L'Impronta Della Volpe - Moussa Konate

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GIRO DEL MONDO IN NOIR6

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GIRO DEL MONDO IN NOIR6

L’IMPRONTA DELLA VOLPEMoussa Konaté

Titolo originale: L’Empreinte du renard

Traduzione di Ondina Granato

World Copyright © Librairie Anthème Fayard, 2006

Copyright © Del Vecchio Editore, 2012

© 2014 Edizione speciale per il Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A.Pubblicato su licenza di Del Vecchio Editore

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la Repubblica

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L’Espresso

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Design di copertina: Marco Sauro per Cromografica Roma s.r.l.

Impaginazione: Cromografica Roma s.r.l.

Tutti i diritti di copyright sono riservati.

Ogni violazione sarà perseguita a termini di legge.

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MOUSSA KONATÉ

L’IMPRONTA DELLA VOLPE

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L’IMPRONTA DELLA VOLPE

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A Denis Douyon e Hassane Kansaye,che mi hanno guidatotra gli usi e i misteridella loro terra natale.In particolare devo a loroL’idea del duello sulla falesia,la scelta dell’arma del delittoe i nomi dei personaggi dogon

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CAPITOLO UNO

Camminava a grandi passi tra rovi e spine, senza vedere niente, senza sentire niente. Il solebruciava nonostante fossero soltanto le dieci. Su un ampio terreno dei bambini giocavano a calcio inun’allegra confusione. Avanzava in mezzo a loro, tra i commenti e le risate di scherno provocate daicalci o dalle testate che dava involontariamente al pallone.

‒ Viva Yalèmo! Viva Yalèmo! ‒ scandivano ironicamente le cavallette, ridendo e ballandointorno alla ragazza, che sudava e ansimava. Ma Yalèmo continuava a non sentire né vedere niente.Superò il campo giochi e si avviò per la stradina che portava al villaggio, di cui si potevano giàintravedere i tetti di paglia.

‒ Yalèmo! Ehi, Yalèmo!Un ragazzino le correva dietro chiamandola a squarciagola, con una voce rauca che si sentiva

appena quando la sforzava.‒ Yalèmo! Yalèmo! Aspettami!Ma lei continuava la sua corsa. Sembrava anzi che accelerasse il passo. Il bambino riuscì

comunque a raggiungerla. Le tirò un lembo del pagne e la chiamò di nuovo.Yalèmo si girò, e senza guardarlo, gli assestò un sonoro schiaffo: il piccolo vacillò, provò a

restare in piedi, ma alla fine si lasciò cadere nella polvere del sentiero. Yalèmo non lo degnò di unosguardo e proseguì il suo cammino.

‒ Sono io, Diginè. Volevo solo dirti che la tua capra è stata ritrovata. Perché mi hai preso aschiaffi?

Yalèmo era già lontana. Diginè si rialzò e le tirò dei sassi inutilmente visto che la ragazza stavapercorrendo la discesa che portava al villaggio e il bambino ormai la distingueva appena.

‒ Che Lèbè ti maledica, Yalèmo, che faccia spuntare corna di mucca su quella tua testa da rospobavoso! ‒ si vendicò Diginè, il quale, gesticolando con rabbia, finì per tornare dai suoi amici.

Yalèmo entrò nel villaggio. Il suo pagne allacciato male frusciava e, a ogni passo, i sandali diplastica sbattevano contro la pianta dei piedi coperti di polvere.

Agli angoli della bocca si era accumulata della saliva. Respirava rumorosamente con la boccaaperta e, con un gesto brusco, si asciugava ogni tanto la fronte grondante di sudore. Procedeva cosìtra le viette del villaggio senza prestare attenzione a chi incontrava. In quel momento stavaborbottando. E si mise a correre come se il suo obiettivo fosse ormai vicino. Poco dopo, si infilònella concessione di famiglia.

‒ Yalèmo! Ehi, Yalèmo, cosa succede? ‒ le chiese sua madre che, seduta davanti alla capanna chefungeva da cucina, stava riparando una calebassa1.

Yalèmo non le rispose. Si diresse verso suo fratello Yadjè. Quest’ultimo, un ragazzo slanciato eattraente, si trovava all’ombra della sua capanna, su uno sgabello, e riparava delle reti da pesca.Sentendo le grida della madre, non fece in tempo a sollevare la testa che sua sorella gli afferrò ilbraccio.

‒ Yadjè, il sole è sorto in piena notte! Lo giuro su Lèbè! ‒ disse Yalèmo.‒ Chiudi la tua bocca infame, svergognata! ‒ urlò la madre. ‒ Come osi parlare così?‒ Giuro che il sole è sorto in piena notte, ‒ insistette la ragazza. ‒ È colpa nostra, fratello.‒ Cosa succede, Yalèmo? ‒ chiese tranquillamente il ragazzo, liberandosi da sua sorella.‒ Seguimi e lo scoprirai.

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‒ Cosa stai tramando ancora, maledetta? ‒ urlò la madre dirigendosi rapidamente verso sua figlia.‒ Lascia in pace Yadjè!

‒ Madre, è una nostra faccenda. Non ti immischiare, ‒ replicò Yalèmo.La madre afferrò prontamente un pestello e si lanciò su Yalèmo. Yadjè si intromise tra le due

donne.Tolse lentamente ma con fermezza l’utensile dalle mani di sua madre che, per la collera,

ansimava:‒ Lasciami spaccarle quella testa di cagna!‒ No, madre, smettila, ‒ disse il ragazzo.‒ È maledetta, questa Yalèmo, ‒ continuò sua madre, alla quale Yadjè impediva di avvicinarsi

alla ragazza. ‒ È sempre così, lei combina dei guai ed è a te che viene a chiedere aiuto. Lasciamispaccarle la testa e poi sarò tranquilla.

Yadjè trascinò sua madre verso la cucina e la aiutò a sedersi sullo sgabello. La donna tacquesubito e si prese la testa tra le mani.

Yadjè raggiunse sua sorella.‒ Yalèmo, dimmi cosa succede, ‒ chiese.‒ Ti dico che il sole è sorto in piena notte.‒ E su chi è sorto il sole, sorella?‒ Su di te e sulla nostra famiglia. Vieni con me, Yadjè.Il ragazzo fissò sua sorella, raccolse il coltello che era rimasto nella polvere, se lo rimise nel

fodero, poi le disse:‒ Ti seguo.Fu in quel momento che la madre scoppiò in singhiozzi.‒ La disgrazia ci colpirà presto. Questa figlia maledetta ci porterà disgrazie, ‒ si lamentava.Il ragazzo voleva avvicinarsi, ma sua sorella lo dissuase tirandolo con forza per un lembo della

camicia. Poco dopo si lanciarono fianco a fianco sul sentiero che serpeggiava tra le capanne.Yadjè era piuttosto preoccupato. Guardava dritto davanti a sé, la fronte corrugata, i denti serrati.

Il sudore cominciava a imperlargli la fronte. Al contrario, sua sorella sembrava sorridere. Certo, leicamminava sempre così veloce, obbligando il fratello a imitarla, ma adesso era perché era contentacome una bambina che di lì a poco avrebbe visto concretizzarsi una promessa che le era stata fatta.

Cacciati dal calore violento del sole, i bambini avevano abbandonato il campo da calcio che i dueragazzi stavano attraversando. Una mucca e qualche montone tentavano di brucare la poca erba cheera sopravvissuta ai piedi dei calciatori. Yalèmo accelerò di nuovo il passo, lasciando il fratelloleggermente indietro, che si umettava le labbra con la lingua.

Dopo una decina di metri, la ragazza bloccò Yadjè stendendo il braccio come una barriera.‒ È lì, ‒ bisbigliò ansimando, gli occhi fissi su una capanna per metà nascosta in un bosco.‒ Non vedo niente, ‒ rispose Yadjè con voce spezzata e con il cuore che batteva all’impazzata.Yalèmo trascinò suo fratello e lo obbligò a nascondersi dietro un albero. Restarono così qualche

istante, poi un ragazzo uscì dalla capanna sistemandosi i pantaloni. Yadjè si irrigidì. Poco dopoapparve una ragazza, che impiegò del tempo prima di riuscire ad annodare il suo pagne in modoappropriato. Yalèmo, con un lampo di trionfo negli occhi, guardò suo fratello che tremava respirandorumorosamente, con la bocca aperta.

‒ Il sole è già alto in cielo, ‒ constatò banalmente la ragazza. ‒ Devo rientrare in fretta, Nèmègo.Nèmègo, il suo compagno, avanzò verso di lei e le prese la mano.‒ Quando ci rivediamo, Yakoromo?

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Yakoromo sorrise: era bella come una statua, con grandi occhi ridenti, seni dal profilo perfetto, unposteriore seducente. Il suo corpo sprigionava una sensualità irresistibile che pietrificava Nèmègo,inondato da una vampata di calore. Provò a prendere la ragazza tra le braccia che lo scansò ridendo.Avendo perso il controllo di se stesso, il ragazzo si dava da fare, deciso a raggiungere lo scopo.

‒ Smettila, Nèmègo, altrimenti non mi vedrai più, ‒ lo minacciò la bella Yakoromo.Il folle innamorato ritornò subito in sé e domandò di nuovo la data dell’incontro seguente.‒ Qui tra una settimana alla stessa ora, ‒ rispose la ragazza, sorridendo.Ora potevano separarsi e rientrare al villaggio ognuno per conto proprio. Ritornati finalmente

sulla terra, come d’istinto guardarono alla loro sinistra, dove erano nascosti Yalèmo e Yadjè.Yakoromo spalancò gli occhi, lanciò un urlo, poi domandò:‒ Sei proprio tu, Yadjè?‒ Schifosa puttana! ‒ urlò Yalèmo, gettandosi su Yakoromo.Yakoromo fuggì all’istante. Yalèmo si lanciò alle calcagna coprendola di insulti.Più agile, Yakoromo stava per sottrarsi definitivamente alla rabbia della sua inseguitrice quando

inciampò e cadde. Yalèmo le si buttò addosso, le tirò le trecce, la riempì di botte.Yakoromo riuscì a disarcionare la sua cavallerizza e fuggì così velocemente che Yalèmo non

pensò neanche di inseguirla. Si accontentò di urlare:‒ Ti infilerò il peperoncino lì davanti, sporca puttana. Ti farò passare la voglia di andare a letto

con gli amici del tuo fidanzato!Intanto, Yadjè e Nèmègo, a qualche passo uno dall’altro, si guardavano, immobili e muti. Yalèmo

si piazzò davanti a Nèmègo, lo squadrò e disse:‒ Tu sei l’ultimo degli uomini. Vai a letto con la fidanzata del tuo amico. Maledetto!Sputò sul viso del povero ragazzo che non si prese neanche la briga di asciugarsi.‒ Andiamocene, Yadjè! ‒ ordinò, tirando violentemente la mano di suo fratello, che seguiva il

movimento senza smettere di guardare il suo amico, impietrito, lo sputo ancora sulla fronte.Trascinato da sua sorella, Yadjè si voltò più volte fino a quando il bosco non nascose del tutto

Nèmègo.‒ Cosa ti avevo detto? Ora hai visto, no?Yadjè non rispose.‒ Chi avrebbe creduto che Nèmègo ti avrebbe pugnalato alle spalle, Yadjè?Il ragazzo camminava in silenzio, come ipnotizzato.‒ Tu sei troppo buono, fratello. È per questo che tutti ti calpestano i piedi. Sei un uomo, non devi

ascoltare tutto quello che dice nostra madre. Nèmègo non è più il tuo amico. Il suo affronto deveessere punito. Altrimenti rimarrai coperto di vergogna tutta la vita, e noi con te. L’ha voluto lui.

Suo fratello camminava, sempre muto, il corpo madido di sudore.‒ Devi sfidarlo sulla falesia. Devi ucciderlo, Yadjè. Nèmègo non merita altro che la morte.Yadjè sembrò tornare di colpo in sé.‒ È il mio amico, Yalèmo, ‒ protestò lui.‒ Tu credi che Nèmègo sia ancora il tuo amico? Dopo quello che ha fatto? ‒ si indignò la sorella.‒ Yalèmo! ‒ gridò d’un tratto la voce di un bambino.La ragazza si girò verso il punto da cui proveniva il richiamo. Ebbe giusto il tempo di intravedere

la fragile figura di Diginè quando una pietra la colpì sulla fronte. Yalèmo lanciò un urlo e portò lamano sul bozzo, che si mise a sanguinare leggermente, visto che il ragazzino era troppo lontanoperché il proiettile potesse fare un gran danno. Allora, riscoprendo il suo dovere di primogenito,Yadjè dissuase la sorella minore dal lanciarsi all’inseguimento di Diginè, che, comunque, era ormai

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fuori dalla sua portata.

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CAPITOLO DUE Quando vide i figli tornare, la madre non disse una parola. Seguendo il movimento dell’ombra, si

era spostata solo di qualche passo sulla destra, sempre davanti alla capanna della cucina. Disse aYadjè: ‒ Tuo zio ti sta aspettando.

‒ Dove? ‒ chiese il ragazzo, preoccupato.‒ Nella tua capanna, ‒ si limitò a rispondere la madre, enigmatica.Si girò verso Yalèmo, che stava entrando in cucina, e le disse:‒ Poi toccherà a te. Io per te non esisto, ma sarai obbligata ad ascoltare tuo zio.Effettivamente Kansaye, lo zio, stava aspettando nella capanna. Yadjè lo salutò con deferenza e

sedette su uno sgabellino ai piedi del vecchio, sistemato sul letto di bambù, con indosso un boubou ein testa un berretto di cotonina, entrambi lavorati a bogolan2. A tratti si faceva vento o cacciava lemosche con una coda di vacca. Il viso emaciato, la barbetta a punta, i piccoli occhi vispi e le foltesopracciglia gli donavano un’aria particolare.

‒ Yadjè, tua madre è venuta a farmi visita per lamentarsi di tua sorella, che le rende la vitadifficile. Le ho risposto che tu ormai sei un uomo. Mio fratello maggiore, tuo padre, è morto dodicianni fa. Sei tu quindi il capofamiglia, malgrado la tua età. Io aspetto solo la fine. Non ho figli maschi,lo sai. Alla mia morte, sarai responsabile delle mie figlie. Non puoi fare altrimenti: è il destino.Quindi devi essere forte. Vi ho visti nascere, te e tua sorella. So che siete legati l’uno all’altra, ma leiè destinata a vivere nella casa di suo marito, mentre tu sarai un capofamiglia fino alla tua morte. Saràsempre un’altra donna che finirà i suoi giorni nella tua casa, ma non il contrario. È la donna che metteal mondo l’uomo, ma comunque non sarà mai un uomo. Tua madre, malgrado tutto, sarà sempre solouna donna. Non trova sbagliato piangere in pubblico. Tu invece non lo farai mai, vero, figliolo?

‒ Non lo farò, ‒ rispose il ragazzo.‒ Arriverà il momento in cui sarai obbligato a prendere per mano tua madre, come una bambina,

perché la donna è l’unica creatura che mette al mondo suo padre. Ricordati di quello che ti dico oggi,Yadjè.

‒ Me lo ricorderò, zio.‒ Ora farò venire tua sorella e tu le dirai quali sono i doveri di una figlia nei confronti di sua

madre. Io ti ascolterò e ti appoggerò. È tutto. Ma prima dimmi cosa è successo.‒ Mia sorella è tornata e mi ha chiesto di seguirla.‒ Perché?‒ Perché pensava fossi stato disonorato.‒ Poi?‒ Mia madre si è opposta. Ma mia sorella ha insistito e siamo usciti insieme.‒ Dimmi, Yadjè, pensi di aver avuto ragione a seguire tua sorella disobbedendo a tua madre?‒ No, zio. Solo che mia sorella non ha voluto dirmi chi mi aveva disonorato. Ho dovuto seguirla

per scoprirlo.‒ Ora sai chi ti ha disonorato?‒ Sì, zio.‒ Chi?Yadjè aprì la bocca, ma ci ripensò. Lo zio si sollevò. Strizzò i suoi piccoli occhi, che poi

guardarono fisso il nipote, ai suoi piedi.

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‒ Yadjè, dimmi chi ti ha disonorato.La sua voce aveva perduto dolcezza. Non era più un invito, ma un ordine. Il ragazzo abbassò la

testa e mormorò:‒ Nèmègo.‒ Nèmègo! ‒ esclamò lo zio. ‒ Il tuo amico Nèmègo? E cosa ti ha fatto?Il ragazzo tacque di nuovo e abbassò la testa. Sentiva su di lui lo sguardo dell’anziano, quindi fu

obbligato a dichiarare:‒ Sta con la mia fidanzata, Yakoromo.La notizia sconvolse il vecchio. Brandì il suo scacciamosche come un ombrello.‒ Nèmègo ha osato toccare la fidanzata del suo amico! ‒ tuonò.Poi tacque e rimase immobile, lo sguardo rivolto a suo nipote, che teneva gli occhi bassi.

Probabilmente per la rabbia, delle gocce di sudore imperlavano la sua fronte grinzosa. La voce eraspezzata:

‒ Quindi cosa farai, Yadjè?‒ È il mio amico, ‒ azzardò il nipote.Allora scoppiò la bufera. L’anziano sputò sul ragazzo:‒ Buono a nulla! È così che onori la memoria di tuo padre? Qualcuno della tua stessa età ti prende

la fidanzata e tu lo perdoni! Non hai sentimenti, quindi?‒ Non è questo, zio, ‒ rispose Yadjè. ‒ Sto riflettendo.‒ Non hai bisogno di riflettere. Sarai presto lo zimbello del villaggio, e con te la famiglia di mio

fratello. Non lo permetterò mai. Sei un Dogon, Yadjè, e devi dimostrarlo. Sfida Nèmègo sulla falesiae uccidilo! Te lo ordino. Hai capito?

‒ Sì, zio.‒ Vai a chiamare tua madre e tua sorella!Yadjè uscì per tornare poco dopo, seguito dalle due donne, che si accovacciarono di fronte al

vecchio, il quale disse con voce severa:‒ Nèmègo ha infangato l’onore di Yadjè toccando Yakoromo. Yadjè lo sfiderà domani sulla

falesia e lo ucciderà. Potete andare.Yalèmo fu la prima a lasciare la capanna, radiosa. Sua madre, invece, si sedette per terra e iniziò

a lamentarsi.‒ Sapevo che sarebbe finita male. Yalèmo, perché hai portato la disgrazia a casa nostra? Mio

figlio, il mio unico figlio...‒ Chiudi la bocca! ‒ tuonò il vecchio. ‒ Sei una Dogon o un animale? È così che onori la memoria

del mio defunto fratello, facendo di suo figlio un codardo? Se fai desistere Yadjè, che tu siamaledetta per sempre dal nostro Antenato Lèbè. Alzati ed esci da qui!

La donna eseguì senza protestare. Lo zio e suo nipote si alzarono. Il vecchio disse solamente:‒ Yadjè, è per domani. ‒ E se ne andò. Yadjè superò l’ingresso della concessione, deviò subito e si intrufolò tra le capanne come se

fuggisse. Se soltanto avesse guardato dietro di lui, avrebbe visto anche sua madre correre, ma inun’altra direzione.

La luna si faceva strada, tonda e splendente, in un cielo senza nubi. A tratti si sentivano dellerisate e dei canti di bambini messi in fretta a tacere, il grido di qualche uccello notturno che abitavanelle falesie. Poi il silenzio ripiombava sul villaggio.

Yadjè arrivò in una radura.

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A una decina di passi da lui si trovava una figura che gli dava le spalle. Esitò impercettibilmente,rallentò il cammino, lo sguardo fisso sull’ombra.

Questa si voltò sentendo il rumore dei passi.‒ Ti saluto, Yadjè, ‒ disse una voce commossa.‒ Ti saluto, Nèmègo, ‒ rispose Yadjè in un soffio.Rimasero in silenzio per dei lunghi minuti, uno di fronte all’altro, senza osare realmente guardarsi.

Alla luce della luna, sembravano due statue di legno.‒ Devo parlarti di quello che è successo stamattina, Yadjè. Mi vergogno talmente che vorrei

sprofondare sotto terra.Yadjè non rispose. Si umettò solamente le labbra secche. Sembrava non capire quello che stava

dicendo il suo amico. Perché Nèmègo era il suo amico, il suo “vero amico”. Per i Dogon l’amicizia èsacra.

Lega due uomini dalla prima infanzia fino alla loro morte. L’amico è il confidente assoluto, è piùdi un fratello. Il gesto di Nèmègo era un tradimento che aveva stordito Yadjè. Cosa fare, cosa direquando crolla il mondo?

‒ Non sono più degno di essere il tuo amico. Tu mi hai consolato, mi hai aiutato quando soffrivo,senza chiedermi niente in cambio. Ero io ad accompagnare la tua fidanzata perché poteste incontrarviin riservatezza. Muoio di vergogna, Yadjè.

Il fidanzamento è sacro quanto l’amicizia.Si stringe da quando i bambini sono nella culla, secondo la volontà dei loro genitori. Cos’è la vita

di un uomo, senza amico né fidanzata?Yadjè si sedette su una pietra, Nèmègo rimase in piedi e disse:‒ Non accuso Yakoromo, e non devi accusarla neanche tu. L’unico colpevole sono io. Avrei

dovuto essere più forte.Yadjè non parlava. Guardava dritto di fronte a lui qualcosa nella notte. Nèmègo finì per lasciarsi

cadere a terra, vicino al suo amico.‒ Yadjè, ‒ disse, ‒ ti devi vendicare, devo essere punito.Yadjè sembrò animarsi un po’. Alzò la testa verso il suo amico e lo guardò a lungo.‒ Devo essere punito, ‒ insistesse Nèmègo. ‒ Devi deciderti.‒ Ho deciso, Nèmègo, ‒ rispose infine Yadjè, pacatamente.‒ Ah!‒ Sì, perché ne va dell’onore di tutti e due, dell’onore delle nostre famiglie. Andremo sulla

falesia, domani, dopo la fiera.‒ Mi devi uccidere, Yadjè.‒ No, uno dei due morirà di sicuro, ma nessuno sa chi.‒ Voglio dire che lascerò che tu mi uccida.‒ No, questo no! ‒ protestò Yadjè. ‒ Sarà una lotta leale. Se tu non vuoi batterti, non mi batterò

neanch’io.‒ Sono io il colpevole, sono io che non merito di vivere.‒ Nèmègo, se è così, perché non ti sei suicidato? Ogni colpa si paga. Quello che hai commesso è

il peggiore di tutti. Se tu non fossi stato il mio amico, mi sarei scontrato con te in quel momento. Maero come paralizzato. Non potevo credere a quello che vedevo. Non potevo neanche parlare, sai. Serifiuti di batterti, Nèmègo, la vergogna ti seguirà tutta la vita e mi avrai distrutto per sempre. In nomedella nostra amicizia, domani devi batterti.

Nèmègo accusò il colpo. Abbassò la testa, e gli occhi gli si riempirono di lacrime.

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‒ Allora facciamo un patto, ‒ propose. ‒ Se ti uccido, mi uccido anch’io, e quando saremo difronte al nostro Antenato Lèbè non ce l’avrai con me. Se invece mi uccidi tu, tu continuerai a vivere,come se fosse morto un cane. Me lo prometti, Yadjè? In nome della nostra amicizia.

La risposta di Yadjè fu piuttosto sorprendente.‒ Perché ti sei comportato così, Nèmègo? ‒ chiese. L’amico si rialzò, non sapendo bene cosa dire. Diciott’anni prima, forse un po’ di più, forse un po’ di meno, un primo pomeriggio, Yadjè arriva

da Nèmègo. Non sono che bambini. Yadjè, che nasconde qualcosa sotto il boubou, si ferma dietro ilrecinto, chiama da lontano Nèmègo e lo trascina nella boscaglia.

Lontani dal villaggio, i ragazzini si nascondono dietro un cespuglio. Yadjè tira fuori da sotto ilboubou una gallina alla quale era stato tirato il collo. Nèmègo gli chiede, incredulo, da dove arrivi.L’altro risponde che appartiene a suo padre. Nèmègo è preoccupato, ma Yadjè prova a rassicurarlo:nessuno lo verrà a sapere. Ha già preparato il fuoco con dei rami secchi, aiutandosi con deifiammiferi che ha tirato fuori dalle tasche. Presto si leva un profumo invitante che si diffonde neidintorni. I due compagni mangiano con così tanto appetito, che Nèmègo si mordecontemporaneamente la lingua e le labbra. Urla. Yadjè scoppia a ridere così forte che gli va ditraverso un boccone di gallina. Soffoca, ha il singhiozzo, si batte il dorso e il petto, supplica l’amicodi aiutarlo. A sua volta Nèmègo ride slogandosi la mascella e, quando riesce finalmente a respirare,il suo compagno ride fino alle lacrime.

Ma i due ragazzini non si rendono conto che, in piedi dietro di loro, un adulto li osserva. Vedendole piume, le zampe e la testa della gallina, ha capito. Tornati in sé dalla loro estasi, Yadjè e Nèmègosono paralizzati dalla paura. L’adulto li conduce al villaggio. Si scopre che era una gallina del padredi Nèmègo.

Per un Dogon, rubare, anche da bambini, anche se è solo una gallina, è il peggiore dei peccati.Nèmègo si accusa del crimine. Porta ancora le cicatrici che gli ha lasciato la cinghia di suo padre.Ma non si è mai rimangiato la parola. Yadjè gli dirà, dopo: «Non dimenticherò mai il tuo gesto. Tisono debitore per sempre».

Ormai più niente può separarli. Sono diventati il simbolo della vera amicizia così come laintendono i Dogon. Ma la tentazione della carne è arrivata, e il diavolo si è intromesso.

Nèmègo non disse nulla. Come spiegare l’inspiegabile?‒ Soprattutto non pensare che mi devi qualcosa Yadjè, ‒ disse.‒ È colpa di Yakoromo, ‒ affermò Yadjè. ‒ È lei che merita di morire.‒ No, no, ‒ protestò con forza il suo amico, ‒ Yakoromo non ha colpa di nulla: l’unico colpevole

sono io.‒ Allora devi accettare di batterti.‒ Se tu lo vuoi, mi batterò, ma risparmia Yakoromo. In nome della nostra amicizia.‒ Va bene. Ci troveremo dunque domani sulla falesia, dopo la fiera, ‒ concluse Yadjè. ‒ Qualsiasi

cosa succeda, sappi che tu sei il mio amico, Nèmègo, per sempre.Nèmègo, gli occhi pieni di lacrime, annuì. Fianco a fianco, fantasmi muti nel chiarore pallido

della luna, ripresero la strada per il villaggio.Yadjè era appena rientrato nella sua capanna quando sua madre varcò a sua volta l’ingresso della

concessione e si chiuse nella sua. Il giorno seguente, giovedì, la madre aveva imboccato il “sentiero delle volpi” prima dell’alba.

Alla fine di un pendio si trovava la “casa della divinazione”, dove due uomini accovacciati, degli

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indovini, osservavano attentamente delle figure rettangolari ornate di bastoncini e segni, disegnate inun quadrato di terra sabbiosa. Gli indovini, in realtà, si erano già preoccupati nel pomeriggioprecedente di spargere il luogo di semi d’arachidi di cui le volpi vanno matte. Queste, camminandola notte alla ricerca del loro cibo, fanno cadere i bastoncini, le cui diverse posizioni finali sonoconsiderate come dei messaggi che gli stregoni interpretano. Dopo interminabili saluti, anche lamadre si accovacciò. Tutti e tre rimasero così per lunghissimi minuti, durante i quali i due indoviniconversavano a voce bassa. Uno dei due, che portava una bisaccia a tracolla, alla fine alzò gli occhisulla madre, che tremò. L’uomo aveva un viso da gatto, gli occhi gialli a mandorla, il naso all’insù, ibaffi da gendarme, dei piccoli denti appuntiti e un corpo molto peloso. Si chiamava Kodjo, ma pertutto il villaggio era “il gatto”.

‒ Come vedi, le volpi hanno parlato, ‒ disse alla madre.‒ Che Amma sia lodato, ‒ si limitò a rispondere la donna, con una voce chiaramente preoccupata.‒ Ieri sera, ‒ continuò il Gatto, ‒ volevi che io interrogassi le volpi sulla sorte futura della tua

famiglia, non è vero?‒ Sì, è vero, ‒ confermò la madre.‒ Bene. Ho scritto le tue domande su questa tavoletta. Le volpi ieri sera hanno risposto. Tutto

quello sto per dirti, mi viene da loro, sono loro i veri indovini, poiché Amma parla attraverso le loroimpronte.

L’angoscia della povera donna era tale che riusciva solo ad annuire, incapace com’era di staccaregli occhi da quelli del suo interlocutore così singolare.

‒ Allora, ecco cosa hanno risposto le volpi: la pace abbandonerà la casa per lungo tempo. Al suoposto, ci sarà sangue, molto sangue. Questo sangue si spargerà per tutto il villaggio. Tutto questodurerà molto tempo.

Il compagno del Gatto annuiva senza sosta seguendo con il dito i messaggi scritti dalle improntedelle volpi sulla tavoletta.

‒ Ecco, ‒ concluse freddamente il Gatto, ‒ quello che dicono le volpi.La madre mormorò frasi impercettibili, le labbra si agitavano freneticamente. Forse pregava. Di

colpo, senza dire una parola, si alzò e, con la tutta la forza delle sue gracili gambe barcollanti, fuggìverso il villaggio, sotto lo sguardo sbalordito degli indovini.

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CAPITOLO TRE In questo Paese roccioso e tormentato, tra pianure, falesie e altopiani, Pigui è un villaggio dogon

come altri. Le sue capanne e i suoi granai in terra si aggrappano miracolosamente al fiancodell’immensa falesia che caratterizza la regione dogon. Ibi, Banani, Neni, Ireli, Yaye, Tireli, unamoltitudine di piccoli paesi che sembrano lì da sempre, che sonnecchiano, fuori dal tempo. Ci sonoanche Komokani, Dyeli, Ynebere, Guimini, Kassongo, seduti imprudentemente sul fianco dellafalesia o rannicchiati tra due o tre enormi rocce, in pianura o sull’altopiano.

Queste terre aride, sassose, corrose, dove tutto porta l’impronta di un’erosione infinita, sonol’immagine della vita dura dei loro abitanti. Qui non c’è altro che il sudore dell’uomo a far inverdirele rocce. Se ogni tanto un marigot3 offre la sua acqua è solo per assicurare la sopravvivenza. Lanatura non schiaccia l’uomo, lo minimizza. A prima vista i villaggi dogon, come Pigui, sembranodisabitati, simili a siti preistorici portati alla luce di recente. Tutto ha il colore della terra: le rocce,le case e gli uomini. E, visto che ci sono pochi abitanti, gli uomini si confondono con le rocce e leabitazioni.

Càpita che una moschea o una chiesa in cemento stoni in questo universo così uniforme, ma sipercepisce che attendono un dio che non viene da qui, perché il dio dei Dogon non ha bisogno né dimoschee né di chiese. È Amma, e vive in ogni cosa, in ogni scultura, nell’anima di ogni Dogon. Nonpretende né ori né sfarzo: solo un semplice altare in terra e pietra. Da quando, settecento anni fa,fuggendo da popoli bellicosi, la piccola comunità dogon ha trovato riparo in questi luoghi così pocoospitali, Amma non ha mai smesso di vegliare su di essa. L’ineffabile sensazione di pace dei primitempi, percepita dallo straniero che penetra nel paese dei Dogon, è la quiete che nasce dall’armoniatra Amma e le sue creature. Da quando l’Antenato Lèbè si è trasformato in serpente e ha reso gliuomini mortali, ogni Dogon sa che l’uomo non è nulla senza Amma.

Gli anziani lo ripetono fino alla nausea quando si riuniscono sotto il toguna4 attorno all’hogon, ilcapo spirituale, per riflettere sulla sorte del popolo dei Dogon e prendere decisioni sulla vitaquotidiana.

La fiera settimanale stava giungendo al termine. Il sole non era ancora arrivato sopra le teste ma

picchiava già con violenza. L’anziano zio entrò in casa, si fermò subito e urlò con tutta la forza dellasua esile voce:

‒ Yadjè, è arrivato il momento!Il nipote apparve, il viso segnato dall’insonnia, e si diresse verso il vecchio.‒ Buongiorno, zio, ‒ lo salutò.‒ È giunto il momento, ‒ fu l’unica risposta dello zio, che tornò subito sui suoi passi, seguito dal

ragazzo.Nello stesso istante, Yalèmo uscì dalla sua capanna e, a distanza rispettosa, seguì gli uomini.Lo zio e il nipote camminavano fianco a fianco.‒ Non potevi sottrarti, Yadjè, ‒ spiegò il vecchio. ‒ Noi Dogon non perdoniamo mai simili azioni.

Nèmègo ci ha dichiarato guerra. So che era il tuo amico, ma si è comportato come un cane. Tu seiYadjè, il figlio maggiore di mio fratello. Non puoi fare marcia indietro.

Sempre seguiti da Yalèmo, arrivarono ai piedi della falesia. Lì si trovava una sorta di piano di

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pietra sospeso nel vuoto e sostenuto solo grazie a una delle estremità conficcata sotto un ammasso dirocce. Sotto, come se spuntasse da immense fauci di dinosauri, una moltitudine di spuntoni aspettavail malaugurato. Cadere su quelle fortificazioni significava di sicuro morire dilaniato.

Lo zio si voltò verso suo nipote e, con una voce stranamente dolce e commossa, gli disse:‒ Amma e i nostri Antenati vegliano su di te. Non hai nulla da temere, perché non hai colpa. Vai,

ragazzo mio.‒ Sei mio fratello, Yadjè. Amma veglia su di te, ‒ disse Yalèmo prendendo la mano del ragazzo.Due lunghe file di lacrime le sgorgarono dagli occhi, ma lei non se le asciugò.Yadjè stava già arrampicandosi sul piano della morte. Si fermò e guardò non il baratro, ma il

villaggio. Sembrava così sereno che suo zio abbozzò un rapido sorriso.‒ Uccidilo, Yadjè: è un cane, ‒ lo incoraggiò sua sorella.Decine di mercanti che avevano notato il ragazzo, capirono e iniziarono ad arrivare. Poco dopo,

arrivò a sua volta Nèmègo, accompagnato dal suo amico Antandou. Procedeva con passo meccanico,gli occhi rivolti a Yadjè, in cima alla roccia, senza neanche sentire Yalèmo che gli continuava a dire:

‒ È arrivato il cane!La folla di curiosi, silenziosa ma agitata, aumentava formando un semicerchio ai piedi dell’arena

di pietra. Lo zio camminò verso Nèmègo e gli sputò sul viso.‒ Cane! ‒ gli urlò.Uno sprazzo di dolore attraversò lo sguardo del ragazzo, che si arrampicò sul piano e si trovò di

fronte a Yadjè. I due amici rimasero immobili a pochi passi l’uno dall’altro, in profondo silenzio. Aldi sopra delle loro teste, due uccelli neri passavano e ripassavano senza sosta, emettendo piccolegrida acute.

Nel lugubre silenzio, risuonò la voce di Yalèmo: -Yadjè, hai davanti a te un cane: uccidilo!Allora Yadjè si trasformò. Si buttò con rabbia sul suo amico che, anche se contrario, dovette

tendere i muscoli per resistere a quella furia omicida. Aggrappati uno all’altro, i due amici lottavanoferocemente. Yadjè pareva il più determinato, mentre Nèmègo dava l’impressione di voleresemplicemente evitare la morte. Tuttavia, quando venne trascinato sul bordo del precipizio dal suoavversario, si salvò solo grazie a un vigoroso colpo di reni che lo riportò nel mezzo dell’arena.Cominciò allora a battersi con rabbia.

La lotta si svolse nel mezzo del piano, tanto le forze si neutralizzavano, fino a quando, a dispettodi tutte le regole, iniziarono a volare pugni e calci. All’improvviso Nèmègo ricevette un tale colpo intesta che cadde sul bordo del piano di pietra e solo la sua straordinaria agilità gli permise dirimettersi in piedi. I due amici continuarono quindi a prendersi a botte. Il viso di Yadjè erainsanguinato.

‒ Yadjè, uccidi quel cane! ‒ lo esortò sua sorella brandendo il pugno.Il sole, ora allo zenit, soffocava il mondo con i suoi raggi ardenti. Sopra i due lottatori sudati,

soltanto un uccello continuava la sua lugubre ronda.Stranamente, le forze di Nèmègo si indebolirono. Sembrava non volesse più battersi. I colpi

piovevano su di lui senza che si difendesse veramente. E poco dopo si bloccò.‒ Battiti, cane! ‒ gli urlò Yadjè, il quale, folle di rabbia, si scaraventò su di lui e lo spinse per

farlo cadere nel baratro.Nèmègo effettivamente cadde, ma fu Yadjè che, spinto dal suo stesso slancio, precipitò nel vuoto.

Come un sol uomo, la folla di spettatori lanciò un grido, e qualche imprudente avanzò fino al bordodel precipizio, dove era visibile solo la testa del ragazzo. Titubando, Nèmègo si fermò sul bordo delpiano di pietra, lo sguardo fisso nel nulla, come ipnotizzato. Qualcuno gli urlò da dietro: ‒ Cane! ‒

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ma lui non lo sentì. Era Yalèmo che si stava avventando su di lui. Senza capire cosa gli stessesuccedendo, il ragazzo, afferrato con forza dalla sorella di Yadjè, fu scaraventato nel vuoto.

I due quasi volteggiarono per un momento prima di schiantarsi sulle rocce. Nella folla ci fu untumulto.

Il Gatto, che si era precipitato nella ripida discesa alla velocità della luce, stava già riportando sula salma di Yadjè. Tenendo il corpo con una mano, con l’altra si appoggiava alle asperità dellafalesia e procedeva come un felino.

Quando ebbe deposto il cadavere del ragazzo, scese di nuovo nel precipizio e riportò uno allavolta Yalèmo e Nèmègo. Miracolosamente, quest’ultimo era ancora vivo. Urlava di dolore quandogli si toccava la schiena, ma era lucido e non sembrava ferito a morte.

La folla che circondava i morti e il ferito si aprì davanti alla madre di Yadjè e di Yalèmo checamminava a scatti, come un automa. Si inginocchiò di fronte ai cadaveri dei figli senza dire unaparola, accarezzando un po’ uno e un po’ l’altra.

‒ Sapevo che la morte avrebbe colpito la nostra casa, lo sapevo. La volpe me l’aveva detto, ‒mormorava con voce addolorata, in mezzo alla folla immobile. ‒ Quando vedrete vostro padre,ditegli che sto bene e che vi raggiungerò presto, ‒ aggiunse, accarezzando i corpi distesi.

