuando le risorse interne disponibili da impiegare. Inoltre, da segnalare che le Piccole e Medie Imprese che hanno avuto maggior successo sono quelle che hanno svolto alcune operazioni di ‘igiene’, ovvero che hanno tracciato una mappa dei propri processi secondo metodologie di ‘process engineering’ stabilendo una organizzazione ben definita con ruoli e responsabilità. I processi aziendali secondo lei diventano in questa nuova era industriale una leva sintomatica di trasformazione aziendale?

Direi di sì, anche se la maggior parte delle PMI da sole, oggigiorno, non è in grado di mappare i processi senza dotarsi di strumenti e know how adeguati. E se a fine ’800 la grande evoluzione è stata segnata dalla meccanizzazione dei processi di produzione, oggi è l’IT che permette l’automazione di questi e altri processi - basti pensare alla gestione della contabilità. L’IT è una fabbrica che ingegnerizza operazioni concatenate, ma da sola non ha senso e necessità della definizione di modelli, così come lo stesso computer da solo non ha senso ma ha bisogno di programmi per funzionare. Quindi, l’IT diventa sempre più uno strumento al servizio dell’efficientamento dell’azienda: la rende innovativa e permette - si pensi ai big data - di ottenere intelligenza dai propri dati. A tal proposito l’Italia è nettamente indietro rispetto alla media europea, nonostante ci siano anche diversi casi di aziende che hanno saputo sfruttare l’IT per implementare il proprio business. Oggi, solo dove abbiamo un’azienda fortemente padronale riscontriamo ancora maggiore difficoltà.

Aziende e BP nel periodo della trasformazione stanno creando allora un nuovo rapporto...

Per esperienza posso confermare quanto oggigiorno sia necessario ‘raccontare’ che è determinante fare il salto ‘culturale’ e ripensare i modelli organizzativi per implementare il proprio business. Ed il BP è il compagno ideale per far questo. Così, mentre è banale vendere tecnologie ad un’azienda che ha compreso il valore del cambiamento, perché lei stessa è driver nel volere innovazione; al contrario, quando si dialoga con quelle realtà che non danno alcun valore all’IT occorre sostenerle principalmente nello sforzo di un salto ‘culturale’. IBM assieme ai partner cerca di spiegare alle aziende perché devono cambiare culturalmente, ovvero modificare le organizzazioni come anche i processi. Poi l’informatica consegue. I nostri partner sono, allora, agenti di cambiamento e possono prendere spunto dalla grande trasformazione

che la stessa IBM ha fatto, a partire dal ’93, diventando improvvisamente azienda di servizi, di ‘middle software’, e divenendo nel contempo transnazionale.

Globalizzazione e prossimità: un binomio sempre più stretto ma determinante anche per il BP.

Nel ragionamento fatto il concetto di globalità è sempre rimasto sottointeso, eppure il ruolo della prossimità e della geografia resta comunque fondamentale. Non bisogna credere che il locale abbia in questi anni un valore limitato. IBM è profondamente convinta che il ruolo del partner sul territorio locale sia importante ed abbia un futuro ancor più rilevante. Perché il BP, una volta diventato esso stesso convinto sostenitore e portatore di rinnovamento, deve continuare a operare con strumenti come prossimità, contatto, capacità di comprensione degli ecosistemi, che sono locali e nel contempo trasversali. Perché le imprese operano all’interno di confini geografici definiti, anche se con uno sguardo che va al di là dei confini. E il contatto ‘de visu’, con un professionista che appartiene al suo ecosistema resta per il cliente la scelta migliore per aprire un dialogo e un rapporto.

Secondo lei quale potrebbe essere il successivo sviluppo della componente IT? Cosa accadrà dopodomani?

Lo sviluppo dell’IT dipenderà da quanto noi - sistema che sviluppa e promuove l’IT - saremo bravi a spiegare quanto l’information technology può aiutare le aziende a svilupparsi. E la via è quella del narrare il cambiamento dei processi e la trasformazione. Quindi, oggi dovremmo cambiare testa, adeguare il management e modificare le organizzazioni e i processi. L’ICT, nel 90% dei business, è lo strumento primario di questa nuova automazione. La fabbrica immateriale oggi è una realtà sempre più essenziale, perché la componente di ‘immaterialità’ che c’è oggi nei processi produttivi rispetto 20 anni fa è quadruplicata.

Il futuro e il ricambio generazionale

Nell’epoca attuale, poi, è fondamentale accompagnare e governare il ricambio generazionale: la capacità innovativa di un giovane è di grande rilievo. E nel mondo di oggi i giovani sono i veri portatori di rinnovamento, mentre spesso l’esperienza diventa solo un’ancora che ferma lo sviluppo. Oggi il ‘mestiere’ conta meno rispetto allo sguardo proiettato al futuro dei giovani. Le aziende dovrebbero investire in questa risorsa naturale, e demandare loro sempre più responsabilità.

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informazione pubblicitaria

Soluzioni finanziarie con EMC per piccole e medie imprese

Il passaggio dal vecchio al nuovo anno è stato inevitabilmente dominato dagli interrogativi economici. I comportamenti dei consumatori, le attese delle aziende, le politiche che riguardano il settore sono condizionate da una crisi economica che, peraltro, in Italia è ulteriormente esacerbata dall’avvitarsi della situazione politica. Oggi più che mai le aziende, per poter essere sempre più competitive sul mercato italiano ed internazionale, devono essere in grado di ricorrere ad una continua innovazione. Per questo, un nuovo ruolo si prospetta per le aziende che operano nel mercato IT, come “propulsori di innovazione”, supportati da tecnologie e strumenti finanziari flessibili e consistenti.

Emc Global Financial Services - GFS - è la divisione di Emc dedicata ai Servizi Finanziari e di Asset Management che offre ai clienti Emc e ai service provider un’ampia gamma di soluzioni finanziarie personalizzate, convenienti e flessibili oltre a modalità di acquisizione che garantiscono una completa gestione degli asset informatici e massimizzano il ritorno degli investimenti sulle soluzioni EMC.

Le principali soluzioni comprendono:

EMC OPENSCALE: l’obiettivo di tutte le organizzazioni è tenere sotto controllo i costi IT, ma anche rispondere prontamente alle nuove esigenze aziendali. EMC OpenScale consente di risolvere entrambi i problemi senza dover cedere il controllo delle proprie risorse IT; questa soluzione offre infatti tutti i vantaggi di un’infrastruttura all’avanguardia, combinati con costi basati sull’effettivo utilizzo. Ideale per le aziende con installazioni a più terabyte in crescita e con processi di acquisto complessi, EMC OpenScale è una partnership ibrida di finanziamento e approvvigionamento. Fornisce una capacità di storage di base concordata (cash o finanziata) ed un “buffer” di capacità aggiuntivo, che può essere attivato istantaneamente, non appena necessario. Il buffer non ha alcun costo finché non viene utilizzato: il monitoraggio dei consumi relativi avviene da parte EMC e si traduce nelle formule “pay-as-you-grow” o “pay-as-you-go”.

EMC VELOCITY FINANCE: con l’evoluzione continua del mercato e delle tecnologie di storage, il successo delle organizzazioni è strettamente correlato all’aggiornamento delle infrastrutture di storage. GFS offre soluzioni di finanziamento personalizzate e flessibili per le piccole e medie imprese, ideali per rispondere alle esigenze delle aziende con problematiche di complessità crescente, risorse limitate e vincoli di costo. Le soluzioni di finanziamento proposte sono semplici e veloci a tassi competitivi. Flessibilità dei termini, pratiche semplificate e decisioni rapide sul credito rendono il finanziamento tramite GFS una scelta conveniente ed intelligente. EMC Global Financial Services vanta anni di esperienza nell’assistere i clienti nella gestione dei costi relativi alle infrastrutture di storage e nell’implementazione delle tecnologie più recenti.

Nel dettaglio, le offerte GFS per il finanziamento totale delle soluzioni offrono alle piccole e medie imprese:

• Massimizzazione del flusso di cassa grazie al finanziamento al 100% di hardware, software e servizi

• Protezione dall’obsolescenza delle apparecchiature• Flessibilità nelle opzioni di acquisto e rinnovo• Conservazione del capitale e del credito• La comodità di un unico pagamento mensile per

l’intera soluzione.

PARTNER E RIVENDITORI: il programma EMC di finanziamento per i partner Velocity supporta le esigenze dei clienti finali consentendo il finanziamento completo delle soluzion: hardware, software e servizi vengono infatti finanziati in un unico pacchetto. Il finanziamento totale delle soluzioni non solo consente di individuare metodi per realizzare risparmi economici, ma conduce anche alla gestione totale delle risorse dell’infrastruttura di storage. Grazie alla flessibilità delle opzioni di finanziamento e a strumenti finanziari innovativi, il programma di finanziamento per partner Velocity può essere adattato alle esigenze dei clienti finali, consentendo ai partner di migliorare la propria value proposition e quindi l’efficacia delle attività di vendita.

Per ulteriori informazioni visitate il nostro sito

http://italy.emc.com/

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Un Gruppo leader in Italia, specializzato in soluzioni e servizi tecnologici che decide di affidare il rinnovamento della propria infrastruttura informatica ad un’azienda di consulenza esterna, altrettanto specializzata nel settore: un segno di grande fiducia e allo stesso tempo una vera e propria sfida per il Gruppo Eurosystem Sistemarca che ha dovuto confrontarsi con un cliente atipico e dalle competenze tecniche estremamente elevate. È il caso del progetto avviato in Halley Veneto Srl, società del Gruppo Halley con sede a Marcon con circa 70 specialisti dedicati al settore della P.A.L. L’azienda, sviluppa e commercializza, con oltre 20 anni di esperienza, software gestionali per enti locali, e annovera oltre 420 clienti, Comuni per lo più, nelle aree che vanno dal Veneto al Friuli Venezia Giulia, dalla provincia di Ferrara a quella di Ravenna. Tra le soluzioni e i servizi offerti da Halley

Veneto in ambito software vi sono: assistenza telefonica Help-desk e teleassistenza, attivazione di sistemi informatici integrati presso i clienti, aggiornamento dei programmi, operazioni di recupero dati e assistenza tecnica e, infine, attività di consulenza,formazione e aggiornamento al cliente personalizzate. A supporto, come per molte altre imprese di tecnologia, una continua e consistente attività di ricerca e sviluppo con recenti nuovi investimenti su tecnologie ‘mobile’.

“Un’azienda come la nostra - spiegano i titolari Paolo Quinto e Luciano Doro - necessita di poter contare su una struttura informatica ed organizzativa robusta e altamente affidabile, in quanto i nostri prodotti e servizi entrano in contatto direttamente con dati e informazioni sensibili che devono essere salvaguardati secondo procedure internazionali.

Azienda di Marcon (VE) che sviluppa e commercializza software gestionali per enti locali, Halley Veneto Srl

si è affidata alla consulenza di Eurosystem Sistemarca per il rinnovo dell’infrastruttura informatica e la

realizzazione di un progetto di Disaster Recovery a livello ‘campus’.

IT AL SERVIZIO DELL’ITAffidato a Sistemarca il nuovo piano di Disaster Recovery di Halley Veneto

stories

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MAGGIO 2013

In virtù di questo adottiamo un Sistema di Gestione per la Qualità certificato secondo la norma UNI EN ISO 9001:2008 e un Sistema di Gestione per la Sicurezza delle Informazioni certificato secondo la norma UNI CEI ISO/IEC 27001:2006. Quando abbiamo deciso di evolvere il sistema informativo originale verso un assetto in Disaster Recovery, tale da rispondere ai requisiti imposti dalla ISO-27000, sapevamo di dover affidarci ad un partner tecnologico all’avanguardia ed in grado di garantire il successo del progetto nel rispetto delle normative già adottate dall’azienda. La capacità progettuale, l’esperienza trentennale e la professionalità evidenziate dal Gruppo Eurosystem Sistemarca, già in fase di prevendita e poi di progetto, sono state determinanti nella scelta di un consulente adeguato a rispondere alle nostre richieste”.

Il rinnovo costante del sistema informativo aziendale insieme alla volontà di potenziare ed ottimizzare l’apparato infrastrutturale, anche in previsione di una futura estensione dei servizi erogabili ai clienti, hanno quindi portato Halley Veneto a decidere per un piano di Disaster Recovery da realizzare con la consulenza di Sistemarca ed Ekipment, società del Gruppo Eurosystem Sistemarca, specializzate in progetti di ottimizzazione delle infrastrutture informatiche.

“Premesso che il sistema informativo pre-esistente era già strutturato in assetto virtuale con un VMWare-Cluster basato su 3 host ed una SAN Fujitsu - spiega Gianfranco Casu, Responsabile Ekipment di Progetto - l’obiettivo è stato quello di realizzare un nuovo DataCenter, da dislocare in un sito alternativo a quello esistente, disponibile, geograficamente, a distanza di ‘campus’ (entro 500 mt.)”.

A seguito di una analisi condotta per verificare i requisiti di riferimento relativi alle modalità di erogazione dei servizi, come ad esempio RTO (Recovery Time Objective, ovvero il tempo minimo tollerabile di fermo dei sistemi) ed RPO (Recovery Point Objective, il tempo minimo tollerabile per la perdita dei dati), è stata individuata nella tecnologia di Replicazione Asincrona basata su storage, la soluzione idonea per quanto concerne la dislocazione dei dati e servizi sui due siti, e VMWare Site Recovery Manager per l’ambito di gestione del ripristino dei servizi.

Questa scelta ha garantito, a livello delle performance, un impatto nullo, ed in ordine ai requisiti di RTO ed RPO, tempi assolutamente ridotti sino all’ordine dei minuti. Inoltre, è stato deciso di adottare una topologia ‘simmetrica’ per distribuire i servizi sui due siti: ciascuno di essi eroga, quindi, una quota di servizi che viene replicata sul sito omologo, permettendo, in

questo modo, di abbattere ulteriormente i tempi di eventuale ripristino, ed al contempo di massimizzare lo sfruttamento della dotazione hardware-software appannaggio dell’intero sistema informativo.

La tecnologia adottata per la realizzazione del piano di DR (Disaster Recovery) si compone di una coppia di nuovi SAN_Storage ‘EMC_VNX5300’ dotati di una quota di dischi, in parte SAS, in parte NL-SAS, in parte SSD. Parte integrante dei due storage: il software ‘EMC_Fast_Suite’ è utilizzato per abilitare la modalità ‘FAST_Cache’, che consente di gestire i picchi di richiesta di risorse mantenendo le performance ottimali, ed il software ‘EMC MirrorView’ per l’automazione delle repliche (sincrone/asincrone) Storage-based via rete IP.

La nuova architettura infrastrutturale è stata, inoltre, arricchita con tre nuovi server DELL, per il Cluster ‘VMWare vSphere 5.1 Enterprise Edition’, destinati al sito primario, mentre i server presenti nel sito secondario sono stati debitamente potenziati ed aggiornati. Implementando inoltre la funzionalità ‘Site Recovery Manager’ di VMware, è stata anche garantita la gestione dei piani di ripristino delle virtual-machine in caso di DR e la possibilità di predisporre un ambiente di test senza interruzioni delle attività.

Infine, per assicurare un ulteriore livello di protezione e disponibilità, è stato realizzato un piano di backup integrando il software ‘Veeam Backup & Replication’ con dispositivi NAS, per un efficace e rapido salvataggio, ed eventuale ripristino, dei dati, da supporto disco.

Grazie al nuovo assetto informatico realizzato con il Gruppo Eurosystem Sistemarca, Halley Veneto può contare su un apparato strutturale solido, che consente all’azienda di ampliare le potenzialità della propria offerta di servizi IT in qualsiasi momento, garantendo al contempo un’elevata sicurezza in termini di salvaguardia delle informazioni e continuità operativa di dati e servizi.

Tutto ciò, a conferma del risultato che possono ottenere due aziende che operano nello stesso settore e che decidono di ‘fare rete comune’, trasformando una buona relazione in un’opportunità di business per l’una, e di soddisfazione di servizio per l’altra.

