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1 Lo straniero nel Primo Testamento I processi migratori in atto sono uno, forse il più rilevante, tra gli elementi che pongono oggi in modo nuovo la questione dell‟incontro con lo straniero. Dopo aver cercato di compiere una lettura di questo fenomeno e sulle provocazioni che esso comporta vorrei proporre il tentativo di una lettura credente a partire da alcuni passaggi delle Scritture. Compito del cristiano è cercare di leggere questo segno dei tempi nella luce che proviene dalla Bibbia. Il fenomeno delle migrazioni è oggi un segno dei tempi, una chiamata di Dio proveniente dai movimenti della storia che invita a riflettere e a comprendere in modo nuovo aspetti centrali della fede e della testimonianza. E‟ un evento che spinge nella ricerca di una spiritual ità che ponga l‟accoglienza e l‟ospitalità come esperienze chiave per aprirsi all‟incontro con Dio oggi. Certamente la Bibbia non offre soluzioni concrete ai problemi che le nostre società si trovano ad affrontare e che esigono una capacità politica di gestire e orientare movimenti epocali. Tuttavia offre orizzonti di fondo nei quali ritrovare il senso di una testimonianza umana e credente. La Bibbia è Parola di Dio e i credenti ritrovano in essa, in rapporto alla vita, il messaggio di Dio come luce per la loro esistenza, ma la Bibbia è anche il grande codice in cui poter ritrovare un messaggio che legge e interpreta la vicenda dell‟umanità e si apre ad un ascolto anche da parte di chi vive una ricerca sui diversi orizzonti della vita umana. Nelle pagine bibliche la figura dello straniero compare con una importanza che può apparire sempre più rilevante se si considera nei suoi diversi aspetti e nella complessità di sfaccettature e problematiche con cui è presentata. Israele in quanto popolo credente in JHWH sorge da una esperienza di stranierità: i racconti fondatori d‟Israele, la vicenda di Abramo, chiamato a lasciare la sua terra e ad andare verso una terra non sua e il percorso dell‟esodo come cammino di un popolo oppresso e straniero, sono i momenti fondanti della storia di un popolo che si scopre straniero nelle sue origini e che vive da straniero, nel cammino della migrazione, la sua esperienza di fede. Il rapporto con gli stranieri rimarrà poi sempre presente anche nell‟esperienza dell‟Israele stabilito e costituirà un aspetto importante nella legislazione proprio perché lo straniero costituisce un elemento che rinvia ad una esperienza umana fondamentale, e all‟esperienza stessa di Dio nell‟incontro della fede. Gesù stesso vive nella condizione di straniero e con il suo messaggio ed il suo agire porta ad una novità e allarga gli orizzonti della comprensione del prossimo e dell‟altro. Gesù poi delinea la verifica della vita cristiana proprio sui temi dell‟incontro con l‟altro e con il povero (Mt 25). Così le

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Lo straniero nel Primo Testamento

I processi migratori in atto sono uno, forse il più rilevante, tra gli elementi che pongono oggi in

modo nuovo la questione dell‟incontro con lo straniero. Dopo aver cercato di compiere una lettura

di questo fenomeno e sulle provocazioni che esso comporta vorrei proporre il tentativo di una

lettura credente a partire da alcuni passaggi delle Scritture. Compito del cristiano è cercare di

leggere questo segno dei tempi nella luce che proviene dalla Bibbia. Il fenomeno delle migrazioni è

oggi un segno dei tempi, una chiamata di Dio proveniente dai movimenti della storia che invita a

riflettere e a comprendere in modo nuovo aspetti centrali della fede e della testimonianza. E‟ un

evento che spinge nella ricerca di una spiritualità che ponga l‟accoglienza e l‟ospitalità come

esperienze chiave per aprirsi all‟incontro con Dio oggi.

Certamente la Bibbia non offre soluzioni concrete ai problemi che le nostre società si trovano ad

affrontare e che esigono una capacità politica di gestire e orientare movimenti epocali. Tuttavia

offre orizzonti di fondo nei quali ritrovare il senso di una testimonianza umana e credente. La

Bibbia è Parola di Dio e i credenti ritrovano in essa, in rapporto alla vita, il messaggio di Dio come

luce per la loro esistenza, ma la Bibbia è anche il grande codice in cui poter ritrovare un messaggio

che legge e interpreta la vicenda dell‟umanità e si apre ad un ascolto anche da parte di chi vive una

ricerca sui diversi orizzonti della vita umana.

Nelle pagine bibliche la figura dello straniero compare con una importanza che può apparire sempre

più rilevante se si considera nei suoi diversi aspetti e nella complessità di sfaccettature e

problematiche con cui è presentata.

Israele in quanto popolo credente in JHWH sorge da una esperienza di stranierità: i racconti

fondatori d‟Israele, la vicenda di Abramo, chiamato a lasciare la sua terra e ad andare verso una

terra non sua e il percorso dell‟esodo come cammino di un popolo oppresso e straniero, sono i

momenti fondanti della storia di un popolo che si scopre straniero nelle sue origini e che vive da

straniero, nel cammino della migrazione, la sua esperienza di fede. Il rapporto con gli stranieri

rimarrà poi sempre presente anche nell‟esperienza dell‟Israele stabilito e costituirà un aspetto

importante nella legislazione proprio perché lo straniero costituisce un elemento che rinvia ad una

esperienza umana fondamentale, e all‟esperienza stessa di Dio nell‟incontro della fede.

Gesù stesso vive nella condizione di straniero e con il suo messaggio ed il suo agire porta ad una

novità e allarga gli orizzonti della comprensione del prossimo e dell‟altro. Gesù poi delinea la

verifica della vita cristiana proprio sui temi dell‟incontro con l‟altro e con il povero (Mt 25). Così le

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prime comunità cristiane manifestano una consapevolezza di essere comunità straniere e pellegrine,

proprio in quanto testimoni della fede nel Dio che è sempre altro e oltre e ci rinvia ad un cammino

mai conchiuso nell‟incontro.

“Si vede come già nell‟Antico Testamento emergano posizioni e concezioni della realtà dello

straniero, quale „luogo teologico‟ dove Dio irrompe nella storia. Ciò si radicalizza ancora di più nel

Nuovo Testamento, dove lo straniero diventa categoria per indicare un aspetto del mistero di

Cristo”.1

La figura dello straniero inserita nelle Scritture diviene quasi una fessura che apre ad uno sguardo

su dimensioni nuove dell‟incontro con l‟altro e che conduce a ripensare le modalità dell‟incontro

con l‟altro.

I passaggi di questo intervento saranno quindi due:

- una lettura della figura della stranierità nel Primo Testamento come elemento fondamentale per la

comprensione della fede di Israele,

- i modi di indicare lo straniero e la legislazione.

Le principali tappe

La storia della fede di Israele sorge in un contesto di estraneità: l'essere straniero si connette alla

promessa di Dio, sta al cuore della vicenda della fede di Israele sia nella storia di Abramo sia nel

percorso del popolo al momento dell'esodo. Fondamentale nella memoria di Israele rimane

l'esperienza di essere stato straniero in Egitto e di aver scoperto lì, nella condizione di estraneità, la

presenza liberante di Dio che lo ha fatto uscire dal paese d'Egitto.

Questa esperienza fondante non è senza significato nel modo stesso di intendere la relazione con

Dio innanzitutto, e la relazione tra le persone e i popoli nella sensibilità propria di Israele. La

condizione di estraneità è la condizione in cui nasce e si sviluppa il cammino della fede.

Abramo e i patriarchi: un’esperienza di stranierità

Abramo è invitato a lasciare qualcosa dietro di sé: per incontrare Dio è chiamato a vivere la

condizione dell‟andare, di chi non possiede terra ma di chi la percorre. E‟ spinto ad andare verso

una terra abitata da stranieri, i cananei, e a ritrovarsi come straniero in mezzo a popoli diversi.

Proprio in quanto straniero Abramo può essere l'amico del Dio inafferrabile che sta sempre oltre.

Abramo rappresenta l‟esempio di colui che vive pienamente il suo cammino umano non

1 P. Rota Scalabrini, Il Signore protegge lo straniero. linee del discorso biblico sul tema dello straniero, in Aa.Vv., Lo

straniero, (Invito alla teologia 5) Bergamo Litostampa Istituto Grafico 2003, 39-67, qui 41.

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dimenticando di esser straniero (come Lot a Sodomia) ma continuando a vivere come forestiero,

anche alla fine del suo viaggio, quando acquista il campo di Macpela: “Io sono forestiero e di

passaggio in mezzo a voi” (Gen 23,4).

Abramo è chiamato a partire come migrante e a lasciare la sua terra: “Mio padre era un Arameo

errante; scese in Egitto e vi stette come un forestiero” (Dt 26,5); “Tu sei per origine e per nascita del

paese dei Cananei, tuo padre era Amorreo e tua madre Hittita” (Ez 16,3). Il salmo 39 legge in

questa luce la condizione umana nella sua fragilità e la indica come paragonabile alla condizione

del migrante: “Come ombra è l‟uomo che passa… Io sono un forestiero (gher) davanti a te, uno

straniero (toshav) come tutti i miei padri” (Sal 39,7.13). “Erano in piccolo numero, pochi e stranieri,

e passavano di paese in paese” (Sal 105, 12-13) “Noi siamo stranieri davanti a te, pellegrini come

tutti i nostri padri” (1Cr 29,15).

La terra su cui il popolo troverà dimora si delinea come terra donata, sulla quale Israele vive da

ospite, e non come dominatore o possessore: “la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri

ed inquilini” (Lv 25, 23).

In Gen 17,7-9 la promessa di Dio riguarda due principali orizzonti, quello della terra e quello della

discendenza. La discendenza è promessa ad un uomo che non ha figli; la terra è promessa mentre il

luogo in cui Abramo vive da straniero è una terra non sua. E‟ il paradosso della promessa di Dio

che chiama Abramo ad uscire, a lasciare per andare verso un altrove segnato dall‟affidamento a Lui

solo.