Dietro di lei, lo zio si appoggiava al suo bastone, la bocca spalancata e le labbra tremanti. Il giorno dopo, nel momento in cui la luce del sole nascente incominciava a illuminare la falesia,

da qualche parte nel villaggio una donna lanciò un grido di dolore, che l’eco ripeté all’infinito. Era lamadre di Nèmègo. Aveva appena scoperto il corpo senza vita del figlio, gonfio come un pallonegigante, un rivolo di sangue nero coagulato all’angolo della bocca.

Poco dopo, risuonò altrove un altro lugubre lamento. A sua volta, la madre di Antandou, l’amicodi Nèmègo, scoprì il cadavere del figlio gonfiato a dismisura, un rivolo di sangue nero alla bocca.

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CAPITOLO QUATTRO Il commissario Habib abitava in uno di quei quartieri nuovi situati alla periferia di Bamako. Di

solito sono vecchi villaggi venduti dai nativi per un tozzo di pane alle società immobiliari. Al postodelle capanne hanno costruito delle case basse, dotate di un minimo di comfort: elettricità, acquacorrente, bagni e docce moderne. Ma, attenzione, non si tratta assolutamente di gran lusso. Il tetto dilamiera, soffocante nei periodi canicolari, e il pavimento di cemento sono la norma. Le straderimangono di terra e diventano fangose nella stagione delle piogge. Le erbacce invadono ogni luogo,offrendo alle mosche e alle zanzare un riparo insperato.

Malgrado il loro livello, tutto sommato ordinario, questi quartieri nuovi non sono alla portata delmaliano medio. Qui abitano i quadri dell’amministrazione pubblica e i giovani uomini d’affari.

Habib aveva collocato la sua dimora in uno di questi luoghi ormai da quasi due decenni, quando,giovane funzionario di polizia senza nomina precisa, lavorava nella direzione dell’Antidroga.

Quella mattina, alle 8.30, il commissario stava provando inutilmente a fare partire la sua 309 giàda più di mezz’ora. Il motore scoppiettava, esplodeva, riempiva il garage di un fumo nerastro, manon ne voleva sapere. Stanco, il commissario Habib si rassegnò a chiamare alla riscossa il suofedele ispettore Sosso.

Passando per il salone per andare in camera, Habib dovette cedere alla volontà di suo figlio di seianni, Oumar, che provava a decifrare il testo di un annuncio pubblicitario e chiedeva il suo aiuto.Dopo aver ricevuto l’aiuto da suo padre, Oumar corse in veranda dalla madre, una donna piccola egrassottella, una maestra chiacchierona di mezz’età che suo marito, ormai, chiamava solo “mammaHaby”.

‒ Mamma, ‒ disse il ragazzino preoccupato, ‒ sai, la situazione di papà diventa sempre più grave.‒ Cosa vuol dire, Oumar? ‒ domandò la madre, incuriosita.‒ Sai, non sa neanche più leggere: confonde la C con la O. Questo è grave. Molto grave.La madre si lasciò cadere su una sedia e scoppiò in un’enorme risata che attirò suo marito.‒ Ripeti quello che mi hai detto, ‒ disse al bambino, tra una risata e l’altra.Il bambino guardò suo padre dritto negli occhi e disse:‒ Papà, il tuo caso sta diventando molto grave, perché non sai neanche più leggere.‒ Cosa vuoi dire, Oumar? ‒ chiese Habib aggrottando le sopracciglia.‒ Confondi la C con la O, ‒ rispose testardo il bambino.‒ E come lo sai? ‒ lo interrogò il padre.‒ Poco fa, ti ho detto di leggere il giornale per me, hai detto C invece che O.‒ Ah! Sì, — esclamò Habib. — È così, Oumar. Be’, aspetta.Porse al ragazzino un giornale che si trovava sul tavolino, poi gli fece mettere i suoi occhiali e gli

disse:‒ Ora mostrami la O.Oumar vedeva talmente grande che pose il dito non sul giornale, ma sul tavolino. Haby era piegata

in due dal ridere. Habib si riprese gli occhiali ridendo. Il bambino era completamente confusoquando il padre gli mostrò il suo errore, e giurò di aver posato il dito sulla O. Fu in quel momentoche entrò l’ispettore Sosso e salutò.

‒ Come puoi vedere, ‒ gli spiegò il suo capo, ‒ mamma Haby è entrata in trance.

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Sosso si lasciò contagiare dal buonumore e la sua risata acuta si aggiunse a quella della donna.Tornato il silenzio, Habib poté finalmente spiegare la delusione di Oumar e Sosso lo prese in braccioe gli chiese:

‒ Allora, generale Oumar, ora confondiamo il giornale con il tavolo?‒ È tutta colpa di papà, ‒ si difese Oumar. ‒ Mischia tutto.‒ Bene, Sosso, andiamo, ‒ ordinò Habib nel mezzo delle risate.Sosso salutò Haby, accarezzò la testa di Oumar e seguì il suo capo che si dirigeva verso il

portone.‒ Capo, ‒ disse l’ispettore, ‒ vado comunque a dare un’occhiata alla sua macchina.I due poliziotti entrarono nel garage. Sosso fece girare il motore che esplose e liberò un’enorme

nuvola di fumo nero, da cui il commissario e il suo assistente si affrettarono ad allontanarsi, tossendoviolentemente.

‒ Sai, Sosso, ‒ scherzò Haby, ‒ la macchina del tuo capo ha l’età del nostro primo figlio: diciottoanni. È come il suo padrone: un po’ stanca.

‒ Certo, ‒ replicò Habib, ‒ è la vecchia Haby a dirlo!Proprio in quel momento, finito il sonnellino, apparve l’ultimogenito, il “gattino”, come lo aveva

soprannominato Oumar. E il gattino si era cinto il magro petto con il reggiseno della mamma e latesta con gli slip del papà. Davanti a questo spettacolo, Haby si lasciò cadere di nuovo sulla sedia eurlò dal ridere mentre Habib si dirigeva mogio verso il portone, seguito da un allegro Sosso.

Poco dopo, i poliziotti si sistemarono nella 4x4 della Squadra Anticrimine, che si mise in moto. ‒ È sempre così quando si osa fare figli a cinquantanni, ‒ brontolò il commissario. — Spero che

tu non farai la stessa sciocchezza, Sosso.‒ Comunque lo trovo divertente, capo. Io passerei tutta la giornata a ridere.‒ Oh, non fare confusione, Sosso: li adoro, i miei figli, ma a volte sono veramente difficili da

tenere! Vedrai, Sosso, vedrai.‒ Dovrebbe comprare una macchina nuova, capo, ‒ osò dire senza transizione Sosso.‒ Perché la mia ha la stessa età del mio primogenito, vero, Sosso?‒ Niente affatto, capo, voglio solo dire che lo stato delle strade rovina rapidamente le macchine

e...‒ Andiamo, Sosso, non fare il finto tonto. Sai quello che guadagno. Se volessi comprare anche

solo una buona macchina d’occasione, dovrei mettere da parte almeno un anno di salario. Ma comefaranno gli altri? Non lo so e non lo voglio sapere.

La 4x4 lasciò la strada polverosa e si infilò in una di quelle nuove arterie che avrebbero dovutorendere la circolazione più razionale, ma la cui larghezza era piuttosto uno stimolo a sorpassare inogni senso. Probabilmente all’inseguimento di un contravventore, stava passando una moto dellapolizia a sirene spiegate. Habib domandò a Sosso, con aria avvilita:

‒ Cos’è questa storia?‒ Probabilmente un tassista che non ha rispettato un’ingiunzione, ‒ spiegò l’ispettore.‒ In ogni modo, ‒ concluse Habib, ‒ sono buoni solo a correre dietro ai taxi. Che disgrazia!Più si avvicinavano al centro, più la circolazione diventava densa.‒ Passo per il ponte Fahd, capo, ‒ suggerì Sosso, -altrimenti rischiamo di non arrivare tanto presto

in ufficio.‒ Va bene.A due chilometri dal ponte, file di macchine, di moto e di biciclette erano immobili in una nuvola

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di fumo biancastro e in un baccano assordante. Sosso inveì. Il commissario lo guardò sorridendo e loprese in giro:

‒ Hai giocato, hai perso. Bisogna saper perdere. Sosso si rilassò e preferì dirigersi verso ilsecondo ponte, quello detto “dei martiri”. Purtroppo lo spettacolo non era più rassicurante. Un agentedi polizia, tuttavia, avendo riconosciuto il capo della Squadra Anticrimine, interruppe il fiume diveicoli e permise alla 4x4 di raggiungere il centro della fila che scorreva lentamente verso la rivasinistra del fiume Niger. Poi successe quello che non dovrebbe mai succedere in momenti comequesti: il motore della 4x4 singhiozzò, si spense e si rifiutò di ripartire.

‒ Capo è finita la benzina, ‒ spiegò laconicamente Sosso ad Habib che, per la sorpresa, rimase abocca aperta per qualche secondo.

‒ Lo sai bene, Sosso, che detesto quando finisce la benzina, ‒ sbraitò. ‒ Come hai potuto? Eh?Mai fare il gradasso in una situazione del genere; l’ispettore aveva imparato la lezione.‒ Capo, mi scusi, ma il prossimo rifornimento è lunedì. Me lo ha detto l’intendente.‒ Ah, sì? ‒ cominciò il commissario, la cui voce fu coperta dalle urla di un automobilista che

accompagnava le sue proteste con dei vigorosi colpi di clacson.Seguì immediatamente un tremendo concerto.‒ Toglietevi dai piedi! ‒ urlò qualcuno picchiando il pugno sul cofano della 4x4.Una figura rotonda e grassottella si infilò nella portiera e disse, rivolta al commissario:‒ Ehi, vecchio, non hai più un soldo neanche per comprarti un litro di benzina?Habib rimase senza fiato. Sosso cominciò a spingere il veicolo. Dei ragazzini andarono ad

aiutarlo. Tra le risate, l’ispettore riuscì così a far superare il ponte al commissario, irrigidito nella4x4, e a parcheggiare il veicolo su un piccolo spiazzo verde. Distribuì delle monetine ai bambini e,senza osare guardare il suo capo, prese una tanica e corse verso il distributore di benzina più vicino.Dei mendicanti chiesero l’elemosina al passeggero cupo della 4x4, che non si degnò neanche dirispondere. Poi venne il turno di piccoli mercanti ambulanti che proposero, a un Habib assente, lapropria robaccia. Alcuni addirittura si spinsero con impertinenza a mettergli la loro paccottiglia sottoil naso. Habib si limitò ad allontanarli fermamente con la mano.

‒ È muto, ‒ osservò uno dei bambini.‒ Sembra che non capisce niente, ‒ disse un altro.Tornò Sosso, munito della sua preziosa tanica, di cui vuotò il contenuto nel serbatoio della 4x4. Si

sedette al volante e, senza una parola, mise in moto. Al suo fianco, il commissario rimaneva muto.L’ispettore sapeva che il fulmine avrebbe colpito molto presto. Nella Squadra Anticrimine siconosceva bene l’umore del capo ed erano molto prudenti. In effetti il commissario era piùrassicurante quando parlava piuttosto che quando taceva. Sosso non era stupido: il minimo errore daparte sua gli avrebbe attirato le ire del suo capo. Per questo guidava con la prudenza di un anziano,evitando di guardare dal lato del suo passeggero. Dopo qualche minuto di questo pesante silenzio,l’ispettore parcheggiò la 4x4 davanti alla sede della Squadra Anticrimine. E, mentre il commissarioraggiungeva il suo ufficio, rigido e a grandi passi, Sosso lo seguiva a distanza trascinando i piedi.

Una volta nel suo ufficio, il primo gesto del commissario fu quello di chiamare l’intendente.Quest’ultimo, un omino obeso con la bocca adorna di imponenti baffi, non tardò a presentarsi.

‒ Allora, Ballo, così hai inventato le macchine che vanno ad acqua! ‒ disse Habib.‒ Mi scusi, capo, ma non capisco, — rispose il buonuomo.‒ Ti sto chiedendo se hai inventato delle macchine che non hanno bisogno di benzina per andare.

Come la 4x4. È finita la benzina. Sul ponte!‒ Mi spiace, ‒ si scusò maldestramente l’intendente.

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‒ Tutto qui?‒ Mi spiace, capo, ma non ho capito bene.Sotto l’effetto della collera, gli occhi del commissario Habib sparirono nelle loro orbite e i suoi

tratti si indurirono a tal punto che si faceva fatica a riconoscerlo.‒ Basta, ‒ urlò. ‒ Mi prendi in giro? Ti sto dicendo che è finita la benzina nella 4x4 mentre

eravamo sul ponte e tutto quello che sai dire è: «Mi scusi»! Chi è che distribuisce la benzina? Nonsei tu? Perché non ne hai prevista a sufficienza?

Il povero Ballo rimaneva immobile e a bocca aperta come un bambino. Rispose con voceindefinibile, in lotta tra la ribellione e la paura.

‒ Scusi, capo, ma uso il budget del ministero. Se faccio diversamente è la catastrofe.Habib lo guardò a lungo e la sua collera cessò.‒ Vai, ‒ gli ordinò.‒ Grazie, capo, ‒ mormorò l’intendente.Il commissario si alzò e si fermò davanti alla finestra. Era a disagio. Effettivamente Ballo non era

in alcun modo responsabile della sua disavventura. L’aveva maltrattato solo perché era il capo eperché aveva bisogno di scaricare la collera su qualcuno. Sospirò.

Il fiume Niger era lì, uguale a se stesso, ma un po’ più fangoso del solito. La stagione secca avevaingiallito l’erba che, nella stagione delle piogge, inverdiva le rive. Più lontano, qualche pirogascivolava sull’acqua, come piccole cose nere di cui i raggi del sole non si curavano.

“La benzina, comunque, è il minimo per lavorare”, pensava il commissario. C’erano dei giorni neiquali si diceva che ogni sforzo era inutile, che la sua sola volontà non bastava. C’erano così tantiostacoli quotidiani da superare, così tanti imprevisti, che bisognava avere fede per non scoraggiarsi.Fare ogni giorno dei miracoli con niente! Arrivavano quindi quei momenti di grande stanchezza in cuisi cominciava a dubitare. Il commissario sospirò. Più lontano, la folla brulicava. E ogni giorno eracosì, malgrado la miseria, malgrado le angosce. Che cosa dava loro quello slancio, quella forza diandare avanti quando dovrebbero desiderare solo di riposarsi? Sì, andavano solo avanti, facendosempre la stessa strada, come una colonia di formiche, fino al giorno in cui la morte li avrebbecolpiti. Bisognava quindi vivere senza farsi domande! Improvvisare sempre! In queste condizioni,cosa può pretendere un capo dai suoi collaboratori senza sembrare un aguzzino?

Un gruppo di adolescenti stava passando davanti alla sede della Squadra Anticrimine. Eranovestite con abiti cangianti e gonne corte di taglio eccellente. A vedere le loro maniere provinciali ela qualità dei loro abiti, si intuiva facilmente: erano vestite con abiti usati. Per convincersene bastavadare un’occhiata alle loro scarpe, parecchio ordinarie, e alle loro borse a tracolla in materialesintetico. Oltretutto, una di loro dovette decidersi a camminare a piedi nudi quando i lacci di unsandalo si ruppero. Le sue amiche scoppiarono a ridere. Habib sorrise tristemente.

L’ispettore capo si annunciò ed entrò.‒ Capo, per la benzina, abbiamo trovato una soluzione. Ballo è molto dispiaciuto.‒ Capisco, Sosso. Non è colpa sua. Lasciamo stare.

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CAPITOLO CINQUE Suonò il telefono. Habib rispose e subito dopo esclamò:‒ Issa! Quando sei tornato?... Ah! Bene... bene. A dopo, allora.‒ Ti ricordi di Issa? ‒ chiese a Sosso.‒ Il consigliere del ministro?‒ Sì. Ha bisogno di noi. Andiamo. ‒ Sai, Sosso, ‒ cominciò il commissario una volta partita la 4x4, ‒ quell’uomo, ehm... Non me lo

ricordo più. Sto invecchiando, accidenti!‒ Issa, ‒ lo aiutò l'ispettore.‒ Sì, Issa. Era in un corso con me al liceo. Scienze esatte. Mediocre e pigro.‒ Però è diventato consigliere del ministro della Sicurezza Interna!‒ Eh sì, Sosso, così è la vita. Pagava per copiare dai compagni a fianco. I suoi genitori avevano i

soldi. Erano commercianti. Commercianti, anche un po’ trafficanti. In ogni caso ha comprato tutto,fino al diploma. E visto che suo padre è il grande investitore del partito al potere, in qualche modoha comprato anche il suo ruolo di consigliere. Il denaro è tutto, con i tempi che corrono, figliolo. Senon è una sfortuna questa...

‒ Per me e per gli altri figli di poveri, non è bello.‒ Certo, ma attenzione, Sosso, niente disfattismo: la virtù ha ancora un peso.La 4x4 avanzava lentamente a causa delle biciclette e dei motorini che ingombravano la

carreggiata.In circostanze del genere, era meglio raddoppiare la prudenza, perché le frecce passavano

inosservate e un incidente poteva capitare in fretta. Sosso si liberò agilmente da quel flussoscoppiettante e non tardò a parcheggiare davanti al Ministero della Sicurezza Interna. Dopo aversuperato tre posti di controllo, i due poliziotti penetrarono nell’ufficio del consigliere, un bell’uomomaturo, stempiato, con degli occhiali dalla montatura dorata, e in giacca e cravatta.

‒ Ecco Habib il filosofo! ‒ disse al commissario stringendogli vigorosamente la mano.Poi scoppiò in una gran risata abbracciando il suo compagno di studi. Placata l’euforia, Habib

poté esclamare a sua volta:‒ Vecchio mio, quando eravamo al liceo dicevi che sono solo gli affari a contare. Ed ecco che ti

ritrovo nell’amministrazione.‒ Eh sì, Habib, ‒ concesse Issa dirigendosi verso la sua scrivania, ‒ non siamo padroni del nostro

futuro. Sono anch’io sorpreso nel vederti poliziotto. Pensavo che fossi un prof, o un filosofo, sai.‒ Esattamente, è la vita che decide, ‒ concluse Habib, che aggiunse, indicando l’ispettore: ‒

Questo è Sosso, il mio collaboratore.‒ Ovviamente ho sentito parlare di lui, ma non l’avevo mai incontrato. Piacere, Sosso. Così ho

l’onore di avere i più abili segugi dell’Anticrimine nel mio ufficio. Sedetevi e ditemi cosa possooffrirvi da bere.

Quando ognuno ebbe la propria tazza di tè, servita da una giovane segretaria molto profumata, ilconsigliere tecnico disse:

‒ Sai, Habib, senza lusingarti, se tutti i poliziotti fossero come quelli della Squadra Anticrimine il

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nostro Paese sarebbe nella sicurezza più totale.‒ Voglio crederti, Issa, ma è il momento che lo Stato offra alla Squadra Anticrimine dei mezzi

all’altezza della sua missione. È incomprensibile che non abbiamo benzina a sufficienza per le nostremacchine. Incomprensibile e inammissibile. La benzina è perlomeno il minimo.

‒ Come, non avete benzina? ‒ cercò di capire il consigliere.‒ È come ti dico. Appena due ora fa, la nostra macchina ha finito la benzina sul ponte. Solo perché

la nostra dotazione di benzina non è sufficiente. Che si voglia fare economia, lo capisco, ma almenonon per l’essenziale!

‒ E ti sei lamentato?‒ Certo, in ogni mio rapporto! Tutti però se ne fregano. Ma inizio veramente a essere stufo.‒ Senti, Habib, ti giuro che è la prima volta che lo sento. Conta su di me per parlarne al ministro.‒ Non basta parlarne, vecchio mio. Se è per farmi delle promesse senza nessun seguito, è inutile.‒ Sono sempre lo stesso Issa, Habib. Dammi una settimana e vedrai.‒ Molto bene, ‒ concluse il commissario. ‒ Saprò se Issa è sempre Issa.‒ Perfetto, mio caro, ‒ concluse a sua volta il consigliere. ‒ In realtà, ti ho chiamato per una

ragione precisa, Habib. Normalmente ti avrebbe affidato questa missione il capo della Polizia diStato, ma il ministro ha deciso di farlo direttamente lui. In effetti, detto tra noi, lui stesso ha ricevutodelle istruzioni perché si facesse così. Dunque, abbiamo ricevuto delle notizie inquietanti da Pigui...

‒ Dov’è Pigui? — si informò Habib.‒ È nella falesia di Bandiagara, un villaggio abitato da Dogon, ‒ spiegò il consigliere con

evidente piacere. ‒ È un piccolo comune che esiste come tale da soli due anni. Abbiamo ricevutodelle notizie inquietanti da Pigui.

‒ Da chi?‒ Dal sindaco del suddetto comune.‒ Detto tra noi, Issa, mi sorprende già una cosa: Pigui è un villaggio. Ci sarà un commissariato di

polizia o una gendarmeria nelle vicinanze. Perché le notizie inquietanti di cui parli non sono stategestite da questi canali abituali?

‒ Ecco, Habib, avrei dovuto cominciare da qui. In effetti, questo comune è in mano al partito alpotere, il nostro partito, il partito della Rédemption Africaine. Abbiamo dovuto combattereparecchio. Quello che succede a Pigui può degenerare e ripercuotersi su tutti i comuni della zonadogon, che sono per la maggioranza dalla nostra parte.

‒ Comincio a capire, ‒ disse Habib al suo compagno di studi, ‒ continua.‒ Un consigliere municipale di Pigui è stato assassinato e altri tre sono a rischio di esserlo da qui

a poco.‒ Le minacce sono state manifestate realmente?‒ È più complicato, Habib. Conosci i Dogon, non ci muoviamo nel razionale, ma una minaccia

pesa di sicuro sui tre.‒ L’omicidio, dimmi, è reale o nell’ordine dell’irrazionale?‒ Senti, la cosa migliore è sentire il sindaco di Pigui.‒ Dov’è?‒ Qui, ‒ disse Issa aprendo la porta della piccola sala d’attesa contigua, nella quale un

condizionatore in cattivo stato sembrava bloccarsi a tratti, producendo un rumore molto fastidioso.Habib non riuscì a non manifestare la sua sorpresa vedendo il sindaco il quale, vestito anche lui

con un ampio boubou grigio di buona fattura e un cappello abbinato, aveva l’aria di un adolescente. Ilconsigliere fece le presentazioni. Il ragazzo salutò rispettosamente e prese posto alla destra di Sosso.

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‒ Signor sindaco, ‒ domandò Habib sforzandosi di sembrare deferente, ‒ ho saputo che a Pigui èstato assassinato un consigliere municipale. Da chi e come?

‒ Sì, è stato ucciso Antandou, due giorni fa. Anche il suo amico Nèmègo. Ma non so né come néda chi.

‒ Aspetti, signor sindaco. Dove si trovava quando si svolgevano i fatti?‒ A Pigui, ovviamente.‒ Non ha assistito agli omicidi, immagino; allora chi le ha dato la notizia?‒ Nessuno in particolare. A Pigui tutti sanno che Antandou e Nèmègo sono stati uccisi, ma nessuno

conosce l’assassino né il modo in cui sono stati uccisi.Habib cominciava a perdere la pazienza. L’ispettore Sosso se ne accorse e si affrettò a

intervenire.‒ Signor sindaco, ‒ disse, ‒ sembra che altri consiglieri municipali siano minacciati di morte. Chi

li minaccia?‒ Nessuno in particolare, ‒ rispose il sindaco, -ma tutti sanno che rischiano la vita.‒ E lei? ‒ domandò Sosso.‒ Anch’io, certo.‒ Ma lei probabilmente non sa chi la minaccia di morte?‒ Esatto. Sa, da noi Dogon, non è come qui. Si può uccidere senza essere visti. Senza usare

un’arma.Nell’ufficio cadde il silenzio. Si sentiva ronzare debolmente il climatizzatore. Il commissario, la

fronte aggrottata, guardava fisso il giovane sindaco, mentre l’ispettore si tratteneva dal ridereimmaginandosi le parole che il suo capo stava trattenendo. Quanto al consigliere tecnico sembravavisibilmente turbato dal silenzio dei poliziotti. Continuava quindi ad annuire, un piccolo sorriso sullelabbra.

‒ Mi dica, ‒ signor sindaco, ‒ continuò il commissario, ‒ sa quando lei e gli altri consiglieridovete essere uccisi?

A questa domanda piuttosto sarcastica, il ragazzo rispose tuttavia con la più grande serietà:‒ In ogni momento.‒ E perché ce l’hanno con voi, con lei e la sua giunta?‒ Non ne so veramente nulla.‒ Ha qualcosa da rimproverarsi che potrebbe spiegare perché qualcuno ce l’ha con lei?‒ In realtà, no.‒ E non ha avvertito né la polizia né la gendarmeria?-No.‒ Perché?‒ Perché non sarebbe servito a nulla. Nessuno si sarebbe fatto coinvolgere.‒ Per paura di venire ucciso?‒ Forse. Non lo so.Era evidente che il sindaco ne sapesse di più di quanto lasciasse trapelare. A vederlo così, col

suo ampio boubou, il cappello e i ridicoli baffetti, sembrava un bambino dall’espressione ancoraincerta.

‒ Lei abita a Pigui, immagino, ‒ gli chiese Habib.‒ No, abito a Bandiagara.‒ Pensavo che casa sua, in quanto sindaco, fosse nel suo comune.‒ Capisco, ma non abito a Pigui.

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Il commissario si trattenne dal tormentare il povero piccolo sindaco che rimpiccioliva a mano amano che la conversazione andava avanti somigliando sempre più a un interrogatorio camuffato.

‒ Bene, ‒ sospirò Habib girandosi verso il consigliere, ‒ il minimo che si possa dire è che sitratta di una storia strana. Immagino che il ministro voglia che io vada a Pigui per vedere cosa èsuccesso o cosa succederà.

‒ Esattamente! ‒ confermò il consigliere tecnico.‒ Allora siamo d’accordo. In ogni caso non ho scelta, non è vero? Spero solo che non mi

chiederai di andare nella regione dogon con il mio catorcio e, soprattutto, con la dotazione di benzinadell’Anticrimine.

‒ Stai tranquillo, Habib, ‒ disse Issa, ‒ il ministro ha dato ordine che la tua missione si compianelle migliori condizioni. Avrai il tuo ordine di missione in debita forma e una 4x4 climatizzata conautista. E non preoccuparti per la benzina: me ne occupo io. Tutti gli uffici della regione sono statiinformati della tua missione, polizia e gendarmeria, con l’ordine di prestarti manforte. A Mopti saràla polizia, a Bandiagara la gendarmeria. Vedrai, la gendarmeria di Bandiagara è in mano a unragazzo, il luogotenente Diarra, che noi apprezziamo molto. È d’altronde per questo che il suoterritorio è eccezionalmente importante.

‒ Perfetto, caro compagno. Sosso e io andremo a Pigui domani.‒ Issa è sempre Issa, caro il mio filosofo, ‒ disse il consigliere tecnico scoppiando a ridere e

dando delle pacche amichevoli al commissario, che ricambiò.Dopo aver salutato il giovane sindaco, che dichiarò che sarebbe tornato a Pigui il giorno dopo, i

poliziotti si congedarono. Issa li accompagnò fino al portone, scherzando ancora con il suo compagnodi studi, prima di tornare nel suo ufficio.

La 4x4 correva già da un po’ in direzione della sede della Squadra Anticrimine quando Sosso

disse:‒ Ha comunque un’aria simpatica il suo... Issa, capo.‒ Sì, Sosso. È sempre stato così, gioviale, simpatico, dinamico. Un vero seduttore. Non si può

affermare il contrario. E anche persuasivo. Di sicuro.‒ Ma pigro.‒ Mah, sì, non si può avere tutto.Un carretto tirato da un cavallo e carico di mattoni e sabbia bloccava le macchine.L’animale, spaventato, si rifiutava di andare avanti malgrado le frustate che gli piovevano sulla

schiena. I clacson e gli insulti cominciavano a farsi sentire, l’inizio di una baraonda che agitava ilpovero cavallo. Alla vista di due agenti che si dirigevano verso di lui con dei gesti minacciosi, ilproprietario del carretto preferì prendere le redini dell’animale e portarlo sul terreno di fianco allastrada.

‒ Poveretto, ‒ disse il commissario sorridendo tristemente, ‒ pagherà caro l’umore del suocavallo.

La circolazione si ristabilì poco dopo e Sosso poté andare un po’ più velocemente.‒ Credo che ci divertiremo nella regione dogon, ‒ continuò il commissario ironicamente. ‒ Con un

adolescente come sindaco, degli omicidi senza autore e senza arma, il tutto in un ambienteirrazionale, sarà un piacere.

‒ Assolutamente, capo! Solo che ho la sensazione che manchino dei dettagli sia nelle spiegazionidi Issa sia in quelle del sindaco. È strano.

‒ Sì, Sosso, e ciò che complicherà ancora di più tutto è l’interesse dei politici per questa storia.

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Dovremo essere prudenti. A ogni modo, è fuori discussione che io vada nella regione dogon senzaavvisare il mio superiore.

‒ In ogni caso, io sono contento, perché non dovrò guidare.‒ È vero, saremo dei re. Per una volta! ‒ concluse Habib ridendo.Cinque minuti dopo, Sosso posteggiò la 4x4 nel parcheggio della Squadra Anticrimine.

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CAPITOLO SEI La strada che porta a Mopti è probabilmente una delle più frequentate del Paese. Collega Bamako

a città la cui importanza economica è innegabile. Alla fine della stagione secca, la savana era in granparte ingiallita, popolata di radi alberi scheletrici.

Nella 4x4 del Ministero della Sicurezza Interna, il commissario Habib e l’ispettore Sosso nonavevano alcuna ragione per lamentarsi, perché il consigliere tecnico era stato di parola: il veicoloera più che confortevole.

In compenso, il consigliere aveva omesso di dire al suo compagno di studi che Samaké, l’autista,aveva un carattere alquanto singolare. Di piccola taglia, la figura rotonda, la parte superiore dellatesta calva, l’uomo trasudava gioia da tutti i pori. Rideva di tutto e di niente, scherzando con tuttisenza prestare alcuna attenzione all’umore dei suoi interlocutori. Fortunatamente per i poliziotti,esisteva un ostacolo alla loquacità estrema dell’autista: Samaké parlava e capiva appena il francese.In ogni caso, la sua guida controllata rassicurava i passeggeri.

‒ Dimmi, Samaké, ‒ gli chiese il commissario, seduto davanti, ‒ in che città sei nato?‒ Sono nato a Mopti, ma i miei genitori alla fine si sono stabiliti a San.‒ Ora vivono a San?‒ Uno dei miei fratelli e la sua famiglia sì. I miei genitori sono morti molto tempo fa.‒ Che Allah abbia pietà della loro anima, ‒ lo compatì il commissario come da prassi.‒ Amen, ‒ rispose Samaké meccanicamente. ‒ Mio padre era un commerciante. Tutti a Mopti lo

conoscevano. Bastava pronunciare il suo nome e mille persone ti indicavano casa nostra. Ma eratempo fa. I suoi nemici gli hanno gettato una maledizione: ha perso tutto, denaro e salute. È diventatopraticamente cieco. Allora siamo andati a San perché è la città d’origine della nostra famiglia.

‒ Conosci bene Mopti, quindi?‒ Certo! Ci ho vissuto trentanni e ci torno almeno due volte l’anno. E tu?Sul sedile posteriore, Sosso si irrigidì sentendo l’autista parlare al suo capo in modo così

familiare. Certo, in lingua bambara non ci si dà del lei, ma avrebbe potuto supplire largamente conl’intonazione. “Samaké non sa di sicuro chi è il passeggero seduto al suo fianco”, pensò Sosso.

Il commissario non sembrò offendersi per la troppa disinvoltura dell’autista.‒ No, ‒ rispose, ‒ la conosco poco.‒ Ci sei nato?‒ No, ma ci sono venuto uno o due volte, tanto tempo fa. Sono almeno dieci anni che non ci tomo.

Sembra che la città sia cambiata.‒ È cambiato tutto, anche le zanzare.‒ Pensa! ‒ si sorprese Habib.‒ Te lo giuro, ehm... non ti ho neanche chiesto il tuo nome, ‒ si ricordò Samaké.‒ Mi chiamo Habib Kéita.‒ Ah, ma sto portando mon esclave5. Il mio capo non me l’ha detto, altrimenti ti avrei annegato nel

fiume!Poi scoppiò a ridere. Habib non riuscì a non imitarlo, e anche Sosso sempre meno indisposto

dalla loquacità di Samaké.‒ E tu lì dietro? ‒ chiese l’autista all’ispettore.

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‒ Sosso Traoré, ‒ rispose quest’ultimo.‒ Ma tu, ‒ constatò l’autista, ‒ hai lo stesso nome delle zanzare6! Signore, il viaggio sarà tremendo

per te. Appena una zanzara di Mopti scoprirà il tuo nome, sarà la guerra. In un batter d’occhio, tuttele zanzare di Mopti arriveranno con i loro fucili e i loro bazooka. Bum! Bum! Bum! Peggio di unaguerra mondiale. Venire nel paese delle zanzare quando ci si chiama “zanzara”, che provocazione!Piccolo Traoré, vedrai di cosa sono capaci le zanzare di Mopti quando vengono provocate!

Anche il commissario scoppiò in una gran risata dopo che l’ispettore si era piegato dal ridere sulsuo sedile. Anche l’autista rideva di gusto.

I passeggeri raggiunsero la città di Ségou, capitale dell’antico regno dei Bamani o Bambari, con lesue case in terra dal fascino caratteristico e il suo mercato brulicante reso più visibile lungo tutta lastrada dai doubalens, alberi massicci dal fogliame sempreverde. Più ci si avvicinava al centro delpaese, più la 4x4 avanzava con difficoltà a causa della marea disordinata di mezzi e veicoli di ognigenere.

‒ Ecco, siamo a casa tua, Sosso, ‒ constatò Habib.Il suo collaboratore confermò, con una punta di fierezza nella voce.I paesi e i villaggi sfilavano, stendendosi sulla strada, che costituiva la loro unica risorsa di vita.

Costruite uniformemente in terra, le abitazioni coperte di paglia o di lamiera apparivano molto tristi,soffocate dal sole della stagione secca, scurite dalle folate di sabbia che le avvolgevano a tratti. Unamandria di mucche attraversava la strada, più lontano. L’autista rallentò e urlò qualche parola in Peulal pastore il quale, col bastone sulla spalla, si prendeva tutto il suo tempo e non si degnò neanche dirispondere. Dovettero aspettare che le vacche, con la loro andatura solenne, fossero tutte passateprima che la 4x4 riprendesse la sua corsa. Samaké urlò ancora una parola al pastore che, questavolta, rispose con veemenza.

‒ Dimmi, ‒ domandò il commissario all’autista, ‒ tu li conosci, i Dogon?‒ Nessuno può giurare di conoscere i Dogon, ‒ rispose Samaké con una gravità che non gli era

abituale. ‒ Ce ne sono a Mopti e un po’ dappertutto nella regione, ma vivono soprattutto a Bandiagarae nei villaggi vicini. Io non mi fido di loro.

‒ Ah, e perché? ‒ si sorprese il poliziotto.‒ Perché hanno dei poteri da stregoni. Hai visto il loro modo di vivere nei villaggi? Sembra di

essere ai tempi dei nostri Antenati.‒ Non sembrano infelici, è questo l’importante. Niente dimostra che vorrebbero vivere come te.‒ Lo so, ma quello che voglio dire è che sono persone di un’altra epoca. Li temo perché non li

capisco. E con tutto quello che si dice su di loro, ne ho ragione.‒ E cosa si dice? ‒ insistette Habib.‒ Sembra che tu stia facendo un’indagine, come se fossi un poliziotto, ‒ disse l’autista guardando

il commissario.Questa volta fu Sosso che urlò dal ridere lasciandosi cadere sul sedile. Samaké probabilmente

ignorava la caratteristica dei passeggeri che trasportava, e questo prometteva dei momenti di grandivertimento.

‒ Non è vero, amico zanzara? ‒ chiese l’autista all’ispettore divertito.I tre uomini ridevano come dei pazzi.‒ Habibou, ‒ continuò l’autista, ‒ i Dogon sono degli stregoni. Sono capaci di prevedere il futuro.

Basta che vadano a vedere la volpe, che chiamano yurugu, perché essa sveli loro tutti i segreti dellavita. Uomini che parlano con le bestie, l’hai mai visto? In ogni caso io non mi fido di loro. E se, pertua sfortuna, fai loro un torto, per te è finita: ti uccidono senza toccarti.

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Il commissario tese l’orecchio e, sul sedile posteriore, l’ispettore si tirò su.‒ Tu conosci un caso del genere? ‒ chiese Sosso.‒ Un sacco! ‒ affermò l’autista, sensibile all’attenzione che si era rivolta su di lui. ‒ Conosco un

sacco di casi. Basta che vadano a lamentarsi dal loro dio e questo realizza ogni loro volontà. Non sipuò sapere come uccidono, perché sono stregoni.

Samaké, in realtà, non faceva che ripetere dei luoghi comuni. Il commissario scosse la testa ediventò pensieroso. Nella macchina cadde il silenzio.

Dopo quasi cinque ore che erano partiti da Bamako, i viaggiatori cominciavano ad avere fame.Quindi, mentre attraversavano un grande villaggio, Habib domandò all’autista di parcheggiare vicinoa una rosticceria di carne di manzo, di cui andava matto. E mangiando, i tre viaggiatori ripresero lastrada per Mopti. Dopo un po’, Samaké dovette frenare per lasciare passare un uomo cheattraversava la strada seguito da una muta di cani.

‒ Povere bestie, ‒ le compatì il commissario, ‒ sono veramente magroline. Sembra che nonmangino da giorni. Che interesse c’è a possedere così tanti cani?

Il commissario si era espresso in francese, e l’autista non aveva capito granché, ma pensò di averintuito il motivo di disagio del poliziotto.

‒ Quei cani, ‒ spiegò, ‒ non fanno da guardia alle case, l’uomo vuole venderli.‒ Nessuno comprerà mai dei cani del genere, ‒ protestò Habib.‒ Oh sì, Habibou, non hai capito: sono per chi mangia i cani.Habib guardò l’autista come se vedesse un fantasma. Samaké non intendeva fermarsi lì.‒ Io non ne ho mai mangiata, ma sembra che la carne di cane sia la migliore. La si fa anche

arrosto, come quella che stiamo mangiando.Notando nello specchietto retrovisore l’espressione inorridita del suo capo, che sputò la carne che

stava masticando, Sosso si nascose la bocca, ma non riuscì a non ridere.‒ Oh, ‒ insistette l’autista, ‒ in questa regione si mangia anche carne d’asino. E anche a Ségou, che

la “zanzara” lo voglia o no. Detto tra noi, non so come si faccia a mangiare carne di asino! Mah!‒ Capo, ‒ intervenne Sosso vedendo l’espressione abbattuta del commissario, ‒ la carne che

stiamo mangiando è veramente di manzo. Vero Samaké?‒ Certo, questa è carne di manzo... o di capra, ma non di cane o asino.Il commissario non disse una parola. Rompendo il silenzio, l’autista si mise a salmodiare dei

versetti del Corano. Il viaggio continuò così fino a San, dove dovettero riposarsi.

