LILIANA SEGRE - Ferrara · 2019-04-13 · 2 LA TESTIMONIANZA DI LILIANA SEGRE Breve cronologia...

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LILIANA SEGRE LE PAROLE DI LILIANA SEGRE TESTIMONE DELL’ORRORE DI AUSCHWITZ LA TESTIMONIANZA DI LILIANA SEGRE CITAZIONI DI ALCUNE PARTI DELLA TESTIMO- NIANZA DELLA SEGRE RIVOLTE AI GIOVANI AVERE FIDUCIA NELLE PROPRIE RISORSE RIFLESSIONI DEGLI STUDENTI SULLA TESTI- MONIANZA DELLA SEGRE LA PAROLA AGLI STUDENTI DELL’ICS “ALDA COSTA Liliana Segre all’uscita dal Teatro Nuovo insieme a Simo- netta Della Seta, direttrice del MEIS, il Museo che ha or- ganizzato, con il supporto dell’Istituto di Storia Contempo- ranea, l’incontro con la Senatrice a vita. Una nonna che parla ai suoi nipoti ideali per tra- smettere loro la memoria di coloro che non sono più tornati, utilizzando il linguaggio della mente e del cuore. pp. 2-6 Raccolta di alcune frasi di Liliana Segre rivolte ai suoi giovani ascoltatori per dare loro fiducia nella forza delle proprie risorse. pp. 7-8 Lettera degli studenti della classe II B della Boiardo indirizzata alla Senatrice e lavoro dei bambini della classe IV A della primaria “Alda Costa”. pp. 9-10 IL GIORNALE DELLA CITTADINANZA ATTIVA DELL’ICS “ALDA COSTA” ANNO 3 EDIZIONE STRAORDINARIA A CURA DI MARIA BONORA APRILE 2019 EDITORIALE L’11 gennaio 2019 Liliana Segre era a Ferrara per testimoniare ad oltre 700 studenti la sua drammatica esperienza di sopravvissuta al cam- po di sterminio Auschwitz-Birkenau. Il racconto della sua storia si sviluppa a partire dal 1938, an- no in cui, a causa dell’applicazione delle leggi razziali, venne espulsa da tutte le scuole del Re- gno, per continuare nella rievocazione dei fatti accaduti dopo l’8 settembre 1943 quando ebbe inizio «la caccia all’ebreo»: dapprima nascosta presso degli amici, poi in fuga con il padre verso la Svizzera da dove fu respinta e quindi trasferita in tre prigioni diverse di cui, l’ultima a San Vitto- re, per arrivare ad Auschwitz sul treno partito dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano il 30 gennaio 1944. Alla fine di gennaio del 1945 affrontò la marcia della morte verso la Germania. Il primo maggio dello stesso anno fu liberata dall’Armata Russa nel campo di Mal- chow. All’inizio dell’incontro la Segre si è pre- sentata come una nonna che parla ai suoi nipoti ideali: i ragazzi che gremiscono il Teatro Nuovo. Il suo linguaggio semplice e diretto, ma allo stes- so tempo profondo e incisivo, costellato di tanti perché ancora senza risposta, diventa il mezzo per tramandare la memoria di coloro che non sono più tornati, ma anche uno strumento per trasmettere ai giovani la fiducia in loro stessi, fa- cendo leva sulla capacità di scegliere secondo coscienza. Ed è per questo che si è pensato di far giungere le parole di questa eccezionale te- stimone di pace e di vita a quei ragazzi che non avevano avuto la fortuna di partecipare per esi- genze logistiche, presentando agli studenti un audiovisivo con la registrazione dell’intero in- contro. Anche l’Istituto Comprensivo “Alda Costa” ha risposto positivamente a questa nuova proposta didattica, attivando una serie di inizia- tive che, per gli alunni della classe IIB della scuola secondaria di primo grado “Boiardo”, coordinati dalla docente Isabella Dallapiccola si è conclusa con la stesura di una lettera alla quale Liliana Segre ha immediatamente risposto. Ai bambini della classe IV A della scuola prima- ria “Alda Costa”, che avevano già affrontato il tema della memoria con una suggestiva e coin- volgente rappresentazione teatrale sull’eccidio avvenuto a Ferrara il 15 novembre 1943, la do- cente Gloria Fabbri ha proposto alcune parti della testimonianza della Segre, accolta con una profondità inaspettata da parte di alunni dell’età della Segre quando fu espulsa dalla scuola.

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LILIANA SEGRE

LE PAROLE DI LILIANA SEGRE TESTIMONE DELL’ORRORE DI AUSCHWITZ

LA TESTIMONIANZA DI LILIANA SEGRE

CITAZIONI DI ALCUNE PARTI DELLA TESTIMO-

NIANZA DELLA SEGRE RIVOLTE AI GIOVANI

AVERE FIDUCIA NELLE PROPRIE RISORSE

RIFLESSIONI DEGLI STUDENTI SULLA TESTI-MONIANZA DELLA SEGRE

LA PAROLA AGLI STUDENTI DELL’ICS “ALDA COSTA

Liliana Segre all’uscita dal Teatro Nuovo insieme a Simo-netta Della Seta, direttrice del MEIS, il Museo che ha or-ganizzato, con il supporto dell’Istituto di Storia Contempo-ranea, l’incontro con la Senatrice a vita.