„Straniero‟ è una categoria utilizzata per indicare il rapporto con la terra, e fa riferimento alla

promessa: tocca quindi dimensioni centrali della fede e della vita d‟Israele. La „terra‟ e la

„discendenza‟, oggetto della promessa ad Abramo, sono da considerare come le due fondamentali

direzioni dell'alleanza. Lo straniero viene da un‟altra terra, in una terra che non gli è propria e si

colloca fuori da un tessuto di relazioni che dicono la familiarità e l'appartenenza ad una medesima

discendenza.2

Estraneità tuttavia è anche la condizione presentata dall'inizio anche per la discendenza di Abramo

(Gen 15,13). Abramo inizia da subito a sperimentare la sua condizione di straniero: a Sodoma è

rigettato dagli abitanti della città in cui il grande peccato è quello di non dare ospitalità nei confronti

dello straniero. A lui sono rivolte le parole: “questo individuo è venuto qui come straniero e vuol

fare il giudice? (Gen 19,8-10). E così successivamente Abramo “levò le tende e soggiornò come

2 Cfr. Aa.Vv., L‟altro, il diverso, lo straniero, “Parola Spirito e Vita” 27,1993,1-301.

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straniero a Gerar” (Gen 20,1). Il suo peregrinare lo conduce a fare esperienza di straniero: fu

forestiero nel paese dei filistei per molto tempo (Gen 21,34; cfr Gen 23,4; 35,27; 37,1).

Nella sua vicenda Abramo è descritto come „straniero‟ nel momento stesso in cui accetta di

rispondere alla chiamata di JHWH. La benedizione stessa di Dio si allarga a comprendere anche

tutte le nazioni, e le famiglie della terra ossia tutto un ambito di estraneità rispetto alla discendenza

e alla nazione propria di Abramo stesso.

La situazione delle nazioni è così connessa con l'elezione di Abramo: l'elezione di Israele da un lato

reca in sé le valenze di una differenziazione radicale e di una unicità di Israele stesso in mezzo ai

popoli, d‟altra parte è il luogo stesso in cui la benedizione donata può essere trasmessa a tutti i

popoli.

Proprio in ciò che costituisce la separazione di Israele da tutti gli altri popoli sta un movimento che

unisce Israele a tutti gli altri popoli e lo collega a tutta l‟umanità. La sua vocazione è quella di

essere ponte di trasmissione della benedizione di Dio destinata non ad essere privilegio proprio di

una etnia o di una terra, ma ad aprirsi ad orizzonti di universalità, per tutte le famiglie della terra.

Questa condizione di estraneità è la condizione che connota così molti personaggi della vicenda

biblica: come Abramo, anche Giacobbe è forestiero (cfr. Gen 32,5), ma si allarga a divenire la

condizione del popolo: Israele nella sua dimensione collettiva vive la condizione di estraneità in

Egitto (Gen 47,4).

Quando Sippora partorisce un figlio a Mosè si dice “ella partorì un figlio ed egli lo chiamò Gherson

(da gher = straniero) perché diceva sono un emigrato in terra straniera” (Es 2,22; cfr. Es 18,3).

Così il ricordo del percorso del popolo d'Israele a partire dallo spostamento in Egitto è un ricordo di

chi vive da straniero: “poi scesero in Egitto poiché la fame aveva invaso tutto il paese di Canaan, e

vi soggiornarono finché trovarono da vivere. Là divennero anche una grande moltitudine, tanto che

non si poteva contare la loro discendenza” (Gdt 5,9-11; cfr. Gdt 5,17-19: “furono condotti

prigionieri in paese straniero, il tempio del loro Dio fu raso al suolo”); 1Cron 16,18-20: “Eppure

costituivano un piccolo numero; erano pochi e per di più stranieri nel paese”. In un contesto di lode

al Signore nel trasporto dell'arca che ripercorre le tappe dell'alleanza c'è questo riferimento

all'essere in piccolo numero e all'essere stati stranieri quale ricordo profondamente presente nella

coscienza di Israele: “Siamo stranieri e pellegrini come tutti i nostri padri” (1Cron 29,14-16).

La condizione di pellegrino è quella di chi vive nella condizione di precarietà, di chi è come ombra

e sa che la speranza viene non da una stabilità o da una certezza posseduta o accumulata attraverso

una ricchezza da conservare ma è condizione in cui si percepisce profondamente la dipendenza da

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qualcuno da cui non si può esigere ma da cui solamente si può attendere di accogliere un dono

frutto di benevolenza.

L’Esodo

Anche Mosè vive la condizione di straniero per il suo popolo e nel cammino dell‟esodo Israele

scoprirà la sua condizione esistenziale di Israele come estraneità: nell‟esodo Israele incontra il Dio

che ascolta il grido delle vittime e protegge lo straniero e lo conduce nel cammino di liberazione

dall‟oppressore. Israele maturerà così una duplice visione della condizione di straniero. Da un lato

un aspetto positivo perché in quanto straniero si è lasciato condurre da Dio in un cammino di

libertà. Però c‟è anche un elemento negativo: essere straniero comporta una perdita, uno

spaesamento ed anche paura.3

L'Esodo si connota come il momento dell'esperienza più forte e dolorosa dell'estraneità, ma anche

per contro come il momento più alto dell'elezione di Israele (Dt 4,7). Si può cogliere allora come

nell'esperienza stessa in cui si accentua la singolarità di Israele in mezzo a tutti i popoli questa non

si connota come privilegio, ma significa per Israele essere un segno in mezzo a tutti i popoli e per

tutti.

L‟esperienza dell‟Esodo rispetto al migrare di Abramo si connota come un percorso di uscita verso

la libertà da una condizione di schiavitù. E‟ così una migrazione in cui sono compresenti gli aspetti

della sofferenza per l‟oppressione e per la discriminazione che deriva dall‟essere considerati popolo

da sottomettere da mantenere nella condizione di schiavo. In questo contesto di oppressione subita

sta anche l‟esperienza di un cammino guidato e sorretto dalla mano potente di Dio che ha ascoltato

il grido del popolo oppresso ed è sceso a liberarlo. La fede nel Dio dell‟Esodo è intrisa

dell‟esperienza del cammino di spostamento da una terra di schiavitù verso una condizione di

libertà.

In questo percorso Israele diviene un segno ed il rapporto con il Dio liberatore genera libertà.

Israele è stato scelto non per una singolarità che deriva da suoi meriti, ma l'elezione stessa rinvia

alla gratuità dell'amore di Dio che sceglie il popolo più debole e indifeso per manifestare la sua

potenza e la sua misericordia (Dt 7,7-8).

L'elezione si connota quindi come dono che si fa appello di libertà e di fedeltà del popolo. Essa può

essere ritirata di fronte all'infedeltà o può essere donata a chi - straniero - si rende disponibile ad

essere coinvolto in questa storia. Vi sono molteplici presenze di stranieri che fanno progredire la

storia della salvezza. Il re Ciro, un pagano, diventerà uno dei protagonisti responsabili di questa

3 P.Bovati, Lo straniero nella Bibbia. I. La diversità d‟Israele, “La Rivista del clero italiano” 83,2002, 405-418.

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vicenda di alleanza: "Per amore di Giacobbe mio servo e di Israele mio eletto io ti ho chiamato per

nome e ti ho dato un titolo sebbene tu non mi conosca (Is 45,4 a cui è dato il titolo di messia e che è

visto come nuovo Mosè: cfr Is 41,1-5.21-29; 44,24-28; 45,1-7.9-13; 46,9-11; 48,12-15). Così tante

figure di stranieri intervengono a condurre avanti la storia della salvezza: Rahab e Tamar erano

straniere cananee, Rut era Moabita, Uria è moglie di Uria l'Ittita.4

L'elezione non è un riconoscimento particolare in vista di un privilegio da trattenere ma vive in una

dinamica di apertura nell'orizzonte dell'inclusione e del coinvolgimento di tutti i popoli. L'elezione

colloca Israele come segno che possa contagiare e invitare e suscitare nei popoli un cammino verso

la scoperta dell'amore di Dio che si è manifestato proprio nell'elezione di Israele in quanto popolo

oppresso e vittima, nella condizione dello straniero. Poiché Israele è proprietà tra tutti i popoli che

pure sono proprietà di Dio, la sua caratteristica è quella di essere un regno di sacerdoti (Es 19,5-6),

con un compito di mediazione e di missione, analogo alla funzione descritta per il servo di JHWH,

inviato ad essere luce per tutti i popoli (Is 49,6).

Nella fase dell'insediamento al tempo di Giosuè e dei Giudici Israele vive straniero nella terra che

non è sua proprietà ma che rimane di Dio (elemento che verrà ripreso come fondamentale nella

memoria in Deuteronomio: „ricorda Israele‟).

La riflessione sulla creazione e sugli inizi della vicenda umana

La riflessione sulla creazione e sulla vicenda umana a partire da Adamo pone la prospettiva di una

estraneità originaria dovuta ad un'uscita dal giardino delle origini. La riflessione jahwista conduce a

cogliere come non solo Israele nella sua vicenda di popolo dell‟alleanza ma l'umanità stessa sia in

una condizione di estraneità e di alleanza. C'è un‟estraneità originaria tra Dio e la creazione e tra

Dio e l‟umanità. La creazione è altro da Dio e nei testi jahwisti di Genesi è sottolineata fortemente

in senso demitologizzante la differenza della creazione rispetto a Dio. La vita umana e non solo la

vicenda di Israele si pone radicalmente in una dimensione di estraneità rispetto ad una terra dove

l‟uomo incontra Dio come altro dalle creature, ma in cui c‟è trasparenza di relazione e di

comunicazione. Il mito del giardino in cui Adamo conversa con Dio, canta l'inno di lode di fronte

ad Eva unico aiuto che è simile, dà il nome alle creature è espressione di tale estraneità positiva

luogo di incontro e custodia. Si tratta quindi di una alterità dialogica, letta nei suoi aspetti positivi

dello „stare di fronte‟ nell‟incontro. La situazione dopo il peccato invece si presenta come una

rottura in cui l‟estraneità si connota come non sincerità, lontananza, conflitto tra l'uomo e la donna,

oppressione dell'uno sull'altro, violenza e odio tra fratelli: si tratta di una estraneità sperimentata

4 cfr Mt 1,1-17 genealogia di Gesù e su questo cfr. R.E.Brown, La nascita del Messia, tr.it. Assisi Cittadella 1981, 78-

84.