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MAGGIO 2013

In molte realtà aziendali ricorre l’esigenza di integrare software che sono diversi per scopo o settore di applicazione, per fornitore o perché realizzati con tecnologie differenti. In questo ambito, il termine ‘integrazione’ è piuttosto inflazionato.

Integrare sì, ma come? Apparentemente sembrerebbe che il modo più pragmatico di far collaborare sistemi software eterogenei sia realizzare la replicazione o sincronizzazione tra i rispettivi dati. È una visione schiacciata verso il basso che fa perdere la ricchezza che ciascun software realizza nel proprio campo di specializzazione, una visione riduttiva che impedisce di valorizzare le differenze tra di essi e di sfruttarne le logiche di più alto livello in scenari di collaborazione più vicini alle esigenze dell’azienda e dei suoi utenti. L’analisi per processi e l’architettura a servizi, impiegati in opportune orchestrazioni, consentono, invece, di non perdere questo prezioso livello di visione, e di ottenere più benefici rispetto a quelli che i sistemi software possono fornire se impiegati isolatamente gli uni dagli altri.Applicando le metodologie orientate al BPM (Business Process Management) è possibile individuare flussi di attività che sono trasversali, non solo rispetto a uffici, reparti e mansioni aziendali

diversi, ma anche nell’uso di sistemi software differenti e dipartimentali (Vision & Methodology).

Dotare ciascun software coinvolto dell’opportuna estensione a servizi di alto livello, che parlano un linguaggio di business comune (Software Architecture & Design), piuttosto che di viste o tabelle di sincronizzazione o scambio dati, consente di impiegare direttamente nelle orchestrazioni di processo la logica di maggior valore e complessità propria di ciascuno di tali software, tra l’altro in modo frammisto con l’impiego da parte degli utenti delle rispettive ed eterogenee applicazioni interattive, ma in modo omogeneamente guidato dalle attività che gli utenti si ritrovano elencate nella propria working list (Infrastructure & Technology).

Dunque, il motore di orchestrazione, l’architettura a servizi e l’infrastruttura del service bus della piattaforma gestionale Freeway® Skyline consentono di realizzare concretamente i processi più importanti dell’azienda, integrando le funzionalità e le applicazioni del gestionale Freeway® ERP (Enterprise Resource Planning) con quelle dei vari software specializzati o dipartimentali di cui l’azienda è dotata.

Non solo “sincronizzazione” tra dati ma reale integrazione

Freeway® Skyline valorizza le peculiarità di software singoli e di diversa specializzazione elevandole

all’interno di un’integrazione totalmente controllata e coordinata tra questi e le funzionalità del gestionale

ERP. A dirigere l’orchestra, come un grande maestro, il motore di orchestrazione, l’architettura a servizi e

l’infrastruttura del service bus di Freeway® Skyline.

ALESSIO VOLTAREL [email protected]

L’ORCHESTRAZIONE DEI SISTEMI

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Un progetto di integrazione tra sistemi software differenti necessita di un’analisi per processi secondo la metodologia orientata al BPM. Dietro la parola ‘integrazione’ dei sistemi software si nasconde molto di più che la mera ‘sincronizzazione’ dei dati tra di essi. Prima lo si comprende e prima si è in grado di rispondere alla domanda centrale: perché è necessario far interoperare i diversi sistemi software tra di loro? La risposta è una sola: i flussi di lavoro aziendali richiedono che le persone impieghino in modo coordinato le applicazioni e le varie funzionalità offerte dai diversi sistemi software, senza che vi siano interruzioni oppure ostacoli dovuti alla mancata interoperabilità tra di essi.

Si comprende quindi che una delle conseguenze di ciò è che le informazioni fluiscano automaticamente da un sistema all’altro. Ma è solo un ovvio corollario. Questo non è né l’unico fattore né è la problematica centrale, benché non se ne neghi l’importanza.

L’analisi per processi consente di identificare quei task che possono essere espletati da servizi offerti dai sistemi software, oltre che identificare i task che gli utenti eseguiranno direttamente impiegando le applicazioni a disposizione nei

diversi software. Le orchestrazioni che ne discendono, quindi, coinvolgono passi ad esecuzione automatica offerti da questo o quel servizio software e passi ad esecuzione umana mediante l’impiego di applicazioni interattive.

Questa visione è applicabile a qualsiasi settore produttivo o ambito aziendale, indipendentemente da quali software dipartimentali o specializzati vengono impiegati in questo o in quell’ufficio o reparto, solitamente in presenza del gestionale ERP.

Ad esempio, nelle aziende produttive che lavorano a commessa con configuratore di prodotto è frequente l’impiego di software CAD (Computer Aided Design) per la progettazione grafica e l’ingegnerizzazione dei prodotti. Ma anche di software che governano le macchine nelle linee di produzione o ne misurano i parametri di funzionamento o l’avanzamento delle fasi, oppure software per l’automazione dei magazzini o per la rilevazione della merce versata, prelevata e in transito, e così via. Questi software specializzati generalmente non sono appannaggio dei produttori di un gestionale ERP e viceversa. Nonostante ciò l’esigenza di impiegarli come se fossero un unico sistema è una legittima aspettativa.

BUSINESS SERVICES IN BUSINESS PROCESSESVISION & METHODOLOGY

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MAGGIO 2013

SOA (Service Oriented Architecture) è un supporto efficace per la collaborazione tra software eterogenei. SOA viene preferibilmente impiegata proprio nell’ambito dell’integrazione di software eterogenei. Diventa importante aderire ad un unico linguaggio di business con cui i servizi espongono le funzionalità mediante le proprie interfacce, perché ciò consente di creare un livello omogeneo a disposizione delle orchestrazioni di processo, nonostante l’implementazione dei servizi sia realizzata su sistemi software anche molto eterogenei. Si pensi, ad esempio, all’integrazione tra un gestionale ERP e un sistema CAD di progettazione grafica di ordini cliente e di prodotti o, ancora, tra l’ERP e un software che governa le linee di produzione o il controllo dei magazzini automatici. Schieramenti di servizi che parlano lo stesso linguaggio di business, implementati ciascuno sui diversi sistemi software autonomi, rendono le peculiarità di ciascuno segregate, nascoste, trascurabili, consentendo di curare e potenziare il sistema proprio dove la logica di più alto livello può dare i maggiori benefici in termini di flessibilità e potenzialità, cioè l’ambito di processo. Da quali fonti arrivano gli ordini cliente? Come vengono verificati e protocollati? Quali devono essere i passaggi di approvazione? Quando ciascun ordine cliente va in carico

alla grafica? Che controlli devono essere effettuati dopo la graficazione? I clienti devono pagare prima che si inizi a produrre? A che punto vengono generati le distinte e gli ordini di produzione? Le macchine devono essere programmate per le lavorazioni? Con che politiche i materiali vengono prelevati e portati a bordo macchina? A che punto si spediscono i colli prodotti? Si comprende come possa addirittura essere considerato secondario o scontato - pur non essendolo - che alcuni passi vengano svolti da servizi o applicazioni di questo o quel software, e come possa apparire altrettanto scontato che debbano necessariamente avere luogo anche i relativi scambi di informazioni o entità tra i diversi software.

Si distinguono così nettamente i due ambiti: l’ambito di processo con le sue regole e l’ambito di attuazione delle azioni necessarie. Detto in termini più concreti, l’orchestrazione effettua valutazioni e avanza il flusso (ambito di processo), impiegando i servizi dell’ERP e dei vari software specialistici di dipartimento o reparto, mandando richieste o notifiche in working list agli utenti da svolgere mediante varie applicazioni interattive di questo o quel software (ambito di espeltamento delle azioni).

SOFTWARE ARCHITECTURE & DESIGN

SOFTWARE SERVICES IN ORCHESTRATION

FREEWAY®

SERVICE BUS

MRP

LOGISTICA

GRAFICA

...

BPMORCHESTRATION

SERVICE TO SERVICE COLLABORATIONWORKFLOW

MANAGEMENT

La “dorsale” del service bus veicola in modo affidabile tutte le entità che necessitano ai servizi e ai processi per avanzare le attività in modo rigorosamente coordinato.

NESSUN CONDIZIONAMENTO TRA I SERVIZI

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L’architettura bipartita tra orchestrazioni di processo da una parte e servizi che incapsulano implementazioni su software specializzati dall’altra, sono le due facce della soluzione di interoperabilità tra sistemi software eterogenei, il cui collante infrastrutturale è la dorsale di comunicazione offerta dal service bus. La working list è il luogo di comune user experience per i vari utenti che pure utilizzano software probabilmente tanto diversi.

Esempi aziendali ove ricorrono esigenze di interoperabilità fra software specializzati diversi e di questi con l’ERP possono essere nell’ambito manifatturiero, aziende che lavorano per commessa cliente, con configuratore di prodotto, dove si intersecano esigenze di raccolta degli ordini cliente, progettazione grafica, guida e rilevazione dei sistemi produttivi e dei magazzini automatici, logistica delle spedizioni.

Particolarmente interessante è lo scenario di processi, tipici dei mobilifici, nei quali assume centralità l’interoperabilità tra l’ERP e vari sistemi: il software specializzato di CAD per la progettazione grafica degli ordini cliente; quello per le macchine delle linee di produzione e relativi sistemi di monitoraggio; il software di logistica dei magazzini per il prelievo automatizzato dei semilavorati da portare a bordo macchina; quello per la pianificazione delle spedizioni e il sistema di pianificazione dell’approvvigionamento dei semilavorati.

Scendendo a un maggior dettaglio, dopo che l’ordine cliente è stato protocollato, deve andare in progettazione grafica. A tal fine allora deve avere luogo una orchestrazione di passi che si svolgono nell’ERP e di passi che invece si svolgono nel sistema grafico.

Ciò avviene innanzitutto in merito alla creazione e manutenzione di articoli codificati secondo un preciso piano di codifica, con varianti, distinte configurabili, listini prezzi dei componenti e gli altri passi che devono svolgersi nel sistema CAD, come la progettazione grafica 3D degli articoli di vendita e di quelli componente.Analogamente deve avvenire l’opportuna orchestrazione

tra i passi di inserimento, verifica e protocollazione di un ordine cliente, che avvengono attraverso applicazioni ERP, e il successivo sviluppo grafico da svolgersi con il sistema CAD, il quale darà vita al progetto di quanto chiesto dal cliente, dei colli da produrre e quindi da spedire. Tutto questo avviene nel sottoprocesso di gestione dell’ordine cliente.

Anche la produzione dei colli richiede la generazione di articoli specifici a varianti istanziate, in base al progetto dell’ordine graficato dal CAD, delle relative distinte di produzione e la fornitura dei programmi ISO alle macchine in stabilimento per lo svolgimento delle operazioni produttive. Ci sono inoltre anche gli aspetti relativi al controllo degli avanzamenti in produzione.

Lo scenario di interesse in quest’ultimo caso è quello che mette insieme l’ERP con un sottosistema software MES (Manufacturing Execution System), per la programmazione delle macchine come detto, ma anche per la raccolta, l’aggregazione e la rielaborazione di dati dalle linee di produzione al fine di monitorare gli avanzamenti WIP (Work In Progress), dati che vengono forniti all’ERP - attraverso servizi aventi opportune interfacce e in accordo con l’architettura SOA - per registrare gli eventi di avanzamento della produzione o rilevazioni di altra natura.

Realizzare una soluzione informatica di questo tipo consente ad un produttore di ERP e ad uno di software CAD o MES di mettere insieme le proprie competenze e prodotti software di specifico campo in un sistema complessivo che moltiplica il livello di servizio offerto all’azienda che li adotta.

Altro aspetto fondamentale garantito dall’architettura SOA è la possibilità che i sistemi parlino e interagiscano tra di loro mediante i servizi in modo totalmente trasparente, ciascuno nella propria autonomia, consentendo il funzionamento anche nel momento in cui uno dei sistemi sia fuori linea (off-line) per manutenzione o altri motivi. Al riavvio del sistema fuori linea l’infrastruttura di service bus ne garantisce l’automatico riallineamento in modo totalmente trasparente per l’utente.

INFRASTRUCTURE & TECHNOLOGY

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SOFTWAREINTEROPERABILITY

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L’azienda di Udine ha scelto il software ERP di Eurosystem per informatizzare l’area amministrativa e

finanziaria e integrarla con il software operativo realizzato dal proprio staff tecnico.

CONTABILITÀ SICURA E INTEGRATA PER IL GRUPPO CESPEDAffidabilità e integrazione tecnologica per l’innovazione

La scelta di affidarsi alle risorse interne per lo sviluppo di tecnologie di automazione dei processi organizzativi a misura della propria azienda non è inconsueta per realtà composite e di respiro internazionale, che hanno necessità di gestione particolari, legate ad un numero elevato di filiali, clienti, e a grandi volumi di servizi o prodotti. Spesso queste aziende si trovano a dover integrare programmi sviluppati internamente per la direzione operativa del business con altri software che permettono di informatizzare attività collaterali, ma non meno importanti. È il caso del Gruppo Cesped Spa che, con oltre 1.400 spedizioni al giorno, 8mila clienti e più di 100.000.000 di euro di fatturato, si colloca oggi tra le prime 10 aziende private italiane del settore trasporti e spedizioni nazionali ed internazionali. Il Gruppo, con sede principale a Lauzacco in provincia di Udine,

nasce più di 30 anni fa nel 1982, avviando una collaborazione con diversi partner esteri per la lenta ma progressiva evoluzione di quella che diventerà poi una delle case di spedizioni internazionali più importanti nel triveneto. Attualmente con le sue 13 filiali in tutto il Nord e Centro Italia e circa 250 collaboratori, il Gruppo Cesped Spa è specializzato nei trasporti di collettame e nel consolidamento, presso i propri magazzini, di spedizioni groupage mediante linee regolari in Italia, Europa e, grazie alla collaborazione delle più importanti compagnie marittime ed aeree, in tutto il mondo. A guidare l’azienda in questa evoluzione i più sofisticati sistemi informatici, sviluppati in proprio da uno staff tecnico interno composto da 7 persone, e pensati ponendo le esigenze del cliente al centro di tutto il processo produttivo. Grazie all’utilizzo delle tecniche più innovative, l’azienda si è aperta ai clienti in modo interattivo,

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permettendo l’accesso ad archivi ottici e a tutta una serie di informazioni sullo status delle spedizioni, garantito da rigorose procedure di sicurezza dei dati. Mediante la localizzazione geografica tramite GPS, ad esempio, oggi vengono individuati in tempo reale la posizione dell’intera flotta dei camion con una panoramica di tutti i veicoli a disposizione e con informazioni aggiornate e sicure sullo stato delle spedizioni in corso. Anche la gestione del magazzino, la composizione dei carichi e la pianificazione dei ritiri e delle consegne, vengono effettuati con l’ausilio di programmi informatici realizzati dal CED (Centro Elaborazione Dati) interno.

A completamento degli innovativi sistemi realizzati e con lo scopo di supportare l’apparato tecnologico già esistente con soluzioni altrettanto robuste e flessibili, Cesped Spa ha deciso di sostituire l’ormai datato AS 400 con un programma che potesse soddisfare le esigenze di tenuta contabile ed amministrativa di tutte le società del Gruppo, centralizzando i relativi processi. Tra i requisiti richiesti dall’azienda vi erano la necessità di trovare un software che si integrasse perfettamente con i diversi sistemi in uso e che permettesse di gestire in modo veloce la contabilità di molte e diverse aziende, offrendo garanzie elevate in termini di affidabilità e sicurezza

dei dati. Infine, si preferiva individuare un prodotto italiano in modo che fosse costantemente e facilmente aggiornato, e in linea con la normativa fiscale nazionale.