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CAPITOLO SETTE La penisola di Mopti si presentò solo tre ore più tardi. La città era avvolta dalla luce rosseggiante

del sole al tramonto e dall’odore di pesce, e sfoggiava il fascino dei luoghi unici con le sue case diterra a più piani, il fiume sul quale andavano e venivano piroghe e chiatte dalle inscrizioni e dai nomimolto pittoreschi e con la sua brulicante folla variopinta.

La 4x4 si fermò davanti al commissariato di polizia. Mentre Samaké, probabilmente a causa dellafatica, aveva smesso di salmodiare i versetti del Corano da un bel pezzo e sonnecchiava, ilcommissario e l’ispettore entrarono nell’edificio rovinato, dove furono accolti dal commissario Bâ.

Era un uomo magro, quasi scheletrico, dai tratti e dall’accento peul.‒ Sa di sicuro perché sono qui, commissario, ‒ iniziò Habib.‒ Sì, la direzione mi ha avvisato del suo arrivo.‒ Ha delle informazioni sul caso di Pigui?‒ In realtà ne so ben poco. Di solito è la gendarmeria di Bandiagara che dovrebbe occuparsi di

questo caso, ma apparentemente anche loro non ne sanno molto.‒ Ed è normale che nessuno sappia niente? ‒ si sorprese Habib.Il commissario Bâ fece una smorfia per esprimere il suo imbarazzo. Nell’ufficio vicino, una voce

di donna protestava con veemenza mentre altre, maschili, tentavano di imporsi. A tratti, un rumoresordo risuonava contro il muro di cemento.

‒ Sa, commissario, — si decise infine a spiegare Bâ, ‒ è molto più complicato di quanto pensi.Sono stato informato in maniera non ufficiale di quello che dovrebbe essere successo a Pigui. Sembrache ci sia stato un duello seguito da due morti, o forse tre. Il problema è che non c’è nulla dirazionale né nella maniera con cui vengono raccontati i fatti, né nei fatti stessi. Sa, Pigui, come tutti ivillaggi di questa regione, sfugge a ogni controllo. Tutto ciò che vi succede resta nel più profondosegreto. Dubito che troverà qualcuno che osi dirle ciò che sa. È per questo che, quando la direzionenazionale mi ha domandato di farle avere tutto l’aiuto necessario, mi sono chiesto quale aiuto...

‒ Se capisco bene, commissario, ‒ lo interruppe il capo della Squadra Anticrimine, ‒ Pigui e ivillaggi attigui sono delle zone dove la legge non esiste.

‒ Non è così semplice, ‒ si difese il commissario Bà. ‒ Più precisamente, voglio dire che quellagente vive in un mondo con delle regole proprie, che non coincidono con le nostre. Mi creda,commissario, sono vent’anni che sono commissario in questa regione, ci sono nato, ma neanche unavolta mi è venuto in mente di cercare di sapere cosa succede a Pigui. Tutto il Paese conosce la suacompetenza, commissario, ma questa missione sarà difficile.

‒ E come devo procedere, secondo lei? ‒ chiese Habib, che era comunque turbato dallafranchezza del suo collega.

‒ È difficile da spiegare. Se le dico di usare dei metodi non razionali, conoscendola so che miprenderà per pazzo. Il vantaggio che ho su di lei, è che io sono nato qui. Io procederei diversamente.

‒ Se la sto seguendo, lei andrebbe da un marabutto perché le desse la chiave dell’enigma? ‒chiese Habib.

‒ Non esattamente, ma mi muoverei nello stesso modo dei Dogon.-Cioè?‒ Cioè mi rivolgerei ai loro indovini.

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Habib non riuscì a non ridere prima di dire:‒ E nel suo rapporto cosa avrebbe scritto? Che gli indovini dogon le hanno dato la soluzione?

Andiamo, commissario, capisco che la situazione non sia semplice, ma non mi vedo a domandare aun indovino di darmi una mano.

Il commissario Bâ parve irritato dalle parole del capo della Squadra Anticrimine: i suoi tratti finisi scavarono e una scintilla balenò nel suo sguardo.

Seduto alla sinistra del suo superiore, Sosso aveva seguito il dialogo senza dire una parola.Aveva capito molto in fretta che i due uomini, avendo tutti e due il difetto di andare dritti al punto,avrebbero fatto fatica a venirsi incontro. Così provò a evitare che il rapporto si inasprisse.

‒ Mi scusi, commissario Bâ, ‒ intervenne, — posso chiederle se conosce il sindaco di Pigui?‒ Certo, tutti lo conoscono, ‒ rispose Bâ, più disteso. ‒ Si chiama Dolo. È molto conosciuto a

Bandiagara...Nell’ufficio vicino, le proteste si erano trasformate in grida acute, e i muri tremavano per quei

colpi. Bâ si scusò e uscì.‒ Comincia a innervosirmi quest’uomo, — confessò Habib a Sosso. ‒ Per fortuna che ci sei tu.‒ Sì, capo. In un certo senso vi somigliate, capo, — aggiunse Sosso, perfidamente.Habib non ebbe la possibilità di rispondere, perché il commissario Bâ era già di ritorno.‒ È un’isterica che è qui ogni settimana, ‒ spiegò. -Pretende di discendere dal profeta Mohamed,

al quale non si può rifiutare nulla. Allora infastidisce tutti quanti. Impossibile internarla:provocherebbe una sommossa, perché la popolazione crede veramente che discenda dal profeta.Incredibile!

‒ Perché la arrestate, allora? ‒ si azzardò a domandare Habib.‒ Perché disturba l’ordine pubblico, ‒ rispose il commissario Bâ con enfasi, le braccia levate al

cielo.‒ Non vorrei essere al suo posto, in questo universo irrazionale, ‒ scherzò il capo

dell’Anticrimine.‒ Capisco perfettamente, ‒ confermò Bâ. ‒ Stavamo parlando del sindaco di Pigui. In effetti, è un

uomo piuttosto giovane, trenta, trentadue, trentacinque anni al massimo. Si chiama Dolo. Lo vedoogni tanto alle cerimonie ufficiali. Uno che gioca forte, questo sì. In ogni caso, molto gentile.Qualsiasi padre gli darebbe la figlia in sposa se la gentilezza fosse l’unico criterio di scelta. Comeva ora al comune di Pigui, ve lo può dire solo la gendarmeria di Bandiagara.

‒ Un’ultima domanda, commissario. Sinceramente, al mio posto cosa farebbe? ‒ chiese Habib.‒ Al suo posto, avrei declinato la responsabilità di questa inchiesta. Ma era impossibile, non è

vero? Allora non si faccia illusioni. Il mondo nel quale entrerà non è il suo. Per chi non lo conoscepuò essere pericoloso. Veramente. Sia prudente. È tutto.

‒ Non si può certo dire che le sue parole siano rassicuranti o incoraggianti.‒ Mi ha domandato di parlare in tutta franchezza. Be’, è quello che ho fatto, commissario. Mi

spiace se questo non le fa piacere.‒ Non si preoccupi, caro collega, ‒ replicò Habib, -non mi sciocca affatto, al contrario. Solo,

come sa bene, non mi piace lasciare le cose a metà. Starò attento come mi raccomanda, ma andrò finoin fondo. In ogni caso, grazie per la sua ospitalità e per le informazioni.

Habib e Sosso si alzarono, e anche Bâ.‒ Se posso ancora esserle utile, non si faccia problemi, commissario, ‒ concluse porgendo la

mano ai due poliziotti.La “discendente del profeta Mohamed” era seduta su una panca, in veranda, e recitava in maniera

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teatrale e senza sosta alcuni versetti del Corano. Era una vecchia signora dalla capigliatura bianca efolta e dallo sguardo brillante. I due agenti di polizia che la sorvegliavano sembravano piuttostovenerarla: la contemplavano a bocca spalancata, bevendo quelle sure come fossero acqua benedetta.

Il commissario Habib e l’ispettore Sosso attraversarono il cortile e si diressero verso il loroveicolo. Nuova sorpresa: l’autista Samaké era appoggiato alla 4x4, le mani giunte davanti a lui, allamaniera dei musulmani, e ascoltava soggiogato, la salmodia della discendente del profeta. Fu soloquando i passeggeri si furono sistemati nella 4x4 che l’autista si passò le mani sul viso, si sistemò alvolante e partì.

‒ Sapete chi è quella donna? ‒ chiese ai poliziotti.‒ No, ‒ gli rispose Sosso. ‒ Chi è?‒ Quella donna, zanzara, è l’ultima discendente del profeta in terra. Nessuno recita bene il Corano

come lei. Ha fatto il pellegrinaggio alla Mecca quattordici volte. E sempre a piedi. Mai unamacchina, mai un aereo! Nessuno sa quanti anni ha. È così da quando io ero un bambino qui, a Mopti.È una santa.

‒ Sì, ma infastidisce tutti. È per questo che la polizia continua ad arrestarla.‒ Ma no, non capiscono mai nulla i poliziotti. Sono troppo stupidi.‒ Ah be’, ‒ esclamò Habib.‒ Sì, ‒ confermò l’autista imperturbabile. ‒ Sono quarantanni che è stato detto loro di lasciare

quella donna in pace, ma non hanno mai capito niente. Ogni volta che l’arrestano, una sventura siabbatte su Mopti. Vedrete, questa sera o domani succederà una catastrofe.

‒ Lo pensi veramente? ‒ chiese Sosso, scettico.‒ Aspetta e vedrai. ‒ Tossì. ‒ Bene, ora verso Bandiagara, giusto?‒ Esatto: verso Bandiagara, ‒ confermò Sosso.L’autista tacque. Habib era pensieroso. Gli tornarono in mente le parole del commissario Bâ. La

sua tranquilla sicurezza, che l’aveva irritato, non si traduceva piuttosto in un diffuso fatalismo? Se isuoi interlocutori a Bandiagara e a Pigui erano creduloni quanto i poliziotti di Mopti di fronte alladiscendente del profeta, o superstiziosi come il sindaco e il commissario Bâ, il suo compito siprospettava piuttosto arduo.

Il sole sarebbe calato presto, tingendo a ponente tutto di uno strano rosso, come una moltitudine dilingue di fuoco che leccano il blu del cielo.

I pipistrelli passavano e ripassavano senza sosta o si rifugiavano negli alberi.‒ Ci siamo quasi, Sosso, ‒ notò Habib. ‒ Più ci rifletto, più mi dico che non sarà di sicuro un

gioco da ragazzi.‒ Sì, capo, ho questa impressione anch’io.‒ Quell’idea del commissario Bâ: andare da un indovino per capirci qualcosa. Non avrei mai

creduto che un commissario di polizia mi avrebbe proposto una tale incongruenza! Avrei credutoscherzasse. Invece no, ci credeva proprio.

‒ Dice che esercita la sua professione in questa regione da vent’anni, questo deve aver lasciatodei segni.

‒ Esatto! È per non averlo capito che mi sono stupidamente innervosito. È di qui e la pensa cometutti quelli di qui. Hai ragione, Sosso.

Mezz’ora più tardi, la 4x4 parcheggiò di fronte all’hotel Le Cheval Blanc, a Bandiagara. Ilportiere si impossessò prontamente della valigia e del borsone che erano nel bagagliaio. Mentre ilcommissario saliva i gradini, Sosso chiacchierava con l’autista Samaké. Quest’ultimo sperava diottenere il permesso di andare a dormire da dei conoscenti, a Mopti, per poter risparmiare sulle sue

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spese di soggiorno.‒ Quanti figli ha? ‒ chiese più tardi Habib a Sosso, che gli aveva confidato il desiderio di

Samaké.‒ Nove!‒ Certo, ‒ rispose il commissario. ‒ Che lo faccia; ma insisti perché sia qui domattina, alle sette!Ed entrò nell’hotel.

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CAPITOLO OTTO Il giorno dopo il capo della gendarmeria di Bandiagara, il luogotenente Jérôme Diarra, accolse il

commissario e l’ispettore con una gioia infantile. Habib era stato, infatti, il suo insegnante alla scuoladi formazione e ne aveva serbato un eccellente ricordo. Da buon allievo, ci teneva a mostrare al suoprof che aveva avuto successo. Il problema della supremazia tra gendarmeria e polizia si poneva quicome altrove, ma il commissario Habib occupava, sia per la sua fama che ufficialmente, un postoparticolare che imponeva il rispetto da tutti.

Certo, Bandiagara era una città piccola, ma il luogotenente doveva considerarsi fortunato, perché,per un neofita in un posto di comando, non era il caso di fare gli schizzinosi. Appena la 4x4 si fermò,il luogo-tenente si avvicinò con aria marziale, salutò, e gli si illuminò il viso di un ampio sorriso.

‒ Ah! ‒ esclamò Habib. ‒ Ma sei Jérôme?‒ Si, sono io, comandante, ‒ rispose il ragazzo con tono gioviale.‒ Allora ci ritroviamo. Bene.Appena vide Sosso, che si era attardato in macchina, il luogotenente abbandonò ogni ritegno, si

gettò al collo del suo compagno di scuola e, come dei bambini, i due ragazzi abbracciati si misero adanzare sotto lo sguardo commosso del commissario.

Nella 4x4 il conducente, sconcertato, osservava la scena. Malgrado il suo francese piuttostorudimentale, aveva alla fine scoperto la qualifica dei suoi passeggeri.

Una volta terminate le effusioni, il gendarme condusse i poliziotti nel suo ufficio.‒ Da quanto tempo occupi questo posto? ‒ chiese il commissario al luogotenente Diarra.‒ Da quattro anni, comandante.‒ Però! ‒ esclamò Habib. ‒ E non è un po’ troppo agitato, qui?‒ No, comandante. Ammetto che, senza i piccoli reati e i conflitti familiari, ci si annoierebbe,

invece.‒ Ah, però è proprio in questo luogo che sarebbero avvenuti i gravi fatti che ci hanno condotto

qui, ‒ si sorprese il commissario.‒ Effettivamente, ‒ riconobbe il gendarme, ‒ è nel mio territorio, ma non nella città di Bandiagara.

Questa è una città già cosmopolita, per così dire, vi convivono molte etnie diverse. I fatti di cui parlasono avvenuti a Pigui, che è un villaggio dogon, abitato solo da Dogon.

‒ Capisco. E cosa puoi dirmi di questi famosi fatti, Jérôme? ‒ chiese Habib.‒ Rischio di deluderla un po’, comandante, perché non ne so granché.‒ Ti sei recato sul luogo, immagino.‒ No, comandante.‒ E perché?‒ Perché ufficialmente non è successo niente.‒ Non è successo niente?‒ Nessuno ha sporto denuncia, non è stato dichiarato nessun decesso. Sono solo voci.‒ Sì, ma tu avresti potuto fare un’indagine per capire se le voci erano fondate.‒ Teoricamente sì, comandante, ma la realtà qui è un’altra. Interrogare chi, e a proposito di cosa?‒ Comunque, ‒ intervenne Sosso, ‒ i parenti delle vittime ti devono aver detto qualcosa.‒ Non proprio: nessuno ha mai sporto denuncia.

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‒ Non mettiamo i carri davanti ai buoi, ‒ disse Habib. ‒ Di questa storia sappiamo solo quello checi ha detto il sindaco. Puoi dirci la tua versione?

‒ Ecco: tutto sarebbe partito da un duello sulla falesia. Qui è una cosa frequente. Ci sono stati duemorti, un ragazzo e sua sorella, e un ferito grave. Quest’ultimo sarebbe morto la mattina dopo. Cosìcome uno dei suoi amici, che invece il giorno prima stava bene.

‒ Allora dov’è il problema?‒ Il problema, comandante, è che si crede che il ferito e il suo amico non siano morti di morte

naturale, ma che siano stati assassinati.‒ Da chi? Con cosa?‒ Vede, comandante, mi ricordo di quello che abbiamo imparato, ma la realtà nella quale sono

immerso qui non coincide con i metodi razionali che lei ci ha insegnato. Nel caso in questione,nessuno ha visto né l’assassino né l’arma del crimine, ma tutti sono convinti che i morti siano statiuccisi dallo spirito dell’Antenato dei Dogon. In questa ipotesi, che indagine posso condurre?

‒ Ah, allora le cose stanno così, ‒ mormorò il commissario, pensieroso.‒ Esattamente, comandante, ‒ disse trionfante il giovane gendarme. ‒ Qui tutto è complicato.‒ Dunque, se capisco bene, ‒ scherzò Habib, ‒ dovrei ricorrere a un indovino per capirci

qualcosa?‒ Neanche, ‒ rispose il gendarme ridendo, ‒ perché nessun indovino si immischierebbe in una

storia che ha a che fare con l’Antenato.‒ Allora dimmi, Jérôme, mi vedi a scrivere nel mio rapporto che l’assassino è l’anima

dell’Antenato?‒ Appunto, comandante. L’indagine che le hanno affidato è possibile? È questa la mia domanda.‒ Lo saprò solo nella pratica, ma posso sempre provare a capire cosa è successo. È già qualcosa.

Andrò comunque a visitare Pigui e il luogo del duello.‒ Vengo con lei, comandante, se me lo permette, ‒ propose il gendarme.Il commissario si alzò. Sosso e Diarra fecero lo stesso. Il capo della gendarmeria fece chiamare il

suo autista il quale, sfortunatamente, era introvabile.‒ Hai un gendarme fantasma nella squadra? ‒ scherzò Sosso.‒ Peggio! È un uomo unico nel suo genere. La sua unica passione sono le sue pecore. È capace di

restare un giorno intero a contemplarle, seduto di fronte alla stalla. Può tornare a casa anche quattro ocinque volte al giorno per vedere le sue pecore. Incredibile!

‒ Eh, bene, eccoti servito, ‒ disse Habib.‒ E non c’è nulla da fare, né le minacce, né le sanzioni, non cambia nulla. Ho finito per dirmi che

è un po’ disturbato. Del resto, tutta Bandiagara ride della sua fissazione.‒ Allora vieni con noi, ‒ lo invitò Habib. ‒ Il nostro autista non ha la passione per le pecore. O

almeno credo!

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CAPITOLO NOVE Poco dopo, Sosso e Diarra dietro e il commissario a fianco dell’autista, la 4x4 partì in direzione

di Pigui. Ci volle una mezz’ora di strada accidentata, attraverso un paesaggio di pietre grigie, perraggiungere il villaggio. Ma, visto che il paese era nascosto sul fianco della falesia, ci si potevaaccedere solo a piedi, esercizio non sempre ovvio per il commissario, costretto a guardare benedove metteva i piedi. A quell’ora del mattino, c’era poca gente. Solo qualche donna, la testa carica disacchi o di brocche d’acqua, che si inerpicava o scendeva la falesia con un’agilità sorprendente. Lesi sentiva continuamente salutarsi da lontano.

‒ È qui che si è svolto il duello, ‒ spiegò il luogotenente Diarra ai poliziotti quando arrivarono aipiedi della tavola di pietra sospesa nel vuoto.

Seguì un breve silenzio. Il commissario e il suo collaboratore osservarono lo strano oggetto.‒ Certo, per chi cade da qui è morte certa, ‒ affermò Habib. ‒ Il miracolo è che qualcuno ne sia

scampato. Hai un agente originario di questo paese, Jérôme?‒ No, comandante, ‒ rispose Diarra.‒ Dove si trova il comune?‒ È quella casetta di terra proprio di fianco all’arbusto, ‒ spiegò il gendarme, indicandola.I tre uomini si diressero verso il luogo in questione, dove effettivamente si trovavano il giovane

sindaco e due dei suoi consiglieri, giovani quanto lui. Una macchina (probabilmente del sindaco) edue moto Yamaha rosse e blu erano parcheggiate nel cortiletto.

Quel giorno il sindaco era vestito con un ampio boubou di bazin blu cielo, finemente ricamato einamidato, mentre i consiglieri erano in camicia e pantaloni di buon taglio. Uno di loro sfoggiavaanche degli occhiali da sole piuttosto stravaganti, rossi e neri, l’altro indossava al polso un orologiod’oro di marca Kili. Questi piccoli dettagli non sfuggirono all’occhio del commissario Habib, tantopiù che l’interno del comune, ammobiliato sommariamente con un tavolo in ferro, quattro sedie dimetallo e una panca di legno bianco, contrastava con l’abbigliamento ricercato dei suoi occupanti.Dopo i saluti d’obbligo, il sindaco e i suoi consiglieri cedettero le loro sedie di metallo agli ospiti esi sistemarono sulla panca.

‒ Ci rivediamo, quindi, signor sindaco, ‒ cominciò il commissario. ‒ A Bamako mi ha detto che cisono stati due morti, uno era un suo consigliere, e che teme per la sua vita e per quella dei suoiconsiglieri. Immagino che siano questi ragazzi.

‒ Esatto, commissario.‒ Allora, faccia uno sforzo per dirmi tutto quello che sa.‒ Nèmègo, ‒ spiegò il sindaco, ‒ si è battuto in un duello con il suo amico Yadjè, sulla falesia.

Era per una ragazza, la fidanzata di Yadjè, che stava anche con Nèmègo. I due ragazzi sono cadutidalla falesia. Yadjè è morto sul colpo invece Nèmègo è sopravvissuto. La mattina dopo, l’amico diNèmègo, Antandou, anche lui uno dei miei consiglieri, e Nèmègo stesso sono morti. Ecco.

‒ Era presente il giorno del duello? ‒ gli chiese Habib.‒ Io no, ma Ouologuem e Ali sì, ‒ spiegò il sindaco indicando i suoi consiglieri.‒ Allora cosa le permette di dire che Nèmègo e Antandou sono stati assassinati? Nèmègo era

ferito gravemente e, visto che non è stato portato in ospedale, non mi sorprende che sia morto durantela notte per le ferite.

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‒ Forse, commissario, ma Antandou, invece, non era malato.‒ Lei non è un medico! Si può essere malati senza presentare sintomi visibili.‒ Antandou è morto nello stesso modo di Nèmègo. Ho visto i loro corpi gonfi, il sangue agli

angoli della bocca, ‒ protestò il sindaco.Il commissario restò un momento in silenzio, gli occhi fissi sul ragazzo infagottato nel suo ampio

boubou.I suoi colleghi erano immobili e muti. Era uno spettacolo che non piaceva ad Habib.‒ Comunque lei non crede che sia lo spirito del vostro Antenato ad averli uccisi? ‒ chiese al suo

giovane interlocutore.‒ Crediamo nello spirito del nostro Antenato, ma questa volta non è stato lui a uccidere.‒ Supponiamo, ‒ replicò il commissario, ‒ che qualcuno abbia ucciso i vostri colleghi, perché

siete così convinti di essere minacciati?‒ Lo avvertiamo perché conosciamo il villaggio.‒ E perché ce l’avrebbero con voi?‒ Per gelosia.‒ Perché siete a capo del paese?‒ Sì, e attraverso di noi si è gelosi delle nostre famiglie. Chi ce l’ha con noi ce l’ha anche con la

nostra famiglia.‒ Sì, ma chi precisamente? Perché immagino che sospettiate di qualcuno. Allora, chi?Il sindaco esitò leggermente prima di rispondere:‒ Ci sono molte persone che ce l’hanno con noi, qui.‒ Lei è stato eletto, no?‒ Sì, commissario, e in maniera ufficiale, ‒ rispose il sindaco con tono fermo, al massimo della

correttezza. ‒ C’è stata un’elezione di consiglieri municipali perfettamente trasparente. E io sonostato eletto con il 99% dei voti.

‒ Quello che mi sorprende, allora, ‒ notò Habib, ‒ è che molti ce l’abbiano con lei, quando è statoeletto quasi all’unanimità.

Il giovane sindaco sembrò perdere la sua sicurezza. Fu allora che intervenne il luogotenenteDiarra:

‒ Scusatemi se mi inserisco nel vostro dialogo, ma vorrei sottolineare che ha votato solo il 6%degli iscritti. Penso che questo dettaglio relativizzi quello che dice il sindaco.

‒ Sì, ma non abbiamo impedito a nessuno di votare! ‒ replicò l’eletto con così tanta veemenza dasorprendere i poliziotti e il gendarme.

‒ Non sto giudicando, ‒ spiegò Diarra. ‒ Voglio semplicemente che il commissario abbia tutte leinformazioni per farsi un’opinione più corretta. Tutto qui.

‒ Non se la prenda, stiamo solo cercando di capire. Ma mi dica, signor sindaco, lei è membro delpartito Rédemption Africaine?

‒ Sì.‒ E questo partito ha la maggioranza, qui?‒ Sì. In effetti, non c’è opposizione.‒ Nel comune di Pigui?‒ Non solo a Pigui, ma in quasi tutti i comuni della regione dogon. E non solo.Il commissario Habib si accontentò di annuire guardando uno alla volta i tre ragazzi, fino a quando

l’ispettore Sosso chiese al sindaco: ‒ Una domanda personale, signor sindaco, e anche a voi signoriconsiglieri: di cosa vivete? Si sa che l’indennità del comune è piuttosto modesta.

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‒ Io sono infermiere, ‒ rispose il sindaco.‒ Io sono un insegnante del primo ciclo, ‒ rispose Ouologuem.‒ Anch’io, ‒ aggiunse laconicamente Ali.Dei tre ragazzi, Ali sembrava il più fragile. Durante il lungo dialogo tra i poliziotti, non aveva mai

smesso di agitare le gambe come se ballasse. A volte sembrava avesse voglia di parlare, ma unattimo dopo si raggomitolava su se stesso. A tratti si asciugava il viso o si sventolava con ungiornale, benché non facesse molto caldo.

I tre visitatori presero congedo subito dopo che Sosso e i tre ragazzi si furono scambiati i bigliettida visita. Il sindaco e i suoi consiglieri rimasero a lungo sulla soglia del comune a guardare glistranieri andarsene.

‒ Accidenti! ‒ imprecò il commissario. ‒ Ritorniamo dal sindaco: vorrei sapere dove sonoseppelliti i morti.

‒ Posso informarla io, comandante, ‒ intervenne il luogotenente Diarra. ‒ I morti in realtà nonvengono seppelliti, ma deposti in una specie di grotta, sulla falesia in alto. Proseguiamo dritto e vimostrerò il luogo.

Una decina di metri più in là, il luogotenente Diarra indicò, sul fianco della falesia, la grotta inquestione.

‒ È là che sono deposti i corpi, ‒ spiegò.‒ Ma come fanno a salire là in alto con i corpi? ‒ si sorprese Habib.‒ Qualcuno li issa con una corda mentre altri sono sul pendio per riceverli.In quel preciso istante, uno spettacolo incredibile si offrì ai tre uomini: con una bisaccia sulla

spalla, un uomo scalava agilmente la falesia a una velocità impressionante. Ci si chiedeva cometrovasse le asperità che gli permettevano di aggrapparsi per non schiantarsi sulle rocce. Quellaagilità felina stupì il commissario e il suo collaboratore. Il luogotenente della gendarmeria, invece,sembrava meno impressionato.

‒ È Kodjo, soprannominato il Gatto, ‒ spiegò. ‒ Si arrampica così due volte al giorno: all’alba eal crepuscolo. Raramente a quest’ora.

‒ E dove va in questo modo? ‒ chiese il commissario.‒ Mistero, comandante. Sembra che conversi con l’Antenato, là in alto. È quello che si dice.‒ Ed è questo il suo mestiere?‒ Più che altro è un indovino. Sembra che sia uno dei migliori predicatori della regione. Si dice

che decifri i misteri del futuro leggendo le tracce delle orme della volpe che i Dogon chiamanoyurugu. È anche un esperto di piante medicinali.

‒ Sembra proprio un gatto, ‒ ammise Sosso.‒ Oh, aspetta a vederlo! Ha anche la faccia da gatto. È un completo mistero. In verità, non amo

quell’uomo. Non mi fido di lui.‒ Tu non ti fidi dei misteri, Jérôme, ‒ notò il commissario, ‒ come tutti i comuni mortali.Raggiunta la cima della falesia, il Gatto sparì dietro un cespuglio, come per magia.‒ Ah! Mi immagino Sosso mentre scala questa falesia, lui, che la sola vista dei caimani lo riempie

di terrore, ‒ scherzò Habib.Il luogotenente Diarra scoppiò a ridere dando delle pacche sulla schiena di Sosso che si difese:‒ Capo, io ho ancora voglia di vivere.‒ Ti capisco perfettamente, Sosso, ‒ replicò il commissario. ‒ Sfortunatamente, quando bisognerà

parlare con il Gatto, sei tu che dovrai raggiungerlo dall’Antenato.‒ Comandante, ‒ intervenne Diarra, ‒ penso che sarebbe bene fare una visita di cortesia all’hogon,

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il capo spirituale. Qui è molto importante. Anche se non parlate del motivo della vostra presenza.Siamo sul suo territorio e finirà comunque per scoprire perché siete qui.

‒ Idea eccellente, Jérôme, ma considera che sarebbe la stessa cosa in qualsiasi altro villaggio delMali. Forza, portaci dall’hogon. Visto che la nostra indagine si deve svolgere a ritmo maliano,andiamo!

Scesero nelle magre viscere di Pigui: un labirinto. Incontrarono una coppia di turisti bianchi cheparlavano in francese con un forte accento americano e fotografavano tutto quello che vedevano, suconsiglio della loro guida, che svolgeva il suo compito con evidente piacere. La presenza di ungendarme in divisa aveva probabilmente incuriosito la coppia di bianchi, che interrogò il suomentore. Si sentì la parola “gendarme”.

Tutto a un tratto, il luogotenente tirò brutalmente Sosso per un braccio.‒ Attento, Sosso, ‒ disse, ‒ stavi per camminare su un altare.In effetti, davanti a Sosso c’era un piccolo quadrato di terra sul quale si trovava una pietra

oblunga coperta di un materiale biancastro. Si sarebbe pensato a tutto, tranne che a un altare.‒ So che non è molto visibile, ‒ disse Diarra. ‒ La prima volta che sono venuto qui, ci ho

camminato su. Bisogna essere del posto per saperlo. Scusa se ti ho spinto, Sosso.Il commissario e l’ispettore erano talmente sorpresi che non dissero una parola. Solo qualche

minuto più tardi il commissario osò confessare, borbottando:‒ E dire che sono nato in Mali, che ci ho sempre vissuto e che non sono niente di tutto ciò! Che

vergogna!Vari giri e rigiri tra le capanne e i granai li portarono sulla piazza centrale. Dei bambini, le mani

piene di cianfrusaglie, si tenevano a distanza dagli stranieri, probabilmente intimiditi dalla divisa delluogotenente di gendarmeria. Alcuni anziani, che indossavano un cappello a punta con grandi risvoltiper coprire le orecchie e un abito di cotone color ocra, chiacchieravano intorno a una borraccia dibirra di miglio che bevevano golosamente. Riconobbero il luogotenente Diarra e lo invitarono,ridendo fragorosamente, a condividere il loro “caffè”. Le battute durarono per un po’, prima cheDiarra conducesse i suoi ospiti piuttosto lontano dal villaggio, nella dimora dell’hogon, unacostruzione in terra ocra dalle mura ricoperte di sangue di animali sacrificati e di tracce di pappa dimiglio seccata, offerta per gli spiriti. Nel cortile, oltre a una casetta di argilla sulla cui porta eranoscolpite figure di personaggi e un serpente, si trovavano due granai. Un uomo era appoggiato a uno diessi e sembrava dormire. Ma, sentendo i visitatori salutarlo, si alzò subito e si informò, in manieramolto civile, della ragione della loro visita. Incuteva soggezione per il suo fisico atletico e la suaaria imperturbabile.

‒ Desideriamo rendere omaggio all’hogon, ‒ spiegò Diarra.‒ Che Dio vi benedica, ‒ rispose l’uomo, ‒ ma l’hogon è malato da una settimana. Si riposa. Sono

il suo assistente. Sedetevi.Apparve una donna e portò rapidamente tre sgabelli sui quali presero posto gli stranieri. Qualche

istante dopo, si inginocchiò di fronte a loro e offrì un recipiente con dell’acqua, probabilmente lostesso che proponeva a tutti i visitatori, certamente numerosi.

‒ Comandante, faccia finta di bere, ‒ mormorò il luogotenente Diarra, quando notò l’imbarazzodel commissario.

Alla fine, ognuno dovette bagnarsi le labbra, e la giovane donna, sempre in silenzio, si affrettò aportare via l’otre.

‒ Che Dio porti la pace a questa giornata, ‒ salutò l’assistente dell’hogon.‒ Amen, ‒ risposero in coro gli stranieri.

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‒ Ho l’impressione di averti già visto, ‒ disse l’assistente dell’hogon al luogotenente. ‒ Qual è iltuo nome?

‒ Diarra, ‒ rispose il luogotenente.‒ Ah! Diarra, il gendarme di Bandiagara! -esclamò l’uomo. ‒ Ti ho visto una sola volta, quando

sei venuto a rendere omaggio all’hogon almeno quattro o cinque anni fa. Io non vado quasi mai aBandiagara. Non vado da nessuna parte, in effetti. La mia vita è qui, al fianco dell’hogon. Ma chisono i tuoi compagni?

‒ Lui è Kéita, lui Traoré, ‒ rispose il gendarme indicando Habib e poi Sosso.‒ Kéita e Traoré, capisco. Io sono Douyon. Siete nostri parenti. Siete parenti dei Dogon. Sapete,

molto tempo fa, al tempo dei nostri Antenati, vivevamo nella regione Mandé. È stato solo dopo che cisiamo insediati qui. Siamo veramente parenti. Qui siete a casa vostra. Venite da Bamako?

‒ Sì, ‒ rispose il commissario.‒ Come stanno le vostre mogli e i vostri figli?‒ Stanno bene. Ma io ho una sola sposa, ‒ non poté non precisare il commissario, provocando

così le risate dei suoi compagni.‒ Hai ancora una sola moglie? ‒ si sorprese l’assistente dell’hogon. ‒ E quando ne sposerai altre?‒ Una mi basta abbondantemente, ‒ disse Habib. L’assistente guardò Habib con un’aria sorpresa e

forse anche di condiscendenza.‒ L’uomo, ‒ affermò, ‒ dovrebbe avere più mogli. Ma è vero che ognuno obbedisce alla propria

stella. Se questo è il tuo cammino per la felicità, ben venga. Cosa siete venuti a fare a Bandiagara?‒ Sono dei funzionari, ‒ si affrettò a rispondere il luogotenente Diarra. ‒ Vengono a visitare i

comuni e i diversi luoghi di lavoro per vedere se va tutto bene. Qui va tutto bene, non è vero,Douyon?

‒ Per la grazia del nostro divino Amma, qui va tutto bene. Si potrebbe dire altrimenti quando nonsi muore di fame e si sta bene con il proprio corpo e con la propria anima? Sì, qui va tutto bene.

“Quest’uomo non è uno stupido”, pensò il commissario. In effetti, Douyon possedeva l’arte deldialogo: costantemente in guardia, senza mai dire una parola di troppo e cercando di penetrare ipensieri del suo interlocutore, rimaneva di una gentilezza incredibile.

E la sua voce, profonda e calda, era per lui una carta vincente.‒ L’hogon non si sente bene da una settimana, -spiegò Douyon. ‒ È a causa del brutto vento e del

caldo. È dura per un uomo anziano.‒ È andato dal medico? ‒ chiese ingenuamente Sosso.‒ Il medico? ‒ si sorprese l’assistente dell’hogon. -No. Noi non andiamo dal medico. Conosco a

sufficienza le piante per poterlo curare. Il medico è una cosa da gente di città. Basta sapere di cosasoffre il paziente e si trova la pianta che può guarirlo.

‒ Ma può succedere che non trovi il rimedio, ‒ insistette Sosso.‒ Sì, ‒ riconobbe Douyon, ‒ ma in quel caso non si tratta di una malattia ordinaria e penso che

neanche il medico possa fare qualcosa.Il commissario pensò fosse opportuno intervenire: ‒ I giovani vedono le cose nella tua stessa

maniera, Douyon? ‒ chiese.Per la prima volta l’uomo sembrò riflettere più a lungo del solito. La risposta arrivò comunque

con voce sicura: ‒ Sai, Kéita, il mondo non è più come prima. I nostri figli non ci somigliano affatto.Ma un bambino è un bambino: bisogna insegnargli a comportarsi correttamente ed efficacemente. Senon seguono i loro genitori, si perderanno.

Decisamente quest’uomo possedeva alla perfezione l’arte di parlare restando impenetrabile.

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Il commissario si accontentò di constatarlo.‒ Siete arrivati ieri pomeriggio, vero? ‒ affermò più che domandare l’aiutante dell’hogon quando

i suoi ospiti presero congedo. ‒ E quanti giorni resterete a Bandiagara?‒ Oh, solo qualche giorno, ‒ gli rispose il commissario. ‒ Il lavoro ci aspetta a Bamako.‒ Non ne dubito. Dirò all’hogon che siete venuti a rendergli omaggio.‒ Torneremo di sicuro a trovarlo prima di tornare a Bamako, ‒ concluse Habib.Si salutarono di nuovo a lungo, poi gli ospiti se ne andarono.

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CAPITOLO DIECI Il luogotenente Diarra aveva un appuntamento nel primo pomeriggio. Partì quindi subito per

Bandiagara con Samaké, l’autista. Il commissario Habib e l’ispettore Sosso decisero di pranzare alristorante dell’hotel La Falaise, a Pigui. Era un piccolo edificio blu e bianco, molto grazioso.C’erano già alcuni turisti. Un piccolo impianto, i cui altoparlanti gracchiami sembravano tenere soloi suoni acuti, diffondeva musica maliana. Piccole sedie in bambù, non sempre stabili, circondavanodei tavolini, anch’essi in bambù, in una disposizione molto poco estetica. Ai muri si trovavano deiquadri naif, che dovevano rappresentare la vita quotidiana e la mitologia dei Dogon. Il luogo erafresco e pulito: cosa domandare di più a uno stabilimento turistico a quasi ottocento chilometri daBamako?

‒ Stai sicuro di una cosa, Sosso, ‒ disse Habib, -Douyon, l’aiutante dell’hogon, sa chi siamo. Eprobabilmente anche perché siamo a Pigui. È un uomo onesto, ma come tutti i comuni mortali non hail pieno controllo delle sue emozioni. Non hai sentito la sua esitazione quando gli ho parlato deigiovani? Inoltre ha affermato, ed è stata l’intonazione della voce a tradirlo, che siamo arrivati ieripomeriggio, non a Pigui, ma a Bandiagara.