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come inimicizia, fino all'estraneità tra gli uomini generata dopo il fallimento del progetto di Babele.

E vi sarà anche una alterità ritrovata con l'alleanza in Noè che investe tutta l‟umanità oltre ad ogni

appartenenza al popolo d‟Israele e che si estende a comprendere le dimensioni del cosmo.

In Gen 1-3 ci sono quindi le tracce di una estraneità che deriva da una vocazione smarrita: Adamo

si nasconde di fronte a Dio. Caino fugge e non vuole sapere nulla del fratello; e la costruzione della

prima città, la città di Caino, è vista da Gen 4 come l'agglomerarsi di uomini per lasciar fuori, per

escludere il fratello: potremmo vedere in questo racconto la costruzione di città nel senso di una

prima struttura dell'esclusione.

Ancora in Gen 11 l'estraneità diviene la condizione di chi non è più capace di comunicare: la

dispersione degli uomini e la confusione delle lingue è segno di una estraneità tra popoli e culture

non più capaci di intendersi perché hanno ricercato un'unità come uniformità (la grande torre) in un

progetto che aveva al cuore la pretesa di porsi al posto di Dio stesso. La torre rappresenta ogni

disegno egemonico dell'umanità di arrivare al cielo, di ergersi al posto di Dio, un progetto destinato

a cadere nella confusione. E' il disegno di ridurre ogni varietà a soggiacere ad un grande dominio

frutto dell'operare dell'uomo. E in Gen 11 l'intervento di Dio è indicato come ciò che preserva una

differenza che però non trova modo di comunicare. Nel racconto di At 2, la Pentecoste, si troverà la

situazione dell'anti Babele – o, secondo altre interpretazioni, il compimento proprio del disegno di

Dio a Babele - ossia la possibilità che stranieri si comprendano e comunichino, non nel soggiacere

ad un'unità imposta dal progettare umano, ma nell'intendere ciascuno nella propria lingua la parola

dell'altro: la differenza non è annullata ma diviene luogo di una relazionalità nuova nella forza dello

Spirito come dono di comunicazione.

In questa riflessione sui primi capitoli della Genesi si può riscontrare come vi sia una presentazione

di quel tipo particolare di alleanza con Noè, che ha una struttura simile a quella che sarà l'alleanza

con Israele: c'è un impegno di Dio con tutti gli uomini, un patto in cui l‟alterità non annulla le

differenze e si pone come luogo di apertura e di incontro. Dio si fa soggetto e garante di questo

patto: nell'alleanza con Noè tutte le diverse nazioni sono coinvolte (Gen 10). Ma anche la vocazione

di Abramo, posta immediatamente dopo il racconto di Babele inaugura il cammino di una fede

chiamata ad uscire, da vivere con spirito di pellegrino e straniero, per sperimentare una relazione

nuova con Dio, che si fa incontro come ospite e chiede accoglienza (cfr. Gen 18).

L'orizzonte della predicazione profetica

I profeti iniziano un genere letterario particolare che prima in Israele non era mai esistito,

consistente nella presentazione di oracoli rivolti alle nazioni. In questi testi si può osservare come

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anche i popoli stranieri siano considerati con un ruolo ed una presenza attiva che è chiamata ad una

responsabilità particolare, all'interno della storia della salvezza, del dialogo di Dio con il suo

popolo. Anch‟essi vivono in rapporto a questa storia e si trovano di fronte ad una verifica e ad un

giudizio.

Il libro di Amos è una delle prime testimonianze di questi oracoli alle nazioni da leggersi nella

prospettiva presentata da Is 53,6-7: tutti gli stranieri non saranno esclusi, il tempio di Dio è casa di

preghiera per tutti i popoli. In questo senso è proprio della predicazione dei profeti la linea di

annuncio secondo la quale le nazioni possono essere inserite nella storia della elezione di Israele:

“Alla fine dei giorni il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti… ad esso

affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: venite saliamo al monte del Signore…”

(Is 2,2-4; Mi 4,1-3 riprende questo testo di Isaia). Il terzo Isaia riprende la visione di Isaia del fluire

dei popoli in pellegrinaggio verso Gerusalemme (Is 60): questo convergere delle nazioni e dei

popoli aprirà un tempo futuro di giustizia, di pace, di eliminazione della violenza e delle armi.

Tali prospettive sono riprese soprattutto nel periodo del postesilio (Ag 2,6-9; Zac 8,20-23; 2Is

45,22; 3Is 66,18-21). C'è una possibilità aperta alla conversione dei popoli: casi emblematici sono

la vicenda di Naaman, siro che pur profetizza (2Re 5,15) e di Achior l'ammonita (Gdt 5,1-6,21).

Sempre maggiore sarà la presenza di 'coloro che si uniscono a JHWH e a Israele' (Is 56,3-6; Zac

2,15), fino a giungere alle posizioni di Geremia, che riconosce anche in chi ha oppresso Israele la

possibilità di integrarsi e di stabilirsi all'interno del popolo: “Così dice il Signore: 'Ecco io sradico

dalla loro terra tutti i miei vicini malvagi, che hanno messo le mani sull'eredità che ho dato al mio

popolo Israele, e così anche sradicherò la casa di Giuda di mezzo a loro. E, dopo averli sradicati,

riprenderò ad avere compassione di loro e farò tornare ognuno al suo possesso e alla propria terra.

Se impareranno con cura le usanze del mio popolo fino a giurare nel mio nome dicendo: „Per la vita

del Signore‟, come hanno insegnato al mio popolo a giurare per Baal, allora potranno stabilirsi in

mezzo al mio popolo" (Ger 12,14-16).

Alcuni profeti del tempo dell'esilio, quali il Terzo Isaia e Geremia sviluppano in modo particolare le

prospettive universalistiche della fede di Israele: “Non dica lo straniero che ha aderito al Signore:

certo mi escluderà il Signore dal suo popolo. Non dica l'eunuco io sono un albero secco” (Is 56,2-

4). “Gli stranieri che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore...” (Is

56,6-7) è l'annunzio che saranno ammessi proseliti stranieri a condizione di un legame con

l'alleanza, inclusa anche la circoncisione. Il tempio di Gerusalemme si apre a divenire luogo di un

incontro oltre i confini di appartenenza al popolo d‟Israele: “il mio tempio si chiamerà casa di

preghiera per tutti i popoli” (Is 56,7).

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Una prospettiva più marcata in orizzonte universalistico è riscontrabile in Is 60,10-12: “stranieri

ricostruiranno le tue mura... le tue porte saranno sempre aperte.. per lasciar introdurre da te le

ricchezze dei popoli”. “Ricostruiranno... ci saranno stranieri a pascere i vostri greggi e figli di

stranieri saranno vostri contadini e vignaioli” (Is 61,5; cfr. Is 14,1-2).

L'esilio stesso diviene esperienza teologica di estraneità: nella condizione di estraneità Israele

scopre più profondamente le dimensioni della fede: incontra JHWH come signore della storia e

riscopre la sua Parola come riferimento fondamentale.

In Ezechiele la dispersione diviene il „luogo teologico‟ di un incontro nuovo con Dio: “Allora

sapranno che io sono il Signore, quando li avrò dispersi fra le genti e li avrò disseminati in paesi

stranieri” (Ez 12,14-16).

Il profeta stesso deve diventare un segno ed è spinto a prepararsi come un deportato, un emigrante

di fronte al popolo, per annunciare l‟imminente deportazione del popolo di Gerusalemme.

“... Allora sapranno che io sono il Signore”. La conoscenza, ossia l'esperienza della signoria di

JHWH, si risveglia quando Israele vive la condizione della deportazione e dell'estraneità. La

dispersione tra le nazioni è occasione di purificazione e ciò è espresso nei termini della

purificazione della fede stessa di Israele: "Ti disseminerò in paesi stranieri; ti purificherò della tua

immondezza" (Ez 22,14-16).

Una tensione irrisolta: tra elezione e apertura universale

Possiamo rintracciare nel Primo Testamento una tensione irrisolta tra due elementi fra di loro

contrastanti. Da un lato Israele scopre di essere stato scelto da Dio e in virtù di questa scelta sorge

l‟esigenza di custodire la preziosità di una relazione che è dono di alleanza ma nel contempo è

anche richiesta di fedeltà.

L‟elezione quindi fa riferimento al senso di rapporto esclusivo da custodire in un contesto di

continui possibili sviamenti, di commistioni con i popoli pagani, con le varie forme dell‟idolatria

che comportano il venir meno alla fedeltà all‟alleanza.

In questo senso „elezione‟ dice riferimento ad una unicità, è una scelta che comporta una

separazione ed una salvaguardia della differenza rispetto a tutti gli altri popoli.

Israele è la „segullah‟, ossia la proprietà esclusiva e personale di Dio in mezzo ai popoli: "Voi sarete

per me la proprietà fra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di

sacerdoti e una nazione santa" (Es 19,5-6, redazione P probabilmente).

