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Logos e Struttura del Mondo Il Linguaggio come Modello di Realtà Un libro di Georg Kühlewind

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Logos e Struttura del Mondo

Il Linguaggio come Modello di Realtà

Un libro di

Georg Kühlewind

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Considerazioni del traduttore ........................................ 4

Note di traduzione ................................................... 6

Prefazione alla versione inglese ................................... 10

Introduzione .................................................................. 17

Preludio ........................................................................ 25

1 – I Quesiti ................................................................... 27

2 – Il Dato ..................................................................... 30

La Riflessione sulla Coscienza .................................. 30

Considerazioni epistemologiche sul Dato .................. 31

Esaminazione del Dato dalla Prospettiva della

Psicologia Cognitiva .................................................. 34

Osservazione delle Funzioni Date della Coscienza ..... 36

Riguardo ai Concetti ................................................ 41

Il Dato e l’Attività dei Sensi: Istruzioni dei Sensi ...... 50

3 – Prima strutturazione del Dato ................................ 61

Formulazione della Domanda .................................. 63

La struttura del Trovato, o Dato .............................. 63

Pedagogia del Linguaggio ........................................ 67

La prima Strutturazione del Dato ............................ 71

4 – Il Linguaggio della Realtà ....................................... 79

La Prima Realtà – Il Primo Linguaggio ................... 83

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Considerazioni del traduttore 3

La Transizione al Domandare .................................. 90

La Seconda Realtà ................................................... 98

La Terza Realtà ..................................................... 108

5 – Il Carattere della Realtà Percettiva ....................... 111

La Sensazione di Realtà – Osservazioni .................. 111

Il funzionamento dei Sensi Umani ......................... 124

La Sorte delle Idee Superiori ................................... 127

Il carattere Similparola della Natura ...................... 139

6 – Lo Sviluppo della Coscienza-Io .............................. 141

7 – Auto-Senzienza ...................................................... 147

8 – Cambiamenti nel Dato ............................................ 151

9 – Meditazione ........................................................... 167

10 – Meditazione Percettiva ........................................ 175

Epilogo ......................................................................... 187

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Considerazioni del traduttore

Di solito non leggo mai le introduzioni dei libri presentate

da una terza persona, preferisco vedere direttamente come

l’autore mi coinvolge fin dal principio. Se come me, il lettore

non supporta alcun medium, lo consiglio di imitarmi e di

tuffarsi direttamente nell’Introduzione di Georg Kühlewind

per questo intenso libro. Se invece al lettore piacciono le

prospettive, quanto segue potrà essergli utile.

Il carattere del pensiero e dell’esposizione di questo libro è

epistemologico. Molte opere del “Maestro dei nuovi

tempi”(Rudolf Steiner) hanno carattere simile, prima fra

tutte la “Filosofia della Libertà”. Questo tipo di esposizione

è fondamentale per il lettore con background matematico

scientifico, in quanto cerca di fornire il più possibile una

struttura certa, simile a quella matematica, che è richiesta alla

tipica mente scientifica, o moderna. Ciò include e necessita

lo sviluppo di una certa fluidità mentale capace di muoversi

tra immagini tenendo allo stesso tempo sotto controllo

l’insieme su cui ci si muove, diversamente dalla tipica lettura

sequenziale della macchina. La chiave di lettura deve

orientarsi alla comprensione di idee basata sull’osservazione,

non alla classica esposizione storica dei romanzi, o dei libri

informativi.

La corretta epistemologia cerca quindi di fornire

spiegazioni comprensibili per i processi più sottili,

considerando tutte le minime parti. Come esempio adiacente

si possono menzionare altre ipotetiche minime parti: gli

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Considerazioni del traduttore 5

atomi. Ipotetiche perché degli atomi non abbiamo la stessa

diretta esperienza, meno ipotetica e meno astratta, che

abbiamo delle minime parti. L’atomo è utile per descrivere la

materia, ma ugualmente possiamo parlare di “minime parti”

della materia, senza dare una connotazione scientifica non

necessaria. Quindi il carattere scientifico indicato non

riguarda molto il sapere scientifico, ma solo la modalità, che

dovrebbe risultare chiara a chiunque si consideri un uomo

moderno. Già a partire dalle prime righe dell’introduzione

l’autore chiarisce quali ostacoli possono impedire questa

comprensione.

In questo modo, senza che vengano cercati in congetture

mentali che mancano carattere convincente, i collegamenti

concettuali risultano da soli. Sono la semplice conseguenza

di una accurata osservazione, obiettiva, impersonale,

responsabile. Questo è anche l’obiettivo della filosofia

antroposofica: che l’individuo si convinca da solo. Ciò può

succedere solo se il lettore cerca una verifica degli argomenti

in qualsiasi esperienza mondana in qualche modo relativa. Se

ciò non fosse il caso, la lettura di questo libro mancherebbe

dello scopo che si prefigge e non sarebbe possibile seguirlo

molto ancora. Tutte le opere di Kühlewind sono delle

coerenti conferme di questo stesso trattato, e saranno quindi

utili a chi desidera approfondire queste idee.

Il lettore dovrebbe dunque procedere in questo modo

focalizzandosi su quelle che sono le domande più urgenti

che lo possano portare ad una comprensione sempre più

concentrata, unificata e quindi semplificata di tutti gli

argomenti del libro; cioè quelle domande riguardanti il libro

che sono più simili, o più vicine a quelle riguardanti qualsiasi

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altra cosa. In questo senso, porsi domande efficaci è

fondamentale per perseguire questo obiettivo; dedicare

qualche minuto a questo scopo in ambito meditativo può

rivelarsi proficuo, come lo è per qualsiasi altro libro di

questo tipo. Se queste domande non trovano collegamento

nella vita di ogni giorno, allora si può presupporre che il

libro non serva a molto, ma se troviamo questo tipo di

collegamenti possiamo allora dire di essere sulla buona

strada, e probabilmente continuare ad approfondire questo

libro fa parte di questa strada.

Note di traduzione

Questa è una traduzione all’italiano del libro “The Logos

Structure of the World”, versione inglese del traduttore

filosofo Friedemann Schwarzkopf, che l’ha tradotta dal

tedesco in stretta collaborazione con l’autore. In questo

contesto, la traduzione inglese di Schwarzkopf potrebbe

essere stata una ridefinizione, oltre che una revisione assieme

a Kühlewind, del suo stesso libro.

Specifiche parole tradotte da una lingua all’altra, pur

mostrando forma simile, spesso assumono significati

differenti o lievemente differenti. Per questo motivo, a mia

discrezione, utilizzo spesso due parole differenti che

puntano allo stesso concetto superiore, per cercare di

ovviare ad una certa staticità a cui le parole comuni possono

portare. Ad esempio l’inglese “feeling” potrà essere trovato

nel testo tradotto come “sensazione” o come “sentimento”,

a seconda di come le ho ritenute più opportune nel loro

contesto. Il lettore sagace può comprendere o meno la

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Considerazioni del traduttore 7

differenza in cui queste parole possono essere utilizzate,

creandosi concetti più precisi del loro significato o ritenendo

ininfluente la distinzione.

La parola inglese “given” ha significato più specifico della

corrispondente parola italiana “dato”, spesso ripetuta nel

testo. Infatti in italiano utilizziamo “dato” sia come

participio passato del verbo “dare”, sia come unità singola di

informazione a priori. L’inglese di questo secondo

significato è infatti diverso da “given”: “datum”. Il “dato”

spesso utilizzato da Kühlewind quindi ha più la forma del

participio passato oggettivato, in modo da indicare la data

totalità.

La parola “cognizione” è utilizzata nell’originale inglese in

sue forme irregolari di verbo e di soggetto-oggetto non

esistenti nei vocabolari, né in quello inglese, né in quello

italiano. In una traduzione italiana della Filosofia della Libertà

di Rudolf Steiner, il verbo “conoscere” è utilizzato molto più

spesso del verbo “cogniz-zare”. E’ da comprendere però che

la conoscenza può essere vista come una conseguenza della

cognizione, e quindi il significato specifico a cui spesso

l’autore vuol fare riferimento rende meglio utilizzando

parole con la radice “cogniz-“. Per dare una spiegazione di

questa scelta nei termini epistemologici comprensibili anche

attraverso questo libro, è possibile capire come la consueta

definizione della parola “cognizione” sia considerata come

evento dato, già passato, che non diamo noi stessi come

attività, quando invece, ad un piano di coscienza più vicino

al presente, la cognizione si rivela non-data, e quindi da

darsi, come libera facoltà dell’Io. In questo ultimo caso essa

può divenire un verbo con le sue nuove coniugazioni.

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La parola inglese “insight” avrebbe la traduzione letterale di

“visione all’interno”, ma viene spesso utilizzata nel testo con

la singola parola “intuizione”, e a volte con “illuminazione”.

Anche qui il lettore può notare il limite del traduttore nel

cercare di mantener coerente fede al testo originale.

“Intuizione” può quindi essere trovato nel suo significato

inglese di “insight” come enuncia il dizionario inglese

Collins: 1)La capacità di percepire chiaramente e

profondamente; 2)Una penetrazione e una spesso

improvvisa comprensione, come per un problema o

complessa situazione; 3)psicologia: a)la capacità di

comprendere i processi mentali propri o di un altro;

b)l’immediata comprensione del significato di un evento o

azione. In italiano il termine “intuizione” si può utilizzare sia

per indicare la capacità intuitiva che per il risultato

dell’esercizio di questa capacità. Questo secondo significato

è quello che è più vicino al termine inglese “insight”, che

così utilizzato indica una elaborazione più intima e intensa

rispetto a una singola operazione intuitiva.

La parola inglese “gap” può prendere diverse traduzioni a

seconda del contesto: vuoto, spacco, intervallo, buco,

interruzione.

Il concetto “pensiero” può prendere varie forme. Quando

è visto come “pensare” sta ad indicare l’attività che ci

coinvolge, senza la quale non c’è una produzione di

“pensiero”. Mentre però la parola plurale “pensieri” ci invita

ad osservare le singole istanze (riflesse, date) prodotte dal

“pensare”, l’italiano “pensiero” può riferirsi sia ad una

singola istanza, che all’attività stessa del “pensare”. Ho

evitato di utilizzare “pensiero” in questa ultima forma

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Considerazioni del traduttore 9

italiana quando può far mancare la distinzione.

Approfondimenti riguardanti queste distinzioni di pensiero

possono essere ricercati in molte delle, se non in tutte le

opere di Massimo Scaligero, il cui stesso contributo può

essere ritrovato tra le righe che seguono.

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Prefazione alla versione inglese

L’opera di Georg Kühlewind, Del Logos che Struttura il

Mondo, può essere considerata una continuazione

epistemologica del suo lavoro precedente, La Presenza del

Logos – che è stata scritta in un linguaggio teologico e

filosofico appropriato al Nuovo Testamento e, soprattutto al

Vangelo di San Giovanni.

Il Logos che Struttura è un altro tentativo di Kühlewind di

descrivere la sua intuizione fondamentale – circa la natura

della parola –ritrovabile nei suoi lavori come un filo che li

connette tutti, fino a, ed inclusa la sua più recente

pubblicazione Der Sprechende Mensch (L’uomo Parlante).

Per Kühlewind, la parola è la chiave che ci permette di

decifrare due enigmi: l’enigma del “geroglifico” dell’essere

umano in relazione alle sue origini spirituali (che è il soggetto

del libro La Presenza del Logos), e l’enigma dell’essere umano

in relazione alla natura, il nostro fondamento fisico,

l’ambiente naturale. Questo è il soggetto Del Logos che

Struttura il Mondo.

La caratteristica principale della parola è la sua duplicità,

l’interiore e l’esteriore. Per la percezione sensoria – sentire o

vedere – una parola appare in suoni e lettere distinte. Questi

suoni e lettere vengono interpretate come segni se noi, come

percettori, afferriamo che posseggono un loro proprio

significato – anche se non comprendiamo immediatamente

quel significato. Come esseri umani, abbiamo la capacità di

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Prefazione alla versione inglese 11

abbracciare, come fossero uno, questi due aspetti – suoni o

lettere e significato.

In relazione alla nostra sorgente spirituale (il primo

enigma), possiamo considerare come un segno la luce della

nostra propria auto-consapevolezza. Ma se la luce della

nostra auto-consapevolezza è per noi un “segno”, questo

segno deve dunque avere un “locutore”, come ogni parola ne

ha uno. Non appena ci domandiamo di questo locutore,

comunque, abbiamo già afferrato intuitivamente che ci

potrebbe essere una risposta alla nostra domanda.

Questo atto di domandare è la prima manifestazione della

facoltà umana del dare e del comprendere un significato. Il

significato è l’aspetto interiore della parola, il suo lato

interiore. Nel rivolgerci a colui che chiede e prova a

rispondere le domande, scorgiamo il nostro proprio Io.

Dov’è che questo Io ha origine?

La questione dell’origine dell’Io è il gesto fondamentale

della riflessione cosciente (in Tedesco, Besinnung). Chi è a

testimoniare la presenza del mio proprio sguardo? La

risposta è – l’IO-SONO (che è il testimone eterno)

testimonia la presenza dello sguardo del mio proprio Io. IO

ed IO-SONO sono fenomeni che possono essere

considerati simili a come lo è una parola – manifestazione e

significato. La parola Greca logos sta proprio a significare

questa duplice proprietà. Infatti, considerando l’abilità

umana per la riflessione cosciente siamo così portati alla

natura della parola, e cioè, al Logos che era in principio,

come ha scritto San Giovanni l’Evangelista.

In relazione al secondo enigma – il mondo naturale dato,

percepibile ai sensi – questa stessa attività di riflessione

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cosciente è presente nella primissima domanda, Che cos’è

quello? Anche qui l’attività del domandare è un segno per

l’intuizione che “quello” ha un significato. Segno esteriore

ed interiore significato costituiscono nuovamente ciò che si

può chiamare “parola”. Quindi pure il mondo della natura

percepibile ai sensi è da considerare come un testo,

consistente in parole che potrebbero avere un autore, lo

stesso Logos che era “in principio”.

Epistemologicamente, Kühlewind giustifica il suo

approccio nel mettere in evidenza che ogni “dato” – ovvero,

ogni distinguibile fenomeno percepibile ai sensi – viene

identificato non appena la coscienza dice: “quello”. Fintanto

che si dice “quello”, si vuol dire [o significare] qualcosa. Si può

comunicare con altri esseri umani nell’accordarsi con ciò che

si vuol dire con “quello” – un albero in quanto legno da

costruzione, legna da ardere, carta, o pianta; un albero in

quanto essenza specifica di una “specie”, o perfino un albero

come parola di congiunzione linguistica, come un “e” – nel

qual caso un albero viene visto come fenomeno percepibile-

ai-sensi in un processo vitale tra centro e periferia, tra forze

centrali e periferiche, terra e cielo.

Kühlewind mostra che tanto addietro quanto possiamo

tracciare l’evoluzione del linguaggio, le parole hanno

continuamente cambiato il loro significato. E mostra inoltre

che, con questo cambiamento nel significato delle parole, in

modo simile cambia anche la comprensione con la quale le

comunità umane concordano sul modo di strutturare il dato

“quello” della natura. Può anche essere mostrato che nel

corso dell’evoluzione del linguaggio, il significato si è

continuamente ristretto – da un universale significato di

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Prefazione alla versione inglese 13

“albero” come manifestazione di una forza vitale, alla

moderna concezione di un albero come trave, carburante o

cellulosa (ridotto a strutture molecolari e codice DNA). La

struttura che può essere trovata in ogni periodo evolutivo di

un linguaggio rispecchia quindi precisamente il significato

condiviso dalla comunità umana che viveva a quel tempo.

Tale significato oggi viene chiamato una “visione

prevalente” o “paradigma”.

A questo punto nasce la questione dell’origine della lingua.

Quale intuizione primaria ha avuto luogo nell’originario

sorgere di una tale “visione condivisa” o paradigma di realtà?

Questa domanda conduce allo stesso confine dell’obiettivo

centrale riguardante la natura della parola.

Il linguaggio è un fenomeno archetipo della coscienza. Un

“fenomeno archetipo” presenta come tutt’uno un significato

interiore e delle manifestazioni percepibili. Se possiamo

scoprire il modo in cui le comunità umane strutturano la

realtà, danno significati differenti a ciò che considerano

come “realtà”, possiamo allora iniziare ad avere esperienza

del mondo del Logos. La “Realtà” è il segno esteriore per

una comprensione interiore condivisa da una comunità

umana. In questo senso, il linguaggio può essere considerato

un modello di realtà.

Comprendere il linguaggio come modello di realtà permette

di vedere le metamorfosi delle strutture linguistiche come

rappresentazione dell’evoluzione della coscienza. Allo stesso

tempo, questa comprensione della relazione tra linguaggio e

realtà ci abilita a considerare tutti gli aspetti della natura

come un integrato insieme, com’era il caso per l’umanità

antica.

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Da quest’intuizione, il compito dell’umanità moderna nasce

naturalmente – quello di trovare un modo nuovo per

integrare la natura, non per nostro conforto o per nostro

consumo, ma come un testo che ha qualcosa da comunicare

e che ha un autore. Se, nel tentare di decifrare questo testo,

ci sentiamo da esso affidati, un nuovo senso di creazione

può apparire – creazione come significato di un dialogo tra

inizio e fine.

Nell’aiutarci ad avvicinarci a questo compito, Kühlewind

termina questo libro con un suggerimento – che educhiamo

la nostra percezione. Egli propone che coltiviamo una

senziente percezione analoga al sentimento di evidenza che

guida ogni intuitivo pensare ed è sempre il giudice ultimo

della correttezza e verità di un’affermazione. In questo

“sentito” modo di vedere, gli elementi della natura vengono

integrati in un contesto superiore, allo stesso modo in cui un

agglomerato di singole lettere dev’essere integrato per essere

visto come parola, e come una serie di parole dev’essere

integrata per essere letta come frase esprimente un singolo

significato.

L’approccio di Kühlewind può essere visto come

un’evoluzione dell’intuizione di Goethe nel vedere la natura

come un testo. Scrisse Goethe: “Ma se trattassi quelle crepe

e fessure come lettere, e provassi a decifrarle e assemblarle

in parole, e imparare a leggerle, avreste qualcosa da

obiettare?”

Ciò che fu un salto intuitivo per Goethe può diventare uno

spiegarsi sistematico delle nostre facoltà. Allo stesso modo

in cui un libro non avrebbe senso se la carta e l’inchiostro

venissero identificati solo chimicamente, e quindi le forme

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Prefazione alla versione inglese 15

delle lettere venissero analizzate in termini di geometria

analitica, così pure, gli elementi della natura vengono

integrati non solo in sistematici cicli ecologici ma anche

come un organismo la cui esistenza esprime il suo proprio

senso. Ciò corrisponde ad una comprensione interiore che fa

della parola un significato. Quindi i fenomeni della natura

vengono considerati sia come appaiono che come espressione

di un “significato” – significato non nel senso utilitarista della

quotidiana coscienza, ma come spontanea intenzionalità che

rivela la sua personalità per mezzo di qualità nelle quali

appare quando presenta le infinite possibilità delle sue leggi

superiori – che sono anche manifestazioni di una tale

“parlante” intenzionalità.

Ecco il motivo per cui viene coltivata questa sentita

percezione. In quanto, nel sentimento, l’osservatore risuona

percettivamente con la cosciente, pensante presa del

percetto. E nel movimento della volontà attentiva nel

percepire, l’osservatore sperimenta la natura di ciò che una

sostanza era solita essere – “substantia” – non “materia”, ma

una gerarchia spirituale, come può ancora essere visto nel

linguaggio della Divina Commedia di Dante. Quindi il

percettore sperimenta nella volontà percettiva la forza con la

quale la complessità della natura manifesta sé stessa.

Qui viene sentita la realtà dell’essere. E quindi la percezione

sentita diviene mediatrice tra la nostra concezione pensante

e l’effettiva intenzionalità della realtà naturale.

Nelle parole di Aquino:

"Res naturalis, inter duos intellectus constituta."

(L’oggetto della natura si costituisce tra due intelletti.)

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In questo stesso spirito Kühlewind apre la sua Struttura del

Logos con un’altra quotazione di Aquino: ”La realtà delle

cose è la loro luce…”

Friedemann-Eckart Schwarzkopf

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Introduzione 17

Introduzione

Questo libro intende mostrare che il mondo, inclusi gli

esseri umani e la loro coscienza, non è originariamente

un mondo di cose, ma un mondo di parole; che

fondamentalmente, è strutturato come un testo e può

quindi essere letto come un testo.

Questo obiettivo rende l’esposizione difficile, in quanto

persino la più semplice affermazione (ad es.: “i mirtilli

hanno già iniziato a maturare”) spezza qualcosa che è

simultaneo, unificato, e connesso in parole che appaiono

una dopo l’altra ed una a fianco all’altra. Le faccende

della coscienza – ad esempio, i problemi linguistici –

sono anche più difficili da comunicare, dal momento che

molte, se non tutte le domande, appaiono

simultaneamente e necessitano di risposte immediate.

Questa opera quindi fa uso di, e presenta

continuamente al lettore, tre discipline scientifiche che

trattano della coscienza: l’epistemologia (la teoria della

cognizione), la psicologia cognitiva (psicologia della

cognizione) e la linguistica. I principi di quest’ultima

saranno probabilmente poco familiari persino ai lettori

interessati alla scienza dello spirito. I semi di queste

discipline potranno comunque essere trovati nelle opere

di Rudolf Steiner, ed io stesso li ho argomentati in modo

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più o meno esauriente, come ad esempio nella Vita

dell’Anima, ed anche in altre opere.

L’approccio epistemologico cerca di riprendere ciò che

è stato dato da Rudolf Steiner, ma in maniera più

differenziata, appropriata a domande poste al giorno

d’oggi. I lettori potranno trovare comunque, che il

problema più grosso potrebbe stare nella inconsueta

combinazione di queste tre discipline.

Questo è il motivo per il quale i problemi non vengono

presentati linearmente. Invece, la linea di pensiero

procede per cicli e spirali, passando ripetutamente su

certi temi, in modo da rendere giustizia a svariati punti

di vista. L’intero libro è una singola affermazione.

Quindi i lettori dovranno pazientare di averlo letto fino

alla fine. Molto di ciò che non viene discusso, o discusso

insufficientemente, verrà via via spiegato in sezioni

successive, ed in finale attraverso l’intero insieme.

Questa è, in ogni caso, l’intenzione o la meta.

Il nostro metodo sarà principalmente quello di

indirizzare l’attenzione del lettore ai fenomeni della

coscienza che vengono normalmente ignorati e lasciati

sfuggire. La proposizione radicale che possiamo

percepire solo i fenomeni per i quali abbiamo dei

concetti o delle idee, o per i quali tali concetti e tali idee

possono essere sviluppati nel corso dell’osservazione – è

senza riserve valida per l’osservazione della coscienza.

Tale osservazione inizia con la coscienza di ogni giorno.

In questa opera tentiamo di presentare i risultati di una

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Introduzione 19

ricerca che ha fatto uso di altri piani di coscienza, in

termini degli effetti di questi altri piani di coscienza su

fenomeni del tutto osservabili e su funzioni della

coscienza usuale. I lettori dovrebbero non associare

alcuna preconcetta nozione o rappresentazione con i

termini qui utilizzati, ma invece formare concetti e idee

ex novo sulla base del testo.

Lo scopo metodologico di un tale studio non può essere

quello di comunicare conoscenza o teorie; cerca

piuttosto di stimolare la partecipazione del lettore nel

movimento di pensiero così che il lettore possa arrivare

alle intuizioni necessarie per comprendere il testo. Solo

in questo modo può essere sperimentata la vita del

mondo e della coscienza.

La precondizione per ogni empirismo della coscienza è

che l’osservatore stia ad un livello di coscienza più alto

dell’oggetto dell’osservazione; diversamente conclusioni

inaffidabili e speculazioni fluirebbero inevitabilmente

nell’osservazione. L’osservazione deve procedere dal

livello nel quale incontriamo il mondo di per sé evidente.

Solo allora l’attenzione osservante, diretta ai processi

precognitivi preconsci e consci, diviene attendibile.

Il primo passo nel processo di osservazione sta nel

distinguere tra la cognizione cosciente – guidata dal

domandare – e l’immagine data, che è l’oggetto di

investigazione e proviene dalla precedente, non-

cosciente cognizione. Una ulteriore distinzione è volta a

discriminare tra i piani del presente e del passato nella

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coscienza – per esempio, distinguendo tra l’attività di

pensiero ed i (già passati) pensieri che sono risultati da

questa attività. L’osservazione inoltre, rivela la natura

super-cosciente dei processi cognitivi intuitivi,

sperimentati al livello del presente, come abilità o

capacità. Allo stesso momento, diveniamo consapevoli

degli impulsi derivanti dalla sfera animica

dell’abitudine, il subconscio. Ciò ci permette di

distinguere tra intuizioni ed associazioni.

E’ parimenti importante che comprendiamo

pienamente la differenza tra percezione e

rappresentazione mentale. Per via della sua

immediatezza, la percezione appare esistente qui ed ora.

Una immagine mentale o rappresentazione,

diversamente, appare come una memoria. L’esistenziale,

la qualità qui-ed-ora del mondo percettivo, può essere

spiegato solo se prendiamo in considerazione la

differenza tra concetti che si riferiscono a fenomeni

naturali e quelli che si riferiscono a prodotti di pura

attività della coscienza umana.

I concetti prodotti da esseri umani sono chiari e

trasparenti (per esempio, concetti matematici e

geometrici o quelli di prodotti artigianali ed artificiali). I

“concetti” che si riferiscono alla natura, diversamente,

sembrano dapprima essere dei nomi, immagini mentali,

o concetti collettivi formati in base alle caratteristiche

esterne dei fenomeni naturali. Tali idee costituenti sono

impensabili ed inconcepibili alla normale comprensione.

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Introduzione 21

Possenti idee stanno dietro ai fenomeni naturali – non

qualcosa non-ideale, come credono ingenui pensatori.

Proprio questo è ciò che dà alla percezione la sua qualità

esistenziale, visto che noi stessi, dopotutto, siamo

ancora aperti a queste idee. Sconfessare o lasciarsi

fuggire questa qualità essenziale è una aberrazione

teorica dovuta ad imprecisa osservazione. E’ la forma

complementare “introversa” dello stesso errore la cui

forma “estroversa” vediamo nella focalizzazione del

materialismo diretta all’esterno.

La struttura discontinua del mondo concettuale

produce la struttura del mondo percettivo. Entrambe le

strutture sono date dal linguaggio. Il linguaggio solleva i

concetti basilari esternamente a ciò che è direttamente

dato. Questa è una delle ragioni per cui il similparola,

piuttosto che l’Idea, gioca il ruolo centrale nei seguenti

capitoli. Poiché appaiono in parte nel mondo percepibile

ai sensi, ed anche vivono parzialmente celate come una

attività della coscienza, le parole dell’uomo possono

servire da modello, sia per gli esseri umani, che per il

mondo percepibile ai sensi. Come le parole stesse,

entrambe le strutture ricevono il loro significato, la loro

parte nascosta, dagli esseri umani.

La parola è la forma dell’idea tramite cui appare la

relazione della parola con un Io. L’arco di vita della

parola in un essere umano conduce, dal linguaggio dato

(ed il pensiero ad esso vincolato), per via del pensiero

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astratto indipendente dal linguaggio, al pensiero

meditativo, anch’esso indipendente dal linguaggio.

Il pensare meditativo cerca di comprendere le parole

nel loro primo ed originale significato e di rimanere

interno a quella comprensione, o addirittura passare

oltre ad essa. Nel processo, si sviluppa un “pensare” che

è adeguato alle idee dei fenomeni naturali. La

compiutezza, ed infine la redenzione del dato testo della

natura, ha inizio nella meditazione percettiva.

La meditazione è la continuazione della creazione per

come essa è data. Se il linguaggio inizialmente struttura

la creazione in componenti, nella meditazione percettiva

leggiamo allora la creazione nuovamente insieme –

tramite l’accessibilità della superiore natura della

parola. E perciò il mondo riceve significato, come un

testo.

Per l’attento osservatore il mondo apparirà, in ogni

fase della vita cognitiva, essere strutturato dalla parola,

o Logos [Verbo]. Solo un essere-Io ha un “mondo”. E gli

esseri-Io hanno un mondo solo perché il mondo ha la

natura e struttura della parola, il Logos, che a sua volta

è accessibile solamente da esseri-Io. Nella prima epoca

della coscienza, quella della semplicità, il mondo è dato

agli esseri umani, come realtà. Percetto e concetto

vengono dati assieme; sono separati solo in una

successiva configurazione di coscienza. In questa prima

epoca quindi, anche la realtà strutturata dai concetti

forniti dal linguaggio viene data come intero unificato.

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Introduzione 23

Nella seconda fase della coscienza – che in ultima

conduce all’emancipazione del pensiero dal linguaggio –

il mondo dato è strutturato da concetti afferrati da

esseri umani. Generalmente questi concetti sono

astratti, come quelli delle scienze naturali, o possono

essere idee più alte, meditative. In ogni caso, in questa

seconda realtà, percepire e pensare sono rigorosamente

separati; e la loro sintesi non più viene data, ma è

compiuta dagli esseri umani. Quindi questa seconda

realtà è anch’essa strutturata dal Logos; è strutturata

ed unificata tramite concetti.

Ciò riguarda anche il terzo, potenziale sviluppo della

coscienza, nel quale gli esseri umani realizzano il

carattere linguistico del mondo attraverso le loro libere

azioni. Il carattere linguistico della realtà della seconda

fase o epoca è più una questione di forma e non molto

evidente, in quanto le idee funzionali corrispondenti ai

fatti naturali non sono comprese; queste invece vengono

soppiantate dai surrogati concetti di misurabilità e

calcolabilità.

Dobbiamo ora imparare ad incontrare le idee più alte,

appropriate agli esseri umani e al mondo, conquistando

livelli di coscienza più alti. Simultaneamente dobbiamo

continuare a sviluppare le nostre capacità percettive

orientate alla lettura del libro della natura. Saremmo

quindi in grado di percepire segni o lettere in natura,

come in un testo parlato o scritto, piuttosto che vedere

solamente cose. Ciò ci condurrà alla completa o vera

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realtà. Il significato della creazione – la parte nascosta

della creativa parola cosmica – era quello di aiutare

l’umanità a raggiungere questo punto di comprensione.

Il nuovo significato, la nuova realtà, sorge per via della

continuazione nostra della creazione.

E’ possibile sperimentare che i concetti e le idee sempre

sembrino servire – servono come concetti degli oggetti

che produciamo per le nostre scienze, servono come idee

culturali della nostra educazione, come idee artistiche

nel nostro stesso sviluppo, o come idee meditative per il

nostro sostanziale futuro. Che il futuro debba

continuamente essere creato – ed ora da noi stessi – è

un’antica saggezza. Ciò era già presagito e spiegato nei

linguaggi degli Indiani d’America. Ora questa antica

saggezza comincia a sorgere nuovamente in noi,

lentamente, muovendosi lungo percorsi evolutivi

pressoché catastrofici. Possa il calore amichevole della

parola, sempre basato sulla fiducia, innalzare questa

saggezza antica nella coscienza moderna.

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Preludio 25

Preludio

Ogni teoria ed ogni scienza ha inizio con delle

domande. Queste nascono quando guardiamo qualcosa

due volte perché non siamo soddisfatti col primo

sguardo volto a ciò che abbiamo visto. Cioè, l’esistenza

di domande presume due sguardi differenti, due viste

differenti, la seconda delle quali è cosciente e deliberata.

Queste due viste differenti originano necessariamente da

due differenti possibilità della coscienza vedente, che

può essere a suo agio su due piani diversi.

La prima vista o figura di realtà ci è data, ed è già una

figura in quel momento, non una realtà, come spesso si

suppone. La realtà è il segreto ultimo e può essere

ottenuta solo per mezzo di un domandare cosciente. La

prima figura viene data per mezzo della struttura

supraconscia e subconscia dell’anima. Viene filtrata,

ottusa, ed immobilizzata per via della necessaria

dipendenza dall’organismo fisico del principio di

cognizione negli esseri umani. Come risultato, solo una

parte della totalità del mondo raggiunge l’esperienza

cosciente. Dal momento che il nostro domandare ed il

nostro rispondere divengono anch’essi parte di una

realtà, la realtà non è finita o fissa: essa fiorisce

all’interno e attraverso l’essere umano.

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Il nostro domandare riguarda la figura data, la prima

vista. L’epistemologia ha a che fare con la domanda sul

come sorge questo “dato”. Le scienze hanno a che fare

con la domanda sul come completare, correggere e

capire la figura data. E la filosofia della scienza ha a che

fare con la domanda sul come sia possibile la scienza.