‒ Sì, capo, ‒ confermò Sosso, ‒ mi ha fatto una strana impressione. Mi sono detto che è uneccellente attore.

‒ Allora siamo d’accordo.Il commissario si interruppe e guardò nella stessa direzione di Sosso, che aveva smesso di colpo

di prestare attenzione alle sue parole.‒ Sembra che tu abbia visto il diavolo, ‒ lo punzecchiò Habib.‒ Capo, ‒ fece notare il giovane poliziotto, ‒ quell’uomo sulla moto, ai piedi dell’albero, è Ali,

uno dei consiglieri del sindaco di Pigui.‒ E allora?‒ Ho la sensazione che ci segua da un po’. Probabilmente ha il desiderio di parlarci. Tomo subito.L’ispettore si diresse verso Ali, con il quale si trattenne a lungo prima di portarlo nel ristorante. Il

ragazzo accettò l’invito a pranzo con qualche reticenza e sembrava nervoso sulla sedia un po’ troppobassa per la sua alta statura.

‒ Ali, ‒ iniziò il commissario, ‒ il tuo nome non è dogon, se non sbaglio. I tuoi genitori sonomusulmani?

‒ Sì, ‒ rispose Ali. ‒ Si sono convertiti all’Islam poco prima della mia nascita.‒ Ci sono molti convertiti come voi qui?‒ No, siamo solo alcuni.‒ Non vi crea dei problemi essere musulmani in mezzo agli animisti?‒ Oh, ogni tanto ci sono delle incomprensioni, ma non si va oltre.‒ I tuoi genitori sono veramente praticanti?‒ Sì. Mio padre è anche stato muezzin. È morto non molto tempo fa. In modo strano. Molto strano.‒ Ah! ‒ disse il commissario. ‒ Frequentava gli altri anziani?‒ Sì, ma non so come andava tra loro.Probabilmente Ali non voleva dire di più. Il commissario quindi non insistette. Inoltre il pranzo

non tardò a essere servito: riso col pollo. Habib girò e rigirò il pollo sotto lo sguardo beffardo di

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Sosso. I tre commensali cominciarono a mangiare. Sosso ordinò un quarto di vino rosso e fu un po’sorpreso che Ali accettò di dividerlo con lui.

‒ Per essere il figlio di uno che è stato muezzin, sei piuttosto sfacciato, Ali, ‒ constatò Habib.‒ Faccio di tutto perché non mi si noti, ‒ spiegò scoppiando a ridere.‒ Errore, figliolo, ‒ spiegò il commissario, ‒ nella nostra società, e a maggior ragione in un

paesino come Pigui, tutti vedono tutti. Un giorno si saprà. Quando studiavo in Francia, nondisdegnavo il buon vino rosso, soprattutto perché vivevo nella zona di Bordeaux. Ma, una volta qui,mi sono dovuto riconvertire all’acqua, non sempre potabile, del resto. Mi immagino la faccia di miamadre se le avessero detto che il figlio beveva.

‒ Commissario, ‒ disse Ali, il cui calore dell’alcol aveva probabilmente sciolto la lingua, ‒volevo dirle che è successo qualcosa prima della morte di Nèmègo.

‒ Qualcosa? Che cosa? ‒ gli chiese il commissario con tono grave e quasi preoccupato.‒ Lo zio di Yadjè, si chiama Djènè Kansaye, è andato dalla famiglia di Nèmègo la sera del duello.

E ha giurato che Nèmègo non sarebbe sopravvissuto.‒ Ah, ‒ si sorprese il commissario, ‒ e tu come lo sai?‒ Me lo ha detto la sorella di Nèmègo.‒ Lo conoscevi, Nèmègo?‒ Sì, tutti lo conoscevamo. Prendevamo spesso il tè insieme.‒ E anche Antandou, immagino.‒ Sì, anche Antandou. Era consigliere municipale. Si fermava con noi più raramente, ma lo

conoscevo.‒ Lo zio di Yadjè ha minacciato di morte anche Antandou?‒ Non lo so. Non mi hanno detto niente.Il commissario guardò Ali, che aspirava il fondo del bicchiere. Sosso ordinò un altro quarto di

rosso.‒ Dimmi, Ali, ‒ chiese l’ispettore all’ospite, i cui occhi iniziavano a brillare un po’, ‒ ci si fida

qui dello zio di Yadjè?‒ Fa paura a tutti, ‒ rispose Ali.‒ Ha già ucciso?‒ Non lo so. Non si può sapere. I suoi poteri magici spaventano tutti a Pigui.‒ Va bene, ‒ intervenne Habib, ‒ ma si può anche minacciare senza passare all’azione.‒ Certo, commissario, ma sembra che sia restato praticamente tutta la notte in piedi dietro la casa

del padre di Nèmègo. Non si sa cosa stesse facendo.‒ Allora glielo chiederemo. In ogni caso, grazie per queste informazioni. Ma non bere più per

oggi, la lingua ti diventa pastosa. E soprattutto, stai attento quando guidi.Il ragazzo rise senza ritegno e posò la mano sulla spalla di Sosso.‒ Niente da dichiarare, commissario, ‒ disse agitando l’indice della sua mano libera. ‒ Per la

moto, niente da temere.‒ E ora dove vai? ‒ chiese l’ispettore.‒ Al grin7, ‒ lasciò cadere il consigliere del sindaco non senza fierezza.Camminò verso la sua moto senza fare passi falsi e partì dopo aver detto: ‒ A questa sera, Sosso!‒ Penso che ci preoccupiamo per nulla, ‒ fece notare il commissario al suo collaboratore. ‒ Il

giovane Ali e l’alcol sono più complici di quello che crediamo.Sosso scoppiò a ridere.I poliziotti dovettero ripercorrere i sentieri tortuosi di Pigui per andare da Djènè Kansaye. Poiché

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non c’erano né nomi di vie né qualsiasi altro riferimento, non restava altro che domandare la stradaai passanti.

‒ È strano, ‒ disse il commissario. ‒ Ho l’impressione di brancolare nel buio. Niente di concretoa cui aggrapparsi. Non è una bella sensazione.

‒ Il problema, capo, è che non si possono neanche vedere i corpi, cosa che avrebbe potutoaiutarci.

‒ È vero, Sosso, sai bene che è fuori questione procedere con un’autopsia. Immagina la reazionedei Dogon se osassimo toccare i cadaveri. Inoltre, in alto come sono, non vedo chi potrebbe andare aprenderli. Ma perché ci hanno mandato qui, accidenti?

Il commissario doveva essere veramente a disagio per lasciar trapelare la sua preoccupazione inmaniera così evidente.

“Forse è anche a causa del caldo e del viavai continuo tra le capanne di Pigui, su questi sentieripietrosi”, pensò Sosso.

La casa di Kansaye, che alla fine trovarono, era simile a tutte le altre. Sotto un piccolo capannone,un ragazzo intrecciava una corda. Invitò gli stranieri a prendere posto su degli sgabelli, si informòdella ragione della loro visita ed entrò in un’altra capanna. Una donna, seduta davanti alla cucina,macinava delle erbe per cucinare. Dopo aver salutato a lungo i poliziotti, si alzò e, in ginocchio, offrìloro da bere in un recipiente.

Habib e Sosso avevano imparato la lezione: fecero finta di bere e resero il contenitore alla donna,che ringraziarono. Poco dopo, il ragazzo uscì dalla capanna, seguito da un uomo anziano checamminava appoggiandosi a un bastone: era Kansaye. Ci si salutò di nuovo cortesemente e il vecchioprese posto su uno sgabello, di fronte ai suoi ospiti.

‒ Il mio pronipote mi ha detto che desiderate parlarmi, ‒ cominciò.‒ Sì, ‒ confermò il commissario. ‒ Siamo della polizia e siamo venuti da Bamako per capire cosa

è successo qui in questi ultimi giorni. Sappiamo che suo nipote Yadjè è morto in un duello. Potrebbefornirci più spiegazioni?

I tratti del vecchio si indurirono e si irrigidì sullo sgabello:‒ Quello che succede dai Kansaye riguarda solo me, ‒ rispose in maniera netta. ‒ Se questa è la

ragione della vostra visita, non vi trattengo.‒ Mi scusi, Kansaye, penso di essermi espresso male. È come se fossimo dei gendarmi. Peraltro, è

Diarra, della gendarmeria di Bandiagara, che ci ha accompagnato fin qui. Quando c’è un morto daqualche parte, è nostro compito sapere come è successo, -spiegò il commissario.

Kansaye parve rilassarsi. Si passò la lingua sulle labbra. Habib pensò che un uomo della sua etàaveva probabilmente smesso di viaggiare da qualche anno o che, come l’aiutante dell’hogon, magarinon aveva mai viaggiato. Kansaye probabilmente ignorava cos’era un poliziotto. Forse lo confondevacon un qualsiasi funzionario, di cui gli abitanti dei villaggi non hanno grande stima, mentredappertutto nel Paese c’era la paura della gendarmeria.

‒ Ho capito, ‒ si limitò a rispondere il vecchio che tacque, poi si passò le sue mani tremolanti sulviso, senza lasciare il bastone.

‒ Yadjè era mio nipote, il figlio, l’unico figlio maschio di mio fratello Séguémo. Séguémo era ilmigliore uomo del mondo. Aveva il cuore di un bambino. Nessuno l’ha mai sentito dire male diqualcuno, non ha mai fatto male a nessuno. Il giorno in cui mia moglie e tre dei miei figli sono mortiper colpa di un camionista ubriaco, ho talmente sofferto che sono rimasto paralizzato. Séguémo si èoccupato con così tanta cura di me! Senza di lui sarei rimasto paralizzato per tutto il resto della miavita. Sono stati il suo calore, la sua generosità che mi hanno fatto rinascere. Mi ha insegnato che non

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bisogna mai arrendersi. E, un giorno, è morto. L’ho trovato seduto, appoggiato a un albero, nellaboscaglia. Il suo corpo non aveva ferite. Era un segno. Sua moglie non ha retto il colpo: non è più sé.Yadjè era ancora piccolo. Per me è mio figlio, non solo un nipote. Ho vegliato su di lui come avreivegliato sui miei figli se avessero vissuto più a lungo. Ho voluto infondergli i valori ai quali tenevasuo padre. Aveva la sua generosità e il suo coraggio di fronte alle avversità. Sfortunatamente eratroppo buono. Era la sua debolezza. Il mio compito era proteggerlo.

Quando il vecchio tacque, il commissario Habib gli chiese:‒ Quando ha voluto battersi con Nèmègo avrebbe potuto impedirglielo.‒ Al contrario, ‒ protestò Djènè, ‒ l’ho incoraggiato. Nèmègo era il suo amico, ma era un cattivo

amico. Meritava un castigo esemplare.‒ Il giorno del duello, ‒ domandò il commissario, ‒ a un certo punto è andato dalla famiglia di

Nèmègo?‒ Sì. Come sapete, mio nipote e sua sorella sono morti sul colpo, ma Nèmègo è sopravvissuto. La

sera sono andato da suo padre.‒ Per quale ragione?‒ Ho detto ai suoi genitori che Nèmègo non sarebbe sopravvissuto in nessun caso.‒ Come poteva esserne sicuro?‒ Se la morte non l’avesse ucciso, me ne sarei occupato io.‒ È restato a lungo?‒ Nella capanna no. Mi sono fermato a lungo dietro la loro concessione.‒ E perché?‒ Pensavo a mio nipote e a quello che avrei fatto.‒ E Nèmègo è morto per le ferite?‒ È morto per il suo tradimento.‒ È tornato da Nèmègo?‒ No.‒ Ho capito, ‒ disse il commissario alzandosi.‒ Qualcuno potrebbe condurci dalla madre di Yadjè? Vorremmo porgerle le nostre condoglianze,

-domandò Sosso.Il vecchio fu sensibile a questo segno di simpatia e la sua voce divenne più calorosa.‒ Vi accompagna il mio pronipote, — disse. — Ma ve l’ho detto: mia cognata non è più in sé.

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CAPITOLO UNDICI Preceduti dal pronipote di Kansaye, che si eclissò una volta compiuta la sua missione, i poliziotti

entrarono nella capanna della madre di Yadjè. Era seduta direttamente per terra, in mezzo al cortile,e setacciava una polvere verdastra, probabilmente una spezia seccata e pestata. Risposemeccanicamente ai saluti dei poliziotti, che osservò a lungo. Il commissario le chiese se era la madredi Yadjè.

A questo nome, la donna depose il contenitore e concentrò tutta la sua attenzione su Habib eSosso, che guardò uno alla volta, poi disse:

‒ Yadjè non è ancora tornato dai campi. Sua sorella, Yalèmo, è andata a cercarlo. Probabilmentenon tarderanno a rientrare. Sedetevi per aspettarli.

Il commissario e l’ispettore si scambiarono uno sguardo, domandandosi probabilmente in qualestrana situazione si erano ficcati. L’anziana donna offrì due sgabelli, che era andata a prendere in unacapanna. Non c’erano altre soluzioni se non quella di sedersi, ed è quello che fecero.

Paradossalmente ora l’anziana madre era molto allegra e si rivolgeva ai suoi ospiti come se liconoscesse da lungo tempo. Arrivò persino a battere le mani ridendo mentre parlava dei suoi figli.

‒ È fatta così, Yalèmo, non cambierà mai. Minaccio continuamente di spaccarle la testa, ma èfatica sprecata, non mi ascolta neanche. Non ha paura di niente Vedrete quando tornerà, crederete checi staremo per picchiare. Ma le voglio bene, a Yalèmo, e anche lei me ne vuole. Yadjè è piùriflessivo, parla poco. È il ragazzo più generoso della terra. In ogni caso, la ragazza che lo sposeràsarà molto fortunata. A patto che viva a lungo. Vivrà a lungo.

Cosa fare? Andarsene abbandonando questa donna infelice intrappolata nel suo mondo illusorio orestare ad ascoltare delle storie partorite da una mente malata? La domanda galoppava nella testa deipoliziotti i quali, per facilità, rifiutarono di rispondersi. Rimasero quindi seduti di fronte all’anzianamadre e ai suoi ricordi.

‒ Sono andata da Amma. Lèbè li riaccompagnerà presto. È Nèmègo, l’amico di Yadjè, che non èstato molto gentile. Ha avuto torto, Lèbè l’ha punito. Tutti se lo aspettavano a Pigui. Qui chi tradiscedeve pagare. Lèbè non perdona mai. I ragazzi torneranno presto.

Tacque di nuovo, guardò a lungo gli ospiti con un gran sorriso.‒ E Lèbè come ha punito Nèmègo? ‒ l’interrogò comunque Sosso.‒ Mio figlio, ‒ rispose l’anziana donna, ‒ non ha mai visto Lèbè. Quando i ragazzi torneranno con

lui, presto, forse... Io non ho mai visto Lèbè.Perché trattenersi? I poliziotti dovettero prendere congedo, maldestramente.Sosso tentò di rassicurare la povera donna spiegandole che sarebbero tornati per incontrare i

ragazzi quando questi fossero stati di ritorno con Lèbè. La madre sembrò molto infelice.Samaké aspettava nella 4x4 circondato da un nugolo di bambini. Appena videro i poliziotti, che

presero per turisti, i bambini intonarono in coro una melodia dogon di circostanza. Bastò il polsodell’autista per placarli e allontanarli. La 4x4 partì.

‒ Non hai l’impressione che sarà particolarmente lunga, questa inchiesta? ‒ domandò Habib aSosso.

‒ Capo, come diceva lei, penso che non sappiamo molto bene dove stiamo andando. Sta qui ilproblema, a mio avviso.

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‒ È vero. Guarda per esempio quello che ci ha detto il giovane Ali. È sicuro che Kansaye sial’assassino di Nèmègo, ma non ci sono testimoni, né prove. Ma ascoltando l’anziano, si capisce chenon ha potuto uccidere la vittima. In effetti, tutti sono convinti che siano degli omicidi commessi permagia e a distanza. Come puoi incolpare qualcuno presentando degli argomenti del genere? Qualemagistrato è cosi stupido da prendere sul serio una ricostruzione del genere? No, abbiamo bisogno diprove materiali.

‒ Non avrei dovuto portarla dalla madre di Yadjè, capo. Mi dispiace.‒ Al contrario, hai fatto bene. Tutto è importante in un’indagine di questo tipo. Anche l’aiutante

dell’hogon non sembra averci detto granché, ma non bisogna fidarsi. Tutto può riservarci dellesorprese.

Il sole sarebbe presto tramontato. I suoi raggi rossi e gialli adornavano la pianura di oro e disangue.

Sulla strada si incrociavano dei contadini che tornavano ai loro villaggi con la testa carica dipanieri. A volte era un asino a portarli, con passo tranquillo. Di tanto in tanto, dei bambini agitavanola mano al passaggio della 4x4.

‒ Questa sera sono invitato a prendere un tè dal sindaco con i consiglieri, capo, ‒ disse Sosso.‒ Ah, ‒ si sorprese il commissario, ‒ torni a Pigui?‒ No, abbiamo appuntamento a Bandiagara.‒ Allora va bene. È anche vero che ci sono delle cose che direbbero solo a te. È una questione di

generazioni. Spero che trarrai qualcosa da questo incontro. Brancoliamo, lo so, ma come farealtrimenti? Prova soprattutto a capire di cosa vivono, le loro frequentazioni, la loro moralità, i lororapporti con i cittadini. Tutti questi dettagli possono esserci utili.

‒ Va bene, capo.‒ Dimmi, Samaké, spero che tu abbia mangiato a pranzo, ‒ domandò all’autista il commissario in

lingua bambara.‒ Sì, sì, commissario, ‒ rispose l’autista.‒ Mi raccomando, non privarti dei pasti, anche se capisco che tu voglia risparmiare. Devi avere

comunque la forza per guidare.‒ Inch’Allah, ‒ si limitò a rispondere l’autista.Il commissario si girò verso Sosso: ‒ Dimmi, Sosso, hai visto la moglie dell’hogon? È piuttosto

giovane per un uomo della sua età.‒ Ho pensato esattamente la stessa cosa, capo.‒ È curioso. Ma cosa non è curioso, qui? Jérôme probabilmente avrà parecchie cose da spiegarci.

Hai visto la reazione del vecchio Kansaye quando gli ho detto che eravamo dei gendarmi?La 4x4 si fermò davanti all’hotel Le Chevai Blanc. Il commissario si ritrovò solo a cena. Nel giardino dell’hotel c’era qualche turista coraggioso che

si avventurava qui in questo periodo di grande caldo.Il telefono cellulare del commissario suonò: era il luogotenente Diarra.‒ Ho sentito Sosso poco fa. Mi ha detto che era da solo in hotel. Se non la disturbo, posso

raggiungerla, comandante.‒ Non sentirti obbligato, Jérôme, ‒ rispose Habib, -ma è vero che sono un po’ solo e che mi

farebbe piacere chiacchierare con te.‒ Allora arrivo, comandante.‒ A tra poco, Jérôme.

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Habib era già al dessert quando il luogotenente si diresse verso di lui e lo salutò. Il commissariolo invitò a prendere un bicchiere.

‒ Immagino che il pomeriggio sia stato fruttuoso e che le indagini avanzino, ‒ iniziò il gendarme.‒ In realtà no, ‒ gli rispose Habib. ‒ Ho pensato che la tua presenza sarebbe stata necessaria,

perché non sempre capivamo le reazioni dei nostri interlocutori. Per esempio, abbiamo incontratol’assistente dell’hogon. Un uomo affascinante, ma impossibile cavarne qualcosa. In effetti ilproblema è capire come funzionano, comprendere la loro mentalità.

‒ Esatto, comandante, ‒ confermò il gendarme. -Bisogna aver vissuto a lungo con loro percogliere il senso profondo delle parole che usano. Ho avuto la fortuna di lavorare con un certonumero di Dogon e mi è stato molto utile. Ma mi dica, comandante, pensa che si tratti veramente diomicidi?

‒ A dire il vero, non ho alcuna certezza. Ci sono solo delle dichiarazioni senza nessuna prova.‒ È l’impressione che ho avuto anch’io quando sono arrivato, comandante. Ma, con il tempo, mi

sono accorto che le dichiarazioni apparentemente gratuite mascheravano sempre dei fatti, delleazioni.

‒ Sì, ma io ho bisogno di fatti, di prove.‒ Lo so, comandante, ma io le parlo della mia esperienza. Finché provavo ad attenermi soltanto

alle deduzioni logiche, alla mia ragione, avevo l’impressione di girare in tondo e che non avrei maicapito.

‒ Ne abbiamo già parlato, Jérôme.‒ Mi scusi, comandante, non voglio dire che bisogna credere all’irrazionale, affatto. Solo che se

parte da una base diversa dalla loro, ha poche possibilità di entrare nel loro mondo e di portarli adaprirsi. È per questo che è necessario fare finta di pensare come loro per conquistarsi la loro fiducia.

‒ Ah! ‒ esclamò Habib, ‒ è un punto di vista a cui non avevo pensato. E secondo te cosa dovreifare?

‒ Supponiamo, comandante, che lei pensi che tutti questi omicidi siano stati commessi grazie allamagia, entrerebbe a piè pari nel loro universo. Le loro parole acquisirebbero un sensocompletamente nuovo, finché non otterrà una prova materiale che le permetterà di orientarsi.

Il commissario guardò il giovane gendarme e annui più volte con il capo: ‒ Tu conosci questaregione meglio di me, Jérôme, e probabilmente hai ragione. Mi sento comunque turbato da quandosono qui. Questo è il mio Paese. Ci ho sempre vissuto. Ma ora ho l’impressione di avere a che farecon persone così diverse da me. In tutto.

‒ Comandante, i Dogon sono un mondo a parte. Hanno una spiegazione per tutto. E dunque hannodelle certezze. Per loro il dubbio non esiste. Penso sia questo a renderli così diversi da noi, cheabbiamo conosciuto più civiltà, più religioni. Il loro mondo è immutabile.

‒ Mah, ‒ si sorprese il commissario, ‒ eccoti diventato uno specialista del mondo dogon, Jérôme.‒ Ma no, comandante, visto che nessuno poteva aiutarmi, ho dovuto aiutarmi da solo trovando

delle spiegazioni ai problemi.‒ Saper mettersi nei panni degli altri è una pratica che ho insegnato. Tuttavia io stesso ho dei

problemi ad applicarla qui. Perché? Spero di avere la risposta prima della fine di questa indagine. Inogni caso, grazie di cuore, Jérôme.

Il giovane luogotenente di gendarmeria non fu insensibile al complimento.‒ C’è un dettaglio importante, Jérôme, ‒ continuò il commissario. ‒ Ho dovuto far credere al

vecchio Kansaye, lo zio di Yadjè, il ragazzo morto nel duello, che siamo dei gendarmi perché sidegnasse di concederci il suo interesse. Non sembra conoscere i poliziotti. Come spieghi un

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atteggiamento del genere, tu che vivi tra loro?‒ In effetti, comandante, ‒ rispose il gendarme senza esitare, ‒ per la gente di qui e direi anche per

una gran parte dei nostri concittadini, i poliziotti sono degli agenti del traffico che pelano iconducenti dei taxi e dei taxi-brousse8 tutto il giorno. Non fanno nessuna differenza tra la SquadraAnticrimine e la Polizia Stradale. La gendarmeria ha un’immagine migliore, per questo è piùrispettata.

‒ Non solo i cittadini la pensano così. È ben triste, tutto ciò.Quando il commissario e il capo di brigata si separarono, era quasi mezzanotte.

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CAPITOLO DODICI Guidata con mano sicura, la moto di Ali correva nelle strade polverose di Bandiagara. Seduto

dietro, l’ispettore Sosso si domandava come il ragazzo si orientasse nell’oscurità dato che, a partequalche lampadina nuda che pendeva nelle vetrine dei pochi negozi, o la luce pallida delle lampade apetrolio di cui si servivano i venditori di frittelle, era tutto buio.

La moto si fermò una decina di minuti più tardi di fronte a una graziosa casetta la cui facciata erailluminata da una lampadina al neon. Il guardiano, seduto su uno sgabello di fianco a un piccolofornelletto, si alzò subito e si portò di fronte ad Ali, che chiamò “capo”. Si impossessò della moto ela sistemò un po’ più lontano.

‒ È casa tua? ‒ chiese Sosso ad Ali non appena entrarono nel cortiletto, abbondantementeilluminato al neon.

‒ No, è una casa che appartiene a Dolo, il nostro sindaco.‒ Quindi vive qui con la famiglia?‒ No, abita in un’altra casa, un po’ più in basso. Questa è per gli amici.‒ Capisco, ‒ disse Sosso.Presero posto su delle poltrone di velluto sistemate intorno a un tavolino. Ali accese un piccolo

impianto stereo dentro un mobiletto bianco e si sentì un pezzo rap.‒ E tu, Ali, sei sposato? ‒ chiese poi il poliziotto.‒ Sì, ma mia moglie è andata a trovare i suoi genitori nel loro villaggio.‒ Bambini?‒ Non ancora.‒ Arriveranno.‒ Spero. E tu?‒ Niente moglie e niente bambini.‒ Alla tua età! Non ti vergogni?‒ E quanti anni mi dài?‒ Be’, trentadue, trentacinque.‒ Trentaquattro. E tu?‒ Trentadue.Entrò una ragazza, annunciata dal rumore delle sue scarpe con i tacchi sul pavimento di cemento.

Indossava una t-shirt rosa molto scollata e una gonnellina aderente blu.Un piacevole profumo le volteggiava intorno e il suo bracciale in oro brillava nella luce. Quanti

anni aveva? Forse sedici anni, forse meno. In ogni caso aveva un bel musetto e un corpo magro e benfatto. Salutò e, al suono della sua voce, Sosso non ebbe più dubbi: la ragazza era minorenne.

Ali fece rapidamente le presentazioni e disse al poliziotto che l’adolescente, che lui chiamavaPitiou, era il suo “tesoro”. Quest’ultima, a disagio, respingeva le palpate del ragazzo, che riuscì allafine a farla sedere al suo fianco, sulla stessa poltrona, e a metterle il braccio intorno alla vita. Laragazza mormorò all’orecchio di Ali, poi i due entrarono in una stanza.

Rimasto solo, l’ispettore immaginò sorridendo la reazione del suo capo. “Abbandonare il proprioospite senza una parola non è certo un comportamento africano”, pensò.

Nella casa vicina, una radio diffondeva dei canti religiosi che qualcuno cercava maldestramente

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di ripetere con una voce nasale totalmente stonata.Ali e la sua Pitiou alla fine uscirono dalla stanza. L’adolescente salutò timidamente Sosso e se ne

andò accompagnata dal suo amico. Poco dopo, Ali tornò.‒ È carina, la tua amichetta, ‒ disse Sosso. ‒ Va a scuola?‒ Sì, ‒ riconobbe Sosso, ‒ ma non è nella mia classe. Non hai ancora visto quella di Antandou:

una vera principessa, la più bella di tutto il paese dogon.Sosso sorrise e aggiunse: ‒ I suoi genitori abitano a Bandiagara?‒ No, è la figlia di quello che viene chiamato il Gatto. Lo conosci?‒ L’ho intravisto. E il Gatto non ha niente da dire su questa relazione?‒ Oh, sì! Aveva anche ordinato ad Antandou di non vedere più sua figlia perché era fidanzata, ma

Antandou era un testardo. Bisogna riconoscere che chiunque al suo posto avrebbe fatto la stessa cosa.La ragazza era veramente bella. Hanno continuato a vedersi, ma di nascosto.

‒ Ciao! ‒ disse allegramente Ouologuem entrando nel cortiletto.Il suo polso era sempre decorato dall’orologio Kili e fumava una pipa piuttosto stravagante.

Contrariamente ad Ali, aveva una sicurezza che rasentava l’insolenza. Strinse vigorosamente la manodi Sosso, che non esitò a chiamare “piccolo sbirro” in una maniera, pensava, amichevole.

‒ Sei solo? ‒ si sorprese Ali.‒ Sì, ‒ ammise Ouologuem, ‒ a volte non si ha fortuna. Sua madre le ha impedito di uscire.

Dovremmo fare come il nostro sindaco: prendere solo donne sposate!Risero a questa battuta.‒ Non vedo come per una donna sposata sia più facile uscire rispetto a una ragazza, ‒ disse Sosso.‒ Errore, ispettore, ‒ rettificò Ouologuem, ‒ quando una donna sposata vuole tradire suo marito ci

riesce sempre. So quello che dico.I tre ragazzi scoppiarono di nuovo a ridere.‒ Oh, non ho fretta, io, ‒ disse Ouologuem. -Quando sarò un ricco proprietario terriero, un

nababbo, saranno tutte ai miei piedi. Non bisogna avere fretta. Succederà.Il cellulare di Ali suonò. Conversò brevemente con il suo interlocutore e annunciò che “il signor

sindaco” sarebbe arrivato presto. Voleva assicurarsi che Sosso fosse presente.‒ Scusatemi, ‒ disse l’ispettore, ‒ ma questa mattina in comune vi trovavo molto più tesi.‒ Be’, è normale, siamo con uno sbirro, non abbiamo più paura di niente, ‒ disse Ouologuem,

ridendo.‒ Al punto da non temere più neanche Kansaye?‒ Be’, sai...‒ Se ho capito bene, questa mattina era lui a farvi paura perché pensate che sia l’assassino.‒ Sì, ‒ riconobbe Ouologuem, ‒ ma è difficile da spiegare. Noi crediamo che sia lui, ma visto che

non l’abbiamo visto uccidere, be’... capisci...‒ In sostanza, come uccide, secondo voi?‒ Con la magia. Ecco cosa non abbiamo detto stamattina. Quell’uomo è un esperto di scienze

occulte. È capace di tutto.‒ Sì, ma non avete nessuna prova.‒ È necessario?‒ Per la polizia sì. Potrebbe anche processarvi per falsa testimonianza.‒ Ah! Che ci provi! Capirà chi siamo, ‒ esclamò Ouologuem.Entrò a sua volta il signor sindaco. Salutò Sosso con cortesia, punzecchiò Ali chiamandolo

“pulcino bagnato” e diede una sonora pacca sulla mano di Ouologuem, che gli chiese se era venuto

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solo.‒ Lo vedi da te, ‒ rispose il sindaco.L’altro scoppiò a ridere così forte da non riuscire più a parlare con Sosso, di cui aveva preso il

braccio.‒ Sai, Sosso, cosa è successo al signor sindaco?Rise ancora, come Ali e Dolo.‒ Una sera va dalla sua amica, che gli aveva detto che suo marito era in viaggio e che sarebbe

rientrato il pomeriggio dopo. Arriva a casa dell’amica, ma c’è il marito. Allora il marito gli chiede: -Cosa c’è?-. E sai cosa ha risposto il signor sindaco? -Sono un facchino, sono venuto a vedere se hadei bagagli da portare-. E il signor sindaco era pure in giacca e cravatta!

Fu l’ilarità generale. Dall’altro lato, nella casa vicina, alzarono al massimo la radio e la vocenasale urlò: -Maledetti miscredenti! ‒ Senza riuscire a far tacere le risate tonanti.

Il sindaco si era buttato sulla poltrona, la bocca spalancata.Una donna portò dei bicchieri, poi della birra e delle bibite dolci, poi diversi piatti di spiedini di

carne, di patatine fritte e di verdure, che appoggiò sul tavolo. Si diffuse nell’aria un odore delizioso ele risate sfumarono.

‒ All’attacco, Sosso! ‒ esclamò il sindaco con voce allegra prendendo uno spiedino.‒ Parola di facchino, ‒ aggiunse Ouologuem ridendo.Ali sembrava essere tornato il timido ragazzo della mattina. Sembrava che la presenza dei suoi

compagni lo mettesse un po’ a disagio, a meno che non fosse l’atmosfera rumorosa.Il guardiano servì il primo giro di tè con una gentilezza che assomigliava piuttosto all’ossequio.

Non smetteva di ripetere “missé sindaco” a ogni piè sospinto.Attese docilmente che i suoi “capi” finissero di sorseggiare il loro tè per portare via i bicchieri.‒ Sa fare il tè come nessun altro, ‒ constatò Ouologuem.‒ È vero, ‒ confermò Sosso. ‒ Il tè, gli spiedini, le verdure, è tutto buono. Veramente.‒ Allora beviamo e mangiamo.Ali non aveva sentito, e stava già bevendo la sua seconda birra. Come la mattina, Sosso notò che

la lingua gli si scioglieva e gli occhi gli brillavano sempre più.I suoi compagni sembravano abituati a queste metamorfosi, perché Ouologuem lo prese in giro:‒ Ali sta per entrare nel suo Soyouz per lo spazio.‒ Allora, ispettore, queste indagini, vanno avanti?‒ Non proprio, ‒ rispose Sosso. ‒ Del resto, siamo qui solo da stamattina. È troppo presto. Ci

vorrà sicuramente più tempo. Ma abbiamo incontrato il vecchio Kansaye e, contrariamente a quelloche sostenete voi, Ali mi ha spiegato tutto, non pensiamo assolutamente che sia l’assassino.

‒ Ah no? ‒ si sorprese il sindaco, il cui sguardo si incupì un poco. ‒ Cosa glielo prova?‒ Praticamente niente prova la sua colpevolezza. Al momento della morte di Antandou e di

Nèmègo, si trovava da un’altra parte. Se non è entrato a casa di Antandou, come avrebbe potutoucciderlo?

‒ Ma non ha bisogno di essere presente per uccidere! ‒ si indignò il sindaco. ‒ Il vecchio Kansayeè capace di uccidere a distanza.

‒ Con cosa?‒ Con la magia, andiamo!Poi, girandosi verso il suo consigliere, quasi gridò:‒ Ali, spiegagli cosa è successo a tuo padre!Ali, visibilmente infastidito, dovette fare un grande sforzo per aprire la bocca.

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‒ Kansaye e mio padre hanno litigato. Kansaye ha detto a mio padre che non avrebbe vissuto ungiorno di più. La sera, mio padre è morto in camera sua anche se non era malato.

‒ Ecco! ‒ esclamò Dolo.‒ Capisco, ‒ disse Sosso, ‒ ma nessun magistrato terrà conto di un argomento del genere. Servono

delle prove, dei fatti o anche delle ipotesi che possano essere prese sul serio. È questo il problema.Penso che vi siate fissati su Kansaye e che non riusciate a sospettare di nessun altro. Sfortunatamente,in questo caso niente prova la sua colpevolezza.

Gli interlocutori dell’ispettore nascosero appena la loro indignazione, e Sosso invece simeravigliò della loro ingenuità: come potevano pensare che solo la loro parola bastasse a stabilire lacolpevolezza di un individuo?

Aveva l’impressione che quei ragazzi si aspettassero da Habib e da lui solo l’arresto di Kansayee nient’altro.

‒ Sai, Sosso, ‒ insistette il sindaco, ‒ quest’uomo fa paura a tutto il mondo, altrimenti nonmancherebbero certo i testimoni. Tutti qui sanno quali sono i suoi poteri occulti e il male che ècapace di fare. È per questo che tutti tacciono. E se la polizia lo lascia libero, continuerà i suoicrimini. Sicuramente. In ogni caso, se cercate un altro colpevole, non lo troverete, perché non c’è chelui e solo lui. Se non ci date retta, non so che senso abbia la vostra presenza qui. Pensavo fossechiaro.

Paradossalmente la testardaggine del sindaco e l’indignazione muta dei suoi collaboratoriinstallarono violentemente una certezza nella testa dell’ispettore Sosso: questo caso era molto piùserio di quanto sembrasse.

I quattro commensali rimasero in silenzio mentre bevevano e mangiavano. Sosso provava quasipietà per i suoi ospiti. Imprigionati nelle loro funzioni, nella piccola località di Pigui, nonsembravano rendersi conto che al di là della loro cerchia esisteva un’altra realtà sulla quale nonavevano nessuna presa. Li guardò uno a uno: perché una coltre d’ombra si era abbattuta di colpo tralui e loro, quando poco prima scherzavano come bambini?

‒ La pensiamo diversamente, ‒ constatò Sosso.Sembrava comunque così evidente! In effetti, si trattava più di una concezione del mondo che di

una differenza di opinione. D’altra parte, perché era sorprendente che si indignassero, quando si negauna realtà che per loro è consolidata? Questa verità era così forte che riuniva Ali, figlio dimusulmani, con dei figli di pagani. Era evidente che non si poteva capirli e comprendersi, se non sicondivideva, anche solo temporaneamente, la loro visione del mondo.

Era l’ispettore Sosso, adesso, a essere un po’ confuso.‒ In ogni caso, è tutto molto provvisorio, ‒ disse. -Dovremo ascoltare più testimoni possibili e

considerare una moltitudine di ipotesi. Magari arriveremo alla vostra stessa conclusione, chi puòdirlo?

L’atmosfera finì per distendersi un po’, ma la notte avanzava e il giorno dopo bisognava lavorare.‒ Ali è nel suo soyouz, ‒ constatò Ouologuem, mostrando il suo compagno che dormiva

sorridendo.Il sindaco non voleva correre nessun rischio: propose a Sosso di riaccompagnarlo e ordinò a

Ouologuem di portare Ali a casa sua. Era passata da poco mezzanotte.Prendendo Sosso da parte, come sotto l’effetto di uno sconforto improvviso, Ouologuem confessò:‒ Sai, in questo paese si soffoca. Tutti questi usi e costumi, questa religione, queste costrizioni,

siamo stufi. Noi siamo giovani e vogliamo vivere. Pigui è un inferno. Voglio solo una cosa: esserericco e andarmene. Per gli altri è lo stesso.

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Sosso si stava dirigendo verso l’hotel quando una pietra colpì sfrecciando il muro di fronte a lui.

Si voltò: nulla. Mentre proseguiva, un altro proiettile rimbalzò contro il tronco dell’albero proprio difianco a lui, all’altezza della sua testa. L’ispettore non esitò e si lanciò all’inseguimento della piccolaombra che credette di vedere a una ventina di metri. L’ombra si infilò nel dedalo di Pigui e con tuttala forza delle sue gambe corte tentò di seminare il poliziotto che guadagnava terreno.

A una curva del sentiero, Sosso riuscì ad afferrare il fuggitivo per un lembo della camicia. Ilbambino, perché proprio di un bambino si trattava, lanciò un forte grido acuto, che poi si spezzò dicolpo. Ma, come un’anguilla, riuscì a liberarsi dalla stretta del poliziotto e fuggì di nuovo.

Senza fiato, l’ispettore abbandonò la partita e ritornò sui suoi passi. Si sentì un po’ ridicolo peraver inseguito il ragazzino a un’ora del genere. Poi riapparve davanti a lui la piccola ombra e si misead abbozzare uno strano passo di danza. Si era premurata di coprirsi la testa con un cappello esembrava provare un piacere maligno a prenderlo in giro sparendo e riapparendo nel labirinto diPigui. Inoltre il gioco cominciava a divertire il poliziotto, che sorrise.