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Un testo paradigmatico di questa preoccupazione per custodire il rapporto con JHWH è in Dt 7,1-

2.6: "Quando JHWH tuo Dio ti avrà introdotto nella terra che stai per occupare e ne avrà scacciate

davanti a te molte nazioni... tu le voterai allo sterminio, non farai con esse alleanza né farai loro

grazia... Tu infatti sei un popolo consacrato a JHWH tuo Dio che ti ha scelto per essere il suo

popolo privilegiato tra tutti i popoli che sono sulla terra".5

Qui il privilegio dell'alleanza è percepito nel senso dell‟esclusività – e quindi della separazione

dall‟altro -: si tratta di una delle pagine più scandalose per noi, ma che ha alla sua radice una

preoccupazione di affermare la preziosità del rapporto con JHWH. JHWH è Dio geloso.6 L'idea di

privilegio e di elezione trova un suo modo di espressione secondo una prospettiva escludente altre

partecipazioni possibili, altri popoli: la preservazione dell'identità, che è identità di relazione con

5 Una linea di etnocentrismo è presente sin da epoche anteriori ma esso diviene più marcato nel post-esilio con la

preoccupazione di ricostituire un'identità del popolo rientrato dall'esilio nella terra di Canaan, con l'esperienza della

riforma al tempo di Esdra, e con l'opposizione radicale all'ellenismo avvertito come cultura che svuotava le dimensioni

più profonde della fede e dell'identità stessa del popolo d'Israele in epoca maccabeica. Nei libri dei Maccabei infatti si

riscontra la reazione alle usanze straniere introdotte in Israele al tempo di Antioco, percepite come idolatria; e si

condanna in modo esplicito il processo di ellenizzazione promosso in quel tempo (1Mac 1,43-45: il re spedì decreti...

ordinando di seguire usanze straniere; 1Mac 3,57-59: siate forti per dar battaglia a questi stranieri che si sono alleati per

distruggere noi e il nostro santuario; 2Mac 4,12-14: Così era raggiunto il colmo della ellenizzazione e la diserzione

verso i costumi stranieri per l'eccessiva corruzione dell'empio e falso sommo sacerdote Giasone)

La sensibilità di tipo esclusivista e la preoccupazione per la purezza del popolo, per un ritorno ad una separazione di

tipo etnico si evidenzia nella questione della separazione dalle donne straniere all'epoca di Esdra e Neemia nel

postesilio. Sotto Esdra e Neemia si attuano, forme di isolamento e di recupero di una purezza di tipo etnico, secondo

linee integralistiche che si attuano soprattutto nel rigetto di rapporti con donne straniere (Esd 10,1-45; Neem. 13,25-28;

cfr. Tb 4,11-13; cfr. 1 Re 11,1-5: Salomone è presentato come il re che amò donne straniere; queste lo attirarono verso

il culto di divinità estranee al Dio d'Israele e 'il suo cuore non restò più tutto per il Signore').

La contrapposizione tra il culto agli dèi stranieri e il servizio al Signore è un elemento ricorrente sia nella fase dei

giudici sia nel periodo della monarchia: "eliminarono gli dèi stranieri ...servirono il Signore" (Gdc 10,15-17). Servire gli

dèi stranieri costituisce un allontanamento da JHWH e dalla via che Dio indica, atteggiamento paragonato alla idolatria

ed alla prostituzione (Dt 7,4; 11,16: servire gli dèi stranieri è una seduzione e porta all'allontanamento del cuore; 11,28;

13,3; 28,36; 31,16). C'è una incompatibilità tra il riferimento agli dèi stranieri e il servizio del Signore: l'amore di Dio

per Israele è amore che dice esclusività ed è espresso nei moduli antropomorfici della gelosia di Dio stesso (Dt 32,2: Il

Signore lo guidò da solo, non c'era con lui alcun dio straniero; Dt 32,16) l'orientamento al Signore è globale ed implica

un rivolgere a lui il cuore (cfr. 1Sam 7,2-4). C'è una esigenza di eliminare gli dèi stranieri (Gen 35,2.4) la lode dei re

giusti in Israele è spesso collegata al loro atteggiamento di allontanamento delle divinità straniere (2Cron 14,1-3; 30,24-

26; 33,14-16) in contrapposizione alla venerazione delle divinità straniere che fa dimenticare l'alleanza ed è infedeltà a

colui che ha liberato Israele dall'Egitto (1Re 9,8-10; 2Re 17,36-39; 2Cron 7,18-23). Eliminare gli dèi stranieri

corrisponde a volgere il cuore al Signore (Dt 34,19-21.23). Per la separazione dallo straniero cfr. Neem 10,28-30; 13,2-

4: 'quando ebbero udito la legge, separarono da Israele tutto l'elemento straniero che vi si trovava mescolato'. Cfr. anche

Malachia 2,10-12 'Giuda è stato sleale e l'abominio è stato commesso in Israele e in Gerusalemme. Giuda infatti ha

osato profanare il santuario caro al Signore e ha sposato le figlie d'un dio straniero!'; Ne 13,25-27: 'Dissi: Salomone, re

d'Israele, non ha forse peccato appunto in questo? Certo fra le molte nazioni non ci fu un re simile a lui; era amato dal

suo Dio e Dio l'aveva fatto re di tutto Israele; eppure le donne straniere fecero peccare anche lui'. Neemia 13,26-28: „Si

dovrà dunque dire di voi che commettete questo grande male, che siete infedeli al nostro Dio, prendendo mogli

straniere?‟.

L'atteggiamento di sospetto nei confronti delle donne straniere è un luogo comune sviluppato nell'ambito della

letteratura sapienziale in particolare in Proverbi (2,15-17; 5,2-4.19-21; 6,23-25; 7,4-6.7-9; 22,13-15; 23,26-28; 27,12-

14). 6 Ci sono studi che hanno raccolto i testi che attestano l'atteggiamento di separazione e che si spinge sino addirittura

all'odio di Israele contro lo straniero e l'avversario (P.E. Dion, Dieu universel et peuple élu, Cerf Paris 1975; cfr.

G.Ravasi, Missione e universalismo nell'Antico Testamento, in Israele e le genti, AVE Roma 1991, 89-128; cfr. Anche

M.Cimosa, Popolo/popoli, in “Nuovo Dizionario di Teologia Biblica” Cinisello B. Paoline, 1988, 1189-1202; G.Ravasi,

Universalismo e particolarismo nell'Antico testamento, "Parola Spirito e Vita 27, 1993, 11-24.

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Dio, in questi testi appare la principale preoccupazione perché l'alleanza sia riconosciuta come la

dimensione costitutiva del popolo d'Israele.

Emerge a tal riguardo il problema teologico della custodia della diversità, dell'orientamento radicale

e unificante della fede in JHWH: il dono dell'alleanza è dono di relazione, è dono prezioso che

Israele è chiamato a custodire al di sopra di qualsiasi altra ricchezza o guadagno umano.7

Dall'altro lato l'elezione ha un dinamismo di comunicazione è alleanza per tutti i popoli; è una

benedizione che in Abramo è orientata a raggiungere tutte le famiglie della terra; c'è un

universalismo implicito nella logica della elezione e dell'alleanza.

Insieme alla linea dell'esclusivismo è presente una linea di universalismo che percorre il Primo

Testamento: basti pensare alle pagine in cui si considera l'alleanza come evento con una portata

cosmica e offerta a tutti i popoli, rappresentati da Noè, oppure al libro di Giobbe, originario di Uz,

estraneo alla terra e alla tradizione ebraica, o ancora al romanzo didattico di Giona. Tutto il secondo

Isaia è attraversato da una apertura universalistica; l'egiziano addirittura è chiamato 'mio popolo' in

Is 19,25.

In particolare nel terzo Isaia assistiamo ad una particolare apertura universalistica. Is 19,16-25 è una

pagina probabilmente del Secondo Isaia (da confrontare con Ez 29,13-16).8 In essa si ritrova una

serie di sei oracoli rivolti a tutte le nazioni, in cui si annuncia che la conversione è possibile per tutti

i popoli: la Parola di Dio viene letta in Egitto, il culto si compie anche là, addirittura la via del Mare

che era percorso di eserciti diviene via di relazioni di pace; l'Egitto è nominato con il termine

dell'alleanza „popolo mio‟ e l'Assiria „mia creatura‟ e Israele figura come mediatore di questa

alleanza che comprende le nazioni (Is 19,23-24: “In quel giorno ci sarà una strada dall'Egitto verso

l'Assiria; gli Egiziani serviranno il Signore insieme con gli Assiri. In quel giorno Israele sarà il terzo

con l'Egitto e l'Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti:

'benedetto sia l'Egiziano mio popolo, l'Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità'”.

Isaia 56,5-7 “Gli stranieri, che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del

Signore, e per essere suoi servi, quanti si guardano dal profanare il sabato e restano fermi nella mia

alleanza...”

7 cfr. Sal 137,7-9: “beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sfracellerà contro la pietra…” Sal 145,9 Buono è Iahwè verso

tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature: due salmi che attestano due prospettive opposte, la violenza e

l'opposizione radicale alla prospettiva universalistica; e d'altro lato la fiducia in un Dio che guarda ogni creatura con

bontà e misericordia. 8 P.E.Dion, L'universalisme religieux dans les différentes couches rédactionnelles d'Isaie 40-55, "Biblica"

51(1970)161-182; D.E.Hollenberg, Nationalism and 'the nations' in Is 40-55, Vetus Testamentum 19(1969)23-36.

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Ml 1,11: "Dall'oriente all'occidente grande è il mio nome tra le genti e in ogni luogo è offerto

incenso al mio nome e un'oblazione pura, perché grande è il mio nome fra le genti, dice il Signore".

In questo testo di Malachia si riscontra una delle più alte aperture universalistiche dell'Antico

Testamento, che può essere interpretato anche nel senso di cogliere un valore ai sacrifici offerti in

ogni parte della terra come glorificazione rivolta a Dio senza che vi sia una adesione esplicita al Dio

d'Israele.