La scelta di adottare il modulo di gestione area Amministrativa e Finanziaria di Freeway® Skyline è stata dettata dalla grande conformità del prodotto ai requisiti richiesti dall’azienda, primo fra tutti il fatto di essere realizzato e proposto da un fornitore come Eurosystem, con competenze consolidate e in grado di gestire la fase di integrazione della soluzione con i sistemi già in uso. “Freeway® Skyline è stato immediatamente apprezzato dagli utilizzatori - racconta Sergio Bergamasco, Responsabile Sistemi Informativi del Gruppo - per la sua semplicità e per l’immediatezza di informazioni. Già dopo pochi mesi, il Gruppo Cesped ha chiesto alcune personalizzazioni per utilizzare al meglio il prodotto, personalizzazioni che sono poi state ampliate nel tempo anche in campo non prettamente contabile. Ad oggi, il prodotto è utilizzato nel pieno delle sue funzionalità,

stories

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rispondendo completamente alle esigenze degli utilizzatori”.Tra le caratteristiche che hanno reso l’adozione di Freeway® Skyline determinante anche il fatto di essere una soluzione multi-ditta, dunque assolutamente flessibile nella configurazione dell’area amministrativa per diverse società, e la peculiarità di appoggiarsi al database Oracle. La tecnologia Oracle, infatti, ha permesso di accentrare in un unico contenitore le schede anagrafiche dei clienti/fornitori che risultano essere le medesime per tutte le aziende del Gruppo. Il processo di implementazione di Freeway® Skyline per l’area contabile è stato, quindi, realizzato adattando la maggior parte delle funzionalità previste nei moduli standard: dalla contabilità generale (per la fatturazione, le presentazioni del portafoglio, le disposizione di pagamento, l’acquisizione degli insoluti, la generazione degli ammortamenti, la quadratura acquisti, ecc.) alla contabilità clienti e fornitori (per incassi e pagamenti, sia nazionali che esteri; per la compensazione tra posizioni attive e passive; per la gestione dell’anticipazione fatture e il portafoglio titoli; per le funzionalità di remote banking per l’acquisizione di insoluti, avvisi di scadenza, incassi e la trasmissione del foglio e delle disposizioni di pagamento), a quella analitica (per la ripartizione sia su centri di costo/profitto che su commesse, in base a driver opportunamente configurati), alla gestione finanziaria (per il quadro globale dei flussi finanziari in entrata e in uscita e dei margini di manovra per istituto di credito; per il controllo puntuale degli affidamenti e delle condizioni contrattuali; per l’emissione dello scalare periodico) e dei cespiti (per la definizione di più binari di calcolo: fiscale, civilistico, gestionale; per il calcolo di ammortamento ordinario, anticipato e accelerato su base annuale, mensile, giornaliera, a

quote fisse e per la relativa contabilizzazione).

Attualmente con Freeway® Skyline il Gruppo Cesped gestisce la contabilità di 7 aziende. Tramite appositi applicativi i documenti fattura attivi e passivi prodotti dal software operativo vengono recuperati ed è aggiornata la contabilità con la creazione dei movimenti contabili, iva e di scadenziario. L’accentramento della contabilità di tutte le aziende ha permesso, inoltre, la suddivisione dei compiti nei diversi uffici per competenze: l’ufficio che si occupa dei rapporti con le banche lo fa per tutte le aziende. In particolare, grazie alle funzionalità di Home Banking, gli operatori preposti possono acquisire la movimentazione bancaria dall’ istituto bancario e, con apposite applicazioni di Freeway® Skyline, effettuare la generazione e l’aggiornamento contabile. Grazie al modulo di gestione Percipienti è possibile rilevare le ritenute dei liberi professionisti e procedere con il versamento all’erario con la generazione delle distinte di versamento. Il tutto supportato dalla soluzione Freeway® Skyline per l’archiviazione documentale.

La flessibilità di un software multi-ditta, in grado di supportare facilmente e senza necessità di ulteriori integrazioni, eventuali nuove acquisizione aziendali, unita all’affidabilità del database Oracle e alle competenze consulenziali di Eurosystem hanno contribuito alla realizzazione di un sistema unico, totalmente integrato, che mette insieme le funzionalità dell’area amministrativa di Freeway® Skyline con quelle operative dei sistemi interni garantendo agli utenti del Gruppo Cesped Spa di operare con fluidità e nella massima sicurezza.

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Impianti tecnologici di altissimo livello garantiscono la disponibilità delle risorse al 99,9% assicurando agli utenti la continuità del servizio, supportata ulteriormente da SLA con tempi di

ripristino definiti che pongono Nordata ai vertici nella scala di affidabilità tra i fornitori di servizi IDC.

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Nell’ottobre del 2002 è stata data attuazione, nell’ordinamento italiano, ad un’importante direttiva CE (la n. 35 del 2000) relativa alla “lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”.È stato introdotto, pertanto, il Decreto Legislativo 231/2002.Ora, dopo 10 anni, nel mese di novembre del 2012, questo decreto legislativo è stato riformato al fine di dare attuazione ad un’ulteriore direttiva UE (n. 7 del 2011) che aveva modificato la precedente direttiva CE 35/2000 rendendo ancora più forti (e si spera... efficaci) le norme che sanzionano i ritardi di pagamento.L’augurio è necessario perchè l’applicazione della direttiva non aveva, certamente, fatto diminuire in Italia, i ritardi di pagamento la cui durata media, anzi, è aumentata (!) nel decennio 2002-2012 mentre diminuiva in Paesi come Francia e Germania.Il recepimento delle due direttive avrebbe come (auspicabile) obiettivo quello di riequilibrare il potere contrattuale nei rapporti fra piccole e medie imprese (le PMI) e aziende di maggiori dimensioni che vede le prime come parte più debole, spesso esposta a subire condizioni “capestro” imposte dai contraenti più forti.La disciplina introdotta ha come obiettivi

sia la lotta al ritardo di pagamento, intendendo per tale il tempo trascorso tra la scadenza del termine di pagamento previsto dal contratto e l’effettiva corresponsione del prezzo, sia il contrasto, nella pratica molto diffuso, della previsione (anche se più correttamente si dovrebbe dire imposizione) contrattuale di dilazioni di pagamento troppo lunghe. Non solo.È uso nella grande distribuzione commerciale imporre termini di pagamento a 6,12,15 mesi e, poi, alla scadenza chiedere (praticamente... imporre) ulteriore dilatazione dei termini.Ciò costringe la parte più debole del contratto a finanziare, di fatto, la più forte che può pagare in tempi più lunghi, mentre incassa i suoi ricavi a pronti o in termini molto più brevi.Meccanismo sotto un certo profilo assolutamente perverso utilizzato dalla grande distribuzione che, utilizzando i flussi e le disponibilità finanziarie, è in grado, tra l’altro, di applicare prezzi maggiormente concorrenziali.Il Decreto Legislativo 231/2002 si applica ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo nella transazione commerciale, intendendo per tale qualsiasi tipo di contratto tra imprese o fra

Il decreto legislativo 192/2012 ha dato attuazione, nell’ordinamento italiano, a una direttiva CE relativa alla “lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”.

Ritardi di pagamento nelle transazioni commercialiLa normativa per combatterliANDREA MANUEL

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queste e le pubbliche amministrazioni.Gli articoli 3 e 4 del Decreto Legislativo 231/2002 (così come riformato/integrato dal DLGS 192/2012) prevedono che il creditore ha diritto agli interessi moratori che decorrono automaticamente, senza bisogno di costituzione in mora, dal giorno successivo alla scadenza del termine di pagamento.Se il termine di pagamento non è stato previsto nel contratto, decorrono, sempre automaticamente, dopo 30 giorni dal ricevimento della fattura o dalla richiesta di pagamento equivalente alla fattura o dalla data di ricevimento delle merci o dalla prestazione dei servizi.Nelle transazioni commerciali tra imprese (quindi non tra imprese e pubbliche amministrazioni) le parti “possono pattuire un termine per il pagamento superiore rispetto a quello previsto dal comma 2” però con queste precisazioni: termini superiori ai 60 giorni devono essere pattuiti espressamente, la clausola relativa al termine deve essere provata per iscritto e, comunque, detti termini non possono essere “gravemente iniqui per il creditore ai sensi dell’art. 7”.L’art. 7, per quanto qui interessa, prevede che le clausole relative al termine di pagamento... “sono nulle quando risultano gravemente inique in danno del creditore” in tal caso il Giudice dichiara “anche d’ufficio la nullità della clausola”.Il tasso degli interessi di mora è pari al saggio di interesse del principale strumento di rifinanziamento della Banca Centrale Europea aumentato di ben 8 punti percentuali (10 se trattasi di prodotti agroalimentari).Anche in tal caso (così come previsto con i termini di pagamento nelle transazioni commerciali) può essere concordato un tasso di interesse moratorio diverso sempre purchè lo stesso non sia “gravemente iniquo” ai sensi dell’art. 7 ed è sempre nullo l’accordo che esclude del tutto l’applicazione di interesse di mora.Il creditore ha inoltre il diritto al

risarcimento dei costi di recupero della somma, salva la prova del maggior danno e, senza che sia necessario la costituzione in mora, un importo forfettario di € 40,00 a titolo di risarcimento del danno.Tutte queste clausole (termini di pagamento, tasso di interessi moratori, risarcimento dei costi di recupero) sono nulle e devono essere dichiarate tali anche d’ufficio se sono “gravemente inique” nei confronti del creditore.Per giudicare l’eventuale iniquità si fa riguardo alle circostanze del caso: lo scostamento dalla corretta prassi commerciale, il principio di buona fede e correttezza, la natura dei beni e dei servizi, l’esistenza di motivi oggettivi per derogare.La tutela dell’impresa contraente “debole” è stata anche rafforzata da alcune disposizioni processuali: è stato modificato l’art. 641 del Codice di Procedura Civile prevedendo che il decreto ingiuntivo relativamente al pagamento del prezzo, debba essere emesso dal Giudice entro 30 giorni dal deposito del ricorso.Sempre processualmente è stato anche modificato un ulteriore articolo ed è stato previsto che il Giudice debba concedere l’esecuzione provvisoria anche parziale del decreto ingiuntivo opposto dal debitore, limitatamente alle somme non contestate.La disciplina sui ritardi dei pagamenti di applica a tutte le transazioni commerciali concluse a decorrere dal 01.01.2013.Concludendo da un lato non si può che apprezzare l’intento diretto ad accorciare i tempi di pagamento ed a scoraggiare le inadempienze, dall’altro non si può che esprimere una grande riserva sull’efficacia pratica che tali norme avranno!Si tratterà di verificare, nel tempo, se questa norma avrà un’efficacia sperata da chi l’ha introdotta.

Studio Legale Nordio-Manuel

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La reazione dei datori di lavoro, spiazzati di fronte a cotanta autonomia nella gestione della partita, va interpretata alla luce delle nuove regole. Il precedente sistema prevedeva una formazione quasi esclusivamente demandata alle regioni, antipatica agli occhi dei datori di lavoro per due motivi: scarsa attinenza delle attività proposte rispetto alle mansioni da apprendersi; prolunagata assenza dell’apprendista a causa degli obblighi formativi esterni. Il T.U. ha spazzato via le criticità, imponendo un sistema di formazione su misura a diretta programmazione e gestione aziendale, nel rispetto del piano formativo, da svolgersi completamente in ambito aziendale. Tanta considerazione per le doglianze datoriali ha però provocato un effetto “boomerang”, lasciando i datori di lavoro interdetti di fronte ad una completa autonomia, difficile da gestire in termini di costo da sostenere per erogare questa formazione obbligatoria. A tal proposito, in questi ultimi mesi alcune regioni hanno completato l’iter per liberare i finanziamenti destinati alla formazione trasversale, che verrà organizzata esclusivamente a carico dell’ente su precise indicazioni fornite dall’azienda circa il percorso da seguire per l’acquisizione delle competenze. La

formazione trasversale, obbligatoria e a carico azienda, è da completare con la formazione professionalizzante.Progetti finanziati da alcune regioni:EMILIA ROMAGNALa Dgr. 775/2012 ha stabilito che la formazione degli apprendisti, assunti con contratto di apprendistato professionalizzante, sia complessivamente pari a 40 ore per ciascun anno di contratto. La Regione finanzia la formazione trasversale tramite voucher formativi: l’utilizzo dell’offerta pubblica per la formazione di base e trasversale è obbligatoria da parte dell’azienda. La normativa regionale prevede che, entro le competenze trasversali, rientrino obbligatoriamente anche le competenze in tema di “sicurezza sul lavoro”.LOMBARDIALa Regione Lombardia ha messo a disposizione risorse pari ad € 6 milioni per costituire, a beneficio di ciascun nuovo assunto con contratto di apprendistato professionalizzante, una “dote” di cui usufruire per i servizi di supporto all’attivazione del contratto di apprendistato, alle attività di progettazione e stesura del Piano Formativo Individuale, alle attività di supporto per l’erogazione della formazione tecnico-professionale. La richiesta per conto delle aziende e degli

apprendisti può essere presentata da operatori accreditati ai sensi delle leggi regionali 19/2007 e 22/2006; il portale telematico per inoltrare le domande da parte degli operatori è stato aperto alle ore 12 del 29/11/2012. La domanda di liquidazione finale dovrà essere inoltrata on line dagli operatori entro i 45 giorni dalla conclusione del P.I.P. e non oltre il 31/10/2014. Il valore della dote erogata non può superare € 1.000 per apprendista.VENETOLa regione Veneto, al fine di espletare gli obblighi posti in capo alle Regioni di provvedere alla formazione trasversale degli apprendisti, ha approntato una procedura telematica, su www.apprendiveneto.it, tramite la quale scegliere l’apposito percorso formativo a cui destinare il dipendente assunto con contratto di apprendistato. Il termine entro il quale inoltrare tale comunicazione è di:- 30 giorni a partire dalla *data invio mail da registrare come data di riferimento nella scheda apprendista*, relativamente agli apprendisti assunti dal 26/04/2012;- 30 giorni a partire dalla data di assunzione, per gli apprendisti assunti successivamente al 03/04/2013.L’intero percorso formativo prescelto è finanziato dalla regione.

Apprendistato e formazione trasversale Spuntano i primi finanziamenti

Nel 2011 il D.Lgs 167 ha riformato la materia con uno scheletro normativo flessibile di soli 7 articoli. Il nuovo Testo Unico ha conferito pieno potere alla contrattazione collettiva, così molti settori produttivi italiani, da aprile 2012, hanno regolato la materia con importanti novità legate agli obblighi formativi caricati completamente sulle spalle dei datori di lavoro.

RICCARDO GIROTTO [email protected]

Scenari

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Politiche europeeper il territorio Le opportunità di finanziamento alle imprese

Uno dei principali obiettivi delle politiche comunitarie è promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile della Comunità Europea, riducendo le disuguaglianze tra le diverse regioni europee, al fine di rafforzare la coesione economica e sociale. Tali obiettivi sono espressione della solidarietà tra gli Stati membri intesa a rendere le regioni dell’UE luoghi più attraenti, innovativi e competitivi e possono concretizzarsi, a livello nazionale ed europeo, in forme di finanziamento alle imprese.