Poi la piccola ombra sparì per più tempo e davanti a Sosso si profilò un’ombra più grande e piùinquietante, perché sembrava tenere nella mano destra qualcosa che, al chiaro di luna, assomigliava aun machete. Sosso si irrigidì. Lo sconosciuto si confuse con la penombra e riapparve dietro ilpoliziotto che toccò la sua arma, sotto il giubbotto. Ora lo sconosciuto camminava verso Sosso, checredette di vedere un movimento di quella mano che teneva il machete. Strinse la sua arma. L’altroprocedeva in silenzio mentre lui camminava all’indietro. Da entrambe le parti il ritmo stavaaccelerando, tanto che Sosso tirò fuori la pistola. In quel momento gli sembrò di sentire aintermittenza la risata del suo inseguitore senza volto il quale, di nuovo, si confuse con la penombra,ma non riapparve più. Sosso era a soli pochi metri dall’hotel.

“Chi mi vuole spaventare così?” si chiese.

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CAPITOLO TREDICI Quando Sosso, finalmente sveglio, entrò nella sala della colazione, il suo capo era già lì. Si

diresse verso di lui e lo salutò allegramente.‒ Sembri di buon umore, Sosso, ‒ notò Habib. ‒ Allora la festa non è durata tutta la notte? Non è

da te.‒ Sono tornato in hotel poco dopo mezzanotte, capo.‒ Sono andato nella mia camera più o meno alla stessa ora, dopo che Jérôme è andato via.Sosso si servì e riprese posto. In quel momento si accorse che il suo capo aveva bevuto solo del

caffè, anche se il buffet traboccava di viveri. Glielo fece notare.‒ Sai, ‒ confessò il commissario, ‒ non mi fido di nulla dopo la storia dei cani.Malgrado tutta la forza di persuasione dell’ispettore, il commissario non mangiò niente.‒ Ho l’impressione che saremo presto in parità, capo. Io non posso vedere i caimani, voi la carne

di cane. Ognuno di noi ha finalmente la sua paura, ‒ constatò l’ispettore.‒ Prendimi in giro, Sosso, ‒ disse Habib sorridendo, ‒ vedremo. Ma, dimmi, ti è perlomeno

servita a qualcosa la tua serata?‒ Assolutamente sì, capo. Ho fatto due constatazioni, per cominciare. La prima è che siamo qui

solo da un giorno, anche se abbiamo l’impressione che sia da più tempo.‒ Siamo assolutamente d’accordo. Non dobbiamo quindi preoccuparci. Dobbiamo tenere conto

del ritmo del paese.‒ In secondo luogo, ascoltando il sindaco e i suoi giovani consiglieri, ho capito che c’è una

barriera tra loro e noi: concepiamo il mondo in maniera diversa. Finché non saremo entrati nel lorouniverso, ci sarà difficile capirli e capire il problema che ci ha portato qui. Questo vale per i nostrirapporti con tutti gli abitanti di Pigui.

Il volto del commissario si illuminò di un largo sorriso, cosa inusuale: ‒ Sai che mi hai appenadetto esattamente quello che mi ha detto Jérôme?

‒ Ah sì?‒ Sì, Sosso, esattamente. Ecco quindi due punti su cui siamo d’accordo. Mi sono svegliato presto,

stamattina, e non ho mai smesso di rifletterci. Sembra ovvia, una tale procedura. L’ho imparata, l’hoinsegnata e tuttavia qui non me ne sono ricordato. Perché? Tu sai perché, Sosso?

‒ No, appunto, capo.‒ Bene, è perché, senza rendermene conto, la disprezzavo, questa gente. Mi sono formato alla

scuola occidentale, che mi ha insegnato la razionalità, il cartesianismo. Tutto ciò che prescinde daquesto modo di pensare non era degno di interesse. Quelli con cui abbiamo a che fare qui nonappartengono al nostro universo e non osiamo confessare che li consideriamo, dal punto di vista delpensiero, come primitivi. Allora li disprezziamo. Non mi sentivo bene questa mattina perché horealizzato questa verità. Vedi, le cose non sono così semplici e noi stessi, imbevuti della nostrascienza, non sappiamo chi siamo. Non si tratta, infatti, di far finta di capirli, ma di ammettere chehanno il diritto di avere il loro proprio universo.

Il commissario rimase un momento con gli occhi fissi sulla sua tazza vuota, della quale disegnavail contorno con il dito. Sosso mangiava lentamente. ‒ Ma, come ti ho sempre detto, figliolo, noi siamodei poliziotti e non dei filosofi. Allora continua il racconto della tua serata, per favore.

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‒ Dunque, ‒ continuò Sosso cercando le parole, ‒ i nostri tre amici erano tutti presenti in una casache appartiene a Dolo, il sindaco. Ma non ci abita. Insomma, è un luogo riservato ai divertimenti delgruppo. Con un guardiano reclutato apposta per occuparsi del posto. Ciò che colpisce per prima cosaè l’agio materiale di quei ragazzi. Sembrano non avere nessuna preoccupazione di denaro.

‒ Anch’io l’ho notato ieri quando eravamo in comune. I boubou di lusso, l’orologio d’oro diOuologuem, gli occhiali di marca, i vestiti di buona fattura, tutto ciò stona in un piccolo comune dovetutti sono sempre vestiti in maniera semplice. Ci si chiede anche come mai tanto lusso vengaostentato.

‒ Aspetti, capo, lei non ha visto le loro amichette. Tutte in ghingheri con borse e profumi di lusso,gioielli d’oro, eccetera.

‒ Sono sposati?‒ Tutti.‒ E hanno delle amanti, ovviamente.‒ Sì, capo. Ali, per esempio, ha come amica una delle studentesse minorenni della sua scuola.‒ Ah! Si può anche essere giovani, ma c’è comunque un limite da non superare. Soprattutto quando

si è insegnanti. È un insegnante, Ali, giusto?‒ Sì, capo. E in maniera generale, tutti e tre hanno un problema dal lato donne. Il sindaco va solo

con donne sposate, e Antandou stava di nascosto con la figlia del Gatto.‒ La figlia del Gatto?‒ Sì, capo. E sembra che sia la più bella del paese!‒ Ah, sì? Sarà un problema di ereditarietà, non ci interessa.‒ Dunque, non sono dei ragazzi molto sobri. Diciamo che, dal lato moralità, non ci stanno troppo a

pensare.‒ Immagino che sia il denaro a permettere queste diversioni.‒ Effettivamente i soldi contano molto per loro. Ouologuem non smette di parlarne. Non sogna

altro che il momento in cui sarà ricco.‒ Non è molto lusinghiero nei confronti del sindaco di Pigui. Ciò che mi sorprende, è che una

popolazione così attaccata alle sue tradizioni si sia data dei responsabili così giovani e pocoresponsabili. Considera che, secondo Diarra, c’è stato solo il 6% dei votanti. Ma comunque! Visto ilmodo in cui li dipingi, ho effettivamente l’impressione di avere a che fare con una banda. Maandiamo avanti.

‒ Sono convinti, ‒ continuò Sosso, ‒ che il vecchio Kansaye sia l’assassino di Antandou eNèmègo e colui che li minaccia. Ovviamente senza nessuna prova. Ma non demordono. Sembra cheKansaye sia dotato di poteri magici che gli permettono di uccidere a distanza. La cosa interessante èche ho avuto la sensazione che i nostri uomini siano sicuri che siamo venuti qui per eseguire unordine: arrestare colui che loro indicano essere l’assassino. Come se volessero farlo fuori. In ognicaso, questa è la sensazione che ho avuto.

Il commissario diventò pensieroso. Guardò fisso il suo collaboratore e gli chiese:‒ Hanno nominato un responsabile politico o amministrativo di Bamako?‒ No, capo. Insomma, la mia sensazione è che questo caso sia più che una storia ordinaria di

omicidio. È più che altro un presentimento.‒ Perfetto, Sosso. La strada si illumina un po’. Ora dobbiamo scoprire da dove arriva il denaro

dei nostri tre amici, che rapporti hanno con i loro cittadini. Inoltre, renderemo visita anche ai genitoridi Nèmègo e di Antandou. Dovremo vedere l’hogon, ma, visto che è malato, aspetteremo. Stopensando a quello che mi hai appena detto, Sosso: è molto probabile che non si tratti di un banale

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caso di omicidio.Passando senza legami a un altro argomento, Sosso disse:‒ Capo, dovrebbe provare le polpette di carne, sono deliziose. È manzo.‒ Inutile, Sosso, non ci riuscirai, ‒ disse il commissario. ‒ Ma, dimmi, il Gatto vedeva di buon

occhio la relazione di sua figlia con... Antandou? Perché in un certo senso è il guardiano delletradizioni.

‒ Sembra che si sia ferocemente opposto e abbia messo Antandou in guardia.‒ Mhm, capisco. Ti propongo di sistemarci nel piccolo hotel di Pigui. Non sembrava così male,

anche se non ha gli stessi comfort di questo. Il vantaggio è che ci dovremo spostare meno. Questoincessante va e vieni alla fine è faticoso, soprattutto perché non sappiamo quando finiranno leindagini. Cosa ne pensi?

‒ Se è utile, perché no, capo? Spero che ci siano delle stanze disponibili.‒ Allora perfetto. Andiamo. Per favore, porta la tua divisa, può esserci utile.‒ Va bene, capo.Suonò il telefono cellulare di Sosso. Il ragazzo conversò qualche momento con il suo interlocutore

e spiegò ad Habib:‒ E Jérôme, capo. La saluta e ci invita a cena. Ci dice anche che c’è una danza di maschere oggi a

Pigui. È probabile che lui vada. Gli ho detto che anche noi potremmo esserci. Non so se ho fattobene.

‒ Eccellente, Sosso. Ora andiamo! Ma dimmi, hai notato il cambiamento nel comportamento diSamaké, il nostro autista? È strano! Non parla praticamente più. Mi guarda appena.

‒ Me ne sono reso conto, capo, e ho capito perché.‒ Ah sì?‒ Perché ha scoperto che siamo dei poliziotti.‒ Pensa! Non lo sapeva?‒ Sembrerebbe di no.‒ E quindi? C’è qualcosa di male a portare dei poliziotti?‒ Forse i poliziotti non sono persone molto raccomandabili, capo, ‒ disse Sosso.Scoppiarono a ridere.

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CAPITOLO QUATTORDICI Sulla piazza pubblica c’era già folla quando alle dieci arrivarono il commissario Habib e

l’ispettore Sosso, accompagnati dal capo di brigata e da un giovane dalla pelle chiara che ilgendarme chiamava Poulo e che aveva presentato come un collaboratore della gendarmeria. Ilpiccolo gruppo preferì tenersi un po’ in disparte dalla folla, su una piccola altura sovrastante illuogo.

‒ Si tratta di un dama, oggi, ‒ spiegò il ragazzo. ‒ Sono cioè dei funerali di un anziano rispettatoda tutta la comunità. Ma, lo vedrete, sono soprattutto dei festeggiamenti e non dei lamenti. Lemaschere appariranno nell’ordine perpetuo e vi dirò il nome. In realtà oggi è la fine dei funerali. Visiete persi le cerimonie precedenti.

Il ragazzo sembrava sicuro di sé, ma aveva uno stile un po’ ampolloso che fece sorridere ilcommissario, soprattutto quando fu la volta dell’“ordine perpetuo”.

Non si sarebbe comunque fatto guastare il divertimento e non si sarebbe mostrato ingrato neiconfronti del capo di brigata, che aveva avuto l’eccellente idea di portare un conoscitore dei costumie delle tradizioni dogon.

La folla diventava sempre più fitta e i suonatori, probabilmente con l’avvicinarsi dell’inizio dellacerimonia, raddoppiavano l’entusiasmo. Tamburi, tamburelli e nacchere di ogni tipo mescolavano iloro suoni con forza.

‒ Strano, ‒ disse Poulo, ‒ non è ancora iniziato. È inconsueto.‒ Perché? ‒ lo interrogò Sosso.‒ Forse uno dei danzatori è in ritardo. Forse...‒ E succede spesso?‒ No, molto raramente. In ogni caso, non mi ricordo di niente di simile.Effettivamente, bisognò aspettare ancora qualche minuto perché un movimento nella folla

annunciasse l’arrivo dei danzatori.‒ Il Giovane Contadino! ‒ indicò la guida quando apparve un primo danzatore mascherato.Indossava una gonna in rafia nera e rossa su dei pantaloni a sbuffo blu, e le braccia e gli

avambracci erano ornati di braccialetti sempre di rafia degli stessi colori del costume. Portava dietrouna coda di mucca che seguiva i movimenti del corpo. La maschera era una specie di passamontagnabianco ornato di cauri e con due fessure per gli occhi.

Dopo il Brigante apparvero il Coniglio e la Lepre, con le loro caratteristiche orecchie grandi, poile ragazze peul, bambara, dogon, con i danzatori che mostravano il petto addobbato con seni finti eche sfoggiavano un cimiero cucito con cauri e pietre fìnte. Seguì una lunga processione di maschere,dal Gozzuto all’Anziano, passando per la Gazzella, il Bufalo, la Cerbiatta, poi la Madre Sovrana, leKanaga9, le Case a più Piani10, maschere prolungate con una tavola di legno alta diversi metri, einfine i Trampoli, dei danzatori mascherati su dei trampoli.

Le maschere danzarono in cerchio e poi, a turno, per onorarlo, si chinarono davanti all’anzianoche aveva occupato in precedenza il loro posto nella società delle maschere.

‒ È per mostrare quanto sia difficile essere portatori di maschere. Danzare con un peso del generesulla testa non è per tutti. È per questo che i danzatori giovani in attività ringraziano i vecchidanzatori in ritiro per aver loro aperto la strada, ‒ spiegò la guida.

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A un certo punto, nella folla si sentirono dei fischietti, come dei cacciatori che chiamano i lorocani. I conigli e le lepri lasciarono subito la danza e si confusero nella folla per scappare dai caniche stavano per arrivare. Sfortunatamente per loro, alcuni spettatori urlarono: «Arrivano i cani!Arrivano i cani!». I poveri conigli e le lepri abbandonarono il loro nascondiglio e, non sapendo cosafare, fuggirono verso i danzatori, poi di nuovo verso la folla con grande gioia dei bambini.

La danza più impressionante fu probabilmente quella della prima Casa a più Piani. Il suoportatore doveva avere una forza da Ercole, perché spazzare il suolo con la cima della maschera,alzare la testa, girarla da una parte e dall’altra e rifare questi gesti ininterrottamente era torcicolloassicurato. Ma il danzatore sembrava non rendersi neanche conto dello sforzo che compiva.

E tutto questo in un baccano spaventoso di grida di animali, di musica, di urla della folla. Al ritmodella musica, i danzatori si contorcevano, saltavano, giravano in cerchio andando avanti, provocandole vertigini.

‒ Vi confido un segreto, ‒ mormorò la giovane guida, ‒ il portatore della prima maschera Casa apiù Piani è il Gatto. Non so se l’avete già visto, ma è un uomo che ha una forza fuori dal comune. Èanche il più grande indovino del paese. Un uomo misterioso e temuto. Infatti, si evita di parlare dilui. Qui, la notte gli appartiene.

Il commissario scrollò la testa.‒ Sapete, ‒ continuò la guida, ‒ chi porta la maschera smette di essere se stesso e si confonde con

il personaggio che rappresenta. Qui la maschera è un elemento estremamente importante della vitasociale. Non succede nulla di significativo senza la presenza di una maschera.

Si sentiva che la cerimonia stava finendo, le maschere ritornarono al loro santuario e la folla sidisperse.

‒ Impressionante, ‒ disse Habib mentre, con il suo piccolo gruppo, camminava verso l’hotel La

Falaise. ‒ È tutto così ben ragionato, talmente ordinato!‒ È sempre stato così, ‒ spiegò la guida.‒ Non ne dubito ma, guardando lo spettacolo, mi sono detto che aveva una funzione più importante

che quella dell’intrattenimento. C’è una tale comunione tra gli spettatori, una tale forza di viveregenerale che non si può non pensare alla funzione soprattutto sociale della cerimonia. È la primavolta che vi assisto, ma sono incredibilmente impressionato.

Senza alcun legame, il commissario domandò alla guida:‒ Mi dica una cosa, l’ho sentita dire a Sosso che la cerimonia era iniziata in ritardo. Come può un

danzatore essere in ritardo a una festa del genere? Si potrebbe credere che verrà punito, no?‒ Non se è il Gatto, ‒ spiegò la guida sorridendo.‒ Non se è il Gatto, certo, ‒ ripeté Habib.L’attenzione del gruppo fu attirata da una donna che veniva loro incontro gesticolando come

un’attrice di teatro. In effetti, era il capo della brigata di gendarmeria a interessarle.‒ Mi scusi, signore, ‒ disse quando fu sufficiente-mente vicina, ‒ sono la moglie di Garba. Lavora

con lei, è un gendarme. Mi deve aiutare, perché Garba è diventato pazzo.‒ È diventato pazzo? ‒ si sorprese il luogotenente Diarra. ‒ Ma è venuto a lavorare questa

mattina! L’ho lasciato in ufficio!‒ Sì, signore, ma è diventato pazzo. Le sto dicendo la verità. Ha lasciato il lavoro non molto

tempo fa. È andato a casa, ha preso una stuoia ed è andato a sdraiarsi a fianco della sua pecora rossa.Non smette di parlarle come se fosse una donna. Garba ha perso la testa, signore. È da anni che ècosì. Ero sicura che sarebbe finita così. Mi aiuti.

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‒ Stia tranquilla, signora, gli parlerò e smetterà, ‒ disse il capo della brigata all'infelice moglie inlacrime la quale, dopo ripetute benedizioni, si voltò.

‒ Non deve essere certo bello sapere che l’altra moglie è una pecora, fosse anche rossa, ‒ disse ilcommissario. ‒ Poveretta!

‒ È incredibile! ‒ intervenne Jérôme. ‒ Ho provato di tutto per farlo staccare un po’ dalle suepecore, ma niente da fare! Non ho mai visto una situazione del genere.

‒ Peccato che non ci sia uno scrittore tra noi. “L’uomo che era innamorato follemente delle suepecore”, che soggetto accattivante! ‒ scherzò il commissario.

Jérôme, invece, era preoccupato.Arrivarono davanti all’hotel e stavano per separarsi quando il rumore di una moto lanciata a tutta

velocità li fece girare e spostare precipitosamente. Era Ali, che guidava come un pazzo. Frenò cosìforte che le ruote slittarono e perse l’equilibrio. Sosso si lanciò al suo soccorso e riuscì ad afferrarlonel momento in cui stava per scivolare sopra il manubrio. Il ragazzo era sconvolto e tremava in tuttoil corpo. Si aggrappò all’ispettore, agitandosi come se fosse posseduto.

‒ Cosa ti succede, Ali? ‒ gli chiese Sosso tentando di immobilizzarlo.‒ Ouologuem! Ouologuem! ‒ urlò Ali. ‒ Morto! Morto!‒ Ouologuem è morto? È questo che hai detto?‒ Ouologuem! Ouologuem! Ucciso!Liberandosi dalla stretta di Sosso, Ali sollevò la moto, riavviò il motore e partì bruscamente. La

sorpresa fu tale che nessuno fece il minimo gesto per trattenerlo. Tutti si limitarono a guardarloallontanarsi come una freccia.

‒ Jérôme, ‒ disse il commissario, ‒ come facciamo a sapere dove abita Ouologuem?‒ Posso portarvi io, ‒ si offrì la giovane guida dalla pelle chiara.‒ Allora andiamo! Non devono seppellire il cadavere prima che lo vediamo noi, ‒ disse Habib.E visto che nessuna macchina poteva infilarsi tra le capanne, si misero in marcia a piedi, quasi al

galoppo.

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CAPITOLO QUINDICI La casa di Ouologuem era situata un po’ in disparte rispetto alle altre abitazioni. Quando il

commissario Habib e il suo gruppo vi entrarono, c’erano altre sette persone sedute proprioall’entrata del piccolo appartamento in terra, l’aria addolorata. Una donna, sicuramente la moglie,piangeva in silenzio, sostenuta da un’altra, più anziana.

‒ Dove si trova il corpo? ‒ chiese in maniera perentoria il luogotenente Diarra.Un uomo si alzò e, con un gesto, indicò l’interno della capanna. Vi condusse il gendarme e i

poliziotti.Effettivamente, nella penombra, giaceva Ouologuem di traverso sul letto, in pigiama, gli occhi

fissi al soffitto. Si era talmente gonfiato che non si distingueva altro che il suo ventre, nel qualesembrava essere sparito il collo. Dopo aver aperto la finestra, il commissario esaminò con attenzioneil corpo. Secondo le sue istruzioni, il capo della brigata di gendarmeria di Bandiagara ordinòall’ospedale di far venire dei barellieri, dopo che la Scientifica aveva fatto le foto. Poco dopo, ilmorto fu trasportato attraverso gli stretti viottoli fino all’ambulanza. A memoria degli abitanti diPigui, non si era mai visto uno spettacolo del genere: un cadavere portato in giro tra le capanne al difuori di ogni cerimonia rituale. Si erano formati dei piccoli gruppi lungo la strada imboccatadall’ambulanza.

‒ Chi è la moglie del defunto? ‒ interrogò il commissario uscendo dalla camera.‒ Sono io, ‒ rispose la ragazza sostenuta dall’anziana.‒ Quando ha scoperto il corpo di suo marito?‒ Poco fa. L’ho lasciato qui stamattina prima di andare a trovare i miei genitori a Bandiagara. Mi

aveva detto che era stanco e che aveva voglia di dormire ancora un po’ prima di andare a lavorare.Al mio ritorno, subito dopo la danza delle maschere, l’ho trovato sdraiato, così. Il suo amico Ali eravenuto a vedere cosa aveva ed è entrato in casa nel mio stesso istante, abbiamo scoperto il corpoinsieme.

‒ Abita qui con qualcun altro?‒ La nostra domestica, Nai. È quella seduta laggiù.Il commissario raggiunse la ragazza, che aveva dei grandi occhi rossi, a furia di piangere.‒ Chi c’era oltre a lei in casa? ‒ le chiese Habib.‒ Nessuno, ‒ rispose la ragazza tirando su col naso.‒ Ha lasciato la casa, anche solo un momento?‒ No. Sono restata qui fino all’arrivo della mia padrona.‒ Ed è assolutamente sicura che nessuno a parte lei si trovava in casa o ci è entrato?‒ Sì, lo giuro, non c’era nessuno oltre a me.‒ La porta della camera di Ouologuem era aperta o chiusa?‒ Chiusa.‒ Ne è certa?‒ Sì, lo giuro, nessuno l’ha aperta.Il commissario tornò nella stanza che esaminò attentamente e si sporse dalla finestra.‒ Jérôme, ‒ disse, ‒ puoi insistere che il medico di Bandiagara faccia un’autopsia del corpo il più

rapidamente possibile?

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‒ Certo, comandante, ‒ rispose il luogotenente Diarra, che telefonò subito dal suo cellulare.‒ Credo che almeno su un punto il sindaco e i consiglieri avessero ragione, ‒ disse il commissario

a Sosso. ‒ Avevano ragione a temere per la loro vita.‒ Sì, capo, uno di loro è morto, anche se non si sa ancora come.‒ Lo sapremo presto, spero.Dalle finestre e dalle recinzioni delle concessioni, centinaia di occhi osservavano Habib e il suo

piccolo gruppo mentre camminavano nel dedalo dei sentieri. Non era la curiosità a brillare in queglisguardi, ma l’incomprensione o una sorda collera.

‒ Ho l’impressione che ormai non ci guarderanno più nello stesso modo, a Pigui, ‒ profetizzòHabib.

‒ È anche vero, ‒ fece notare la guida, ‒ che questo genere di trattamento di un morto è piuttostoinusuale qui. È come se le autorità si immischiassero in un affare che non è di loro pertinenza.

‒ La guerra è incominciata, insomma, ‒ disse Sosso.‒ Non so se si può usare questa parola, ma non potrete più aspettarvi della benevolenza da parte

loro.‒ Allora siamo d’accordo, ‒ concluse Habib.Il luogotenente Diarra prese congedo contemporaneamente alla Scientifica. Alla domanda del

commissario, la guida accettò di indicare ai poliziotti la casa dei genitori di Antandou e Nèmègo,distanti qualche decina di metri. Il commissario ringraziò la guida dandogli una remunerazione la cuiimportanza dovette sorprenderlo poiché sembrò incredulo, esitò un momento, poi si profuse inringraziamenti che non finivano più.

‒ Ora possiamo contare solo su noi stessi, Sosso, ‒ disse Habib. ‒ Su noi stessi e sulla tua divisa.‒ È vero, ‒ convenne l’ispettore. ‒ Visto il cambio di clima, ci sarà molto utile, credo. Presso i genitori del defunto Nèmègo, senza l’uniforme del suo collaboratore il commissario

avrebbe effettivamente fatto fatica a trovare un interlocutore benevolo. Se però, volente o nolente,scioglieva le lingue, l’uniforme presentava l’inconveniente di provocare istantaneamente ladiffidenza degli abitanti del villaggio. Quel giorno erano presenti solo il padre di Nèmègo e le suedue spose. L’uomo, di una certa età ma ancora in buona salute, intrecciava delle corde, seduto su unapelle di montone, direttamente a terra. Habib e Sosso si sottomisero all’inevitabile rituale dellacaraffa d’acqua di benvenuto, dopo che furono portati degli sgabelli. In seguito, il capofamiglia siinformò del motivo della visita degli stranieri, mentre le donne si erano eclissate.

‒ Come vede, ‒ cominciò il commissario, ‒ siamo venuti da Bamako per renderci conto del modoin cui funzionano le cose qui, a Pigui e nei villaggi vicini. So che suo figlio Nèmègo è morto nonmolto tempo fa. È per questo che siamo qui. Solo per capire. Sarebbe utile se lei potesse aiutarci.

L’uomo guardò i suoi ospiti e scosse la testa più volte senza parlare. Il silenzio durò così a lungoche il commissario credette fosse un segno di rifiuto di rispondere. Così Habib volle rivolgersi dinuovo al suo ospite. Proprio in quel momento quest’ultimo parlò con una voce equivoca.

‒ Sono obbligato a risponderle?‒ Non parliamo in questi termini, ‒ gli rispose Habib. ‒ Tra persone rispettabili, non possono

esistere che rapporti di rispetto. Lei è un capofamiglia, un uomo anziano e non le mancherò dirispetto obbligandola. No. Devo solo fare un lavoro e le chiedo di aiutarmi. Non ci sono obblighi.

L’uomo sospirò profondamente. In realtà, il suo silenzio era la calma che precede la tempesta. Fusolo in quel momento che i poliziotti si resero conto che i suoi occhi erano diventati rossi e che dellegocce di sudore gli imperlavano la fronte. Probabilmente erano scampati a un dramma.

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‒ Sta parlando di Nèmègo, vero? ‒ chiese l’uomo con voce non ancora del tutto calma.‒ Sì, sto parlando di lui, ‒ confermò il commissario, vagamente preoccupato di non capire dove

volesse portarlo il suo interlocutore.‒ Di mio figlio Nèmègo? ‒ insistette l’uomo.‒ Sì, di suo figlio Nèmègo.Cadde di nuovo il silenzio. Il padre sospirò ancora, ma più debolmente, poi parlò senza guardare i

suoi ospiti.‒ La vita è un cammino. Che si vada in aero, in bicicletta, in piroga o in moto, la vita sarà sempre

un cammino. Arriva fatalmente il giorno in cui si fa un passo falso. Allora, quel giorno, il camminofinisce, la vita si ferma. È il destino di tutto ciò che respira, uomini e animali. Non camminare èmorire; camminare è morire, un giorno. Noi diciamo che il sole è calato, non è vero? Ebbene, se calaè perché ha camminato. Lei mi risponderà sì, ma ogni giorno rinasce. Errore, il sole non rinasce. Èun’illusione: è un nuovo sole a nascere. Altrimenti, se fosse il solito sole a rinascere senza sosta, nonci porterebbe sempre le stesse cose? Lunedì non è martedì, martedì non è mercoledì, e mercoledì nonè giovedì. Il lunedì di questa settimana non è uguale al lunedì della settimana prossima. Hanno lostesso nome, tutto qui. Mi avete seguito?

L’anziano uomo guardò fisso i suoi ospiti. La collera era sparita dal volto ormai segnato da unacompassata tranquillità. Il commissario sapeva che doveva superare un test. Dalla sua rispostadipendeva il credito che il suo ospite gli avrebbe accordato, tant’è vero che, in questo mondo, ognirelazione umana si stabilisce secondo le classi di età. Se, malgrado le sue funzioni e l’autoritàamministrativa, il commissario rimaneva un adolescente, a che pro discutere con lui?

“Accettare che hanno anche loro il proprio mondo”, si ricordò Habib.‒ Sì, è la pura verità, ‒ confermò il commissario, ‒ perché l’uomo che si rialza non è lo stesso che

è caduto. È per questo che ognuno di noi vive un mattino e una sera. Chi non comprende questa veritànon comprende nulla della vita.

L’ospite guardò nuovamente il commissario annuendo con la testa: non c’erano dubbi, il dialogocon lui era possibile.

‒ Nèmègo era mio figlio, ‒ continuò l’anziano. ‒ Un figlio valoroso che non domandava altro cheservire i suoi simili. Era l’amico di Yadjè, un vero amico. Ma lei conosce il seguito: un giorno hafatto un passo falso ed è caduto.

‒ Capisco, ‒ disse Habib. ‒ Sapeva che i due amici si sarebbero battuti in duello sulla falesia?‒ Sì, ma se vuole sapere se l’ho autorizzato, allora rispondo di no. Erano degli uomini, dovevano

decidere da soli. Il duello era per il loro onore.‒ Non posso non farmi una domanda: lei sapeva che uno dei due sarebbe morto. Poteva aiutarli a

risolvere il loro conflitto in un altro modo.‒ È come se lei mi dicesse che l’uomo che si alza è lo stesso che cade. Se Nèmègo avesse agito in

maniera diversa, quale immagine avrebbe lasciato di lui?‒ Ma c’è comunque l’amore di un padre per suo figlio! Lei voleva bene a Nèmègo.‒ Sì, volevo bene a Nèmègo, e a chi ha agito come ha agito lui. Un altro Nèmègo per me sarebbe

stato un estraneo.‒ Non è morto immediatamente, Nèmègo, ma il giorno dopo. E, secondo le mie informazioni, le

sue ferite, nonostante la gravità, non erano per forza mortali. Cosa è successo, quindi?Il vecchio non rispose subito, come se stesse riflettendo. Rimase con gli occhi fissi a terra.

Quando risollevò la testa, guardò non il suo interlocutore, ma il vuoto di fronte a lui.‒ Nèmègo è morto, è quello che ricordo, ‒ affermò con voce piatta.

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‒ Il giorno della sua morte ha ricevuto una visita? ‒ domandò Habib.‒ No, ‒ rispose l’ospite, a cui toccava ora non sapere dove voleva andare a parare il suo

interlocutore.‒ Quando è morto Nèmègo, esattamente?‒ La notte, nel sonno.‒ So che il suo corpo era smisuratamente gonfio, è vero?‒ Sì, ma non ha nessuna importanza.‒ È un fenomeno abituale qui?‒ Gli individui non sono identici; i morti neanche.‒ Se non ha ricevuto visite, il giorno della morte di Nèmègo, posso sapere chi ha avuto accesso

alla sua camera, quel giorno?‒ Nessuno oltre me. Sono io che l’ho curato, solo io. Avevo fatto uscire le donne. Tutto il giorno e

tutta la sera sono stato seduto là, come in questo momento. Dormiva. È morto nel sonno.‒ Le faccio un’ultima domanda: se fosse sopravvissuto alle ferite, come si sarebbe comportato nei

suoi riguardi?‒ Avrebbe smesso di essere mio figlio e gli avrei ordinato di lasciare questa casa.‒ Per lei, la sua morte era dunque meglio che la sua sopravvivenza?L’uomo non rispose. Il suo viso si era di nuovo adombrato. Era ora per i poliziotti di prendere

congedo.Era quasi mezzogiorno e il sole era bianco. Le nuvole grigie si addensavano nel cielo annunciando

l’imminente stagione delle piogge. I viottoli di Pigui erano deserti e il villaggio pareva triste. Ilcommissario Habib e l’ispettore Sosso si dirigevano verso la casa di Antandou.

‒ Capo, ‒ disse Sosso, ‒ credo che io non sarei mai capace di condurre un’indagine fuori daBamako.

‒ Ah, e perché, Sosso?‒ Perché non mi sento in grado. Ha visto il modo in cui le ha parlato il padre di Nèmègo?

Perifrasi, immagini, proverbi. Bisogna conoscere tutto ciò, capo, per parlare con gli abitanti deivillaggi.

‒ Andiamo, Sosso, nessun disfattismo, ‒ gli rispose Habib sorridendo. ‒ È vero che è un mododiverso di parlare. Ma ricordati quello che mi hai detto stamattina: bisogna entrare nel loro mondo.Tutto si impara, Sosso. Hai tempo. Mi ricordo, questo non te l’ho mai raccontato, la prima volta cheun’indagine mi ha portato in un villaggio; ho dovuto abbandonare. Sono riuscito ad aizzare tutto ilpaese contro di me, tanto disprezzavo senza rendermene conto le conversazioni più elementari. Hoincaricato uno dei miei agenti di occuparsene. Era più vecchio di me ed era cresciuto nella savana.Be’, alla fine lui ci è riuscito. Hai tutto il tempo, Sosso.

Appena misero piede sulla soglia della casa, un adolescente che camminava con l’aiuto di duestampelle, rigido come una marionetta senza articolazioni, si piantò davanti a loro e li squadrò.

‒ È la casa di Antandou? ‒ gli chiese Sosso.‒ Sì, ‒ rispose il ragazzino, ‒ ma non c’è nessuno. Sono tutti andati da qualche parte.-E tu?‒ Mi chiamo Ambaguè. Sono il fratello minore di Antandou. E voi?‒ Come vedi siamo poliziotti e vorremmo vedere i parenti di Antandou. Accetti di parlare un

momento con noi?‒ Andavo nei campi.‒ Possiamo venire con te. Se vuoi, Ambaguè.

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‒ D’accordo, ‒ disse Ambaguè, ‒ ma aspettate un attimo.Il ragazzino tornò in casa e riapparve su una sedia a rotelle artigianale, fatta di materiali di

recupero: placche di lamiera, un manubrio, dei mozzi e delle catene di bicicletta, delle ruote diciclomotori, il tutto dipinto approssimativamente di blu e grigio.

‒ Andiamo, ‒ ordinò Ambaguè.I poliziotti lo seguirono. Ambaguè doveva aiutarsi vigorosamente con le mani per fare avanzare la

sua sedia, le cui ruote storte si bloccavano talvolta tra i rovi o le pietre.‒ Andavo sempre nei campi con Antandou. Era mio fratello e mio amico. A volte ci andavamo con

Nèmègo. Era suo amico.‒ Dormiva nella capanna di vostro padre, Antandou?‒ Sì, dormiva con me nella stessa stanza.‒ Anche il giorno in cui è morto?‒ Sì. Quando mi sono alzato, volevo svegliarlo, come ogni mattina. Ma non mi ha risposto. E

rimasto sdraiato sulla pancia. Si era gonfiato, si era gonfiato tantissimo!‒ Qualcun altro ha passato la notte con voi, in camera?‒ No, eravamo noi due, come sempre. Quando non ha parlato, l’ho scosso e ho urlato: «Antandou,

alzati!». Non mi ha risposto. Ho detto: «Antandou, non mi piacciono questi scherzi, alzati!». Non si èalzato. È arrivato mio padre e ha detto che Antandou era morto. È così che è andata.

La voce di Ambaguè si spezzò alla fine. La sedia a rotelle si fermò: il ragazzino piangeva.Habib gli accarezzò la testa.‒ Smetti di piangere, Ambaguè, non serve più a niente.Poi il ragazzino diede una bella spinta al suo mezzo, che impennò. I poliziotti dovettero affrettare

il passo.‒ Dimmi, Ambaguè, ‒ continuò Habib quando raggiunsero il ragazzino, ‒ non era ammalato

quando è andato a dormire, tuo fratello?‒ No. Era molto triste per le ferite di Nèmègo. Non ha voluto neanche mangiare. Ha dormito così.‒ E la notte tu non hai sentito niente, in camera vostra, colto qualcosa?‒ Niente. Dormivo.Ambaguè fermò la sua sedia a rotelle davanti ad alcuni appezzamenti verdi che si estendevano a

perdita d’occhio. Un fiume dalle acque ugualmente verdi formava come un lago il cui riflesso donavaal paesaggio intorno dei colori magici. Più ci si avvicinava al lago, più i colori brillanti dellavegetazione viravano verso il bianco cremoso. Degli uccelli passavano e ripassavano senza sosta aldi sopra dello specchio immobile. Quando si levava la brezza, sembrava di vedere e di sentire unimmenso fremito. Al di là del fiume si estendeva un avvallamento di collinette di arenaria coperte dialberi dalle foglie verdi e oro.

I poliziotti si fermarono, colpiti dalla magia del luogo.Ambaguè domandò:‒ E bello, qui, vero?‒ Molto bello, ‒ gli rispose Habib.‒ Cosa fanno quelli là in fondo? ‒ chiese Sosso indicando sulla sinistra delle persone che

andavano e venivano reggendo degli otri simili a borracce.‒ Annaffiano i loro campi di cipolle. Tutto ciò che è dietro, in fondo, sono campi di cipolla. Poi le

venderanno a Mopti o anche a Bamako. Anche mio padre ha un campo di cipolle, ma è più lontano.Là in fondo, dove c’è l’albero con i rami tagliati, c’è il campo dell’hogon. Nessuno ha il diritto ditoccarlo. E là in fondo, dall’altro lato, costruiranno presto delle case, come a Bamako.

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‒ Ah, ‒ si sorprese Habib, ‒ chi costruirà queste case?‒ Non lo so. Me lo ha detto Antandou. Sapete che ci sono dei pesci nel fiume? Ma nessuno può

pescarli, perché l’hogon l’ha vietato. È vietato anche uccidere gli uccelli. Ma a volte, di notte, io e imiei compagni veniamo a pescare. Ma non ditelo a nessuno, per favore.

Habib e Sosso non riuscirono a trattenersi dal ridere. Camminarono ancora un po’ con ilragazzino, al quale Habib alla fine chiese: ‒ Allora, cosa facciamo adesso, Ambaguè?