C'è uno sguardo che si apre ai popoli perché il disegno di alleanza di JHWH è esteso a comprendere

tutti i popoli in un movimento che è di comunione con Israele stesso (cfr. il pellegrinaggio dei

popoli a Gerusalemme nel terzo Isaia: Is 60. Il testo decisamente più universale è il libro di Giona,

romanzo sapienziale e didattico che si pone in forte polemica con la chiusura di stampo integralista

del giudaismo del postesilio. Giona nella sua vicenda raffigura il percorso della conversione

possibile al di là di confini etnici e territoriali, e addirittura la necessità di una conversione a Dio da

parte dell'eletto Giona che passi attraverso l'accoglienza dell'altro, e si apra così allo sguardo sulla

misericordia del Dio che ha cura per tutte le sue creature: "Tu ti dai pena per quella pianta di ricino

per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in

una notte è perita. E io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città nella quale sono più di

centoventimila persone che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra e una gran quantità

di animali" (Gn 4,10).

Nei libri sapienziali la filosofia greca entra ad essere utilizzata come ambito in cui è riconosciuta la

parola di Dio: esempio può essere l'utilizzo diretto della Sapienza di Amen-em-ope in Prov. 22,17-

23,14 e il libro della Sapienza (I sec a.C.) scritto in ambito alessandrino in cui la terminologia greca

è abbondantemente utilizzata come anche termini propri della filosofia platonica e stoica.9

Come risolvere questa contraddizione? A tal riguardo è da tener presente che la rivelazione ha una

essenziale dimensione storica, con aspetti di relatività e di approfondimento che nel corso della

vicenda del popolo d'Israele trova espressione.

La dimensione della elezione e della specificità di Israele può comporsi con una apertura di tipo

universalistico considerando come questa apertura è giunta all‟interno di un faticoso cammino.

Israele scopre la presenza del Dio dell‟alleanza che suscita una risposta di amore totale e di fedeltà a

Lui e al suo disegno, e solo progressivamente e poco alla volta si attua una comprensione ed una

accoglienza di tale disegno di salvezza.

Un quadro sintetico

9 P.Altmann, Erwählungstheorie und Universalismus im Alten Testament, Berlin 1964.

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Israele vive la condizione teologica di estraneità: estranei al 'Dio altro' eppure appartenenti a Lui

nell'alleanza con Lui. Inoltre proprio nell'appartenenza a JHWH si genera anche un'estraneità/

diversità rispetto agli altri. Ma in radice Israele scopre la sua estraneità rispetto a Dio che non può

essere posseduto e non può essere trattenuto: rimane sempre straniero, altro. Dio si rivela come

straniero e talvolta proprio nella presenza dello straniero. La pagina della visita dei tre ospiti ad

Abramo alle querce di Mamre (Gen 18) è significativa di tale esperienza di rivelazione.

“La figura dello straniero chiede dunque una ridefinizione dell‟umano, come colui che è ospitale ed

insieme sempre ospitato, e non più identificato a partire dalla „patria‟, ma dall‟altrove verso cui è

diretto. Parabola della condizione dell‟uomo come forestiero che proviene da lontano e va verso un

mondo sconosciuto, è la vicenda di Agar, e in particolare la domanda che la voce divina le rivolge:

„Agar, schiava di Sarai, da dove vieni e dove vai?‟ (Gen 16,8)”.10

Alcune figure come Rut, la straniera, nella loro vicenda fanno intravedere come l‟incontro tra le

promesse di Dio e la storia umana passi attraverso storia di estraneità, attraverso l‟incontro tra

stranieri: Rut sarà al centro della promessa e dell‟attesa messianica. Ma anche lo straniero assumerà

il profilo di strumento del piano di salvezza di Dio, come la figura di Ciro, sovrano straniero

indicato con il termine „messia‟ per la sua opera di liberazione dall‟esilio.

Si potrebbero individuare due direzioni in cui il Primo Testamento pone l‟esperienza della

stranierità. La figura dello straniero è da un lato cifra dell‟esperienza umana, della condizione

dell‟umanità di cui Israele è testimone e rappresentante, e d‟altro lato è cifra del mistero di Dio che

si fa vicino, ma sempre come „altro‟, come presenza che provoca ad uscire, ad andare oltre e come

colui che richiede di essere accolto e portatore di un dono nella vita umana.

Il vocabolario dello straniero nel Primo Testamento

Varie sono le tipologie utilizzate nel primo Testamento per indicare la figura dello straniero, per lo

più catalogabili entro due grandi categorie, la prima segnata dalla negatività, per cui lo straniero è

visto come oppressore, corruttore e portatore di peccato, la seconda in cui lo straniero è visto come

prossimo, ospite e esempio positivo.11

Vari sono anche i termini con cui nel Primo testamento si

parla dello straniero.12

10 P.Rota Scalabrini, cit., 53. Cfr. M.Bettini, Lo Straniero ovvero l‟identità culturale a confronto, Bari Laterza 1992. 11 Cfr. A. Bonora, Temi biblici per il nostro tempo, Assisi Cittadella 1993, 10-12; R.Fabris, Lo straniero nell‟Antico

Testamento, “Servitium” 77,1991, 29-39;. 12

Cfr. E.Bianchi, C. Di Sante, P. Ricca, E. Salmann, R. Virgili, Lo straniero: nemico, ospite, profeta?, Milano, Paoline,

2006.

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zar: “l’estraneo”, indica lo straniero che abita fuori dei confini di Israele, con la valenza di

estraneità rispetto al popolo ebraico; è espressione che ricorre nel Pentateuco ed indica ciò che è

profano, ciò che si pone come al di fuori del vero culto, ma viene utilizzato ad indicare anche gli

stranieri in senso etnico e politico (Ger 30,8; 51,51; Ez 7,21; 11,9) con una accezione negativa. E‟

usato anche per indicare le popolazioni nemiche, con una sfumatura di significato per cui la

diversità comporta anche ostilità. Un testo significativo a tal riguardo è una pagina di Isaia che

esprime il senso di paura da parte di Israele come popolo piccolo e debole che si trova di fronte a

popoli aggressivi e violenti: "Il vostro paese è devastato, le vostre città arse dal fuoco. La vostra

campagna, sotto i vostri occhi, la divorano gli stranieri" (1,7). Compare quindi il tema della paura di

fronte all‟estraneo e la identificazione – attraverso un sottile gioco di parole - dello straniero (zar)

con il nemico (sar).

Questa percezione negativa dei popoli stranieri trova una evoluzione con l‟esperienza dell‟esilio

quando Israele scopre che l‟altro non è un nemico ma un popolo da illuminare. E‟ quanto viene

espresso nel secondo Isaia: "Io ti ho formato e stabilito come luce delle nazioni, perché tu apra gli

occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri" (42,6) "Io ti renderò luce delle nazioni

perché porti la salvezza fino all'estremità della terra" (49,6).

Se da un lato emerge il senso della paura questi testi fanno cogliere una evoluzione verso il senso di

una relazione positiva per cui Israele nell‟esperienza della sconfitta e dell‟esilio scopre la sua

missione proprio in rapporto agli altri, rimanendo fedele a Dio che non è stato sconfitto ma invia in

modi nuovi.

nekar: “il forestiero”, è termine che indica “lo straniero di passaggio”, colui che vive non in modo

stabile, ma risiede per un certo periodo nel popolo d‟Israele per ragioni di viaggio o per altri motivi.

Questo termine ha un‟accezione più neutra, perché si riferisce a chi vive la sua diversità senza

necessariamente entrare in un rapporto di ostilità. Il termine è originariamente utilizzato per

indicare le divinità straniere (Dt 31,16, 32,12) e per lo più in senso etnico.

Dalla radice nkr deriva la parola nokrî, che significa forestiero in un senso etnico e religioso: non

condivide la medesima fede in JHWH e non fa parte della comunità dell'alleanza e, in quanto

residente o di passaggio vive una estraneità rispetto alla legge: non gli è però richiesta l'osservanza

della legge perché il puro e l'impuro non sono nelle cose stesse. Purità e impurità risiedono nella

percezione della fede, per questo ciò che è impuro per gli israeliti, per il nokrî può non essere

impuro (cfr. Dt 14,7.10.19).

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Da qui alcune indicazioni che esprimono la lontananza come in Dt 14,21: "Non mangerete alcuna

bestia che sia morta di morte naturale; la darete al forestiero che risiede nelle tue città perché la

mangi, o la venderai a qualche straniero, perché tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio".

Al nokrî inoltre si può prestare ad interesse, cosa vietata peraltro nei rapporti con il fratello (Dt

23,21), si può esigere una prestazione per un prestito (Dt 15,3; cfr Dt 23,21). Un nokrî non può

essere re d'Israele (Dt 17,15), tuttavia è da notare che Davide discende da persone che appartengono

alla categoria dei forestieri in Israele.

Il nokrî è quindi uno straniero che non è integrato nel mondo religioso e nel riferimento alla legge,

tuttavia verso di lui c'è un rispetto per il suo modo di vivere. Verso di lui si possono rintracciare

atteggiamenti di lontananza ma non c‟è atteggiamento di paura, piuttosto di vicinanza e ospitalità.

Emerge rispetto e attenzione nei confronti di una estraneità che non è separazione ma può aprire ad

una convivenza di rispetto senza pretese di omologazione. La legge in questo senso ha una funzione

di differenziazione, ma non isola.

Tuttavia c'è anche un atteggiamento di separazione e di rottura da parte di Israele nei confronti per

es. dei popoli di Canaan (come attesta la determinazione dello herem in Dt 20,10-18).

In Deuteronomio possiamo così riscontrare una peculiare attenzione all'identità di Israele che si

concretizza nella caratterizzazione spirituale che si esprime anche nelle dimensioni sociali e nella

concretezza dei comportamenti quotidiani. D'altra parte c'è una apertura al di là dei confini del

popolo: l'apertura allo straniero non è presentata come esigenza di assimilazione, ma nella logica

del rispetto senza che lo straniero venga trasformato in nemico e in particolare nell'attenzione allo

straniero senza garanzie.