Una nonna che parla ai suoi nipoti ideali per tra-smettere loro la memoria di coloro che non sono più tornati, utilizzando il linguaggio della mente e del cuore.

pp. 2-6

Raccolta di alcune frasi di Liliana Segre rivolte ai suoi giovani ascoltatori per dare loro fiducia nella forza delle proprie risorse.

pp. 7-8

Lettera degli studenti della classe II B della Boiardo indirizzata alla Senatrice e lavoro dei bambini della classe IV A della primaria “Alda Costa”.

pp. 9-10

IL GIORNALE DELLA CITTADINANZA ATTIVA DELL’ICS “ALDA COSTA”

ANNO 3 EDIZIONE STRAORDINARIA A CURA DI MARIA BONORA APRILE 2019

EDITORIALE

L’11 gennaio 2019 Liliana Segre era a Ferrara per testimoniare ad oltre 700 studenti la sua drammatica esperienza di sopravvissuta al cam-po di sterminio Auschwitz-Birkenau. Il racconto della sua storia si sviluppa a partire dal 1938, an-no in cui, a causa dell’applicazione delle leggi razziali, venne espulsa da tutte le scuole del Re-gno, per continuare nella rievocazione dei fatti accaduti dopo l’8 settembre 1943 quando ebbe inizio «la caccia all’ebreo»: dapprima nascosta presso degli amici, poi in fuga con il padre verso la Svizzera da dove fu respinta e quindi trasferita in tre prigioni diverse di cui, l’ultima a San Vitto-re, per arrivare ad Auschwitz sul treno partito dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano il 30 gennaio 1944. Alla fine di gennaio del 1945 affrontò la marcia della morte verso la Germania. Il primo maggio dello stesso anno fu liberata dall’Armata Russa nel campo di Mal-chow. All’inizio dell’incontro la Segre si è pre-sentata come una nonna che parla ai suoi nipoti ideali: i ragazzi che gremiscono il Teatro Nuovo. Il suo linguaggio semplice e diretto, ma allo stes-so tempo profondo e incisivo, costellato di tanti perché ancora senza risposta, diventa il mezzo per tramandare la memoria di coloro che non sono più tornati, ma anche uno strumento per trasmettere ai giovani la fiducia in loro stessi, fa-cendo leva sulla capacità di scegliere secondo coscienza. Ed è per questo che si è pensato di far giungere le parole di questa eccezionale te-stimone di pace e di vita a quei ragazzi che non avevano avuto la fortuna di partecipare per esi-genze logistiche, presentando agli studenti un audiovisivo con la registrazione dell’intero in-contro. Anche l’Istituto Comprensivo “Alda Costa” ha risposto positivamente a questa nuova proposta didattica, attivando una serie di inizia-tive che, per gli alunni della classe IIB della scuola secondaria di primo grado “Boiardo”, coordinati dalla docente Isabella Dallapiccola si è conclusa con la stesura di una lettera alla quale Liliana Segre ha immediatamente risposto. Ai bambini della classe IV A della scuola prima-ria “Alda Costa”, che avevano già affrontato il tema della memoria con una suggestiva e coin-volgente rappresentazione teatrale sull’eccidio avvenuto a Ferrara il 15 novembre 1943, la do-cente Gloria Fabbri ha proposto alcune parti della testimonianza della Segre, accolta con una profondità inaspettata da parte di alunni dell’età della Segre quando fu espulsa dalla scuola.

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LA TESTIMONIANZA DI LILIANA SEGRE Breve cronologia della vita di Liliana Segre spiegata attraverso le parole della testi-mone in occasione dell’incontro dell’11-01- 2019 presso il Teatro Nuovo di Ferrara

Prima del 1938 «Io ero una bambina qualunque, in una casa di gente che l’amava moltissimo, una bambina viziata […]. Ero e sono tutt’ora molto socievole e quindi, dal momento che in casa mia ero sola perché non avevo né fratelli né cugini, mi piaceva moltissimo andare a scuola».

Dopo il 1938 Espulsione dalla scuola pubblica «Un giorno, a tavola, mi sentii dire all’improvviso che ero stata e-spulsa dalla scuola, che non l’avrei più potuta frequentare […]. Mi chiesi perché. I miei (il papà, e i nonni paterni) non riuscivano a trovare le parole adatte per dare una risposta al perché di una

bambina di 8 anni, espulsa per la colpa di essere nata. Che cosa avevo fatto io di male? Ero e-brea […]. Era un perché grave, con gli occhi pieni di lacrime, e quel perché, beh quel perché ancora adesso, devo dire la verità, non ha trovato una risposta». Cambiamenti di vita «Cominciò in casa mia una vita diversa. Venivano i poliziotti, entravano in casa. Io e la nonna andavamo ad aprire la porta […]. Entravano con aria prepotente, controllavano i documenti, ci trattavano da nemici della Patria. La nonna faceva vedere, con la sua grazia piemontese, le foto-grafie dei suoi cari, soldati, ufficiali nella prima guerra mondiale, ma a questi non interessava niente: eravamo diventati nemici». Nella scuola privata e in casa «Io cambiai scuola. Nella scuola privata non parlavo mai di quello che succedeva a casa mia, ho cominciato a stare zitta, a diventare grande, a capire che ero gelosa di quell’ambiente amoroso della mia casa […] che improvvisamente era diventata triste, in cui il mio ruolo si era ingiganti-to, perché io saltavo, ballavo, facevo teatro, cercavo di rallegrare quei tre che leggevano il gior-nale, che sentivano la radio, finché hanno potuto tenerla in casa». «Erano degli anni difficili in cui venivano […] a salutarci i nostri parenti: andavano in America […]. I miei non capirono, i miei furono semplici, furono dei borghesi piccoli piccoli che non erano adatti alle lingue straniere, non erano pronti a lasciare la loro Patria».