‒ Torniamo a casa. Sono un po’ stanco.‒ Se è quello che preferisci, allora andiamo.Sfortunatamente per il ragazzino, dopo aver percorso qualche decina di metri una delle ruote della

sedia a rotelle si incastrò tra due grosse pietre. Nonostante tutti gli sforzi di Ambaguè, non simuoveva di un millimetro. I due poliziotti dovettero sollevare il trabiccolo e il suo conducente perrimetterli sulla strada giusta.

‒ Antandou mi aveva promesso di comprarmi una sedia a rotelle a motore, come quelle che sivedono a Mopti, ‒ ricordò Ambaguè. ‒ Sarei potuto andare ovunque da solo, fare tutto da solo. Mel’avrebbe comprata dopo poco, perché stava per ricevere tanti soldi. Ma l’hanno ucciso.

Le orecchie dei poliziotti si drizzarono, e il commissario chiese:‒ Chi lo ha ucciso?‒ La gente, quelli che erano gelosi di lui. Perché lavorava in comune, sapete. È quello che mi ha

detto mia madre.‒ E ha fatto dei nomi, tua madre?‒ No, ha solo detto che era la gente.‒ E tuo padre? Lui cosa ha detto?‒ Niente. Quella notte, è andato alla riunione con l’hogon. La mattina, Antandou è morto. Non ha

detto niente.Ambaguè si rimise a piangere. Habib gli accarezzò di nuovo la testa.‒ Antandou era bravo. Perché lo hanno ucciso?Il ragazzino parlava a se stesso. Ora andava più lentamente. Di colpo, con voce allegra esclamò:‒ Se avessi avuto quella sedia a rotelle, sarei stato campione del mondo. Di sicuro! Neanche i

corridori con due gambe mi avrebbero battuto. Non pensate?‒ Sicuramente, Ambaguè, ‒ gli rispose con tono vivace Sosso, al quale si era rivolto prendendogli

la mano.Poi, inebriato dalla sua immaginazione, il ragazzino letteralmente decollò. Habib lo guardò con un

sorriso commosso.‒ Sarai un grande campione, ‒ lo lusingò Sosso quando l’ebbero raggiunto.‒ Vero? ‒ esclamò Ambaguè con il braccio alzato. ‒ Dove abitate? ‒ Continuò.‒ All’hotel, ‒ rispose Sosso senza altre precisazioni.‒ Ah, lo conosco. Verrò a trovarvi, ogni tanto. Prenderete le persone che hanno ucciso Antandou,

vero?‒ Sì, Ambaguè, li prenderemo.Quando i poliziotti l’ebbero riaccompagnato a casa, Ambaguè insistette perché visitassero la

camera di suo fratello Antandou, senza immaginare che i due ospiti non domandavano di meglio.Qualche minuto dopo, sulla strada per l’hotel, passando vicino alla roccia dove aveva avuto luogo

il duello, l’ispettore Sosso alzò la testa.‒ Guardi, capo, ‒ disse.Il commissario vide allora il Gatto che, la sua bisaccia sulla spalla, si arrampicava sulla collina

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con la sua solita agilità. Quando Sosso si voltò, pochi istanti dopo, si rese conto che l’uomo, in piedisu una roccia, li seguiva con lo sguardo. Non disse nulla al suo capo che pensava, invece, adAmbaguè e alla sua povera sedia a rotelle.

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CAPITOLO SEDICI All’hotel La Falaise, mentre si affrettavano a salire in camera loro, il gestore informò i poliziotti

che un signore li stava aspettando sotto il piccolo capannone, nel cortile. L’ispettore preferì liberarsidella divisa prima di raggiungere il suo capo nella hall. Come se li avesse riconosciuti, l’uomo sialzò con il sorriso sulle labbra vedendo il commissario e il suo collaboratore dirigersi verso di lui.Strinse loro vigorosamente la mano presentandosi:

‒ Dottor Diallo, direttore dell’ospedale di Bandiagara.Porse al commissario due foglietti tirati fuori dalla borsa, dicendo non senza una punta di fierezza:‒ Il rapporto dell’autopsia, commissario.‒ Di già, dottore? ‒ non poté non sorprendersi il commissario.‒ Sì, commissario, di già, come dice lei.Habib scorse rapidamente il rapporto annuendo con la testa sotto lo sguardo lusingato del dottore,

poi lo porse a Sosso.‒ Le faccio un riassunto, commissario, ‒ propose il dottor Diallo. ‒ In effetti, la vittima è morta tra

le otto e le nove, questa mattina, in seguito a un avvelenamento. Si stupisce della mia rapidità; inrealtà, non ho un gran merito. Il genere di veleno usato ci è familiare, perché è caratteristico dellaregione. Ogni anno causa un certo numero di decessi. È una pianta rara, un’erba, in realtà che crescesotto alcune rocce, in luoghi umidi, cosa non usuale qui. I Dogon la chiamano “testa gialla”, perché lostelo di questa pianta finisce con un fiore giallo. Tuttavia, di per sé questo veleno non è aggressivo.Lo diventa solo se associato a un’altra sostanza velenosa, perché in quel caso sembra, e dico sembra,acquistare delle nuove proprietà di un’efficacia straordinaria. Sfortunatamente il livello delleattrezzature del nostro laboratorio non ci permette di andare oltre.

‒ Interessante, molto interessante, quello che mi sta raccontando dottore, ‒ intervenne Habib. ‒ Mipotrebbe dire quali sono i sintomi clinici di un avvelenamento di questo genere?

‒ Come le dicevo, la Testa Gialla è poco tossica di per sé. Tuttavia se la si ingerisce, anche inquantità minima, provoca una forte febbre che, se non curata, può provocare la morte del paziente,tanto più che questa febbre è spesso accompagnata da palpitazioni cardiache. Ho incontrato un casodi un paziente le cui feci presentavano sangue.

‒ Quando parla di una sostanza velenosa, dottore, pensa a qualcosa di preciso, mi pare.Il dottor Diallo sembrò esitare un momento prima di rispondere: ‒ Sì. Non avevo finito,

commissario. Dunque, la vittima che ho esaminato presenta anche tutti i sintomi di un avvelenamentoda serpente, da cobra più precisamente, qui ci siamo abituati. D’altronde si nota il segno del morsosul collo. Il veleno del serpente associato alla Testa Gialla diventa fulmineo: la vittima ha appena iltempo di capire cosa sta succedendo che il sangue gli si coagula e muore, gonfiandosi smisuratamentepoco dopo. Sfortunatamente, come le ho detto commissario, non posso andare oltre, perchébisognerebbe sapere quale reazione provoca l’unione delle due sostanze, quale nuova sostanza nenasce, ecc. Tutte cose che non sono in grado di spiegarle in questo momento.

‒ Mi ha già detto molto, dottore, ‒ lo confortò il commissario. ‒ Mi dica, c’è qualche dettaglio oqualsiasi cosa che l’ha colpita in maniera particolare esaminando la vittima?

‒ Sì, commissario. Mi chiedo come la Testa Gialla e il veleno si siano potuti incontrare perprodurre questa sostanza così fulminante. Ma usciamo dall’ambito della medicina, no? È piuttosto

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vostro compito cercare una risposta a questa domanda. Detto tra di noi, commissario, questo paese èstrano e siamo lontani dall’immaginare ogni conoscenza che vi si nasconde. Ovviamente, questo tieneoccupato solo me.

‒ Certo, dottore, ‒ convenne Habib.‒ Mi scusi, dottore, ‒ intervenne Sosso, ‒ il modo in cui il corpo della vittima si è gonfiato in così

poco tempo è straordinario.‒ In effetti, ‒ rispose il dottor Diallo, ‒ la combinazione del veleno e della Testa Gialla accelera

in maniera fenomenale ogni processo. Sfortunatamente non è a Bandiagara che troverete unaspiegazione soddisfacente a quest’enigma.

‒ In ogni caso, la ringraziamo infinitamente, dottore, ‒ disse il commissario.‒ Sono lusingato, commissario. Ho sentito molto parlare di lei e dell’ispettore Sosso ed è un

grande onore per me avervi incontrato.‒ Spero che ci rivedremo, dottore, ‒ concluse Habib.Si strinsero la mano, e il dottor Diallo se ne andò.‒ Una piacevole sorpresa, non è vero, Sosso? -chiese Habib.‒ Ammetto di sì, ‒ disse l’ispettore.‒ Ovvio, il dottor Diallo non può che offrire ciò che ha. Mi immagino il suo laboratorio, con una o

due provette. È sicuramente lui a fare tutto. Non possiamo pretendere troppo. In ogni caso, a Bamakonon farebbero di meglio. Comunque, il problema si complica. Nèmègo, Antandou e Ouologuem sonomorti nello stesso modo, cioè per l’effetto della Testa Gialla e del veleno di serpente, se ci affidiamoalle conclusioni del dottor Diallo. Sono tutti morti nel loro letto e, a parte Nèmègo, tutti erano inbuona salute al momento di andare a coricarsi. Siamo quindi in grado di dire che il veleno è statoloro iniettato mentre dormivano e non prima. Supponiamo che quello che il dottor Diallo prende perun morso sia una puntura fatta da un ago. In questo caso, i primi sospettati sono le persone che hannoavvicinato per ultime le vittime da vivi. Cioè il vecchio Kansaye, il padre di Nèmègo, Ambaguè, ilfratello minore di Antandou, la moglie o la domestica di Ouologuem. Ma tu li hai visti, Sosso: si puòpensare seriamente per un istante che quelle persone siano degli assassini? No, la risposta è daun’altra parte. C’è un dettaglio o un fatto che ci sfugge.

‒ È vero, capo, ma quello che mi incuriosisce è che, se noi supponiamo che è lo stesso individuoad aver commesso i delitti, se sono dei delitti e non degli incidenti, si doveva trovare in tutti i luoghiin cui sono morte le vittime. Se fosse così, l’avremmo saputo, in un modo o nell’altro. Altrimentibisognerebbe abbracciare l’ipotesi che i delitti, se si tratta di delitti, siano stati commessi da diversiindividui. Probabilmente associati da un legame che è ancora da definire.

‒ Esatto, Sosso. E qual è la tua idea?‒ Ammetto che per il momento non ne ho, capo. Però, a parte quella di Ouologuem, tutte le morti

hanno avuto luogo molto tardi la notte. Questo mi incuriosisce.‒ Hai perfettamente ragione. Non dimentichiamo questo dettaglio. Aspettando, ordina qualcosa da

bere, perché non sono sicuro che i camerieri vengano qui.Sosso si diresse verso il bar. Quando tornò al suo posto, sotto il capannone, il suo capo lo guardò

a lungo senza vederlo davvero, e poi gli disse:‒ Ripenso continuamente a quello che mi hai detto sul sindaco e sui suoi consiglieri. È evidente

che, al di là delle loro funzioni, formano un gruppo la cui natura è ancora da definire. Quello che ècerto, invece, è che sono i soldi a legarli. Ouologuem diceva che aspettava di essere ricco eAmbaguè ci ha rivelato che suo fratello stava per diventare ricco. Da dove aspettava i soldi? Misembra che faremmo un grande passo in avanti chiarendo questo mistero. Ma, visto il nuovo

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atteggiamento degli abitanti nei nostri confronti, sono convinto che non sarà facile. No, per nientefacile.

Una ragazza piuttosto carina servì loro delle bibite dolci senza dire una parola. Sosso le fece, adisagio, un piccolo sorriso. Habib se ne accorse.

‒ Scommetto che hai voglia di parlare alla ragazza, Sosso, ‒ disse.‒ Oh, no, capo, penso prima di tutto alle indagini.Habib scoppiò a ridere guardando il suo collaboratore il quale, a sua volta, fu preso da un attacco

di riso folle.‒ Non ne dubito, Sosso, ‒ riuscì a dire il commissario.Come ci si poteva aspettare, gli andò di traverso la bibita e tossì fino a sputare i polmoni, fino a

che arrivò un uomo, uscito da non si sa dove, che esercitò una pressione col dito sulla parte bassa delcollo: la tosse cessò immediatamente. L’uomo sparì senza neanche dare il tempo ad Habib diringraziarlo.

‒ Incredibile! ‒ si meravigliò il commissario. ‒ Hai visto, Sosso?‒ Sì, capo, ‒ confermò l’ispettore, anche lui altrettanto sorpreso. ‒ Quando il dottor Diallo parla

di scienza che si nasconde, sono sempre più tentato di dargli ragione.Habib annuì con il capo.Avevano il tempo di riposarsi prima di prendere parte alla cena offerta dal luogotenente Diarra. Samaké, l’autista, sembrava piuttosto cupo al volante della 4x4 che portava i poliziotti a

Bandiagara Al suo fianco Sosso fantasticava, mentre il commissario, che aveva preferito stare dietroper, aveva detto, poter stendere le gambe, non si faceva scrupoli a occupare tutto il sedile.

‒ Dimmi, Samaké, da quando hai scoperto che sono un poliziotto hai fifa, vero? ‒ chiese ilcommissario senza giri di parole.

L’autista scoppiò a ridere.‒ Ah! L’hai capito, Kéita? ‒ rispose.‒ Naturalmente. E io che credevo che i Samaké fossero delle persone coraggiose, ne incontro uno

che trema davanti a un Kéita. Non ti vergogni?Samaké rise ancora: era sollevato.‒ In realtà, sono stato molto sorpreso di scoprire che stavo portando il commissario Habib e

l’ispettore Sosso di cui parlano tutti. Io non sapevo che Habib Kéita e il commissario Habib erano lastessa persona. Allora ho avuto paura.

‒ Non hai niente da temere con me, a meno che tu non commetta un crimine, ma, per come ti vedo,fifone e chiacchierone, non sei capace di uccidere una mosca, ‒ disse Habib.

L’autista rise. Non c’era anima viva sulla strada che portava a Bandiagara. L’aria era fresca e immobile, e la

luna eccezionalmente bianca in un cielo ricoperto di stelle.‒ Mi intrometto di sicuro in qualcosa che non mi riguarda, Kéita, ma voglio dirvi di fare

attenzione. Avete toccato un cadavere questa mattina, senza l’autorizzazione dei patriarchi, e sieteentrati in alcune case in assenza del capofamiglia. Qui, questo non si fa. La gente di Pigui e deidintorni ce l’ha con voi. Ve l’ho già detto, sono degli stregoni. Non so neanche perché non sieterestati all’hotel di Bandiagara. Qui siete troppo vicini a loro. Fate attenzione.

Il commissario si limitò a dire “mhm” annuendo con la testa e ringraziò il conducente per i suoiconsigli. Erano già davanti a casa del luogotenente Diarra. Quest’ultimo e sua moglie vennero ad

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accogliere i poliziotti. Attraversarono un giardino di fiori ben tenuto, che fece fischiare Sosso perl’ammirazione. La sposa, elegante e di bella presenza, fece fare il giro della proprietà e raggiunseroil salone. ‒ È una casa coloniale, ‒ spiegò Jérôme. ‒ È proprio dietro la gendarmeria. Era l’alloggiodel comandante bianco dell’epoca.

‒ È una bella eredità, insomma, ‒ scherzò Habib che, senza alcun legame, domandò novitàdell’uomo “che amava troppo i montoni”.

‒ Questo pomeriggio è venuto in gendarmeria con la sua pecora, ‒ sospirò il luogotenente. ‒ L’haattaccata a una trave, proprio di fianco alla mia auto, e ogni mezz’ora usciva dall’ufficio per vederese l’animale stava bene. È un caso unico, questa passione per le bestie.

‒ Immagino che non le allevi per venderle, ‒ disse Sosso.‒ Mai! Le tiene per il piacere di averle vicino. Mi sconvolge. La cosa più difficile qui è che

bisogna gestire dei problemi che non hanno alcun rapporto con la nostra funzione. Continuamente. Evisto che ci sono solo problemi di questo tipo, non si ha il tempo di lavorare seriamente.

‒ Sai, Jérôme, ‒ disse Habib, ‒ siamo tutti in questa situazione. Bisogna gestire i problemi deiparenti, degli amici, dei vicini, ecc. E, effettivamente, resta poco tempo per esercitare la propriafunzione. È vero. Ma cosa vuoi, è così.

‒ La cosa più patetica nel caso di questo signore, ‒ intervenne la moglie, ‒ è che si comportasempre più come le sue bestie, nel modo di parlare, di camminare. Io credo sia malato, ma ècomunque così gentile!

‒ Dove si collocano i suoi figli in questa strana storia? ‒ domandò Habib.‒ Non ha figli.‒ Ah, ecco che forse si spiega.‒ Immagina, Jérôme, quando il tuo capo verrà in ispezione a Bandiagara, se domanda al tuo agente

qual è il suo nome e questo gli risponde: «Bèe»!‒ Basta, Sosso! ‒ disse Habib ridendo, ‒ non traumatizzare ancora di più il nostro ospite.Scoppiando a ridere, la moglie tornò ai fornelli. Jérôme e Sosso ne approfittarono per ricordare le

loro avventure a scuola, sotto lo sguardo commosso del commissario che si guardò dall’intervenirenella loro discussione.

A tavola, Jérôme domandò novità sulle indagini.‒ Procedono lentamente, al ritmo del paese, ‒ gli rispose Habib. ‒ Il dottor Dialla, invece, ci ha

fatto una buona impressione. Ha fatto un lavoro notevole, malgrado i suoi mezzi mediocri.‒ È un uomo affidabile, ‒ riconobbe il gendarme. -Sono contento che sia andato bene. Pensate,

quando ho detto a mia moglie che eravate all’hotel La Falaise ha praticamente urlato. Pensa chepossa essere pericoloso per voi. Ma lei è di Mopti, si capisce.

‒ No, ‒ protestò la moglie, ‒ è solo perché non è prudente trovarsi isolati in un villaggio dove lepersone sono vendicative.

‒ Tu non ami i Dogon, ‒ constatò il marito, ‒ si vede. In effetti per i Dogon le donne peul, e miamoglie ne è una, sono l’incarnazione del diavolo. Un Dogon non sposerebbe mai una Peul.Cominciate a capire la reazione della mia cara sposa?

‒ La capisco, ‒ intervenne Habib, ‒ non ama quelli che non la amano.‒ E in più, commissario, ‒ aggiunse la sposa, ‒ quelli sono degli stregoni. Sono capaci di uccidere

qualcuno senza toccarlo. È per questo che dovreste stare attenti.‒ Non è forse piuttosto perché sono troppo chiusi? ‒ azzardò il commissario. ‒ Guardandoli

vivere, mi faccio delle domande. Si direbbero fuori dal tempo.‒ E disprezzano le donne, ‒ insistette Madame Diarra.

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‒ Non so se sarei così categorico, Madame Diarra, ‒ disse Habib, ‒ ma è vero che, nella storiache ci ha portato qui, è morta anche una ragazza, ma nessuno ne parla, come se non avesse nessunaimportanza. E quando si ascoltano i padri, si ha la sensazione che il loro mondo sia esclusivamenteun mondo di uomini. Mi chiedo se tutto ciò non contribuisca a rendere la loro vita così dura.

‒ Io, invece, non sono per niente sicuro che sia un popolo arrogante, ‒ protestò Jérôme. ‒ Quandosi conosce la loro cosmogonia, quando ci si ricorda che hanno una rappresentazione del mondo chenon ha nulla da invidiare a quella di altri popoli che vengono messi su un piedistallo, ècomprensibile che diano l’impressione di disprezzare tutti gli altri. In realtà, credo che sia la loropace interiore a turbarci, e che noi prendiamo per disprezzo.

‒ Hai ragione, Jérôme, te l’ho detto: sei diventato uno specialista dei Dogon, ‒ scherzò Habib.‒ No, comandante, troppo onore per me, ma ammetto che è un popolo che mi affascina. Se ancora

riesce a resistere a ogni sorta di invasione, è perché si poggia su una salda struttura sociale.Sicuramente io non potrei mai vivere tra loro, ma questo non mi impedisce di ammirarli.

‒ Se capisco bene, ‒ disse Habib, ‒ tu vuoi farmi credere che qui un’indagine poliziesca ha pochepossibilità di andare a buon fine?

‒ Non lo so, comandante, ‒ protestò Jérôme, ‒ ma la sua indagine sarà molto difficile.‒ Di questo ce ne siamo già resi conto, vecchio mio, ‒ fece Sosso.‒ Forse dovrei mettere un gendarme di guardia davanti al vostro hotel, ‒ propose Jérôme quando

arrivarono al tè.‒ Ma no, è inutile, ‒ protestò Habib. ‒ Siamo dei duri, noi, vero Sosso? Vorrei invece farti una

domanda, Jérôme: com’è possibile che alla sua età l’hogon abbia una moglie così giovane, quasi unabambina?

‒ Comandante, non è veramente sua moglie, ma la moglie rituale, per così dire. È lì per occuparsidell’hogon, tutto qui, ‒ spiegò il gendarme.

‒ Ah, è così, dunque, ‒ disse il commissario.Quando i poliziotti si congedarono, era mezzanotte e mezzo.

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CAPITOLO DICIASSETTE Quando Habib e Sosso arrivarono in hotel, dormivano già tutti. La receptionist, che ronfava

profondamente appoggiata al muro, non li sentì neanche prendere le chiavi. Occupavano a pianoterradue stanze contigue, separate da una porta con il battente di ferro. Una volta spogliato, l’ispettoreSosso, al momento di spegnere la luce, diede un’occhiata dalla finestra, di cui aveva chiuso la gratama non il battente, e rimase paralizzato.

Nella luce scintillante della luna, una cosa rossa scarlatta e non ben definita era immobile e loguardava. Più passava il tempo, più i suoi occhi brillavano, diventando sempre più rossi. Un uomo?Una bestia? Come saperlo? In ogni caso, l’apparizione guardava Sosso. Quest’ultimo,apparentemente ipnotizzato, aveva l’impressione che la cosa di fronte a lui lo attirasse lentamente, inmodo irresistibile.

Poi la cosa si mise a oscillare da sinistra a destra, come se danzasse. A Sosso sembrò di sentireuna musica in sordina, un tam-tam sincopato che andava amplificandosi. E più aumentava il ritmodella musica, più l’essere, dall’altro lato della finestra, si animava. Presto diventò una danzaindiavolata, sostenuta da un battito di mani. La cosa si contorceva, muoveva la testa da ogni parte,faceva dei salti da togliere il fiato, si accovacciava, girava come una trottola. Il tam-tam avevaraggiunto una tale intensità che Sosso aveva l’impressione che fosse un lungo urlo senza fine. El’ispettore si mise a danzare a sua volta, come la cosa di fronte a lui. Ruotava, saltava, si agitava,come posseduto. Allora, poco alla volta, il ritmo iniziò a rallentare, così come lo slancio dei duedanzatori, i cui gesti erano diventati identici, fino a che tornò il silenzio. Sosso e la cosa siimmobilizzarono di nuovo, sembrava fossero legati da un filo nello sguardo. E l’ispettore si avvicinòlentamente ma inesorabilmente alla finestra, senza avere coscienza di quello che faceva. Con deigesti estremamente rallentati, si avvicinava come se volesse superare il muro e andare a gettarsi trale braccia di ciò che lo chiamava come un canto di perdizione. Ma l’ispettore urtò la lampada sulcomodino, che cadde provocando un gran rumore. In quel momento Habib fece irruzione nella cameradel suo collaboratore.

‒ Sosso! Sosso! ‒ urlò il commissario prendendo l’ispettore per mano.Ma quest’ultimo non sentiva niente, non vedeva niente, avanzava meccanicamente, al rallentatore,

e nessuna forza al mondo poteva fermare la sua marcia. Il commissario tentò di bloccargli ilcammino, ma il rullo compressore che era diventato il giovane poliziotto lo spingeva lentamente e losollevava verso la finestra. Quando la sua schiena sfiorò il muro, un’idea attraversò la mente delcommissario: tirò il battente della finestra, che si chiuse violentemente.

Allora il sortilegio si ruppe: come un pezzo di ferro che perde l’attrazione di una potente calamita,Sosso fu proiettato all’indietro e crollò con così tanta forza sul letto che la testa urtò violentementecontro il muro. L’ispettore si distese in tutta la sua lunghezza, immerso in un sonno profondo. Habibsi precipitò su di lui e gli prese la testa: Sosso dormiva pesantemente. Il respiro era profondo ecalmo. Il pigiama era talmente umido di sudore che anche le lenzuola e il cuscino erano bagnati.

Habib, la gola serrata, rimase a lungo chino sul suo giovane collaboratore. Senza pensarci, si alzòe riaprì la finestra: niente, solo la calma del villaggio e la luce lattiginosa della luna. Rimase lì, comeper lanciare una sfida. Non successe nulla. Allora il commissario richiuse la finestra e si sedettenuovamente al capezzale del giovane poliziotto. Si ricordò delle raccomandazioni della giovane

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guida, dell’autista Samaké, della moglie di Jérôme. Forse avrebbe dovuto effettivamente restareall’hotel Le Cheval Blanc di Bandiagara, forse aveva sottovalutato il pericolo che correvano arestare tra gente che non si conosce bene. Sospirò, si appoggiò al muro, chiuse gli occhi.

Inevitabilmente dovette riflettere sul suo lavoro, sulla sua immagine che, come in questo momento,lo metteva in situazioni che la sua anzianità avrebbe dovuto evitargli. Molti della sua generazionevivevano tranquillamente la loro vita nei gabinetti ministeriali o in organizzazioni internazionali.“Forse sono un ingenuo”, pensò. “Mi chiedo se non vivo fuori dal mondo, se il mio sogno di giustizianon mi giochi dei brutti scherzi”. Guardò nuovamente Sosso: con che diritto gli faceva rischiare lavita? Si alzò e percorse in lungo e in largo la stanza. Più la sua età avanzava, più constatava che gliuomini non diventavano migliori, gli succedeva sempre più spesso di chiedersi: perché? Sosso eragiovane, pieno di forze, destinato a un grande avvenire. “Probabilmente ho torto a volerne fare unpoliziotto come me, perché cos’è un poliziotto come me, ai giorni nostri?”. Il commissario Habib sirisedette al capezzale del suo collaboratore, che ora sorrideva nel sonno.

Fuori la luce della luna stava lasciando spazio poco a poco al rosso del sole. Habib sapeva chenon avrebbe più dormito. Pensò con una stretta al cuore: “Sono invecchiato”.

Un gallo cantò in lontananza.L’ispettore Sosso stava facendo colazione con il suo solito buon appetito quando fu raggiunto dal

suo capo il quale, il viso tirato a causa della notte insonne camminava piuttosto pesantemente.‒ Ti senti bene, Sosso? ‒ chiese Habib.‒ Sì, capo, ‒ rispose il ragazzo sorridendo. ‒ È stranissimo: mi sono alzato con un bernoccolo

sulla testa, ma non so da dove venga. Devo aver sbattuto contro il muro facendo un incubo. Non mi èchiaro.

Il commissario constatò con perplessità la tranquillità del suo giovane collaboratore, chesembrava non avere nessun ricordo degli avvenimenti della notte passata. Tuttavia la bottadimostrava, qualora ce ne fosse bisogno, che effettivamente era successo qualcosa di inusuale. “Maallora”, pensò il commissario, “perché io mi ricordo la scena nei minimi dettagli e lui no? Perché,anche se eravamo tutti e due spettatori, era lui a essere attirato irresistibilmente verso l’apparizione enon io?”.

Perché anche Habib aveva visto la cosa che danzava al chiaro di luna: era il portatore della primamaschera Casa a più Piani. Il Gatto. Ovviamente non poteva essere che lui. Ma cos’era avvenuto?C’era della musica, ma nessun musicista in vista, ed era sparito come un’ombra appena la finestra erastata chiusa. Era veramente presente, in carne e ossa, o era un’illusione? In quest’ultimo caso, comepotevano due individui essere vittime della stessa illusione nello stesso momento? Questoimplicherebbe che il Gatto sarebbe detentore di un sapere fuori dal comune. Cosa voleva? Chemessaggio aveva voluto inviare? Se il commissario non avesse avuto la presenza di spirito diprecipitarsi nella camera di Sosso, quest’ultimo si sarebbe schiantato contro il muro e lo scontrosarebbe stato fatale, tanto era potente la forza che lo attirava. Aveva intenzione di uccidere o volevasolo dire ai poliziotti che la loro presenza non era benvoluta a Pigui? In ogni caso, questo facevasupporre che in un modo o nell’altro stavano disturbando.

Fino a quel momento non avevano avuto a che fare con il Gatto: non sentendosi sospettato, néattaccato, perché aveva sentito il bisogno di reagire?

“Il Gatto comincia a perdere il suo sangue freddo”, pensò il commissario. Girò il suo caffè. Alzòla testa e vide Sosso che lo guardava, incuriosito. Allora, visto che aveva deciso di nasconderel’episodio della notte al suo collaboratore, mentì:

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‒ Pensavo al sindaco e al suo ultimo consigliere. Mi chiedo se non bisognerebbe assicurare lorouna protezione. Ma contro cosa?

‒ Magari chiamo Ali, ‒ disse Sosso. ‒ Visto lo stato in cui si trovava ieri dopo la morte diOuologuem...

‒ Fallo, Sosso.La conversazione tra Ali e l’ispettore fu breve.Quest’ultimo spiegò:‒ Ali mi ha detto che è a casa di suo zio, nel villaggio di Songo. Mi è sembrato di capire che si

nascondeva. Mi ha chiesto se avevamo arrestato l’assassino di Ouologuem. Non vuole che andiamo atrovarlo e non ha intenzione di tornare a Pigui prima dell’arresto del colpevole. Ha sicuramentepaura. Mi ha detto che il sindaco si è nascosto a Mopti, che è impossibile raggiungerlo. Naturalmenteil comune è chiuso. Ecco qua.

‒ Prova a chiamare direttamente il sindaco... ehm...‒ Dolo.‒ Sì, Dolo.‒ Ho provato, capo, ma c’è la segreteria telefonica.‒ È veramente un fuggi fuggi generale, ‒ constatò Habib. ‒ Ma la loro reazione è comprensibile.

Dobbiamo capire comunque quali erano i loro progetti personali, perché siamo quasi sicuri cheavessero uno o più progetti comuni. Avremmo dovuto perquisire le loro case, ma visto che sonointrovabili...

‒ Capo, ‒ disse Sosso, ‒ generalmente i funzionari lasciano i loro documenti personali in ufficio.Pensi alle nostre indagini precedenti. Io credo che, se ci sono dei documenti, non possano chetrovarsi in comune.

‒ Ah! Non ci avevo pensato. Allora telefona a Jérôme e passamelo.E così fece.‒ Jérôme, ho bisogno di un mandato di perquisizione per il comune... sì, il comune di Pigui. Il

sindaco e il suo consigliere sono introvabili. Se il procuratore vuole assistervi di persona, non vedonessuna obiezione... Sì... allora tra mezz'ora, se ho capito bene... Perfetto. A più tardi, Jérôme.

Il commissario si voltò verso Sosso.‒ Avremo il mandato di perquisizione tra poco. Spero soltanto che ci sia un guardiano.‒ Di solito sì, capo.‒ Bene, non ci resta che aspettare. Oggi la tua divisa ci sarà più utile dei jeans, Sosso, non pensi?

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CAPITOLO DICIOTTO Muniti ufficialmente del mandato di perquisizione, Habib e Sosso non sospettavano sicuramente

che quel trattamento preferenziale non sarebbe stato sufficiente per accedere ai locali del comune,sorvegliati da un guardiano che, oltre a essere intrattabile, non sapeva neanche leggere. Anchel’uniforme dell’ispettore non servì a nulla: l’uomo non voleva sentire ragioni.

‒ Il mio capo mi ha detto di non lasciare entrare nessuno quando non c’è, ‒ era la risposta aqualsiasi domanda, a qualsiasi argomento.

Dovettero chiedere l’aiuto della gendarmeria. I due gendarmi, venuti alla riscossa, fecero grandeimpressione sul guardiano, che accettò controvoglia.

I poliziotti si misero dunque al lavoro sotto lo sguardo dei loro colleghi. In realtà, non c’erano chedegli scarni archivi ordinari: verbali di riunioni, ricevute e altri documenti amministrativi; il tuttopoteva stare in una cartelletta. Fu nel piccolo ufficio del sindaco, tra due riviste porno, che Sossoscoprì una cartelletta verde contenente dei documenti che attirarono la sua attenzione e che sfogliò.

‒ Capo, guardi, ‒ disse dando i documenti ad Habib.Quando ebbe dato un’occhiata ai fogli in questione, il commissario aggrottò le sopracciglia.

Rappresenta vano il progetto di costruzione di un complesso alberghiero composto da un piccolohotel con spiaggia' piscina, campo da tennis, palestra e negozi.

‒ Hai capito qual è il luogo dove sorgerà questo gioiello? ‒ chiese Habib al suo collaboratore.‒ No, in effetti, capo. Il luogo non è precisato.‒ Guarda qui. Vedi questo corso d’acqua, questa catena di colline di granito...‒ Oh! ‒ esclamò Sosso, ‒ ma è sulla riva del fiume!‒ Esatto! Allora portiamoci tutto in hotel prima che il guardiano inizi a vedere rosso.Dopo aver lasciato liberi i gendarmi e ringraziato il guardiano, che rispose sempre controvoglia, i

due poliziotti ripresero il cammino verso l’hotel.‒ Mi chiedo una cosa, capo: è un loro progetto personale o un progetto comunale?‒ Da quello che so di questo paese, risponderei che è un loro progetto. Il comune è troppo povero

per realizzare un investimento del genere e oltretutto non siamo più ai tempi del Socialismo. Né loStato né le collettività fanno più affari. Secondo me, il problema è piuttosto sapere chi si nascondedietro questo progetto. Questi ragazzi non hanno soldi, è evidente. Sono dei prestanome, o meglio deisoci. Visto che tutti sembravano convinti di arricchirsi presto, va da sé che contavano di riceverequalche beneficio da questa impresa. Peccato che non possiamo interrogarli!

‒ Ed è esattamente in quel luogo che si trovano i campi dell’hogon! ‒ esclamò Sosso.‒ Ecco qui, Sosso, volevo sentirtelo dire. In una società come quella dei Dogon, voler depredare

la terra del capo spirituale è come un crimine di lesa maestà. Non dico che sia per questo che iragazzi hanno subito questa morte atroce, ma, se il progetto è noto, è perlomeno una ragione per nonessere amati a Pigui. Mi segui, Sosso?

‒ Assolutamente, capo. Ma sono pazzi! Come osano, nati in questo villaggio, educati in questovillaggio di cui conoscono le regole, permettere che si tocchino le terre dell’hogon?

‒ Il denaro, figliolo, sempre il denaro, il sogno di arricchirsi il più velocemente possibile.Qualcuno deve aver fatto balenare questa prospettiva sotto i loro occhi, ed eccoli partiti per il grandesogno. Ma non ci entusiasmiamo, dobbiamo verificare le ipotesi. Se non riusciamo a raggiungere né

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Ali né il sindaco, saremo obbligati a ripiegare sull’hogon e sul suo assistente. Non sarà divertente,ma non abbiamo altra scelta.

‒ Quello che mi incuriosisce ora, è perché il sindaco e i consiglieri si erano accaniti sul vecchioKansaye. Apparentemente non ha niente a che vedere con questa storia.

‒ Ascolta, Sosso: mi chiedo se non abbiano fatto tutti i furbi. Forse i ragazzi pensavano di agirenel più grande segreto, quando il loro progetto è stato scoperto. Kansaye è un colpevole facile e nonhanno cercato più lontano.

L’ispettore Sosso si fermò bruscamente e porse un foglio al suo capo. Sul retro del documento,proprio sul bordo, c’erano scritte alcune righe il cui inchiostro si era schiarito.

‒ D: 4 m; O: 2,5 m; Al: 2,5 m; An: 2,5 m. Potrebbe significare: Dolo: 4 milioni; Ouologuem: 2,5milioni; Ali: 2,5 milioni; Antandou: 2,5 milioni, ‒ interpretò Sosso ad alta voce.

‒ Ecco, ecco! ‒ esclamò Habib. ‒ Non l’avevo visto. Sarà l’accordo sulla partizione, sicuramente,perché non posso credere che sia la loro partecipazione al capitale. Ora abbiamo qualcosa da cuipartire. Mentre aspettiamo, questo pomeriggio andremo a fare visita al Gatto. Quell’uomo miinteressa enormemente.

Non ci volle molto tempo perché i poliziotti trovassero il pendio alla cui fine il Gatto compieva la

sua divinazione. Con la solita bisaccia a tracolla, l’uomo era accovacciato davanti a una tavola emeditava. Il commissario e l’ispettore lo avevano salutato ed eran in piedi già da qualche temposenza che l’indovino paresse essersi reso conto della loro presenza.

Mormorando e sorridendo di tanto in tanto, “leggeva” le risposte che le volpi avevano dato alledomande preoccupate degli esseri umani. Sputò, alzò la testa e sembrò accorgersi solo in quelmomento della presenza dei poliziotti.

‒ Buongiorno, Kodjo, ‒ disse Habib.‒ Buongiorno a voi, ‒ rispose l’indovino con voce grave.‒ Ci dispiace disturbarla fin qui, ma a volte l’uccello non può scegliere il ramo su cui posarsi.‒ Per fortuna i rami non si sottraggono mai all’uccello che non ha scelta.‒ Torna a onore del ramo, non è vero? Sa di sicuro chi siamo, vero, Kodjo?‒ So che siete venuti da Bamako e che siete poliziotti. L’ho sentito dire, come tutti qui, a Pigui. Il

vostro soggiorno è piacevole?‒ Lo è nella misura in cui non abbiamo né fame né sete e godiamo di buona salute.‒ È vero. Che il vostro soggiorno possa allora continuare in pace.‒ La morte visita troppo spesso Pigui in questi ultimi giorni. Le volpi avevano predetto queste

sciagure?‒ Le volpi portano la parola di Amma, il nostro Dio. Niente di quello che succede sulla terra può

sfuggirgli. Le volpi sanno tutto.‒ E quindi per conseguenza anche lei, non è vero, Kodjo?‒ Io sono il servitore. Interpreto la parola di Amma attraverso l’impronta delle volpi sulla sabbia.

Non invento nulla.Mentre il commissario e l’indovino si dedicavano a questa gara di retorica della quale Sosso non

capiva granché, l’ispettore non smetteva di osservare Kodjo, i cui grandi occhi gialli a mandorla nonavevano effettivamente niente da invidiare a quelli di un gatto. Quando stringeva le labbra, gli sialzavano i baffi e gli si drizzavano le orecchie. Ogni suo movimento dava l’impressione di un’agilitàfelina.

‒ Mi dica, Kodjo, ‒ continuò il commissario, ‒ qualche giorno fa morivano Nèmègo e Antandou,

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ieri Ouologuem. In comune non rimane più molta gente. Le volpi hanno annunciato la sorte dei duesopravvissuti in municipio?

Per la prima volta, scoprendo i suoi denti di un biancore stupefacente, l’uomo sorrise, di unsorriso che assomigliava piuttosto al ghigno di una bocca che piange.