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1 – I Quesiti 27

1 – I Quesiti

Ogni domanda nasce come una nuova domanda: sorge

in noi allo stesso modo in cui sorge una intuizione, la

risposta. Infatti, le domande sono già intuizioni, ma

incomplete. Le domande non possono avere sviluppo

dall’ingenuità; richiedono sempre dualità e dubbio: Che

cos’è quello? Quello viene scoperto, ma allo stesso

momento ci si rende conto che non era stato pienamente

compreso. E’ qui che giace il paradosso del porre quesiti:

che tanto così dev’essere saputo riguardo a ciò che è

dubbio (domandabile) e a ciò che può essere domandato.

Domandare e cognizzare presuppongono la possibilità

dell’errore – cioè, di libertà nel processo cognitivo –, e

presuppongono pure l’ulteriore capacità e libertà di

scoprire tali errori. Questo significa che ciò che cognizza

non può essere dipendente, o almeno non pienamente,

da ciò che è da cognizzare. Altrimenti il risultato del

conoscere (dell’attività cognitiva) sarebbe

predeterminato dall’influenza dell’oggetto di cognizione

sul sistema cognitivo. In questo caso, la mancanza di

una autorità indipendente renderebbe impossibile ogni

valutazione dei risultati della cognizione. Se il sistema

cognitivo fosse anche soggetto ad eventi fortuiti, allora

una e la stessa causa condurrebbe a risultati diversi. E

siccome non ci sarebbe alcuna autorità imparziale che

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giudichi questi risultati, sarebbe impossibile trovare

quello “giusto” tra questi. In questo caso, sarebbe anche

impossibile determinare se la causa in questione sia

stata la stessa, in quanto non ci sarebbe alcun accesso

diretto alle cause oltre ai loro risultati.

A parte queste contraddizioni, il fenomeno della

riflessione cosciente – l’abilità della coscienza di

guardare sé stessa, osservarsi e descrivere le sue

osservazioni – non può essere spiegata tramite nessun

modello di input-output meccanicistico. Se la coscienza

dipendesse dalle influenze e dalle reazioni che queste

scatenano, essa non potrebbe guardare a sé stessa;

l’auto-osservazione non sarebbe possibile.

Nessun sistema meccanico può definire o descrivere il

suo proprio meccanismo mentre è attivo. Questo fatto

confuta tutte le teorie che non considerano – o perfino

negano – l’attività cognitiva indipendente da ogni

influenza, ovvero, la lettura del dato. Se la coscienza

umana fosse infatti costituita come queste teorie

sostengono essa sia, le teorie stesse non avrebbero

potuto nascere. La connessione tra coscienza e dato è

similparola ed ideale. La lettura di un testo non può

essere descritta come effetto del testo sul lettore.

Quando leggiamo un testo, solo il significato, il senso, e

la rilevanza del testo, fa ingresso nella coscienza, non la

carta o l’inchiostro della stampante.

I due livelli di coscienza – passato e presente –

necessari per porre domande sono insiti nella struttura

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1 – I Quesiti 29

della moderna coscienza umana. Come conoscitori

[cognizzatori], siamo universali; nella nostra parte non

cognitiva comunque, siamo soggettivi. Siamo coscienti e

ci sentiamo in quella parte dell’anima dove il cognizzato

appare – in seguito al processo di cognizione, nel

“passato”; ma i processi della coscienza – sorgenti di

pensieri, idee, e domande – rimangono normalmente

superconsci. Le intuizioni – incluse le domande, che non

sono intuizioni complete – arrivano super-

coscientemente; una volta giunte, diventano coscienti.

La coscienza riflessiva [o riflessa], che è capace di

guardare sé stessa, ha due piani, il passato ed il presente.

Il passato continuamente deriva dal presente. L’anima

oscilla tra questi due piani, toccando appena quello

superiore, il presente. E’ questa oscillazione che abilita

l’anima a porre domande e a guardare sia a sé stessa che

al piano del passato. Questa è la dualità basilare tramite

cui si realizza il paradosso del domandare. La risposta

giace nel perseguire l’intuizione del quesito.

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2 – Il Dato

Uno dei gesti fondamentali dell’anima cosciente è quello

di osservare il suoi propri contenuti. Il suo potenziale è

realizzato e diviene effettivo solo per mezzo di questo

gesto: ”In sensazioni ed in pensieri l’anima perde sé

stessa in altre cose; come anima cosciente, tuttavia, essa

assume il controllo del proprio essere”.

L’anima cosciente può quindi essere chiamata anche

“l’anima auto-cosciente”.

Nel processo di assumere controllo del suo proprio

essere, l’anima cosciente giunge ad essere. E questo

processo di assunzione inizia con l’osservazione nella e

della coscienza stessa.

La Riflessione sulla Coscienza

Quando iniziamo a riflettere sulla coscienza, scopriamo

i suoi processi, come pure i suoi risultati – troviamo

pensare, percepire, parlare, come pure troviamo

concetti, percezioni, parole. Possiamo notare che questi

processi e contenuti esistevano di già, si presentavano

anteriormente alla riflessione. Anche l’abilità di

riflettere è data, ma l’atto di riflessione stesso è un atto

libero. Se anche questo atto fosse dato e non libero, il

dato stesso non potrebbe essere scoperto.

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2 – Il Dato 31

La scoperta che le facoltà umane sono date e che non le

produciamo noi stessi può suscitare meraviglia,

gratitudine e gioia in noi – gioia per l’esistenza della

coscienza, per la capacità di voltare l’attenzione ad ogni

tema che scegliamo, gioia in questa autonomia. Questa

gioia, che si desta con l’esperienza qui descritta, non con

l’immagine mentale di questa, è il miglior punto di

partenza per l’educazione della coscienza.

Considerazioni epistemologiche sul Dato

Il dato precede ogni domanda; è la prima immagine

dalla quale le domande emergono o sono suscitate. Il

dato è tutto ciò che appare nella coscienza senza alcuna

attività di pensiero o memoria.

Questo significa che l’immagine data del mondo

esterno o interno cambia nel corso della nostra vita a

seconda delle nostre circostanze; per giunta, quindi, essa

può variare da individuo a individuo.

Ciò che è dato, la (pura) esperienza, include sia ciò che

successivamente chiamiamo “immagine percettiva” –

dopo che l’abbiamo definita tale col pensiero – sia il

mondo interno che non è ancora stato processato dal

pensiero. Possiamo quindi chiamare dato “l’apparenza

ai sensi”, se con “sensi” indichiamo non solo quelli

diretti esternamente, ma anche quelli che afferrano gli

eventi della nostra vita interiore dell’anima e della

coscienza.

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Per un adulto, la data immagine percettiva è una

accumulazione di dettagli, giustapposti nello spazio e

successivi nel tempo, un agglomerato di disconnessi

oggetti di sensazione.

Che i particolari (le cose, per esempio) appaiano come

dati è una conseguenza delle precedenti – non presenti –

determinazioni concettuali, come risultato di precedenti

“istruzioni dei sensi” super-coscienti (e perciò i concetti

diventano integri ai sensi). In altre parole, gli adulti non

devono riflettere di nuovo ogni volta che vedono un

oggetto che hanno visto in precedenza: essi già lo

vedono concettualmente.

Lo stesso è vero anche per le qualità sensoriali. L’alta

concettualità corrispondente alle qualità sensoriali, che

sorpassa i concetti degli oggetti in scopo e vitalità, viene

“formata” nell’infanzia tramite intuizioni superconsce.

Quando un bambino inizia a distinguere i colori, nessun

cambiamento occorre nella organizzazione fisica degli

occhi; più propriamente, il bambino afferra l’idea stessa

del colore, o degli individui colori.

Possiamo riflettere anche sugli stessi contenuti della

coscienza, indifferentemente dal loro potenziale

riferimento al mondo percettivo. Troviamo immagini di

memorie (rappresentazioni), immagini di fantasie,

parole, frasi, pensieri, emozioni, desideri, e così via. Se

cessa il corrente pensare, pure questo mondo diventa un

agglomerato di dettagli disconnessi.

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2 – Il Dato 33

La distinzione tra ciò che è dato e ciò di cui

effettivamente abbiamo cognizione, può essere fatta in

svariati modi. Quando qualcuno articola una teoria

della conoscenza (un’epistemologia), questi deve

esaminare l’origine e lo sviluppo dell’immagine del

mondo data nell’adulto e concepire l’idea del dato

piuttosto radicalmente. Ciò implica rimuovere

artificialmente – in un esperimento di pensiero – i

concetti già contenuti nel dato.

Una volta che abbiamo rimosso tutti i concetti,

spariscono le connessioni tra gli oggetti, le “cose”, i

dettagli separati, e perfino gli oggetti di sensazioni.

Rimane solo un continuum indifferenziato privo di ogni

struttura, in quanto la separazione di ogni singolo

particolare dettaglio fuori dall’intera indifferenziata

immagine data è già una attività di pensiero in sé.

Per mezzo di questo esperimento di pensiero, il confine

tra il dato e ciò che è cognizzato coscientemente viene

ricavato nel modo più profondo. Il dato come

continuum destrutturato è chiamato il “dato

immediato”. Questo “dato immediato” non fa parte

della normale esperienza ma è una estrapolazione

artificiale che ci serve di aiuto per meglio comprendere

l’esperienza.

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Esaminazione del Dato dalla Prospettiva della Psicologia Cognitiva

Com’è che il dato appare nella coscienza? “La prima

forma nella quale l’insieme intero ci viene incontro si

presenta a noi in modo finito. Non prendiamo parte nel

suo venire ad essere. Come se sorgesse da uno

sconosciuto Aldilà, la realtà si offre in principio alla

portata dei nostri sensi e delle nostre menti.”

Questo “sconosciuto Aldilà” si può identificare come il

superconscio, la parte spirituale della nostra anima

umana.

Da questa parte dell’anima, le specifiche facoltà umane

– pensare, percepire e parlare – ci sono date. Il corso o i

processi di queste facoltà sono superconsce; ma i

risultati sono consci. Il dato consiste di questi risultati. I

processi coi quali il dato viene dato sono superconsci. In

epoche precedenti l’evoluzione della coscienza, gli esseri

umani sentivano effettivamente questo dare, ed ancora

oggi i bambini hanno l’esperienza di questo dare quando

imparano a parlare.

Dal momento che la “prima forma” di realtà entra già

finita nella coscienza come ne diveniamo consapevoli,

possiamo quasi sentire – potremmo chiamarlo “sentire

di confine”[o “esperienza di confine”] – che i processi

che “danno” questa realtà occorrono

superconsciamente. Dopo tutto, perché ci siano risultati

“finiti”, dei processi devono prima essere avvenuti. Non

sappiamo come facciamo a parlare, né come i suoni

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2 – Il Dato 35

siano formati, né come la grammatica e la sintassi della

nostra madre lingua – mai pienamente descritte o

descrivibili – vengano acquisite nella prima infanzia; e

nemmeno sappiamo come avvenga una percezione.

Pure il pensare si deve trovare nel dato, anche se è

l’attività con la quale partecipiamo più coscientemente,

perché siamo noi stessi a produrlo. Il pensare non

appare senza la nostra partecipazione attiva. Tuttavia

non è in alcun modo arbitrario o soggettivo: esso è dotato

della sua intrinseca regolata[legale] struttura, sua stessa

natura, che si manifesta nel suo come, la sua logica.

Quindi il pensare non è dato solo formalmente, ma il

modo in cui procede, la sua legalità, è prodotta

superconsciamente. Il suo ordinamento non è formulato

coscientemente, ed esso non può mai essere descritto

esaurientemente. In questo senso il pensare è dato

superconsciamente.

Siccome il “come” del pensiero origina nel superconscio

e ci viene quindi dato, non possiamo discutere la sua

correttezza – eccetto che sulla base di questo stesso

pensare che è ora messo in dubbio.

Possiamo osservare il pensiero e contemplarlo nella sua

natura solo quando c’è: quando è dato.

Tutte queste attività, incluso il disegnare mentale

(rappresentazione), sono in effetti facoltà per fare

qualcosa senza sapere come la si fa. Questa abilità ci

permette di iniziare processi di coscienza, anche se non

siamo consci dei processi, ma solo dei loro risultati. Ciò è

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simile ai nostri movimenti volontari del corpo:

mettiamo il corpo in moto con la nostra volontà e

tracciamo il corso dei suoi movimenti in una immagine

mentale. Quindi ne percepiamo i risultati, ma non

seguiamo coscientemente l’atto del movimento nel suo

“come”.

Tali facoltà umane vengono date “dall’alto”, dal piano

spirituale, ed intervengono nel corpo vivente e senziente

per esprimersi ed articolarsi in esso. Il modo in cui

queste facoltà ci sono date cambia nel corso di sviluppo

dell’individuo e dell’umanità per intero (vedi capitolo 8).

E’ caratteristico degli adulti contemporanei che la

connessione tra la coscienza e le sue fonti superconsce sia

interrotta da un abisso o spacco che divide il piano del

passato da quello del presente.

Osservazione delle Funzioni Date della Coscienza

Ognuna delle tre basilari funzioni della coscienza –

percepire, pensare, e parlare (che sono le basi anche per

altre facoltà umane) – ha un carattere distinto e viene

sentita diversamente dagli adulti di oggi. La percezione,

per esempio, pone molti enigmi. I particolari disgiunti

della percezione provocano immediatamente delle

domande; non sono per niente trasparenti o

comprensibili al percepire contemporaneo.

La differenza nel “darsi” tra il percepire e il pensare sta

non solo nel fatto che il percepire è mediato tramite i

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2 – Il Dato 37

sensi, mentre i nuovi concetti, i nuovi pensieri, appaiono

nella coscienza tramite intuizione; molto più

significativo è il fatto che i pensieri ed i concetti ci sono

pienamente comprensibili e trasparenti solo quando

vengono effettivamente pensati. Anche se certamente

possiamo dire cose che non comprendiamo, non

possiamo in alcun modo pensare cosa alcuna che non

comprendiamo pienamente. Niente rimane nascosto nel

pensiero finito; quindi non c’è nient’altro da cercare in

esso una volta che è stato pensato.

Quindi, siamo giustificati a prendere un punto di vista

“ingenuo” riguardo al pensare. La logica e la natura in

sé evidente del pensiero – il suo come – sono dati dalla

sfera del superconscio e, in questo “darsi”, esso è

totalmente trasparente e comprensibile. Infatti ogni

cosa che capiamo, la capiamo solo quando essa è

spiegata tramite il pensiero, tramite le idee. Nel caso del

pensiero, è sufficiente l’empirismo. Tentativi di divenir

consapevoli del “come” del pensiero tramite logica – la

quale non può mai essere sufficiente – non rimpiazzano

la necessità di entrare nel flusso vivente del pensare se

dobbiamo cercare di capire qualcosa, la logica inclusa.

Il mondo percettivo è strutturato anche da concetti, e

solo per questo motivo possiamo sentirlo o percepirlo.

Solo i concetti possono marcare i confini dei particolari,

possono dire che questi sono cose, che ci sono dei

particolari, definendoli come tali. L’esperienza umana è

sempre strutturata; riflessione o contemplazione

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comincia sempre con una già-strutturata immagine del

mondo. Com’è che questa struttura primaria, data

tramite concetti – che sono essi stessi dati – arriva

anteriormente ad ogni attività cognitiva auto-cosciente?

Questa domanda fa volgere la nostra attenzione al

terzo “dato” fondamentale, e cioè il linguaggio. Il

linguaggio ci insegna a capire i segni e simboli dati in

modo discontinuo, ossia a pensare in concetti e percepire

particolari discreti, e quindi la strutturazione in genere.

Anche se il linguaggio ci appare un fenomeno

percettivo, esso può essere trasparente e comprensibile

tanto quanto il pensiero. Il linguaggio consiste di

acustiche percettibili o di segni ottici di nostra

comprensione. La comprensione (significato) è la parte

nascosta del linguaggio. Essa non appare nel mondo

percettivo ma avviene – tramite intuizione – nello

spirito umano. La realtà o totalità del linguaggio

include sia i segni che la loro comprensione; nessuno dei

due è in sé la realtà del linguaggio. Il linguaggio unisce

in sé gli elementi cognitivi della realtà percettiva che

altrimenti apparirebbero separati. Quando non li

capiamo, i “segni” non sono segni ma rimangono

semplici oggetti di percezione che ci possono lasciar

perplessi. Essi sono segni solo quando significano

qualcosa oltre a sé stessi. Quando li capiamo, il

significato che capiamo assorbe il segno; come oggetti di

percezione, essi diventano superflui e non interessanti.

Voci, parole; la forma, misura, struttura, e i materiali

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2 – Il Dato 39

delle lettere – tutti questi scompaiono come oggetti di

percezione: essi vengono dissolti e letti.

Nei bambini, il linguaggio induce all’unisono, in modo

monistico ed indiviso, i primari percepire e pensare, i

quali rimangono uniti fino a che il pensiero non si

emancipa dal linguaggio. I bambini imparano la loro

prima lingua, la loro madre lingua, “monisticamente”.

Non impongono solo “nomi” ad oggetti e significati,

come ritengono i nominalisti e i pensatori ingenui.

Piuttosto, il linguaggio – e i concetti che fornisce –

struttura i mondi interno ed esterno in oggetti,

fenomeni, e significati. Il linguaggio umano, che è

sempre discontinuo e consiste di suoni, parole, e frasi,

struttura la nostra facoltà di comprensione, rendendola

umano-terrestre – e cioè, discontinua e concettuale.

Perciò il mondo ci viene “dato” già strutturato in

particolari discreti come un testo, e gli esseri umani

diventano pienamente umani solo imparando

gradualmente a “leggere assieme” questi particolari.

Il destarsi della nostra prima lingua avviene molto

diversamente dall’apprendimento di una seconda lingua.

Imparare una seconda lingua è un processo dualistico

perché abbiamo già dato significati nella nostra (prima)

madre lingua, e quindi impariamo semplicemente le più

o meno corrispondenti espressioni nella seconda lingua.

Il primo linguaggio crea i significati che nella seconda

lingua vengono “nominati”. Infatti, questo processo

reinforza l’impressione che il mondo sia fatto

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nominalisticamente in quanto dimentichiamo

facilmente che possiamo percepire una cosa solo se ha

già un significato, solo se è già definita da un concetto.

Anteriormente al primo linguaggio, o lingua madre, non

c’è niente che possa essere nominato.

Nella fase “energetica” (Wilhelm von Humboldt)

dell’evoluzione del linguaggio, nella quale il linguaggio

struttura il mondo, pensiero e linguaggio sono ancora uno

e lo stesso. Finché questa situazione permane, il mondo

percettivo non può divenire indipendente dal

linguaggio; oggetto, parola e concetto sono indivisi. Ciò

si trova riflesso in numerose tradizioni che descrivono la

creazione del mondo tramite la Parola divina[Verbo

divino]: l’idea è pronunciata e la creazione da inizio

all’esistenza. In questo stato di coscienza il mondo

percettivo è come una continuazione, o una parte, del

linguaggio. Quindi, a questo stadio del linguaggio non ci

sono perplessità: non ci sono ancora altri concetti affianco

a quelli dati, forniti dalla lingua, che strutturano il

mondo. In questo stato d’innocenza, le domande non

possono ancora essere poste.

Generalmente le domande – e con le domande, la

scienza – sono possibili solo dopo che il pensiero si è

emancipato dal suo istruttore, il linguaggio. Questa

emancipazione ha luogo nell’epoca dell’anima cosciente.

In tempi precedenti, la ricerca scientifica era privilegio

di pochi individui scelti, precursori della nostra epoca,

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2 – Il Dato 41

che in parte hanno spiegato e previsto la struttura

dell’anima cosciente.

Ad eccezione di quest’élite, che anticipava gli stadi

successivi di sviluppo, tutto veniva ancora dato alle

persone a questo stadio primitivo dell’evoluzione della

coscienza. Oggi il mondo ci viene dato in modo diverso.

Nella fase più sognante della coscienza, le persone

sentivano come dati anche i processi cognitivi che si

sono ora spostati nell’ambito del superconscio. Il dato di

cui siamo oggi coscienti sta nel piano dei pensieri finiti,

delle percezioni finite; ossia nel piano del passato. In

tempi primordiali questo piano era considerato essere

semplicemente il punto finale del mondo sperimentato,

dato. Oggi comunque, gli impulsi dal subconscio, che

sono tutti distruttivi per la nostra vita d’animo, si sono

uniti a questi finiti pensieri e percezioni. Questo è il

campo del quale si occupa la psicologia (vedi capitolo 8).

Riguardo ai Concetti

Il termine “pensiero” copre molte e molto diverse

attività di coscienza. La conquista più grande del

pensiero è l’afferrare intuitivo, o comprensione di una

nuova idea, un nuovo concetto – “nuovo” nel senso che il

pensatore lo sta pensando per la prima volta. Ogni vera

comprensione è nuova.

La contemplazione ci rivela immediatamente che non

possiamo facilmente dire che cosa sia un concetto. Per

far ciò dovremmo utilizzare concetti – la cosa stessa che

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vogliamo descrivere – in tal modo assumendo che già

“sappiamo” praticamente che cosa sia un concetto.

Diveniamo quindi consapevoli che la maggior parte dei

concetti ci sono dati già quando iniziamo a dirigervi la

nostra attenzione e non sono formati tramite la nostra

riflessione cosciente. I concetti rappresentano un’abilità,

anziché una conoscenza. Quest’abilità si rivela nella

nostra capacità di riconoscere come tale ogni tavolo,

sedia, matita, e così via, una volta che ne abbiamo

compreso il corrispondente concetto funzionale. Per

esempio, quando usiamo il coperchio tastiera [cilindro]

di un pianoforte come superficie per scrivere o per

mangiare, ci rendiamo conto che il coperchio è ora

utilizzato come un “tavolo”. Una penna può essere

utilizzata come arnese per trafiggere, diventando quindi

un punteruolo. Produrre il puro concetto di un oggetto

artificiale, non è comunque così facile. Per far ciò

dovremmo riprodurre la comprensione che ci permette

di identificare come tali tutti i tavoli e tutti gli oggetti

che possono funzionare o servire da tavoli. Far ciò

equivale a capire la funzione di un tavolo; o è il risultato

di questa comprensione. Quest’abilità è superconscia,

come lo sono tutte le altre specifiche abilità umane,

come il pensare, il parlare, il percepire, e i movimenti

intenzionali. Noi non sappiamo come li facciamo.

Nell’educare la coscienza, il fine dell’esercizio di

concentrazione o controllo dei pensieri serve

precisamente a condurci a questa comprensione

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2 – Il Dato 43

intuitiva, alla riproduzione del concetto puro – la

riproduzione cosciente di ciò che abbiamo imparato

inconsciamente nell’infanzia. Quindi, da questa prima

informazione ci rendiamo conto che i concetti sono

intuitivi – che, in contrasto con le immagini mentali o

rappresentazioni, essi non possono essere ricordati.

La seconda scoperta rivela la distinzione tra concetto e

parola. Per gli adulti la linea che li separa è chiara e

distinta. Una parola designa qualcosa che capiamo o che

abbiamo compreso in una lingua. Possiamo facilmente

capire la funzione di un oggetto, come ad esempio, un

paio di forbici, senza nominare l’oggetto. Questa

distinzione tra parola e concetto è oggi facile da

comprendere; comunque, prima della possibilità

dell’anima cosciente, essa non poteva essere afferrata

perché allora il pensiero non era ancora emancipato dal

linguaggio.

Ciò vale ancora per i bambini piccoli – per loro,

linguaggio e pensiero sono intrecciati. Distinguere tra

concetto e parola richiede di essere in grado di guardare

alla coscienza. Un’immatura riflessione potrebbe

ricavare falsamente la distinzione tra concetto e parola –

non tra concetto e parola, ma tra cosa e parola – non

realizzando che solo il suo concetto rende una cosa

questa cosa. E quindi nasce il nominalismo. Una cosa

viene raffigurata senza il suo concetto, e la parola è

ritenuta identica al concetto. Quindi il nominalismo

assume che il concetto sia solo un nome, un modo di

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nominare un oggetto. Non si nota che possiamo

nominare solo qualcosa che abbiamo prima afferrato

concettualmente. Il nominalismo ha introdotto nel

regno del pensiero umano l’idea che le cose possano

esistere senza concetti. Questa è precisamente una

inconcepibile, impensabile idea, ma che ha decisamente

influenzato non solo le scienze naturali (e tramite esse, le

altre scienze), ma anche l’intero pensiero Cristiano

Occidentale. Questo pensare è divenuto così abituato a

“pensare” l’impensabile che i criteri di pensabilità ed

auto-evidenza sono stati perduti. Soprattutto, ciò che è

stato perduto è l’esperienza del comprendere, del

pensiero-intuizione come essenza del concetto.

Anche una seconda fonte di nominalismo può essere

oggi trovata piuttosto facilmente. Basti comparare le

funzioni di oggetti artigianali con le cose ed i fenomeni

in natura. Possiamo comprendere le funzioni di tali

oggetti fatti dall’uomo, e perfino concetti matematici e

geometrici che ci sono trasparenti, ma la nostra

relazione con le cose e i fenomeni in natura è molto

diversa. Non siamo a conoscenza delle loro idee

costitutive o funzionali. Le “funzioni” del feldspato, dei

gigli, o delle tartarughe ci sono sconosciute, ed abbiamo

imparato a non chiederle ulteriormente. Classifichiamo

ed identifichiamo le cose della natura secondo le loro

caratteristiche esteriori. Per esempio, le piante con un

certo numero di sepali e stami nei loro fiori

appartengono alla famiglia delle Rosacee, rose. Non

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2 – Il Dato 45

comprendiamo funzionalmente che cosa ciò significhi e

non possiamo essere certi che le stesse caratteristiche

appartengano sempre alla stessa funzione. Il nostro

modo di procedere in riguardo agli oggetti naturali è

simile a classificare pezzi di fornitura secondo il numero

di gambe o di porte, indifferentemente dal loro scopo. In

altre parole ci riferiamo alla natura in modo veramente

nominalistico. I concetti degli oggetti naturali sono per

noi semplici termini collettivi derivati da attributi

esterni, o – più precisamente – sono rappresentative

immagini mentali universalizzate. Senza dubbio “lupo”,

”rosa”, ”cristallo di quarzo”, e così via, sono veri

universali: non abbiamo ragione di assumere che essi

vengano ad esistere senza concetti, quando sappiamo

per certo che nemmeno un bottone può essere fatto

senza un concetto. Ad ogni modo, oggigiorno le persone

sono incapaci di afferrare le vaste, viventi, e senzienti

idee dei fenomeni naturali, almeno non senza

un’educazione della loro coscienza.

Quindi, negli universali – le idee della natura – siamo

posti di fronte a qualcosa che non possiamo afferrare;

inizialmente i nostri poteri di coscienza non bastano per

afferrarle. Le idee degli oggetti naturali sono troppo

chiare, troppo accecanti, per essere comprese dalla

coscienza dialettica. Comprenderle ci richiede di essere

in grado di “leggere il libro della natura”.

La comprensione funzionale dev’essere distinta

dall’identificazione di una cosa in base alle

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caratteristiche esterne o immagini mentali. Se

trascuriamo questa distinzione, falliamo di notare che

non abbiamo concetti adeguati per la natura, ma solo

immagini mentali che ci aiutano ad orientarci secondo la

superficie esterna dei fenomeni. L’affermazione “Questa

è una colombina” sta a dire che l’apparizione della

pianta combacia con ciò che conosciamo essere

caratteristico delle colombine. Ciò nonostante, vediamo

o percepiamo fenomeni solo perché abbiamo concetti;

comprendiamo le caratteristiche esterne e le qualità

della pianta – come colore, forma, dimensione, numero

di stami – concettualmente. Questi concetti

rimpiazzano, per così dire, i concetti del fenomeno

naturale e ci permettono quindi di categorizzarlo ed

identificarlo. Sono ancora dei semplici concetti

sostitutivi, e non le idee funzionali o creative che

corrispondono a, e sono, l’essenza del fenomeno.

Siccome le caratteristiche esterne dei fenomeni naturali

sono così chiaramente “super-ficiali”[“sopra la

superficie”], la nostra comprensione dei concetti si è

falsificata. Ci siamo dimenticati che i concetti

consistono prima di tutto, e nella loro essenza, di

comprensione. Cerchiamo quindi l’essenziale del concetto

nella direzione dell’astrazione. Le caratteristiche e le

proprietà “essenziali” e “comuni” degli oggetti di

percezione vengono derivate dall’oggetto individuale

tramite astrazione. L’astrazione comunque presuppone

la conoscenza del concetto. Determinare le “comuni ed

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2 – Il Dato 47

essenziali” caratteristiche – in altre parole,

“selezionarle” al di fuori –, e quindi definire o limitare

gli oggetti individuali sotto considerazione, richiede una

regola. Questa regola è il concetto.

Questo modello di astrazione dei concetti enfatizza la

loro generalità, in contrasto col particolare oggetto

individuale di percezione. Mentre gli universali dello

scolasticismo – che sono idee basate sulla comprensione

– possono esprimersi nei particolari come universalia in

re, il concetto astratto, d’altro canto, può difficilmente,

se non per niente, essere visto nell’oggetto individuale;

nemmeno l’afferrare altri dettagli individuali ci può

aiutare. Per esempio “verde” come concetto astratto

non può includere una percezione particolare di verde;

ma “verde” come universale compreso intuitivamente,

contiene tutte le sfumature del colore. Per insegnare ai

bambini che cosa sia il “verde”, non necessitiamo

assolutamente di mostrare loro tutte le sfumature del

colore. Una volta che il bambino ha afferrato l’idea del

“verde” tramite un solo verde, quel bambino potrà

identificare correttamente tutte le sfumature di tale

colore “verde” senza doverci pensare – un’esperienza

sulla quale torneremo più avanti.

Più consideriamo i concetti come astrazioni, più

sembreranno mancare in essenza, comparati con i

particolari concreti che percepiamo. Questa tendenza è

rinforzata dall’esistenziale, carattere d’“essere” della

percezione, che contrasta nettamente con l’irrealtà dei

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pensieri e concetti finiti. I pensieri sembrano così

indipendenti dalla realtà che possiamo pensare o

immaginare assolutamente qualsiasi cosa, quando e

dove ci pare. La percezione, d’altro canto, può occorrere

solo nel presente momento: una verità che è un gran

rompicapo (puzzle) per l’epistemologia. La discuteremo

nel capitolo 5.

La considerazione di come procedere quando vogliamo

capire qualcosa ci rivela la differenza tra gli oggetti fatti

dall’uomo e i concetti della natura. Per esempio, quando

vogliamo capire i concetti “suola da scarpa” o “penna a

sfera”, proviamo a comprendere le funzioni di questi

oggetti. Non iniziamo con l’analizzarli; siamo interessati

nelle parti componenti e materiali solo quando vogliamo

produrli. Quando abbiamo a che fare con oggetti

naturali, invece, procediamo nell’altra direzione, prima

analizzandoli, se possibile fino al particolare più minuto.

Nella maggior parte dei casi, non ci interroghiamo

nemmeno sulla funzione di questi oggetti naturali. In

ogni caso, l’analisi non ci può dire cosa alcuna riguardo

la loro funzione. Infatti, abbiamo così completamente

dimenticato di considerare lo scopo o il significato degli

oggetti in natura, che consideriamo una loro descrizione

matematica come vera comprensione di tali oggetti. Ciò

è come provare a capire una pagina di testo

determinando matematicamente la posizione dei punti

bianchi e neri nella sua superficie piuttosto che col

leggerla.

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2 – Il Dato 49

La differenza tra la comprensione dei concetti di

oggetti artigianali e quella dei concetti di oggetti

naturali si nota raramente. Interpretiamo come

mancanza di concetti l’incomprensibile aspetto degli

oggetti naturali, e confondiamo idee più alte con ciò che

è privo di idea. Questo ci porta a risultati catastrofici

nella nostra vita spirituale, che possono essere riassunti

come segue:

1. La natura dell’idea, del concetto, è stata fraintesa; ed

il fatto che essa sia basata sulla comprensione è stato

dimenticato.

2. La nozione impensabile – il non-pensiero – della

materia “senza proprietà” (Giordano Bruno), capace

di agire come portatore di svariate proprietà, è stata

introdotta: la materia senza forma, l’essere senza idea.

Questa nozione perseguita ora la filosofia e le scienze

in molte forme – come la cosa-in-sé, come il

subconscio e l’inconscio, come il fondamento del

mondo e della coscienza, come particelle elementari

senza qualità, e così via. A causa di tutto ciò,

immaginiamo il mondo percettivo ed i suoi elementi

in quanto privi di concetto.