FEDERICA ZANARDO in collaborazione con lo Studio Associato Piana [email protected]

Espressione di queste politiche sono in particolare i cosiddetti fondi a “gestione indiretta”, ovvero quelle risorse finanziarie del bilancio dell’Unione Europea la cui gestione è demandata alle amministrazioni centrali e regionali degli Stati Membri, con lo scopo di contribuire alla riduzione del divario esistente tra i Paesi membri e supportare lo sviluppo economico e sociale del territorio e la competitività delle sue imprese. Per questi fondi vige la regola del cosiddetto disimpegno automatico: salvo proroghe, ogni Paese Membro ha due anni di tempo per utilizzare una somma stanziata prima che la Commissione proceda al ritiro, impiegando perciò le risorse finanziarie assegnategli a sostegno dello sviluppo e della competitività del proprio territorio. Dal bilancio relativo all’utilizzo dei fondi comunitari pubblicato dalla Ragioneria dello Stato alla fine del 3° trimestre 2012, emerge che per il periodo di programmazione 2007/2013 l’UE ha destinato all’Italia un budget complessivo di 59,41 miliardi di euro, di cui solo 15,9 sono stati utilizzati,

mentre altri 33,2 sono stati solo impegnati. Con queste performance, l’Italia risulta essere al penultimo posto nell’Unione Europea. Un risultato complessivo così deludente porta con sé la necessità, per gli attori coinvolti, di compiere un’analisi delle cause alla base di queste performance, anche in considerazione di un indispensabile cambio di rotta con l’imminente avvio del prossimo periodo di programmazione comunitaria 2014/2020. Ad una prima analisi, non si può non sottolineare la frequente incapacità di molti enti locali di mettere in atto una lungimirante programmazione politica per lo sviluppo del proprio territorio, con la conseguenza di non individuare le reali esigenze del territorio e delle imprese. Questo avviene in molti casi per la mancanza di competenze specifiche, ma anche per le difficoltà a reperire le risorse necessarie al cofinanziamento dei progetti nonché a causa della frequente instabilità delle strutture amministrative locali, il cui avvicendamento rallenta i processi decisionali e quindi l’iter dei

progetti. D’altro canto, sono evidenti le problematiche legate alla scarsità di informazioni sulle opportunità di finanziamento offerte alle imprese a livello nazionale ed europeo, nonché le difficoltà, per le singole aziende, di reperire autonomamente tali informazioni, e quindi di mantenersi aggiornate rispetto a tutte le opportunità a disposizione.Risulta essere quindi di estrema importanza riuscire a instaurare un vero rapporto di collaborazione tra tutti gli stakeholder, siano essi enti locali, camere di commercio, associazioni di categoria, società di consulenza e altri attori, anche privati, specializzati nel settore, al fine di:- promuovere le opportunità di finanziamento attive o in fase di attivazione con opportuni iniziative di marketing; - supportare le aziende nella partecipazione ai bandi in maniera diretta o permettendo l’accesso a banche dati di società specializzate/consulenti selezionati in grado di accompagnare l’azienda nell’intricata

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Opportunità a supporto dei progetti di investimenti delle imprese

Ricerca e Innovazione

Scenarigestione burocratica; - raccogliere sul territorio stesso le esigenze reali che possono essere gli input per proporre nuovi bandi; - snellire le procedure di accesso, intensificando allo stesso tempo i controlli e le verifiche sul corretto utilizzo dei fondi pubblici. È evidente che spesso, associazioni di categoria o enti pubblici che svolgono funzioni di interesse generale per il sistema delle imprese, poco in realtà fanno per curare il reale sviluppo delle economie locali. L’azienda molto spesso si trova a decidere di non partecipare ai bandi

vista la complicatezza procedurale delle istruttorie o l’eventuale costo di società esterne specializzate che però, a differenza dei primi, si legano all’azienda condividendone i risultati. Nell’ambito dell’agenda europea, particolare rilievo è dato ad alcune tematiche considerate prioritarie per il raggiungimento degli obiettivi fissati dalla politica “Europa 2020”, con la quale l’UE si propone di diventare un’economia intelligente, sostenibile e solidale. Con riferimento a queste priorità, a livello nazionale e regionale sono degne di nota alcune opportunità importanti

che le imprese possono ancora cogliere a supporto dei propri progetti di investimento. Cogliere queste opportunità significa, per le aziende, poter continuare ad investire nella propria crescita anche in un momento di forte crisi economica, contando su un supporto finanziario che in molti casi arriva a coprire la metà del valore dell’investimento stesso.

Ambiente ed Energie

Sviluppo e competitività delle imprese

Deduzione IRAP per i costi del personale interno all’azienda impiegato in progetti di ricerca industriale e sviluppo sperimentale (Nazionale)

Contributi a fondo perduto per progetti volti alla valorizzazione di uno o più brevetti all’interno del ciclo produttivo (Nazionale)

Contributi a fondo perduto per l’affidamento di commesse di ricerca da parte di imprese a strutture qualificate di ricerca (Regione Veneto)

Contributi a fondo perduto e finanziamenti a tasso agevolato per investimenti volti al miglioramento dell’efficienza energetica e alla produzione di energia da fonti rinnovabili (Regione Veneto)

Premi per il deposito e la tutela dei marchi aziendali e/o di disegni/modelli industriali all’estero (Nazionale)

Finanziamenti a tasso agevolato per l’inserimento delle aziende nei mercati esteri (Nazionale)

Contributi a fondo perduto per le reti di imprese che realizzano progetti di innovazioni di processo, prodotto, servizio, organizzazione e internazionalizzazione (Regione Lombardia)

Contributi a fondo perduto a supporto degli investimenti produttivi delle aziende localizzate nei comuni colpiti dal sisma (Regione Emilia Romagna)

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È di tutta evidenza che l’attuale crisi favorisce quelle aziende presenti nel mercato internazionale, con sbocco verso economie che offrono maggiore crescita e prospettive rispetto a quella italiana, ma che tuttavia vedono la presenza di competitors strutturati e/o aggregati ed organizzati in grado di partecipare alle migliori opportunità offerte. Va da sé che il motto “piccolo è bello”, che caratterizza la dimensione delle PMI italiane, trova la propria ragione d’essere e valorizza la vera ricchezza solo in un’ottica di aggregazione. Ecco quindi che il legislatore ha introdotto uno strumento al fine di supplire alcune carenze tipiche delle PMI quali: limitate capacità di finanziamento, scarse risorse dedicate alla ricerca & sviluppo, scarsa propensione alla condivisione della conoscenza e del know-how, scarsa tendenza all’internazionalizzazione.

La normativa Col D.L. 10 febbraio 2009, n.5 recante misure urgenti a sostegno dei settori industriali in crisi il legislatore ha introdotto la disciplina della rete di imprese, convertito con L. 9 aprile 2009, n.33, poi modificata e implementata con L. 99 del 2009, cosiddetta legge sviluppo.Attraverso il contratto di rete “più imprenditori perseguono lo scopo

di accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato e a tal fine si obbligano, sulla base di un programma comune di rete, a collaborare in forme e in ambiti predeterminati attinenti all’esercizio delle proprie imprese ovvero a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica ovvero ancora ad esercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della propria impresa”.

In concreto, perché dovrei costituire o far parte di una rete? La rete si costituisce per serie e ragionate logiche di business finalizzate all’incremento di competitività e innovazione, realizzando - con gli appartenenti alla rete - sinergie di: - costi- canali distributivi (anche esteri)- offerte (R&S di nuovi prodotti)- investimenti.

Posso strutturare liberamente la rete sulla base dell’opportunità di business ipotizzato? In coerenza col principio della libertà contrattuale su cui poggia la normativa, il contratto di rete può essere personalizzato sulla base del progetto

economico sottostante, del piano industriale, degli obiettivi delle imprese interessate, del livello di coordinamento/collaborazione che si vuole ottenere. In particolare, il contratto può prevedere l’istituzione di un fondo patrimoniale comune e la nomina di un organo comune incaricato di gestire, in nome e per conto dei partecipanti, l’esecuzione del contratto ovvero di singole parti o fasi dello stesso. Sulla base del livello di complessità formalizzato nell’accordo, si distinguono tre tipologie di reti:

1. RETI LEGGERE: il contratto ha per oggetto lo scambio di informazioni o di prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica, tecnologica, e comunque non prevede la costituzione del fondo patrimoniale comune né dell’organo comune.

2. RETI STRUTTURATE: il contratto prevede l’istituzione dell’organo comune e/o del fondo patrimoniale comune. Se dotata del fondo la rete ha una denominazione e una sede autonoma; diversamente, se il contratto prevede l’istituzione sia del fondo patrimoniale comune, sia dell’organo comune, ed esercita un’attività verso terzi, allora si crea una RETE A REGIME SPECIALE soggetta ad una particolare disciplina (v. di seguito).

È importante che le imprese sviluppino una maggiore cultura aggregativa e una capacità gestionale dei processi di rete per permettere al network di crescere e rafforzarsi. Attraverso il contratto di rete viene fornito alle PMI una nuova opportunità per gestire in condivisione attività troppo onerose e per accedere a rapporti altrimenti preclusi.

Reti di imprese La normativa e il contratto di rete

LUCIA BRESSAN [email protected]

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Scenari

3. RETI SOGGETTO: il contratto ha per oggetto l’esercizio in comune di un’attività di impresa e prevede l’istituzione del fondo patrimoniale comune e dell’organo comune (può essere opportuna anche l’adozione di un modello di governance complesso) ed acquisisce la soggettività giuridica.

Qualora appunto la rete sia dotata di soggettività giuridica, il contratto di rete è soggetto a iscrizione nella sezione del registro delle imprese presso cui è iscritto ciascun partecipante.

E se la rete decide di non costituire l’organo comune?La nomina dell’organo comune non è un requisito essenziale ai fini della configurabilità del contratto di rete; può, dunque, esistere anche una rete di imprese nella quale l’esecuzione del programma comune sia affidata a un mandatario o a un procuratore che,

munito volta per volta dei necessari poteri di rappresentanza, pone in essere le attività e gli atti previsti dal suddetto programma. Per quanto riguarda i poteri di rappresentanza dell’organo comune, esso agisce in rappresentanza della rete unitariamente intesa, quando essa acquista soggettività giuridica.

Qual è il vantaggio della costituzione del fondo patrimoniale comune?Anche il fondo patrimoniale comune non è un elemento essenziale del contratto di rete. Tuttavia, la sua istituzione è indispensabile ai fini del riconoscimento della soggettività giuridica in capo alla rete e della fruizione dell’agevolazione fiscale prevista per le imprese “retiste”.

E le agevolazioni fiscali?È prevista un’agevolazione fiscale per cui una quota degli utili dell’esercizio destinati al fondo patrimoniale comune potranno non concorrere alla formazione del reddito

d’impresa e, sostanzialmente, costituire un beneficio fiscale per le imprese partecipanti alla rete.Inoltre, con la legge di Stabilità 2013, entrata in vigore il 01 gennaio 2013, è stato introdotto un credito d’imposta per le imprese e le reti d’impresa che investono direttamente in ricerca e sviluppo o affidano attività di tale ambito a Università, Enti Pubblici di ricerca, Organismi di ricerca attività.

Concludendo...Si tratta di uno strumento attraverso cui la singola azienda può organizzare e gestire quelle attività troppo onerose da sostenere quali ad esempio l’attività di: ricerca & sviluppo, marketing e di sviluppo commerciale in mercati esteri e progetti di internazionalizzazione. Tutte attività di vitale importanza, ancor di più nell’attuale momento storico.

Studio Legale Bressan

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Ekipment è la società del Gruppo Eurosystem Sistemarca specializzata nei servizi IT: qual è la sua storia?

A. Cuccato: “Ekipment nasce nel 2000 da un gruppo di persone che si occupavano da quasi 20 anni di fornire assistenza tecnica all’interno di Sistemarca Srl. Fino ai primi anni Novanta era la componente hardware - in gergo ‘il ferro’- a richiedere la maggior parte degli interventi di assistenza. Con il tempo le tecnologie software si sono evolute divenendo predominanti all’interno delle infrastrutture informatiche delle aziende, determinando lo sviluppo di una consulenza di natura più prettamente sistemistica. In questa evoluzione, molti sono stati i passaggi vissuti dall’azienda e che ci hanno portato sino ad oggi: dal terminale al personal computer, dalle linee seriali ai più complessi impianti di networking, dal fisico al virtuale, dalle copie su cassetta ai sistemi di backup e replica,

con deduplica e compressione, dai semplici antivirus ai sistemi di sicurezza interna e perimetrale. Ma la nostra spinta verso la conoscenza, qualità distintiva di Ekipment e di tutto il Gruppo, non si è mai fermata. Conoscenza e certificazione delle competenze sono un obbligo verso i confronti dei clienti ai quali oggi la società fornisce consulenza, progetti e servizi di assistenza tecnico-sistemistica”.

Come è strutturata la società?

A. Cuccato: “Il team è formato da due divisioni, l’area Progetti e quella Servizi. La prima, dedicata a piani di revisione e/o aggiornamento della struttura informatica aziendale, supporta il reparto commerciale nella fase di pre-vendita e si occupa di realizzare e implementare il progetto stesso. La seconda gestisce i servizi erogati in fase

LAVORARE CON IT E ICTEkipment: la consulenza informatica in ‘networking’

Dall’assistenza hardware a quella sistemistica, il ruolo del tecnico informatico si evolve nel tempo

assumendo una valore consulenziale: al centro dei servizi forniti dal network il cliente e le sue esigenze.

La visione è quella dei consulenti tecnici Ekipment, società trevigiana di servizi IT.

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conosciamociSTILE LIBEROdi post-vendita: ad essa si rivolgono i nostri clienti per le

richieste di supporto tecnico più generico o sistemistico di secondo e terzo livello. I servizi vengono erogati in modalità ‘outservicing’, ossia con monitoraggio 7x24 e una gestione presidiata dei sistemi, oppure ‘on demand’, intendendo con questo termine servizi su richiesta che possono essere gestiti da remoto o presso il cliente a seconda della problematica. Di sostegno a tutto il team è la funzione del Customer Care per la gestione di segnalazioni nella fase del post-vendita. Ma Ekipment è molto di più di tutto questo, è un network...”.

Cosa intende con il termine ‘network’?

A. Cuccato: “La rete di relazioni che, come società di servizi, abbiamo intrecciato negli anni con fornitori diversi e di livello internazionale come Ibm, Emc, Vmware, Veeam, distributori e aziende terze di consulenza, ci permette di offrire un servizio esteso e completo. I nostri clienti sanno di poter contare, non solo sulle singole risorse Ekipment, ma su un insieme di sinergie che oltrepassano i confini aziendali per estendersi all’ecosistema di partner e specialisti con cui collaboriamo. Senza dimenticare che Ekipment si colloca all’interno di un Gruppo con un’esperienza trentennale nella gestione di progetti per sistemi informativi, ulteriore bacino di qualità tecniche e visioni al quale attingere”.

La divisione Progetti: di che cosa si occupa nello specifico?

G. Casu: “Le figure dell’area Progetti seguono il cliente nell’intero processo di analisi, definizione e realizzazione di un piano di revisione e/o aggiornamento dell’infrastruttura informatica. Nella fase di pre-vendita i consulenti di progetto supportano i funzionari commerciali nella valutazione della struttura IT del cliente, per poi elaborare una previsione delle possibilità di realizzazione del progetto. Una volta individuate le soluzioni più adeguate, segue la parte di implementazione. A chiusura del progetto inizia la gestione dei servizi di assistenza eventualmente concordati. Molto spesso è sufficiente osservare con attenzione il CED - Centro Elaborazione Dati - di un’azienda, ponendo attenzione ad aspetti anche apparentemente banali, per rilevare punti di miglioramento, dando così un valore alla consulenza. Ad esempio, far presente che i server non sono posizionati correttamente e che, se riposti a terra in un ambiente polveroso, aumenta il rischio di guasti o malfunzionamenti può essere utile nell’indirizzare il Responsabile Sistemi Informativi verso azioni migliorative. Perchè un consulente non dovrebbe mai ‘snobbare’ gli aspetti basici, ma tener conto di ogni dettaglio, dalle componenti più semplici a quelle più complesse. Il livello dei servizi e la stabilità di un sistema informativo dipendono, infatti, totalmente

dal corretto ‘mix’ di queste componenti”.

Il Customer care: che tipo di servizio offrite al cliente?

S. Buffon: “Una volta conclusa la trattativa e realizzato il progetto concordato, Ekipment continua a seguire i clienti con un Customer care di assistenza nella fase di post-vendita. Il mio compito è quello di supportarli relativamente allo stato del contratto acquistato, dei servizi a disposizione e di fornire una prima forma di interfaccia per la gestione di varie problematiche. Affinchè l’investimento nei servizi sia sempre produttivo per i clienti è utile ricordare loro date di scadenza, migliori condizioni per il rinnovo dei contratti ed opportunità di interesse. I servizi di Customer Care non hanno un costo, ma vengono forniti in virtù della filosofia di attenzione al cliente che ci caratterizza. Sempre in quest’ottica, mi occupo di raccogliere richieste di vario tipo, accertarmi del grado di emergenza e individuare la risorsa tecnica più adeguata a rispondere. Così facendo si riesce ad indirizzare le segnalazioni ai destinatari corretti, velocizzando in questo modo la risoluzione del problema”.