‒ Se i sopravvissuti verranno a consultarmi, chiederò il parere delle volpi.‒ Lei conosceva bene Antandou, non è vero, Kodjo?‒ Sì, lo conoscevo come tutti quelli di Pigui, perché era un figlio di Pigui.‒ È morto. Senza essere malato. Morto nel sonno.Il Gatto restava in silenzio. Per una volta, sembrò prendere tempo per riflettere. I suoi baffi si

drizzarono, gli occhi gialli brillarono, una ruga profonda gli comparve sulla fronte.‒ Lei dice che non era malato, cosa ne sa? Si può essere sani nel corpo e soffrire nell’animo.‒ Ma lei sapeva che avevano paura di essere uccisi?‒ Non ne ho mai sentito parlare.‒ E se si fossero confidati con lei, cosa avrebbe risposto?‒ Non mi hanno detto niente.‒ Sì, ma supponiamo.Il Gatto rise piano: il gioco lo divertiva.‒ Mi sorprende quando parla così, lei che ha frequentato la scuola dei bianchi. Mi chiede cosa

avrei fatto ieri, ma neanche le volpi possono dare soddisfazione alla sua domanda. Che ciò che non èstato ieri sia stato ieri, insomma, non è quello che vuole?

‒ Lei non vuole rispondere, Kodjo, non è vero?‒ Probabilmente è perché non sono capace di rispondere. Gliel’ho detto, io non sono che un

interprete, non una volpe.‒ Ma è turbato da queste morti?‒ No. Lèbè, il nostro primo Antenato, ci ha portato la morte, certo, ma ci ha anche portato la

salvezza. Perché dovrei essere turbato da qualcosa che è solo una metamorfosi? Morire non è finire.‒ A me quello che turba è che tutti questi ragazzi siano morti avvelenati dalla stessa sostanza.Il Gatto non poté reprimere un sussulto. Spalancò gli occhi come per osservare meglio il suo

interlocutore. E, per la prima volta, si degnò di dare un’occhiata a Sosso, il quale, in piedi al fiancodel suo capo, lo osservava senza battere ciglio. Non rispose.

‒ Questa pianta, la Testa Gialla, che nasce sotto le rocce, ha un effetto fulmineo. Quelli che sonomorti lo sanno. Comunque non si sono suicidati. Qualcuno è colpevole della loro morte.

‒ Se lei conosce la risposta, ‒ disse infine l’indovino, ‒ perché fare la domanda?‒ Vorrei sapere se qualcuno oltre a me conosce la risposta. Se faccio la domanda alle volpi,

Kodjo, mi risponderanno?‒ Io non sono che un interprete, gliel’ho detto. Come posso conoscere la volontà delle volpi senza

averle consultate?‒ Peccato, mi sarebbe proprio servito.‒ In ogni occasione non si fa che la volontà di Amma.‒ Ora è alla sua saggezza che faccio appello, Kodjo. Una cosa può esistere senza esistere?‒ Questo dipende dalla volontà della cosa.‒ E se io le dicessi che ieri il mio collaboratore e io abbiamo visto una cosa che non esisteva?‒ Risponderei che ieri eravate gli unici testimoni. Chi metterebbe in dubbio quello che affermate?‒ Questa cosa che esisteva senza esistere aveva la forma della Casa a più Piani. Danzava senza

danzare, saltava senza saltare.

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Più il commissario parlava, più il Gatto pareva perdere sicurezza. Delle sottili goccioline disudore gli imperlavano la fronte. Inghiottiva la saliva sempre più spesso e si passava la lingua sullelabbra.

‒ Era lì senza essere lì, questa cosa, ‒ continuò Habib, ‒ e il suo unico pensiero era di fare male,forse anche di uccidere.

‒ Di uccidere chi?‒ Il mio collaboratore.‒ Posso constatare che è vivo, il suo collaboratore.‒ Perché il ferro può tagliare il ferro. La cosa ha i suoi limiti e anche il padrone della cosa. Ma mi

dica, Kodjo, perché era in ritardo alla festa del dama?Il Gatto non rispose subito. Abbassò la testa, guardò a lungo la tavola di divinazione davanti a lui.

Quando i suoi occhi si posarono su quelli del suo interlocutore, era ritornato il Gatto di sempre.‒ A volte non si vede il cielo diventare scuro, -disse, enigmatico, ‒ è per questo che molti restano

troppo tempo fuori e si fanno sorprendere dalla pioggia. Il cielo diventa scuro, devo rientrare, ‒disse una volta in piedi.

‒ Avremo sicuramente occasione per continuare questa conversazione, non è vero, Kodjo?‒ Se un fulmine non ci colpisce, sicuramente. Che la pace di Amma sia con voi, ‒ fu la risposta

dell’indovino.‒ Che Allah ci protegga dalla sciagura, ‒ concluse Habib.Il Gatto se ne andò, la sua bisaccia a tracolla. I poliziotti lo guardarono scendere con grande

agilità per il pendio prima di riprendere la strada dell’hotel.‒ Una strana conversazione, capo, ‒ disse Sosso.‒ Sì, Sosso, ‒ ammise Habib. ‒ Con un uomo come Kodjo non si può fare diversamente. Possiede

il sapere dei suoi Antenati e ha la tendenza a considerare tutti gli altri dei cretini.‒ Ho creduto che parlaste di me, per un attimo.‒ Non ci fare caso, era una figura retorica, ecco tutto.‒ Mi pareva comunque irritato verso la fine.‒ Certo! Del resto è quello che volevo. Vedi, Sosso, sono sicuro che c’entra con i vari omicidi,

perché sono convinto che siano degli omicidi. Ho voluto che capisse che non lo temo.‒ E cos’è il fulmine di cui ha parlato?‒ Ci minaccia, né più né meno. Era come se ci dicesse: occupatevi degli affari vostri, altrimenti vi

colpirà una disgrazia. Nient’altro!‒ Per reagire così, non deve essere molto tranquillo.‒ Sì, è per questo che dovremo essere più prudenti. Ma non lo perderò d’occhio.In effetti, i poliziotti avevano appena sfidato Kodjo. Ma chiunque a Pigui li avrebbe avvertiti che

non si provoca impunemente il Gatto.

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CAPITOLO DICIANNOVE Contrariamente a quello che temeva il commissario, la notte fu calma. Sosso dormì come un sasso.

Anche Habib non si svegliò che la mattina tardi.L’ispettore era al ristorante, come sempre, e chiacchierava con la giovane cameriera, che si

eclissò vedendo il commissario. I due giovani turisti americani avevano portato giù i loro bagagli;probabilmente partivano. C’era visibilmente poca gente in hotel; in ogni caso più impiegati checlienti. Fuori, il sole era accecante.

Dei bambini si aggiravano tra i rari tavoli occupati mostrando dei giochi di loro fabbricazione.Erano delle automobili, delle moto e delle biciclette fatte di materiali di recupero dai colori vivaci.Sosso era particolarmente interessato a una macchinina che aveva la scritta “Nullità!” su una portierae “Assolutamente” sull’altra.

Pensò di discutere il prezzo con il ragazzino che gliela voleva vendere, ma cambiò ideaaccorgendosi che il bambino non capiva il francese. La comprò comunque. Fu un errore. Un nugolo dibambini saltellanti si abbatté sul povero ispettore, ognuno tentando di rifilargli la propria merce, cosìche cominciò a innervosirsi veramente.

Habib osservava la scena divertito, senza dire una parola, fino al momento in cui, sommerso, ilsuo collaboratore gli gettò uno sguardo supplicante. Allora con voce grossa, il commissario intimidì iragazzini che se ne andarono.

‒ Con dei commercianti del genere, non c’è dubbio che il nostro paese si svilupperà rapidamente‒ scherzò Habib, gli occhi fissi su Sosso, la cui camicia bianca era coperta di macchie dovute allemani unte dei ragazzini.

Sosso si alzò ed entrò nella sua stanza senza dire una parola, e riapparve poco dopo, con indossouna camicia grigia a quadri.

‒ È la prima volta che ti vedo così arrabbiato, Sosso, ‒ gli fece notare Habib.‒ Sono fastidiosi, questi bambini, e oltretutto fa caldo, ‒ brontolò il giovane poliziotto.‒ Devi capire, questi poveri piccoli non vanno a scuola. Che altro fare? I turisti per loro sono una

possibilità. Provano quindi a trarne il massimo profitto. È molto triste, certo, ma è così. Quello che tipropongo, è che andiamo di nuovo a rendere visita all’hogon, sperando che sia nello stato diriceverci. Ti ricordi che il piccolo Ambaguè ci ha detto che suo padre aveva assistito a una riunionepresieduta dall’hogon, il giorno prima della morte di Nèmègo e di Antandou? Vorrei sapere di cosasi trattava. Ne approfitteremo per parlare del famoso campo. Potrebbe essere interessante, non trovi?

‒ Sì, capo, a condizione che non parli solo per immagini, altrimenti io sarò fuori gioco, ‒ risposeSosso asciugandosi la fronte con il fazzoletto che aveva tirato fuori dalla tasca.

‒ Andiamo, nessun complesso di inferiorità, ragazzo. L’età servirà almeno a qualcosa! Apri la tuamente e le orecchie quando i vecchi come noi parlano e alla fine capirai.

Inspiegabilmente l’ispettore fu preso da una risata folle che attirò l’attenzione del personaledell’hotel e soprattutto di un piccolo lustrascarpe, che si avvicinò allegramente e quasi si appoggiò alpoliziotto. Allora tutto l’hotel scoppiò a ridere come un solo uomo, compreso Habib!

‒ Fa bene, ‒ constatò il commissario quando le risate tacquero, ‒ e non costa nulla.Sosso si asciugò le lacrime che gli erano venute agli occhi. I due turisti non smettevano di

guardare i poliziotti che chiacchieravano con un servitore. Il piccolo lustrascarpe voleva a ogni costo

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lucidare le scarpe di Sosso, che proprio non voleva saperne. Ma il nostro ragazzo era moltocoriaceo: quando Sosso gli rispondeva, non sembrava sentire niente e ripeteva il suo desiderio dilucidargli le scarpe. Esasperato, l’ispettore ricominciò ad asciugarsi la fronte e il collo. Il nostrouomo non demordeva da quello che assomigliava sempre più a un debito. Finalmente vinto, Sossostese le gambe e offrì i suoi piedi al piccolo lustrascarpe, che si mise al lavoro. L’ispettore gli diedequalche moneta in cambio e se ne andò.

‒ Sembra che solo i bambini ti riescano a domare, ‒ disse il commissario.‒ Non provano neanche a capire quello che gli si dice!‒ Hanno bisogno di soldi, figliolo. Mettiti nei loro panni. Devono lottare. Non hanno scelta.Sosso, che sudava ancora copiosamente, cercò il suo fazzoletto nella tasca dei pantaloni e intorno

a lui, ma non lo trovò.‒ È quel piccolo imbecille che me lo ha fregato! -disse con voce lamentosa.Habib si mise a ridere e tentò di consolare il suo collaboratore, che aveva una faccia da funerale.

Poi, ricordandosi del particolare timbro di voce del lustra-scarpe, lo stesso del ragazzino che avevatentato di terrorizzarlo l’altra notte, Sosso mormorò:

‒ Ma è lui! ‒ e si precipitò verso l’uscita.Naturalmente Diginè, perché di lui si trattava, era sparito. Quando il suo collaboratore gli ebbe

spiegato la sua disavventura della notte precedente, il commissario scosse la testa.Appena i poliziotti varcarono l’uscita dell’hotel, il telefono di Sosso si mise a suonare. Ascoltò,

rispose a voce bassa esitando, poi guardò fisso il commissario‒ Cosa succede? ‒ gli chiese quest’ultimo.‒ Ali... Ali è morto... a Songo... È la gendarmeria che...‒ Ah! ‒ esclamò il commissario, che esitò per un po’ prima di continuare. ‒ Allora andiamo a

Songo. Chiedi a Jérôme di mandarci un gendarme.Giusto in quel momento la Land Rover della gendarmeria frenò davanti all’hotel e scesero due

gendarmi per spiegare al commissario che il loro capo aveva chiesto loro di mettersi a disposizionedei poliziotti. Il convoglio partì subito per Songo, raggiunto in un quarto d’ora di strada polverosa.

Era un villaggio particolare. Solo capanne coperte di paglia, di cui ci si domandava per qualemiracolo i muri stessero in piedi, essendo le pietre appoggiate una sull’altra senza nessun tipo dicemento. In altre circostanze, Habib si sarebbe di sicuro attardato in questo luogo.

La casa dello zio di Ali era situata ai piedi della falesia. Mentre i gendarmi montavano di guardia,i poliziotti entrarono. Nel cortile, qualche montone e delle capre legate a dei pioli emanavano unforte odore.

Lo zio in questione era un tetraplegico che si trascinava aiutandosi con le mani. Condusse Habib eSosso nella capanna dove riposava il corpo di Ali, su un letto di bambù. Come quello di Ouologuem,era gonfio e con del sangue nero che si era coagulato agli angoli della bocca. Habib esaminò ilcorpo, l’interno della capanna e, dopo che i gendarmi ebbero fatto delle foto, chiese di trasportare ilcadavere all’ospedale di Mopti per l’autopsia.

Fuori, su un pezzo di stuoia, lo zio sembrava inebetito.Quando Habib gli chiese spiegazioni sulla morte del nipote, l’anziano uomo pianse.‒ Ali è venuto a trovarmi ieri. Abbiamo parlato a lungo. Visto che era arrivato di notte, gli ho

detto di dormire qui. La mattina tardava a svegliarsi. Sono entrato in camera sua e l’ho trovato inquesto stato.

Gli colarono ancora delle lacrime.‒ Quando è arrivato ieri a casa sua, ‒ gli chiese Habib, ‒ non si lamentò di essere malato?

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‒ No, l’ho solo sentito un po’ preoccupato.‒ Ha dormito da solo nella capanna?‒ Sì, da solo.‒ La porta si chiude dall’interno?‒ Sì, c’è una serratura.‒ È sicuro che nessun altro è entrato nella capanna?‒ Non ho visto nessuno entrare nella capanna.‒ Mi ha detto che sembrava un po’ preoccupato. Le ha detto perché?‒ Ali non era un ragazzo che si confidava facilmente. Non mi ha detto niente.‒ Veniva a trovarla spesso?‒ Era l’ultimogenito della mia defunta sorella. Io sono solo, lo vede; era lui che provvedeva ai

miei bisogni. Era un ragazzo generoso.‒ Dov’è sua moglie?‒ È nella sua capanna. Non smette di piangere perché amava molto il ragazzo. Abbiamo avuto

nove figli, ma sono morti tutti alla nascita. È la volontà di Amma.‒ Ha un’idea della causa della sua morte?Il paralitico si passò la mano sul viso più volte prima di rispondere.‒ Non lo so proprio. È strano, un corpo che si gonfia tanto in così poco tempo! Non ho mai visto

una cosa del genere.‒ Conosceva la ragazza con cui stava?‒ La figlia di Kodjo? Sì, è venuto a presentarmela qualche mese fa. Voleva sposarla, ma il padre

della ragazza non voleva. Ho detto ad Ali di smettere, perché Kodjo è un pozzo di scienza. Nonbisogna mai sfidarlo. Ali non mi ha più parlato della ragazza, ma non so se continuava a vederla.

‒ Perché Kodjo non voleva un genero come Ali?‒ Noi siamo musulmani, Kodjo non lo è. Forse è questa la causa, non lo so. Ali aveva promesso di

comprarci un aratro e dei buoi; doveva prendere qualcuno che lavorasse per noi, perché avrebbepresto avuto molti soldi. Ma Amma ha deciso diversamente.

In un’altra capanna si levò il pianto della vecchia inconsolabile zia.I poliziotti presero congedo.

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CAPITOLO VENTI Nella 4x4 che si dirigeva verso Pigui sollevando una fitta nuvola di polvere, Sosso tentò

disperatamente di contattare il sindaco. Informò Habib, che si limitò a sospirare. I poliziotti sisentivano infatti disorientati. Habib non smetteva di chiedersi se non avesse commesso un errore anon garantire la sicurezza del sindaco e dei suoi consiglieri. Ma proteggerli contro chi? Quello cheavevano indicato come loro futuro assassino non sembrava per niente coinvolto nelle mortisuccessive. Inoltre, cosa fare contro un nemico invisibile, che poteva colpire ovunque e in qualsiasimomento? No, il commissario aveva torto a colpevolizzarsi: semplicemente, non si era maiconfrontato con una realtà del genere. Sosso, invece, era dispiaciuto per la perdita di Ali perché eraun ragazzo della sua età che avrebbe potuto essere un buon amico. La sua fragilità non l’avevasalvato da una morte brutale e atroce. Tutti e due pensavano a Dolo, il sindaco, ma cosa fare peraiutarlo, visto che non sapevano neanche dove si nascondeva?

Il commissario e l’ispettore lasciarono l’auto e si diressero verso la casa dell’hogon. La notiziadella morte di Ali aveva di sicuro fatto il giro del villaggio, poiché tutti sembravano essereparticolarmente interessati ai poliziotti.

Dall’hogon era sempre presente Douyon, il fedele assistente. Salutò con la sua voce soave escherzò come sempre e, come sempre, gli stranieri ricevettero la rituale brocca d’acqua dibenvenuto.

‒ Desideriamo vedere l’hogon, ‒ disse Habib.‒ Ah sì, ‒ rispose Douyon nel suo modo inimitabile, ‒ oggi sta molto meglio.‒ Allora possiamo vederlo?‒ In realtà, è ancora affaticato e temo...Da una capanna, una voce chiamò Douyon, che si alzò subito.‒ L’hogon dice che può ricevervi. Vi parlerà, questa è un’eccezione perché non parla mai con gli

stranieri di passaggio. Non lo dimenticate. Venite con me in camera sua, ‒ disse ai poliziotti, che loseguirono.

La capanna era spoglia di mobili, a eccezione di una specie di tavolino sul quale era scolpita unacoppia di cavallerizzi. Su un letto di bambù, era seduto l’hogon, ottuagenario, con le gambe allungate.Indossava un cappello rosso, un ampio boubou indaco di cotone, dei sandali ornati di cauri e tenevain mano un bastone. Un’impressione di grande dolcezza emanava dalla sua persona e i suoi piccoliocchi brillanti si corrugavano quando rideva.

‒ Siamo passati qui una prima volta, ma non si sentiva bene. Siamo stati ben accolti da Douyon, ‒cominciò Habib.

‒ Sì, me lo ha detto, ‒ confermò l’hogon, ‒ avevo un po’ di febbre. È l’annuncio del cambiamentodi stagione, perché la stagione delle piogge sta arrivando. Avete visto le nuvole sempre più pesantinel cielo, non è vero? Ora va meglio.

‒ Che sia così per lungo tempo.‒ Che Amma vi dia ascolto. Stavo per domandarvi la ragione della vostra visita.‒ Siamo dei funzionari di polizia e arriviamo da Bamako. Prima di tutto, ci tenevamo a renderle

omaggio, come vuole la tradizione. Poi, ci piacerebbe parlare con lei di certi avvenimenti che sonoavvenuti a Pigui.

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‒ Non c’è nulla di male a informarsi. Dunque vi ascolto.‒ Lei sa che i ragazzi che lavorano in comune stanno morendo, uno dopo l’altro, in modo strano.

Ne resta soltanto uno, perché il terzo è morto proprio questa mattina. Penso che queste morti nonsiano naturali, ma che qualcuno le ha provocate. Sto cercando di capire chi.

L’hogon scosse la testa, gli occhi fissi al suolo.‒ Quando noi, i Dogon, siamo venuti a installarci qui più di settecento anni fa, fu perché eravamo

un popolo selvaggio, fiero e geloso della propria libertà. Siamo venuti dal grande Mandé senza arminé ricchezze. Non avevamo che la nostra fede. Da quel momento, ci siamo affidati alla protezione delnostro Dio Amma. Tutto che quello che esiste sulla nostra terra e sotto la nostra terra esiste solo perla volontà di Amma. Solo Amma ha risposte per tutto. Il nostro primo Antenato, Lèbè, ci ha portato lamorte, certo, ma ci ha dato anche la missione di vegliare sull’eredità comune. È per questo che ogniDogon, ovunque si trovi, deve ricordarsi che ha come missione quella di vegliare sull’ereditàdell’Antenato, altrimenti smette di essere un Dogon. Io, che sono l’hogon, da mattina a sera sonoseduto qui e aspetto che, ogni notte, Lèbè, il nostro Antenato, venga a visitarmi e a insegnarmi un po’del suo sapere infinito. È la mia missione, è il mio destino. Lo accetto. Tutto quello che succede aPigui mi riguarda. Lei mi dice che dei ragazzi muoiono a Pigui e che questo la stupisce. Vorrebbesapere perché muoiono. La mia prima risposta al suo interrogativo è questa: qualunque sia la suaintelligenza, l’uomo non sarà mai Dio. La morte è cosa di Dio.

‒ Secondo lei, i ragazzi che sono morti sono stati fedeli al precetto del vostro Antenato Lèbè? ‒chiese Habib.

‒ Chi sono io per osare dare un giudizio su un mortale? Non sono che io stesso un mortale.‒ Loro hanno frequentato la scuola dei bianchi, non la pensano come lei.‒ Non è la scuola che spinge gli individui a dimenticare le loro radici, ma la loro debolezza.‒ Ho saputo che lei possiede un campo.‒ Possiedo un campo, come ogni hogon, dall’origine dei tempi.‒ E se qualcuno avesse in mente di sottrarle il campo?‒ Nessuno qui, a Pigui, toccherebbe il campo dell’hogon, perché ognuno ha il proprio campo, ‒

rispose l’uomo sorridendo.‒ Sì, ma se comunque si toccasse il suo campo, quale sarebbe la sua reazione?‒ Non reagirei.‒ Veramente?‒ Veramente.‒ Perché qualcun altro reagirebbe al suo posto, giusto?A questo punto J’hogon rise di una risata infantile.‒ Credo che ci sia un malinteso, Kéita, lei è un Kéita, vero? Il campo dell’hogon appartiene

all’hogon, non a me.‒ Ma lei è l’hogon! ‒ si sorprese il commissario.‒ Certo che sono l’hogon, ma l’individuo che sono non è che un individuo fra gli altri. Il campo

dell’hogon appartiene all’hogon oggi e domani. Chi lo tocca, tocca un bene dell’hogon, non un miobene.

‒ Sì, Poudiougou, perché lei è un Poudiougou, giusto? Ma chi preserva il bene dell’hogon di ieri,di oggi e di domani? ‒ insistette il commissario.

‒ Tutti i Dogon. Penso che ora ci siamo capiti. La parola è difficile, sa, la sua forza e la suacorrettezza non dipendono sempre dal sapere.

‒ Si dice: «Parla, ma non dire tutto quello che hai nello stomaco». Io sono un Malinké, ignoro i

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fronzoli. È per questo che le domando, Poudiougou, lei l’hogon, sapeva che delle persone stavanoper impossessarsi del campo dell’hogon di Pigui per costruirci delle case?

- I Malinké sono nostri cugini, vero? Vivevamo insieme nel grande Mandé settecento anni fa. Lasua maniera di fare domande quindi non mi sorprende: i Malinké resteranno sempre dei Malinké. Leimi dice che delle persone stavano per impossessarsi del campo dell’hogon. Le chiedo: lo hannofatto?

‒ Stavano per farlo.‒ E dunque perché non lo hanno fatto?‒ Perché sono morti o sono condannati a morire.Seduti fianco a fianco, Douyon e Sosso assistevano in silenzio a questo duello. Era piuttosto un

giocare a nascondino, dove i giocatori erano a turno il gatto e il topo. Gli spettatori restavano là,immobili e preoccupati per l’esito della battaglia.

‒ Kéita, la parola che non supera la barriera delle labbra si chiama pensiero. Non c’è niente dipiù segreto del pensiero. Che della gente sia stata uccisa perché ha solamente pensato mi sorprendemolto.

‒ Esattamente, ed è per questo che credo che il loro pensiero sia diventato parola, che è stata poiportata dal vento e che è arrivata a un orecchio che l’ha trasmessa a un altro orecchio. So che iragazzi del comune sono morti per aver voluto impossessarsi della terra dell’hogon.

‒ Se quello che lei dice è vero, non hanno meritato la morte?‒ I Dogon vivono a Pigui, Pigui fa parte di un Paese: il Mali, e solo il Mali ha il diritto di punire.

Non possono esistere due leggi nello stesso Paese.‒ Allora le chiedo, Kéita, tra Pigui e il Mali, cos’è più antico?‒ Non è una questione di anzianità, Poudiougou, ma una questione di diritto. Pigui è un comune, e

non è lo Stato.‒ Le faccio ancora una domanda: prima che Pigui fosse un comune, non esisteva? I Dogon sono

nati con il comune?‒ I Dogon occupano queste terre da settecento anni, lo so, ma non sono una nazione indipendente.‒ Questa terra è stata donata ai Dogon da Amma; i nostri Antenati ce l’hanno trasmessa per

l’eternità. Chi ignora questa legge ignora tutto.‒ Lei ha torto, Poudiougou. Ora posso sapere di cosa avete parlato durante la riunione che ha

preceduto la morte dei ragazzi? ‒ chiese il commissario guardando l’hogon dritto negli occhi.Fu l’assistente a rispondere.‒ Vede, Kéita, anche la parola a volte dimentica la saggezza, allora si inebria. È per questo che è

meglio lasciarla riposare quando comincia ad agitarsi. Posso chiederle di rivederci domani sera, nondall’hogon, ma sotto il toguna?

‒ Non ci vedo nessun inconveniente, se questo è il desiderio dell’hogon, ‒ disse Habib.‒ Che sia dunque così, per la volontà di Amma. Che Lèbè si prenda cura del vostro cammino, ‒

concluse l’assistente con un sorriso enigmatico.L’hogon invece pareva assente.

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CAPITOLO VENTUNO Un sibilo stridente risuonò. Poi fu come un topo che mangiucchiava le sbarre della finestra, presto

raggiunto da un altro topo, poi un altro ancora, fino a che non sembrò piuttosto un gatto che graffiavail battente con rabbia; poi vi era riflesso un altro gatto, poi un altro e un altro ancora.

Sosso si svegliò, accese la lampada del comodino e tese l’orecchio. Agli stridii si aggiunsero deisibili sempre più numerosi, sempre più acuti. Poi dei colpi sordi risuonarono contro il battente dellafinestra, sempre più violenti. Sembravano delle pietre lanciate con forza che si erano abbattute controil legno.

Sosso pensò che dei bambini dispettosi si divertissero a impedirgli di dormire e stava per aprirela finestra per urlargli addosso quando un colpo più forte ruppe il battente della finestra, di cui volòvia un pezzo e andò a schiantarsi sul muro opposto. Allora, attraverso una breccia, sbucò una testa diserpente che sibilava come una freccia. Il rettile, il cui resto del corpo faceva fatica a uscire dallafessura, spalancava le fauci e sibilava orribilmente. Dalla rabbia, si agitava talmente che, perl’effetto della luce, il suo corpo lanciava dei fulmini in ogni direzione.

Sosso era paralizzato, soggiogato dal rettile, che, visibilmente, ce l’aveva a morte con lui. Poco apoco, il corpo scivoloso si stava liberando dalla stretta della fessura e, poco a poco, il morsomortale si avvicinava al giovane ispettore, immobile come una statua. Gli stridii e i sibiliaumentavano sempre più: altri serpenti tentavano furiosamente di entrare nella camera. Dei frammentidel battente della finestra si misero a volare e colpirono Sosso in pieno viso. Il giovane continuava anon muoversi. Due, poi tre teste di serpenti passarono attraverso il battente della finestra e, incastratinella fessura, sibilavano a più non posso. A volte, due teste passavano attraverso la stessa fessura,allora sibilavano ancora di più dibattendosi.

L’ispettore, sempre affascinato dallo spettacolo e inchiodato dalla paura, era paralizzato. Il primoserpente riuscì a far passare il suo corpo attraverso la fessura e si lanciò alla velocità della luceverso Sosso.

Allora apparve Habib, tirò brutalmente il suo collaboratore per la camicia fino alla cameracontigua e chiuse provocando un fragore la porta in ferro.

‒ Sosso! Sosso! È tutto finito, ‒ ripeteva il commissario al suo collaboratore stringendolo a lui.Sosso diceva solamente “mhm!” scuotendo la testa. Habib gli diede un pizzicotto sulla guancia, gli

scrollò la testa, invano: il ragazzo sembrava sotto l’effetto di un incantesimo.Nella camera di Sosso, i serpenti erano ora presi da una crisi di follia omicida. Si gettavano

contro la porta, sibilavano, si intrecciavano e, irritati, si muovevano tutti insieme, si dibattevano epoi si sparpagliavano sul pavimento di cemento. Presto si levarono degli stridii conosciuti dallafinestra della camera di Habib, uniti a dei sibili: i serpenti tentavano di introdursi anche da questolato.

Il commissario e il suo collaboratore si tenevano stretti uno all’altro, in mezzo alla camera.Restava un’unica soluzione: uscire. Mentre Habib trascinava Sosso verso la porta, dei colpi sordirisuonarono contro il battente, seguiti da sibili sempre più numerosi: i poliziotti erano circondati.

Escluso un miracolo, era sicuramente la fine, perché i serpenti che ce l’avevano cosìviolentemente con loro erano dei cobra. Anche il commissario, di solito padrone dei suoi nervi,sentiva che erano in trappola. Attraverso le inferriate della finestra e dietro i due battenti della porta

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si tendevano già delle fauci lucenti, pronte a mordere, con le loro zanne velenose in avanti.Fu in quel momento che l’istinto di sopravvivenza venne in soccorso del commissario, il quale,

benché appesantito da Sosso che gli si era aggrappato, si precipitò verso il comodino e afferrò lascatola promozionale di fiammiferi che vi si trovava, strappò il lenzuolo dal suo letto, lo incendiò e,munito di questa torcia, bruciò senza riguardo le teste velenose che li puntavano. Si sentì allora unrumore sordo, come di un oggetto che cade sul suolo nudo, in contemporanea a un fischietto cherisuonò dal lato della strada.

Fu come il segnale della ritirata: strisciando sulle mensole, sul letto, sull’armadio, i cobra siprecipitarono fuori e, in qualche secondo, sparirono nella notte. Quanti erano? Una decina, forsemeno.

Habib prese tra le braccia Sosso, che tremava in tutto il corpo.‒ Ora è finita, ‒ gli disse.Fu in quel momento che arrivò l’addetto alla reception, che si informò della ragione di quel

baccano. Quando Habib gli ebbe fornito spiegazioni, l’uomo spalancò gli occhi e scosse la testasenza dire niente.

I poliziotti chiesero di cambiare stanza.Dovettero somministrare un sonnifero all’ispettore.Il commissario prese una torcia elettrica e pensò di fare il giro dell’hotel, dal lato della strada da

dove erano venuti i serpenti. L’addetto alla reception riteneva fosse una follia, ma Habib non cedette.Fuori, le tracce lasciate dai serpenti erano ancora visibili; non era dunque stato un incubo. La luce

della torcia illuminò subito un oggetto. Con mille precauzioni e con l’aiuto di un bastoncino, ilcommissario dopo essersi protetto con dei guanti, portò l’oggetto in camera sua, lo fece scivolare inun sacchetto di plastica e incaricò l’addetto alla reception di recapitarlo con urgenza al dottor Diallo.

Inutile spiegare perché i poliziotti apparvero al ristorante quasi deserto solo all’ora di pranzo.

Sosso, sotto l’effetto del sonnifero, sbadigliava ancora. Habib sorrise guardandolo.‒ Ieri non è stato un incubo, capo, ‒ disse l’ispettore.‒ Questa volta no, Sosso. Erano dei veri serpenti indiavolati, dei cobra, mi sembra. E sono

convinto che qualcuno li abbia aiutati a entrare nelle nostre camere, perché non sono i serpenti adaver perforato i battenti delle finestre. È un miracolo che ne siamo usciti.

‒ Insomma, il fulmine è caduto.‒ Esattamente! Credo che il Gatto abbia messo in atto la sua minaccia, voleva ucciderci.‒ Sì, ma capo, non lo lasceremo certo libero di fare!‒ Quale prova hai per arrestarlo? Quale giudice ti crederebbe se raccontassi questo attacco dei

serpenti? No, Sosso, per il momento non possiamo fare nulla contro di lui.Sosso sospirò facendo un gesto di impotenza.‒ Vedi, piccolo mio, ‒ gli disse il commissario, ‒ in te c’è una paura della savana che devi

vincere. Tu hai paura non solo dei serpenti, ma di tutto ciò che simboleggia la savana. Questa pauranon è una carta vincente. Mi chiedo se la prossima volta non dovrei mandarti da solo in missione.

L’ispettore, che non era certo attratto da questa prospettiva, preferì non rispondere.Un uomo robusto e vestito con una camicia blu si diresse verso i poliziotti, li salutò e porse una

busta al commissario. Conteneva il rapporto dell’autopsia del corpo di Ali e i risultati dell’analisidell’oggetto che il commissario aveva raccolto dietro alla finestra. Dopo aver letto i documenti,Habib li porse a Sosso. Quando quest’ultimo alzò la testa, il commissario si limitò a mostrarglil’oggetto in questione. L’ispettore rimase a bocca aperta dalla sorpresa.

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Al di sopra della recinzione dell’hotel, si poteva vedere una fila di asinai che andavanoprobabilmente a Bandiagara, con il loro carico di cipolle. Il corteo era composto essenzialmente dadonne e bambini. Alcuni cani li accompagnavano trotterellando e agitando la coda. Habib li guardòcon aria pensierosa. Gli abitanti del villaggio avevano accettato l’ordine della loro società, non siponevano domande e apparivano se non felici perlomeno sereni. Sarebbero ritornati a finepomeriggio con un po’ di soldi che gli avrebbero permesso di sopravvivere qualche giorno, ma nonsembravano chiedere di più. Certo, sarebbero rimasti per sempre anonimi, ma quella loro maniera divivere valeva meno della sua, fatta di missioni, stipendi di fine mese e di dubbi?

‒ Rifletti, Sosso, ora hai un’idea plausibile dell’assassino, del movente e dell’arma del crimine?Sosso rifletté un momento, poi sospirò.‒ Altrimenti, ‒ continuò il commissario, ‒ lo scoprirai questa sera, sotto il toguna.‒ Capo, è prudente andarci? ‒ chiese Sosso. ‒ Non sappiamo che trappola ci tenderà, questa

gente.‒ Nessuna, Sosso. Si sono resi conto che ho capito tutto. Telefona a Jérôme per informarlo che

torniamo a Bamako domattina. Andremo a salutarlo partendo. L’inchiesta è praticamente finita.

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CAPITOLO VENTIDUE Alla luce di una torcia elettrica, il commissario e l’ispettore camminavano attraverso i cespugli,

verso il toguna. Sosso stava ben attento a tenere lo stesso passo del suo capo, perché non era del tuttosicuro che l’hogon non avrebbe teso loro una nuova trappola. Certo, aveva, come Habib, preso laprecauzione di portare la sua arma, ma non si poteva mai sapere.

La massa scura, imponente del toguna si profilò. Si potevano già sentire degli stralci diconversazione. Habib e Sosso salutarono e fu un vociare a rispondere.

Erano presenti tutti i capifamiglia attorno all’assistente dell’hogon. Gli abiti erano invariabilmentedei boubou di cotone bianco o ocra, con in testa dei berretti a punta dai grandi risvolti, anch’essi dicotone. In questo insieme quasi uniforme, stonava solo lo sguardo giallo del Gatto, che portava la suabisaccia a tracolla e stringeva un borsone sciupato tra le gambe. Erano tutti seduti su dei tronchid’albero caduti. Il commissario e l’ispettore furono delusi e incuriositi dall’assenza dell’hogon. Erasemplicemente in ritardo?

Douyon, il maestro di cerimonia, dopo aver scambiato qualche parola con il suo vicino, parlò.‒ A voi tutti, capifamiglia di Pigui, il mio saluto, per la grazia di Amma e del nostro Antenato

Lèbè. Attraverso di me, l’hogon è qui con noi questa sera. E se ha tenuto a essere dei nostri, è perchélo esige la sorte di Pigui e dei Dogon che noi siamo. Poudiougou ha ricevuto la visita di Kéita e delsuo collaboratore. Sono persone della polizia venute a informarsi sulla nostra situazione. Vorrei farcapire loro che l’hogon è sì assente, ma che ogni parola che pronuncerò uscirà comunque dalla suabocca: non ne aggiungerò né toglierò neanche una. Dunque gli stranieri hanno parlato dei decessi chehanno avuto luogo qui, quelli dei tre ragazzi del comune: Antandou, Ali e Ouologuem, e di Nèmègo.Non hanno parlato di Yadjè, tuttavia anche lui è morto. Hanno detto che la loro morte non eranaturale, che qualcuno li aveva uccisi. L’hogon li ha ascoltati, perché bisogna ascoltare per capire. Èper questo che è giusto che siano i padri dei defunti a prendere la parola a turno, per chiarire i fatti aKéita e al suo collaboratore.

In un silenzio di tomba, lo zio di Yadjè incominciò.‒ Parlerò io, Kansaye. Kéita e il suo collaboratore mi hanno fatto visita. Ho detto loro quello che

pensavo. Mio nipote Yadjè è morto nell’onore e con dignità. È morto perché è caduto dalla falesia.Sarebbe potuto sopravvivere, ma Amma ha deciso diversamente. Vorrei che gli stranieri sapesseroche noi non scambieremmo la nostra dignità con nulla. Non ce l’ho né con il padre né con la madre diNèmègo: quello che doveva succedere è successo. Che sia sempre così, secondo la volontà di Ammae del nostro Antenato Lèbè.

Si sentirono degli “mhm” di approvazione, amplificati da dei cenni del capo.Poi, come per un ordine, si levò un’altra voce.‒ Quanto a me, il padre di Antandou, vorrei dire questo agli stranieri: tutto quello che succede

deriva dalla volontà di Amma. Nessuno può togliere la vita se Amma non lo vuole, altrimenti lapunizione che subirà sarà la stessa. Mio figlio è morto perché doveva morire. Ecco tutto.

Di nuovo approvazioni nella stessa maniera e, sempre nella stessa maniera, si levò una voce raucae tremante.

‒ Sono il padre di Ouologuem. Non parlerò diversamente dagli altri. Vorrei solo che gli stranierisapessero che ogni padre, qualsiasi cosa lasci trasparire, ama suo figlio. E io amavo Ouologuem.

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Ma, come me, mio figlio aveva una missione: fare in modo che la dignità e l’onore dei Dogon sianosalvaguardati. Se è morto per non aver onorato la sua missione, allora ha avuto la morte chemeritava. L’ha voluto il nostro Antenato Lèbè.