L‟episodio della accoglienza di Abramo ai tre ospiti alle querce di Mamre (Gen 18,1-4), la

preparazione di focacce e un vitello tenero e buono è esempio dello stile di accoglienza quale

attitudine nei confronti degli stranieri di passaggio, visti in primo luogo come ospiti.

gher e toshav: “lo straniero ospite o residente”. Gher è lo straniero residente che non ha proprietà

fondiaria. A differenza del nokrî, il gher ha residenza stabile, ma il fatto di non essere proprietario

di terra lo pone insieme ad altre categorie in una situazione di precarietà e di debolezza. Anche i

leviti per esempio in Israele non possiedono terre ma essi non sono stranieri (Dt 14,29;16,11.14;

26,11.12).13

13 I. CARDELLINI, Stranieri ed “emigrati-residenti” in una sintesi di teologia storico-biblica, in “Rivista Biblica”, 40,

1992, 129-181.

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Abramo è indicato come gher, e come lui anche Mosè a Madian. Tutti gli Israeliti sono stati gherim

in Egitto. La storia successiva porta ad un capovolgimento e Israele si trova a doversi relazionare

con lo straniero ospite nella “sua” terra.

Il gher è una delle tre figure che in Israele non hanno proprietà: lo straniero, l'orfano e la vedova

(cfr. Dt 27,19; Es 22,20 24,17: “non lederai il diritto dello straniero, dell'orfano e non prenderai in

pegno la veste della vedova”). L'assenza di proprietà sulla terra è causa della mancanza di garanzie

di possibilità di difendersi: da qui la particolare vulnerabilità di queste categorie. In particolare la

categoria dei gherim era composta di migranti, fuggitivi, esuli, profughi non di Israele. I gherim si

muovono dalla loro patria alla ricerca di cibo, di giustizia e di salvezza. La condizione è quella di

chi sta ai margini della società, senza radicamento, senza proprietà e senza difesa oltre che fuori

dalla patria di origine.

In relazione al gher compare un aspetto interessante della legislazione deuteronomica:

nell'occasione delle principali feste lo straniero, che era colui che viveva senza relazioni di tipo

familiare in quanto sradicato dal tessuto del suo gruppo sociale, viene integrato nella famiglia che

vive la gioia della festa insieme con il popolo d'Israele senza peraltro che a lui sia richiesta la

medesima fede. Dt 16,11-12: “gioisci davanti al Signore Dio tuo, tu, tuo figlio, tua figlia, il tuo

schiavo e la tua schiava... lo straniero, l'orfano e la vedova”. E' una accoglienza ed un invito a

partecipare alla gioia ed alla festa senza che per questo sia richiesta una adesione spirituale. Questa

comunanza nella festa ha come finalità quella di ricordare ad Israele che egli stesso è stato schiavo

in Egitto e straniero (Dt 16,14). Nel momento della festa viene vissuto un tempo in cui le divisioni

in un certo qual modo sono superate; ed il motivo di questa possibilità di un comune gioire e di una

familiarità nuova sta nella lode dei doni del Signore (Dt 16,10-15) che ha come conseguenza la

condivisione.

La celebrazione dei doni della natura è apertura a JHWH che dona per tutti i suoi doni (il

riferimento immediato potrebbe essere all'espressione del vangelo di Matteo di riconoscere Dio che

fa sorgere il sole per tutti, sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli

ingiusti: Mt 5,43-48).

Un altro interessante segno in rapporto al gher è quello dell'offerta della decima: al gher/straniero

residente va infatti offerta la decima che doveva essere versata al tempio di Gerusalemme (Am 4,4;

Dt 14,22-27), Dt 14,28-29: “il levita, il gher, l'orfano e la vedova... verranno, mangeranno e si

sazieranno”.

C'è anche tutta una serie di precetti che prevedono una particolare attenzione per favorire la

possibilità di sopravvivenza dello straniero non in modo di elemosina paternalistica (la possibilità di

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rifugiarsi nelle città-rifugio anche per lo straniero Num 35,15; Dt 34,8-10). Altri precetti riguardano

la mietitura (Dt 24,19), la bacchiatura (Dt 24,20) e la vendemmia (Lev 19,10; Lev 23,22; Dt 24,21)

per poter lasciare allo straniero quello che avanzava sia dei mannelli di grano, sia delle olive, sia dei

grappoli d'uva. Questa attenzione si fonda sull‟esigenza di particolare solidarietà per chi vive nella

condizione di straniero: “quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro paese non gli farete

torto, lo amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d'Egitto” (Lev 19,33-

34).

In Dt 24,14 si ribadisce un'esigenza di giustizia : “non defrauderai il salariato povero... sia uno dei

tuoi forestieri”. Ed emerge in tale contesto questo riferimento allo straniero chiamandolo il 'tuo

straniero'. Il fatto di aver vissuto l'esperienza dell'essere forestiero è motivo per stabilire rapporti di

giustizia, e per offrire accoglienza e particolare attenzione a chi vive ora in Israele la condizione

dell'estraneità, addirittura a coloro che appartengono ai discendenti di quel popolo che ha mantenuto

Israele in schiavitù (Dt 23,8-9): “non avrai in abominio l'idumeo perché è tuo fratello; non avrai in

abominio l'egiziano perché sei stato forestiero nel suo paese”.

Gli 'stranieri' a cui si fa riferimento in questo passo non sono i fratelli del Nord, ossia gli Ebrei che

si spostarono nel regno di Giuda dopo la caduta di Samaria nel 722 a.C., bensì questi stranieri sono

persone non appartenenti al popolo d'Israele (cfr. Dt 1,16; 24,14): è verso questi non appartenenti al

popolo che deve rivolgersi.

L'atteggiamento da tenere verso lo straniero non solo è quello di rispetto e di solidarietà, ma si apre

ad un rapporto che deve imitare quello di Dio con il suo popolo: "amate dunque lo straniero perché

anche voi foste forestieri nel paese d'Egitto" (Dt 10,19; cfr. Lev 19,34): il verbo 'amare' riferito

all'atteggiamento da tenere nei confronti del forestiero è verbo utilizzato per indicare il rapporto tra

Dio e il suo popolo. In questo testo il medesimo verbo è usato per un rapporto orizzontale, proprio

nella linea del ricordo che la presenza del forestiero attua in quanto riferimento a Dio e in quanto

riferimento alla condizione di estraneità che Israele vive come condizione profonda della propria

fede.

La legislazione14

Si può ritrovare la presenza della figura dello straniero nei vari livelli della legislazione di Israele.

In diverse epoche e situazioni l‟attenzione è portata agli stranieri. Questo elemento mostra come

l‟attenzione allo straniero è elemento importante nella vita di Israele e conduce ad elaborare uno

stile di rapporti che pur nella sua complessità pone l‟accoglienza allo straniero come fondamentale.

14 C.Van Houten, The alien in israelite Law, Sheffield, Sheffield Academic Press 1991; P.Bovati, Lo straniero nella

Bibbia. II. La legislazione, “La Rivista del clero italiano 83,2002,484,503.

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Il Codice dell’alleanza

Il Codice dell‟Alleanza si trova nel libro dell‟Esodo (Es 20,22-23,33) ed è la più antica raccolta

normativa della Bibbia sorta prima dell‟esilio. Una preoccupazione che emerge è quella della

separazione rispetto alle popolazioni cananee secondo una linea di mantenimento della fedeltà a

JHWH e di distanza dall‟idolatria: “Stabilirò il tuo confine dal Mare Rosso fino al mare dei Filistei

e dal deserto fino al fiume, perché ti consegnerò in mano gli abitanti del paese e li scaccerò dalla tua

presenza. Ma tu non farai alleanza con loro e con i loro dei; essi non abiteranno più nel tuo paese,

altrimenti ti farebbero peccare contro di me, perché tu serviresti i loro dei e ciò diventerebbe una

trappola per te” (Es 23,31-33). “Non ti prostrerai davanti ai loro dei e non li servirai; tu non ti

comporterai secondo le loro opere, ma dovrai demolire e dovrai frantumare le loro stele. Voi

servirete il Signore, vostro Dio” (Es 23, 24-25a).

La preoccupazione principale presente in queste norme sta quindi nell‟ostacolare la deviazione

nell‟idolatria: “Non ti prostrerai davanti ai loro dèi e non li servirai” (Es 23,24a) ed orientare al

servizio al Signore in modo esclusivo: “Voi servirete al Signore vostro Dio” (Es 23,25a).

Si avverte quindi una tensione che rimarrà presente e tocca i rapporti con gli stranieri. Da un lato

Israele è richiamato ad una fedeltà esclusiva, che mette in guardia dalla commistione e dal venir

meno alla fedeltà a JHWH. D‟altro lato, pur nell‟orizzonte di mantenere la specificità che proviene

dall‟elezione da parte di JHWH e le esigenze dell‟alleanza in quanto rapporto esigente ed esclusivo,

vi sono indicazioni positive nei confronti dello straniero. Nel codice dell‟alleanza è infatti presente

l‟invito all‟accoglienza e, diversamente da legislazioni di popolazioni vicine, Israele è tenuto ad

offrire protezione allo straniero. “Non molesterai lo straniero né lo opprimerai perché voi siete stati

stranieri nel paese d‟Egitto” (Es 22,20) e “ non opprimerai lo straniero: anche voi conoscete il

respiro/la vita (nefesh) dello straniero, perché siete stati stranieri nel paese d‟Egitto (Es 23,9). “Il

settimo giorno è sabato/riposo (shabat) in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro […]

né il forestiero che dimora presso di te” (Es 20,10).

Come il Signore è compassionevole, così Israele dovrà porsi a difesa dello straniero che non ha altre

difese da parte di qualcuno. C‟è ad esempio l‟indicazione a non prendere in pegno il mantello del

prossimo ma deve essere restituito prima del tramonto del sole perché è la sua sola coperta:

“Altrimenti quando griderà a me, io l‟ascolterò, perché io sono pietoso” (Es 22,26).

Inoltre Israele non dovrà opprimere gruppi di stranieri presenti perché Israele conosce il respiro

dello straniero: “Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita (il respiro) del forestiero,

perché siete stati forestieri in Egitto” (Es 23,9).