Gli intervistati, da sinistra: Attilio Cuccato, responsabile area Servizi; Stefania Buffon, responsabile Customer Care; i consulenti tecnici A. Maschietto, M. Fontanive, M. Bisigato, A. Maio, S. Tognon.

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Come si è evoluta la figura del tecnico dal passato ad oggi?

A. Maio: “In passato si parlava correttamente di tecnici, risorse con competenze solide in ambito informatico ed elettronico che si recavano dal cliente per risolvere problematiche hardware. Oggi direi che siamo soprattutto dei consulenti con il compito di ascoltare il cliente, interpretare le sue esigenze e consigliare le strade percorribili per l’ottimizzazione del business e il contenimento dei costi”. A. Maschietto: “Anche il nostro ruolo all’interno dell’intero Gruppo si è evoluto ed oggi, come tecnici, supportiamo le attività commerciali e contribuiamo alla creazione di opportunità: affianchiamo spesso, infatti, i commerciali nelle relazioni con i clienti e con loro condividiamo tutta le informazioni utili alla presentazione di una proposta valida”.

Come sono cambiate nel tempo le relazioni con i clienti?

G. Coral: “Non solo sono cambiate le richieste del cliente, ma anche le sue competenze e conoscenze tecniche. Oggi ci relazioniamo con Responsabili dei Sistemi Informativi con una visione delle dinamiche aziendali organizzative, gestionali, tecniche, molto più ampia e profonda rispetto anche ad una decina di anni fa. Si tratta di professionisti competenti, attenti ai cambiamenti dell’offerta, e in grado di identificare ad un buon livello gli eventuali prodotti da adottare. A noi il compito di indirizzarli verso progetti più adatti alle loro esigenze, di far comprendere i reali benefici di una soluzione piuttosto che di un’altra, offrendo loro una visione ampia e strategica nell’utilizzo delle tecnologie a disposizione”.

Quindi cosa si richiede al consulente tecnico?

S. Risatti: “Oggi un bravo consulente deve rendersi consapevole di quelle che sono le necessità del cliente e concentrarsi su di esse più che sulle soluzioni tecniche. Molte volte, infatti, tecnologie anche complesse vengono proposte in una formula standard che non considera la capacità delle

stesse di rispondere alle reali richieste manifestate dal cliente. Occorre, invece, saper ascoltare il nostro interlocutore, porre le domande giuste e cogliere il processo logico che lo ha portato a percepire determinate necessità. Insomma, bisogna essere estremamente curiosi”.M. Fontanive: “Le informazioni a cui oggi un responsabile IT può accedere sono talmente tante da confondere. Siamo noi, in quanto ‘consiglieri’, a dover indirizzare e mostrare, tra il ventaglio di possibilità esistenti, qual è quella vincente”.M. Bisigato: “Tra le qualità che ci vengono richieste c’è sicuramente una buona capacità di comunicazione, intendendo con questo saper ascoltare, comprendere e rispondere chiaramente. Difficilmente un manager IT chiederà con quale prodotto potrebbe effetture il backup dei dati con finestre di 3 giorni e retention di 15. È molto più probabile, invece, che chieda una soluzione di backup certificata che, in caso di gusati o malfunzionamenti, permetta di recuperare tutti i dati. Anche in questo caso tocca poi a noi saper leggere tra le sue parole e fornire la risposta più adatta”.

Il rapporto con i fornitori e la scelta delle nuove soluzioni: che importanza ha?

S. Risatti: “La scelta di nuove soluzioni è un’attività continua. Dopo valutazioni teoriche su prodotto, distribuzione, tipo di supporto che richiede, e sulla capacità di risposta alle esigenze funzionali ed economiche del nostro target di riferimento, si procede testandolo con il supporto degli stessi fornitori o distributori. Può accadere anche che, in un Progetto Cliente, alcune soluzioni richiedano l’utilizzo di nuovi prodotti: proprio grazie a canali diretti con brand e distributori riusciamo realmente, anche in pochi giorni, a trovare e testare la nuova tecnologia di interesse per il progetto in essere”.S. Tognon: “La reattività e velocità con cui i nostri partner ci forniscono feedback sulle soluzioni in prova rappresenta un valore aggiunto per il cliente, oltre ad essere sintomatico della fiducia e reputazione che come Ekipment, e più in generale come Gruppo, godiamo presso di loro”.

La parte più interessante del vostro lavoro? Quella che vi appassiona di più?

G. Coral: “Il nostro è un lavoro che di certo non annoia. Tra gli aspetti che preferisco c’è l’affiancamento al commerciale nella fase di pre-vendita tecnica: conoscere il cliente, studiare con lui un nuovo progetto, conquistare la sua fiducia grazie a competenze ed esperienze solide è per me estremamente appassionante. Spesso mi dicono che un tecnico valido è destinato a diventare anche un valido commerciale, chissà magari è quello il mio futuro da consulente”.

Gli intervistati: a destra, Gianfranco Casu, responsabile area Progetti; sotto da sinistra, i consulenti tecniciS. Risatti, G. Coral.

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La prima Azienda che ho ‘visitato’, circa 25 anni fa, come Medico del Lavoro per il Centro di Medicina, fu una piccola falegnameria costituita dal titolare e da due dipendenti. Già lavoravo come libero professionista nel trevigiano e avevo cominciato da poco a collaborare con una delle prime realtà sanitarie private che aveva intuito realmente l’importanza di questo servizio.Alle aziende veniva offerta la possibilità di eseguire le visite mediche nella propria sede, utilizzando un automezzo adattato tipo ambulanza, non essendo la maggior parte di queste attrezzate per le visite mediche.Da allora è cambiato assai poco: il nostro territorio, infatti, dal punto di vista produttivo, è rimasto per lo più caratterizzato da aziende di piccole o medie dimensioni.Sono cambiati invece il modo di lavorare del medico di fabbrica e l’approccio del datore di lavoro rispetto alle problematiche della sicurezza e della prevenzione nei luoghi di lavoro.Il Centro di Medicina di Conegliano, con il quale avviai il servizio di medicina del lavoro, mi ha dato la possibilità di entrare in contatto con numerose aziende del territorio. Questo per la professionalità di una struttura con medici ‘competenti’ specializzati, con accertamenti sanitari integrativi.

Ma anche per una mutata sensibilità delle aziende del nostro territorio su questo tema.

Il cambiamento significativo della Medicina del Lavoro è iniziato alla fine degli anni ’70. In quel periodo, anche in seguito ai fermenti sociali e alle contestazioni degli anni immediatamente precedenti e alla introduzione dello studio della epidemiologia occupazionale, l’osservazione dei fenomeni morbosi, oltre che sul singolo, era indirizzata anche a popolazioni di lavoratori o a gruppi omogenei per fattori di rischio. Il metodo epidemiologico ha permesso un più preciso studio della nocività degli ambienti di lavoro, osservandone gli eventi morbosi in base alla variazione della loro frequenza in una popolazione di esposti a un determinato rischio, valutandone il nesso causale o concausale e l’efficacia delle misure di prevenzione adottate.Sono andate quindi diminuendo le numerose situazioni in cui le aziende erano diventate dei cosiddetti ‘visitifici’, sedi di visite mediche ripetute alla ricerca di qualche effetto clinico precoce o preclinico di malattia occupazionale sul singolo lavoratore. Le patologie più comuni erano la silicosi, il saturnismo, le emopatie da benzene, l’asbestosi, le neoplasie vescicali da ammine

UNA VITA DA MEDICO NELLE AZIENDEIn collaborazione con il Centro di Medicina

Il Medico del Lavoro: quello che era percepito solo come un obbligo di legge oggi viene visto come

un’opportunità per la salute e il benessere di tutti. Un vero e proprio passaggio culturale, frutto di una

maggiore sensibilizzazione nelle aziende.

LUCIANO SALVADORI

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medicina e lavoroSTILE LIBEROaromatiche, l’intossicazione da solfuro di carbonio, l’asma da

TDI, le dermatiti croniche. Oggi queste patologie sono per lo più scomparse, o meno gravi, grazie alle nuove normative sulla sicurezza e prevenzione e per effetto di una nuova cultura della prevenzione nonché delle nuove conoscenze mediche ed epidemiologiche.Fino ad allora, la sorveglianza sanitaria sui lavoratori si basava sul DPR 303/56 che aveva introdotto l’attività di prevenzione del medico del lavoro in fabbrica in funzione della presunzione del rischio. Aveva quindi innescato degli automatismi che portavano ad applicare in maniera pedissequa la legge.Successivi passi legislativi fondamentali sono stati fatti con il D.Lgs 277/91 che ha creato la figura del ‘medico competente’ (peraltro con una definizione poco felice) affidandogli compiti più precisi all’interno della fabbrica, con l’obbligo del sopralluogo periodico negli ambienti di lavoro e della partecipazione alla programmazione del controllo dell’esposizione dei lavoratori.

La svolta verso la moderna concezione della medicina del lavoro è poi arrivata con il recepimento di Direttive CEE nel D.Lgs 626/94 e poi, definitivamente, nel Testo Unico D.Lgs 81/2008 che è anche una raccolta normativa più organica.Questa ha modificato profondamente il profilo operativo degli adempimenti e delle responsabilità dei vari protagonisti del processo produttivo.In particolare è stato creato per l’azienda un servizio ad hoc per la prevenzione e la protezione ed è stata data qualità e professionalità al medico di fabbrica - medico competente, ponendolo a fianco del Datore di lavoro nella valutazione del rischio e nella attuazione delle misure di ‘tutela della salute e integrità psico-fisica dei lavoratori’, in parte responsabilizzandolo anche nelle scelte sulla sorveglianza sanitaria.Oggi le patologie e i fattori di rischio da prendere maggiormente in considerazione sono le patologie da sovraccarico biomeccanico, da fattori psico-sociali, da sensibilizzazione, da nuovi composti chimici e agenti fisici. Il Testo Unico prevede poi in aggiunta anche compiti peculiari per il medico competente come la collaborazione alla ‘attuazione e valorizzazione di programmi volontari di promozione alla salute, secondo i principi della responsabilità sociale’.L’ambiente di lavoro rappresenta un contesto favorevole per influenzare in modo positivo le abitudini di vita dei lavoratori. Il perseguimento degli obiettivi di promozione della salute avviene attraverso una serie di azioni che integrano quelle della ‘classica’ prevenzione e sicurezza occupazionali con programmi di educazione sui comportamenti individuali negativi per lo stato di salute quali il fumo di tabacco, il sovrappeso corporeo e le abitudini alimentari non corrette, la sedentarietà, la mancata partecipazione agli screening pubblici antitumorali, l’abuso di

alcool, l’eccessiva esposizione ai raggi UV, la non aderenza alla terapia prescritta per la prevenzione dei fattori di rischio cardiovascolare come il diabete, l’ipertensione arteriosa o l’ipercolesterolemia. Indubbiamente, le realtà aziendali più grandi, più sensibili ai problemi di immagine e all’aumento della produttività sono disposte a impegnare maggiori risorse, strutturali ed economiche, per il raggiungimento di questi obiettivi; nelle piccole aziende viceversa questi interventi sono di più difficile realizzazione, anche per motivi di massa critica. In Paesi come gli Stati Uniti, dove i problemi di salute del lavoratore sono percepiti come un aggravio di costi per il Datore di lavoro, sia per la ridotta performance dei lavoratori sia per l’incremento dei costi assicurativi, la strategia di promozione della salute è radicata da anni.In Italia, fra l’altro, le aziende che introducono programmi di promozione della salute nei luoghi di lavoro possono ottenere agevolazioni economiche-assicurative da parte dell’INAIL. Le piccole e medie imprese occupano quasi i due terzi della forza lavoro in Europa, hanno però difficoltà superiori rispetto alle imprese di maggiori dimensioni nel campo della prevenzione e della sicurezza. La maggior parte di esse ha bisogno di assistenza per far fronte ai propri obblighi di sicurezza e salute; inoltre spesso l’adozione di determinati presidi per la prevenzione e l’attenzione per la cura della salute dipendono dalla soggettività dei titolari.Tuttavia nel corso degli ultimi anni, grazie ad una maggiore sensibilizzazione culturale, si può constatare un miglioramento generale delle strutture, degli spazi e degli strumenti messi a disposizione, così come è migliorata la programmazione ed il supporto offerto agli operatori della sicurezza nei luoghi di lavoro.

Luciano SalvadoriMedico del lavoro

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MAGGIO 2013

Centro ricerche LigabueIntervista a Massimo Casarin, vice-presidente

Il Centro Studi e Ricerche Ligabue nasce nel 1971 ad opera del grande paleontologo Giancarlo Ligabue

che ha dedicato molte delle sue energie all’organizzazione di più di 130 spedizioni e missioni nei settori

dell’archeologia, paleontologia e scienze naturali, in tutto il mondo. Il simbolo del Centro, la ricostruzione

grafica di un sigillo del 3°millennio a.C., ovvero un personaggio alato con testa di rapace, seduto sulle

spire di un serpente, sintetizza i campi di interesse. Il Centro Studi Ricerche Ligabue negli anni ha

conseguito vari riconoscimenti, tra questi il Premio Unesco ‘Image et Sciences’ conferito nel 2000 a

Parigi a Giancarlo Ligabue e al CSRL per “l’eccezionale contributo alla divulgazione culturale, produzione

audiovisiva, edizioni scientifiche e per l’impegno nelle attività museali”.

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il viaggioSTILE LIBERO

Il Centro Studi e Ricerche Ligabue (CSRL) sin dalla nascita diventa un punto di riferimento nazionale e internazionale. Quale la mission fin dalla fondazione?

“L’orgoglio maggiore ci deriva dall’aver realizzato oltre 130 spedizioni nei 5 continenti, permettendo a giovani ricercatori di ogni nazionalità di acquisire esperienze sul campo rivolte alla conoscenza dell’uomo, delle sue origini, del suo habitat, nel pieno rispetto delle specifiche tradizioni etniche”, questo dichiarava il presidente Giancarlo Ligabue nel 2003, anno del trentennale della costituzione del CSRL. L’idea nacque ad opera di un gruppo di amici e studiosi che condividevano con Ligabue la passione per quelle discipline che fin d’allora hanno caratterizzato la nostra attività: Archeologia, Paleontologia, Antropologia, Scienze Naturali. Inizialmente, le sinergie con l’impresa di catering - di cui Ligabue era titolare - furono elemento determinante sia per il sostegno economico che per l’espansione a carattere internazionale di entrambe le organizzazioni. Tra gli obiettivi prefissati, senz’altro abbiamo cercato di dimostrare come “iniziative scientifiche private di grande valore possono nascere in Italia e farsi conoscere nel mondo, competendo ed a volte collaborando con le Istituzioni ufficiali, dando quindi linfa vitale alle attività di ricerca”, così riconobbe l’archeologo e scienziato Sabatino Moscati, che spesso ci ha guidati. Quindi, il CSRL è nato da curiosità, spirito di avventura, coraggio e determinazione, uniti però ad una meticolosa preparazione con partners scientifici.

Studi, ricerche e cultura negli anni: difficoltà e successi...

In quarant’anni di attività sono state numerose le missioni e le scoperte. Tra le più significative possiamo citare: i giacimenti di dinosauri in diverse formazioni geologiche, dal Sahara al Madagascar, al Brasile, alla Patagonia, Bolivia e Mongolia; i giacimenti di ominidi in India, Arabia, Oman, Tanzania. Inoltre, la scoperta di città sepolte e necropoli in Belize, Iran, Turkmenistan, Kazakistan, Perù, e di insediamenti megalitici, pitture e graffiti rupestri; scoperte di etnie prima sconosciute in Papuasia e Filippine. Ed anche il ritrovamento di varie specie

inedite di animali ed impronte fossili. Il tutto è stato documentato in decine di migliaia di fotografie (il nostro archivio fotografico digitalizzato ne comprende oltre 70.000) e in decine di filmati.