3. La nozione che i concetti sorgono con l’astrazione

conduce all’opposizione delle loro generalità con le

qualità concrete – presumibilmente prive-di-idea –

delle cose separate.

4. La comprensione, fondamento di tutte le teorie, nella

sua essenza assoluta ed irriducibile, è stata messa in

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riserva – o abbiamo postulato vari meccanismi per

spiegarla. La causalità meccanica è divenuto il solo

principio di spiegazione.

5. Invece di interpretare i fenomeni come lettere da

leggere, l’analisi è stata definita come il solo metodo

cognitivo giustificato.

6. Le contraddizioni intrinseche dei cinque sviluppi

sopra elencati ostruiscono la sana circolazione della

vita della nostra coscienza allo stesso modo in cui

occlusioni impenetrabili prevengono il libero scorrere

del sangue nel corpo. Come risultato, il nostro

pensiero e le nostre facoltà cognitive non sono più

sani. I sintomi più ovvi di questa afflizione sono

teorie e pensieri che si cancellano l’uno con l’altro, ed

il nostro mancare di notare ciò. Esempi di tali pensieri

sono: “il pensiero è soggettivo”, “il pensiero è un

meccanismo o un processo naturale”, o “la coscienza

umana è determinata”.

Il Dato e l’Attività dei Sensi: Istruzioni dei Sensi

Siccome la coscienza riflessa è una coscienza pensante,

ogni cosa in essa è permeata con concetti. In questo

stato di riflessione cosciente siamo perlopiù svegli. Ad

ogni modo, non stiamo sempre a riflettere, e troviamo

quindi, in un esame in retrospettiva, eventi che non

sembrano permeati di concetti, come ad esempio gli

stati d’animo, le emozioni, l’inquietudine, e così via.

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2 – Il Dato 51

Quindi, a fianco o sotto la coscienza pensante di veglia, i

cui contenuti sono ricordati dall’Io, si può percepire un

secondo, senziente livello di coscienza, tuttavia solo

semicosciente e più sognante. I contenuti di questo

secondo livello eludono la presa dell’Io auto-cosciente.

Ciò nonostante, finché un certo contenuto di coscienza è

un QUELLO distinto – anche se raggiunto tramite

percezione [includendo la percezione interiore],

rappresentazione mentale o pensiero – esso è sempre

intessuto di concetti. Senza concetti non ci sarebbe

QUELLO, perché non potremmo distinguerlo dal suo

ambiente. I concetti separano QUELLO dal suo

ambiente, rendendolo disponibile per la percezione

esterna o interna.

Anche se solo ciò che è concettuale può entrare la

coscienza pensante, questa stessa coscienza – in

flagrante auto-contraddizione – fa appello all’esistenza

di cose non concettuali e prive di idea. Le cose non

concettuali sono state inizialmente “scoperte” nella

sfera della percezione sensibile; successivamente sono

state trasferite ad una sfera “trascendentale” cosmica,

oltre la portata della coscienza pensante. Ne risultarono

dei costrutti di pensiero intrinsecamente auto-

contradditori – nessuno ha mai effettivamente visto una

“cosa-in-sé” o il “subconscio” – i quali pure avrebbero

dovuto essere verificati dal pensiero. Questa

contraddizione, verificare costrutti non-ideali tramite

pensiero, già contiene suo proprio verdetto.

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Guardiamo ora più da vicino il campo delle percezioni

sensoriali.

Possiamo percepire grazie ai nostri dati sensi. Questi

consistono di un organo di senso – che può essere

localizzato pressappoco nell’organismo – ed una

organizzazione di coscienza, che è educabile, e senza la

quale gli organi di senso non funzionano. La coscienza

fornisce la parte concettuale alla percezione sensoria –

sia per esempio nella percezione del colore in un

bambino, che nel darsi [nella datità] di particolari o

individuali oggetti di percezione. Senza questa

contribuzione – come si è visto quando abbiamo

artificialmente rimosso tutti i concetti in un esperimento

di pensiero – ci rimane solo un indifferenziato

continuum.

Come adulti, riceviamo dai sensi – come materiale

grezzo per il pensare – una figura consistente di

particolari. Questa figura è già strutturata

concettualmente prima che inizi una qualsiasi attività

corrente di pensiero. Infatti, si può osservare che quando

gli adulti percepiscono qualcosa con la quale sono

abbastanza familiari, la riconoscono “semplicemente ed

immediatamente” per quella che è – per esempio, come

tavola o matita – senza pensiero o memoria. Ad ogni

modo, se, per esempio, non conosciamo il concetto

funzionale “tavolo”, e non lo sviluppiamo sulla base

della percezione, non vediamo un tavolo, ma solo una

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2 – Il Dato 53

legnosa superficie liscia con gambe e così via – a

condizione di almeno conoscere questi ultimi concetti.

Già Descartes aveva osservato che gli adulti

percepiscono concettualmente. Tuttavia, come nel caso

sopra, dei concetti sostitutivi nascondono questo fatto

quando prendono il posto dei concetti mancanti – come

per esempio quando qualcuno descrive una forchetta

come “un pezzo di metallo con quattro punte

all’estremità”. Ovviamente, dobbiamo distinguere tra

percezione di – come attività che può condurre ad una

esperienza dell’Io – , e la semplice reazione emotiva

(esperienza astrale) a, una qualità sensoriale o un

oggetto (vedi capitolo 5).

Rudolf Steiner descrive i sensi come organi fisici e

spirituali tramite i quali “si ottiene un’intuizione senza

la partecipazione di intelletto, memoria, eccetera”.

Ovviamente l’”eccetera” si riferisce qui ad ogni

intenzionale e corrente attività della coscienza.

L’intuizione o la conoscenza ottenuta tramite i sensi è

quindi “semplice ed immediata” e “precede ogni

valutazione o giudizio; è una sensazione proprio come

colori e calore sono sensazioni”.

Le intuizioni(cognizioni) tuttavia, sono sempre

intessute con concetti, come abbiamo visto nel semplice

esempio che abbiamo dato. Conseguentemente, i sensi

stessi devono essere concettualmente educati così da

poter produrre intuizioni, giacché tutte le attività

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correnti della coscienza, includendo la memoria, sono

escluse dalla pura attività dei sensi.

E’ molto difficile per le persone oggi che, consciamente

o inconsciamente pensano materialisticamente, capire

che: persino le qualità sensorie non possono essere

percepite senza concetti. Tuttavia, l’osservazione ci

fornisce di prove sufficienti a questo scopo. Abbiamo già

discusso come i bambini imparano a distinguere i colori.

Quando istruiamo i bambini handicappati sulla

levigatezza o ruvidezza di una superficie facendogliela

toccare, non stiamo “istruendo” le loro dita, ma stiamo

istruendo loro nella formazione di concetti. Come sanno i

terapeuti della dialettica, ai bambini che non possono

riprodurre un suono dialettico, o che lo possono fare solo

incorrettamente (blesità), deve prima essere insegnato a

sentire questo suono accuratamente e correttamente.

Essi sentono il suono correttamente non a causa di

qualche cambiamento nel loro organo sensorio (le loro

orecchie), ma perché afferrano la configurazione del

suono. Separano cioè concettualmente il suono dalla sua

forma, il suo tono, e le sue ulteriori qualità, afferrando

quindi il carattere specifico che differenzia un suono da

tutti gli altri.

Questa componente concettuale della percezione è

anche più pronunciata nell’esperienza

dell’identificazione dei colori, come nell’esempio già

citato. Una volta che abbiamo afferrato il concetto

“verde”, possiamo identificare verdi tutte le gradazioni

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2 – Il Dato 55

varianti di questo colore, senza ricorrere ad immagini

mentali o memoria, che sono state date in precedenza, e

non ci potrebbero quindi aiutare a riconoscere nuove

gradazioni di verde che non abbiamo mai visto prima.

Chiaramente, anche se i bambini incontrano per la

prima volta il funzionale concetto “tavolo” in un piccolo

tavolo rotondo ad una gamba, color marrone, e di

altezza media, potranno nonostante ciò, essere in grado

di identificare, come tavolo, anche uno in metallo, con

gambe incrociate, grande, rettangolare, con disegno

moderno. Se provassero a comparare il secondo tavolo

con l’immagine ricordata del primo, sarebbero in effetti

fuorviati.

La nostra abilità di differenziare internamente ad un

campo qualitativo (ad esempio nel campo del colore,

tramite il senso della vista), significa che questo campo

qualitativo può essere strutturato concettualmente, e

che il senso in questione ha integrato intuitivamente

questi concetti. Lo stesso vale per la differenziazione tra

più campi qualitativi. Senza apprendimento

concettuale, tale differenziazione è impossibile, e

restiamo al livello di semplice reazione sensitiva.

Come possiamo sperimentare nella percezione dei suoni

dialettici, i tre sensi superiori – il suono- o senso-parola;

il concetto- o senso del pensiero; ed il senso del tu- o

dell’Io (il senso per un altro essere-Io) – apprendono solo

idee pure. Gli altri sensi (quello dell’udito per esempio)

forniscono il “materiale grezzo” per i sensi superiori.

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Questo materiale grezzo è quindi (nel caso del senso

dell’udito) processato dal senso del suono (senso-parola,

senso per la forma acustica di un movimento), che a sua

volta passa il prodotto della sua attività al senso del

pensiero, e così via.

Chiaramente, i sensi superiori devono essere istruiti a

percepire le specifiche proprietà umane per le quali essi

sono i sensi. La loro funzione è puramente ideazionale.

Essi vengono “indirizzati” quando impariamo a parlare,

ed il loro spirituale organismo di senso viene sviluppato

per mezzo di questa istruzione. Come risultato, essi sono

in grado di percepire suoni, concetti ed essenze-Io

“semplicemente e direttamente”, come una sensazione.

L’istruzione procede dalla attività dell’Io. Nuovi suoni,

nuovi pensieri, nuovi esseri-Io, sono sempre riconosciuti

come tali dalle intuizioni correnti, dall’attività della

coscienza. Inizialmente, le nuove percezioni non sono

affatto “semplici e dirette” per questi sensi, come

possiamo chiaramente vedere nell’esperienza dei

bambini ed anche degli adulti quando, per esempio,

imparano una lingua straniera. I suoni, i concetti, e le

percezioni-Io che già sono radicati nella nostra

coscienza, assieme alla nostra esperienza e competenza

nell’apprendere idee in queste aree, ci aiutano ad

assorbire il nuovo.

Il nostro essere-Io istruisce anche gli altri nostri sensi e

li fornisce di concettualità, così che, nell’attività

sensoria, i sensi possono percepire “concettualmente”.

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2 – Il Dato 57

Come adulti, ciò vale anche per i particolari che

percepiamo senza avere per essi una parola o un nome.

Per esempio, vediamo dei solidi totalmente irregolari o

forme bidimensionali in modo qualitativamente simile a

quello con cui percepiamo sfere o cerchi.

Significativamente, ciò non è il caso nei bambini; essi

vedono e ricavano in maniera semplificata a seconda dei

concetti che già hanno acquisito.

La nostra difficoltà nel capire che i (precoscienti) sensi

istruiti percepiscono concettualmente: è soprattutto

dovuta al fatto, già discusso, che ci relazioniamo

diversamente con gli oggetti fatti dall’uomo da come ci

relazioniamo coi fenomeni naturali. Anche le qualità

sensorie appartengono alla classe dei fenomeni naturali;

i loro “concetti” sono semplicemente una pallida

riflessione del loro significato o messaggio, che non può

essere concepito dalla quotidiana coscienza. Tratti della

loro altà idealità appaiono nelle arti. Ma non dobbiamo

dimenticare che ogni cosa che è nominabile è definita e

determinata da una idea. Senza dubbio, siamo soliti ad

immaginare solo gli oggetti fatti dall’uomo in questo

modo. Ciò nonostante, anche ogni oggetto naturale

esemplifica questo fatto di determinazione con idea. Ad

esempio, non “comprendiamo” l’idea del giglio –

l’apparenza della pianta non è fissa una volta per tutte,

ma cambia con le stagioni, il tempo, la qualità del

terreno – ma la specie è fissa, non cambia. Questa idea

della specie è qualitativamente diversa da quella della

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“tazza”, in parte perché la prima è vivente. Quando

riconosciamo una pianta come giglio non è per via della

idea funzionale, che non conosciamo, ma per via dei

concetti sostitutivi (forma, colore, odore); o anche,

quando ci troviamo di fronte ad una varietà eccezionale

di giglio, possiamo comparare attentamente la nostra

percezione con la nostra immagine mentale; per

esempio, compiamo solitamente tale paragone quando

raccogliamo funghi in un bosco. Tra questi due casi

estremi – riconoscimento [ri-cognizione] sulla base di

concetti funzionali o riconoscimento sulla base di

concetti sostitutivi ed immagini mentali – si trova uno

spettro continuo di processi sensoriali nei quali la

rappresentazione mentale supplementa l’attività

sensoria.

I sensi intermedi funzionano in modo specificamente

umano, in quanto non reagiamo semplicemente a colori,

suoni, odori, e così via, ma comprendiamo piuttosto le

nostre percezioni come esperienze dell’Io, che possono

quindi divenire le basi per il giudizio nell’Io. Questo

funzionamento specificamente umano dei sensi

intermedi, è dovuto alla loro istruzione, il loro bagaglio

concettuale, che li rende ricettivi ad ogni cosa

similparola.

I nostri sensi, comunque, non funzionerebbero senza la

nostra attenzione specificamente umana – una

attenzione che può presenziare ad un mondo percettivo

similparola concettualmente strutturato, in quanto i

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2 – Il Dato 59

concetti fondamentali che strutturano le qualità

sensorie, assieme ad altri concetti, ci sono stati instillati.

Infatti, questi concetti che strutturano il campo

qualitativo di un particolare senso, appartengono

all’organismo sensorio. Dopo che i sensi sono stati

istruiti, essi ricevono le percezioni in quanto date.

Nell’esperienza o pratica delle arti, ciò ci colpisce come

in nessun’altra situazione. Qui, la nostra attenzione è

come il respiro che fluisce in uno strumento a fiato; esso

assume la configurazione dell’aria secondo il comando

del suonatore. Allo stesso modo, a seconda di come sono

stati istruiti i sensi, la configurazione dell’attenzione è

formata diversamente in ognuno di essi.

Senza istruzione, senza essere instillati di concetti, i

sensi sono “sensi per” le qualità; essi rappresentano la

possibilità di reagire a colori, suoni, e così via, e la

possibilità di essere istruiti. L’educazione dei sensi

realizza il nostro potenziale di percepire colori, suoni,

gusti e così via, in maniera umana. Un bambino piccolo

è ancora interamente un organo di senso – il campo

percettivo non è ancora suddiviso in dodici bande, o

fasce discontinue senza transizione tra esse. Questa

divisione dei campi percettivi nasce con l’ambiente

umano parlato, anche se, eccetto nel caso dei sensi

superiori, questa divisione è in parte predeterminata

dall’organismo. La fabbrica del mondo sensibile è per

così dire “intessuta”: inizialmente viene introdotta

l’orditura dei concetti più alti delle qualità sensorie;

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quindi la trama di altri concetti di oggetti e fenomeni

viene ad essa aggiunta.

Afferriamo solo la parte concettuale del nostro mondo

percettivo. Che la natura in sé sia un costrutto ideale, e

che la fabbrica del mondo sensorio sia in effetti

strutturata come un testo – o che semplicemente

consista di cose piuttosto che di segni – diverrà chiaro

quando discuteremo l’idea della realtà più

dettagliatamente.

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3 – Prima strutturazione del Dato 61

3 – Prima strutturazione del Dato

La data figura interiore ed esteriore del mondo si

presenta come già strutturata alla riflessione-di-sé

[l’auto-riflessione] – cioè permeata con concetti: la

vediamo costituita in particolari. Anche le funzioni

cognitive della coscienza esistono di già quando

voltiamo la nostra attenzione verso di esse. Abbiamo

chiamato superconscio la sorgente di queste funzioni, in

modo da distinguere la sorgente della cognizione dal

subconscio, che consiste, nell’anima, di elementi

noncognitivi.

Le due sfere di superconscio e subconscio – entrambe le

quali sono inconsce – sono spesso confuse nelle

discussioni psicologiche, o considerate identiche nella

loro sorgente, segno della nostra incapacità di

distinguere spirito ed anima. Il superconscio è la parte

spirituale dell’anima.

La riflessione non solo trova il contenuto del mondo

strutturato, ma trova anche l’essere umano nella sua

esistenza strutturato in modo tale che il mondo si dà

nelle dualità. Per esempio, la riflessione si ritrova un

mondo consistente di particolari; come percettori, ce lo

troviamo davanti e in opposizione. Similmente, nel

nostro essere troviamo esperienze interiori, pensieri, e

concetti, e fintanto che le “troviamo”, sentiamo la

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presenza di un soggetto di fronte a questo “preesistente”

mondo interiore – quanto meno occasionalmente. Non

appena facciamo esperienze, queste si strutturano e

contengono confini, dettagli, unità.

Se svestiamo la nostra data figura del mondo di tutti i

concetti, ciò lascerebbe solo un continuum

destrutturato, che non potrebbe più essere chiamato

esperienza.

Simultaneamente comunque, la separazione di

soggetto ed oggetto scomparirebbe. Il termine

“soggetto” si riferisce qui semplicemente al luogo

dell’esperienza; sia pensiero che percezione forniscono il

soggetto di qualcosa di universale ed intersoggettivo.

Negare ciò relativamente al pensare sarebbe ingenuo ed

auto-contraddittorio. Perfino la percezione è soggettiva

solo in quanto i diversi ed unici punti di vista di

individui differenti in relazione all’oggetto – le loro

diverse capacità sensorie, assortimento di concetti e

diverse capacità di concettualizzare – influenzano la

figura data. Ciò nonostante, non ci può essere alcun

dubbio che viviamo in un mondo percettivo condiviso.

Infatti, non possiamo nemmeno discutere questo dubbio,

perché tale discussione ed il suo contenuto

presuppongono un mondo percettivo condiviso. Per la

stessa ragione comunque, non possiamo dire con

assoluta certezza se le qualità sensorie che percepiamo –

per esempio, i colori che vediamo – siano gli stessi che

qualsiasi altro percepisce.

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3 – Prima strutturazione del Dato 63

Formulazione della Domanda

La nostra organizzazione sensoria e spirituale

determina la struttura del dato che percepiamo.

Questa stessa organizzazione ci causa anche

l’esperienza del dato scisso nella percezione separata in

soggetto ed oggetto in modo tale che consideriamo la

nostra vita interiore – di pensare, sentire e volere – come

parte del soggetto, ed il mondo percettivo come parte

dell’oggetto. La distinzione è, naturalmente, non esatta,

ma può essere accettabile per lo scopo della presente

discussione.

Il nostro mondo interiore è strutturato similmente nel

suo darsi. Naturalmente, quindi, dobbiamo chiederci

come sia nata questa struttura preesistente, senza la

quale non sperimenteremmo cosa alcuna in modo

cosciente. Ci dobbiamo anche chiedere che significato

abbia la nostra umana “organizzazione” e quale sia il

suo fine.

La struttura del Trovato, o Dato

Se guardiamo più da vicino a realtà interna ed esterna

per come è data, troviamo che ognuna consiste di

particolari discreti, cose, fatti, e processi, oltre alle

connessioni e relazioni tra i particolari. Senza eccezioni,

questi particolari sono distinti e contrastati l’uno

dall’altro e dal loro ambiente o sfondo, per mezzo di

concetti. Le relazioni tra i particolari sono tutte tali che

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non appartengono alla sfera percettiva. Ad esempio, le

qualità caratterizzate da aggettivi – come piccolo,

grande, simile, deforme, qui, lì, e così via – sono delle

determinazioni puramente concettuali che sorgono dai

particolari percepiti tramite comparazione o altre

attività di pensiero.

Ciò nonostante, tali caratteristiche qualità, come

dimensione e altre, sono per la maggior parte integrate

nei nostri sensi. Cadiamo allora spesso a pensare che esse

siano originali, parti a priori dalla nostra attività

sensoria, e quindi aventi carattere nonconcettuale. Ma

questa visione dovrebbe assumere un presente

raffigurare mentale, giudizio, o memoria, ogni volta che

percepiamo una cosa – contraddicendo chiaramente la

nostra osservazione che, quando vediamo oggetti

familiari, essi già sono definiti concettualmente.

In ultima, tutti i particolari, perfino quelli che sono

designati da nomi nelle lingue Europee, si dissolvono in

relazioni. Possiamo tracciare il ritorno della nostra

coscienza al “dato diretto” tramite un esempio. Quando

diciamo “Questo albero è più grande di quello”, il

significato dei pronomi “questo” e “quello” non è

definito dagli oggetti che percepiamo, ma dal punto di

vista dell’osservatore, cioè, dalla relazione con gli

oggetti. Potremmo invertire la sequenza dei due

pronomi in questa frase. Analogamente, non vediamo

“più grande”, ma “questo” è invece un “giudizio”

basato sulla comparazione degli alberi nella nostra

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3 – Prima strutturazione del Dato 65

mente. Possiamo arrivare a questo giudizio tanto

“semplicemente e direttamente” quanto vediamo gli

alberi, senza pensarci, perché i concetti sono già

instillati nei nostri sensi. Perfino il modo in cui vediamo

gli alberi, quindi, è determinato da concetti, in quanto

senza il “concetto” albero – qui preso in senso

nominalistico – vedremmo solo rami, tronchi e foglie. Se

non avessimo questi ultimi concetti probabilmente

vedremmo solo forme o diversi punti colorati. Ciò

nonostante, anche queste distinzioni, quando sono fatte

dalla coscienza pensante, sono basate su concetti. Se

spogliassimo la percezione di tutti i concetti non

rimarrebbe alcun particolare discreto o alcuna

distinzione. Troviamo meno difficoltà a capire che altre

relazioni, per esempio quelle di causa ed effetto, sono per

natura concettuali e non percepibili.

Né i discreti particolari, né le relazioni tra loro sono

isolati; infatti, non possiamo nemmeno concepirli come

isolati. Per esempio, non possiamo pensare al “sole”

senza pensare pure al cielo e al percorso del sole

attraverso di esso, alla luce, l’oscurità, il giorno, la

notte, la mattina, il mezzogiorno, e la loro successione

temporale. Lo stesso vale per le relazioni: “quello” va

con “questo”, “sotto” va con “sopra”, “di fianco” con

“destra” e “sinistra”, e così via. Per di più, i particolari e

le loro relazioni sono dipendenti l’uno dell’altro. Per

esempio, in un area dove la causalità meccanica è

principio generale di spiegazione, non ha alcun senso

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parlare di “gentilezza” o “amicizia”, né perfino di

“cognizione” e “comprensione”.

Inoltre, la struttura del dato rivela che esso consiste in

ultima di connessioni e relazioni che devono essere

afferrate alle “giunture” dove hanno intersezione.

Queste “giunzioni” sono i nostri concetti. Da un lato, i

nostri concetti devono avere chiari limiti che

impediscano il loro mescolarsi l’uno con l’altro;

dall’altro lato, questi confini non devono essere troppo

duri, rigidi, o impermeabili, altrimenti la transizione e la

connessione tra i concetti si perderebbe. Discreti

particolari e relazioni formano una struttura

discontinua; altrimenti saremmo incapaci di distinguere

fra loro. Simultaneamente, comunque, queste

discontinuità sono anche mutualmente interconnesse ed

interdipendenti.

Come adulti, la struttura data che percepiamo è

determinata nel corso delle nostre vite, fino al momento

in cui iniziamo per la prima volta a riflettere sul dato –

cioè sull’educazione ricevuta, e sulla nostra famiglia.

Tutte queste influenze formative sono basate sulla

nostra capacità di parlare e possono essere a questa

ricondotte. Quindi, la madre lingua di una persona è la

base per tutte le successive strutturazioni del mondo

percettivo.

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3 – Prima strutturazione del Dato 67

Pedagogia del Linguaggio

La prima strutturazione del dato tramite concetti e

comprensione concettuale viene data ai bambini con la

madre lingua – non solo con la lingua parlata, ma anche

con l’espressivo comportamento “parlante”

dell’ambiente adulto, dietro il quale giace l’abilità

dell’adulto di parlare ed afferrare il mondo e le

situazioni concettualmente. Eccetto per poche rare

situazioni, gli esseri umani comunicano di continuo

tramite gesti, mimi, sguardi, e movimenti.

Dietro l’udibile linguaggio parlato e il comportamento

“parlante” si nasconde il potente aspetto del linguaggio,

ossia, l’intenzione dialettica. Senza questa intenzione

dialettica, che corrisponde alla comprensione

dell’ascoltatore, la parola ordinariamente non avviene.

Quando un bambino impara a parlare, questa realtà

“immateriale” (comprensione) è accessibile direttamente.

Se così non fosse, il bambino non potrebbe comprendere

ciò che ha sentito. Il linguaggio è unico in quanto esso

non è solo percezione, bensì significativa percezione. I

bambini devono afferrare sia percezione che significato

simultaneamente. Questa è la sorgente delle funzioni

della coscienza di percepire e pensare, che vengono

successivamente separate.

Questa caratterizzazione della prima struttura del dato

mostra chiaramente le qualità del linguaggio. Il

linguaggio ha un lato esteriore che è apparentemente

discontinuo, e che corrisponde ai particolari nella

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struttura del dato. Il lato interiore del linguaggio – la

comprensione – connette e comprende queste

discontinuità; essa è in relazione con le connessioni e le

relazioni tra i particolari, ed è infatti la sorgente di

queste relazioni e connessioni.

Questa discontinua strutturazione, come anche la

strutturazione concettuale e percettiva del dato, viene

anticipatamente data dal fenomeno del linguaggio – non

solo come principio (in quanto una parte di esso è

percepibile, mentre l’altra è nascosta dai nostri sensi e

rimane un atto interno di coscienza), ma anche come

concreta struttura delle due parti. Il linguaggio

struttura la nostra coscienza, il nostro pensare, e quindi

anche il nostro percepire. Il linguaggio prefigura

l’unione di percezione e di comprensione; esso è esempio

unico della loro separazione e loro riunione nella

“lettura congiunta”.

Quindi, la prima struttura del dato è foggiata su

modello e struttura interna della nostra madre lingua. Il

pensiero può perciò inizialmente variare assai in stile,

parimenti con la quasi inimmaginabile varietà di

modelli di linguaggio. Anche tra le lingue Europee, le

categorie grammaticali hanno solo una molto limitata

applicabilità. Due frasi costruite in modo molto simile in

una lingua, possono essere completamente diverse l’una

dall’altra in una diversa lingua. Quindi la maniera in cui

pensiamo, la “logica” delle nostre lingue, e l’ammontare

ed estensione di astrazioni e concretizzazioni, si

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3 – Prima strutturazione del Dato 69

differenziano ampiamente. Oggi queste differenze sono

quasi completamente nascoste, non solo perché coloro

che dominano la civilizzazione contemporanea usano

una lingua Indo-Europea, e perché il modo di pensare di

queste lingue si è diffuso in tutto il mondo, ma anche

perché il nostro pensiero si è ampiamente emancipato

dal linguaggio.

Percepiamo noi stessi come soggetti tramite esperienze

interiori, particolarmente tramite l’esperienza del

pensiero. Come l’esperienza della nostra capacità di

parola, queste esperienze interiori sono super-coscienti.

Esse sono colorate ed influenzate dal modo col quale

sperimentiamo il nostro corpo. I processi di pensiero,

comunque, sono anch’essi foggiati su modello della

nostra lingua, che determina sia la separazione tra

soggetto ed oggetto sia la conseguente integrazione del

soggetto nel mondo con l’atto cognitivo. Infatti la

madre lingua influenza persino il modo in cui l’Io prende

possesso del corpo ed inizia ad esprimersi tramite esso.

Dopo tutto, il parlare è anche il risultato di uno sforzo

fisiologico degli organi dialettici, che sono parte del

nostro sistema di movimento. I movimenti dei nostri

organi dialettici sono determinati dalla struttura sonora

della nostra lingua, e dal momento che i movimenti sono

sempre eseguiti dal nostro intero essere, dal nostro

intero sistema di movimento, il linguaggio influenza

perciò il nostro intero essere ed i suoi movimenti. Le

persone inglesi, per esempio, non solo muovono la loro

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lingua e faccia diversamente dai francesi, ma tutti i loro

movimenti e posture del corpo sono differenti. Il nostro

sistema di movimento connette l’Io col resto

dell’organismo; questa connessione, quindi, avviene in

prevalenza tramite il nostro apprendere a parlare.

Quindi il modo col quale sviluppiamo le nostre facoltà

umane da forma alla nostra esperienza e alla percezione

del nostro stesso corpo. Il come dei nostri movimenti di

arti, occhi, e muscoli facciali – sia che questi movimenti

siano intenzionali o ad imitazione di altri – è tanto

superconscio quanto il “come” del nostro parlare e

pensare. Infatti, queste tre facoltà sono strettamente

connesse e sono legate alla nostra postura eretta.

L’uso del linguaggio è spesso paragonato ad un gioco –

un “gioco di parole” – e possiamo estendere questa

analogia al pensiero. Tuttavia c’è una differenza molto

significativa tra questi giochi di parole e tutti gli altri

giochi, per il fatto che non dobbiamo imparare regole del

parlare e del pensare; infatti, queste regole non sono

nemmeno esplicitamente conosciute. Sono invece

acquisite come facoltà superconsce. In tutti gli altri

giochi, le regole devono essere imparate prima di poter

giocare. Tramite questi due speciali “giochi” di pensare

e di percepire, il mondo ci è dato come un ammasso di

discontinuità; e siamo quindi i soli esseri che hanno un

mondo, un’immagine del mondo – precisamente perché

percepiamo le discontinuità in modo strutturato. Senza

l’effetto strutturante dei concetti, che è basato sulla

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3 – Prima strutturazione del Dato 71

struttura discontinua del linguaggio, non troveremmo

nel mondo alcuna tale discontinuità. Tramite i concetti

determinati dal linguaggio – cioè, concetti-parola –

rendiamo il nostro pensare gradualmente indipendente

dal linguaggio e sviluppiamo concetti che trascendono il

Linguaggio. Questa è la precondizione per uno stile di

pensiero che è valido e ottenibile per tutte le persone e

che renderà possibili delle connessioni per tutti valide ed

identiche.

Il fondamento della umana libertà è l’attività di lettura

tra due dati – percezione e concetto – perché l’attività

con la quale questi due vengono “letti assieme” non è

data. Conseguentemente, per il soggetto cognizzante, la

libertà esiste solo in nuove cognizioni, in quanto ciò che

già abbiamo cognizzato e compreso deve essere

considerato parte del dato.

La prima Strutturazione del Dato

Oggi, i dati mondo interiore e mondo percettivo

esterno sono pieni di enigmi; questi enigmi pongono

domande, richiedendo una comprensione che non è data.

Queste domande, che in sé sono forme concettuali,

anticipano le concettuali, ideali risposte. Il dato è

interrogabile per noi quali interroganti e, come abbiamo

visto, interrogare implica delle sue condizioni.

Ci siamo riferiti ai due separati livelli tra i quali la

coscienza può oscillare, che risultano nei due sguardi che

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la coscienza dà al dato. Il secondo sguardo rivela che i

concetti esistenti non sono sufficienti a rendere il dato

comprensibile. Vedremmo in seguito che questa stessa

struttura della nostra coscienza rende possibile

l’emancipazione del nostro pensiero concettuale dal

linguaggio. La transizione ad una coscienza interrogante

e alla interrogabilità del dato, ha richiesto un lungo

processo di sviluppo – i cui risultati sono apparsi solo di

recente, relativamente tardi nella storia umana, nelle

scienze, che sono basate su domande. Ciò significa che la

prima forma del dato non era interrogabile. Profondi

cambiamenti hanno dovuto occorrere nel dato, come

anche nella nostra coscienza – sulla quale il dato è in

parte contingente – prima che potessimo raggiungere il

livello che abbiamo oggi raggiunto.

I concetti strutturano il dato diretto in particolari e

connessioni. I concetti stessi non sono unità distinte, ma

emergono sempre internamente a sistemi di concetti o di

relazioni. Il primo sistema di questo tipo è dato dalla

madre lingua. La risultante prima strutturazione del

dato non è per niente discutibile [interrogabile] perché è

completa. In altre parole, i concetti strutturano

completamente e ininterrottamente il dato percettivo –

nient’altro esiste ancora – in particolari distinti, senza

lasciare alcun vuoto scoperto di concetti.

Possiamo utilizzare un’analogia per meglio

comprendere ciò. Per esempio, immaginiamo una

superficie suddivisa in piccole parti, così che le parti

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3 – Prima strutturazione del Dato 73

coprono l’intera superficie senza lasciare alcun vuoto. I

concetti strutturano (articolano) i particolari fuori dal

dato continuum, mentre contemporaneamente li

ristrutturano (reintegrandoli) dentro il campo unificato

della percezione. Quindi una completa transizione tra

“strutturazione fuori”(distinzione) e “ristrutturazione

dentro”(reintegrazione) è possibile, essendo infatti la

sola possibilità.

