L’idea di “nemico”: Cartolina della campagna d'Etiopia ... · politica di Hitler delineata...

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A partire dal primo dopoguerra, un’idea di nemico, più ra- dicale e pericolosa che in passato, fu sviluppata sostan- zialmente secondo due schemi – uno ideologico e uno razzistico – che consentirono una rapida e semplicistica elabo- razione degli avversari in una nuova forma di nemico da com- battere con tutti i mezzi a disposizione, anche servendosi dei più moderni metodi di persuasione e mobilitazione delle masse. L’assimilazione dell’avversario secondo “modelli” riconoscibili servì sia per consolidare una contrapposizione tra gruppi di Sta- ti alleati tra loro, sia per colpire un nemico interno che veniva vi- sto, di volta in volta, come il nemico ideologico (l’antifascista), biologico e razziale (i minorati mentali nel primo caso, gli ebrei nel secondo), di classe (i capitalisti e i reazionari nell’URSS), op- pure – cambiando punto di vista – come il collaborazionista, ov- vero una figura di traditore della patria asservito al nemico inva- sore per agevolarlo nel controllo politico e sociale della popola- zione invasa. Di quest’ultimo divenne presto espressione, per antonomasia, il cognome di Vidkun Quisling, che fu capo di un governo fantoccio in Norvegia, mentre la foto della storica stret- ta di mano tra Hitler e il maresciallo Philippe Pétain, presidente della Francia di Vichy, fece il giro del mondo divenendo il simbo- lo di coloro che coscientemente, per preservare i propri incari- chi ben pagati, si mettevano a disposizione dell’invasore. Tali impulsi portarono ad annullare ogni residua distinzione tra civili e militari – con la conseguenza che il nemico perdette di fatto ogni residua legittimità – mentre nei regimi totalitari con- dusse alla definizione di quello che Hanna Arendt chiamò nemi- co oggettivo, ovvero un avversario la cui identità viene determi- nata dall’orientamento politico del governo e non dal suo desi- derio di rovesciarlo, e che quindi è tale per il fatto di esistere ed essere un portatore di tendenze, cioè appartenere a una razza/classe che l’ideologia addita come ostile. Perciò il nemico subì un processo di disumanizzazione radicale e irreversibile, i cui effetti sono visibili ancora oggi: la propaganda bolscevica raffigurava i comunisti in rosso e i reazionari in nero, conforme- mente alla tradizione ortodossa di dipingere in tali colori rispet- tivamente gli angeli e i diavoli, mentre quella antibolscevica de- nunciava la grezza bestialità dei comunisti. La questione ideologica può riassumersi in quello che uno storico (S. Guarracino, Il Novecento e le sue storie, Bruno Mondadori, Mi- lano 1997, pp. 95 sg.) ha definito «il grande conflitto triangolare», che nel corso degli anni Trenta vide già chiaramente definita una contrapposizione fra tre blocchi distinti. Gli Stati Uniti d’America consideravano l’economia capitalistica come l’unica possibile, prodotto di un sistema democratico pienamente legittimato a go- vernare. Perciò ritenevano che comunismo e fascismo dovessero essere compresi sotto una comune definizione di totalitarismo, ov- vero una forma di governo che aspira al controllo totale della po- litica, dell’economia e della società, condizionando fortemente la vita privata dei cittadini e i loro comportamenti, e come tale avver- sa al liberalismo di vecchio tipo. La dottrina comunista, da parte sua, identificava capitalismo e fascismo, ritenendo quest’ultimo 22 Marinai d’Italia una variante del primo, o al limite li considerava come due stadi dello stesso processo: perciò entrambi costituivano una forma economica che, una volta implosa, avrebbe consentito la rivolu- zione socialista e la conseguente instaurazione della dittatura del proletariato. Per il fascismo (considerando sotto questo termine anche il nazismo), capitalismo e comunismo erano nientemeno che due diverse manifestazioni del complotto giudaico-massonico per il dominio mondiale, sicché l’uno e l’altro erano