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1940, dopo l’entrata in guerra dell’Italia «Quando cominciarono i bombardamenti su Milano, con la mia famiglia mi trasferii in un pae-sello della Brianza. Qui non c’era una scuola privata. Avrei dovuto frequentare la II media […]. Gli altri ragazzi quando mi incontravano mi chiedevano come mai non andassi a scuola. E io, che avevo imparato già da anni a tenere per me, a non raccontare, nessuno mi aveva detto di farlo, ma era una sensazione, io dicevo “Non posso venire a scuola perché devo curare il nonno”. Era ve-ro […], mio nonno si era ammalato del morbo di Parkinson». (Dopo aver descritto il rapporto di complicità con il nonno e il tenero affetto che lo univa a lui). «Mai avrei pensato che mio nonno insieme alla nonna sarebbero stati deportati, gasati e bruciati, per la colpa di essere nati».

Dopo l’8 settembre 1943 «Cominciò di colpo la caccia all’uomo, alla donna, al neonato, al vecchio, a tutti gli ebrei […]. E fu un fuggi fuggi generale di gente che non si conosceva, di gente che non sapeva dove andare […]. Due famiglie, prima l’una poi l’altra, mi nascosero nella loro casa. Io ero disperata alla semplice idea di dover lasciare mio padre e i miei due nonni e non volevo andare. Mi ricordo, con grande dispiacere, il periodo in cui le due famiglie, che rischiavano la vita per me, mi accolsero nelle lo-ro case, nascondendomi […].Io non ero gentile, non ero grata […]. Ero morta di nostalgia. Pregavo mio papà, che nel frat-tempo aveva ottenuto carte false per me e per lui, e gli dicevo “Papà, andiamo in Svizzera, fuggia-mo. Io non voglio stare lontano da te”».

7 dicembre 1943 (respingimento dalla frontiera svizzera) «Mio papà mi venne a prendere e mi disse “Liliana, noi andiamo in Svizzera”. E io mi sentivo co-me un’eroina mentre scappavamo sulle montagne dietro Varese, vicini al confine, accompagnati da quei passatori che, a carissimo prezzo, […] facevano un mercato umano molto simile a quello degli scafisti di oggi che senza nessun scrupolo, senza nessuna presa di coscienza, traghettano (pausa di silenzio) persone. Ci trovammo su quelle montagne e io mi sentivo felice, con la mano nella mano di mio papà […], sicura che stessi-mo andando verso la ‘terra della libertà’. Mai più paura, mai più persone dietro la porta. Ma non fu così perché appena riuscimmo a passare quelle reti […] fummo portati al Comando del paese di Arzo. Ecco che un ufficiale svizzero tedesco ci guardò dal pri-mo istante con disprezzo […]. Io che non sono capace di questi gesti, mi buttai ai suoi piedi, pregando, supplicando “Ci tenga, non ci rimandi indietro”. Era una delusione spaventosa, un finale che non avremmo mai immaginato, ma non ci fu niente da fare».

8 dicembre 1943 (nel carcere femminile e a San Vittore) «Beh, come si entra a 13 anni in un carcere? Io piangevo disperata e dicevo “Perché, Perché, Perché Perché e Perché Perché” […]. Che cosa succede ad un’adolescente che a 13 anni entra in una pri-gione per la colpa di essere nata? Piange e si dispera. Questo non interessa a nessuno, salvo a un’altra meravigliosa ebrea, arrestata anche lei con la sua mamma, Violetta Silvera. Indimenti-

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cabile. Mi prese tra le sue braccia e […] io mi ricordo che piangevo vicino a lei e insieme alla sua mamma […]. Poi ci fu un altro carcere di Como e alla fine quello di San Vittore, a Milano, dove rimasi per quaranta giorni. Ero nella cella 202 del quinto raggio, ma di nuovo insieme a mio padre. I nazisti chiamavano gli uomini due o tre volte la settimana per degli interrogatori feroci. Io restavo sola nella cella, un’ora, due ore, tre ore. Sapevo che torturavano, picchiavano. Tornava. Ci abbracciavamo in silenzio. Io non ero più sua figlia, io non ero sua sorella, ero sua madre».