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E‟ qui importante cogliere che proteggere il forestiero diviene per Israele un segno del modo in cui

agisce il Dio pietoso. La questione del rapporto con lo straniero si collega al rapporto della fede in

JHWH che è liberatore degli oppressi. Nel Codice dell‟alleanza c‟è così attenzione alle dimensioni

di vita concreta, il lavoro, il riposo, ciò che investe la corporeità.

Tutto si fonda sul ricordo di aver vissuto la situazione di straniero, di emigrante e di oppresso in

Egitto. Nello straniero Israele è chiamato a vedere la propria storia, a fare memoria della sua

vicenda, e quindi a ricordarsi dell‟alleanza.

La legislazione sullo straniero nel Deuteronomio

Nei capitoli 12 e 26 del libro del Deuteronomio è raccolta la seconda legge, il codice legislativo che

si fa risalire al tempo del re Giosia alla fine del VII secolo, un tempo di rinnovamento e di ritorno

all‟alleanza dei padri. Si ritrova in questo testo una grande attenzione alla figura dello straniero, che

era dovuta ad un‟esigenza di ripensare ai rapporti sociali in seguito a fenomeni di spostamento in

quel periodo soprattutto degli abitanti del regno del Nord verso il regno di Giuda.15

In questo codice sono affermate una serie di indicazioni che richiamano alla giustizia e all‟equità

nei giudizi perché il diritto appartiene a Dio: “Giudicate con giustizia le questioni che uno può

avere con il fratello o con lo straniero che sta presso di lui […] poiché il giudizio appartiene a Dio”

Dt 1,16.17). E‟ affermata quindi l‟indicazione di un “diritto” dello straniero e l‟obbligo

d‟imparzialità di giudizio verso di lui (Dt 27,19); e si ribadisce la protezione dello straniero

nell‟ambito lavorativo (Dt 24,14-15). A lui deve essere riconosciuto il salario senza dilazionarlo

perché è povero e di quello vive. “Non farai violenza al diritto […] la giustizia e solo la giustizia

seguirai, per poter vivere e possedere il paese che il Signore, tuo Dio, sta per darti” (Dt 16,19-20).

La pratica della decima e della redistribuzione dei frutti della terra, “prima imposta sociale della

storia”, è introdotta come strumento di protezione per gli stranieri (Dt 14,28-29; 26,12-13): i gruppi

più deboli, che non possedevano la terra, e tra di essi gli stranieri, dovevano ricevere la decima ogni

tre anni, ricevendo così una parte di quella imposta che era destinata al tempio ed al re.

Lo straniero viene anche ammesso nelle celebrazioni cultuali: “Celebrerai la festa delle capanne

[…] gioirai questa festa tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo schiavo e la tua schiava e il levita, il

forestiero, l‟orfano e la vedova che saranno entro le tue città” (Dt 16,13-14).

Israele deve riprodurre nel suo agire l‟amore di Dio che è amore aperto anche verso lo straniero (Dt

5,14; 14,21; 16,11.14; 31,12).

15 A.Bonora, Lo „straniero‟ in Deuteronomio, “Parola Spirito e Vita” 27,1993,25-36.

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Tutte queste norme sono nell‟orizzonte di una condivisione da attuare anche e soprattutto con i più

deboli e si basano sul ricordo che „tu sei stato schiavo in Egitto‟: “Non lederai il diritto dello

straniero o dell‟orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova, ma ti ricorderai che sei stato

schiavo in Egitto e che da là ti ha liberato il Signore, tuo Dio; perciò ti comando di fare queste cose”

(Dt 24,17). Il rapporto con lo straniero, l‟orfano e la vedova ha a che fare con il rapporto stesso con

Dio, implica seguire la via della vita, della benedizione o della morte, della maledizione:

“Maledetto chi lede il diritto dello straniero, dell‟orfano e della vedova!” (Dt 27,19).

La condivisione implica il riconoscimento del dono che proviene da Dio solo. Israele in tal modo è

riportato al centro della sua fede, la dipendenza nel ricevere tutto da Dio riconoscendo la sua

povertà ma con essa anche la responsabilità ad imitare e rendere visibile nelle sue scelte l‟agire di

Dio che ama lo straniero: “Gioirai [..] con il forestiero che starà in mezzo a te, di tutto il bene che il

Signore tuo Dio avrà dato” (Dt 26,11); “Il Signore, vostro Dio […] ama lo straniero e gli dà pane e

vestito. Amate dunque lo straniero, perché anche voi foste stranieri nel paese d‟Egitto” (Dt

10,17.19).

Per tali ragioni la condivisione delle primizie dei frutti della terra in Dt 26,5-9 è accostata ad una

professione di fede in cui si rivive il percorso dei padri di Israele e si ricorda come Israele stesso

nasce come forestiero liberato dal Signore come go‟el. Il rapporto con lo straniero diviene via per

custodire questa memoria. “Quando, facendo la mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato

qualche mannello, non tornerai indietro a prenderlo; sarà per lo straniero, per l‟orfano e per la

vedova […] Quando bacchierai i tuoi olivi, non tornerai indietro a ripassare i rami: saranno per lo

straniero, per l‟orfano e per la vedova […] Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro

a racimolare: sarà per lo straniero, per l‟orfano e per la vedova. Ti ricorderai che sei stato schiavo

nel paese d‟Egitto; perciò ti comando di fare questa cosa.” (Dt 24, 19-22).

“Non defrauderai il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli o uno dei forestieri

che stanno nel tuo paese, nelle tue città” (Dt 24, 14); “Quando avrai finito di prelevare tutte le

decime delle tue entrate […] e le avrai date al levita, allo straniero, all‟orfano e alla vedova perché

ne mangino e ne siano sazi, dirai […]: non ho trasgredito né dimenticato alcuno dei tuoi comandi”

(Dt 26, 12.14).

Il Codice di santità

Il terzo corpo legislativo, il Codice di Santità presentato nella lunga sezione del libro del Levitico

(capp. 17-26), è una raccolta normativa più recente. Qui si trova l‟istituzione dell‟anno sabbatico,

del giubileo, del riscatto della terra e delle persone. Lo straniero residente viene associato agli

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Israeliti per ciò che riguarda moltissime esortazioni e divieti. Si afferma, infatti, “un solo diritto”

per l‟israelita e per lo straniero residente, che viene considerato parte della comunità ebraica.

Dio comunica la sua legge di santità, infatti, ad “ogni uomo, Israelita o straniero dimorante in

mezzo a loro” (Lv 17,8). Inoltre, all‟interno del Codice di Santità si passa, in modo ancora più

esplicito, dal divieto dell‟oppressione dello straniero alla “pratica dell‟amore” verso di lui. L‟amore

per lo straniero diviene il segno stesso della “santità” e della peculiarità di Israele. Israele non si

distingue dagli altri popoli per motivi di tipo razziale, ma solamente sulla base dell‟alleanza (Ez

16,8-14: la scelta di Dio che prende Israele nella condizione dell‟abbandono e lo conduce ad una

condizione di bellezza e di regalità). La santità non si connette ad una appartenenza di etnia ma fa

riferimento al modo di agire. La santità, che è ripresentazione del modo di agire di Dio si rende

visibile nell‟amore dimostrato nei confronti dei più deboli, tra i quali lo straniero residente assume

una particolare rilevanza.

Tale chiamata: “Siate santi, perché io il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lv 19,2), è esigenza che

si rinnova costantemente e richiede una risposta sempre nuova.

“Quando uno straniero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Lo straniero

dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l‟amerai come te stesso, perché

anche voi siete stati stranieri in terra d‟Egitto” (Lv 19, 33-34). Si attua a tal riguardo un passaggio

importante: non è solamente un agire di rispetto, ma nei confronti dello straniero si tratta di vivere

una attitudine di amore quale movimento che non si limita ai propri fratelli ma si allarga a

comprendere lo straniero (cfr. Lev 19,17-18). La ragione di amare lo straniero „come te stesso‟, sta

nel ricordo dell‟agire di Dio e nel ricordo della propria esperienza di essere stati amati da Dio nella

condizione della stranierità, quando il popolo era schiavo in Egitto.

La legislazione sacerdotale del Levitico anche ricorda che la condizione stessa di Israele è quella di

chi è ospite sulla terra: “Mia è la terra, voi siete stranieri e ospiti (toshavim)” (Lev 25,23). Israele

quindi non può pensarsi come padrone e questa sua condizione di ospite nella terra orienta lo

sguardo agli altri come ospiti con cui condividere la propria situazione.

Essa viene inoltre progressivamente estesa da Israele a tutti i popoli della terra, perché Dio è il Dio

di tutti i popoli, per cui si può attendere con fiduciosa speranza il giorno in cui tutti i popoli

andranno a Dio e in cui la santità di Dio rivestirà tutte le nazioni della terra.16

16 I. CARDELLINI (a cura di), Lo “straniero” nella Bibbia. Aspetti storici, istituzionali e teologici, XXXIII Settimana

biblica nazionale (Roma 12-16 Settembre 1994), Dehoniane/RBS, 8, 1-2, 1996. C. M. Martini nel suo intervento al

convegno Integrazione e integralismi. La via del dialogo è possibile? tenutosi a Cesano Maderno, 19 gennaio 2001,

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A fronte di queste espressioni della legge in Israele si assiste peraltro anche a movimenti

contrastanti nella vicenda storica di Israele. Ad esempio nell‟epoca del dopo esilio si attua una

politica di distanziamento e di opposizione verso gli stranieri proprio al tempo di Esdra e Neemia in

cui si rende presente la polemica contro i matrimoni misti e sono allontanate le donne straniere

prese in moglie dagli ebrei (Esd 9-10; Ne 13,23-30).

Si attua una interpretazione restrittiva così della legislazione nei confronti dello straniero. Lo

straniero viene percepito come diverso e nekar assume connotazioni negative. Si applica la legge

verso quelli stranieri che si sono convertiti e sono disponibili all‟osservanza della Torah d‟Israele.