Le interazioni del Centro Ligabue con il territorio ci sono? E a che livello?

Diversi sono i contatti nell’ottica di condividere con la popolazione e gli studiosi il frutto di tanti anni di lavoro. Un esempio, Giancarlo Ligabue ha donato lo scheletro intero di un Oranosauro ritrovato nel deserto del Teneré (Niger) al Museo di Storia Naturale di Venezia, dove rappresenta uno dei reperti più importanti per i numerosi visitatori. Nello stesso Museo, come pure in quelli di Crocetta del Montello, Danta di Cadore, Fiera di Primiero sono presenti moltissimi reperti paleontologici, archeologici e naturalistici concessi in prestito permanente.

Importanti sono anche le cooperazioni con gli Atenei Universitari di ricerca e altre istituzioni.

In effetti negli anni abbiamo collaborato con diverse e note realtà, alcuni studiosi delle quali fanno parte tutt’oggi del nostro Comitato Scientifico. Per citare alcuni istituti, San Antonio University - Texas, Museo Argentino da Ciencias Naturales - Stanford University - Berkley University, Musée Nat. d’Histoire Naturelle, Paris - Johannesburg Univ., Sud Africa, Margulan Archeological Institute, University Almaty, Ist. De Archeologia Amazonica, Lima. A partire dal 2012 l’Università Ca’ Foscari di Venezia ed il CSRL hanno sottoscritto un’importante Convenzione di collaborazione nell’ambito della ricerca, della formazione e della didattica, con particolare riferimento alle aree Archeologica, Antichistiche, Demo - EntoAntropologica e delle Scienze naturali.

Il Centro Ligabue e il futuro...

Il Centro ha in programma per il biennio 2013-2014 due campagne di scavo in Kazakistan e una spedizione nella Selva Andina (Perù), oltre a numerose conferenze.

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MAGGIO 2013

MISSIONE TURKMENISTAN 2010Il Turkmenistan è un Paese ricco di storia e di cultura da sempre punto focale di avvenimenti importanti per l’Asia centrale. Questa terra magica ospita ancora numerose e significative testimonianze di un passato millenario: dai primi centri neolitici alle cittadelle dell’Età del Bronzo, alle rovine di antichi castelli, ai caravanserragli e infine alle moschee. E numerosi sono studiosi e visitatori che si sono avvicendati nel Paese, da quanto sono state aperte le porte al mondo Occidentale. Nella vallata che fu del fiume Murgab nel 2010 si è conclusa una missione tutta italiana del Centro Studi Ricerche Ligabue in collaborazione con il Ministero della Cultura del Turkmenistan e patrocinata dal Ministero Italiano degli Affari Esteri. Con questa missione, durata 50 giorni, si è esaurito lo scavo della necropoli che ha restituito complessivamente circa 700 tombe della fine del III - inizi del II millennio a.C. Lo sforzo maggiore è stato riservato allo scavo della città di AK1, capitale dell’oasi durante il III e il II millennio a.C., tra le maggiori città dell’età del Bronzo in Asia Centrale. Questo sito è costituito dalla sovrapposizione di almeno cinque diversi insediamenti: dal periodo eneolitico (IV mill.a.C.) all’età del Ferro. All’interno dell’acropoli è stato individuato un archivio amministrativo che ha restituito numerosi reperti tipici della cosiddetta ‘contabilità concreta’ (pedoni, cretule, bulle) diffusa tra i ‘popoli senza voce’, ossia tra le culture che non conoscevano ancora la scrittura. Inoltre, sono stati localizzati dei magazzini di cereali e leguminose (orzo, frumento selvatico, fave, piselli, ecc.) e alcuni depositi di semi di cetriolo e melone. Infine, è stato riportato alla luce un complesso sopraelevato con una piattaforma in mattoni cotti, con all’interno numerosi resti di coppe e di calici di piccole dimensioni. All’esterno dell’acropoli è stato individuato un vasto borgo artigiano con fornaci per la fusione del bronzo e monumentali forni per la ceramica, centri per la lavorazione dei tessuti e di bevande fermentate, grandi magazzini per lo stivaggio delle merci in orci e giare e numerose botteghe.

Studi e Ricerche: quale ausilio della tecnologia...

Nei primi decenni di attività la tecnologia ha avuto scarso peso nelle spedizioni organizzate in zone disagiate in condizioni di estrema precarietà. Non esistevano allora telefoni satellitari, GPS e quant’altro: si partiva con un fuori strada verso destinazioni ignote, o quasi, cercando di programmare la durata del viaggio e di portare con sé quanto necessario. Un’attività non a caso definita pionieristica e non sempre prevedibile in tutti i suoi aspetti.Oggi non è più così, i collegamenti ed i mezzi a disposizione sono numerosi e sofisticati.Per la ricerca archeologica in particolare, ci siamo rivolti ad esempio agli esperti del Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Trieste che hanno eseguito prospezioni nei siti di nostro interesse, con l’ausilio della più recente strumentazione, per esplorare le camere funerarie dei tumuli dei principi Saka (Sciti), utilizzando in particolare tomografia sismica, ground penetrating radar e radiometria magnetica.

Ci racconti qualche aneddoto legato ai vostri viaggi...

Mi piacerebbe ricordare qualche aneddoto simpatico e caratteristico. Una volta ci stavamo arrampicando su per le Ande peruviane quando i portatori si bloccarono di colpo. Non capivamo: perché vi siete fermati? Cosa c’è che non va? Volete più soldi? Il carico è troppo pesante? E loro: “no señor - camminiamo troppo veloci e le nostre anime non riescono a starci dietro...”. La semplicità di quella battuta ci spiazzò.E ancora, in Colombia: eravamo alla ricerca di una tribù nel Choco. Ad un certo punto dall’elicottero vediamo un villaggio di palafitte in una radura della foresta. Atterriamo e ci troviamo circondati da una sessantina di uomini armati. “Meno male” - dice Giancarlo Ligabue -“temevamo foste guerriglieri...” Risposta: “Noi siamo guerriglieri - di sentiero luminoso...”. Pensiamo: “Addio”. Ci scrutano, ci interrogano, ma aspettano evidentemente il loro capo per una decisone. Allora Giancarlo Ligabue con la massima naturalezza dice: “Si è fatto tardi... dobbiamo andare” e sale sull’elicottero. Noi lo seguiamo e mentre partiamo siamo certi che ci spareranno e ci schianteremo, invece siamo ancora qui...

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percorsiSTILE LIBERO

AMORE PER IL TERRITORIO E FASCINO DELLA SCOPERTA

Si fa fatica a raggiungere Marzio Bruseghin, lassù a Piadera, in cima ai boschi scoscesi delle Prealpi Trevigiane. Ci lasciamo la bellissima e antica cittadina di Vittorio Veneto alle spalle e a valle, e iniziamo a salire lentamente. È impossibile non restare ammaliati dal panorama mozzafiato: immersi tra boschi e montagne, ai piedi del Cansiglio, una casa, una stalla, poi 15 ettari di terreno che va su e giù per forre e vallette, si apre su campi e radure, fin oltre l’altro versante della collina. È qui che abita Marzio, qui che oggi fa ‘l’apprendista contadino’ all’interno della piccola azienda agricola di S. Maman, avviata con l’aiuto delle famiglia che abita in un’altra casa a poche decine di metri dalla sua. Perché per Marzio, i campi, le montagne, e i propri cari sono sempre stati importanti: origine e bussola nel lungo percorso, tutto rigorosamente in bici.

“Da ragazzino - ci racconta - sono sempre stato uno sportivo, mi piaceva molto il calcio e ci giocavo spesso. Ma, abitando tra i campi a Cappella Maggiore, poco distante da Vittorio Veneto, utilizzavo la bici soprattutto come mezzo di trasporto per andare a scuola, e per evadere. Il primo che mi ha insegnato ad andarci è stato mio nonno: ci provava sui campi così potevo approfittare della pendenza per partire ma fin quando non ho capito che dovevo anche pedalare, cadevo di continuo... per fortuna sul morbido terreno!”.

Bici: una passione di famiglia, ma anche una tradizione e una cultura per il territorio veneto. All’età di 16 anni, anche a causa di un piccolo infortunio calcistico, Marzio decide di salire sul sellino e provare ad allenarsi: “Lì ho capito che era molto più

Una vita da ciclista professionista e “apprendista contadino”

Marzio Bruseghin, professionista dal 1997 al 2012, vanta diversi piazzamenti tra i primi dieci nelle

classifiche finali di Grandi Giri e ha vestito sette volte la maglia della Nazionale italiana ai Campionati

del mondo. Ma il suo ruolo preferito è stato sempre di ‘gregario’ e la sua gara più bella le Olimpiadi di

Pechino, un sogno da bambino.

IL PERSONAGGIO: MARZIO BRUSEGHIN

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divertente praticare il ciclismo che guardarlo alla tv!”. Inizia così la sua storia e poi prosegue nelle varie categorie e crescendo di livello e preparazione. “Ma per me è sempre rimasto un mezzo per sognare un po’ - precisa - per osservare la natura e attraversare distanze anche grandi riuscendo a cogliere i dettagli, gli odori, i suoni del territorio. Con la bici sei collegato al posto in cui ti trovi con tutti i tuoi sensi. Questo vale anche per le persone che incontri sulla tua strada e, se anche decidi di fermarti, non devi sforzarti per trovare parcheggio!”.

Scherza Marzio, ci chiede di dargli del tu dopo averci accolto in casa, così, con semplicità, come fossimo di famiglia. “Io sono uno storicamente innamorato delle nostre zone che ritengo assai piacevoli da attraversare in bici, per il tipo di territorio, così vario da poter decidere se pedalare in altura, in collina, o persino in spiaggia, per il clima mite e anche per il rispetto portato dalla gente del posto ai ciclisti”.

Inizia qui la sua carriera professionistica, esattamente nel ’97 a 22 anni, quando fa il suo ingresso in una squadra che si chiamava Brescialat. “Avevo avuto una discreta carriera da dilettante e devo ringraziare la famiglia Pinarello, alla direzione dell’omonima azienda di biciclette, che quell’anno riforniva la squadra e mi ha dato la possibilità di entrarci. In effetti il marchio Pinarello ha inaugurato la mia strada e poi l’ha accompagnata per ben oltre 10 anni.”.

Da lì in poi arriva la stagione più bella. Dal 2003 al 2005 Marzio Bruseghin ottiene diversi piazzamenti, tra cui due secondi posti in tappe del Giro d’Italia, un secondo posto al Campionato nazionale in linea 2005 ed una sesta piazza al Campionato mondiale a cronometro 2004. Al Giro d’Italia del 2008, a cui per la prima volta partecipa da capitano, sale sul terzo gradino del podio finale, anche alla Vuelta a España fa classifica, e si piazza nono: avendo disputato nello stesso anno anche il Tour de France, risulta uno dei pochi corridori ad aver gareggiato in tutti e tre i Grandi Giri della stagione.

La difficoltà più grande? “Superare il senso di distacco e di lontananza dal paese e dai propri cari, proprio per il grande attaccamento che ho ai luoghi e alla comunità. Senza dimenticare le difficoltà del salto tecnico, che in quegli anni doveva essere sicuramente più evidente nel passaggio dal dilettantismo al professionismo rispetto a quello che succede oggi”.

Anche sulla competizione più emozionante non ha dubbi: i Giochi Olimpici di Pechino nel 2008. “È stato il momento più intenso in assoluto di tutta la mia carriera. Guardavo le

Olimpiadi da bambino, ricordo ancora quando mi svegliavo di notte per assistere a quella di Los Angeles in tv: per me hanno sempre avuto un grande fascino perché sono l’espressione più forte e completa dello sport. Anche se in quell’occasione non sono arrivato tra i primi 10 nelle prove sostenute, lo ricorderò sempre come un momento di grandissima trepidazione”.

Lo percepisci che è così e che per Marzio una grande emozione vale più di una grande vittoria. E se poi la vincita è della squadra, più che del singolo, che differenza fa: “il ciclismo di squadra è lo sport di gruppo più individualista che io conosca. In realtà gareggi sempre da solo ma per il successo del team. E se anche il traguardo viene finalizzato da uno solo sai sempre che senza il tuo contributo non si sarebbe mai arrivati a quel risultato, e questa consapevolezza riempie di orgoglio e soddisfazione. Penso che tante volte oggi si perde la capacità di accettare i propri limiti e trasformarli in una forza. Nel mio caso, infatti, è stato proprio capire il mio limite come capitano che mi ha dato la possibilità di trovare uno spazio lavorativo, altrettanto soddisfacente, e mi ha permesso di condurre una così bella e lunga carriera.” Giovane e con le idee chiare, Marzio Bruseghin ha fatto della sua umiltà un valore da sportivo: “Mi chiedi del territorio? - ripete - Beh, sicuramente ho ricevuto da queste terre più di quello che ho dato. Oltre alla passione e tradizone per la bici, nate qui, il calore e l’affetto della comunità, gli applausi e i festeggiamenti anche per i traguardi mancati sono stati il ritorno più grande. E adesso provo anch’io a fare qualcosa per la mia terra: sono un apprendista contandino!”. Da bambino sognava di lavorare in mezzo alla natura, seminando o facendo la guardia forestale. Da qualche anno sta provando a realizzare questo sogno portando avanti un’azienda agricola da fiaba, lì tra i monti e la valle, che prende il nome di S. Maman da un ex santuario nelle vicinanze storicamente protettore delle nutrici. Il prosecco di Piadera, dal nome del marchio, altro non è che latte della terra con la quale Marzio vorrebbe ricostruire un rapporto di rispetto e amore reciproco, indirizzando la sua produzione verso un tipo di agricoltura biolgica. “Amets, sempre dall’etichetta della bottiglia, significa sogno in lingua basca - descrive - perché il mio sogno è quello di trasmettere a questo prosecco tutta la bellezza e la passione per questi posti, per la Piadera, cosicchè solo a berlo si possa immaginare la sua origine. È una sfida anche questa ma a me piacciono le sfide. Intanto, provate ad assaggiare - conclude Marzio con un sorriso - e vediamo quanto ancora sono distante dal traguardo”.

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Percorsi

60 ANNI DI STORIA DEL CICLISMO VENETOSuccessi e sacrifici attraverso i ricordi Fausto Pinarello

Nel 2012 ha festeggiato i suoi 60 anni: la Pinarello spa è azienda e famiglia storica di Treviso, ma riconosciuta internazionalmente, non solo grazie alle loro biciclette - innovative e di qualità - ma anche per i successi ottenuti in campo sportivo. I valori che da sempre caratterizzano i Pinarello sono sobrietà e schiettezza, ma anche uno sguardo sempre rivolto al ‘davanti’.

La Pinarello nasce alla fine degli anni ’40 da Giovanni, un giovane e ‘industrioso’ corridore di Catena di Villorba nel trevigiano. Lo sportivo quindicenne apprende i primi rudimenti come costruttore di bici nella ditta Paglianti e da suo cugino Alessandro, che fabbricava bici ancora dal 1922 in una piccola officina di paese. Giovanni con il fratello Carlo, con l’aiuto di pochi collaboratori, comincia a produrre bici da città. Inizialmente si tratta di una produzione artigianale, che non permette grandi numeri.