invenzioni de- gli Ebrei per assumere il controllo delle società attraverso la finan- za o disgregarle con la lotta di classe. Ciascuno dei tre soggetti – capitalismo, comunismo e fascismo – negava implicitamente agli altri due il diritto all’esistenza, né poteva pensare a una conviven- za pacifica, considerate le ambizioni bellicistiche del fascismo, la tendenza sovietica alla riproduzione della rivoluzione su scala mon- diale e le necessità espansionistiche del capitalistico americano. L’altro ingrediente – il razzismo – dopo la Grande guerra sembrava trionfare purtroppo ovunque, tanto nelle nazioni democratiche, co- me gli USA e l’Australia, quanto nei nascenti regimi fascisti euro- pei. L’iconografia della campagna d’Etiopia, combattuta dall’Italia nel 1935-’36, presenta un campionario di immagini esplicitamente connotate nei termini di uno scontro di civiltà. In una delle più dram- matiche e coinvolgenti, quella dedicata alla morte del cappellano Reginaldo Giuliani, la barbarie degli abissini consiste nel colpire a tradimento l’uomo inerme mentre impugna il Crocifisso, facendone un martire della religione. È però nel filone umoristico che il nemi- co, peraltro palesemente inferiore di mezzi, viene dipinto come un selvaggio pavido che, una volta vinto in battaglia, possa esse- re umiliato in ogni modo: prendendolo a calci, spruzzandolo con l’insetticida come uno scarafaggio, portandogli via le donne o cornificandolo davanti ai suoi stessi occhi. In tal modo sia la guer- ra in Abissinia che le operazioni di polizia già in atto in Libia non fa- ticarono a caricarsi di una ferocia impensabile in un conflitto euro- peo. Si trattava già, oltre che di un residuo del tipico razzismo co- lonialista, di una forma di affermazione della superiorità razziale dell’italiano – che Mussolini intendeva trasformare in un uomo nuo- vo fascista educato al culto dell’eroismo guerriero –, pienamente idonea a incontrarsi con il razzismo nazionalsocialista. Quest’ultimo, come è noto, rientrava nel programma hitleriano di difesa del sangue ariano dalla corruzione di cui lo minacciavano le razze inferiori, a cominciare proprio da quella ebraica che, se- condo Hitler, mirava precisamente alla disgregazione della razza ariana e della nazione tedesca attraverso la decadenza biologica e la malattia del materialismo. Sulla base di queste premesse il di- sprezzo razziale fu insegnato nelle scuole coinvolgendo le più di- verse discipline, dalla Storia alla Biologia alle arti visive, allo sco- po di disumanizzare l’ebreo e suscitare impulsi violenti contro di lui: sicché l’iconografia nazista ci rappresenta gli ebrei come sra- dicati, corpi estranei nel popolo-nazione (Volk), rapaci e dai tratti fisici accentuati (la barba lunga, il naso, il corpo segaligno e defor- me, il tipico caffetano addosso), fino alle raffigurazioni più estre- me che li identificano in ratti e parassiti. Quando, dopo una feroce attività di discriminazione interna al- la Germania, il Führer decise di muovere guerra sia a est che a ovest, con le importanti vittorie che nell’immediato ne conse- guirono, le dinamiche dell’occupazione dei territori conquista- ti svelarono presto il carattere razziale, oltre che di rapina, del- le sue campagne: nelle grandi città polacche gli ebrei furono reclusi nei ghetti, mentre sul fronte orientale durante l’opera- zione Barbarossa fecero la loro comparsa le Einsatzgruppen, unità speciali incaricate dei massacri contro i nemici razziali e ideologici (ebrei e commissari politici sovietici in testa). Contemporaneamente veniva pianificata la distruzione degli Ebrei d’Europa, secondo un obiettivo che sintetizzava tutta l’attività politica di Hitler delineata vent’anni prima nel Mein kampf, e per L’idea di “nemico”: nella Seconda Guerra Mondiale di Alessandro Ferioli Professore, ricercatore storico Collaborazionismo francese. La storica foto della stretta di mano fra Hitler e Petain Cartolina della campagna d'Etiopia Der Sturmer. Le leggi di Norimberga sono la spada che protegge gli ariani