gennaio 1944 (viaggio verso Auschwitz) Al Binario 21 «Un pomeriggio entrò un tedesco che lesse un elenco di nomi, più di seicento. Ci dovevamo preparare a partire il giorno dopo per ignota de-stinazione. Chi c’è che parte per i-gnota destinazione? Nessuno. E c’è un turbamento, oltre alla paura. Ca-ricati su un camion a calci, pugni, bastonate, […], arrivammo nel ven-tre nero della Stazione Centrale di Milano […] e scoprimmo […] che c’era una doppia stazione di 7000 metri quadri in cui era presente il bi-

nario 21 parallelo a quello sopra, utilizzato per portare merci e carni da macello, così come por-tarono noi». Sul treno durante il viaggio verso Auschwitz «In un carro bestiame non c’è luce, non c’è acqua, c’è un po’ di paglia per terra e un secchio per 40-50 persone. Il secchio si riempie molto presto. E c’è odore di urina, di paura, di morte. Il viaggio durò una settima […]. Da Milano arrivò ad Auschwitz in tre fasi. La prima, quando il treno si mosse, era il pianto di tutti […] che non superò il tetto del vagone […]. Poi ci fu la se-conda fase in cui gli uomini religiosi si riunivano due o tre volte nel centro del vagone e noi fa-cevamo posto […]. Infine ci fu l’ultima fase negli ultimi due giorni in cui nessuno più pianse, nessuno più si lamentò e nessuno neanche più pregò. Era quel silenzio essenziale di quando si sta per morire. Un silenzio indimenticabile, un silenzio potente».

30 gennaio 1944 (ad Auschwitz-Birkenau) Arrivo e prima selezione «Arrivammo ad Auschwitz e a quel silenzio si sovrappose il rumore sfacciato, osceno dei nostri tortura-tori, fischi, latrati, comandi. Tirati giù con violenza da quei vagoni, messi in riga, uomini di qui, donne di là: cominciava la grande selezione […]. L’interprete italiano ci disse “Tutti calmi, tutti tranquilli, vi dobbiamo solo registrare e poi alla sera vi ritroverete tutti. Gli uomini lavoreranno, le donne si occuperanno della famiglia”. Noi vole-vamo crederci: era uno scenario

talmente incredibile quello che ci si presentava […]. E lasciai la mano di mio padre senza sapere e spero che anche lui non lo sapesse che non ci sa-remmo mai più rivisti […]. Lui mi aveva raccomandato di stare sempre vicina alla signora Mo-

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rais che avevamo conosciuto a San Vittore […]. E io mi preparai in questa fila di donne, subito davanti alla signora Morais, abbracciata ai suoi due figli. E lì ci fu la selezione tragica dell’arrivo. […] Mi domandarono se ero sola e io […] dissi la verità “Sola”. Io ero alta, sciupata dal viaggio, dimostravo di più dei miei 13 anni e fui scelta […]. La signora Morais la sere stessa era cenere nel vento di Auschwitz». I primi momenti nel campo di Birkenau-Auschwitz «Entrai nel campo di Birkenau-Auschwitz con altre 30 giovani ragazze italiane […]. Entri e ve-di, là in fondo, una ciminiera. Ancora non sai che è il crematorio; poi vedi una distesa di barac-che infinite e un triplo filo spinato; le sentinelle col fucile verso il campo e queste centinaia, mi-gliaia di donne, schele-trite, rasate, vestite a ri-ghe, che portano pietre, che sono inginocchiate in punizione, che mar-ciano e dici “Ma dove sono, è un incubo. Ma no, ora mi sveglio, non sarò più qui, è impossibile. Perché, perché, perché”. Entrate nella prima baracca, ra-pate, tatuate, ci porta-rono via quel poco che avevamo e fummo ri-vestite con quella divisa a righe […], gli zoccoli ai piedi. E siamo uscite nella neve. Ci guardavamo l’una con l’altra. Non eravamo più quelle scese dal treno, quando qualcuno ci aveva detto “Amore, ci vediamo stase-ra”. E vedevamo intorno qualcosa di impossibile che Primo Levi definisce, nel libro la Tregua […], ‘ lo stupore per il male altrui’ […]. Non l’avevo capito lì nel campo che, quello che mi aveva perse-guitato per tutto l’anno e mezzo in cui sono stata schiava, prigioniera, era lo stupore per il male altrui: quello del torturatore, dell’assassino, di tutte le orribili guardie, persone che non hanno fatto la scelta, persone che hanno seguito un credo razzista […]. Il mio stupore durò tanto. Le prime settimane non facevo che piangere e disperarmi come del resto tutte le altre e non mi sembrava possibile […] capire che io facevo parte di quel gruppo di schiavi ai quali era proibito aprire quel cancello e uscire». Il lavoro come operaia-schiava «Diventai operaia-schiava nella fabbrica di munizioni Union di proprietà della Siemens. Per me, vestita di stracci e diventata uno scheletro, lavorare al coperto in quei rigidi inverni era una for-tuna ed è una delle ragioni per cui sono tornata. Erano giornate scandite dall’orario della fabbri-ca e questo era già molto importante per chi non aveva l’orologio. E furono mesi di lavoro, me-si in cui si formavano, non dico delle amicizie, perché io non volevo attaccarmi a nessuno […], ma si diventava compagni di sventura». Le tre selezioni «Tre volte passai la selezione […]. Le Kapo ci chiudevano nelle baracche e, a gruppi di cinquan-ta sessanta, dovevamo attraversare una sala, obbligate alla nudità davanti a soldati in divisa, ve-nivamo ispezionate e poi, con un gesto, stabilivano che potevi ancora vivere. Ed eri grata al tuo assassino […]. Mi rivestivo, non volevo sapere niente, era come una rinascita, una felicità. “So-no viva”, mi ripetevo. […] Io lavoravo da mesi come inserviente di una ragazza francese Janine […]. Pochi giorni prima della selezione, la macchina le aveva tranciato due falangi delle dita. Lei era dietro di me nella selezione. Aveva coperto la mano con uno straccio. Era nuda. Io ero appena passata e go-devo della felicità pazzesca di essere in vita. Sentii che la fermavano. Io non accettavo più di-