“La vita in quegli anni non è facile e la mia famiglia aveva sofferto, come molte altre, i disastri delle guerre mondiali. Mio padre, ottavo di 12 fratelli, nonostante tutto scopre fin da giovane la passione per le due ruote, e inizia a gareggiare a 17 anni. Mi racconta spesso che della famiglia era l’unico che mangiava bistecche per mantenersi in forze per le gare. È verso la fine degli anni ‘40 che decide di aprire un’attività assieme al fratello Carlo. Iniziano costruendo e vendendo bici da passeggio anche se con forma sportiva. Quelle da corsa ci sono ma sono ancora per pochi. Una nicchia diciamo. I telai grezzi dei modelli cittadini vengono costruiti all’interno dell´officina, mentre quelli da corsa derivano prevalentemente da esperti costruttori esterni. I pezzi vengono verniciati ed assemblati in un vecchio magazzino nella casa di famiglia fuori Treviso”, è Fausto Pinarello, figlio di Giovanni e attuale AD della ditta a raccontarci la storia di famiglia. Lui è il primo dei figli ad aver cominciato a lavorare con il padre a 17 anni.

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È nel ’52 che arriva la giusta occasione che permette a Giovanni di potenziare l’attività. Infatti, lo sportivo trevigiano, dovendo rinunciare a correre al Giro d´Italia per lasciare il posto all´emergente Pasqualino Fornara, viene ripagato dalla Bottecchia - società per cui correva come professionista - con 100.000 lire.

“Per quei tempi si trattava di una bella somma. Così mio padre avvia il primo negozio a Treviso, prendendo in affitto un locale che trasforma in bottega e dove posiziona i prodotti. E vende principalmente bici Pinarello. La gente nella provincia ci conosceva come famiglia e attraverso il passaparola si faceva circolare il nome della famiglia e dell’azienda che veniva riconosciuta per essere fatta da buoni costruttori di bici”, ci dice sempre Fausto.

E quella bottega artigianale diventa in poco tempo uno dei negozi più importanti della provincia. Nel periodo del boom economico del dopoguerra, anche il nome della casa trevigiana comincia ad acquisire notorietà nel campo delle due ruote. Si allarga il giro d’azione anche alle bici da corsa.

“Siamo stati i primi ad entrare nel mondo delle sponsorizzazioni, inizialmente affiancando le piccole squadre che si trovano in provincia. La prima che partecipa ad una gara nazionale con bici Pinarello è la società Padovani, nel 1957” ricorda Fausto.

Nel 1960 viene sponsorizzata la prima squadra professionistica: è la società Mainetti, che annovera tra i suoi atleti alcuni campioni dell´epoca, mentre il primo grande successo a livello professionistico è del 1966 con la vittoria al Tour de l´Avenir in Francia, per merito di Guido de Rosso. Successivamente, gli abbinamenti con altre squadre professionistiche fanno conoscere la Pinarello in tutto il mondo. È a partire dagli inizi degli anni ’70 che si può parlare di realtà aziendale con una decina di operai e l’ampliamento del negozio. E con la prima vittoria al Giro d´Italia nel 1975 con Fausto Bertoglio della squadra Jolly Ceramica l’azienda segna un’altra tappa di crescita, che prosegue nel decennio successivo portando con sè anche l’accordo di sponsorizzazione dell’80 con la Inoxpran, azienda leader nel settore dell´acciaio, che rileva in parte il gruppo sportivo del team Jolly, iniziando la stagione con corridori promettenti come il capitano Giovanni Battaglin. La squadra si aggiudica corse a livello internazionale, mentre nel 1981 tra i successi spicca la doppietta Vuelta di Spagna e Giro d´Italia dello stesso Battaglin, nell’84 l’americano Alexi Grewal vince la medaglia d´oro ai Giochi Olimpici di Los Angeles nella prova su strada con una Pinarello.

“Negli anni avevamo sostenuto diverse squadre, alcune sono nate con noi, ora per la prima volta il nostro marchio compare sulla maglia come secondo sponsor ufficiale, a fianco del nome Inoxpran. Una grande soddisfazione per l’impegno speso in tanti anni che ci ha portato notorietà soprattutto all’estero”.

Il progresso e l’innovazione sono ben presenti nel DNA dell’azienda, che mira a raggiungere i migliori risultati nell’ambito della ricerca di nuovi materiali, nuove soluzioni geometriche e nuovi processi produttivi. Una ricerca che per esempio ha portato ad una partnership con la società Giapponese Toray, leader mondiale nel settore della fibra in carbonio, materiale impiegato da Pinarello per le proprie bici e che vanta utilizzi anche in ambito aerospaziale.

“Sicuramente la tecnologia in questi anni ha contribuito a realizzare prodotti migliori, con la indubbia agevolazione di testarli con maggior sicurezza in minor tempo - e continua Pinarello a raccontarci gli ultimi passi portati avanti dalla famiglia, anche dalle nuove generazioni - Grazie anche alla popolarità conquistata con le vittorie nel campo professionistico l´azienda cresce e si trasferisce nella nuova sede di Villorba nel 1985. La nostra resta comunque una storia di passione per questo sport. In famiglia siamo arrivati, chi prima chi dopo, tutti a lavorare qui: dai figli ai nipoti portando dentro esperienze e conoscenze differenti. Io ho iniziato presto, a 17 anni, lavorando in officina e dipingendo biciclette. Resto ancora oggi un buon ‘test’ sulle bici quando ne produciamo di nuove. E siccome noi Pinarello da sempre ci abbiamo tenuto alla qualità senza arroganza e pretese, mi indigno quando vedo dilagare il fenomeno dei falsi. Perché sì! Ce ne sono anche in questo settore. Se non fosse che gli imitatori non usano prodotti di qualità, mettendo a rischio la vita delle persone”.

Il 14 ottobre 2012 la Cicli Pinarello riceve il premio Mondiale Costruttori - GP Art Serf. Negli ultimi anni i più grandi ciclisti a livello internazionale hanno utilizzato bici Pinarello a partire da Alessando Petacchi, Ivan Basso, Miguel Indurain, Jan Ulrich ed il vincitore del Tour de France 2012 Bradley Wiggins.

E nel futuro? “Andiamo avanti lavorando tranquillamente, cercando di portare alle nostre biciclette innovazione e gusto italiano, sperando di avere sempre lo stesso successo, ma senza proclami o pestando i piedi agli altri”, conclude Fausto Pinarello con la sua naturale serenità e schiettezza.

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Intervista a Tommaso Chieffi, velista italiano di fama internazionale

Classe 1961, nato ad Anversa in Belgio, nel 1971 si trasferisce a Carrara dove con il fratello inizia a frequentare la locale scuola di vela. Da lì comincia la sua storia: con Enrico è campione italiano Juniores con la classe 470 nel ’79/’80, poi campioni d’Europa nell’81 e terzi al Mondiale di 470. E dopo tre anni di duro lavoro arrivano le Olimpiadi di Los Angeles dove si classificano quinti. Nell’85 la svolta con la vittoria alle Olimpiadi del titolo mondiale nelle acque di casa a Carrara. Nello stesso anno inizia la carriera professionistica come timoniere del team Italia partecipante all’edizione di Fremantle della Louis Vuitton Cup. Tommaso è due volte vincitore del trofeo l’Equipe classe 470 nel 1982 e 1983, campione nel

mondo all’ International America’s Cup Class nel ‘91 con il ‘Il Moro di Venezia’, sempre con ‘Il Moro di Venezia’ è vincitore nel ’92 alla Louis Vuitton Cup. La strada con il fratello si divide ma i successi continuano per Tommaso che vince nel ’92 e nel ’96 la Rolex Swan Cup, nel ’95 la Admiral’s Cup e nel ’94 e ’97 la Sardinia Cup. Vanta cinque medaglie d’oro al valore atletico, due argenti e cinque bronzi. Viene eletto velista dell’anno dalla rivista ‘Il giornale della Vela’ e Rothmans nel ’97. Questi solo alcuni dei tanti riconoscimenti ricevuti. Oggi Tommaso Chieffi è padre di Ginevra e Angelo e la sua storia non finisce qui.

È quello che si dice un ‘top sailor’: Tommaso Chieffi, 40 anni in vela e un palmarès davvero speciale.

A guidarlo una grande passione per questo sport, antico ma sempre all’avanguardia nell’uso

della tecnologia.

LA VELA: UNA PASSIONE CHE DURA UNA VITA

sportSTILE LIBERO

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Com’é nata la sua passione per la vela?

Navigando con mio padre e mio fratello su un piccolo Vaurien, una deriva francese in legno nel periodo estivo vicino a Lerici. Successivamente, quando ci siamo trasferiti a Carrara da Milano, io e mio fratello Enrico abbiamo potuto fare vela tutto l’anno e ci siamo avvicinati sempre di più al mondo delle regate: Optimist, FJ (Flying Junior), ma anche molto giovani al 470 che è stata la classe che ci ha dato maggiori soddisfazioni, con un Campionato europeo ed un Mondiale vinti, e una partecipazione alle Olimpiadi di Los Angeles dove abbiamo chiuso la gara al quinto posto.

Nel ’77 il suo primo Campionato italiano con il FJ (Flying Junior), che ricordi ha?

Un gran divertimento, eravamo al Lido di Venezia, in campeggio, e Alberto Signorini scorrazzava con una Volvo in lungo e in largo senza patente. Erano davvero bei tempi... io ed Enrico non eravamo andati particolarmente forte, credo di ricordare che eravamo stati sesti o settimi, ma siamo andati molto meglio l’anno successivo in 470.

Lei è laureato in Legge: è stato difficile seguire la propria passione anziché la più tradizionale carriera di avvocatura?

Nel ’94, terminata l’avventura con il ‘Moro di Venezia’, ho pensato di abbandonare la Vela e dedicarmi alla professione legale. Ho anche provato per un paio di anni, fino all’esame di stato. Poi il mio ‘dominus’, Alessandra Pandarese, un’amica oltre ad essere stata consulente legale per molti team di Coppa America, mi ha consigliato di continuare con la Vela... aveva capito che la cravatta dopo maggio mi stava stretta!

Lei è un grande protagonista a livello nazionale ed internazionale nel suo sport, quale vittoria ricorda con maggior piacere?

Sono tutte belle. Tra quelle che ricordo meglio ci sono Ginevra Europeo 470, Carrara Mondiale 470, Hyeres Week, il Mondiale con il Moro e la vittoria nella LVC, la vittoria nell’Admiral’s Cup del ’95 dove eravamo la barca più piccola e ci aspettavano tutti all’arrivo del Fastnet per festeggiare, il Mondiale Mumm 30 a Porto Cervo, e quello degli X-35 a Cala Galera.

Com’è stato condividere con suo famigliare la passione e le competizioni per più di 10 anni?

Amore e odio, come in tutti i rapporti con i fratelli. Nel nostro caso aggravato dal fatto di vivere in ritiro per più di 200 giorni l’anno! Oggi siamo molto legati, anche se non ci vediamo spesso, e io devo molto a lui per la mia carriera. Era il prodiere che tutti avrebbero voluto. Enrico ha poi continuato con successo nella

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classe Star, dove ha partecipato ad una seconda Olimpiade, ma soprattutto ha vinto il secondo Mondiale in una classe olimpica. Penso sia l’unico italiano ad essere riuscito in una simile impresa.

Com’è il suo rapporto con il mare? Preferisce le competizioni in Altura o Match Race?

Amo il mare, mi piace stare in barca, vivere vicino all’acqua, anche se non sono un grande nuotatore, mi stufo presto. Mi piace molto anche la montagna, ma non cosi tanto. Per quanto riguarda le competizioni, direi entrambe: all’inizio non ero molto bravo nel Match Race perchè era troppo rapido per me. Qualche risultato l’ho ottenuto, ma sono sempre stato meglio in flotta. Vela d’altura ne ho fatta tanta, oggi mi stanca un po’ e preferisco le regate tra le boe per poi tornare a terra la sera.

Come succede anche nelle realtà aziendali, la pratica della vela comporta quasi sempre un lavoro in team: qual è la ricetta giusta per riuscirci al meglio?

Rispetto del proprio equipaggio e condivisione. Le barche che gareggiano peggio sono quelle in cui lo skipper vorrebbe essere uno ‘one man show’, ma nessuno skipper può ottenere risultati senza un buon equipaggio, come hanno capito molto bene quelli di Team New Zealand.

Quanto è importante l’interazione tra tattica (capacità di interpretare le diverse condizioni ambientali) e tecnica (il mezzo usato per competere)? E qual è l’apporto della tecnologia in questo sport?

Nelle competizioni devi essere al top in tutti gli aspetti, anche se ogni velista è più ferrato in alcuni aspetti e meno in altri. L’ideale sarebbe lavorare sui propri punti deboli, di solito di un velista si dice che è molto veloce ma poco tattico e viceversa. La vela poi è uno degli sport all’avanguardia nella tecnologia, molto simile in questo senso all’aereonautica. Meteorologia, computer science, costruzioni avveniristiche in carbonio: è tutto patrimonio della Coppa America e della vela in generale, uno sport che, pur rappresentando il modo più antico e lento di spostarsi, è sempre stato precursore dei tempi.

La sicurezza è rilevante? Ci sono regole “ad hoc” in merito?

La Volvo Ocean Race e la recente Coppa America con i catamarani hanno evidenziato la pericolosità di uno sport dove la casistica degli incidenti è per fortuna molto limitata. Ma le barche vanno sempre più forte e sono sempre più tirate, per cui in alcune classi si viaggia con il casco e la bombola di ossigeno e si simulano situazioni di pericolo per prepararsi al peggio.

I suoi figli Angelo e Ginevra hanno anche loro la stessa passione per il mare?

Lo amano molto, ma non sono velisti sfegatati come il padre e lo zio. Vivono a Milano dove è difficile avvicinarsi a questo sport, ed io sono sempre via per lavoro. Ginevra balla, canta, e ama le attività all’aria aperta - compresa la vela e lo sci - Angelo è un patito del calcio e siamo spesso in ortopedia!

Ha raggiunto tutti i suoi obiettivi? Quali sono i suoi programmi futuri?

Ne ho uno molto ambizioso: poter navigare in maniera competitiva il più a lungo possibile. Ma, perché no, anche divertirmi e godere di questo splendido mondo della vela. Una fortuna che non capita a molti ed io sono stato un uomo molto fortunato. I programmi futuri: uno Swan 60 russo, Bronenosec (in italiano ‘Corazzata’) con cui parteciperemo al campionato della classe in Olanda ed Inghilterra, un Melges 32 sempre russo, Sinergy, con cui abbiamo vinto la prima tappa Europea a Gaeta e in preparazione del Mondiale a Porto Rotondo a settembre, il Mondiale Orc di Ancona con un Tp 52 Urakan, Super Yacht e Maxi Yacht a Porto Cervo, più un altro programma cui stiamo lavorando in questi giorni e che sarà finalizzato a breve. La prossima settimana sono al Pirelli con gli Extreme 40.

Cosa consiglierebbe a chi vuole avvicinarsi a questo sport?

Andare in barca, scuola vela, barche di amici, crociere: la vela è bella a qualsiasi età ed in qualsiasi forma. Certo se uno vuol fare diventare il figlio uno dei fratelli Chieffi la strada è obbligata, parte dall’Optimist e va avanti tutta la vita crescendo sempre, ma cercando di rimanere in deriva il più a lungo possibile!

Sport

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MAGGIO 2013

di Luisa Giacomini cuoca per passioneluisagiacomini.com

L’acqua di mare& l’erba voglioLa cucina a modo mio: cucina trendy, facile o un po’ elaborata, ma alla portata di tutti e di tutte le situazioni.