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A partire dal primo dopoguerra, un’idea di nemico, più ra-dicale e pericolosa che in passato, fu sviluppata sostan-zialmente secondo due schemi – uno ideologico e uno

razzistico – che consentirono una rapida e semplicistica elabo-razione degli avversari in una nuova forma di nemico da com-battere con tutti i mezzi a disposizione, anche servendosi dei piùmoderni metodi di persuasione e mobilitazione delle masse.L’assimilazione dell’avversario secondo “modelli” riconoscibiliservì sia per consolidare una contrapposizione tra gruppi di Sta-ti alleati tra loro, sia per colpire un nemico interno che veniva vi-sto, di volta in volta, come il nemico ideologico (l’antifascista),biologico e razziale (i minorati mentali nel primo caso, gli ebreinel secondo), di classe (i capitalisti e i reazionari nell’URSS), op-pure – cambiando punto di vista – come il collaborazionista, ov-vero una figura di traditore della patria asservito al nemico inva-sore per agevolarlo nel controllo politico e sociale della popola-zione invasa. Di quest’ultimo divenne presto espressione, perantonomasia, il cognome di Vidkun Quisling, che fu capo di ungoverno fantoccio in Norvegia, mentre la foto della storica stret-ta di mano tra Hitler e il maresciallo Philippe Pétain, presidentedella Francia di Vichy, fece il giro del mondo divenendo il simbo-lo di coloro che coscientemente, per preservare i propri incari-chi ben pagati, si mettevano a disposizione dell’invasore.

Tali impulsi portarono ad annullare ogni residua distinzione tracivili e militari – con la conseguenza che il nemico perdette difatto ogni residua legittimità – mentre nei regimi totalitari con-dusse alla definizione di quello che Hanna Arendt chiamò nemi-co oggettivo, ovvero un avversario la cui identità viene determi-nata dall’orientamento politico del governo e non dal suo desi-derio di rovesciarlo, e che quindi è tale per il fatto di esistere edessere un portatore di tendenze, cioè appartenere a unarazza/classe che l’ideologia addita come ostile. Perciò il nemicosubì un processo di disumanizzazione radicale e irreversibile, icui effetti sono visibili ancora oggi: la propaganda bolscevicaraffigurava i comunisti in rosso e i reazionari in nero, conforme-mente alla tradizione ortodossa di dipingere in tali colori rispet-tivamente gli angeli e i diavoli, mentre quella antibolscevica de-nunciava la grezza bestialità dei comunisti.La questione ideologica può riassumersi in quello che uno storico(S. Guarracino, Il Novecento e le sue storie, Bruno Mondadori, Mi-lano 1997, pp. 95 sg.) ha definito «il grande conflitto triangolare»,che nel corso degli anni Trenta vide già chiaramente definita unacontrapposizione fra tre blocchi distinti. Gli Stati Uniti d’Americaconsideravano l’economia capitalistica come l’unica possibile,prodotto di un sistema democratico pienamente legittimato a go-vernare. Perciò ritenevano che comunismo e fascismo dovesseroessere compresi sotto una comune definizione di totalitarismo, ov-vero una forma di governo che aspira al controllo totale della po-litica, dell’economia e della società, condizionando fortemente lavita privata dei cittadini e i loro comportamenti, e come tale avver-sa al liberalismo di vecchio tipo. La dottrina comunista, da partesua, identificava capitalismo e fascismo, ritenendo quest’ultimo