Inizialmente, questo tipo di strutturazione si sviluppa

simultaneamente nelle due direzioni perché il nostro

intelletto, che distingue i particolari, e la nostra ragione,

che li riunisce, sono ancora congiunti. Fino a qui,

neanche un mondo interiore esiste; invece, la nostra

attenzione è completamente orientata in una direzione,

che oggi chiamiamo mondo esterno. Discuteremo nel

capitolo 4 sul come pensare questi “concetti”, come essi

simultaneamente strutturino il dato e lo rendano

comprensibile.

Nella prima forma del dato, quindi, le domande non

solo sono impossibili – in quanto non siamo ancora

capaci di distanziarci dall’intero strutturato del mondo

– ma anche innecessarie, perché a quello stadio il mondo

è intero e completo, e consiste solo di particolari che

“spiegano” l’un l’altro ininterrottamente senza lasciare

alcun buco. Il sistema di concetti fornito dalla lingua

struttura l’unificato, dato mondo percettivo. I soli

concetti che conosciamo sono quelli che la lingua ci

fornisce. I sistemi di dialettica e pensiero sono uno e lo

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stesso; con parole di Humboldt, siamo nella fase

“energetica” dello sviluppo del linguaggio. In questa

fase i linguaggi non etichettano semplicemente qualcosa

che già esiste; essi piuttosto demarcano e definiscono

“delle cose”. I concetti indicano dove termina “qualche

cosa”, dov’è il suo confine, in quanto “nel dato non è

effettivamente presente alcuna entità distinta, ma ogni

cosa è in continua connessione”. Quest’affermazione si

riferisce ovviamente al “dato diretto”.

L’epoca o lo stadio di coscienza descritto sopra può

anche essere chiamato l’epoca della parola magica. Da

un lato, non esisteva separazione o distinzione tra

parola, concetto e “cosa”; dall’altro lato le persone

sperimentavano ancora il mondo nel suo vivo avvenire,

nel suo “arrivare” – e non solo nella sua forma finita e

immobilizzata nel livello di coscienza del passato. La

comunicazione tra esseri-Io tramite parola o parola-

canto era allora una immediata e spirituale interazione.

Per esempio, nella Kalevala (III Canto), la battaglia tra

Vajnemojnen e Joukahajnen, un test diretto del potere

dell’Io, è combattuto tramite canzone. Il più debole dei

due deve arrendersi al potere delle parole del più forte;

queste lo forzano nel corso di eventi che esse dettano o

predicono.

Se il primo sistema di concetti strutturante il mondo ci

viene dato dal nostro linguaggio, allora il modo in cui

questa struttura è costruita può divergere largamente,

perché le nostre lingue sono strutturate molto

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3 – Prima strutturazione del Dato 75

diversamente. Ciò può anche essere osservato. Alcune

lingue, come il Tedesco, sono flessibili; cioè utilizzano

delle inflessioni. Altre, come il Cinese antico, sono

isolanti; cioè non utilizzano declinazioni, né

coniugazioni, né preposizioni, né suffissi; nemmeno

cambiamenti nella radice delle parole o classi separate di

parole, come i nomi, i verbi, gli aggettivi. Invece, in tali

lingue isolanti, le radici delle parole vengono

semplicemente stese in sequenza. La proporzione della

parte percepibile del linguaggio con la parte nascosta

differisce in questi due tipi di linguaggi. Le lingue

isolanti, comparate a quelle Europee, hanno in genere

meno parole e richiedono molta maggiore attività

interiore in complemento alla parte vocale, udibile del

linguaggio. Alcune lingue consistono interamente di

“verbi”, come per esempio quella degli Eschimesi

Nootka – ossia, contengono solo parole che

classificheremmo come “verbi” nei linguaggi Europei.

In quei linguaggi, ogni cosa, anche quelle che

esprimeremmo in nomi, è un avvenimento o un

processo. Circa i due terzi dei linguaggi conosciuti non

coniugano verbi per formare i tempi; strutturano il

tempo diversamente da come facciamo noi. In questi

linguaggi il tempo non ha la stessa idea che ha per noi.

I lati interni ed esterni dei linguaggi differiscono

enormemente; per esempio, i linguaggi poli-sintetici

degli Indiani d’America o degli Eschimesi, con le loro

giganti parole, che spesso devono essere tradotte in

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lunghe frasi in una lingua Europea, sono totalmente

diversi da un linguaggio analitico come il Francese.

Come i linguisti hanno da tempo saputo, il linguaggio

modella il nostro pensare e quindi la struttura del

mondo nella prima fase della coscienza. Nonostante ciò,

i lati esterni ed interni di ogni lingua si complementano

l’uno con l’altro così che in ogni linguaggio non manca

niente; non c’è niente che non possa essere espresso in

una qualsiasi lingua.

Molte lingue non attribuiscono sesso ai loro nomi, o lo

fanno diversamente, per esempio, dai Tedeschi; possono

avere più o meno “generi” che i Tedeschi. Tali “difetti”

passano inosservati in quanto non sono veramente

mancanze. Che sia facile o difficile esprimere qualcosa

dipende dal tema e dal linguaggio. Per esempio, è più

facile discutere di filosofia dialettica in Tedesco che nella

lingua Hopi; parlare di elementari verità spirituali

riguardanti la natura e gli esseri umani è probabilmente

più semplice nella lingua Hopi.

Le due parti complementari della lingua, quella

percettibile e quella nascosta, si combinano per formare

un insieme comune a tutte le lingue. Questo linguaggio-

di-comprensione è proprietà condivisa da tutta

l’umanità. Ci permette di comprendere l’un l’altro

attraverso limiti linguistici e rende possibile la

traduzione – malgrado le sue limitazioni. Tuttavia,

comprendere l’un l’altro è più facile di tradurre. Questa

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3 – Prima strutturazione del Dato 77

proprietà condivisa da tutta l’umanità è la sfera di un

pensiero superiore, un pensiero che trascende la lingua.

Differenze nella struttura delle varie lingue risultano in

differenze nella struttura del mondo. In accordo, la

prima figura data del mondo è differente in ogni

linguaggio. Per esempio, molte lingue suddividono lo

spettro del colore diversamente da come facciamo in

Italiano. Similmente, l’intero mondo interiore ed

esteriore è strutturato diversamente da una lingua

all’altra. In altre parole, una certa relatività appare nella

data figura del mondo: i particolari e le loro connessioni

variano col linguaggio.

Chiaramente, la prima data figura del mondo – quella

che precede l’indagine scientifica, non basata su quesiti

– non ci mostra la realtà intera perché essa è

contingente al nostro linguaggio. Possiamo raggiungere

questa realtà intera e completa solo superando il

pensiero condizionato dalla lingua. Ciò è reso possibile

dalla struttura dell’anima-coscienza, e dalla attività

cognitiva cosciente basata su quesiti.

Questi pensieri ed osservazioni ci conducono a quanto

segue. Da un lato, la nostra “organizzazione”, che

determina il dato, consiste del fondamento fisico dei

nostri sensi e del nostro pensiero, che ereditiamo ed

abbiamo a nostra disposizione quando veniamo al

mondo. Da un altro lato, questa organizzazione è

costruita anche dall’”educazione” delle crescenti forze

libere che rendono possibili le nostre facoltà

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specificamente umane. Queste facoltà non sono

ereditate – un fatto che le scienze non hanno

propriamente preso in considerazione.

Indifferentemente dalla loro nazione d’origine, i

bambini possono imparare un qualsiasi linguaggio come

lingua madre. In questa primissima “educazione” delle

facoltà umane, il linguaggio – il parlare, la dialettica – è

importantissimo, in quanto determina in larga misura la

nostra prima organizzazione.

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4 – Il Linguaggio della Realtà 79

4 – Il Linguaggio della Realtà

L’idea della realtà, come l’idea della cognizione, può

emergere solo nell’individuo che si pone delle domande.

Diverse idee possono essere associate con la parola

“realtà”, ma per gli esseri umani moderni essa si riferisce

inevitabilmente a una particolare sensazione che si

presenta categoricamente come qualcosa di reale. Da ciò

consegue – e facilmente possiamo sperimentare ciò – che

ci sono altri “dati” che non evocano questa sensazione e

che non sono quindi reali. Ma se non hanno qualità di

“realtà”, che qualità hanno allora? Per i moderni

pensatori questa è una domanda infruttuosa.

Sarebbe troppo affrettato identificare la sensazione di

realtà con quella di tangibilità; dopo tutto abbiamo

questa sensazione con molte cose che non sono tangibili,

come suoni, odori, calore, e così via. Non testiamo

sovente col tatto se ciò che vediamo sia reale.

Similmente, tutti riconosciamo dei campi di forza –

come l’economia, lo stato, o i nostri sentimenti – che

hanno spesso più grande potere su di noi di una cosa

tangibile, e che sono effettivi, cioè, reali. Comunque

nelle scienze naturali, come anche nel nostro pensiero,

trasferiamo queste “realtà” nel mondo della tangibilità,

che crediamo essere identica col mondo percettivo.

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Infatti, questa sensazione di realtà deriva dal mondo

percettivo. Guarderemo ciò in maggior dettaglio nel

capitolo 5.

“Abbiamo esperienza” di certi elementi della coscienza,

per esempio pensieri e concetti, senza avere questa

sensazione di realtà. Ovviamente, quindi, la realtà

“sentita” non appare “reale” per via della sua natura

concettuale. Piuttosto, questa sensazione di realtà deve

essere attribuita alla parte non concettuale della

percezione. Comunque, ciò è applicabile solo oggi agli

esseri umani, e sarebbe sbagliato assumere che le

persone avevano percezioni e sensazioni simili nella fase

“energetica” della coscienza linguistica. Similmente, non

possiamo parlare di “verità” in senso moderno quando

parliamo di questa coscienza arcaica. La “verità” – in

relazione al mondo percettivo – sarebbe l’adeguata

intuizione concettuale sulla natura del mondo

percettivo. Questa intuizione – e cioè, la verità – non

evoca di per sé la sensazione di realtà; è invece

accompagnata da ciò che possiamo chiamare sensazione

di evidenza.

Questa sensazione di evidenza o di ovvietà,

caratterizza anche i giudizi puramente concettuali. Li

consideriamo veri quando sono “giusti” e quando si

“accordano”, non con un fenomeno del mondo

percettivo, ma con sé stessi, così evocando il sentimento

di “auto-evidenza”, e soddisfacendo quindi il pensatore.

Verità o evidenza come tali non possono essere definiti.

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4 – Il Linguaggio della Realtà 81

Infatti, non possono nemmeno essere descritti, in

quando ogni affermazione che facciamo sul loro conto

dovrebbe essere identificata e sentita vera o evidente per

essere accettabile o concepibile. Tutte le teorie

riduzioniste che provano a ridurre la cognizione o la

comprensione a processi non-cognitivi o non-

comprensibili, come abbiamo visto nel capitolo 1, si

chiudono fuori.

Quando, meditativamente, penetriamo sotto la

superficie del dato, sperimentiamo che i concetti

controllano ogni cosa che percepiamo, fintanto che ciò

che percepiamo è un QUELLO, un qualcosa che

possiamo indicare, qualcosa che è definito e tracciato.

Come abbiamo visto inoltre, nella prima strutturazione

del dato, ogni cosa è concettuale senza eccezione: niente

rimane privo di penetrazione concettuale. Quindi la

prima forma del dato non è discutibile; i concetti

coprono il dato completamente, senza alcun vuoto

intervallo. Se nella moderna coscienza potessimo

ottenere una tale completa copertura, verità e realtà si

fonderebbero e diverrebbero una. Non sappiamo se

questo fosse il caso per le persone nei tempi arcaici, in

quanto non avevano né il concetto di “realtà”, né quello

di “verità”. Essi vivevano nella vera realtà senza cercarla

o discuterla. Le persone oggi discutono e cercano la vera

realtà solo quando l’hanno persa. Le persone in quei

tempi primitivi non necessitavano una sintesi di

percetto e concetto in quanto per loro questi erano

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ancora uniti. Noi, ad ogni modo, li sperimentiamo

separatamente dati. (La storia di come questa vera

realtà è stata persa seguirà più avanti.)

Oggi i sentimenti sopra indicati – la sensazione di

realtà e l’esperienza di evidenza – determinano ciò che è

reale e vero. Tuttavia, è concepibile che pensiero e

percezione possano unirsi in una sintesi umana cosciente

e formare una realtà vera o completa.

Le due sensazioni si compenetrerebbero quindi, e la

sensazione di realtà sarebbe illuminata – come di solito

non è –, mentre la sensazione di evidenza non

rimarrebbe più astratta, ma si riempirebbe di calore e

vita divenendo percezione concreta. In altre parole, una

piena realtà emergerebbe dalla compenetrazione di una

percezione col suo – adeguato – concetto. Non

rimarrebbe quindi alcun quesito, ed il desiderio di

conoscenza sarebbe soddisfatto. Senza questa

compenetrazione di percetto e concetto, il dato rimane

discutibile; ovvero, necessitante di essere completato. In

riguardo alla realtà che percepiamo, né il dato percetto,

né il concetto, costituiscono di per sé la piena realtà. Né

l’unione originaria di questi due elementi nella coscienza

arcaica – dove i concetti del linguaggio strutturano il

mondo percettivo – né la loro nuova sintesi è additiva.

Piuttosto, sia il concetto che l’elemento percettivo

subiscono un cambiamento qualitativo quando si

compenetrano – qualcosa che possiamo sperimentare

ogni giorno, se poniamo attenzione.

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4 – Il Linguaggio della Realtà 83

La Prima Realtà – Il Primo Linguaggio

La prima, piena realtà ci viene data interamente

nell’unione del percetto con un adeguato concetto, che

ha reso il percetto questo percetto. Difficilmente

possiamo lasciarci sfuggire che questa prima realtà è

relativa allo stato del mondo e dell’essere umano che

molte tradizioni hanno descritto, sotto vari nomi, come

il paradiso. Secondo tutte le genuine tradizioni, gli esseri

umani erano già dotati del dono del linguaggio. Che le

mitologie non parlino di “realtà” è solo naturale per uno

stato di coscienza nel quale i quesiti erano inesistenti.

Probabilmente, l’immagine esteriore che abbiamo del

paradiso – almeno per quanto riguarda l’assenza di

quesiti – è solamente una piuttosto radicale proiezione

nel passato di una condizione estrema, la cui immagine è

stata modellata sulle linee di una coscienza sempre più

“oscurata”.

Ci sono buone ragioni di credere che il mondo di oggi

non sia mai indubbio per i bambini, in ogni fase del

processo dell’apprendere a parlare. I bambini

sperimentano le parole molto più profondamente degli

adulti dai quali imparano. Per esempio, per gli adulti, le

designazioni degli oggetti naturali sono a stento più di

semplici nomi (vedi capitolo 2, “Riflessione sui

Concetti”). Quindi, quando gli adulti pronunciano

questi nomi, questi non sono più accompagnati da una

comprensione interiore. Così, similmente, i bambini non

possono più sperimentare questa comprensione. Per

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contro, gli adulti comprendono pienamente ciò che

significhi la parola “ma”, anche se la maggior parte di

essi avrebbe probabilmente difficoltà a spiegarla.

Tuttavia, dal momento che comprendiamo questa

parola, il suo significato è accessibile anche ai bambini

tramite diretta intuizione in ciò che sentono. Quando i

bambini sentono gli adulti parlare di “cavalli” o “pini”,

comunque, essi non trovano una tale interiore

comprensione.

Il linguaggio ci ha passato parole che ora

comprendiamo solo in senso nominalistico. Tuttavia, ci

sono tre ragioni per le quali non dovremmo assumere

che, anche in origine, queste parole erano solo nomi

arbitrari per etichettare un fenomeno o un oggetto.

Primo, come abbiamo visto, i concetti del nostro

linguaggio strutturano inizialmente il mondo percettivo

– e solo tramite questi concetti possiamo percepire i suoi

particolari. Secondo, possiamo nominare solo cose che

sono già state concettualmente definite e tracciate. Dal

momento che riceviamo i nostri primi concetti tramite il

linguaggio, ogni “nominare” è superfluo. Terzo, studi

etnologici mostrano che l’attività umana non ha mai

prodotto delle nuove parole radice.

Quando incontriamo qualcosa di nuovo, utilizziamo

vecchie parole o radici di parole, probabilmente in

forma modificata, per nominare o descrivere la nuova

esperienza. Per esempio, gli Indiani Navajo descrivono

ciò che noi chiamiamo film, o pellicola, in una frase che

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4 – Il Linguaggio della Realtà 85

significa “quelli che scorrono uno dopo l’altro”. Essi

chiamano elefante, per il quale naturalmente non c’è

alcuna parola originale nella loro lingua, “quello che

lancia un lasso col suo naso”(libera traduzione). Infatti,

anche nelle moderne lingue Europee utilizziamo vecchie

parole per nuove invenzioni, o utilizziamo parole

composte, come “televisione”, o adottiamo parole da

altre lingue.

In breve, non esiste alcun caso conosciuto di nuova

radice di parola che venga creata – nemmeno in tempi

moderni e senza contare, naturalmente, parole derivate

da vecchie radici, tramite contrazione per esempio.

Quindi tutti i termini per gli oggetti naturali, che per

noi oggi sono semplici nomi, erano, nella loro forma

originale o antica (tutte le parole hanno attraversato dei

cambiamenti), tanto significativi quanto parole come

“cucchiaio” o “oppure” lo sono oggi per noi.

I vecchi concetti-parole degli oggetti naturali, quindi,

venivano “compresi”. La struttura della coscienza

arcaica implicava, per le persone, sperimentare i

superiori, viventi e senzienti concetti – non potendo

essere abbassati al piano del passato della coscienza

moderna – in maniera sognante. Inoltre, l’arcaica

percezione era difficilmente, se non per niente, separata

dal “pensiero”, e poteva quindi, comparata alla nostra,

afferrare molta più natura. Nella struttura della

coscienza arcaica – e anche nei giovani bambini al

nostro tempo – il piano del passato non è ancora

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abissato da quello del presente. Per questa ragione, esso

ha un carattere più sognante, mancante di nette

distinzioni. Esso è collegato, come per risonanza, con la

continuità dei livelli superiori della coscienza, che per

noi oggi sono nel superconscio. Le parole o i concetti-

parole in questa arcaica coscienza portano ancora in sé,

in vasta portata, dei percettivi sentimento e volontà per

mezzo dei quali il “concetto” – molto diversamente da

ciò che conosciamo come concetti – invia

profondamente le sue radici nel mondo percettivo,

toccando le idee creazionali della natura. Queste parole-

concetti sono connessioni – relazioni – nel mondo

percettivo, che lo strutturano. Questi non nominano

“oggetti”, ma sono piuttosto le relazioni tra ciò che in

seguito si separa in soggetto ed oggetto.

L’essere-Io ancora vive in un mondo unificato, nella

comprensione. Esso sperimenta il mondo e sé stesso

come comprensione, in una armonia – la più recente

musica delle sfere è una pallida riflessione di ciò –, segno

di una “comprensione” di ciò che il mondo naturale, il

cosmo, sta “dicendo”. E’ una comprensione dall’interno,

senza giustapposizione e senza una coscienza-Io. Le

grande idee della natura vengono sperimentate nella

comunione, e l’essere umano è inizialmente una di

queste idee. Nei linguaggi arcaici ogni parola è un

aspetto del mondo che struttura il mondo reintegrando

simultaneamente in una armoniosa unità i particolari

che sono distinti.

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4 – Il Linguaggio della Realtà 87

Le parole che designavano oggetti in natura non erano

quindi solo dei nomi; essi erano anche più di veri

universali. Una specie per esempio, l’”acero rosso”, era

sperimentata con maggior realtà rispetto al singolo

albero. Per contro, “acero” è per noi il nome del singolo

albero, ed utilizzare questa parola per la specie ci

sembra una astrazione. Lo stesso valeva per

designazioni di oggetti naturali nelle favole e nei miti.

Infatti, anche nel Vecchio Testamento, il nome di una

persona è una realtà; “Amalek”, per esempio, non è un

termine generale o comprensivo, ma un’idea che da

carattere ai membri delle persone. Inoltre, “acero” (o la

corrispondente parola originale) significava anche una

funzione, una relazione con la terra ed il cielo, con altri

alberi, con l’aria, ed anche con gli esseri umani.

Designava un “carattere” che aveva un valore per

sentimento e volontà e anche altre qualità a noi

sconosciute che ancora “parlavano” alla coscienza

arcaica, collegando nella coscienza, gli esseri umani alla

natura.

Per definire oggi la coscienza arcaica dobbiamo

descriverla alternativamente nei suoi due aspetti di

percezione e pensiero, in quanto sperimentiamo ora

separatamente queste due funzioni. Ma l’essenza della

coscienza arcaica è che queste due funzioni sono ancora

unite, e le immagini mentali rappresentative non sono

quindi soggette al capriccio umano. Se il “pensare” è

vivo, colorato, caldo, saturato di sentimento, e pulsante,

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il “percepire” viene allora transilluminato entro sé

stesso dall’ideale o ideante “pensare” ad esso insito e

non da istruzione alcuna; “percepire” quindi è già

strutturazione esterna e lettura d’insieme di ogni cosa,

inclusi gli esseri della natura conosciuti in ogni

tradizione. Se la natura parla ancora agli esseri umani, il

suo parlare deve venire da esseri che sono essi stessi

esseri-Io o che rappresentano esseri-Io – se questi ultimi

si sono già ritirati dal loro lavoro. La struttura dei sensi

arcaici sarà delineata nel capitolo 5.

Nella sua teoria della conoscenza, Rudolf Steiner allude

alla possibilità che percetto e concetto siano già uniti nel

dato. Ciò è infatti vero per la prima interamente data

immagine della realtà nella prima fase di sviluppo del

linguaggio. “Se ci fosse una totalità, in sé completa, nel

dato diretto, sarebbe allora impossibile, come anche

inutile, elaborarla [col pensare] nel processo di

cognizione. Piuttosto, accetteremo semplicemente il

dato per com’è, e saremmo soddisfatti con quella forma

... Se, nel contenuto-del-mondo, il contenuto-di-pensiero

fosse unito col dato fin dal principio, non esisterebbe

alcuna cognizione.”

In seguito alla discussione precedente, dobbiamo

riformulare questa frase come segue: Se, nel contenuto-

del-mondo, il contenuto dei nostri pensieri fosse unito

fin dal principio col contenuto della nostra percezione,

non ci sarebbe alcuna cognizione umanamente

elaborata. Considerando il capitolo 6 di Verità e

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4 – Il Linguaggio della Realtà 89

Conoscenza, Steiner parla di cognizione come “attività

dell’Io ancora sconosciuta” che deve essere sollevata alla

coscienza con la teoria della conoscenza. Nella Filosofia

della Libertà Steiner scrive: “Sarebbe infatti quasi

impossibile per una mente ricevere il concetto

simultaneamente al percetto e non separato da

quest’ultimo. Una tale mente non considererebbe mai il

concetto come qualcosa separato dall’oggetto, ma

ascriverebbe al concetto una esistenza indivisibilmente

vincolata con l’oggetto.” La vita del pensiero arcaico

viene spesso descritta da Steiner come un “completo

donarsi”.

La prima realtà è data, ma data agli esseri umani, in

quanto nel mondo che gli dei hanno creato, l’umano è il

solo essere tramite cui l’idealità, la parola ed il concetto

come tali possono emergere e fiorire. Il mondo-Logos

attiene la sua prima realtà nel solo essere-Logos di questo

mondo.

La nostra contribuzione alla produzione della prima

realtà è interamente passiva; l’idea ed il percetto già

sono uniti quando appaiono nella coscienza. Il

linguaggio non solo partecipa alla configurazione del

dato, ma neanche può essere separato dalla data realtà.

E’ quindi superficiale dire che la realtà sia strutturata

come il linguaggio; i due lati del linguaggio sono

travestiti in percetto e concetto. I cambiamenti interni

nel linguaggio guidano gradualmente la coscienza

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arcaica ad una interrogante; la conducono cioè alla

seconda realtà, il secondo linguaggio.

La Transizione al Domandare

Linguaggi differenti sostengono differenti sistemi

concettuali fuori dal continuum non strutturato del

dato diretto. Questi sistemi concettuali esistono nel

continuum non in uno stato preformato, ma come

“potenziale”. Percetti e concetti, inizialmente di discreta

congruenza, si manifestano negli esseri umani. Ciò

significa che l’attività cognitiva umana – che sia

cosciente o meno – dev’essere considerata parte della

realtà. Nella coscienza arcaica quest’attività non veniva

sperimentata separata dal suo risultato, l’immagine

della realtà. Nel capitolo 5 discuteremo sul perché ora

non abbiamo esperienza della nostra attività cognitiva

come parte della realtà.

A causa di profondi cambiamenti nella coscienza

umana, la prima realtà è stata persa. E’ difficile

descrivere le ragioni e le forze motivanti che stanno

dietro a questi cambiamenti senza utilizzare il

linguaggio dei miti. Nel Vecchio Testamento i

cambiamenti sono descritti come eventi della Caduta. I

cambiamenti ci hanno tagliato fuori dalla natura e dagli

esseri spirituali che ci ispirano e ci guidano. Come

risultato, siamo divenuti capaci di sbagliare e di peccare,

ed ora, nell’epoca dell’anima cosciente, dobbiamo

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4 – Il Linguaggio della Realtà 91

scegliere il nostro nuovo percorso in quanto esseri

maturi ed emancipati.

Questo lungo processo si riflette nei cambiamenti nelle

nostre lingue, che hanno sempre posseduto il potenziale

per questo sviluppo. Il duplice aspetto del linguaggio

prefigura ogni altro dualismo, particolarmente la

divisione del percepire e del pensare. La struttura

discontinua dell’aspetto esteriore del linguaggio porta il

seme per tutte le ulteriori atomizzazioni. Allo stesso

modo, la parte nascosta del linguaggio contiene

l’immagine ed il potenziale per tutte le unificazioni e

sintetizzazioni, per tutte le “letture d’assieme”. La

dualità di percezione e atto interno ad essa

complementare – presente nel linguaggio – continua

nella dualità di oggetto e soggetto. E’ possibile oggi

rendersi conto che la comprensione e ciò che viene

compreso – i piani del presente e del passato nella nostra

coscienza – formano la basilare duplice struttura

dell’anima cosciente, che dà la possibilità alla coscienza

di riflettere su di sé.

I cambiamenti esterni, che considereremo per primi,

non sono limitati ad un linguaggio particolare, ma

interessano l’intera gamma delle lingue, incluse quelle di

solito classificate come arcaiche o primitive, come pure

quelle sviluppate o altamente flessibili. Questa gamma

di linguaggi è spesso erroneamente considerata come

consistente di stadi di sviluppo. Nel considerare

l’originale riserva di radici di parole e strutture

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grammaticali, possiamo trovare perdite e segni di

deterioramento entro a un qualsiasi particolare

linguaggio. Ad ogni modo, l’emancipazione del pensiero

rende ogni linguaggio sempre più complicato, fintanto

che si vengono così a creare sempre più complicate

associazioni tra i pensieri nelle nuove e aperte aree del

mondo e della coscienza.

Se si comparano le lingue arcaiche con quelle più

“sviluppate”, si può notare che, mentre le ultime

crescono sia nel loro vocabolario che nella loro parte

percepibile ai sensi, la loro figura percettiva – come

anche la loro intera figura del mondo – perde sempre più

l’unità che aveva nelle lingue arcaiche. Sempre più, i

termini di connessione divengono semplici nomi per

cose; e le connessioni stesse vengono espresse sempre di

più nella parte percepibile del linguaggio, come per

esempio, tramite inflessioni, prefissi, suffissi,

preposizioni, e regole sintattiche. Le relazioni,

connessioni, e i concetti reali e superiori, comunque, non

possono apparire, e rimangono completamente nella

parte nascosta del linguaggio.

Più una lingua appare percepibile ai sensi, meno lavoro

interiore è necessario per complementarla. Come

risultato, la parte percepibile è meno permeata di vita e

sentimento. In ultima il linguaggio finisce per essere un

semplice veicolo di informazioni, e la dualità di “segno e

significato” si sviluppa di conseguenza. In altre parole,

questa dualità diviene sempre più pronunciata tanto

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4 – Il Linguaggio della Realtà 93

quanto il pensiero si emancipa dal linguaggio. Abbiamo

“informazione” in riguardo a che cosa? In riguardo al

mondo, che è stato dato dapprima tramite il linguaggio

nella sua fase energetica, e che abbiamo poi costruito al

dì fuori [a partire] da questa primaria realtà.

Come cresce la moltitudine di particolari nello sviluppo

del linguaggio, le connessioni si perdono. Questo

sviluppo si riflette anche in cambiamenti nel

vocabolario; per esempio, le lingue arcaiche sono ricche

di verbi, e la predominanza di predicati dà a questi

linguaggi il loro carattere distinto. Nelle lingue più

moderne, comunque, nomi ed aggettivi predominano.

In aggiunta a questi cambiamenti “esterni” vi sono

anche importanti sviluppi nella parte nascosta di ogni

linguaggio. Le parole che ancora erano fluide nei primi

tempi, ed esprimevano connessioni, ora si seccano e si

stringono sempre più a semplici nomi di particolari.

Quindi, il particolare diventa discutibile [interrogabile],

non in riguardo all’universalità del concetto, ma

piuttosto nella sua sconnessione e nella qualità del suo

essere.

Quando svaniscono le connessioni dai nomi, e la

coscienza sperimenta nel suono della parola solo ciò che

è stato separato senza sua simultanea reintegrazione,

allora la domanda riguardante il come diventa urgente.

Il pensiero inizia a cercare connessioni, principi che

collegano i particolari, al di fuori dalla sfera data dal

linguaggio. Inizialmente, riteniamo la struttura del

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mondo percettivo tramite le parole-concetti del

linguaggio, ma i concetti diventano gradualmente

semplici involucri di parole, e le connessioni si perdono.

Dobbiamo ritrovarle nuovamente tramite nuovi

concetti indipendenti dal linguaggio.

L’analogia della superficie suddivisa citata

precedentemente, può ancora essere utilizzata per

descrivere questa nuova situazione. I piccoli pezzi non

più si estendono sull’intera superficie completamente.

Invece, i concetti si sono contratti alla dimensione di

punti; cioè, sono divenuti interamente nominali. Le

rimanenti parti scoperte della superficie lasciano quindi

ampio spazio, ed impongono ragioni, per porre domande

– riguardo il mondo percettivo o riguardo le relazioni tra

i concetti-punto.

Gli esseri umani aggiungono ora i concetti che

connettono ad essi i percetti. Generalmente, non siamo

consapevoli che il mondo percettivo già è strutturato

tramite i rimasugli dei concetti-linguaggio, prima di

aggiungervi nuovi concetti. In ogni caso, sia nella prima

fase della coscienza che nelle successive, la realtà è

sempre creata tramite l’unione di percetto e concetto.

Inizialmente, questa unione era data; successivamente,

furono gli stessi esseri umani a dover determinarne la

sintesi. L’unione di percetto e concetto non permette

alcuna arbitrarietà; anche se siamo noi coloro che

raggruppano ed riuniscono gli elementi della realtà –

ovvero, lo strutturato percetto ed il concetto – facciamo

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4 – Il Linguaggio della Realtà 95

ciò secondo la loro stessa natura. Aspettiamo per vedere

che emerga dall’unione di questi elementi. La facoltà di

formare concetti sta divenendo sempre più

individualizzata, e nel tempo viene formata sempre

meno dalla madre lingua – lo “spirito del popolo” – o da

stili culturali che trascendono il linguaggio, come lo stile

barocco – lo “spirito dei tempi”.

I concetti forniti dal linguaggio erano molto più che

semplici connessioni; erano realtà sentite, viventi,

volenti e sperimentate.

Lo sviluppo della coscienza insito nella pedagogia del

linguaggio – ogni lingua guida le persone che la parlano

ad una particolare configurazione di coscienza – può

causare alle parole-concetti di perdere la loro vita e di

divenire semplici nomi di cose al di fuori delle stesse

(eccetto per le congiunzioni, come “sebbene” ad

esempio). Ciò ci lascia aperti due percorsi, entrambi i

quali sono divenuti possibili solo per via della nuova

capacità di pensare indipendentemente dal linguaggio.