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stacchi. Non mi sono voltata e non le ho detto “Ciao Janine. Coraggio Janine. Ti voglio bene Janine” o anche semplicemente chiamarla “Janine, Janine”. Erano riusciti i miei assassini a farmi diventare la lupa affamata ed egoista che pensava solo a mangiare». 27 gennaio 1945 (la marcia della morte) «E cominciarono a cambiare atteggiamento, i nostri assassini. Noi non sapevamo che i tedeschi stavano cedendo sul fronte dell’Est, nell’inverno tra il ‘44 e il ’45 e che i Russi avanzavano. In fabbrica, intorno al 20 di gennaio fummo obbligati a fare la ‘marcia della morte’. Come si fa, essendo scheletri, essendo deboli e sfiniti, a cominciare una marcia che mi portò nel Nord della Germania, dove il primo di maggio, quindi a diversi mesi di distanza, fui liberata? Quando vidi, dopo tanti anni, la carta geografica mi resi conto che, a piedi per la maggior parte o qualche vol-ta su treni scoperti, questo gruppo di prigionieri ancora vivo aveva fatto 700 chilometri». «Io mi sdoppio quando racconto, vecchia come sono, di quella ragazzina, di quella ragazzina lì, di quella Liliana. Ma come ha fatto, una gamba davanti all’altra a macinare tanti chilometri, af-famata, vedendo le compagne che cedevano o che cadevano, ammalate, stanche, fucilate dalle guardie della scorta? […]. Una gamba davanti all’altra e attraversai altri lager tremendi, dove il male si sviluppava in altre mille frazioni, nomi sconosciuti che si sono saputi poi».

30 aprile 1945: l’Armata sovietica occupa il campo di Malchow «Arrivai verso il 5 di aprile nell’ultimo campo a Malchow. Ma come erano quelle prigioniere che come me erano arrivate fino a lì? Erano amebe, erano ectoplasmi e non avevano più forma femminile. Eravamo degli esseri ancora miracolosamente vivi, ma con la coscienza che se la guerra non fosse finita, senza bisogno di ucciderci, saremo morte di fame, di astenia […]. Nel pomeriggio era permesso di uscire dietro le baracche dove c’era, anche lì, quell’accenno del-la primavera […]. Noi, abituate al grigio del cielo del nord della Germania, al grigio delle divise, al grigio delle facce, arrivate a Malchow, al di là del triplo filo spinato potevamo vedere questo prato che nasceva […]. Noi sognavamo di vedere aperto quel cancello, di uscire, di toccare quell’erba, di metterla in bocca anche se ormai i denti ballavano per la mancanza di vitamine […]. La pietas dei prigionieri francesi Passavano fuori ogni giorno dei militari francesi che, vedendo questo gruppo di ragazze di cui facevo parte anch’io, non capivano se fossimo uomini o donne e ci gridavano in francese “Mais qui est vous?” e noi “Siamo delle ragazze ebree” […]. Questi furono i primi che dopo anni ebbero pietà di noi. E da lontano ci dicevano “Poverine, non morite, la guerra sta per finire, i Russi di qua, gli Americani di là presto arriveranno”. Poverine, era la prima volta che, dopo tanto tempo, ci venivano rivolte parole di pietà, da intendere come pietas latina. Noi che non sapevamo niente, ma che avevamo sopportato di tutto, lutti, disperazione, la man-canza di ogni cosa, il freddo, la fame, le botte, gli esperimenti, non sapevamo più sopportare la gioia: eravamo incredule. Aprirono quel cancello, volevano che facessimo un’altra marcia, per allontanarci anche da quel campo. Ma noi non ce la potevamo più fare. Fu questione di ore in cui la storia cambiò e noi, povere ragazze, numeri, ne fummo testimoni». Scegliere la vita (Liliana Segre racconta che cosa fece il comandante del campo a Malchow, quando si aprirono i cancelli). “Lui si mise in borghese come tutti gli altri suoi allievi, soldati o alti ufficiali, mandò via il cane e buttò le armi per terra. Beh, io mi ero nutrita di odio e di vendetta e avevo vista così tanta violenza intorno a me che pensai “Adesso mi chino, con fatica perché era difficile chinarsi, prendo la pistola e gli sparo. Fu una tentazione bruttissima. Io sentivo il desiderio e-norme di ucciderlo, ma fu un attimo, un attimo in cui io capii che non ero come il mio assassi-no, che io avevo sempre scelto la vita e chi sceglie la vita non potrà mai, per nessun motivo, to-gliere la vita a un altro. Non ho raccolto per fortuna quella pistola e da quel momento sono sta-ta quella donna libera e quella donna di pace che sono anche adesso».