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una variante del primo, o al limite li considerava come due stadidello stesso processo: perciò entrambi costituivano una formaeconomica che, una volta implosa, avrebbe consentito la rivolu-zione socialista e la conseguente instaurazione della dittatura delproletariato. Per il fascismo (considerando sotto questo termineanche il nazismo), capitalismo e comunismo erano nientemenoche due diverse manifestazioni del complotto giudaico-massonicoper il dominio mondiale, sicché l’uno e l’altro erano invenzioni de-gli Ebrei per assumere il controllo delle società attraverso la finan-za o disgregarle con la lotta di classe. Ciascuno dei tre soggetti –capitalismo, comunismo e fascismo – negava implicitamente aglialtri due il diritto all’esistenza, né poteva pensare a una conviven-za pacifica, considerate le ambizioni bellicistiche del fascismo, latendenza sovietica alla riproduzione della rivoluzione su scala mon-diale e le necessità espansionistiche del capitalistico americano.L’altro ingrediente – il razzismo – dopo la Grande guerra sembravatrionfare purtroppo ovunque, tanto nelle nazioni democratiche, co-me gli USA e l’Australia, quanto nei nascenti regimi fascisti euro-pei. L’iconografia della campagna d’Etiopia, combattuta dall’Italianel 1935-’36, presenta un campionario di immagini esplicitamenteconnotate nei termini di uno scontro di civiltà. In una delle più dram-matiche e coinvolgenti, quella dedicata alla morte del cappellanoReginaldo Giuliani, la barbarie degli abissini consiste nel colpire atradimento l’uomo inerme mentre impugna il Crocifisso, facendoneun martire della religione. È però nel filone umoristico che il nemi-co, peraltro palesemente inferiore di mezzi, viene dipinto comeun selvaggio pavido che, una volta vinto in battaglia, possa esse-re umiliato in ogni modo: prendendolo a calci, spruzzandolo conl’insetticida come uno scarafaggio, portandogli via le donne o

cornificandolo davanti ai suoi stessi occhi. In tal modo sia la guer-ra in Abissinia che le operazioni di polizia già in atto in Libia non fa-ticarono a caricarsi di una ferocia impensabile in un conflitto euro-peo. Si trattava già, oltre che di un residuo del tipico razzismo co-lonialista, di una forma di affermazione della superiorità razzialedell’italiano – che Mussolini intendeva trasformare in un uomo nuo-vo fascista educato al culto dell’eroismo guerriero –, pienamenteidonea a incontrarsi con il razzismo nazionalsocialista.Quest’ultimo, come è noto, rientrava nel programma hitleriano didifesa del sangue ariano dalla corruzione di cui lo minacciavanole razze inferiori, a cominciare proprio da quella ebraica che, se-condo Hitler, mirava precisamente alla disgregazione della razzaariana e della nazione tedesca attraverso la decadenza biologicae la malattia del materialismo. Sulla base di queste premesse il di-sprezzo razziale fu insegnato nelle scuole coinvolgendo le più di-verse discipline, dalla Storia alla Biologia alle arti visive, allo sco-po di disumanizzare l’ebreo e suscitare impulsi violenti contro dilui: sicché l’iconografia nazista ci rappresenta gli ebrei come sra-dicati, corpi estranei nel popolo-nazione (Volk), rapaci e dai trattifisici accentuati (la barba lunga, il naso, il corpo segaligno e defor-me, il tipico caffetano addosso), fino alle raffigurazioni più estre-me che li identificano in ratti e parassiti.Quando, dopo una feroce attività di discriminazione interna al-la Germania, il Führer decise di muovere guerra sia a est chea ovest, con le importanti vittorie che nell’immediato ne conse-guirono, le dinamiche dell’occupazione dei territori conquista-ti svelarono presto il carattere razziale, oltre che di rapina, del-le sue campagne: nelle grandi città polacche gli ebrei furonoreclusi nei ghetti, mentre sul fronte orientale durante l’opera-zione Barbarossa fecero la loro comparsa le Einsatzgruppen,unità speciali incaricate dei massacri contro i nemici razziali eideologici (ebrei e commissari politici sovietici in testa).Contemporaneamente veniva pianificata la distruzione degli Ebreid’Europa, secondo un obiettivo che sintetizzava tutta l’attivitàpolitica di Hitler delineata vent’anni prima nel Mein kampf, e per

L’idea di “nemico”:nella SecondaGuerra Mondialedi Alessandro FerioliProfessore, ricercatore storico

Collaborazionismo francese.La storica foto della stretta di mano fra Hitler e Petain