Un percorso conduce ai concetti logici, astratti, che

possono essere ridotti ad un minimo denominatore, così

per dire, tramite i concetti-parola di varie lingue,

potendo quindi essere tradotti. I concetti logici di

“acqua”, “eau”, “water” e “hydro” sono equivalenti, e le

parole così considerate sono intercambiabili. Tali parole

sono comunque diverse in tono ed in carattere ed anche

nel modo col quale possono essere applicate e connesse

ad altri nel loro rispettivo linguaggio. Ciò è ovvio

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specialmente nella traduzione di poesie. Lo

strutturalismo chiama questo fenomeno la valenza o

valore delle parole. Deriviamo i concetti logici tramite

astrazione dai differenti valori delle parole; i concetti

logici, quindi, trascendono il linguaggio. Di

conseguenza, questi si collocano al di sotto dei concetti-

parola, in quanto sono più poveri. Quando i pensatori

iniziano a capire ciò, essi fanno ricorso al linguaggio –

per esempio, all’etimologia – per arricchire i logici

concetti astratti, per comprenderli meglio, per destarli

in vita.

Ma c’è un altro percorso. Levandoci al di sopra dei

concetti-parola possiamo raggiungere i concetti

meditativi o creazionali. Questi contengono tutti i

concetti-parola e li integrano. Tali concetti meditativi

sono quindi più ricchi dei concetti-parola. Essi abilitano

i concetti-parola ad unirsi in concetti logici – questa

impoverita unione è, per così dire, la loro astratta

riflessione diretta verso il basso. I concetti creazionali

già erano astratti nel Medio Evo; essi non erano più

sperimentati, ma solo afferrati come intuizioni di

pensiero. Come tali, essi erano chiamati universalia ante

rem*.

* "Universali" prima della loro incarnazione nella materia. Nota di

Traduzione.

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4 – Il Linguaggio della Realtà 97

Da questo punto di vista si possono identificare i

concetti logici come universalia post rem**; comunque, il

terzo tipo di universali*** non ha paralleli nella coscienza

moderna.

“Essere umano”, “anthropos” e “homo”, per esempio,

hanno ovviamente diverse valenze o aspetti. Il concetto

logico di queste parole è formato dalle esterne,

probabilmente fisiologiche caratteristiche dell’essere

umano, ma i concetti creazionali comprendono il

carattere della Parola – o Logos[Verbo] – di natura

umana, il suo insito archetipo, potenziale, libertà e

relazione col cosmo come una idea. Ovviamente questa

idea richiede una coscienza che si innalza molto al di

sopra della quotidiana coscienza. Giudicando dal solo

suono, non percepiamo una connessione tra le parole

“rosa”, “varda” e “gul”. Comunque possiamo forse

intravedere la loro comune idea creazionale dietro l’idea

della rosa bianca nel Paradiso di Dante (Par. 31. e 32.),

che è il “Trono dei Benedetti”.

La scienza occidentale ha preso il primo percorso sopra

indicato, quello conducente a concetti logici. Nel

processo, ogni altra cosa è stata esclusa. Le conseguenze

di questa scelta ci esortano ora a provare quell’altro

percorso, per bilanciare e guarire la nostra uni-lateralità.

** "Universali," compresi dopo aver sperimentato la loro incarnate

realtà. Nota di Traduzione. *** "Universalia in re," "universali" come idea funzionale secondo la

quale a una cosa è data la sua definizione concettuale mentre è in uso.

Nota di Traduzione.

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La Seconda Realtà

Quando la prima data realtà svanisce, riteniamo solo i

suoi rimasugli e le sue rovine. Dobbiamo ora sforzarci

noi stessi di “rattoppare”. Il rattoppo è già intessuto di

concetti, ma questi non formano una rete priva di

cuciture. Come risultato, il mondo è divenuto aperto a

quesiti, interrogabile, discutibile. Simultaneamente il

linguaggio ci ha insegnato il segreto del pensare e

percepire strutturati. Ora cerchiamo di trovare concetti

appropriati per capire il mondo discutibile indipendente

dal nostro insegnante, il linguaggio. Vogliamo

reintegrare ciò che è stato separato al di fuori dal

continuum.

Ci sforziamo di penetrare completamente il dato con

comprensione e concettualità in modo da portare il

sentimento di realtà in coincidenza col sentimento di

verità: cerchiamo la “piena” o “vera” realtà. In altre

parole, siamo ora noi a creare la realtà, perché non

siamo più soddisfatti col sentimento o la sensazione di

realtà – almeno non in riguardo al mondo percettivo.

La relatività della prima realtà è dovuta alla madre

lingua; la seconda realtà comunque è strutturata

tramite nuovi concetti, concepiti indipendentemente dal

linguaggio. Ciò a sua volta relativizza la sintesi

dell’aspetto percettivo con quello concettuale della

realtà, ma allo stesso tempo “realtà” e “verità”

divengono idee dinamiche capaci di ulteriori sviluppi.

Viene lasciato spazio di gioco alla realtà percettiva ed al

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4 – Il Linguaggio della Realtà 99

pensiero puro. Il nostro sforzarsi verso la conoscenza

non gravita verso delle predeterminate, assolute verità e

realtà; abbiamo piuttosto la possibilità di progredire da

“ovvietà” (aletheia, non-nascosto, non-occulto, parola

Greca per verità) a palese ovvietà, da luce a luce più

chiara, da idea a idea. Contribuiamo alla creazione del

mondo.

Ogni cognizione ci cambia, e dal momento che siamo

parte di una realtà, anche la realtà viene continuamente

trasformata. Creiamo la realtà futura – non solo in senso

di tempo futuro, ma nell’essenziale senso di nuovi inizi.

Come esseri-Io capaci di fare nuovi inizi e prendere

iniziative, possiamo raccogliere semi per il futuro.

Quindi, possiamo descrivere la libertà come

incondizionata, in quanto abilità di fare nuovi inizi non

contingenti su, e non necessariamente risultanti da,

l’esistente realtà. Come abbiamo visto, la cognizione

stessa è un tale inizio.

La contribuzione umana al dato è già celata entro il

dato, ma non è pienamente preformata. Altrimenti la

cognizione sarebbe una semplice formale, e non una

creativa attività che aggiunge qualcosa di nuovo alla

realtà che già “è”. In altre parole, la cognizione è essa

stessa realtà.

Nella prima realtà, guidata dalla nostra madre lingua,

strutturiamo e connettiamo il dato; nella seconda realtà,

seguiamo i concetti che abbiamo ora intuito

indipendentemente dal linguaggio. La realtà potenziale,

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assopita e nascosta nel dato, è sempre attuata

dall’attività cognitiva umana; è produzione, non

riproduzione.

La nuova struttura della coscienza, che ci abilita a

porre domande, è basata sulla completa separazione dei

piani di coscienza del passato e del presente, di pensiero

e di pensare. Di conseguenza, quest’ultimo si è spostato

nella sfera supraconscia. Possiamo ora volgerci a porre

domande in entrambe le direzioni; infatti è questo il

compito dell’anima cosciente. Il nostro sguardo,

comunque, non volge ugualmente ed imparzialmente in

entrambe le direzioni; il piano superiore è interamente

nascosto al nostro sguardo interiore (vedi capitolo 8).

Esso non è da noi visibile. In principio non

investighiamo nemmeno il piano più basso, in quanto,

essendo nel piano del passato, non ci evoca sensazione di

realtà. Per questa ragione sperimentiamo il mondo

percettivo, o natura, in modo sempre più reale. Ciò ci

spiega perché, nella storia, i quesiti umani erano

inizialmente del tutto relativi alla natura.

Storicamente, i quesiti sulla coscienza nascono

solamente quando il modo “scientifico naturale” di

formulare domande (“di che cosa è fatto quello?” e

“come”?) diviene così radicato, che un diverso stile di

interrogare – appropriato ai problemi della coscienza –

diviene impossibile. Questa predominanza di un unico

stile interrogativo influenza anche i concetti che devono

penetrare i fenomeni naturali. Questi nuovi concetti

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4 – Il Linguaggio della Realtà 101

hanno due distinte caratteristiche: primo, essi sono

contingenti solo su una parte, un aspetto parziale del

dato – per esempio, i concetti della meccanica sono

contingenti all’aspetto di mancanza di vita. Secondo, i

principi colleganti o concetti esplicativi sono dello stesso

tipo dei concetti che intendono collegare. Ancora, ciò è

tipico della meccanica; i suoi principi esplicativi non

leggono la realtà perché la struttura concettuale non è

più adeguata alla figura percettiva. Come risultato,

parte della figura percettiva rimane nonconcettuale, e

quindi non trasparente alla comprensione.

L’applicazione generale dello stille meccanico di

pensare e la predominanza della causalità meccanica,

nascono dal subconscio; essi non possono essere

logicamente giustificati. I moderni pensatori conoscono

a stento connessioni o cause diverse da quelle

meccaniche. Aristotele ancora era consapevole di altre

cause, come per esempio, la causa exemplaris, del

modello o esempio.

Siccome le connessioni meccaniche, come principio

esplicativo tra le cose, sono allo stesso livello delle stesse

cose, esse sono effettive e perfino convincenti, come per

esempio, la gravità come relazione tra la mela e la terra.

Comunque, quando il principio esplicativo rimane allo

stesso livello del fenomeno da spiegarsi, come in questo

caso, la spiegazione risultante non rappresenta mai

piena comprensione, non tale quale la piena

comprensione di un pensiero che non tralascia alcuna

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102

ulteriore domanda riguardo un’affermazione; quando

non viene raggiunta alcuna comprensione, o solo un

capire limitato, possiamo continuare a porre domande

finché arriviamo a un pensiero puro – che è la normale

procedura in matematica. Comunque, nelle scienze

naturali facciamo ciò a scapito delle qualità, che in

questa procedura vengono perse.

La meccanica ed il pensiero meccanico stanno ad un

livello al di sotto del percepibile sensorio, semplicemente

perché cercano di ridurre tutte le qualità ad entità senza

qualità, a particelle e forze. Mentre la vecchia visione

del mondo era interessata allo scopo, la direzione, ed il

significato dei fenomeni – col loro “perché”, la loro

motivazione – il pensare meccanicistico si focalizza solo

su prove irrefutabili, “rigide”, sulle loro applicazioni, ed

il loro “come”, cioè, il loro meccanismo. Galileo per

esempio ridusse tutte le qualità a quelle di misura,

forma, numero, e movimento. Spiegò quindi queste

“qualità” – se ancora possono essere chiamate così – coi

concetti di forza, resistenza e velocità. Questi concetti

erano attinti ed adattati dal mondo vivente; ma lì

hanno un carattere intenzionale. L’antica scienza era

una scienza dell’essenza, mentre la scienza moderna ha a

che fare con meccanismi e trasformazioni.

Descrivere i processi matematicamente non è la stessa

cosa di comprenderli. Per una descrizione matematica

dobbiamo prima osservare un processo naturale (o

ricostruire il suo presunto corso) utilizzando un modello

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4 – Il Linguaggio della Realtà 103

di esso come linea direttiva, potendo quindi descrivere

ciò che abbiamo osservato in simboli ed equazioni

matematiche. Abbiamo oramai preso due passi

acriticamente e perfino senza notarlo. Primo, la

“cognizione” ha già determinato ciò che dobbiamo

descrivere matematicamente, ma non abbiamo messo

epistemologicamente in discussione questo “ciò” (ad es.

in termini di una teoria della cognizione). Secondo,

utilizziamo simboli nella nostra descrizione matematica,

come quelli per la massa, la densità, la velocità, e così

via, anche senza averli esaminati o accertati

epistemologicamente. Quindi, le descrizioni

matematiche “di successo” attribuiscono spesso

concretezza ad entità che non originano nella nostra

osservazione del dato mondo percettivo – le entità

guadagnano o hanno concretezza a loro ascritta dal

“successo” delle descrizioni matematiche. Tali entità

sono spesso parte del nostro presupposto quando

formuliamo il modello, o ipotesi; ed in seguito siamo

portati a considerarle sempre più reali delle percezioni

con le quali siamo partiti.

Per un pensiero più o meno insano, gli ordinari quesiti

sulla realtà si focalizzano in due punti. Il primo riguarda

il mondo del pensiero: Sono le nostre idee e concetti già

pienamente formati nella sfera superconscia o in un

mondo spirituale, dal quale semplicemente li

“copiamo”, o dobbiamo noi stessi formare i nostri

concetti ed idee esternamente al mondo delle idee? Il

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secondo punto e domanda riguarda il mondo percettivo:

La natura ed i suoi fenomeni sono già “lì”, esistono già

prima che possiamo cognizzarli?

Entrambe le questioni portano lo stampo di una

appresa ingenuità cognitiva. Inoltre, la prima domanda

origina da un incompreso Platonismo assumente il

“mondo delle idee” consistente di particolari finiti, idee

pienamente formate, che possiamo quindi “riprendere”

[portare giù] secondo necessità. In riguardo a ciò

possiamo imparare molto studiando una lingua

straniera che sia molto diversa dalla nostra. Possiamo

quindi sperimentare vividamente la relatività dei

sistemi concettuali. Per esempio ci sembra logico

coniugare tutti i verbi allo stesso modo: Io corro, Io

dormo, Io aspetto; tu corri, tu dormi, tu aspetti, e così

via. Ad ogni modo un diverso tipo di “logica”

considererebbe questa coniugazione completamente

illogica in quanto esprimente nello stesso modo fatti

molto differenti. Dopo tutto correre è una attività, come

potrei trattare allora linguisticamente alla stessa

maniera l’aspettare o il dormire? Ci possiamo esercitare

a correre – ma per aspettare e dormire? Ci sono infatti

linguaggi che prendono in considerazione queste

differenze ed hanno, conseguentemente, differenti

espressioni per esse.

Il mondo delle idee non consiste di idee predeterminate

perché, se questo fosse il caso, il loro numero sarebbe

limitato. Piuttosto, il mondo delle idee consiste

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4 – Il Linguaggio della Realtà 105

nell’infinita possibilità – corrispondente alla nostra

capacità – di separare più e più idee esternamente a esso

stesso. Questo è ciò che facciamo non appena il pensiero

si è emancipato dal linguaggio. Se questo non fosse il

caso, non potremmo neppure capire le differenze tra le

lingue.

Riguardo la seconda domanda, la “natura” è, senza

dubbio, non creata da noi e dal nostro processo

cognitivo. La vera domanda è ciò che intendiamo per

“natura”. Ciò che chiamiamo “natura” ad un punto

particolare nel nostro sviluppo, sia come specie che come

individui, è già una particolare figura, alla cui creazione,

cosciente o incosciente, siamo stati partecipi. Ciò è vero

sia per la data figura percettiva che per la seconda,

cosciente comprensione cognitiva. Ogni cosa di cui

parliamo è sempre una figura che già contiene la nostra

attività. Sostenere, in questo senso, che la natura è già

esistita, sarebbe ingenuo; ciò implicherebbe che se delle

persone come noi avessero affrontato la data realtà della

natura prima di noi, essi avrebbero visto la stessa figura

della natura che vediamo noi, o almeno una

qualitativamente simile.

Vista come un testo, comunque, la natura è una lettera

che non abbiamo scritto noi – se l’avessimo scritta non

sarebbe per noi un enigma – e neppure sta venendo

scritta ora, in questo momento – le scienze naturali non

sarebbero possibili se ciò fosse così. Un testo è sempre un

testo interpretato; esso significa ciò che i suoi lettori

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comprendono. Noi siamo o potremmo essere lettori della

lettera che la natura è. La nostra comprensione è una

realtà, una che non esisteva in precedenza. Per il

momento comunque, non è ancora chiaro se la natura

sia un testo o meno.

Il dato – la natura, il percepire, il pensare, l’attenzione,

e così via – è dato, senza alcun presente contributo da

parte nostra. Ciò è il significato del termine “dato” in

principio, nella sua forma estrema, al di là di una

epistemologia, cioè, senza alcuna strutturazione del

dato. Non appena abbiamo un’immagine mentale di esso,

comunque, il dato è strutturato; questo è lo stadio dei

particolari. Né questa struttura, né l’immagine del dato

esistono da noi separati. Dopo tutto, anche gli esseri

umani, nella loro “datità”, non sono delle loro proprie

creazioni. Invece noi diveniamo le nostre creazioni;

diveniamo quell’essere che noi stessi cognizziamo (non

ciò che immaginiamo o fantastichiamo).

Quindi, ogni cosa della quale parliamo o pensiamo, o in

riguardo a cui poniamo domande, è già una immagine

mentale, un elemento conosciuto, una struttura. Questo

è il potere ed il carattere fondamentale della parola, del

quale siamo di solito inconsapevoli. Dopo tutto, non

possiamo parlare di qualcosa che non conosciamo o che

non possiamo conoscere, e quando ci proviamo

comunque, portiamo sempre ciò che già conosciamo nel

nostro pensare. La “cosa-in-sé”, l’”inconscio”, la

“materia senza proprietà”, particelle elementari che

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4 – Il Linguaggio della Realtà 107

possono essere suddivise infinitamente – tutto ciò è

testimonianza del fiasco sforzo di pensare l’impensabile,

il non-ideale, il non-similparola. Solo ciò che è

similparola esiste nel mondo del Logos. Nonostante ciò,

è in moto un’enorme tentativo di introdurre ciò che non

è similparola in questo mondo e quindi di distruggerlo.

Il dato è ciò che sempre “c’è stato”; è il residuo della

prima realtà o, per usare un’espressione religiosa, il dono

degli dei. Ciò di cui abbiamo esperienza, ciò che

percepiamo, pensiamo, conosciamo, immaginiamo, e ciò

di cui parliamo, non esiste da noi separato e mai lo fu.

Questa verità potrebbe sembrare superficiale; essa segue

tuttavia dall’intuizione che la cognizione non è un

semplice riprodurre, copiare, tradurre, o ripetere

qualcosa che già è esistito priore all’atto conoscitivo.

Parte della realtà appare a noi interna, cioè, l’idea.

Comunque, è difficile distinguere tra vera o piena realtà

ed il dato, specialmente il dato percettivo, perché un

sentimento di esistenza autonoma è senza dubbio una

caratteristica di questa parte della vera realtà (vedi

capitolo 5).

Quando ci domandiamo se il viola, la luna o l’unicorno

sono già esistiti prima che li conoscessimo, il nostro

vero, fondamentale quesito sta nel domandare se le

immagini mentali, figure, e sintesi di percetti e concetti,

sono già esistiti prima che li creassimo. La risposta è

chiara. Ciò che è “già esistito” priore alla nostra attività

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è il dato; al di fuori di questo dato abbiamo separato i

nostri concetti e percetti e creato una sintesi.

La Terza Realtà

La struttura della vera o piena realtà è simile a quella

del linguaggio; percetto e significato, cioè, sono uniti dal

principio. Fintanto che il linguaggio non viene usato in

modo interamente meccanico, esso ritiene il carattere

della prima realtà. In altre parole, il suo aspetto

percettivo funziona come un segno; significa qualcosa.

Non appena questa realtà viene persa, comunque,

questa unità si disintegra nelle separate funzioni di

percezione e pensiero, le quali hanno avuto origine nel

linguaggio. Solo in questo modo possiamo divenire esseri

indipendenti, liberi; nella sfera del pensiero possiamo

trovare questa indipendenza.

Il mondo percettivo non è più un mondo di segni ma

diviene un mondo di oggetti, e diventa quindi discutibile

ed enigmatico per il pensiero. Il mondo percettivo

ritiene comunque per noi la sua sensazione di realtà, e

siamo quindi portati a crederlo nella sua piena e

completa realtà. Non ci rendiamo conto che questo

mondo percettivo ci è dato già intessuto di concetti,

anche se, insufficientemente, non coprono tutto il dato;

ecco perché per il pensiero questo è un problema da

risolvere. Il dato che ci è stato dato senza domande

esisteva già prima che ci fosse la nostra cognizione,

prima del nostro atto cosciente di cognizione.

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4 – Il Linguaggio della Realtà 109

La seconda realtà è necessariamente insoddisfacente,

nonostante le promesse della tecnologia – che è basata

su questa immagine della realtà – di risolvere tutti i

problemi. Da un lato questa realtà è insoddisfacente in

parte perché non possiamo trovare le idee creazionali o

concetti funzionali nei fenomeni naturali – questi

possono essere raggiunti solo in piani superiori della

coscienza. Da un altro lato, non possiamo ritenerci

soddisfatti della cognizione e del cognizzante se non

focalizziamo la nostra attenzione sulle stesse funzioni

cognitive della coscienza, piuttosto che su ciò che è,

spesso scambiato per, il loro meccanismo. Come la

scienza dello spirito ci ha mostrato alla fine del secolo

scorso, in quanto persone moderne possiamo, ed infatti

per necessità dobbiamo, voltare la nostra attenzione in

questa direzione. La scienza dello spirito inoltre ci ha in

seguito presentato i dettagli e la metodologia per questa

nuova direzione della nostra attenzione, ma ad oggi le

persone li hanno a mala pena compresi e tanto meno

messi in pratica. Ciò nonostante non ci può essere alcun

dubbio che possiamo raggiungere la vera realtà solo

innalzando la nostra coscienza in entrambe le direzioni

della nostra vita cognitiva – formando cioè nel nostro

“pensare”, vivere, sentire e volere, delle idee che ci

permettono di percepire e leggere il mondo percettivo

come regno di segni. La vera realtà quindi verrà tramite

noi attuata, e sarà propriamente nostra. Discuteremo i

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110

requisiti e le capacità necessarie per ottenere questa

terza figura della realtà nei capitoli 8 e 9.

Per superare il dualismo consciamente dobbiamo

praticare esercizi di coscienza che lo neutralizzino alla

sorgente nel collegare temporaneamente[con un ponte]

l’abisso che separa i due piani di coscienza che sono stati

sopra indicati. Ciò risolve anche l’enigma sul come, in

quanto individui liberi, possiamo creare qualcosa di

universale nella nostra cognizione e nelle attività su di

essa basate. Qui pure, il fenomeno del linguaggio ci può

servire come “modello” per fornirci nuove intuizioni.

Dopo tutto ognuno di noi utilizza il linguaggio in

maniera altamente individuale ed unica, ma il

linguaggio è ancora un fenomeno della comunità; è da

tutti condiviso e il suo contenuto è universale.

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5 – Il Carattere della Realtà Percettiva 111

5 – Il Carattere della Realtà Percettiva

Il mondo percepibile ai sensi appare denso di quesiti

alla nostra coscienza interrogante; come questo mondo

sia divenuto discutibile è stato sopra discusso. Nel

processo, la sensazione di realtà e quella di verità si

separano; la prima rimane col mondo percettivo, mentre

il sentimento di verità si accende con le nostre

intuizioni, guidandole. La sensazione di realtà

accompagna anche la percezione che abbiamo degli

oggetti fatti dall’uomo. Comprendiamo questi oggetti

nella loro funzione. Il materiale di cui sono fatti,

comunque, è dato in natura o è una modificazione di

qualcosa dato in natura. Quindi, nella nostra percezione

di questi oggetti una parte di essi non è permeata di

concetti, e questa parte evoca in noi la sensazione di

realtà.

La Sensazione di Realtà – Osservazioni

Il miglior modo di fare queste osservazioni è con nuove

percezioni o con la comprensione intuitiva di nuove idee,

in quanto possiamo così studiare i processi nella loro

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forma pura, senza alcuna mistione con altri processi

animici o abitudini.

1. L’elemento della percezione che “comprendiamo”, la

parte concettuale, il suo “che cosa”, giace allo stesso

piano della coscienza di tutti i nostri pensieri. Su questo

piano ci ricordiamo anche di ogni percezione come

figura mentale rappresentativa. Paragonate alle

percezioni, le figure non sembrano reali; esse sono di

sicuro fenomeni della coscienza. Le percezioni,

comunque, appaiono essere veramente lì, essere reali.

Inoltre possiamo in ogni momento ricordare o

immaginare mentalmente un paesaggio, ma possiamo

vederlo solo nel momento presente e quando esso è a noi

presente. Le nostre immagini mentali ed il nostro

pensiero, quindi, sono indipendenti da tutti i fattori

esterni, ossia, da tutti i fattori percettivi. La percezione

comunque, non dipende solo da noi. Il fenomeno della

percezione, quindi, ha il carattere del presente da un

lato – nell’incomprensibile passato – e il carattere del

passato dall’altro lato – nella sua concettualità.

La percezione ci mostra sempre qualcosa “di più”, e

questo è precisamente ciò che sembra essere la sua parte

non concettuale. Ciò può comunque sembrare una

illusione, in quanto l’elemento che sperimentiamo è solo

l’aspetto che non concepiamo concettualmente: cioè, la

differenza tra il percetto e l’immagine mentale. Questa

incomprensibilità non implica necessariamente che ciò

che non afferriamo sia effettivamente nonconcettuale.

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5 – Il Carattere della Realtà Percettiva 113

Passare a quella conclusione ci ha portato dal

nominalismo al materialismo, il quale è persuaso che

solo il nonideale o il nonconcettuale esista e sia “reale”.

Invece, possiamo attribuire l’incomprensibilità del

percetto all’incapacità della nostra moderna coscienza

nell’afferrare concetti viventi, senzienti, e volenti – in

breve, superiori. I concetti che comprendiamo, e che

anche la nostra memoria si raffigura, appartengono al

piano del passato, e questo è il motivo per il quale essi

non ci suscitano il sentimento di realtà.

2. Per sperimentare qualcosa come reale esso dev’essere

presente nello spazio e nel tempo. Il presente temporale,

un punto tra il futuro ed il passato, è di difficile

comprensione. La presenza spaziale anche, non è facile

da comprendere; ad esempio, dobbiamo solo chiederci

quanto possa da noi distare un oggetto per poterlo

ancora considerare “presente”. Questa domanda,

comunque, riduce il problema al raggio d’azione dei

nostri sensi, e ciò non ci è di aiuto, in quanto possiamo

così solo dire di percepire ciò che percepiamo.

Applichiamo tuttavia “correttamente” questi concetti

incomprensibili e li comprendiamo quando vengono

usati (per esempio, con le congiunzioni); ciò ci indica la

sfera superconscia, la sorgente di tutte le capacità e

abilità umane, che abbiamo considerato nella nostra

discussione dei concetti (Vedi Capitolo 2, “Riguardo i

Concetti”). Questa fonte superconscia è la parte

spirituale della nostra anima. Abbiamo chiamato livello

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del presente quello più inferiore di questa parte; esso è

identico col piano dell’immaginazione.

Possiamo sperimentare l’esistenza e la realtà di questa

presenza in molti fenomeni. Per esprimere un nuovo

pensiero nel tempo e nello spazio, ossia nel parlare o

nello scrivere, dobbiamo prima avere “anticipatamente”

il pensiero per essere in grado di trovare delle parole

appropriate e per poter costruire appropriatamente le

nostre frasi. Non siamo pienamente coscienti dei nostri

pensieri e non li comprendiamo completamente fino a

che non li esponiamo in parole. Ciò nonostante, per

poterlo esprimere, dobbiamo “concepire” per primo il

pensiero. I destinatari della nostra comunicazione

devono quindi effettuare l’opposta operazione. Per

comprendere il pensiero che stiamo trasmettendo, essi

devono rendere “simultaneo” ciò che appare nel tempo e

nello spazio come sequenza discontinua o

giustapposizione. Sia il mittente che il destinatario

toccano il piano del presente. Anche se il contenuto della

comunicazione nel corso di una frase si rivela nel tempo

o nello spazio, esso è comunque sempre “simultaneo”,

un’unità. Nel processo di venir espresso, esso viene

separatamente portato nel mondo temporale-spaziale

dei nostri sensi.

Infatti il contenuto è tanto eterno[senza tempo] quanto

la sua sorgente. Quindi l’essenziale o eterno presente è la

sorgente da cui affiora la dualità congiunta di spazio e

tempo – in sé non comprensibile –, nel momento in cui

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5 – Il Carattere della Realtà Percettiva 115

la sorgente viene riflessa, e non più sperimentata tale

com’è. In seguito alla concezione senza tempo del

significato di una frase, la sorgente stessa si ritira nella

sfera superconscia. Chiamiamo tempo e spazio i

frammenti di essa che appaiono al livello del passato.

Come possiamo vedere nel concetto di tempo, solo il

passato ha significato; il presente (“adesso”) ed il futuro

possono solo essere immaginati, rispettivamente come

un punto e come una continuazione della “linea

temporale”. Siccome il passato è “passato”, non

possediamo più la realtà nel tempo; il sentimento di

realtà ha una sorgente esternamente al tempo: nella

essenziale presenza.

Un’attenta osservazione rivela che la dimensione

spaziale è senza tempo, mentre la dimensione temporale

è fuori dallo spazio. Non possiamo percepire

direttamente il tempo, ossia il movimento, il processo, e

il cambiamento. Percepiamo solo la cosa che viene

mossa, mentre un processo o un cambiamento si svolge.

Questa presenza è anche la sorgente del sentimento di

verità o evidenza, che è tanto importante nella nostra

vita quanto la sensazione di realtà. Questa sorgente

viene toccata in tutte le nostre affermazioni ed è a tutte

queste di supporto.

Quindi, il processo della percezione consiste di un

elemento passato e di uno presente. Il primo appare

nella concettualità del percetto e nelle nostre opzioni di

sua rappresentazione mentale, entrambe le quali

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partecipano al secondo e a tutti i successivi atti

percettivi dello stesso contenuto. L’elemento del

presente appare nel sentimento di realtà che

accompagna la percezione.

3. La “Presenza” si accende anche nel pensiero

intuitivo e nella comprensione. Comunque, per via del

carattere fulmineo e sfuggente dell’intuizione – la sua

immediata estinzione – non percepiamo i pensieri come

“reali”. Siamo coscienti solo dei risultati dell’intuizione,

nel piano del passato. Nel nostro pensare ci sforziamo

d’intuire, mentre la percezione sembra più essere data,

anche se certo richiede la nostra attenzione.

L’attenzione pensante e l’attenzione percipiente

differiscono in quanto la nostra attenzione è molto più

auto-cosciente nel pensare che nel percepire. La ragione

di ciò è che la nostra auto-consapevolezza è una

consapevolezza pensante; si risveglia nel pensiero.

C’è un’altra differenza tra pensare e percepire. La

sensazione di ovvietà o auto-evidenza che si accende

quando comprendiamo, è altamente differenziata,

concreta e adattata alle molteplici possibilità di

comprensione. In contrasto, la sensazione di realtà nella

percezione viene avvertita come indifferenziata, o

ottusa, precisamente perché la sperimentiamo nella non-

comprensione. Questa esperienza è molto simile a quella

del senso del tatto.

4. Si può osservare che entrambi i piani del passato e

del presente partecipano nella percezione e nella

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5 – Il Carattere della Realtà Percettiva 117

comprensione, anche se in modi diversi. La vita della

nostra anima oscilla in entrambe queste funzioni

cognitive, tra i due piani. Quando comprendiamo

qualcosa tramite il pensare, la vita della nostra anima

tocca appena il piano superconscio del presente e rimane

poi nel piano del passato fino al successivo atto di

comprensione. Quando percepiamo qualcosa,

comunque, questo pendolo interiore o oscillazione tra i

piani continua fintanto che stiamo percependo

attentamente. Nella percezione possiamo sperimentare la

fase dell’arresa a ciò che percepiamo, più intensamente e

non solo momentaneamente – e sperimentare anche il

definitivo ritorno della coscienza a sé stessa. Questo

ritorno coincide con l’assimilazione concettuale di ciò

che abbiamo provato mentre venivamo arresi alla

percezione.

Queste due fasi dell’attività della coscienza differiscono

anche nel loro livello di veglia, o autocoscienza. Nella

fase di venir arresi alla percezione, l’auto-

consapevolezza è addormentata; si risveglia solo nella

seconda fase. Eccetto per casi speciali, come le

percezioni artistiche, o quelle compiute per via di

esercizi di coscienza, i due piani si alternano molto

velocemente l’uno con l’altro. Inoltre, quando veniamo

arresi alla nostra percezione possiamo notare che la

prima fase è simile all’inalazione – come per stupore –,

mentre la comprensione, la seconda fase, è in relazione

all’esalazione – come per nominare le cose.

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5. Nel venire arresi a ciò che percepiamo, non siamo

consapevoli di noi stessi, e ciò vale anche durante l’atto

di intuizione. Infatti, più ci “dimentichiamo” di noi

stessi, più intenso sarà il nostro atto cognitivo. Il

risultato dell’intuizione nel pensiero è il compreso, col

quale la coscienza si risveglia. Il risultato della

percezione è sia il “che cosa” di ciò che abbiamo

percepito – che è il concettuale e può avere origine nel

nostro pensiero intuitivo – sia il sentimento che il

percepito è reale.