C’era una volta... la porzione di tortelli o agnolotti fatti a mano, serviti su fondine e conditi con sughi, ragù, salse o burro aromatizzato e formaggi... divini ma classici. La novità creativa sta nella presentazione originale, rielaborando la tradizione in nuove proposte, magari favoriti dalla tecnologia che ci consente la realizzazione di squisiti tortelli in modo pratico e veloce.C’era una volta la pasta fatta in casa a mano per uso quotidiano. La tradizione ora continua solo per il culto e l’amore della buona tavola nelle occasioni speciali. Fare la pasta a mano per molti potrebbe sembrare difficile, invece è molto facile...vale la pena provare e, nei primi tentativi maldestri, fra una risata e l’altra, si comprendono le dinamiche e tutto diventa magicamente semplice.La planetaria accessoriata è un vero alleato in cucina, oltre che espressione di tecnologia innovativa.Per i ritrosi degli impasti o gli amanti della tecnologia l’aiuto

è intrigante e indispensabile, grazie all’uso di macchine impastatrici svariate, sfogliatrici, tagliapasta e trafilatrici. Potenti, funzionali e precise, surclassano i classici robot da cucina, le planetarie sono nate per impastare perfettamente pane, pasta e tutte le tipologie d’impasti dolci e salati. Non solo impastatrici, ma studiate nel tempo per l’eccellenza di tutte le funzioni polivalenti nelle più svariate ricette.L’invenzione dell’impastatrice per dolci, ‘nonna’ delle attuali planetarie, risale al 1862 e viene attribuita a Daniel Peter, che aveva iniziato la carriera come produttore di candele ma, in seguito all’avvento delle lampade a olio, si dedicò allo studio e alla progettazione di macchine impastatrici. Un consiglio per i principianti, eseguire anticipatamente degli impasti come prova pratica. Eseguire in anticipo nelle tranquille serate impasti, tagliatelle o tortelli in genere, da poter congelare, o meglio surgelare, per trovare al momento del bisogno una piacevole pietanza.

C’era una volta: la pasta fatta in casa e la tecnologia in cucina

LE TAPPE DELLA TECNOLOGIA IN CUCINA

1756Prima fabbrica di cioccolatoin Germania.

1811Inizia a Londra la produzione dei cibi in scatola utilizzando contenitori di latta.

1858Negli Stati Uniti viene messo sul mercato il latte condensato.

1862Daniel Peter inventa una particolare impastatrice per dolci, “nonna” delle attuali planetarie.

1864Il Francese L. Pasteur introduce il processo di pastorizzazione per la conservazione degli alimenti.

1874H. Heinz inventa la salsa conosciuta come “tomato Ketchup”. In Germania viene prodotto il primo aroma artificiale.

1876Il tedesco K. von Linde realizza il primo frigorifero domestico.

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Ingredienti x 4 persone

Pasta: • 300 gr di farina 00 • 100 gr di semola di grano duro • 3 uova piccole intere • un goccio di olio extravergine oliva • interno di 1 o 2 sacchetti di nero di seppia• sale un pizzico, se occorre poca acqua

Ripieno: • 500 gr di seppia pulita a pezzi• 2 spicchi d’aglio• 20 gr prezzemolo tritato• olio evo, pepe nero al mulinello qb.

Vellutata:• 350 gr di piselli • 30 gr di porro • 10 gr prezzemolo tritato • coriandolo tritato qb. • olio evo, sale qb.

Cappellacci al nero di seppia su vellutata di piselli

Vino da abbinare: Pinot grigio Lison Pramaggiore, Ribolla Gialla del collio, Trentino Chardonnnay.

esecuzione

cucinaSTILE LIBERO

Porcellane LIVING di Richard Ginori 1735

Treviso

PASTAA mano: formare un cratere con le farine, fare al centro un foro, inserire gli ingredienti, con una forchetta frustare per amalgamarli alla farina, impastare con le mani per circa 15 minuti il tutto sino a ottenere un impasto di consistenza morbida, elastica e di colore nero. Oppure nell’impastatrice: eseguire le istruzioni della macchina. Far riposare la pasta avvolta in pellicola in frigo per ½ ora.

Dividere l’impasto in piccoli panetti.

A mano: tirare le sfoglie sottilissime con il mattarello su un piano di legno. Oppure sulla sfogliatrice: ripassando le sfoglie ai rulli della macchina, (dal passaggio più largo sino ad arrivare a quello più stretto) la larghezza delle sfoglie dovrà essere almeno di 12 cm. Disporle leggermente infarinate e distaccate sopra ad una tovaglia.

RIPIENOIn una padella profumare l’olio con un spicchio d’aglio schiacciato, eliminarlo quando biondo. Aggiungere i pezzi di seppia e spadellare su fiamma vivace, abbassare il fuoco, aggiungere un spicchietto d’aglio tritato e una spruzzata di prezzemolo, poco pepe macinato e niente sale. Portare a fine cottura, eventualmente bagnando con poca acqua, salare solo se necessario. Tritare il tutto finemente al passaverdure o meglio al tritatutto o cutter.

VELLUTATAIn una padella soffriggere delicatamente il porro a rondelle, versare i piselli, profumare il tutto, aggiungere poca acqua calda, verso fine cottura aggiungere il prezzemolo, poco coriandolo, pepe e sale. Frullare o passare al minipimer, se necessario aggiungere un goccio d’acqua calda e un filo d’olio per dare morbidezza e lucidità. Per sicurezza passare al setaccio la vellutata che deve

risultare una delicata emulsione appena densa. Dovrà avvolgere nel palato il tortello in un perfetto incontro di sapore e consistenza vellutata con la farcia di seppia.

CAPPELLACCISul piano di lavoro porre un bicchiere d’acqua con un pennello da cucina e un strofinaccio piegato. Piegare una sfoglia di pasta in lunghezza segnando con le dita la metà di questa, aprire e controllare che le due parti combacino in larghezza. Bagnare il pennello e passarlo sullo strofinaccio per togliere l’eccesso d’acqua, passarlo su un lato della sfoglia piegata a metà, con un stampino di 4,5-5 cm max. eseguire, come fosse una collana, una leggera compressione a formare sulla parte bagnata gli stampi dei futuri cappellacci. Con una pallina di composto di seppia, leggermente schiacciata al centro, farcire i tortelli, ponendoli nella giusta proporzione al centro degli stampi. Ora delicatamente chiudere l’altra metà della sfoglia, accompagnando con le dita in modo circolare attorno all’interno della farcia per chiudere, comprimendo bene il contorno del cappellaccio. Tagliare i tortelli con lo stampino, il gonfiore della farcia farà da centro. Ripetere l’operazione per tutte le sfoglie. Recuperare gli avanzi di pasta e porli protetti nella carta pellicola per non asciugare, all’occorrenza leggermente inumiditi, si reimpastano recuperandoli nuovamente in nuove sfoglie.

Cuocere in acqua bollente per circa 4 minuti i tortelli. Ancora meglio se si ha disposizione del brodo di pesce.

Impiattare su un piatto piano riscaldato, porre tre o quattro cappellacci su uno specchio di vellutata di piselli. Decorare per un contrasto di colore con qualche ribes.

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informazione pubblicitaria

Veeam e i vantaggi del Cloud Provider Program

L’azienda lancia un nuovo programma di licenze a noleggio per rispondere alle esigenze della community di hosting provider, degli operatori di telecomunicazione e dei fornitori di servizi cloud.

Il Veeam Cloud Provider Program (Vcp) offre un contratto di licenza flessibile, personalizzato sulla base di un modello di vendita di servizi su misura oppure one-time alla community di hosting provider, agli operatori di telecomunicazione e ai fornitori di servizi cloud.

Uno dei vantaggi offerti dal programma Vcp 2013 è la licenza a noleggio con impegno di volume: adatto per hosting provider di medie e grandi dimensioni, questo nuovo modello è basato su un canone mensile per l’utilizzo di una o più soluzioni Veeam su un periodo di un anno.

I partner Vcp potranno inoltre beneficiare, in base al canone, di ulteriori sconti e finanziamenti per iniziative locali di marketing e di vendita. Con oltre 1.200 provider Vcp nella regione Emea, Veeam sta riscuotendo un grande successo nelle vendite di licenze a noleggio per le macchine virtuali. La regione Emea è coperta da un network di distributori/aggregator che offrono contratti di licenze a noleggio Veeam. Questo dimostra sia l’interesse dei partner sia l’impegno di Veeam nel sostenere un mercato in rapida crescita.

«Questo nuovo modello di licenze a noleggio basato sul canone si aggiunge ai modelli esistenti di licenze permanenti e ai modelli basati sulla fatturazione mensile per ciascuna VM - ha spiegato Gilles Pommier, channel director Emea di Veeam -. La nuova offerta nel nostro catalogo aumenta la flessibilità degli hosting provider e dei provider di servizi cloud nel processo di pianificazione dei propri servizi, dando loro l’opportunità di diminuire ulteriormente il costo dei beni fissi. Il modello permetterà inoltre ai provider di ampliare il proprio posizionamento all’interno della community cloud».

Il nuovo programma Vcp è disponibile per gli hosting provider, i cloud provider e per i rivenditori Veeam indipendentemente dalla loro adesione al programma Vcp.

Terminata la registrazione, sottoscriverà un contratto con il distributore Vcp selezionato, nel Paese in cui ha sede, e potrà così accedere a tutte le risorse tecniche, di marketing e di vendita dedicate. Lo scorso mese Veeam ha annunciato l’estensione di VMware vCloud Director, la soluzione di backup e ripristino utilizzata soprattutto da hosting provider per creare cataloghi di servizi.

Grazie a vCloud Director Api, Veeam consente di visualizzare l’infrastruttura vCloud Director direttamente su Veeam Backup & Replication e permette inoltre di salvare tutti i metadati e gli attributi vApp.

È altresì possibile ripristinare le vApp e le VM direttamente in vCloud Director, garantendo così il ripristino di macchine virtuali ‘fast-provisioned’.

Per usufruire del servizio il partner deve registrarsi on-line all’indirizzo

http://www.veeam.com/veeam-cloud-providers.html

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La Peonia Per ritrovare profumi e colori del territorio anche in ufficio! CARLA SBICEGO [email protected]

Sta arrivando l’estate, abbiamo portato le nostre amate piante in giardino a ritemprarsi dopo averle rinvasate e sistemate per bene, ma che tristezza adesso i nostri uffici così spogli!

Consiglio di rimediare con dei bei mazzi di fiori recisi. Io li raccolgo al mattino prima di venire in ufficio, scegliendoli in base all’umore, al tempo che riesco a rubare ai miei impegni, all’ispirazione del momento. Sono sufficienti pochi fiori, magari con l’aggiunta di qualche foglia o ramo verde, senza esagerare con il volume che potrebbe essere d’intralcio sulla scrivania. Bisogna avere l’accortezza di fare un bel taglio obliquo con un coltello affilato, così assorbono più acqua e durano a lungo.

Pochi suggerimenti: procuriamoci un vaso adatto, cambiamo spesso l’acqua, aggiungiamo poco zucchero per dar loro nutrimento e un goccio di vodka per combattere i batteri. A questo scopo va bene anche l’aspirina scaduta.A parte qualche eccezione preferisco evitare i fiori selvatici. Stanno benissimo nelle nostre cucine rustiche o country, ma per l’ufficio scelgo qualcosa di più classico. I nostri giardini in questi mesi sono un trionfo di colori e abbiamo solo l’imbarazzo della scelta: rose, dalie, calle, oppure rami fioriti come il lillà o il filadelfo.

Ma se abbiamo la fortuna di avere un giardino piantato da molto tempo sicuramente vi troveremo uno dei miei fiori preferiti: la peonia. Nei giardini dei nostri nonni non potevano mancare: quelle strane foglie rossastre che a fine marzo sbucano dal terreno, per poi diventare verde brillante ed esplodere in tarda primavera con dei grandi fiori profumati.

La peonia erbacea è una specie protetta, presente naturalmente in Italia, e coltivata da secoli nei nostri giardini. Ne esistono tantissimi ibridi e cultivar. Solo successivamente è stata introdotta dalla Cina la specie arbustiva, nonché vari incroci. In Oriente ritengono sia portatrice di fortuna ma anche di buon auspicio per concludere affari. Simboleggia l’amore e l’affetto, la prosperità e la nobiltà d’animo. In Occidente è simbolo di pudore e timidezza, ma anche di romanticismo, amore e raffinatezza. Per gli antichi Greci la peonia era l’unico fiore che meritava l’ammirazione degli dei, e per questo era ospitato nell’Olimpo.

E per finire: per assicurare una lunga durata dei fiori recisi consiglio di raccogliere i boccioli quando si incomincia ad intravvedere il colore del fiore, altrimenti sfioriscono subito. Potremo così godere a lungo del loro colore e del loro profumo.

Utilizzate come piante ornamentali nei giardini per formare aiuole e macchie fiorite su tappeti erbosi, o in vaso sui terrazzi, le numerose varietà di Peonia vengono coltivate industrialmente per la produzione del fiore reciso, adatto ad inaugurare la bella stagione anche sul luogo di lavoro.

ufficioverdeSTILE LIBERO

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La matita di Suefumetti

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N. 02 - Maggio 2013pubblicazione bimestrale

Registrazione Tribunale di Treviso n. 201 del 09/11/2012

ROC n. 22990/2012

direttore responsabileLeonardo Canal

coordinamento editorialeMita Cipriani Franco

hanno collaboratoGian Nello Piccoli, Stefano Moriggi, Giovanna Bellifemine, Alessio Voltarel, Federica Zanardo, Riccardo Girotto, Lucia

Bressan, Andrea Manuel, Luciano Salvadori, Carla Sbicego, Luisa Giacomini, Sue Maurizio, Ivan Oscar Jimenez

sviluppo e coordinamento editorialeclaim brand industry claim.it

realizzazione graficaFranco Brunello

segreteria e sede operativaVia Newton 21, 31020 Villorba (TV), telefono 0422.628711, fax 0422.928759

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editoreGruppo Eurosystem Sistemarca Srl, via Newton 21, 31020 Villorba (TV)[email protected]

per la pubblicità e per i numeri arretratiGruppo Eurosystem Sistemarca Srl, via Newton 21, 31020 Villorba (TV), telefono [email protected]

stampaMediagraf SpaViale della Navigazione interna 89, 35027 Noventa Padovana (PD)

Nell’eventualità in cui immagini di proprietà di terzi siano state qui riprodotte, l’Editore ne risponde agli aventi diritto che si rendano reperibili.

Porrà inoltre rimedio, su segnalazione, a eventuali involontari errori e/o omissioni nei riferimenti.

n.00: Lo sviluppo dell’industria: dalla 1° rivoluzione (capannone), alla 2° (sede moderna), alla 3° rivoluzione industriale che porta con sè la tecnologia ‘2.0’ (la nuvola simbolo del cloud computing).

n.01: Il bisogno di sicurezza nell’era digitale: una cintura di sicurezza (sicurezza personale), un cartello di divieto (sbarramento alla violazione della privacy), un lucchetto per le carte elettroniche (salvaguardia dell’identità digitale).

le nostre copertine

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L’autismo è una grave disabilità che colpisce attualmente un nuovo nato su 125 e comporta pesanti conseguenze sulle capacità di comunicazione e di relazione.

L’Associazione Autismo Treviso onlus dal 2009 è impegnata nel sostegno delle persone con autismo e delle loro famiglie, mediante diffusione e scambio di corretta informazione su questa condizione

e sui disturbi generalizzati dello sviluppo, ancorata alle prospettive e indicazioni della comunità scientifica internazionale.

L’autismo non colpisce solo la singola persona, ma si riverbera pesantemente sulla sua intera famiglia.

Quattro anni fa abbiamo lanciato il progetto “L’Orto di San Francesco” a Casale sul Sile (TV): uno spazio strutturato appositamente per i nostri ragazzi speciali dove far vivere vacanze scolastiche e fine settimana serenamente,

guidati da personale formato e da volontari particolarmente motivati. L’Orto di San Francesco contribuisce a sviluppare abilità relazionali e autonomie personali utili alla vita quotidiana dei nostri ragazzi.

AUTISMO TREVISO onlusAffiliata ad Autismo Italia onlus

Sede: Via Bressa 8 - 31100 Treviso c/o CPAHSede legale: Strada della Madonnetta 26/Atel. 0422 300280 - cell. +39 333 4158640

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Per maggiori informazioni visitate il nostro sito www.autismotreviso.org oppure contattaci [email protected]. +39 333 4158640

Grazie alla generosità di tanti coltiviamo talenti e speranze di un futuro sereno

per le persone con autismo!

Gruppo Eurosystem Sistemarca per Associazione Autismo Treviso onlus