https://www.youtube.com/watch?v=b7ReNBi6oyU (Link per visionare il servizio di RAI 1 relativo alla testimonianza della Segre dell’11-01-2019 presso il Teatro Nuovo di Ferrara)

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AVERE FIDUCIA NELLE PROPRIE RISORSE Liliana Segre si rivolge ai giovani proponendo un messaggio di fiducia nella vita,

partendo dalla sua esperienza di bambina e adolescente offesa nella dignità. L’interesse di Liliana Segre per gli adolescenti, nato dalla sua esperienza di mamma e di nonna, lo si è percepito durante la sua testimonianza rivolta direttamente ai giovani, con l’intento di da-re loro un messaggio forte e chiaro sulle possibilità umane proprie di quell’età preziosa in cui si riesce a superare ciò che sembra insuperabile. Di seguito si propongono alcuni passi particolarmente significativi del suo intervento, trascritto fedelmente, affinché la sua voce possa arrivare anche a chi, quel giorno, non era nel Teatro Nuovo ad ascoltarla.

Dopo l’8 settembre 1943, gli amici di famiglia nascosero in casa loro la Segre, rischiando la vita. «I giusti fecero la scelta. La scelta è una cosa difficile, la scelta è una cosa di tutti i giorni, la scel-ta è di ogni minuto, la scelta distingue gli uomini da chi sceglie e da chi è indifferente e va come una pecora dietro un pastore che non sempre è un gran buon pastore»

Fuga verso la Svizzera insieme al padre, accompagnati dai contrabbandieri. «I contrabbandieri, a carissimo prezzo, facevano passare il confine a ebrei, renitenti alla leva, an-tifascisti, facendo un mercato umano che mi ha ricordato in questi anni gli scafisti di oggi che, senza nessuno scrupolo, senza nessuna presa di coscienza traghettano persone».

Liliana Segre nelle carceri di San Vittore insieme al padre. «Io sento sempre i problemi degli adolescenti, mi interessano moltissimo, enormemente. Mi hanno interessato i miei figli adolescenti, mi interessano i miei nipoti adolescenti, mi interessate voi adolescenti. E tutti si preoccupano degli adolescenti; ci vorrà uno psicologo, ci vorrà un aiu-to, ci vorrà … » In riferimento all’abbraccio silenzioso con il padre al suo ritorno nella cella di San Vittore dopo aver subito pesanti interrogatori, la Segre si è rivolta ai ragazzi con queste parole: «Io non ero più la figlia, ero la sorella, ero la madre […]. Non pensate che i genitori siano per forza forti, a cui potersi appoggiare sempre. A volte siamo noi più forti dei nostri genitori, a volte ci può es-sere un padre perdente, così come era il mio, un padre fragile, un padre tenerissimo. E allora un abbraccio di più, un dire “Ma io sono qui. Se hai bisogno, ci sono” è molto importante. A volte, oggi, ci sono padri che hanno perduto il lavoro, ci sono dei padri che hanno una crisi economica, esistenziale, familiare. Così le madri naturalmente. E allora noi siamo fortissimi. Questo non va mai dimenticato e dobbiamo aiutare quelli che sono più deboli di noi e non c’è nessuno come l’adolescente ad avere i nervi pronti, l’intelligenza aperta, la forza dell’amore ver-so l’altro. È un momento preziosissimo nella vita di ognuno, di cui non si deve perdere un i-stante».

I negazionisti e le motivazioni della scelta di testimoniare da parte della Segre. «L’orrore dei campi di sterminio è stato talmente incredibile ed indicibile, come giustamente ha scritto Primo Levi, ma tanto incredibile per chi non l’ha visto come me con gli occhi, non l’ha sentito con le orecchie e non ha visto i colori, le facce, non ha sentito l’odore della carne brucia-ta, che è più facile non crederci, perché le cose sgradevoli, brutte, orrende, tristi […] è più facile negarle, è più facile non vederle. Ed è per quello che uno che ha visto morire, che ha visto uc-cidere, che ha visto i mucchi di cadaveri scheletriti fuori dal crematorio, pronti per essere bru-ciati, chi ha visto le esecuzioni, chi ha visto l’orrore, non può tacere. E va avanti finché è vec-chio, nonostante ci siano persone che gli scrivono parole offensive sul Web. (Rivolgendosi ai ragazzi) Ma però ho anche tutti voi qua davanti, ho anche quelli che mi scrivono lettere meravi-gliose … e poi ho la mia coscienza. La coscienza di ognuno è così importante e straordinaria, quella per cui dici “ho fatto il mio dovere, sono stata capace di fare la scelta, la scelta dolorosa, la scelta di sacrificio».