Il commissario constatò che, in un ordine preciso, gli oratori parlavano da destra verso sinistradell’assistente del capo spirituale. Fu dunque senza sorpresa che sentì parlare l’ultimo oratore afianco di Douyon.

‒ Sono il prozio paterno di Ali. Mio fratello più giovane ha scelto di essere musulmano, questo èaffar suo. Nessuno lo ha tenuto in disparte se non lui stesso. Anche se porta un nome non delle nostreparti è comunque mio nipote. Ha del sangue dogon. Se, con il pretesto di essere musulmano, non sisente obbligato a comportarsi come tutti noi, non ha comunque il diritto di offendere l’onore e ladignità dei Dogon. Se ha perso la vita per aver dimenticato questa verità, è una questione del nostroAntenato Lèbè. Nessun mortale ne è responsabile.

‒ Nèmègo ha dimenticato il significato dell’amicizia. Ha fatto un passo falso ed è caduto nelburrone. Non è colpa di nessuno. Cosa posso dire ancora?

Così si espresse il padre di Nèmègo.Il maestro di cerimonia lasciò passare qualche minuto di silenzio prima di riprendere la parola.‒ Quelli che dovevano parlare hanno parlato. L’hogon li ha sentiti, l’assemblea li ha sentiti. Gli

stranieri li hanno sentiti. Ognuno ha detto quello che aveva nel fondo del cuore, in tutta onestà.L’hogon, attraverso la mia voce, vi ringrazia, l’assemblea vi ringrazia, voi che avete parlato. Ora, segli stranieri hanno qualcosa da aggiungere, vorrei che sapessero che siamo tutti orecchie. Kéita, a leila parola.

Il commissario non era stupido: quegli anziani si erano riuniti prima dell’assemblea, ognunosapeva cosa doveva dire, non ci sarebbero mai state voci discordanti. I discorsi erano tuttiarzigogolati, identici perché nessuno voleva rispondere direttamente alla domanda che si poneva ilcommissario.

‒ Saluto l’hogon assente, ma presente attraverso di lei, Douyon; vi saluto tutti, miei cugini dogon,‒ cominciò il commissario. ‒ Avrei voluto incontrarvi in altre circostanze, ma l’uomo non ha semprepossibilità di scelta. Sono dunque venuto qui per sapere come e perché sono morti i ragazzi delcomune. Prestatemi attenzione. Tutti questi ragazzi sono morti per una ragione precisa: sono andaticontro l'ordine stabilito qui da secoli. Yadjè e Nèmègo si sono battuti perché Nèmègo ha trasgreditoun principio sacro al quale ogni Dogon degno di questo nome tiene: l’amicizia. Gli altri, Ali,Antandou e Ouologuem, e anche Nèmègo, hanno commesso il sacrilegio di voler prendere possesso evendere il campo dell’hogon a delle persone che volevano costruirci un hotel. La proprietàdell’hogon per voi è sacra, e il suo rispetto si impone su tutto. Aggiungo che il fatto di correre dietroalla figlia di Kodjo non ha semplificato la situazione di Antandou. Non ero presente alla vostrariunione, il giorno prima della morte di Nèmègo e Antandou, ma indovino quello che si è detto quellasera, e ognuno di voi si ricorda il suo discorso. Cosa è successo quindi?

Dopo il duello, Douyon, che si trovava sul posto, andò a informare l’hogon degli avvenimenti

che Pigui stava vivendo. Certo, sfidarsi per delle questioni d’onore non era raro, ma l’hogonpensò che la vicenda fosse più grave di quanto non sembrasse a prima vista. Così ordinò al suoassistente di convocare il consiglio degli Anziani la sera stessa, sotto il toguna. L ’hogon non sisposta e parla poco. Così incarica Douyon del messaggio che doveva dare ai capifamiglia riuniti.

Dunque quella sera, guidandosi con la luce della luna o di una torcia elettrica, delle ombrefantasma dal passo a volte incerto, sostenute da bastoni, cominciarono, attraverso i campi, a

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convergere verso il toguna. Sembravano dei coni viventi, con i loro boubou e i loro berretti apunta.

In mezzo al toguna, una lampada a olio, il cui stoppino di stracci disegnava sul suolo dellestrane figure senza fine, teneva compagnia a Douyon, seduto, solo e immerso nei suoi pensieri.Poi furono un’ombra, due, tre, a entrare sotto il toguna chinandosi. Allora i saluti non finivanopiù, e man mano che gli arrivati prendevano posto, il toguna si animava. Cadde bruscamente ilsilenzio senza che nessuno l’avesse imposto e si levò la voce dell’assistente dell'hogon.

‒ Amma ha guidato i nostri passi fino al toguna questa sera, possa darci la saggezza necessariaper superare tutti gli ostacoli. Parlo sotto lo sguardo del nostro Antenato Lèbè. L’hogon mi haincaricato di riunirvi questa sera in suo nome per un problema molto grave che riguarda Pigui, lanostra terra, la terra dei nostri avi. Vi dirò solo quello che lui mi ha incaricato di dirvi. Seaggiungo o sottraggo una parola, che questa parola sia per sempre una macchia sul mio nome:

«Oggi dei ragazzi si sono battuti sulla falesia. Due di loro sono morti, l’altro è gravementeferito. I loro padri sono qui tra noi, certo, ma non sono forse semplicemente dei ragazzi dogon, inostri figli? Se si smarriscono, sono i nostri figli a smarrirsi. Con i tempi che corrono, perdere lapropria strada vuol dire perdere il proprio avvenire. Perché i nostri figli si sono battuti? Perchési sono fatti beffe di uno dei valori sui cui è fondata la nostra società: l’amicizia. Vi insultereivolendovi spiegare che per noi, i Dogon, l'amicizia significa rettitudine e onore, questi valorisono dei pilastri della nostra società. Nèmègo era l'amico di Yadjè, ma non ha esitato a portare ilsuo sguardo sulla fidanzata del suo amico. Sfortunatamente, è Yadjè che ha perso la vita. Tuttavia,ha avuto ragione di difendere il suo onore. Non siamo noi a decidere, ma Amma. E Amma hadeciso che Yadjè doveva morire.

«L ’hogon mi incarica di dirvi che niente succede senza ragione e che la ragione di Amma nonè per forza la nostra. Non è dunque il duello di per sé che ha portato l’hogon a convocare questariunione. In realtà, Nèmègo è amico di Dolo, di Ouologuem, di Antandou e di Ali. Sono loro adirigere il comune. A suo tempo, l’hogon vi ha detto che il mondo andava al contrario, dato che sichiedeva a dei ragazzi di prendere il comando della società dogon. Noi li abbiamo lasciati fare,perché per noi non erano che bambini seduti a cavalcioni su uno stelo di miglio agitando legambe, che si immaginavano di cavalcare un cavallo da corsa. La terra dei Dogon non può cheappartenere ai Dogon, e nessun essere umano, qualunque sia il suo potere, può decidere al postodi Amma e del nostro Antenato Lèbè.

«Qualche mese fa tuttavia un progetto funesto ha invaso la testa dei nostri ragazzi: hannopensato, con la complicità di gente estranea al nostro paese, di accaparrarsi le terre dell’hogonper costruirci degli hotel, farci venire degli stranieri, delle donne dai costumi leggeri e con usiche non sono i nostri. Tutto questo solo per il denaro. Quando la notizia è arrivata alle orecchiedell’hogon, mi ha incaricato di chiamare Dolo per dargli dei consigli e metterlo in guardia.Perché, ditemi, chi tra noi accetterebbe mai che fosse venduta una parte anche minima del nostropaese? Tuttavia, tre giorni fa, i nostri ragazzi hanno venduto la nostra terra e hanno ricevuto unacconto. Sì, Ali, Ouologuem, Dolo e Antandou hanno ricevuto del denaro dagli stranieri, ai qualihanno venduto una parte della nostra terra.

«È il denaro che li spinge a non rispettare i loro avi, a prendere delle mogli più povere di loro,a sputare sull’amicizia, a considerarsi come dei re. Di questo passo, cosa diventerà quindi Pigui?Cosa possiamo sperare da dei ragazzi del genere quando saranno cresciuti avendo avuto come

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unico maestro il denaro?«L’hogon mi incarica di chiedervi se essere Dogon ha ancora un senso. Se degli stranieri

vengono a visitarci senza oltraggiare i nostri valori, non c’è di che innervosirsi o preoccuparsi,ma quando i nostri ragazzi si alleano con gli stranieri per impossessarsi delle nostre terre, allorarimanere passivi ci renderebbe complici del loro crimine.

«Non è Lèbè ad aver guidato i nostri passi fino a queste terre che Amma ci destinava? Ilmondo, il nostro mondo, appartiene ad Amma. È lui ad avere creato gli otto Antenati primordiali,è lui che ha fatto esistere il nostro Antenato Lèbè perché generasse le quattro tribù originali. Nondimentichiamoci da dove veniamo».

L’uditorio ascoltava, lo sguardo fisso a terra. Alcuni si lisciavano la barba, altri annuivanosenza sosta. La notte avanzava. Si sentivano degli asini ragliare, lontano. Delle urla di uccelli silevavano ogni tanto da qualche parte. Quando soffiava la brezza, la fiamma della lampada a oliodanzava follemente, poi si raddrizzava. Solo il Gatto restava dritto, immobile, gli occhi fissisull’oratore, la sua bisaccia a tracolla.

‒ Noi sappiamo che l’uomo può mettere al mondo qualsiasi cosa, compreso il suo stessonemico, ‒ continuò Douyon. ‒ Questi ragazzi sono nostri figli, ma sono diventati i nostri nemici,perché solo i nostri nemici possono avere il progetto di sottrarci la nostra terra. Infatti, cicombattono con il denaro e per il denaro, il denaro dei nostri nemici. Allora vi chiedo: cosadobbiamo fare? L’hogon mi ha incaricato di farvi questa domanda: cosa dobbiamo fare se siamoancora dei Dogon? Noi tutti siamo padri di questi ragazzi, ma è soprattutto a chi li ha generatiche faccio questa domanda.

Ci fu un momento di esitazione, poi si levò la voce del padre di Antandou: ‒ Se Antandou hapreferito il denaro alla sua terra, vuol dire anche che ha preferito il denaro a suo padre. Se hafatto così poco caso a me, allora non è più mio figlio. Che sia punito così come si puniscono itraditori. Ecco cosa rispondo all’bogon.

‒ Lo sparviero non può generare un mostro. Dolo si è comportato come un mostro, non puòessere mio figlio. Che ciò che gli deve succedere gli succeda, per la volontà di Amma. Ecco la miarisposta all’hogon, dichiarò il padre del giovane sindaco.

Il padre di Ouologuem, un vecchio signore cieco, fu più laconico.‒ Se mio figlio ha sbagliato, che la paghi cara, secondo la volontà di Amma.‒ Ali è come mio figlio, ‒ dichiarò il prozio di Ali, ‒ ma non si è comportato come mio figlio.

Suo padre è morto per aver tradito e lui segue le tracce di suo padre. Meriterà ogni punizione.Dei mormorii riempirono il toguna. Lontano, gli asini ragliarono ancora.‒ Porterò i vostri discorsi all’hogon senza aggiungere né omettere una parola. Ali, Ouologuem,

Antandou e Dolo pagheranno con la loro vita. È quello che avete deciso. Se qualcuno haun'obiezione, che lo dica ora, altrimenti taccia per l'eternità.

Fu in quel momento che intervenne il padre di Nèmègo.‒ Mio figlio Nèmègo non lavora in comune, ma è amico di chi ci lavora. Non ha preso i soldi

della vendita della nostra terra, ma ha perso la retta via. Quando si ha per amico un disonesto, sifinisce per perdere la propria onestà. Anche Nèmègo ha tradito. Ha calpestato l’amicizia, quindiha calpestato la nostra dignità. Che anche lui subisca la punizione riservata a suoi amici. Hofinito.

Ci furono di nuovo dei mormorii. Un vecchio sdentato, piegato in due, tossì a lungo prima di

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poter esprimersi con voce fievole.‒ Mia figlia Yakoromo non è meno colpevole. Yadjè era il suo fidanzato. Noi, i suoi genitori,

l’abbiamo deciso prima ancora della sua nascita. Se ha tradito il suo fidanzato per legarsi con ilsuo migliore amico, allora non è più degna di noi. La sciagura è venuta da lei. Non ho aspettato.Le ho detto che non era più una Dogon, che doveva andarsene per sempre. A quest’ora, è già instrada e non si fermerà finché non sarà fuori dalle terre in cui vivono i Dogon. Per me, mia figliaè già morta.

‒ Tutto ciò che abbiamo detto e sentito lo porteremo con noi nella tomba. L’hogon vi saluta.Che Amma illumini il nostro cammino, che Lèbè vegli su tutti noi, ‒ concluse l’assistentedell’hogon.

Mentre gli altri lasciavano il toguna, il Gatto, con la sua bisaccia a tracolla, si diresse versoDouyon, che sembrava aspettarlo.

Mentre i notabili camminavano attraverso la sterpaglia, risuonò il terzo canto del gallo.Nel momento in cui la luce del sole nascente cominciò a illuminare la falesia, da qualche parte

nel villaggio una donna lanciò un grido di dolore, che l’eco fece risuonare all’infinito. Era lamadre di Nèmègo: aveva scoperto il corpo senza vita di suo figlio, gonfio come un pallonegigante, un rivolo di sangue nero coagulato all’angolo della bocca.

Poco dopo, un altro lamento lugubre risuonò altrove: a sua volta, la madre di Antandou,l’amico di Nèmègo, scopriva il cadavere smodatamente gonfio di suo figlio, e un rivolo di sanguenero coagulato all’angolo della bocca.

Furono queste le scene che tornarono alla mente del suo uditorio quando il commissario, meno

informato dei dettagli, rivelò la sua versione dei fatti, conforme, nell’essenziale, alla realtà.‒ Come sono morti i ragazzi? ‒ continuò. ‒ È quello che spiegherò adesso. Kodjo è il custode del

santuario dei serpenti. L’ho visto scalare la falesia centinaia di volte, ma non ho mai provato a capirecosa ci andasse a fare. Tuttavia so che ci sono dei serpenti. Sapete come me che qualsiasi animale,fosse anche sacro, può essere addestrato perché obbedisca agli ordini del suo padrone. Così Kodjo èanche il padrone dei cobra, che gli obbediscono in tutto e per tutto. Come agisce? Un serpente siaddestra come un cane, al punto che può anche reagire al fischietto del suo addestratore. Se si vuoleche vada a mordere qualcuno, gli si dà da annusare e riconoscere l’odore della persona. Basteràallora portarlo non lontano dalla sua futura vittima perché la riconosca e la morda. È sufficientetrovare un abito o una cosa della sua futura vittima, in ogni caso un oggetto che abbia il suo odore. Losapete quanto me, una capanna può anche essere chiusa bene, ma ci sarà sempre sul tetto o tra imattoni o le pietre delle pareti uno spazio dove può passare un serpente. Ecco come sono stati uccisiAli, Antandou, Ouologuem e Nèmègo, morsi da un serpente. Non si tratta solo di un semplice morsoche introduce il veleno già mortale del cobra. Tutti hanno notato che le vittime si gonfiano subito eche del sangue si coagula agli angoli della bocca. È la Testa Gialla che causa un effetto del generequando è combinata con il veleno del cobra. Il serpente, quando morde la sua vittima, non gliintroduce solo il suo veleno, ma anche un’altra sostanza (la Testa Gialla), di cui è stato macchiato ilsuo dente. È così che si fa con le frecce o le zagaglie, non è vero? Ecco perché le vittime non hannonessuna possibilità di sopravvivere. Ma sarò molto più preciso. Kodjo, nella bisaccia che le pendesulla spalla, c’è almeno un cobra. E nella stessa bisaccia, c’è probabilmente un pezzo di tessutoappartenente alla futura vittima. È lei ad aver incaricato Diginè, il piccolo lustrascarpe, di sottrarreun fazzoletto al mio collaboratore. Sfortunatamente per lei, quando ha lanciato i suoi cobra

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all’assalto della nostra camera, non si è svolto tutto come sperava. Nella fretta, volendo rimettere iserpenti nella bisaccia, ha fatto cadere il fazzoletto del mio collaboratore. Altro dettaglio importante.Ali, Antandou e Nèmègo sono morti di notte, in camera loro. Kodjo, qui è lei il re della notte. Puòuscire quando vuole, andare dove vuole senza rendere conto a nessuno, l’ho capito fin dal mio arrivoa Pigui. Le è bastato lasciare ogni volta il cobra ammaestrato in prossimità della capanna della suavittima perché ci entrasse e facesse la sua volontà. Nel sonno la vittima sente un morso di cui nonsaprà mai la natura. E il serpente torna dal suo padrone, che lo rimette nella bisaccia. Quanto allamorte di Ouologuem, è avvenuta di mattina, poco prima del dama. Le ho chiesto perché era arrivatoin ritardo alla cerimonia, Kodjo, lei che è il portatore della maschera Casa a più Piani, ma si èrifiutato di rispondermi. E se ora affermassi che ha approfittato del fatto che quasi tutta Pigui sitrovava sulla piazza pubblica per introdurre il suo cobra nella stanza di Ouologuem, cosa mirisponderebbe?... Vede, tace. In verità, è lei l’assassino, Kodjo, anche se ha agito su comando. I suoicomplici sono tutti quelli che hanno preso parte all’assemblea nel corso della quale è stata presa ladecisione di uccidere i ragazzi, cioè tutti voi che siete qui e l’hogon che è assente. Kodjo, se vuoledimostrare che ho torto, apra la sua bisaccia. Ma so che non lo farà. Ecco come sono andate le cose.Se sto mentendo, che qualcuno me lo dica a voce alta.

Il disagio dell’assemblea era percepibile: si lisciavano la barba, si grattavano la testa,tossicchiavano, ma non parlavano. Il Gatto era l’unico a restare di marmo e a guardare Habib conun’espressione terribile.

Seduto accanto al suo capo, Sosso non sapeva cosa pensare. Certo il ragionamento delcommissario non lasciava alcun dubbio sul modo in cui erano stati commessi gli omicidi, ma sidomandava quale sarebbe stata la reazione di quegli anziani messi con le spalle al muro e cherischiavano la prigione.

‒ Parla l’hogon, ‒ annunciò il maestro di cerimonia, ma fu in effetti lui stesso a esprimersi: ‒Kéita, ‒ cominciò pacatamente, ‒ l’abbiamo ascoltata. Vorrei comunque, prima di andare piùlontano, farle una domanda: con quale diritto viene a intromettersi nei nostri affari?

‒ Perché, come voi, sono un figlio di questo Paese, e perché il crimine è sempre affar mio. Delresto, i serpenti hanno attaccato, in camera nostra l’altra notte, a me e il mio collaboratore. Volevateucciderci.

‒ Ma siete vivi.‒ Si, perché abbiamo avuto più fortuna degli altri. Ma vi ho fatto una domanda alla quale non

avete risposto: ho mentito?‒ Trattandosi di persone rispettabili, non si parla di menzogne ma di errori. Se mi chiede se ha

commesso un errore, le risponderò sì. Ma pazienza. Tutti i capifamiglia hanno parlato. Tutto quelloche è successo doveva succedere. Non rimpiangiamo niente. Ognuno fa quello che deve fare. Ma siricordi di quello che sto per dirle, Kéita: finché ci saranno dei Dogon sulla terra, essi difenderanno iDogon. Il suo errore è di accusare un essere umano di commettere ciò che è al di sopra delle sueforze. Non sono i serpenti a mordere, è Lèbè che uccide, perché è lui il primo dei serpenti. Colui chelei considera il padrone dei serpenti in realtà non è che il servitore di Lèbè. Infatti, tra noi c’è unproblema di comprensione, perché non diamo lo stesso significato alle parole. Noi facciamo lavolontà di Amma e di Lèbè e saremo solidali fino alla morte. È questo che volevo farle capire.

‒ Ammette dunque ciò di cui vi accuso. Vorrei comunque farle un’ultima domanda: cosa aveteintenzione di fare a Dolo, il sindaco?

‒ Le risponderò così, Kéita: l’avvenire è nell’impronta della volpe.‒ Ho capito, Douyon. Se posso darvi un consiglio: non lo toccate, lo dico nel vostro interesse. Al

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vostro posto, prenderei del tempo per riflettere prima di agire. Ditelo all’hogon.‒ Che Amma illumini il vostro cammino, che Lèbè vegli su di voi e su tutti noi, ‒ concluse il

maestro di cerimonia.Senza una parola, così com’erano venuti, i notabili si dispersero per la boscaglia e, poco a poco,

l’ombra li avvolse. Habib e Sosso li seguirono con lo sguardo.‒ Hanno l’aria sconvolta, capo, ‒ affermò Sosso.‒ Sì, ‒ disse Habib, ‒ è la prima volta che succede. Non hanno l’abitudine di rendere conto delle

loro azioni.‒ Sospettavo che il campo dell’hogon creasse dei problemi, ma la storia del serpente no. Non so

come l’ha indovinato.‒ Grazie al tuo fazzoletto, Sosso. Non capivo perché i serpenti attaccassero te e non me, fino a

quando le analisi hanno provato che il tuo fazzoletto era contaminato di Testa Gialla e di veleno; eraquindi il tuo odore ad attirare a te i serpenti. Il resto è una faccenda di deduzioni. Se penso che quellagente ha condannato i propri figli a morte... Viviamo veramente in due universi differenti.

‒ Invece nulla le permette di affermare che il Gatto abbia approfittato del dama per uccidereOuologuem, capo.

‒ Ricordati dei discorsi che hai fatto con la guida, Sosso. Ovviamente non avevo prove, mal’ipotesi non era assurda. E il Gatto non ha protestato. Questa non è intuizione, ma fiuto. I poliziottine hanno bisogno durante le loro indagini, è come la fortuna.

‒ Ma la bisaccia di Kodjo, capo, come ha immaginato che contenesse dei cobra?‒ Questa è invece un’intuizione, Sosso. Il Gatto ha perso il suo sangue freddo, questo mi ha

facilitato il compito.Sosso si trattenne dal confessare la sua ammirazione al suo capo; aveva invece proprio voglia di

domandargli quando contava di procedere all’arresto di tutta quella bella gente.

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CAPITOLO VENTITRÉ La mattina dopo, alle otto, il commissario Habib e l’ispettore Sosso si affrettavano a prendere

posto nella 4x4 quando Ambaguè apparve su una sedia a rotelle a motore nuova fiammante. Il ragazzoesprimeva gioia da tutti i pori.

‒ Ehi, commissario! Ehi, Sosso, sono io! ‒ urlò prima di frenare quasi contro la ruota posterioredella 4x4.

‒ Il tuo nuovo mezzo ha l’aria di piacerti, Ambaguè, ‒ gli disse il commissario.‒ Troppo! ‒ esclamò il ragazzo. ‒ Sono l’unico ad averne una così a Pigui. Sono venuto a dirti

grazie, commissario. Non lo dimenticherò mai.‒ Stai attento, non andare troppo veloce, ‒ gli consigliò il commissario.‒ Promesso. Guarda, trasporto le cipolle del nostro campo. Fatica finita. Mio padre è molto

contento. Voleva venire a ringraziarti, ma non si sente bene.‒ Ho capito, Ambaguè. Fai il bravo.‒ Grazie, commissario, ‒ ripeté il ragazzo. ‒ Sosso, faremo una gara quando tornerai, vero?‒ Promesso, ‒ lo rassicurò Sosso.La 4x4 partì e, per qualche minuto, seduto sulla sua sedia, Ambaguè agitò allegramente la mano.‒ Capo, ‒ disse Sosso, ‒ quando gliel’ha comprata?‒ Ieri. È andato Samaké a comprarla a Mopti.‒ Ma ha fatto una follia!‒ Lo so, Sosso, a volte mi succede. Mi dico che a volte la vita è molto ingiusta. Il piccolo

Ambaguè, che lo voglia o no, diventerà presto capofamiglia perché suo fratello è morto. Ti immaginila vita che lo attende?

“Un uomo proprio strano, il commissario Habib”, pensò Sosso, che non comprendeva veramentequesto eccesso di generosità.

Uno strano spettacolo li aspettava di fronte alla gendarmeria di Bandiagara.C’era parcheggiata un’ambulanza, al bordo della quale dei gendarmi tentavano di far salire un

uomo con una pecora. Habib e Sosso non fecero fatica a capire che si trattava di Garba, il gendarmeche amava troppo i montoni. Non si decideva a lasciare la corda attaccata al collo della sua bestiache, da parte sua, si rifiutava di lasciare il padrone. Era presente anche il luogotenente Diarra eguardava la scena un po’ perplesso. Ci fu bisogno di una schiera di gendarmi e molta più tenacia perseparare il padrone e la bestia. Nel momento in cui gli tolsero dalle mani la corda che teneva lapecora, l’uomo volle rivolgersi alla bestia e belò. La pecora gli rispose e tentò di ribellarsi, mal’uomo era già stato infilato a bordo dell’ambulanza, che stava partendo.

‒ Lo mando in un ospedale psichiatrico, su richiesta della famiglia, ‒ spiegò Jérôme ai poliziottimal nascondendo la sua emozione. ‒ Non c’erano altre soluzioni. Lo vedete bene: il drammaindividuale esiste, anche nel paese dei Dogon.

‒ È una storia molto triste, e capisco quello che dici, ‒ concordò Habib il quale, preceduto daSosso e dal capo della brigata, si diresse verso gli uffici della gendarmeria.

‒ È un vero dramma alla Comeille11, per me, ‒ confessò qualche istante più tardi il commissario

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Habib nell’ufficio del luogotenente Diarra. ‒ Non c’è nessun dubbio, i fatti si sono svolti così. Delresto, quando l’ho accusato, Kodjo non ha negato. Nessuno ha negato, perché erano tutti sconvolti divedere qualcuno svelare i loro segreti. Se ho preso parte a questo incontro, è perché li volevo vederetutti, più da vicino, sentirli. Le loro dichiarazioni non hanno fatto altro che sostenere la mia tesi. Orail problema è capire cosa fare. Ci sono stati degli omicidi, ne ho le prove. Il movente è conosciuto, icolpevoli anche. Bisogna arrestarli? Tutta la notte mi sono girato e rigirato nel mio letto cercando ditrovare una risposta a questa domanda. Supponiamo che li faccia arrestare tutti, è come sedecapitassi una civiltà millenaria, perché la fine di questi anziani significa la fine della culturadogon, dato che sono loro a esserne i depositari. Ne ho il diritto? D’altra parte non farlo non èlasciare un crimine impunito? Da parte di un poliziotto è imperdonabile. Ecco a che punto sono eperché non ho chiesto il tuo aiuto per procedere agli arresti, Jérôme.

Per qualche lungo secondo, né Sosso né Diarra parlarono. Alla fine fu il gendarme che disse:‒ Sono abbastanza ambientato per sapere che non è semplice, comandante. Mi chiedo, infatti, se la

decisione non è più politica. Ci sono dei reati, certo, ma dico che sono dei reati di natura politica.Allora che se la sbrighino i politici.

‒ Salvo che, comunque, ‒ protestò Sosso, ‒ è compito della polizia arrestare i criminali. È alivello della giustizia che può intervenire la polizia.

‒ Detto tra noi, Sosso, ‒ insistette Diarra, ‒ la politica può interrompere le indagini dove vuole, losai bene. Sono spiacente, ma se il rapporto che il comandante depositerà può essere imbarazzante,be’, resterà nei cassetti e il caso verrà archiviato. Oso pure già affermare che il caso di Pigui verràarchiviato, perché il potere non ha alcun interesse che venga portato a conclusione.

‒ Ciò che è sicuro, ‒ disse Habib, ‒ è che ho ricevuto la più bella lezione di umiltà della mia vita.Ho incontrato delle persone che mettono l’uomo al centro del mondo. Se commettono un crimine, nonè mai per difendere degli interessi personali, ma per salvare il loro onore e mantenere i fondamentidella loro società. Per loro, le parole hanno un significato. Non giustifico il crimine, semplicementelo sto constatando.

‒ Sì, capo, ma quella gente ha comunque condannato i propri figli a morte e li ha fatti giustiziare!In una situazione del genere, come dice spesso lei, filosofeggiare non è compito della polizia, e non èil momento.

‒ Allora ti faccio una confessione, Sosso: ormai mi faccio solo delle domande. In ogni caso, lamia decisione è presa: non arresto nessuno. Non sono lontano dal pensare la stessa cosa di Jérôme:in alto, se ne fregano se i criminali vengono arrestati o no, quello che vogliono è la tranquillità deglielettori. E poi questa storia dell'hotel non è che un imbroglio. Ma non ne parleremo. Rifletti, Sosso: ese ci avessero spediti qui perché facilitassimo la costruzione del complesso turistico proteggendoDolo e la sua banda? È un’ipotesi che non mi sembra più assurda. Eh bene, quando avranno letto ilmio rapporto, che quelli che devono decidere decidano!

Di nuovo silenzio.‒ Su tutto un altro piano, Jérôme, ‒ aggiunse Habib, ‒ non capisco perché l’hogon non ha preso

parte alla riunione di ieri sera, sotto il toguna. Tu hai una spiegazione?‒ Semplicemente perché i piedi dell’hogon non devono toccare terra al di fuori del suo domicilio,

comandante.‒ Se no?‒ Se no non pioverà più e sarà siccità garantita.‒ Però! Che Dio ci preservi. Che l’hogon resti allora nella sua stanza! ‒ scherzò il commissario,

stringendo calorosamente la mano di Diarra. ‒ Grazie veramente per il tuo aiuto e per la tua

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ospitalità. Saluta tua moglie da parte mia. Non dimenticarti di farti sentire quando passi da Bamako.Come hai visto la gendarmeria e la polizia possono amichevolmente collaborare.

Dopo che Sosso e Diarra si furono abbracciati, la 4x4 parti in direzione di Bamako.‒ Andiamo subito a ingozzarci di carne di cane e di asino. Vero, Kéita? ‒ scherzò Samaké,

l’autista.E i tre uomini scoppiarono a ridere.

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CAPITOLO VENTIQUATTRO Issa era ancora in ufficio, al Ministero della Sicurezza Interna, quando il commissario Habib e

l’ispettore Sosso arrivarono. È anche vero che Habib si era preso cura di telefonare al suo vecchiocompagno di scuola per annunciare il suo arrivo.

‒ Hai fatto in fretta, commissario, ‒ disse il consigliere del ministro, di sicuro per rompere ilghiaccio.

‒ Sì, come vedi siamo ritornati da Pigui.‒ Con delle buone notizie, spero.‒ Non proprio. Sai di sicuro che due altri consiglieri del sindaco sono morti mentre eravamo lì.‒ L’ho saputo, sì. E avete trovato l’assassino?Certo, il consigliere era sempre gentile, ma pareva vagamente preoccupato e torturava

nervosamente la sua penna.‒ È più complicato di quello che tu possa pensare. In ogni caso, quello che il sindaco sospettava

essere l’assassino o il futuro assassino non ha assolutamente niente a che vedere con i delitti. Questaindagine mi ha messo molto a disagio, per parlarti sinceramente. Ho avuto l’impressione che miavessero mandato lì per dei motivi politici, che si aspettassero da me solo che arrestassi qualcunoper mettere fine a una situazione potenzialmente pericolosa. Comunque una gestione del caso inquesta maniera non era possibile. Mi chiedo se voi, voglio dire l’autorità politica che ha datol’ordine di indagine, sospettasse la complessità del problema.

‒ La complessità del problema? ‒ si sorprese Issa. -Pensavo che ci fosse stato un delitto, che sirischiasse che ce ne fossero altri e che bisognasse fermare il processo arrestando l’assassino.Secondo quello che ci ha detto il sindaco di Pigui. Ovviamente è qualcuno del nostro partito, ma perquanto mi riguarda non c’era nessun secondo fine.

‒ Non dubito di te personalmente, Issa, ma mi faccio molte domande, che appariranno sul miorapporto. Avete creato dei comuni ovunque, avete fatto delle elezioni, ma avete riflettuto, peresempio, sul fatto che a Pigui c’è un’organizzazione territoriale, sociale, economica, anteriore a ognivostra decentralizzazione, un concetto venuto da altri tempi? Avete almeno pensato che stavatepiazzando delle strutture nuove su delle strutture vecchie negando le seconde? Avete pensato anchesolo un istante che creavate più problemi di quanti ne risolvevate? Che facevate penetrarebrutalmente un’altra cultura, un altro tipo di comportamento in una civiltà millenaria? Mi pongo tuttequeste domande, Issa, perché sono tutte state poste a me, a Pigui. È per questo che non mi sono maisentito così a disagio in un’indagine. In ogni caso, vi prenderete le vostre responsabilità, perchétocca a voi decidere il seguito di questo caso.

‒ Uff! Una vera requisitoria, caro il mio filosofo. Spero che il tuo rapporto sia meno virulento, seno già mi immagino la faccia del ministro. Perché il rapporto in questione lo porterai prima a me, ituoi responsabili verranno informati più tardi. Sono le istruzioni.

‒ È una pratica alquanto singolare, ‒ constatò il commissario con un sorriso. ‒ Ma vedremo.Ancora una cosa, Issa: se ci sono stati questi delitti a Pigui, è perché qualcuno o più di qualcuno, quia Bamako, ha avuto la stupida e malvagia idea di creare un complesso turistico su delle terre sacre.Mi si ribatterà che non è mio compito indagare su questo fatto. Ma è tutto collegato. Che quelli chedevono decidere, decidano.

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Il consigliere prese la mano del commissario e gli chiese:‒ Tu non credi che io abbia potuto farlo, vero, Habib?‒ Sinceramente no, anche se non ne ho le prove, - rispose il commissario, che aggiunse: ‒ Dimmi,

puoi ritrovare il sindaco di Pigui? È scomparso.‒ Certo, è qui, figurati!‒ Ah!‒ Sì. È arrivato circa due ore fa. È lui che mi ha annunciato i due morti. È in uno stato pietoso. In

realtà, non è molto contento del modo in cui sono andate le cose...‒ Di’ che non è contento di me. Non ne dubito, ma sono io a essere stato incaricato di condurre le

indagini, non lui.‒ Certo! Non perdiamo tempo su questo dettaglio.‒ Bisognerà trovargli un rifugio sicuro, perché è meglio se non ritorna a Pigui. In ogni caso, non

ora. È nel suo interesse.‒ Ti confesso, Habib, ‒ disse il consigliere alzandosi, ‒ che la politica è complicata. Ecco, venite,

il sindaco di Pigui è nella sala d’attesa piccola. Devo accompagnarlo tra poco dal segretariogenerale del nostro partito.

Il commissario e l’ispettore seguirono il consigliere, che aprì la porta della sala d’attesa inquestione. Il sindaco di Pigui effettivamente era là, steso sul dorso, il corpo smisuratamente gonfio,un po’ di sangue coagulato all’angolo della bocca, gli occhi fuori dalle orbite per il terrore, la manotesa verso la porta.

Il consigliere si bloccò: ‒ Meno di un’ora fa era là, affacciato alla finestra. Ho anche parlato conlui, - balbettò.

La larga finestra dava effettivamente su un grande garage a cielo aperto, abbandonato.‒ È probabilmente questo che gli è stato fatale, - rivelò il commissario.Si era appena ricordato del borsone da viaggio del Gatto, durante l’assemblea sotto il toguna, a

Pigui.‒ Il Gatto l’ha sicuramente seguito stamattina, quando ha lasciato Mopti. Deve essere ancora nei

paraggi.‒ Il gatto? Quale gatto? ‒ si sorprese Issa, gli occhi spalancati.Lo sguardo di Habib si portò istintivamente sul buco gigante destinato al climatizzatore che

l’elettricista non aveva ancora finito di sistemare.

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Note 1 La calebassa è un recipiente ricavato da una zucca.2 Il bogolan è un procedimento tipico delle popolazioni dogon, Bambara, Malinké, Sénoufo e Bobo. Il suo nome deriva dalla lingua

Bambara diffusa soprattutto in Mali. Bogo indica il fango, lan significa “fatto con", da cui: “fatto con il fango". Il bogolan è una stoffaformata da strisce di cotone tessute a mano e cucite l’una accanto all’altra. La filatura del cotone è affidata alle donne, che la svolgonoancora a mano, la tessitura è riservata agli uomini e svolta con un semplice ma lunghissimo telaio orizzontale. Per la decorazione,tradizionalmente affidata alle donne, sono necessarie molte fasi consecutive di tintura, ammollo e lavaggio. Il cotone grezzo vieneimmerso in un colorante vegetale che serve a tingere la base e permettere il fissaggio degli altri colori. L’essicazione al sole fissa il coloreocra di base ottenuto con questo primo bagno. I motivi che poi risulteranno neri sono tracciati a mano libera o con l’ausilio di tiralinee(kalama), spatole, steli di miglio con del fango fermentato in una giara.

3 Tipico delle zone tropicali, il marigot è una zona bassa del terreno soggetta nel periodo delle piogge a delle alluvioni.4 Il toguna è una struttura tipica dei villaggi dogon in Mali. È una sorta di edificio pubblico in cui si riunisce il consiglio degli anziani

per prendere decisioni riguardanti la vita della comunità. È di solito composto da un tetto di paglia poggiato su delle colonne costruite condei tronchi d’albero, e il nome significa “casa della parola”.

5 Qui si fa riferimento a una relazione anche non di parentela tra due persone, tipica dell’Africa occidentale, nella quale una delle duepersone è autorizzata o addirittura obbligata a prendere in giro l’altra. In questo contesto ciascuno finge di sentirsi superiore all’altro edentrambi si rivolgono all’altro con il termine di “schiavo" (mon esclave). Si veda L'assassino di Banconi, Del Vecchio Editore, Roma2010.

6 Soso significa “zanzara" in lingua bambara.7 Il grin in Mali è un’abitudine sociale di incontro regolare tra persone. Indica sia il luogo sia le persone che vi si incontrano. Può

essere uno spazio per passatempi ludici (per ascoltare la musica tra amici, fare giochi di società ecc.), ma anche un luogo dove prenderedecisioni politiche o sociali. Qui probabilmente Ali fa riferimento a un consiglio comunale.

8 Il taxi-brousse, o bush taxi, è il mezzo più comune di trasporto pubblico in Africa occidentale insieme agli autobus. Ne esistono ditre tipi: Peugeot taxi, minibus e pick-up.

9 La Kanaga è una maschera a forma di doppia croce, molto comune in Africa, che rappresenta i tre elementi naturali: cielo, acquae terra.

10 La maschera Guinna, che rappresenta la casa dell’hogon.11 Pierre Corneille (1606-1684), drammaturgo e scrittore francese, autore de Il Cid. Nei suoi drammi gli eroi si devono confrontare

con dei dilemmi insormontabili e si trovano spesso in situazioni senza via d’uscita.