6. Ulteriori confronti rivelano che, nel pensare,

abbiamo a che fare solo con la nostra attenzione; questa è

tutto ciò che è richiesto per l’effettivo pensare. La

percezione, comunque, richiede l’attività di un organo di

senso in aggiunta alla nostra attenzione. Di solito, le

persone considerano solo l’organo di senso, anche se

un’intuizione fondamentale per una teoria della

percezione sensoria è che, – come tutti notiamo di

frequente – anche se gli organi di senso sono recettivi,

non percepiamo cosa alcuna, a meno che non “vi” sia

pure la nostra attenzione. Anche se tutti i processi fisici

e fisiologici necessari hanno luogo negli organi di senso e

nella parte del sistema nervoso ad essi connesso, ancora

non avviene percezione senza l’attenzione. Questi

processi possono essere necessari per la percezione, ma

essi non sono in sé sufficienti per farla avvenire.

Il nostro pensare è accompagnato anche dai processi

fisiologici nel cervello. La sorgente di questi processi,

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5 – Il Carattere della Realtà Percettiva 119

comunque, non è nell’ambiente esterno; essi vengono

attivati dallo stesso pensare. Come abbiamo discusso nel

capitolo 1, credere che questi processi siano il nostro

pensare o la sua causa ci condurrebbe semplicemente ad

un sistema di input/output. Ciò solleva la questione

dell’origine dell’input; ossia, dovremmo chiedere che

cosa metta inizio o controlli i processi fisiologici nel

cervello. In questo modello basato-sul-cervello, la

“logica” corrisponderebbe ad un ordine fisiologico

legale; in questo caso, non potremmo parlare né di

“logica”, né di leggi fisiologiche, in quanto esse

entrambe richiedono un punto di riferimento, un

soggetto, indipendente dalla fisiologia.

7. Le due sensazioni che abbiamo discusso, quella di

evidenza, e quella di realtà, non possono essere provate,

né lo può essere il loro contenuto; tale prova non è

possibile né necessaria. Qualcosa a noi auto-evidente

non può essere, oltre a ciò, ulteriormente provato e non

possiamo, e non necessitiamo di, provare l’esistenza di

qualcosa che il nostro senso di realtà ci dice essere lì. Nei

nostri tentativi di sviluppo di tali prove, faremo ancora

ricorso solamente a quei due sentimenti, che stiamo

cercando di dimostrare.

La sensazione di evidenza ci dà un livello di certezza

nella cognizione che non viene mai raggiunto nella

percezione. L’asserzione che “il metodo induttivo non

conduce mai a certezza nella conoscenza” sta alla base di

tutte le moderne teorie scientifiche. Questa massima

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dovrebbe tuttavia essere accettata come certezza

incontestata – il che mostra che, nel pensiero, l’evidenza

può effettivamente condurre a risultati certi, definitivi,

un fatto che viene spesso ignorato e perfino negato.

Questa sensazione di evidenza si applica a ciò che è

impercettibile ed immateriale. Per contro, il senso di

realtà sembra applicarsi soprattutto al regno materiale.

Una più attenta esaminazione, comunque, mostra che

ciò che i nostri sensi ci mediano – le qualità sensorie, la

forma, o il concetto (cioè il “cosa” del percetto), e

perfino la sensazione del percetto nel senso del tatto –

sono anch’esse “immateriali”.

Il sentimento di realtà origina nella parte che non viene

trasmessa dai sensi, la parte che chiamiamo,

giustamente o erroneamente, il “materiale”. In altre

parole, non sperimentiamo il percetto come reale in

quanto esso, come un “cosa”, come concetto, giace nel

piano del passato: ma crediamo che il percetto esista

perché abbiamo provato un senso di realtà mentre lo

percepivamo.

E’ facile vedere che i nostri sensi più alti “leggono”

qualcosa di immateriale a partire dal “materiale grezzo”

fornito dai sensi più bassi – per esempio, i suoni parola, i

pensieri, e l’identità di un (altro) Io. Siamo vagamente

consapevoli che lo stesso valga per i sensi intermedi, e

ciò induce le persone a credere che le qualità secondarie

trasmesse dai sensi siano semplicemente soggettive ed

irreali. A partire dal tempo di Galileo, solo quelle qualità

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5 – Il Carattere della Realtà Percettiva 121

che sembravano accessibili al senso del tatto vennero

considerate come primarie, “reali”; naturalmente, anche

questa osservazione è incorretta. Infatti, il nostro senso

del tatto ci trasmette delle tali indifferenziate

impressioni che possiamo dire che, di per sé, non

trasmette cosa alcuna eccetto il punto nel quale il nostro

corpo tocca un’oggetto. Percepiamo le qualità

dell’oggetto, come la sua ruvidità, la durezza, e così via,

solamente con l’aiuto di altri sensi, come il senso del

movimento ad esempio.

8. Le percezioni sono spesso connesse coi sentimenti.

Per la maggior parte, questi sentimenti sono “auto-

sentire” o “auto-provare” e non sono cognitivi: esempi

ne sono i desideri, le simpatie, l’odio, l’invidia. L’altra

parte è “cognitiva” e sente il “quello” lì fuori, come per

esempio anche nella passiva attività artistica o nel

sentimento di evidenza. I sentimenti cognitivi vengono

risvegliati anche negli esercizi cognitivi. Entrambi

questi sentimenti – auto-sentire e sentimento cognitivo

– sono “potenti” perché non appaiono nel piano della

coscienza del passato. Ecco perché i pensieri sono

impotenti sui sentimenti auto-senzienti, che appaiono

tanto inevitabilmente quanto i percetti. I pensieri

possono alludere appena a ciò che i sentimenti cognitivi

trasmettono, se non sono addirittura del tutto

insufficienti a descriverli.

In confronto ai due sentimenti appena descritti, il

senso di realtà sembra essere una terza qualità.

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Osservandolo con intensificata attenzione, vediamo che

il senso di realtà non appare durante la prima fase di

percezione, quando veniamo arresi all’oggetto di

percezione. Durante questa fase, siamo un tutt’uno con

l’”oggetto”, che così chiamiamo in seguito. In questa

prima fase siamo ancora tutt’uni con esso, in realtà,

senza tuttavia notare ciò. Questo stato è simile a vivere

in una realtà sognante senza rendersene conto. Questa

fase della percezione è una rimanenza del gesto animico

nella “prima” realtà.

Nella seconda fase della percezione, quando siamo

pienamente coscienti, “entro noi stessi”, e “sappiamo”

concettualmente ciò che percepiamo, sperimentiamo la

realtà in contrasto a qualcosa di irreale. La prima

esperienza irrompe quindi, da un lato col sentire sé stessi

entro il corpo, da un altro lato col sentire la realtà che

pertiene agli oggetti a noi esterni. Entrambe queste

sensazioni sono solo vaghe.

Lo smembramento della nostra “prima” esperienza

della realtà ha determinato la configurazione del tatto,

ossia l’indifferenziata sensazione della superficie del

nostro corpo e della superficie dell’oggetto. Avendo

cognizione di ciò, siamo portati ad osservare l’esperienza

del tatto.

9. Di tutti i nostri sensi, il senso del tatto è il più auto-

senziente; ossia nel toccare sentiamo l’organo di

percezione. Sappiamo con che parte del nostro corpo

stiamo toccando qualcosa. In contrasto, possiamo

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5 – Il Carattere della Realtà Percettiva 123

osservare la funzione degli occhi e delle orecchie solo

tramite esperimenti guidati dal nostro pensiero.

Di conseguenza, il senso del tatto ci “dice” quasi nulla

riguardo a ciò che viene percepito, eccetto che esso è un

“non me”. Il senso del tatto ci mette a confronto con un

mondo fuori di noi stessi.

Ciò che il senso del tatto trasmette è estrema alterità

[opposizione o distinzione a/da qualcos’altro] e non può

quindi entrare nella nostra anima immediatamente.

Ogni altro senso ci comunica una più profonda

“immersione” in ciò che viene trasmesso; il senso del

tatto, comunque, ci rende consapevoli dei confini del

corpo. Nel senso del tatto, l’equilibrio tra l’informazione

in riguardo a ciò che viene percepito e l’auto-senzienza –

che possiamo facilmente accertare per tutti i nostri sensi

– tende verso estrema auto-senzienza. In termini di

“egoità” o auto-senzienza, il senso del tatto detiene il

primo posto tra i sensi. Come accresce l’intensità del

tatto, il processo diviene più doloroso, sino al punto di

ferire.

Eccetto per i sensi più alti, che assimilano il materiale

fornito dai sensi intermedi, tutti gli altri sensi possono

venir lesi, ed il loro normale funzionamento

scombussolato per eccessiva stimolazione.

Questo scompiglio è quasi sempre dovuto ad influenze

fisiche. Ciò significa che in tutte le attività sensoriali (ad

esclusione dei tre sensi superiori), i sensi più bassi, che

monitorizzano e regolano le condizioni del corpo –

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soprattutto il senso del tatto – sono ad un certo livello

risonanti, e conseguentemente interessati. Potremmo

non essere consapevoli di questa cooperazione tra i sensi

se l’organo individuale non viene interessato più

intensamente del normale; ciò nonostante essa è

presente. Per via di questa partecipazione dei sensi più

bassi, anche tutti gli altri sensi forniscono auto-

senzienza in aggiunta alle qualità percettive che

trasmettono. Più sono coinvolti i sensi inferiori, meno

differenziata ed espressiva sarà la nostra percezione.

Il funzionamento dei Sensi Umani

Sulla base delle precedenti e seguenti osservazioni

possiamo riconoscere che i sensi sono delle formazioni

composte, consistenti di un organo di senso, il cui

veicolo fisico possiamo identificare più o meno

esattamente, e della nostra specifica, qualitativamente

differenziata attenzione, che viene istruita nella prima

infanzia tramite concetti superiori. I bambini, cioè,

imparano ad essere attenti a qualità, come il colore ad

esempio.

Fintanto che il mondo sensorio e le sue cose consistono

di qualità, particolari (“quello”) invece che di

“sostanze” – in altre parole, fintanto che sono

configurazioni, che “sono così”, essi sono simil-idea –

possiamo percepirli e conoscerli con l’attenzione del

nostro essere-Io, che è adatta e qualificata a percepire

configurazione, qualità-così, ed idee. Gli organi di senso

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5 – Il Carattere della Realtà Percettiva 125

di per sé, da un altro lato, non sono capaci di

cognizzarle, perché l’idealità può essere cognizzata solo

dallo spirito umano, dall’Io. Perfino gli elementi delle

cose, le qualità sensorie, sono ideali; la nostra istruita

attenzione quindi è ovviamente il veicolo di tutte le

nostre percezioni. Gli organi di senso, quindi, hanno una

funzione diversa, una che è indispensabile per la

percezione cosciente. Dopo tutto, la nostra attenzione e i

nostri organi di senso devono lavorare assieme perché la

percezione cosciente si verifichi.

I processi fisici-fisiologici negli organi di senso

corrispondono più o meno al contatto fisico nel senso del

tatto.

Anche i processi che avvengono nel cervello quando

stiamo pensando corrispondono al tatto. Comunque

questi processi sono messi in moto solo dal pensiero

stesso. Questi processi che avvengono nello specchio

cerebrale, allo stesso tempo, immobilizzano ed

ottundono il pensiero intuitivo, che affonda candendo

nel piano del passato. Più intuitivo è il pensiero, meno

tracce esso lascerà nel nostro organismo fisico, più

libererà sé stesso dal corpo.

Noi non percepiamo i processi fisici nel cervello o negli

organi di senso; questi non sono parte dei nostri pensieri

finiti o delle nostre percezioni. Eccetto per stadi

superiori di percezione e cognizione, diveniamo

normalmente consci dei nostri pensieri finiti solo mentre

vengono rispecchiati. Come abbiamo discusso, gli stessi

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pensieri non possono aver origine nello “specchio”.

Possiamo quindi scoprire, nel processo di divenir consci

del nostro pensiero, un sottile tipo di “toccare” che

evoca l’auto-senzienza, anche se molto più finemente del

toccare fisico.

Per esaminare queste relazioni nella percezione

dobbiamo studiare le sue due fasi separatamente.

Entrambe le fasi della percezione influiscono sugli

organi di senso, e, nella seconda fase, l’attività

concettuale da anche inizio ai processi nel cervello che

accompagnano il nostro pensare. Questi processi non

causano la sensazione di realtà perché questa non sorge

mai senza percezione. E nemmeno essa origina nei

processi degli organi di senso; se così fosse avremmo già

la sensazione di realtà nella prima fase della percezione,

e persino in assenza di attenzione. Quindi, i processi

fisiologici, che causano immobilizzazione ed ottusità,

non possono evocare la sensazione di realtà. Dopo tutto,

come qualcosa di presente, la sensazione di realtà non è

per definizione immobilizzata, ottusa, o riflessa – se lo

fosse, non ci darebbe l’impressione di realtà.

La sensazione di realtà – si può osservare – si sviluppa

nella seconda fase della percezione, quando la vita della

nostra anima è “entro noi stessi”. In questa fase, i nostri

istruiti sensi, o le nostre attività di associazione o

rappresentazione mentale, formano concetti, e li

aggiungono al mondo percettivo. Questi concetti

sviluppati in tempi moderni sono semplicemente

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5 – Il Carattere della Realtà Percettiva 127

concetti sostitutivi, semplici nomi e figure mentali. Il

piano del passato della nostra coscienza rifiuta, filtra o

“argina” i concetti superiori della natura e quelli dei

materiali degli oggetti artigianali (vedi capitolo 2,

“Riguardo i Concetti”); ma non li immobilizza – infatti,

non possono essere immobilizzati precisamente perché

sono concetti superiori. *

Questi potenti concetti non fanno ingresso nel piano

del passato. Eppure quello che ci siamo lasciati dietro

rimane vivo e ritiene il suo carattere di “presenza”;

incontra lo stesso destino di tutte le inspirazioni

superiori e possibilità che non afferriamo, anche se

potremmo.

La Sorte delle Idee Superiori

In passato le persone non percepivano la sfera del

mondo tanto reale quanto la percepiamo noi.

Simultaneamente, avevano una completamente reale

esperienza degli dei. Molto più tardi, gli universali

furono considerati delle realtà fondamentali, anche se le

persone non più li comprendevano funzionalmente

quando venivano utilizzati come concetti della natura.

In quei tempi, ciò che appariva essere reale, ma era privo

di concetto, veniva chiamato “maya” o illusione. Ciò che

allora veniva chiamato illusione è identico a ciò che

prendiamo ora per solida realtà.

* Vedi Kuhlewind, La Vita dell’Anima(The Life of the Soul), capitolo

2. Vedi nota 46

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Parola e mondo sono uno e lo stesso nella prima fase

dello sviluppo della coscienza, la quale ha duraturi

effetti percepibili nei bambini perfino nella nostra

epoca. Per esempio, i bambini e la maggior parte degli

adulti, trovano facilmente via di ritorno nel mondo delle

fiabe, specialmente se le fiabe vengono raccontate con

interiore immaginosa convinzione. Ogni volta che la

letteratura stimola ed evoca la nostra simpatia,

abbiamo un segno che la magia del mondo funziona.

Lo stadio del mondo che veniamo poi a conoscere,

consiste di spazio e tempo, gli appena afferrabili

frammenti della prima, unificata esperienza del mondo.

Ciò viene rivelato dal fatto che non possiamo trovare né

luogo né momento quando o dove il mondo diviene un

percetto. Dopo tutto, nello spazio e nel tempo possiamo

trovare solo processi spazio-temporali che già sono

percetti. Non possiamo accertare quando e dove questi

processi “cambino” in processi di coscienza,

semplicemente perché questi ultimi non hanno origine

dai primi, ma sono attività indipendenti.

Il grande cambiamento nella nostra esperienza della

realtà avviene gradualmente, mentre si forma l’abisso

tra il piano del presente e quello del passato. I processi

di coscienza si imprimono sempre più profondamente

nell’organismo fisico, dove causano processi fisiologici di

intensità crescente. Come risultato, i processi cognitivi

(l’attenzione) vengono mitigati e riflessi:

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5 – Il Carattere della Realtà Percettiva 129

Conformemente con la loro natura originaria, le immagini mentali [qui: idee] sono parte della vita della nostra anima, ma non possiamo divenir coscienti di esse nell’anima, a meno che l’anima non utilizzi coscientemente i suoi organi spirituali. Fintanto che resta vivente la natura originaria di queste immagini mentali, le immagini stesse rimangono inconsce nell’anima. L’anima vive in esse, ma non può di esse sapere cosa alcuna. Per divenir esperienze coscienti dell’anima per la coscienza ordinaria, le immagini devono ridurre la loro vita. Tale riduzione si verifica con ogni percezione sensoria. Quindi, ogni volta che l’anima riceve una impressione sensoria, la vita delle immagini mentali viene soggiogata, e l’anima sperimenta consciamente questa soggiogata immagine mentale quale veicolo di cognizione di una realtà esterna.

Secondo la scienza dello spirito, abbiamo un’altra

relazione col mondo percettivo oltre a quella sensoria:

La natura intrinseca di questa [altra] relazione non fa ingresso nella coscienza ordinaria. Ciò nonostante, essa esiste come una connessione

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vivente supersensibile tra noi e gli oggetti percepiti sensorialmente. Ciò che in noi vive come risultato di questa relazione è soggiogato dalla nostra organizzazione mentale e si trasforma in un semplice “concetto”. L’astratta immagine mentale è la realtà che si è spenta in modo da essere rappresentata entro l’ordinaria coscienza. Anche se viviamo dentro a questa realtà nella percezione sensoria, non diveniamo di essa coscienti nelle nostre vite. Una necessità interiore della nostra anima rende astratte le rappresentative immagini mentali. La realtà ci dà qualcosa di vivente, e noi “devitalizziamo” la parte di essa che cade nella nostra ordinaria coscienza.

Possiamo quindi chiederci che cosa succeda alla parte

non “devitalizzata”. Quando ascriviamo esistenza reale

ad un albero, per esempio, non lo facciamo in base alla

relazione tra ciò che vediamo ed i nostri occhi.

Piuttosto, questo giudizio riguardo l’esistenza di – in

questo caso – un albero, è basata su un’altra relazione

tra noi stessi e l’oggetto. L’ordinaria coscienza,

comunque, sperimenta distintamente e chiaramente solo

la prima relazione – tra i nostri occhi e l’albero che

vediamo. L’altra relazione rimane tenue e subconscia;

essa si manifesta solo nel risultato, ovvero, nel nostro

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5 – Il Carattere della Realtà Percettiva 131

riconoscimento del “verde albero” realmente esistente.

Infatti, ogni percetto che conduce a tale giudizio è

basato su una duplice relazione tra noi stessi ed il mondo

degli oggetti.

Nella prima fase della percezione – quando veniamo

arresi all’oggetto – questa duplice relazione consiste, da

un lato, nel sentire i processi negli organi di senso (che

conosciamo dalla psicologia), e da un altro lato, nei

processi dell’attenzione, o dell’Io. L’effettivo percepire

avviene in questi processi attentivi, e diveniamo

coscienti di esso quando viene riflesso da quelli negli

organi di senso. Nella seconda fase della percezione, i

processi nel nostro cervello che accompagnano la nostra

attività concettuale, riducono o attenuano una parte dei

processi attentivi. I concetti qui formati hanno un

carattere passato, e li abbiamo quindi chiamati concetti

sostitutivi.

La parte del processo percettivo che non viene

attenuata e ridotta consiste nelle potenti idee che stanno

dietro ai fenomeni naturali. Queste idee sono analoghe

alle idee funzionali dietro agli oggetti artigianali. Esse

non vengono “afferrate” o “concepite”, tuttavia entrano

nella nostra coscienza tramite i sensi – non tramite gli

organi di senso –, anche se solo in forma metamorfica.

Per raggiungere una chiara comprensione di questa

metamorfosi, discuteremo brevemente la natura di

queste idee.

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Quando concepiamo una nuova idea, una “chiara e

luminosa” volontà è senza dubbio attiva in questa

produzione. Il sentimento cognitivo di evidenza guida

l’intuizione nel nostro pensare. In altre parole, le tre

funzioni di pensare, sentire e volere formano una unità

nell’atto intuitivo, ma si dividono nella nostra coscienza

riflessa. Similmente, possiamo aspettarci – e

l’osservazione ci può confermare ciò – che le idee dietro

la natura dirigano tutte e tre le funzioni dell’anima. Una

ferma, immutabile volontà creazionale sta dietro ad

ogni fenomeno naturale, e noi adattiamo la nostra

volontà a questa volontà del mondo. “Nello

sperimentare il processo [di percezione della natura], ci

rendiamo conto che tramite questa inversione della

nostra volontà, la nostra anima prende il controllo di un

elemento spirituale esterno a sé stessa.”

Il sentimento della parola cosmica – i fenomeni della

natura – si sviluppa nell’indifferenziato ma vivente

senso di realtà – il cui sviluppo considereremo più

avanti. I pensieri che non vengono compresi divengono

“immagini” della natura, per esempio, immagini

“udibili” o “di odore”, e così via – segni scritti o parlati

che non comprendiamo e non possiamo “leggere-

insieme” o integrare, e che cerchiamo di supporre con i

nostri concetti sostitutivi. Come abbiamo visto, più

intensamente i nostri sensi vengono interessati, più il

loro funzionamento tende ad essere disturbato ed

esposto a dolore e lesione. Possiamo ora esaminare che

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5 – Il Carattere della Realtà Percettiva 133

cosa succede quando innalziamo la qualità dell’altro

ramo della duplice relazione, ossia, dell’attività della

nostra attenzione.

La scienza antica ha investigato la gerarchia dei sensi a

partire dai sensi più bassi e procedendo verso quelli più

alti. Ha esaminato il loro “perché”, la loro intenzione,

ma in definitiva la loro investigazione era rivolta al

“chi” di queste intenzioni. Le impressioni trasmesse dai

sensi medi erano considerate un sistema di segni che uno

poteva leggere. La cognizione era l’indagine di questi

parlare e scrivere degli dei – del loro significato. La

cognizione aveva a che fare con le idee. Durante quel

periodo, le persone sapevano per esperienza che le idee

non emergevano accidentalmente, indipendentemente

da una persona. Essi dunque parlavano dell’idea

relativa-all’Io, la parola. Il mondo era similparola, di

carattere parlato. La cognizione era allora un dialogo

con la natura; le persone sentivano esseri creativi – o

almeno i loro rappresentanti: esseri naturali, come gli

dei della natura, dei o spiriti di montagne, fiumi,

eccetera – dietro la natura.

Ad ogni modo, la sopra citata trasformazione della

nostra coscienza ha causato ai concetti del linguaggio

riguardanti la natura il loro aridirsi in semplici nomi.

Come risultato, il precedente percettivo mondo di segni

si trasforma in un mondo di cose. E mentre ciò accade, il

dialogo con la natura termina, perché, se il mondo

percettivo consiste di cose piuttosto che di idee, nessun

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essere dunque sta dietro ai nostri percetti. La nostra

investigazione non procede più con un movimento verso

l’alto. Ciò che in un tempo precedente era considerato

materiale grezzo fornito dai sensi medi o dal senso del

tatto, diventa ora “la realtà”. Essa non è più

complementata con idee – così sembra.

In verità, comunque, manchiamo semplicemente di

notare che questa “realtà” è intessuta di idee. Ciò

nonostante, questa “realtà” è dotata del sentimento di

realtà, che origina nella superiore, comprensiva,

tuttavia sognante partecipazione al mondo percettivo,

un’esperienza non accompagnata da auto-

consapevolezza ed ancora parte di una esistenza

unificata. Il sentimento superiore di evidenza si sviluppò

nella sensazione di realtà che accompagna i nostri

percetti. Simultaneamente, la nostra crescente capacità

di esser consapevoli del nostro corpo si è sviluppata

nella sopra descritta auto-senzienza (vedi anche capitolo

7).

Oggi i dodici sensi definiscono dodici sfere separate di

esperienza nell’adulto; vi è quasi zero transizione tra

queste sfere. Per contro, il sistema sensorio dei bambini

– e delle persone in tempi antichi – è organizzato

diversamente; sostanzialmente essi sono un organo di

senso per intero. * Nei bambini e nei popoli antichi, i

dodici sensi non erano ancora separati. Inoltre, c’erano

* Vedi nota 22.

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5 – Il Carattere della Realtà Percettiva 135

altre qualità in aggiunta ai dodici sensi che sono in

seguito scomparse, ossia, le transizioni tra questi sensi. I

sensi che successivamente sono divenuti sensi superiori,

come il senso per l’Io (di un altra persona) o il senso per i

concetti, sono attivi interiormente ai sensi medi e bassi.

Come risultato, la percezione è ripiena di idee, e pertiene

ad esseri. Non è naturalmente “ripiena di idee” nel

moderno senso della frase; piuttosto possiamo trovare

una reminiscenza di questa condizione nell’attività

artistica.

Anche se i sensi si sono in seguito separati, essi ancora

lavorano assieme, ognuno di essi convoglia il “materiale

grezzo” verso l’alto, al successivo senso superiore ed

infine al senso-per-l’Io. Ciò spiega i caratteristici della

scienza antica. Con l’ulteriore sviluppo della coscienza,

comunque, i sensi cessano di lavorare assieme, ed

ognuno di essi ora rimane, anzitutto, senza alcuna

definita direzione.

D’allora in poi, un impulso che non necessitiamo

descrivere qui in dettaglio, ci conduce ad una tendenza a

spiegare ogni cosa dal basso, per effetti meccanici.

Questa tendenza chiede tipicamente “di che cosa è fatto

questo?” o “che cos’è che lo causa?” Questo volgere del

nostro sguardo verso le cose rivela una volere ostile al

mondo. Analogamente, la persona che pensa o che

percepisce ha l’inclinazione a ridurre le capacità e

conquiste spirituali umane a cause fisiche e fisiologiche.

Le idee più alte (e l’idealità come tale) vengono rifiutate,

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anche se continuano, ciononostante, ad essere forze

attive, poderose. Ora comunque, queste sono forzate ad

esercitare la loro influenza in metamorfosi nelle

profondità della parte subconscia dell’anima. Possiamo

vedere ciò nel sentimento di realtà, che è

inseparabilmente connesso con l’atto di percezione.

Riguardo ai sensi si può dire che, visto che le idee

superiori non vengono “comprese” o assimilate dai sensi

superiori, esse si rivolgono ai sensi medi o superiori,

lasciando su di essi una ”impressione”. Come questa

“pressione” viene passata attraverso i gradini della scala

dei sensi, essa diviene sempre più materiale e rassomiglia

crescentemente all’impressione del tocco fisico. Quando

questa “pressione” raggiunge i sensi più bassi, in

particolare il senso del tatto, ecco apparire la tipica

sensazione di realtà.

Nondimeno, i sensi più bassi partecipano lievemente ad

ogni percezione sensoria; infatti tutti i sensi sono sempre

coinvolti nella percezione, anche se uno di essi è

certamente predominate. Per esempio, quando non

comprendiamo il nostro partner in una conversazione,

sentiamo solo parole, la sua voce. In altre parole, il

percetto inizia a discendere la scala dei sensi.

Similmente, le persone che non possono leggere vedono

solo le forme nere delle lettere in una pagina bianca.

Il potere di queste idee della natura non solo ci dà il

senso della realtà, ma in primo luogo ci permette anche

di percepire. Queste idee volitive, senzienti e viventi

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5 – Il Carattere della Realtà Percettiva 137

creano forme di volontà, sensazione e vita – cioè, i regni

minerale, animale e vegetale – e sono attive al loro

interno. La nostra attenzione si può unire con queste

idee; comunque, di solito siamo coscienti solo di quella

parte di un incontro che è stata soggiogata per via dei

suoi effetti fisici e psicologici. Oggi i nostri sensi

funzionano solo quando sono interessati dall’influenza

fisico-minerale della natura e in questo modo assistono

la nostra attenzione. Possiamo quindi descrivere come

segue la quota di attenzione nella percezione: ”La

percezione è il limite dove i nostri pensieri toccano i

pensieri creativi esterni”.

Il nostro pensiero ordinario, che fa parte del piano del

passato, ci porta al limite del percepibile, che è vivo e

che quindi non può venir compreso dal nostro pensiero.

La percezione, quindi, ha inizio nel punto oltre al quale

il pensiero non può penetrare il creativo – arrestato –

pensiero cosmico.

Quindi possiamo pensare alla percezione come una

continua intuizione, per la quale i sensi tengono aperta

l’entrata. La parte della percezione che non viene

compresa diviene ciò che è percepibile; essa è

percepibilità stessa. In altre parole, ci accostiamo al

mondo percettivo come ad una frase meditativa che

viene letta solo per il suo contenuto informativo. Il suo

significato superiore rimane quindi nascosto, perché non

emerge a meno che l’attività della nostra coscienza non

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complementi la parte percettibile della frase all’

appropriato livello.

Nel processo di percezione, questo superiore significato

appare come una figura incomprensibile al pensiero

ordinario – appare come un percetto. Siccome non viene

compresa, questa figura è intessuta di concetti superiori;

dopotutto, essa consiste di qualità sensorie. Comunque,

questi concetti che permeano la figura sono impensabili

per il piano del passato della nostra coscienza. Non sono

sufficienti a comprendere il significato dei fenomeni

della natura. Possiamo tentare di lasciar questo

significato far presa su di noi tramite la meditazione

percettiva o la pura percezione.

Più scendiamo la scala dei sensi, più povero sarà il

campo sensorio nei concetti nominati. Per esempio, in

Tedesco abbiamo sette colori per il senso della vista, tre

o quattro parole per descrivere le impressioni del gusto,

ma nemmeno una per il senso dell’olfatto. La ragione di

ciò è che questi ultimi sensi vengono indirizzati da idee

molto alte che non entrano la nostra riflessa coscienza.

Lo sviluppo spirituale cosciente darà a questi sensi

particolare significato.

I concetti che appartengono ai sensi sono di potere

crescente più in giù scendiamo nella gerarchia dei sensi.

Il significato superiore partecipa debolmente, e di solito

inosservato, in ogni atto di umana percezione.

Comprensibilmente quindi, il senso del tatto, che

trasmette alla coscienza ordinaria il minor importo di

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5 – Il Carattere della Realtà Percettiva 139

informazioni riguardo il percetto, ci irradia nell’anima di

un senso di pienezza del sentimento per Dio – “la

sensazione di essere ripieni di essenza in quanto tale”.

E’ la metamorfosi delle idee creazionali che causano

l’ordinaria sensazione del tatto, mentre la qualità

immutata risuona debolmente nella sfera superiore

dell’anima. Ciò vale per tutti i sensi: ciò che trasmettono

alla coscienza è sempre accompagnato – come in un tono

armonico – da una qualità superiore, inizialmente

incomprensibile.

Il carattere Similparola della Natura

Ovunque troviamo qualità, similarità, differenze,

ambiguità, analogia, omologia, relazione, troviamo

anche idee. Ai nostri quesiti riguardanti la natura non ci

aspettiamo un “qualcosa”, ma una risposta concettuale,

proprio come anche il nostro quesito era concettuale.

Ovunque troviamo idee, la Parola o la volontà-di-parola

degli esseri-Io è o era attiva. Nella “prima realtà”, il

linguaggio ha assicurato il carattere similparola del

mondo nello strutturare e integrare per intero il mondo

dato, del quale lo stesso linguaggio ne è una parte.

Quindi mondo e linguaggio devono coincidere o

armonizzarsi. L’originale, unico linguaggio, comunque,

si è ramificato in una varietà di lingue, ed ognuna di esse

è tagliata per il proprio mondo, come anche per quello di

altre lingue. A nessuna di queste lingue manca qualcosa.

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Di conseguenza, la struttura basilare della natura

corrisponde all’elemento comune che sta dietro a tutte le

lingue. Questo elemento comune non appare

necessariamente nella parte del linguaggio percepibile ai

sensi; esso sta nella loro totalità, che comprende sia le

parti nascoste che quelle percepibili. Natura e linguaggi

hanno comune sorgente; questo è il messaggio dei primi

versi del prologo del Vangelo di San Giovanni. Per

implicazione quindi, il linguaggio della natura non è

identico ad alcuna delle lingue che gli esseri umani

parlano. Comprendere il linguaggio della natura richiede

innalzare la cognizione sopra ed oltre queste lingue.

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6 – Lo Sviluppo della Coscienza-Io 141

6 – Lo Sviluppo della Coscienza-Io

Percezione e pensiero sono presenti per qualcuno solo

fintanto che si manifestano in forma umana, ovvero in

forma discontinua. Essi adottano tale forma dal loro

essere “similparola”. Qui naturalmente, “similparola”

non si riferisce alla parte apparente di una parola, ma

alla configurazione-modello o carattere ideale di ogni

forma di linguaggio, la cui parvenza consiste di parole,

suoni, frasi, strutture, discontinuità, e connessioni.