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“Lo stupore per il male altrui”: riflessioni sulla frase scritta da Primo Levi nel libro ‘La tregua’ «Riflettete su questa frase, perché, quando tu hai di fronte un assassino, quando tu hai di fronte un torturatore sei talmente lontano da lui che non riesci a capacitarti che non sia uno, due, tre, cento, ma tutte le guardie che hai intorno, siano persone orribili, persone che non hanno fatto la scelta e hanno seguito un credo, un credo razzista, di superiorità della razza. Perché un uomo non è superire a un altro. Siamo tutti uguali [...], tutti gli uomini hanno pari dignità e quando qualcuno toglie la dignità a un altro è ‘un male altrui’, che ti lascia sbalordito, che non lo puoi ne-anche capire, al quale non ti puoi avvicinare, perché sei spaventato, ma soprattutto sei stupito da tutto questo».

“Una gamba dopo l’altra” per trasformare la marcia della morte in marcia della vita. «E io lo dico sempre ai ragazzi: siamo fortissimi. Non dite mai “non ce la faccio”, perché non è ve-ro, perché siamo fortissimi perché la marcia della morte si deve trasformare in marcia per la vi-ta. Non è che io sia tornata perché ho scelto di vivere. Tutte sceglievamo di vivere. È stato il caso che non mi ha fatto morire. Ma io ce l’ho messa tutta, con una gamba davanti all’altra. Non ce la facevo più. Ci buttavamo sopra ai letamai e mangiavamo i torsoli di cavolo marciti, succhiavamo ossa già spolpate dai civili tedeschi, che mai aprirono una finestra o una porta per buttarci un pezzo di pane o qualunque cosa. Una gamba davanti all’altra … Siamo fortissimi. Li ho visti questi scheletri camminare per chilometri; non si poteva cadere … E quindi io lo dico sempre ai ragazzi “Non dite mai “non ce la faccio più”. Io l’ho imparato dai miei nipoti i quali, soprattutto negli anni della scuola media mi dicevano “Nonna, ma io non ce la faccio più perché il professore mi ha preso in antipatia, perché mia madre non mi dà pace”. Non lo dite, non lo di-te perché non è vero: siamo fortissimi e dobbiamo veramente trasformare la marcia, quella che fu chiamata la marcia della morte in marcia della vita, la vita che vi aspetta, la vita che potete plasmare per gran parte con le vostre mani. Abbiate coraggio, abbiate profonda coscienza di voi stessi, orgoglio di come siete, senza mai ascoltare i bulli che sono più fragili degli altri perché chi fa il bullo è quello che poi da grande può fare anche il kapo: è la stessa consistenza, è la stessa possibilità. Sono i più fragili quelli che hanno bisogno di dire che sono forti perché chi è forte non ha bisogno di dirlo, come chi è intelligente non ha bisogno di indicare chi non è molto in-telligente. Lo dice di solito chi non lo è».

Accenno di primavera a Malchow «Anche nel campo c’era quell’accenno della primavera che noi diamo ogni anno come una normalità e che invece è questo fantastico miracolo della natura per cui dalla terra brulla nasce un filo d’erba, con quel verde meraviglioso […]. A Malchow, il cui triplo filo spinato permette-va di vedere fuori questo prato che nasceva e degli alberi dai cui rami spogli uscivano, miracolo-samente, le foglie. In un mondo di morte, la natura che si risveglia ti dà una sensazione partico-lare che tu non hai quando vivi normalmente, quando dai per scontato questo miracolo che si ripete ogni anno.

La pietas dei soldati francesi nei confronti delle sopravvissute alla marcia. «I soldati francesi furono i primi dopo anni che ebbero pietà e la pietà è una cosa straordinaria di cui non si parla mai se non in tono dispregiativo: “tu mi fai pietà”. No, pensiamo alla pietas. È fantastico essere pietosi. È un dono avere pietà l’uno dell’altro. E chi ne ha tanto bisogno, come eravamo noi disprezzate, umiliate, schiave, uccise, sentire qualcuno che da lontano ci ripeteva “Poverine, non morite” era incredibile. Ma chi ci aveva mai più detto “Poverine”!».

L’ultimo atto della sua dolorosa esperienza si conclude con la scelta di non uccidere il persecu-tore, pur avendone la possibilità, in nome della vita conquistata con “una gamba davanti all’altra”, nel suo lungo calvario patito per un’unica colpa: quella di essere nata.

I ragazzi della classe III D della Boiardo, che hanno avuto la fortuna di essere tra gli oltre 700 studenti del Teatro Nuovo, gli allievi della II B della stessa scuola secondaria di I grado e i bambini della scuola Primaria Alda Costa della classe IV A, che hanno potuta apprezzare l’incontro, grazie alla registrazione integrale della testimonianza, RINGRAZIANO.

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LA PAROLA AGLI STUDENTI DELL’ICS ALDA COSTA

Gli studenti della IIB della Boiardo e quelli della IVA della primaria Alda Co-sta riflettono e fanno proprie le parole della Senatrice Liliana Segre.

La voce di Liliana Segre è giunta con tutta la sua forza espressiva anche ad altri studenti di classi diverse da quelle presenti al Teatro Nuovo di Ferrara l’11 gennaio 2019, grazie al-la registrazione integrale della testimonianza della Senatrice. In tempi diversi, perché la memoria va coltivata sempre e non solo nel Giorno della Memoria, i ragazzi hanno avuto modo di confrontarsi con questa “nonna” straordinaria, sviluppando un percorso di ri-flessione e conoscenza su una delle pagine più buie della storia del Novecento, dove la “ba-nalità del male” si è affermata in tutta la sua

crudezza nei confronti di un intero popolo, quello ebraico, colpevole “di essere nato”, come ha sottolineato più volte la Segre in vari punti del coinvolgente racconto della sua vita. I ragazzi della classe IIB, coordinati dalla professoressa Isabella Dallapiccola, dopo un’attenta riflessione, hanno sentito il desiderio di mettersi in contatto diretto con la testimone, scrivendo una lettera che in queste pagine viene riportata di seguito.