Ma a questo movimento si contrappone la predicazione profetica e alcune letture come quella del

libro di Rut. Ezechiele ad esempio richiama l‟esigenza della condivisione della terra che non è

proprietà di Israele ma è di Dio: “Vi dividerete questo territorio secondo le tribù d‟Israele. Lo

distribuirete in eredità fra voi e i forestieri che abitano con voi, i quali hanno generato figli in mezzo

a voi; questi saranno per voi come indigeni tra i figli d‟Israele e riceveranno in sorte con voi la loro

parte di eredità in mezzo alle tribù d‟Israele. Nella tribù in cui lo straniero è stabilito, gli darete la

sua parte di eredità” (Ez 47,21-23). Tale prospettiva rimane però un orizzonte da realizzare, la voce

profetica è ancora stimolo a camminare verso questa Parola di Dio.

La profezia è aperta ad un futuro di benedizione per tutti i popoli della terra, il sogno della

benedizione di Abramo a tutte le genti, ripreso da Isaia: “In quel giorno ci sarà una strada

dall‟Egitto verso l‟Assiria, l‟Assiro andrà in Egitto e l‟Egiziano in Assiria, e gli Egiziani renderanno

culto insieme con gli Assiri. In quel giorno Israele sarà il terzo con l‟Egitto e l‟Assiria, una

benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il signore degli eserciti dicendo: Benedetto sia

l‟egiziano mio popolo, l‟assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità” (Is 19,24-25).

La via del passaggio e del migrare dei popoli può diventare strada di benedizione e di vita piena.

Sono proprio alcuni profeti del tempo dell'esilio, quali il Terzo Isaia e Geremia che sviluppano le

prospettive universalistiche della fede di Israele: Is 56,2-4: “Non dica lo straniero che ha aderito al

Signore: Certo, mi escluderà il Signore dal suo popolo. Non dica l'eunuco io sono un albero secco”.

Is 56,6-7: “gli stranieri che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore...”

è l'annunzio che saranno ammessi proseliti stranieri a condizione di un legame con l'alleanza,

inclusa anche la circoncisione. Is 56,7: “il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i

popoli”.

(cfr. www.we-are-church.org/it/attual/Straniero-CMMartini.html), segnaliamo anche quella di BIANCHI, op. cit., 111-

112.

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Una prospettiva più marcata in orizzonte universalistico è riscontrabile in Is 60,10-12: “stranieri

ricostruiranno le tue mura... le tue porte saranno sempre aperte.. per lasciar introdurre da te le

ricchezze dei popoli”.

Alcune osservazioni sulla rilevanza dello straniero

Israele si è compreso come straniero. L'esperienza nomadica dei patriarchi sta alla radice di una

esperienza che è quella dell'essere a casa senza mai essere a casa. L‟esperienza del migrante povero

sta al cuore della spiritualità che si richiama ad Abramo.17

L'essere straniero di Israele è una

costante del suo itinerario: “Mio padre era un arameo errante” (Dt 26,5) come condizione

originaria, ma vi è l'esperienza dell'essere straniero in Egitto e poi a Babilonia. D'altra parte anche

nel proprio paese Israele mantiene la consapevolezza di essere straniero.

Il figlio di Mosé si chiama Gherson, da 'gher' e porta il sigillo di questa condizione di essere ospiti e

forestieri. Es 23,9: “Anche voi conoscete la vita del forestiero perché siete stati forestieri nel paese

d'Egitto”. “Noi siamo stranieri e ospiti di fronte a te come tutti i nostri padri” (Sal 39,13; cf. 1Cron

29,15).

Israele matura la consapevolezza nel rapporto con la terra - che è una delle dimensioni fondamentali

della promessa e dell'alleanza - che è Dio l'unico e vero proprietario della terra in cui il popolo

risiede, e la situazione di Israele è quella dell'amministratore a cui è affidato qualcosa da

conservare, da custodire e da coltivare (Lv 25,23); Sal 119,19 esprime questo nell'espressione “io

sono straniero sulla terra”.

"Essere straniero come condizione esistenziale significa nell'antico Israele affidarsi a Dio come

garante della vita e contare su di lui come protettore, ma significa anche avere una speciale

relazione con lo straniero nella propria comunità...".18

Lo straniero in Israele come memoria

Lo straniero all'interno del popolo d'Israele è colui che ricorda la presenza stessa di Dio; si potrebbe

dire che la sua è una funzione di memoria e di rinvio alla condizione costitutiva del popolo

d'Israele. Questa non è solamente una fase conclusa e triste della sua storia ma si connota per essere

una dimensione che dovrebbe rimanere sempre presente.

Lo straniero ricorda all'israelita che 'anche noi siamo stati stranieri in terra di Egitto' ed è invito a

vivere il presente in una logica di 'attraversamento' e non di possesso. Sulla base di questa memoria

17 J. O. BEOZZO, Les immigrants pauvres. Un pèlerinage vers une vie plus humaine, in “Concilium” 266, 1996, 91-101 18 T.Sundermeier, Comprendere lo straniero. Una ermeneutica interculturale, (GdT 263), tr. it. Brescia Queriniana

1999, 229.

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lo sguardo al presente muta: non può più essere vissuto con la sicurezza di chi possiede una terra

propria, di chi risiede nella sua patria e di chi sta in una posizione sicura o di potere. Dovrà invece

essere uno sguardo di chi è chiamato a rimanere nella condizione di pellegrino. Questi vive nella

tensione e nell'attesa verso ciò che la terra e la patria indicano; esse sono riferimento fondante la

vita stessa del popolo, indicano cioè la presenza stessa di Dio, il suo amore e il suo volto che

sempre si nasconde e non può essere visto (cfr. Es 33), egli è colui che va cercato sempre oltre, il

non afferrabile.

Dt 26,1-15 attesta come ciò che è consacrato al Signore va dato al forestiero all'orfano e alla vedova

perché possano gioire. Il momento della festa è aperto alla partecipazione di tutti, cioè anche alle

categorie dei più deboli o a chi, come lo straniero, non appartiene al popolo. La festa è il momento

in cui il forestiero costituisce il ricordo vivente della presenza di Dio: a chi è forestiero infatti vanno

date le primizie che sono consacrate a Dio. Si attua in questo modo un‟identificazione del

forestiero, figura accostabile nella quotidianità della vita di Israele, con la presenza stessa di Dio

che si fa incontrare proprio in chi paradossalmente non è in una situazione di appartenenza

riconosciuta e non ha garanzie né possessi.

“Il Signore protegge lo straniero, egli sostiene l'orfano e la vedova, ma sconvolge le vie degli

empi” (cfr. Sal 146,8-10). Il primo difensore delle categorie deboli è Dio stesso; imitare la sua

azione e essere coerenti con il suo modo di agire implica farsi difensore della vedova, dell'orfano e

dello straniero. E' Dio stesso garante nei confronti dello straniero dell'orfano e della vedova: "il

Signore vostro Dio è il Dio degli dèi, il Signore dei signori, il Dio grande forte e terribile, che non

usa parzialità e non accetta regali, rende giustizia all'orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà

pane e vestito" (Dt 10,18). Il ricordo di Dio è provocato dalla presenza di chi potrebbe essere

considerato estraneo alla vicenda dell‟alleanza. In tale orizzonte lo straniero con la sua presenza

provoca a ripensare continuamente il medesimo volto di Dio come di colui che ci raggiunge come

altro, come straniero, come povero.19

Dio si rivela attraverso la presenza dello straniero

“Il dato peculiare della Bibbia non è che bisogna amare lo straniero, ma che Dio si rivela attraverso

lo straniero”.20

Tutto questo è inciso profondamente nella coscienza di Israele. La professione di

fede di Israele è un racconto della vicenda del popolo nel suo essere stato liberato ed accompagnato

da JHWH vicino e donatore dell'alleanza e ricorda l'origine stessa del popolo d'Israele: “Mio padre

19 C. DI SANTE, Lo straniero ospitato e lo straniero ospitante, in E. RONCHI, Lo straniero: nemico, ospite, profeta?,

Milano Paoline 2006, 55-78. 20 C. DI SANTE, Lo straniero nella Bibbia. Saggio sull‟ospitalità, Città Aperta, Troina 2006,24

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era un arameo errante... stette in Egitto come un forestiero”. (Cfr. Sal 105,22-24): il soggiorno in

Egitto è paradigmatico di una condizione propria di Israele del suo essere straniero che segna la sua

storia in particolar modo in certi momenti quali l'esodo e l'esilio, momenti di sofferenza e di prova

ma anche momenti di scoperta dell'essenziale della fede e di ritorno a Dio.

La vicenda stessa del popolo è inscindibile dall'esperienza dell'estraneità ed è questa l'esperienza

che permette di incontrare il Dio-altro che si identifica proprio con il forestiero. Lo spirito più

profondo della preghiera di Israele è in questo senso: “Ascolta la mia preghiera, Signore, porgi

l'orecchio al mio grido, non essere sordo alle mie lacrime, poiché io sono un forestiero, uno

straniero come tutti i miei padri, presso di te sono un migrante, un ospite di passaggio come tutti i

miei antenati " (Sal 39,13): questa condizione non è solo la condizione del ricordo della vita di

Israele nelle sue origini, nel cammino dell‟esodo, ma diviene presa di consapevolezza che la

situazione di estraneità è la condizione stessa della fede di Israele nel rapporto con JHWH. In

questo senso l'attesa si apre non a qualcosa, che può essere la terra o la patria, ma a qualcuno: “Ora

che attendo, Signore? In te la mia speranza” (Sal 39,8).

La radice stessa dell'esperienza di fede di Israele vede la situazione di estraneità come il luogo in

cui Dio si comunica. Non solo Israele è straniero ma è chiamato ad incontrare un Dio che si fa

incontrare fuori via, come altro, come 'non residente' straniero: il Dio straniero si rende presente in

mezzo alla vita quotidiana di Israele come colui che si fa incontrare attraverso la presenza degli

stranieri stessi.

Alessandro Cortesi op