Possiamo da ciò già vedere che l’attenzione umana è

un’attenzione per ciò che è di natura-parlata. Infatti,

una coscienza trasparente contiene solo ciò che è

similparola, elementi di “formulazione parlata”, anche

se nelle nostre lingue non vi è necessariamente un

termine corrispondente ad ognuno di questi elementi.

L’attenzione che è aperta a ciò che è similparola, è una

facoltà dell’Io; potremmo anche chiamarla la sostanza

primaria dell’Io. Ma questa “sostanza” – di che cosa è

fatta l’attenzione? – si sviluppa in un Io solo se diviene

esperienza-di-sé cosciente. Affinché ciò avvenga la

nostra attenzione per l”altro” [l’oggetto esterno],

dev’essere interrotta. In quanto, se l’attenzione viene

continuamente arresa all’”altro”, non ci può essere

alcuna esperienza-di-sé. Qui pure, la discontinuità è

necessaria.

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142

Questo tipo di discontinuità, comunque, non si sviluppa

semplicemente come risultato di imparare a parlare e

non risulta dalla padronanza degli organi dialettici e di

movimento. Anche se il nostro senso di movimento è

essenziale per movimenti risoluti degli organi dialettici,

tra agli altri, esso stesso non conduce ad esperienza-di-sé

cosciente. Tramite il senso di movimento “percepiamo”,

e quindi controlliamo i movimenti del nostro organismo;

ciò ci permette di eseguire movimenti specifici senza

dover chiedere l’aiuto di altri sensi, come il senso della

vista.

L’attenzione che è aperta e recettiva deve essere

interrotta. L’afflusso del dato – di tutte le entità

similparola – nei sensi interni ed esterni deve cessare e

riavviarsi nuovamente ad intervalli ritmici. Il sonno

crea un tale arresto nella dedizione della nostra

attenzione. Quando siamo addormentati, la nostra

attenzione si ritrae dai sensi, ritirandosi nella sua sfera

originale, il regno del superconscio. Quindi, durante il

sonno non sperimentiamo l’attenzione coscientemente,

ma solo supercoscientemente. Quando ci risvegliamo

essa ritorna, portando gradualmente con sé sempre più

contenuto superconscio. Eventualmente, la nostra

attenzione di veglia non può far altro che notare che è

stata interrotta.

Inizialmente la discontinuità sembra essere un semplice

spacco. Entro a questo spacco la nostra attenzione crea

di sé stessa un “oggetto”. E’ il cambiamento di

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6 – Lo Sviluppo della Coscienza-Io 143

consapevolezza, infatti, che rende la nostra attenzione

un “oggetto” di per sé. Siamo così in grado di “notare”

indipendentemente, e senza alcun “dato”, la parte della

nostra attenzione che lavora nella sfera superconscia

anche quando siamo svegli. Questa parte superconscia

della nostra attenzione struttura il dato percettivo e “lo

legge assieme”, lo sintetizza, ed è questo atto interiore,

la lettura stessa, della quale diveniamo poi coscienti.

All’inizio dello sviluppo della coscienza – nell’infanzia e

nell’antica umanità – notiamo questo atto interiore solo

di sfuggita e solo alla periferia della nostra coscienza. La

consapevolezza è vestita in forma divina, poi in forma

semidivina; la sentiamo solo lievemente nelle sensazioni

cognitive, inizialmente come spacco tra le date

sensazioni, come nostro separato sé.

Come questa consapevolezza dello spacco diviene

indipendente da condizioni esterne, essa diviene una

esperienza interiore. Nel corso dello sviluppo della

nostra coscienza, questa esperienza interiore – che è

divenuta esperienza interiore perché ha iniziato ad

essere indipendente dagli elementi dati – cambia nella

dualità di mente (intelletto) e anima (o cuore).

Inizialmente l’anima viene sentita ancora come una

nuvola percettiva di sentimenti che inspirano

l’intelletto. Comunque, nell’epoca dell’anima cosciente,

la mente vivente, non-riflessiva, si suddivide nei due

piani di coscienza, quello del passato – con i suoi chiari

contorni, sulla quale noi moderni “viviamo” per la

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maggiore, e della quale siamo coscienti – e quello del

presente che possiamo chiamare anche il piano

immaginativo, che si è oggi spostato nel piano

superconscio. Ogni comprensione ed ogni intuizione

giunge da questo piano del presente come un lampo di

grazia. Questo piano è anche la sorgente del “come”

superconscio del nostro pensiero; ed ogni intuizione,

ogni nuova idea, è proprio una condensazione di questo

“come”.

Con la separazione della mente in passato e presente,

l’anima o cuore, – non l’anima di oggi, ma l’anima

cognitiva – si suddivide anch’essa: in sentimento

cognitivo e in sentimento auto-senziente. Il sentimento

cognitivo vive sopra il piano del presente; il sentimento

auto-senziente appartiene al piano del passato ed è parte

del subconscio dell’anima moderna. Questa è quindi

consapevole di sé stessa – piuttosto che di qualcosa lì

fuori – nelle emozioni come l’invidia, l’ambizione, e così

via.

Siccome il piano del presente si è ora spostato nella

sfera superconscia, un cambiamento da un piano

all’altro rende possibili le discontinuità, perfino quando

siamo pienamente svegli e coscienti. Per rimanere

cosciente, la nostra coscienza deve toccare, almeno per

poco, ripetutamente, il livello del presente. Se rimanesse

continuamente al livello del passato, la nostra coscienza

non sarebbe più “cosciente”. E’ così che si sviluppa la

struttura e la capacità tipica dell’anima cosciente: cioè

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6 – Lo Sviluppo della Coscienza-Io 145

la sua abilità di riflettere su sé stessa, di guardare dal

piano del presente in quello del passato, e di sentire –

alla periferia della coscienza – il piano del presente in

contatto col piano del passato.

L’abilità di riflettere su pensiero, linguaggio, e

coscienza ha portato allo sviluppo delle scienze tipiche

dell’era dell’anima cosciente – e.g., epistemologia,

linguistica, e psicologia. L’Io diviene una realtà tramite

quest’abilità di riflessione cosciente; realizza sé stesso

quando la parte data dell’Io, e cioè l’attenzione, è

effettivamente connessa con l’idea dell’Io. Ciò è analogo

al modo in cui capiamo [realizziamo] una parola o un

testo; connettiamo la parte percettibile della parola o

testo – il dato – con il significato del quale essa è stata

separata nell’atto di venir espressa.

La reale connessione dell’attenzione all’idea dell’Io può

aver luogo solo sul piano del presente, nell’esperienza di

vivi pensiero, percezione o rappresentazione mentale.

Dopo tutto, come abbiamo visto sopra, il termine

“realtà” non è applicabile al piano del passato. L’idea

del vero Io si accende solo in queste esperienze nel piano

del presente. Essa, comunque, viene preceduta da

preliminari esperienze-dell’Io che vengono riflesse nelle

varie definizioni dell’Io nel corso dello sviluppo della

coscienza.

L’idea di ogni essere-Io, che diviene connessa col dato

dell’Io, l’attenzione, è interamente individuale. Gli

esseri-Io non sono una specie. Come esseri-Io, ognuno ed

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ognuna di noi appartiene alla propria specie, che

consiste di un solo esemplare [specimen]. Questo fatto si

trova riflesso nell’individualità dei nostri nomi;

diversamente da tutti gli altri nomi, i nostri nomi sono i

soli concetti, le sole parole, che non hanno un significato

generale.

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7 – Auto-Senzienza 147

7 – Auto-Senzienza

L’esperienza di sé dell’Io crea l’Io; in quanto, senza

sapere di sé, un essere-Io non può essere una realtà. Ciò

nonostante, l’esperienza-di-sé non viene quasi mai

realizzata nella sua forma pura, e nemmeno nei suoi

stadi preliminari. Ciò è così perché un altro, parallelo

processo ha luogo mentre prendiamo possesso del corpo

tramite l’Io quando impariamo a parlare. Quest’altro

processo non ha diretta connessione col parlare e non è

quindi da esso causato. Invece, questo secondo processo

cresce dalla tentazione dell’Io di sentire sé stesso nel

corpo del quale ha preso possesso, e di godere di questa

sensazione.

Per muovere gli arti intenzionalmente, l’essere-Io deve

controllarli e dirigerli. Esso fa questo tramite il senso del

movimento. I sensi sono le funzioni cognitive della

sensazione; essi forniscono cognizioni senza attività

intellettuale corrente. Per questo scopo i sensi hanno

liberi poteri (cognitivi) di sensitività che non sono

occupati a controllare funzioni biologiche. In questi

poteri l’Io può esprimere ed articolare sé stesso.

Fintanto che i movimenti sono interessati, noi esseri

umani possiamo imitare qualsiasi forma di movimento.

Il senso dei nostri propri movimenti opera tramite

poteri di sensazione che “sentono” i movimenti dei

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nostri organi, potendo quindi controllarli o dirigerli.

Questa “senzienza” non diviene la sopra indicata auto-

senzienza perché, paradossalmente, non la sentiamo

come una sensazione. Ad esempio, quando scriviamo o

suoniamo il violino, non siamo normalmente

consapevoli delle nostre mani; i nostri movimenti

vengono controllati superconsciamente.

Questi poteri di sensazione superconsci, che non sono

focalizzati su sé stessi, divengono auto-senzienti quando

l’essere-Io si mescola con essi e con i poteri sensitivi del

suo essere biologico – i quali pure, in sé, non sono auto-

senzienti – piuttosto che semplicemente dirigerli e da

essi imparare in riguardo ai movimenti del corpo. Nel

processo, queste forze cognitive, che in genere vengono

dirette esternamente, sviluppano un centro “irregolare”,

e si raggruppano attorno a questo centro, così perdendo

il loro focus originario diretto all’esterno. In contrasto

con l’Io, le formazioni risultanti possono essere chiamate

l’”ego”; esso è una attenzione focalizzata su sé stessa,

che non è cognitiva, ma semplicemente auto-senziente.

Quest’auto-senzienza si sviluppa senza la nostra

attenzione cosciente, e rimaniamo inconsci delle sue

conseguenze. Dopo tutto, nessuno vuole essere invidioso,

vendicativo, o affamato di potere. Essa consiste di

sensazioni formate, inclinazioni ed istintive “intenzioni”

d’irresistibile scalpore, che ci esortano a ripeterle.

Essendo tutte queste già pienamente formate, esse non

sono cognitive.

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7 – Auto-Senzienza 149

Lo sviluppo del subconscio è il conseguente risultato di

questa auto-senzienza. Nella sfera subconscia, libere

forze cognitive, sulle quali l’Io non ha coscientemente

fatto presa, si ammassano per via dell’egoità. Gli esseri

umani moderni devono fare qualcosa con queste stesse

forze. In tempi primordiali, esse erano ancora

controllate ed ordinate tramite il superconscio. Nel

regno animale non troviamo virtualmente alcun istinto

o passione che sia dannosa alla salute o all’organismo

biologico dell’animale. Tali istinti e passioni possono

esistere solo quando forze che di solito servono

l’organismo biologico divengono libere ed indefinite in

presenza dell’Io, ma non vengono utilizzate dall’Io.

Nei bambini queste forze funzionano ancora come

indivise forze dell’attenzione. Questa è la ragione per cui

i bambini possono imparare a parlare e a pensare con

tale impareggiabile facilità. Questa è anche la ragione

per cui gli adulti non più dispongono di questa

meravigliosa capacità. In parte, in effetti per la maggior

parte, le sopra indicate forze vengono trasformate, negli

adulti, in forze auto-senzienti, e l’attenzione viene divisa

tra mondo ed egoismo.

L’auto-senzienza è possibile solo per gli esseri-Io. Le

sensazioni degli animali sono completamente preformate

e servono solo la loro vita biologica. Gli animali non

hanno alcuna libertà di sensazione – possono solo

reagire. Quindi essi non possono distinguere tra la

sensazione causata da fonti interiori e quella causata da

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fonti esteriori. Incessantemente, la loro sensitività

reagisce ed è attiva. Non c’è alcuna entità libera non

coinvolta che possa essere consapevole o avere

esperienza di queste reazioni. Troviamo quindi egoità

solo negli esseri-Io. L’ego è la forma riflessa ed auto-

senziente dell’Io; esso è auto-senziente invece di auto-

consapevole.

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8 – Cambiamenti nel Dato 151

8 – Cambiamenti nel Dato

I piani del passato e del presente, che nell’anima

cosciente sono separati, erano ancora intrecciati o

mescolati nell’anima intellettuale. Il processo del

pensare era allora ancora dato agli esseri umani. Oggi il

pensiero entra la coscienza superconsciamente dal piano

del presente – cioè, senza la nostra consapevolezza.

In passato, per via della struttura mista dell’anima

intellettuale, il processo del pensare era dato alle

persone in maniera sognante, senza chiari contorni, e le

persone non potevano avere la loro parte in questo

processo. La loro esperienza rassomigliava alla nostra

esperienza quando sogniamo. Parole e concetti erano un

tutt’uno. Essi venivano sperimentati nel loro sorgere, nel

loro ingresso nella coscienza. Anche oggi comprendiamo

parole e concetti nello stesso modo, ma per noi il loro

ingresso nella coscienza rimane superconscio. Siamo

chiaramente coscienti solo del loro risultato, di ciò che

abbiamo capito; certo, a questo punto esso ha perso la

sua vita, passando alla morte. Siccome i bambini hanno

esperienza sognante di questi processi, la vita della loro

anima è viva in un modo che gli adulti hanno perduto.

Similmente, prima che l’anima fosse separata in

sentimento cognitivo ed auto-senziente, l’esperienza di

evidenza in area religiosa veniva data alle persone in

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forma di “fede”. La nostra esperienza di evidenza nella

matematica e nella logica è di ciò una traccia.

Una volta che il sentire cognitivo si è spostato nel

reame superconscio, la divinità non viene ulteriormente

data. In epoche precedenti lo sviluppo della coscienza, la

divinità era data, come possiamo vedere, per esempio,

nel continuo intervento degli dei Omerici nel destino

umano e nel parlare della divina natura ai personaggi

nel Vecchio Testamento. Oggigiorno, solamente sul

piano del passato diveniamo coscienti di ciò che entra

nella nostra coscienza dalla sfera superconscia. Ciò ci

rende impossibile sperimentare il processo cognitivo

della coscienza, o sperimentare la vita o l’essere.

Parallelamente, un altro cambiamento ha avuto luogo

nella configurazione dell’anima, e cioè, lo sviluppo

generale del subconscio, più o meno negli ultimi

duecento anni. Questo conglomerato di abitudini si

estende dalla sfera delle associazioni, tramite sentimenti

e complessi auto-senzienti, ad un più profondo livello

che può essere chiamato “collettivo”, almeno fintanto

che la nostra cultura è coinvolta. Questo livello è il

fondamento di tutte le altre formazioni subconscie, ma

non è lo stesso del “subconscio collettivo” di Jung.

Siccome questo livello è veramente collettivo, possiamo

percepirlo solo in speciali condizioni, per esempio, per

via di una accresciuta attenzione che resti vigile senza

venir riflessa.

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8 – Cambiamenti nel Dato 153

I livelli o strati del subconscio più individuali inviano i

loro impulsi nella coscienza per mezzo di sentimenti

auto-senzienti e della volontà a loro disposizione. Il

subconscio collettivo, da un altro lato, si manifesta

soprattutto in formazioni di pensiero che vengono

generalmente accettate come plausibili e convincenti,

basate su sensazioni collettive; infatti e comunque,

queste formazioni di pensiero sono tanto irrazionali

almeno quanto lo sono gli impulsi del subconscio più

individuali. Non possiamo dedurre o ragionare

consecutivamente queste formazioni di pensiero; il loro

potere persuasivo non è connesso al sentimento di

evidenza che guida il pensare logico o intuitivo.

Quindi, ciò che ci viene dato da sopra, dal

superconscio, è congiunto con ciò che viene “dato” da

sotto, dal subconscio. Infatti, ciò che viene dato dal

subconscio gioca ora una parte autoritaria nella vita

umana ed è divenuto un potere mondiale. Gli esseri

umani vivono ora per secondari istinti e passioni, che

originano nel subconscio. Il nostro pensare ci potrebbe

aiutare ad orientarci, ma è stato influenzato da ciò che

fuoriesce dal subconscio, ora accettando e diffondendo,

come sapere, delle cosiddette illuminazioni e dei nuovi

dogmi. Come risultato, le inclinazioni, abitudini, e

dipendenze che originano nel nostro subconscio

guadagnano giustificazione scientifica.

Non impariamo a parlare e a pensare “per natura”, ma

per educazione ed imitazione di modelli. Similmente,

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ogni cosa nello sviluppo umano, il bene e il male, appare

grazie all’educazione. Per esempio, certi individui, i

nostri precursori nella storia del pensiero – ispirati da

poteri a loro sconosciuti – svilupparono delle linee di

pensiero che elaborarono ed istruirono i nostri impulsi

subconsci collettivi.

Tutte le ispirazioni e pensieri che vengono suggeriti dal

nostro subconscio collettivo condividono due particolari

caratteristiche: non possono essere pensati fino in fondo

logicamente – cioè il pensiero può penetrarli solo fino ad

un certo limite – e possono dare la sensazione di un

travolgente potere persuasivo, mascherando il fatto che

non possiamo veramente pensarli fino in fondo.

Abbiamo buone ragioni di assumere una origine

subconscia per ogni impenetrabile, incomprensibile

pensiero, o linea di pensiero. L’intera sfera dell’egoità è

connessa col subconscio. Le persone non decidono di

divenire egoisti; ciò accade senza la nostra volontà.

Questo duplice cambiamento nel dato – lo spostamento

nel superconscio di entrambi i processi di pensare e

sentire cognitivo, ed il sorgere del subconscio – ci

esortano a cambiare la nostra attitudine e

comportamento verso di esso. Solo un essere libero, o

uno che è almeno in parte libero, può “cambiare”

qualcosa. Abbiamo questo potenziale per via della

struttura a doppio binario dell’anima cosciente. Siamo

protetti da diretti impulsi spirituali, in quanto la loro

sorgente si è spostata nella sfera superconscia, e

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8 – Cambiamenti nel Dato 155

possiamo proteggerci da impulsi subconsci essendo

morali nel nostro pensare e cognizzare, cioè,

nell’esaminare e testare “coscienziosamente” se qualcosa

possa essere pensato fino in fondo, e nell’accettarlo come

pensiero solo se questo fosse effettivamente il caso.

Iniziamo a renderci conto per la prima volta che

abbiamo la possibilità di educare noi stessi quando

abbiamo esperienza della libertà di cognizione. Dopo

tutto, la cognizione deve essere libera; diversamente,

non potremmo determinare se essa sia verità o errore, e

non potremmo valutare i suoi risultati. Se tutta la

cognizione umana, incluso il pensiero stesso, consistesse

di processi naturali, non potremmo affatto parlare di

conoscenza, perché i processi naturali come pure quelli

meccanici, svolgono semplicemente il loro corso.

Essendo semplicemente condizionati, essi non possono

errare. Inoltre, non potremmo in alcun modo valutare la

“conoscenza” risultante dai processi naturali, perché la

valutazione dovrebbe essere basata su altri, ugualmente

condizionati, processi naturali. Anche il parlare, in senso

umano, sarebbe impossibile, e perfino il silenzio, che

potrebbe risultare da tali cosiddette intuizioni, sarebbe

contraddittorio precisamente a causa di queste

intuizioni. In altre parole, non potremmo prendere

alcuna posizione logica, visto che negheremmo la nostra

abilità di trarre conclusioni logiche e consistenti.

Il pensare non può negare né limitare il pensare,

proprio come una parola non può essere privata del suo

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stesso significato. Il pensiero può venir destituito solo

dal pensiero; la parola può venir destituita solo dalla

parola.

Questa fondamentale intuizione ci porta verso la

sorgente del pensiero. Da questa intuizione è chiaro che il

pensare non può dimostrare sé stesso, e la stessa

intuizione mostra l’impossibilità di negare

l’indipendenza e l’irriducibilità del pensare. A questo

punto, dobbiamo decidere di dar inizio alla nostra auto-

educazione proprio con l’educazione della nostra

capacità di cognizione, una decisione che implica la

continuazione dell’attività che abbiamo finora

riconosciuto come l’unica nostra libera attività.

Per avvicinarsi di più ai processi superconsci del

pensare, dobbiamo elevare il nostro livello di coscienza.

Che questa sia una operazione possibile o meno è un

primo quesito. Questo dev’essere risposto

affermativamente prima di prendere questo passo – se il

passo può essere legittimamente preso –, ovvero, se

questo dev’essere pensato fino in fondo

coscienziosamente così da essere reso certo.

Il “come” del nostro pensare è dato (vedi capitolo 2),

ed utilizziamo questo “come” – la logica del pensare –

quale abilità superconscia di pensiero basata su

evidenza e logicità, senza comunque essere in grado di

spiegarlo o rendere conto di esso. Quindi, il “come” del

pensare è uno dei “segni della trascendenza” che

possiamo trovare in noi stessi empiricamente. Infatti,

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8 – Cambiamenti nel Dato 157

questo è il più fondamentale tra i segni e possiamo

trovare e capire tutti gli altri segni grazie all’aiuto di

questo.

In più di un modo, il nostro pensare è discontinuo. Per

chiarire il nostro pensiero a noi stessi e ad altri,

dobbiamo articolarlo in pensieri ed esprimerlo tramite

proposizioni, frasi, e parole, tutte consistenti di parti,

che sono quindi discontinue. Prima di esprimere

qualcosa, dobbiamo avere il significato che dev’essere

espresso; diversamente non potremmo metterlo in

parole o formularlo. Ad esempio, non potremmo

accertare se la nostra formulazione sia corretta o, come

a volte succede, sia inadeguata. Per poter in tal modo

valutare, dobbiamo confrontare l’espressione

discontinua con qualcosa di cui non siamo ancora

pienamente coscienti, qualcosa che non è ancora un

pensiero finito, e che quindi non è sul piano del passato.

Questo “qualcosa” non ha di conseguenza una forma

discontinua; ciò nonostante, deve esistere

superconsciamente, alla periferia della nostra coscienza.

In una buona traduzione è questo “significato” che

viene trasferito in un altra lingua.

Il significato, diversamente dalla sua espressione (in

una o più frasi), è un continuum. Ad ogni modo esso non

è totalmente destrutturato; dopo tutto, la sua struttura

latente si dischiude nella discontinuità del linguaggio. Il

continuum è primario, mentre l’espressione è

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secondaria. Nel comprendere un testo che leggiamo o

sentiamo, questo continuum viene in noi riprodotto.

Concepire – intuire – un significato, esprimerlo in

forma discontinua, come pure leggere un testo e

riprodurne il suo significato, richiedono tutti

dell’attenzione. Il significato che concepiamo è

similparola; ovvero, dice qualcosa. Se non fosse così, il

significato non potrebbe risultare nell’espressione – non

ci sarebbe niente che potrebbe essere detto nelle parole

di un linguaggio. In questo modo parole “più grandi” o

“più potenti” discendono dal superconscio alla

coscienza, cioè alla forma discontinua. La nostra

comprensione di un testo, da un altro lato, ascende dalla

sua discontinua espressione al più continuo significato.

In questa “ascesa”, la coscienza muove da parola a

parola, senza lasciare o dimenticare le parole precedenti,

ma anche senza “ricordarle”. Il movimento della

comprensione procede superconsciamente, fuori dal

tempo; non segue la sequenza temporale delle parole

percepibili dai sensi, ma le ritiene e le anticipa in un

eterno[senza tempo] presente. L’espressione

dell’intuizione fluisce da questo eterno presente verso la

temporalità. Quindi, la nostra attenzione si alterna tra

continuità e discontinuità.

La nostra attenzione si alterna anche in un altro modo,

perché ogni elemento di discontinuità – che siano

pensieri, il mondo percettivo, o un testo – offre alla

nostra attenzione una opportunità di venir distratta dal

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8 – Cambiamenti nel Dato 159

soggetto che abbiamo scelto coscientemente. Possiamo

dirigere la nostra attenzione a qualsiasi cosa scegliamo;

comunque, come sappiamo dall’esperienza, è difficile

tenere la nostra attenzione focalizzata su un tema poco

interessante o poco attraente. Associazioni che ci

influenzano dalla sfera subconscia dell’anima ci

distraggono dai nostri coscienti volere e intenzione.

La forma discontinua dell’attenzione nel pensare,

rappresentare, e percepire, rende possibile a queste

attività di procedere nella comprensione passo dopo

passo, liberando quindi queste funzioni dalla necessità di

comprendere immediatamente ed intuitivamente. Allo

stesso tempo, questa forma discontinua offre ai nostri

impulsi subconsci l’opportunità di intervenire nel flusso

dell’attenzione che abbiamo coscientemente diretto in

un particolar modo. Ciò restringe a sua volta

l’autonomia della nostra coscienza nel controllare e

mantenere la nostra attenzione.

Inizialmente, l’attenzione non può sperimentare ed

incontrare sé stessa nella sua forma discontinua; non

può incontrare sé stessa (vedi capitolo 6) perché viene

costantemente interrotta. La nostra attenzione cade di

continuo dal suo presente e lascia le sue tracce come

passato – per esempio, in pensieri finiti, percetti,

rappresentazioni mentali. Questo sviluppo è stato

necessario per la stessa crescita della coscienza-Io.

Una volta che abbiamo imparato il pensare

discontinuo, concettuale, e che siamo divenuti capaci di

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160

sintetizzare, e quando ciò ci ha portato alla struttura

dell’anima cosciente, possiamo continuare l’ulteriore

sviluppo della coscienza tramite educazione cosciente.

In quanto, ormai, con la struttura dell’anima cosciente,

non riceviamo più alcuna cosa positiva dal dato senza

sforzo da parte nostra. La nostra prima meta dev’essere

quella di rafforzare l’autonomia della coscienza, e cioè,

di rafforzare la nostra attenzione, una parte

considerevole della quale è presa in formazioni ed

abitudini subcoscienti.

Possiamo conseguire questa meta nel concentrare la

nostra attenzione su oggetti che non sono di per sé

attraenti o interessanti. Per ciò dobbiamo scegliere cose

che possiamo pensare completamente, fino in fondo.

Degli oggetti artigianali[fatti dall’uomo] sono

appropriati per tali esercizi.

Per evitare di venir distratti dobbiamo raffigurarci

l’oggetto e pensare pensieri appropriati e ad esso

rilevanti, come esercizio preparatorio. L’effettiva

concentrazione sulla funzione o l’idea dell’oggetto,

comunque, richiede che la nostra ora-rafforzata

attenzione divenga più continua. Non possiamo

“pensare” un’idea, come un’invenzione, o la funzione di

un oggetto, con interruzioni, perché questa non è una

parola, né una figura. Questa è anche l’idea o la funzione

che non può essere ricordata o ripetuta; richiede

piuttosto una continua intuizione.

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8 – Cambiamenti nel Dato 161

Per assicurare che l’idea stia nella nostra coscienza, la

nostra concentrata attenzione deve stare nell’immediato

presente. L’immagine mentale ed il pensiero di un

oggetto, come pure la sua idea, vengono tramate dalla

nostra attenzione; esse sono questa attenzione. Questo è

il motivo per il quale dobbiamo rendere la nostra

attenzione sempre più continua tramite questi esercizi.

Quindi, con l’aiuto dell’idea come soggetto sul quale

focalizzarci, innalziamo la nostra attenzione alla

continuità dell’immediato presente.

La nostra coscienza arriva quindi al “come“ del

pensare, che è la logica delle espressioni discontinue dei

nostri pensieri. L’idea funzionale degli oggetti

artigianali ci viene data superconsciamente nell’infanzia

come nostra abilità-di-cognizione di tutti gli oggetti

simili come fossero lo stesso oggetto. Cerchiamo ora di

innalzare la nostra coscienza ad un livello che è di solito

superconscio.

Con ciò rispondiamo al quesito: se la coscienza

pensante possa avvicinarsi o meno alle sue fonti. Ciò ci

permette inoltre di descrivere l’auto-consapevolezza

dell’Io, che abbiamo accennato nel capitolo 5, in

maggior dettaglio. Quando pratichiamo gli esercizi

sopra presentati, ci rendiamo conto che il tema che ci

siamo raffigurati o al quale abbiamo pensato,

specialmente l’idea dell’oggetto scelto, consiste di

attenzione. Questa attenzione è concentrata per virtù

del tema e su esso simultaneamente focalizzata. In altre

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162

parole, la nostra attenzione viene focalizzata su sé

stessa. Possiamo ora sperimentarla e percepirla proprio

come ogni altro percetto, perché è stata rafforzata

internamente a sé stessa. Nell’incontro della nostra

attenzione con sé stessa si accende e si realizza l’idea

dell’Io. Ecco come si sviluppa la nostra esperienza

dell’Io al livello dell’immediato presente.

Questa esperienza è fondamentale ai fini di perseguire

la nostra scienza spirituale.

Tuttavia, un’altra esperienza la precede, e cioè,

l’intuizione che la nostra attenzione pensante e

rappresentativa è una realtà più forte del pensiero o del

tema raffigurato, essendo quest’ultimo originato o

mantenuto da questa attenzione.

Mentre l’attenzione non può avere esperienza della sua

discontinuità perché essa scivola di continuo dalla realtà

dell’eterno presente nella realtà del passato, essa può

ciononostante svilupparsi con continuità grazie

all’esercizio. Meno l’attenzione viene interrotta – meno

essa è discontinua – più diviene viva e presente e si

muove sempre più vicino all’esperienza di evidenza, e di

sé stessa. L’evidenza è la proprietà della realtà; in altre

parole, la realtà è auto-evidente. Ciò indica la sola e

comune sorgente della realtà – la sua effettiva causa – e

la cognizione di essa. La realtà stimola la cognizione di

sé stessa. Ma nel processo di cognizione, la “realtà”

diviene realtà (vedi capitolo 4). Cognizzare e realtà

cognizzata coincidono e divengono uno; essi sono uno

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8 – Cambiamenti nel Dato 163

nella nostra esperienza di essi nell’immediato presente:

essi sono questa esperienza.

Possiamo anche dire che nell’atto di cognizione

realizziamo noi stessi in vivente auto-cognizione; questa

è la sorgente dell’evidenza. Nel cognizzare diveniamo

tutt’uno con ciò che cognizziamo, o la cognizione

cognizza sé stessa invece di qualcos’altro, in quanto essa

stessa diviene l’”alterità” che viene cognizzata e cessa

quindi di essere “altra” nel processo di cognizione. Il

sentimento di evidenza ha origine in questa identità

realizzata e sperimentata.

Al livello delle scienze pure, come la matematica, la

logica, e la geometria, è chiaro che gli oggetti di

cognizione vengono creati dalla nostra stessa cognizione;

e la loro “cognizione” è allo stesso tempo la loro

creazione, che occorre intuitivamente – tramite pensiero

o intuizione rappresentativa. Successivamente, “il

ragionamento” può costruire i passi che collegano il

grande salto intuitivo. Questa esperienza nelle scienze

corrisponde alla realizzazione che gli oggetti sui quali

focalizziamo la nostra attenzione pensante e

rappresentante consistono di questa stessa attenzione.

Su piani superiori di conoscenza, l’unità della

cognizione ed il suo “oggetto” viene sperimentata

sempre più intensamente, fino all’esperienza

dell’evidenza. Il pensiero e la percezione si avvicinano

l’un l’altra, e coincidono nell’intuizione; nella nostra

ordinaria cognizione soggetto ed oggetto appaiono

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separatamente perché pensiero e percezione sono

separati. Come risultato dell’intuizione, l’esperienza di

evidenza nel punto centrale dell’Io cade, come

un’ombra, nel piano del passato e lì viene sperimentata

senza la sua realtà-d’essere; ma almeno ne abbiamo

esperienza. Ogni volta che avviene qualcosa di simile

questa esperienza, è possibile sentire l’ombra dell’auto-

evidenza.

Le prove e la necessità di provare le cose sono fenomeni

della moderna coscienza. L’intuito ed il genio sono

forme di attenzione più alte e più continue. Esse

evolvono le loro tesi, per esempio quelle dei matematici,

in un unico grande passo. Le prove, da un altro canto,

sono per coloro che non possono prendere il grande

passo – la profonda intuizione – in una sola volta, in un

balzo. Questi passi formano delle discontinuità, ed

ognuna di queste interruzioni nel processo di

comprensione – ogni passo lungo la via – offre nuove

opportunità di errore; non si comprende

immediatamente l’intera proposizione, ma si può

comprendere l’evidenza dei singoli passi. Visto che non

comprendiamo la tesi per intero, anche un solo passo

tralasciato nella prova può essere sufficiente per

“provare” una tesi erronea. La nostra attenzione si

riposa ad ogni collegamento tra i vari passi nella prova.