Liliana Segre ha risposto loro nel giro di pochi giorni, confermando così il suo interesse per gli adolescenti e la passione con cui si dedica alla sua missione di testimone. “Ragazze e ragazzi carissimi, ma che bel pensiero, apprezzo davvero. Siete voi il seme della speranza, i nuovi testimoni di memoria. Buon lavoro a tutti ed un caro saluto alle vostre insegnanti, Liliana Segre”.

Stimata Senatrice Segre, siamo la classe IIB della scuola secondaria di primo grado M.M. Boiardo di Ferrara, purtroppo non abbiamo potuto partecipare all'incontro che lei ha tenuto presso il Teatro Nuovo della nostra città perché non c'erano più posti. Abbiamo avuto però la fortuna di vedere la registrazione. Siamo rimasti profondamente colpiti dal suo coraggio, dalla sua forza e dalla naturalezza con cui riesce a raccontare la sua storia. Ci siamo appuntati tre aggettivi che secondo noi la descrivono appieno: seria, socievole, eroina. Il suo gesto di non raccogliere la pistola deve esserci di esempio: se tutti fossero stati come lei non ci sarebbe stata la guerra. Lei è di grande insegnamento per noi giovani e di questo la ringraziamo. Sicuramente non possiamo capire fino in fondo le atrocità che ha vissuto sulla sua pelle, però le assicuriamo che il suo messaggio ci è arrivato forte e chiaro grazie alla naturalezza e semplicità del suo modo di comunicare. Per noi ragazzi che siamo abituati ad avere tutto e subito, l'idea che avere un pezzo di pane voleva dire essere dei signori, ci ha fatto molto riflettere. Noi la stimiamo moltissimo per quello che sta facendo per le generazioni future e per il coraggio delle sue azioni passate, perché come ha detto lei, noi giovani siamo “fortissimi”. Grazie a lei, forse, ciò che è successo non si ripeterà. Vogliamo chiudere con una sua frase poetica: “la libertà ha il sapore di un al-bicocca secca”.

Seguono le firme dei 26 ragazzi della classe IIB.

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Altrettanto coinvolgente è risultata la testimonianza di Liliana Segre per i bambini della classe IV A della scuola primaria Alda Costa, ai quali è stata presentata la prima parte della testimo-

nianza riguardante la dolorosa esperienza di bambina espulsa dalle scuole e di adolescente, costretta, dopo il fuggi fuggi dell’8 settembre 1943, a separarsi dal suo amato padre, per na-scondersi presso due famiglie cattoliche ami-che, per poi riunirsi a lui nella fuga, purtroppo fallita, verso la Svizzera. I ragazzini, guidati dall’insegnante Gloria Fabbri nell’elaborazione delle parole della Se-gre, avevano già una preparazione storica sui fatti accaduti a Ferrara il 15 Novembre del

1943, perché insieme ad Antonella Guarnieri, la responsabile del Museo del Risorgimento e del-la Resistenza, avevano visitato, in una sorta di viaggio della memoria, i luoghi in cui si era verificato l’eccidio di 11 innocenti, tra i quali alcuni ebrei, prelevati dalle carceri di via Piangipane (attuale sede del MEIS) e dalle lo-ro abitazioni. Questo ha permesso loro di contestualizzare nel modo corretto le vicende accadute pro-prio nello stesso anno in cui iniziò la caccia all’ebreo, già pesantemente mortificato nella sua dignità dopo l’applicazione delle leggi razziali del 1938. Leggendo le riflessioni scritte dei giovanissimi studenti, emerge una capacità insolita di “imme-

desimarsi” nella figura di questa bambina a loro coetanea, espulsa dalla scuola ed esposta ad una serie di umiliazioni che trovarono il culmine nella deportazione al campo di sterminio di Au-schwitz, dove furono uccisi tutti i componenti della sua amata famiglia. Gli stessi autori dei testi hanno presentato alla classe quelle parti della testimonianza dalle quali erano stati particolarmente colpiti. Ne è nata

una discussione che ha permesso ad ognuno di avere una visione d’insieme il più completa pos-sibile. Sono stati messi in rilievo anche i mes-saggi rivolti dalla Segre ai “suoi amati ragazzi” con l’obiettivo di rinforzare in ciascuno di loro l’amore per la vita, la libertà, la giustizia, la fidu-cia nelle proprie risorse personali, la capacità di scegliere consapevolmente. A conclusione di questo percorso di conoscen-za, i bambini elaboreranno una lettera indirizza-ta alla Segre, nella quale si darà spazio soprattut-to alla voce del cuore, a dimostrazione di come “quella donna libera e quella donna di pace” sia en-trata nel loro mondo.

Ma questo sarà argomento di una prossima documentazione.