Questi punti di collegamento permettono facilmente

delle svolte incorrette, o l’ingresso di “idee” che non

sono state pienamente testate e pensate fino in fondo.

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8 – Cambiamenti nel Dato 165

Con una più profonda esaminazione, tali svolte ed

“idee” si rivelano impensabili – o sarebbero impensabili

se le esaminassimo – e rompono la nostra linea di

pensiero con pregiudizi, inclinazioni emotive, o con

bramoso pensare. Dopo tutto, i passi della prova devono

essere connessi logicamente. Siccome queste connessioni

non sono di solito esplicite, esse vengono raramente

esaminate e ci accontentiamo con un tipo di “comune

buon senso”, o con interesse per forme di pensiero

abitudinali.

Come abbiamo visto nel capitolo 3, il linguaggio

struttura il nostro mondo percettivo. Comunque, il

significato delle parole designanti può essere cambiato

nel corso dell’evoluzione della coscienza umana – anche

se esse possono aver ritenuto la loro forma esteriore, ed

il loro senso può sembrare immutato. Questo tipo di

cambiamento non viene neppure sospettato dai

linguisti, essendo essi bloccati nella nostra moderna

coscienza. Il cambiamento al quale faccio qui

riferimento è il cambiamento nella nostra relazione con

queste parole-concetti, come pure coi fenomeni naturali

che esse designano.

Per noi, i nomi degli oggetti in natura indicano delle

cose. Per esempio, la parola “quercia” si riferisce ora ad

un singolo particolare albero, e quando utilizziamo la

parola per parlare della specie quercia, ciò ci sembra

un’astrazione. Per l’umanità antica il caso era il

contrario. La parola “quercia” era allora principalmente

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un vero universale, un’idea manifesta nel mondo

fenomenico in molti esemplari. Ovvero, “quercia” non

era un “nome” (come lo è ora per noi) ma era un

personaggio caratteristico, una funzione, una

designazione significativa di una relazione e

connessione. Per noi la “quercia” rimane esterna;

possiamo trovarla “pensabile” non in sé stessa, ma solo

per conto delle sue caratteristiche esterne. Infatti

pensiamo alla quercia – in contrasto alle idee e alle

funzioni degli oggetti artigianali o ai concetti

matematici – solo nominalisticamente.

Precedentemente, i fenomeni naturali erano visti e

compresi non come cose, ma principalmente come

relazioni. E cioè, essi venivano capiti più come una

continuità. Al giorno d’oggi comunque, percepiamo i

particolari, le cose individuali, come dato primario. Si

tenta così di trovare le connessioni tra loro nella sfera

della meccanica, piuttosto che di leggerle sul modello del

linguaggio e di interconnessioni linguistiche e testuali,

come facevano le persone in tempi antichi. Se non

leggiamo un testo, esso risalta come qualcosa di

esistenziale. Solo tramite la nostra lettura un testo

diviene verità. Il mondo percettivo della natura è

difficile da leggere per via della sua struttura

inizialmente discontinua, che è largamente un risultato

di inadeguati concetti.

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9 – Meditazione 167

9 – Meditazione

Più il pensare diviene discontinuo, più si muove

lontano dall’esperienza di evidenza. Ciò spiega perché la

recente filosofia può negare l’esistenza dell’evidenza nel

suo pensiero – anche se questo pensare, nella sua

attività, ricorre di continuo alla sua evidenza intrinseca.

Le interruzioni nella nostra attenzione permettono a tali

nonpensieri – che sembrano pensieri solo nella loro

forma – di infiltrarsi nella nostra coscienza. Allo stesso

tempo queste “pause” nella nostra dedizione offrono alla

nostra attenzione anche l’opportunità di notarle – quali

interruzioni, spacchi. Nel divenir quindi consapevoli di

queste interruzioni nella nostra dedizione all’”altro”, la

nostra attenzione inizia a riempire questi vuoti con sé

stessa. L’attenzione percepisce la sua propria assenza, e

in questa percezione l’attenzione incontra sé stessa. La

discontinuità induce quindi la nostra coscienza-Io ad

accendersi, sul piano in cui si muove la nostra coscienza.

Nel pensare puro, l’esperienza di evidenza è identica

con l’atto di cognizione stesso: l’oggetto ed il

cognizzante sono uno. Il dato, il processo col quale esso

viene dato, ed il concetto, tutti coincidono.

Quando leggiamo o percepiamo un testo, l’evidenza sta

nella nostra comprensione dei dati segni nel nostro

leggere, o “nel leggerli insieme”. Quando lo leggiamo, un

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testo ci risulta ovvio come testo, indifferentemente

dall’evidenza dei suoi contenuti.

Pure l’esperienza di evidenza nella percezione è un tipo

di lettura. Ad ogni modo, non abbiamo concetti per

questi “segni testuali” percettivi, e quindi nemmeno li

vediamo come segni. Invece di leggere i segni, li

misuriamo e li matematizziamo, e scambiamo la loro

descrizione matematica per una loro comprensione. I

concetti appropriati si classificano superiormente ad

altri e sono più potenti; essi sono viventi, senzienti, e

volenti concetti, che incontriamo solamente nella

meditazione.

L’evidenza del mondo percettivo appare trasformata

nella convinzione che i nostri percetti esistano, che essi

siano reali. Questo è il motivo per il quale non possiamo

pensare al mondo percettivo con la nostra riflessa

coscienza dialettica, e la parte della percezione che non

viene pensata sfugge quindi alla sorte dei pensieri finiti.

In altre parole, essa non cade nel piano del passato ma

rimane viva ed attiva nel piano del presente durante la

percezione, così dandole carattere di realtà. I veri

concetti della natura possono essere afferrati solo nella

meditazione.

Ad eccezione dei termini tecnici e scientifici, le parole

non hanno un significato inequivocabile; piuttosto, una

nuvola di significati le racchiude nel piano del pensiero.

Quando impieghiamo il linguaggio semplicemente come

veicolo per trasmettere informazioni, utilizziamo solo

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9 – Meditazione 169

una frazione della nuvola di significati che circondano le

parole. Per esempio, il significato di una parola in una

particolare frase viene definito più o meno precisamente

[inequivocabilmente] tramite il significato della frase.

Le parti corrispondenti della loro nuvola di significati

connettono le parole internamente alla frase.

Le parole sono circondate anche da una nuvola di

sentimento, che viene plasmata dalla struttura sonora

del linguaggio interessato, soprattutto dalle sue vocali,

ma anche dal suono nel suo complesso. Anche la nuvola

di significato ed il ritmo contribuiscono al carattere

emotivo delle parole. Poeti e scrittori in particolare

esaminano le parole dure, dolci o leggere per il loro

valore emotivo, utilizzandolo di conseguenza. E’ questo

il motivo per cui non possiamo esprimere il significato di

un poema in termini di informazione. La nuvola di

sentimenti di cui stiamo qui parlando non ha niente a

che vedere con alcun “umore” psichico; essa indica

piuttosto la sorgente del significato concettuale.

Il significato primario o originale delle parole

comprende la nuvola di sentimenti come pure quella dei

significati. Esso non appartiene molto ad una parola in

particolare come vi appartengono le parole di un certo

gruppo o famiglia aventi radice comune o relativa. I

bambini afferrano il significato originale di una parola

quando la sentono utilizzata in un particolar modo, così

comprendendola. In seguito, essi possono capire ed

impiegare questa parola in tutti i suoi modi d’uso

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conosciuti, e possono perfino scoprirne di nuovi, ad essa

appropriati.

Ciò significa che quando gli adulti utilizzano una

parola nel suo senso specifico, il significato originale,

primario, risuona e covibra con lo specifico significato,

ed i bambini ne hanno così esperienza superconscia.

Questa continua presenza del significato primario

appare particolarmente nelle congiunzioni e preposizioni

delle lingue Indo-Europee. In queste lingue possiamo

notare chiaramente come ogni frase specifichi e

particolarizzi il significato originale, che ancora è

presente nello sfondo. Infatti possiamo utilizzare la

stessa parola in frasi consecutive, ogni volta in un senso

diverso.

La parola che appare nel mondo sensibile deriva dalla

parola più nascosta e più ampia, dal significato della

particolare frase, o frasi. Se ci addestriamo a

sperimentare questo significato consciamente, senza

doverlo mettere in parole, notiamo che il significato

nella sua vivente fluidità origina in una persino più

potente parola. I passi – la scala delle entità similparola

– con le quali la parola è discesa fino a divenire

percepibile ai sensi, ci può gradualmente ricondurre alla

Parola [Verbo].

L’esperienza cosciente di questa “parola senza parole”

viene chiamata meditazione. Questa parola senza parole

non è un’astrazione; essa è simile alle parole creative tali

quali, per esempio, le idee dei fenomeni naturali.

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9 – Meditazione 171

Abbiamo mostrato nel capitolo 8 che quando abbiamo

a che fare esclusivamente con pensieri e fenomeni

linguistici o testuali, la realtà e la verità coincidono

nell’esperienza di evidenza. Nella sfera della percezione,

d’altro canto, realtà e verità sono separate, perché non

possiamo pensare pienamente il percetto se esso è parte

della natura; necessitiamo invece di concetti superiori.

Ciò nonostante, l’immagine esteriore della natura, che

ha qualità e legalità che possono essere descritte anche

senza essere lette, ci conduce alla conclusione che

abbiamo a che fare con un testo. Ogni volta che

scopriamo differenze e similarità, analogie e relazioni,

possiamo trovare anche concetti, e dovunque dei

concetti appaiono nel mondo percettivo stiamo avendo

a che fare con un testo.

Le verità accessibili al pensiero moderno divengono

coscienti quando sono rispecchiate dal nostro

organismo. Di conseguenza, queste verità hanno perso la

loro qualità di realtà. Al contrario, resta viva la parte

della percezione che è inizialmente impensabile, –

precisamente perché non possiamo veramente pensarla

– destando quindi la sensazione di realtà. Come questa

parte si attiva, la sensazione di realtà che evoca si unisce

con la parte pensabile della percezione, e cioè, con i

familiari concetti nominali. Di conseguenza, nel pensiero

abbiamo verità senza realtà, e nella percezione abbiamo

realtà senza verità.

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La meditazione è un tentativo – per mezzo della

concentrazione ed una continuità dell’attenzione nel

pensare e nel rappresentare – di raggiungere una verità

saturata di realtà nell’esperienza di evidenza. Nella

percezione d’altro canto, e cioè nella meditazione

percettiva, il tentativo è – ancora nell’esperienza di

evidenza – di giungere ad una realtà saturata di verità.

La meditazione in qualsiasi forma concerne le parole.

Infatti, perfino i temi di meditazione percettiva o

figurativa sono similparola, anche se non possiamo

esprimere tali “parole” in un particolare linguaggio.

I temi meditativi sono stati concepiti con accresciuti

poteri di cognizione e vengono espressi nella forma di

testo o di figura. Nella meditazione percettiva, possiamo

prendere il nostro tema dalla natura; i fenomeni della

natura sono in sé espressioni di concetti superiori. I

soggetti sui quali scegliamo di meditare non descrivono

fatti o non si riferiscono ad un mondo che già è passato.

Essi puntano piuttosto alla sorgente comune del mondo

e della cognizione, e cioè, al Logos. Nel Logos tutta

l’essenza è cognizione e già contiene quest’ultima.

Possiamo cognizzare e conoscere i nostri mondi,

interiore ed esteriore, in quanto essi sono mondi del

Logos e sono creati tramite la Parola. Il testo o tema sul

quale meditiamo viene preso da una fase del percorso col

quale la parola “discende” al mondo del passato e viene

quindi espressa nelle parole di un particolare linguaggio

o in una rappresentazione. Per questo motivo un

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9 – Meditazione 173

meditante può trovare la via per la sorgente del tema

tramite la meditazione – e cioè, troviamo la via per una

sfera “senza parole”, “tale” se definiamo la “parola” in

quanto necessariamente dotata di suono.

La “parola” implica struttura anche in un senso

superiore – la struttura di un elemento fluido, aereo,

similcalore. Siccome il nostro comune linguaggio

“struttura” un mezzo molto più denso e solido, quando

meditiamo dobbiamo sviluppare una molto più potente

facoltà di strutturazione internamente alla nostra

attenzione, in modo da essere in grado di cognizzare

nell’elemento più sottile. E’ difficile esprimere

esperienze superiori nelle parole o figure della coscienza

ordinaria.

Comunque possiamo vincere questa difficoltà se

ricorriamo al significato primario delle parole o ad un

archetipo o simbolo che sia parimenti significativo.

La meditazione ha vita nella sfera dell’evidenza. Qui,

la verità e la realtà sono una, realtà e cognizione sono un

solo essere: l’originale, primordiale parola, non parlata,

non udibile, e non parte di uno specifico linguaggio; è la

Parola creativa tramite la quale venne creata la natura,

il nostro mondo percettivo. Nella meditazione lasciamo

il piano del passato nella nostra coscienza, ed il nostro

tema diviene quindi un compito, che possiamo e

dobbiamo realizzare, così che la realtà da raggiungere è

allo stesso tempo verità, cioè, evidenza. Realizziamo un

testo quando lo comprendiamo, e realizziamo il nostro

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Io quando la nostra attenzione incontra sé stessa.

Similmente, creiamo la realtà di ciò su cui meditiamo

quando la nostra coscienza, ora unita ed una col nostro

tema, ascende al corrispondente livello della Parola, il

livello dal quale il nostro tema è stato preso.

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10 – Meditazione Percettiva 175

10 – Meditazione Percettiva

Per studiare la natura di una funzione della coscienza è

bene esaminare il suo sviluppo, o la sua prima

occorrenza, prima che essa venga mischiata con

abitudini, memorie, ed altri meccanismi che distorcono

la figura.

Conseguentemente, per descrivere l’attività dei nostri

sensi nei capitoli 2 e 3, dovevamo ritornare al dato

diretto, e cioè, alla condizione precedente l’istruzione dei

sensi per mezzo delle intuizioni-pensiero – o almeno

all’inizio di questa istruzione. Ora comunque

guarderemo al confine di questa istruzione e allo

sviluppo cosciente di percezione e pensiero, la cui

interdipendenza è stata già discussa nei capitoli sopra

menzionati.

I sensi medi (vista e udito) ed il senso del tatto

forniscono ogni cosa necessaria ai sensi superiori – il

senso dell’Io (o del tu), il senso per i concetti, ed il senso

per la parola – per comprendere. Essi forniscono il

materiale grezzo per la percezione, che viene letto dai

sensi superiori, fintanto che è loro capacità. In questa

lettura focalizziamo sempre la nostra attenzione su

certe, selezionate caratteristiche dei materiali grezzi,

mentre altre vengono ignorate. Per esempio, il nostro

senso per la parola trascura il tono delle parole per

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focalizzarsi sulla loro configurazione sonora; il nostro

senso per il pensiero si concentra su concetti ed ignora le

parole, ed il nostro “senso-del-tu” si dimentica il

contenuto pensante per focalizzarsi solo sull’essere-Io

parlante. In ogni caso, i sensi relativamente più bassi

sono trasparenti ed aperti ai sensi relativamente più alti.

La conversazione può essere considerata come

l’archetipo della percezione. Nella conversazione,

dobbiamo assimilare ciò che il nostro partner ha detto, e

spezzare questo contenuto in suoni, parole, pensieri, e

cognizioni-Io. Potremmo sentire le parole, ma non

comprendere i pensieri dell’altra persona; in questo caso,

non facciamo uso della trasparenza del senso-parola. Se

siamo incapaci di pensare ciò che l’altro ha detto,

l’espressione rimane bloccata al livello delle parole. Se

non comprendiamo il linguaggio col quale l’espressione è

stata fatta, ciò che sentiamo rimane solo rumore o, al

meglio, suono. Con ciò la nostra percezione discende

nella sfera dei sensi medi. I nostri sensi più bassi non

divengono trasparenti perché le successive funzioni

superiori non sono in grado di comprendere ciò che i sensi

più bassi trasmettono.

Ovviamente, il mondo naturale non viene parlato nel

presente qui ed ora; esso è piuttosto un testo finito,

molto simile ad una lettera che fu scritta nel passato e

deve ora essere letta. Fintanto che nemmeno

conosciamo le lettere individuali del testo, ed ancor

meno i corrispondenti concetti ed esseri-Io, la natura ci

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10 – Meditazione Percettiva 177

rimane una percezione al livello dei sensi medi e del

senso del tatto. Ciò che accade quando non

comprendiamo il nostro partner in conversazione ci

dimostra che i sensi medi trasmettono concetti a noi

impensabili, superconsciamente.

La meditazione percettiva ha il compito di

comprendere il testo della natura. Per ottenere ciò,

dobbiamo innalzare il nostro pensare ad un piano più

vivente e più intuitivo. Solo allora la nostra attenzione

percettiva, ora concentrata ed allenata ad una

sensitività superiore per diverse qualità, sarà in grado

d’intuire le corrispondenti idee superiori. In altre parole,

il nostro pensare non deve discendere al livello del

passato.

Il testo della natura non consiste di lettere

predeterminate, o segni il cui significato è chiaramente

definito. Scoprire queste lettere e segni è in sé uno stadio

della meditazione. Tutti questi atti di scoperta

costituiscono il ritrovamento di una comprensione; essi

rispondono alla domanda “Che cosa dev’essere

percepito?” Giusto come possiamo “leggere” dei suoni

nei toni, delle parole nei suoni, e finalmente il contenuto

pensante, o significato nelle parole, similmente c’è un

atto di “lettura” coinvolto nella pura percezione o

meditazione percettiva. Se non possiamo afferrare

intuitivamente i concetti superiori che necessitiamo, la

nostra percezione rimane al livello dei sensi che sono

stati appropriatamente istruiti – dopo tutto, perfino i

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sensi medi dovevano essere istruiti per essere in grado di

percepire le qualità sulle quali si focalizzano in

particolare.

Più la nostra attenzione percipiente è concentrata e

sgombra di concetti dal passato, più è possibile essere in

grado di intuire i concetti di qualità superiori nella

percezione. Nella meditazione proviamo a distinguere

tali concetti internamente al dato che percepiamo. Allo

stesso tempo, proviamo ad integrare questi concetti nella

figura percettiva che ci è giunta come risultato del loro

essere distinti internamente al dato. In altre parole,

nella meditazione tentiamo di trovare concetti adeguati.

Per trovarli, dobbiamo essere in un piano di coscienza

superiore.

La presenza di concetti inadeguati ci rende più difficile

raggiungere tale livello superiore; necessitiamo allora di

ridurli al silenzio. L’intensificare e l’estendere la fase

dell’arresa alla percezione rappresentano un tentativo di

silenziare questi inadeguati concetti. Quando la qualità

e l’intensità della nostra percezione sono

sufficientemente accresciute, i concetti del piano del

passato – essi sono normalmente semplici

rappresentazioni mentali e non arrivano ad essere

concetti – non possono più interferire o infrangere in

essa.

Coi nostri sensi superiori focalizziamo la nostra

attenzione in una parola che esiste solo per la coscienza

umana e che rispecchia la struttura interna di questa

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10 – Meditazione Percettiva 179

coscienza. Siccome i sensi superiori, specialmente il

senso dei concetti, istruiscono tutti gli altri sensi, il

nostro mondo percettivo è un mondo specificamente

umano, come pure lo è il mondo dei nostri pensieri.

Ascendendo la scala dei sensi, le attività proprie ai

sensi superiori individualizzano ulteriormente il

materiale grezzo fornito dai sensi relativamente più

bassi. Per esempio, una particolare frase viene

individualizzata dall’Io che la rivela; chi la rivela fa una

effettiva differenza. Questo vale anche al livello della

semplice informazione, dove l’affidabilità dell’oratore, il

punto di vista di lui o di lei sono importanti.

Ogni frase, a sua volta, individualizza le parole; dei

molti possibili significati di una parola, ogni frase usa

solo un particolare significato – uno che spesso dipende

anche dalla situazione. Se trascuriamo l’oratore, il

significato di una frase è meno definito, e se guardiamo

ad una parola senza considerare la frase della quale essa

è una parte, anche il significato di una parola è meno

definito. Quindi, entità similparola più o meno poderose

si restringono; nel nostro ascendere diventano più

definite e più individualizzate.

In confronto alla parola, il suono è una entità

similparola più vasta e più ambigua. Con ogni parola,

molti suoni restringono l’un l’altro il loro vasto

“significato” – imperscrutabile dalla nostra ordinaria

coscienza – ad una entità similparola più piccola, e cioè

la parola di cui essi sono una parte. Per noi i suoni sono

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al confine di ciò che possiamo afferrare. La

comprensione ed i concetti hanno inizio con la

transizione dai suoni alle parole, e continuano nella

nostra comprensione delle frasi.

Forse in tempi antichi, per mezzo di sentimenti

cognitivi, le persone comprendevano le parole più come

suoni. Oggi, la comprensione delle parole è molto vicina

a quella dei concetti. Causa la decadenza dei nostri

linguaggi, questa relazione tra suono e parola è stata

ampiamente rovinata.

Ogni suono si forma internamente ad un tono, quindi

individualizzandolo. I toni dicono di più quindi, e sono

l’idea maggiore tra i due. Comunque oggi le persone

difficilmente capiscono ancora i toni – eccetto forse nella

musica e nelle relative arti. Abbiamo ancora esperienza

delle parti nascoste di una parola e di quelle percepibili

ai sensi nella loro simmetrica interrelazione; ma

abbiamo solo una vaga idea che i suoni di un particolare

linguaggio abbiano anche una parte nascosta, e cioè il

loro significato. Al contrario, abbiamo difficilmente

esperienza dei toni come entità similparola, e non

abbiamo la più vaga idea di cosa possa complementare i

toni percepibili ai sensi in modo che la nostra

comprensione complementi le parole che sentiamo.

La scarsità di nomi per differenti qualità di toni sta ad

indicare che la nostra coscienza concettuale è molto

lontana dall’afferrare la vera natura dei toni. La

maggior parte degli aggettivi che utilizziamo per

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10 – Meditazione Percettiva 181

descrivere i toni, come forte, basso, profondo, alto (che

possono essere chiamati anche diversamente), morbido,

duro e così via, vengono presi dagli altri sensi.

Similmente, nella sfera della visione, abbiamo nomi

propri per circa otto colori. Abbiamo anche meno nomi

per le percezioni dei nostri sensi del gusto e del calore.

Per il senso dell’odore abbiamo difficilmente qualcosa di

più di “buon odore” e “cattivo odore”, ovvero, non

abbiamo termini specifici per queste impressioni

sensorie.

I linguaggi forniscono solo una magra struttura per il

campo dei sensi medi, e questa struttura è raramente, se

non per niente, basata sulle loro idee essenziali.

Oggigiorno i nostri linguaggi ci istruiscono solo nei

concetti ordinari, e possiamo quindi istruire i nostri

sensi solo in simile modo. Una vera comprensione del

mondo sensorio richiede lo sviluppo della coscienza.

La meditazione percettiva innalza la nostra attenzione

alla fase in cui essa viene arresa all’oggetto di

percezione; innalza cioè l’attività dell’Io con la quale ha

inizio la percezione.

Senza esercizi percettivi non diveniamo mai

consapevoli della nostra attenzione, ma notiamo solo il

risultato della sua attività. Per esempio, vediamo una

montagna, ma siamo inconsapevoli della attenzione

“osservante” che ci permette di vederla. Nel guardare ed

in altre percezioni sensorie le immagini che abbiamo

sono il risultato della nostra attività, della nostra

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attenzione; esse non sono immagini di memoria. Queste

figure si intessono nell’immediato presente, nel qui-ed-

ora, mentre percepiamo. Quando eleviamo l’attenzione

che è attiva in questo processo al punto in cui essa può

scoprire sé stessa nella sua attività, sperimentiamo

queste figure non più come risultato ma come l’attività

stessa in tutta la sua vivacità. Simultaneamente sorge in

noi il significato della meditazione “tat tvam asi” o

“Questo sei tu”.

L’Io vive in identità. Dal momento che l’Io da inizio e

guida anche l’ordinaria percezione nell’arrendere sé

stessa all’oggetto percettivo, la figura percettiva non è

soggettiva. Possiamo verificare ciò nella conversazione.

Noi sentiamo ciò che il nostro partner sta dicendo, e

possiamo quindi accertarci che ciò che abbiamo sentito è

identico a ciò che è stato detto. Possiamo chiedere

conferma di ciò al nostro partner di conversazione, e lui

o lei può confermarlo. Infatti, di solito sentiamo ciò che

è stato detto – non ci aspettiamo alcun’altra cosa. Non

abbiamo alcuna ragione di assumere che la nostra

relazione con gli elementi percettivi “naturali” sia

diversa dalla nostra relazione coi discorsi di un’altra

persona in una conversazione che può essere verificata.

Quindi, tutti i pseudo-problemi, come il sapere se

persone diverse sperimentano le stesse qualità sensorie,

divengono meno importanti. Non possiamo accertare se

ciò sia per essi effettivamente così, o meno. E nemmeno

possiamo accertarci di noi stessi se percepiamo o meno

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10 – Meditazione Percettiva 183

sempre la stessa qualità sensoria. In questo modo, il

pseudoconcetto “lo stesso” viene relativizzato.

Altri concetti lavorano similmente. Non possiamo

definire i nostri concetti basilari perché ciò richiederebbe

l’esistenza di altri, già definiti concetti, e così via.

Comprendiamo l’un l’altro nella comunicazione perché

ci fidiamo ciecamente della comune familiarità della

parola, anche se questo fatto è la questione qui in

discussione.

Il dato diretto non ha una struttura data a priori, né

una struttura concettuale, né una percettiva. Dopo

tutto, i concetti isolano le percezioni fuori dal dato. I

nostri organi sensori stessi strutturano il dato solo in

cooperazione coi concetti – come prova l’originale modo

col quale ogni lingua suddivide lo spettro dei colori.

Quando abbiamo elevato l’intensità dell’attenzione ci

siamo resi conto che questa attenzione è identica alla

figura che essa intesse. Ciò ci conduce ad una esperienza

monistica nella percezione pura. Ciò che è qui al lavoro

non è soggettività umana; piuttosto, è la strutturazione,

l’attività universale dell’attenzione similparola –

ricevuta dal linguaggio, addestrata tramite pensiero

concettuale, ed elevata con un’educazione attiva della

coscienza. La nuova strutturazione del dato e

l’accendersi dei concetti superiori sono uno e lo stesso

atto di coscienza. Nella e per attività cosciente

realizziamo l’ideale della percezione contemplativa di

Goethe. Allo stesso tempo, riscopriamo in piena

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coscienza i concetti che strutturano il dato

organicamente. In questo tipo di meditazione, il “testo”

ed i suoi elementi rimangono ambigui.

Come diveniamo consapevoli della nostra attenzione in

quanto realtà creativa, essa si accende per noi quale più

intima ed individuale attività dell’Io. Quando la nostra

esperienza dell’Io avviene nell’attenzione percettiva,

essa raggiunge un livello dove l’Io diviene capace di

assimilare il linguaggio dei fenomeni naturali.

Scopriamo quindi che questi fenomeni ci hanno sempre

parlato, ma che ci mancava la capacità di comprendere

questo potente linguaggio.

Ciò che i fenomeni naturali stanno “dicendo” può

essere trasmesso solo in frasi meditative – se lo può

affatto. Più scendiamo la scala dei sensi, giù fino al

senso dell’olfatto, più pace ed armonia irradiano verso di

noi con un certo silenzio. Questo silenzio è presente

anche nei toni e nei suoni della natura. Esso consiste dei

vuoti tra i toni, e questi vuoti ci offrono lo spazio per

complementare i fenomeni. Questo silenzio è un’attesa,

in infinita pazienza e attraverso immisurabili ere di pace

che hanno preceduto ogni possibilità di misurazione.

Siamo noi stessi la soluzione all’enigma della natura,

poiché portiamo con noi la soluzione, almeno

potenzialmente. In particolare abbiamo l’abilità di

complementare la parte della natura percepibile-ai-

sensi, nell’accrescerla, così che essa divenga realtà.

Naturalmente, questa non è la sola e finita realtà:

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10 – Meditazione Percettiva 185

“Nell’aspettativa del sonno”

“Ogni cosa dice: Pace”

“Insondabile silenzio davanti a ciò che sta venendo: Silenzio di benvenuto”

“Friabile eternità”

“Oltre la gioia e la tristezza”

“Giunge ora la Luce del Mondo?”

“Sei preparato?”

Se non ci eleviamo al livello della meditazione,

saremmo accecati dalle idee della natura che

oltrepassano la nostra comprensione. Siccome queste

idee ci sono inaccessibili, esse si infondono nella nostra

mente come sensazioni percettive e ci fanno credere che

esse contengano elementi nonconcettuali. Questo

elemento nonconcettuale sembra influire nei nostri

sensi, ma potremmo comprendere l’ideale col nostro

spirito. I nostri sensi interessati “rispondono”, ci danno

una figura. Noi assumiamo che ci sia una “realtà-in-sé”

non-ideale dietro a questa figura. In realtà, comunque,

questi concetti sostitutivi sono semplici immagini

mentali, impuri “semi-concetti”, e ci conducono

all’incomprensione della natura delle idee. Confondiamo

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le idee con astrazioni dal nonconcettuale, come se i

concetti non fossero già una precondizione per

l’astrazione: dopotutto, dobbiamo selezionare e decidere

da che cosa ci stiamo astraendo.

La coltivazione sistematica dei “nonpensieri” ci porta

ad inclusioni impenetrabili nella nostra coscienza che

ostruiscono la sana circolazione della luce. Come

risultato, il nostro pensiero intuitivo viene sempre più

indebolito. Ci costruiamo un labirinto fatto di pensieri

che si muovono in cerchi, e possiamo trovare

difficilmente la via d’uscita. Le forze intuitive che

vengono impedite di funzionare in modo sano si

sviluppano quindi nelle potenti abitudini dinamiche del

nostro subconscio – nelle inverse, eppur profondamente

efficaci, ispirazioni del nostro sentire e volere. Queste

lavorano per ostacolarci a diventare veramente umani.

Se dovessero riuscire in questo intento, la natura

sarebbe eternalizzata nella sua esistenza oscurata ed

irredenta a causa del nostro fallire di leggerla con

comprensione – eternalizzata come un essere che non si

sveglia mai dal suo sonno, mummificata nel suo

dormire.

Nella pura percezione non siamo più accecati, e

l’incomprensibile riacquista il suo rango di idea

superiore. La nostra percezione si dissolve nella

comprensione, nella presenza spirituale nel qui e adesso.

Quindi l’essere umano si realizza: diviene il significato

del libro della natura.

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Epilogo 187

Epilogo

Non è lo scopo dell’epistemologia renderci coscienti di

ciò che stiamo facendo in un caso qualsiasi, sia che ne

siamo consapevoli o meno. Per quanto l’epistemologia

possa fare ciò, essa è una scienza descrittiva a posteriori,

come lo sono la logica e la linguistica. Tale descrizione

può al massimo servire come preparazione. Lo scopo

dell’epistemologia, piuttosto, è quello di mostrare che la

cognizione è di una natura sovrasensibile, che la sua

natura è simil-Io. Inoltre, l’epistemologia ci riconduce

alle sorgenti del dato modo di cognizione: da qui,

possiamo continuare coscientemente il nostro percorso

cognitivo per conto proprio. In aggiunta,

l’epistemologia indica anche dove e come possiamo

iniziare questa continuazione.

Il tipo di cognizione che ci è stata data può essere

accresciuta con lavoro cosciente. Questo è un fattore

nuovo nell’evoluzione dell’umanità, in particolare da

quando tale sviluppo cosciente non più è ristretto a

poche persone scelte, ma è per tutti disponibile.

Ogni stadio di vita cognitiva ha la sua propria

epistemologia. Essa dev’essere data da un livello

superiore tramite “intuizione” nella fase che dev’essere

descritta – altrimenti l’epistemologia finirebbe per

essere una infruttuosa speculazione. Intuendo quanto

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detto sopra, la descrizione può essere formata in modo

tale che possiamo comprenderla tramite pensiero

intuitivo, per mezzo di formazione intuitiva di nuovi

concetti. Ciò può essere fatto anche senza dover prima

innalzare la nostra coscienza ad un nuovo livello. Le

intuizioni necessarie per questo scopo preparano il

lavoro cosciente necessario per elevare la nostra vita

cognitiva ad un livello superiore.

L’epistemologia ci serve quindi come “studio” per il

percorso cognitivo.

Ecco perché questo libro termina con capitoli sulla

meditazione. Questi capitoli intendevano mostrare come

un percorso cognitivo, nel senso di scienza dello spirito,

può guarire un nostro insano cognizzare e svilupparlo

organicamente. Questo percorso, che ci è dato come

possibilità, è un’elevazione della cognizione.