Cartolinadella campagna d'Etiopia

Der Sturmer. Le leggi di Norimbergasono la spada che protegge

gli ariani

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il quale furono messe a disposizione ingenti risorse umane, logisti-che e tecnologiche. Durante l’occupazione tedesca, in Poloniaperse la vita il 20% della popolazione, mentre in Francia meno del2%: il che è significativo della brutalità (non casuale) assunta dal-la guerra sul fronte orientale. Nella memoria sul trattamento da ri-servare alle popolazioni dell’Est, in data 25 maggio 1940, il capo del-le SS Heinrich Himmler scriveva che in futuro quelle popolazioninon avrebbero dovuto essere istruite oltre la quarta classe ele-mentare, apprendendo a scrivere il proprio nome, a contrare nonoltre il numero 500 e, soprattutto, a obbedire ai Tedeschi.Non meno feroci furono i Giapponesi nelle loro campagne in Ci-na, Birmania e India. Nonostante lo slogan “L’Asia agli asiatici” –che doveva dare una patina di nazionalismo antioccidentale alleguerre imperiali e ricollegarsi alle iniziative giapponesi contro icolonizzatori occidentali – l’occupazione giapponese in Cina, sindall’invasione della Manciuria del 1931, fu connotata da brutalità

ispirata da un violento senso di superiorità: cinesi furono uccisisoltanto per svago, seppellendoli vivi o buttandoli nel fuoco, men-tre donne venivano stuprate. L’Unità speciale 731, dislocata inManciuria, effettuò sistematicamente esperimenti di armi batterio-logiche su prigionieri di guerra e civili cinesi, praticando anche lavivisezione umana a fini di ricerca sui microbi, con forse oltre200.000 vittime. Allo stesso modo lo sfruttamento schiavistico diprigionieri nella costruzione della linea ferroviaria fra la Birmaniae il Siam ebbe un costo altissimo in termini di vite umane. Anchela propaganda di resistenza cinese, perciò, fece largo appello altradizionale stereotipo del nemico barbarico, disegnando soldatigiapponesi dalle fattezze scimmiesche nell’atto di uccidere o daitratti asiatici grottescamente accentuati, secondo una singolareanalogia con le caricature prodotte negli USA. Ma i militari giap-ponesi più retrivi disprezzavano anche gli occidentali, ai quali sisentivano superiori per quel sentimento dell’onore così estremo danon permettere l’ipotesi della resa: così si spiega il trattamento inu-mano riservato ai prigionieri di guerra, esemplificato ottimamentenel film Il ponte sul fiume Kwai di D. Lean (1957). I comandanti giap-ponesi erano insomma convinti di combattere contro un nemicoimperialista e schiavo del denaro e del vizio, di fronte al quale larazza Yamato non avrebbe potuto che trionfare; dal canto loro i mi-litari americani che andavano alla conquista delle isole del Pacifi-co venivano abituati a vedere il nemico (chiamato col termine gookriservato agli abitanti dell’Estremo Oriente) come una talpa dagliocchi a mandorla, di fronte a cui si ponevano come derattizzatori,sentendosi perciò legittimati a svilirne il valore della vita.Anche le motivazioni anzidette concorsero a diminuire le inibizio-ni verso gli attacchi ai civili: di conseguenza, se i civili uccisi nel-la Grande guerra rappresentavano il 5% dei morti totali, nella Se-conda guerra mondiale tale percentuale superò abbondantemen-te il 50%. Il coinvolgimento dei civili fu l’effetto della radicalizza-zione ideologica del conflitto e fu anche la conseguenza del suo

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inasprirsi: quando il generale Keitel ordinava di giustiziare tra i 50e 100 comunisti per ogni tedesco ucciso, alimentava anche i pro-positi di vendetta dei russi a mano a mano che questi avanzaro-no verso ovest dopo l’offensiva dell’inverno ’42-’43, compiendoatrocità enormi. Lo stesso Hitler, in un discorso del 30 marzo 1941,disse che ««la guerra contro la Russia [?…] è uno scontro di ideo-logie e di differenze razziali e dovrà essere condotta con una du-rezza senza precedenti, impietosa e inesorabile»»: a farne le spe-se furono i prigionieri di guerra sovietici, internati nei lager tede-schi in condizioni inumane.I continui scivolamenti nella ferocia, anche verso i civili, indusse-ro pressoché tutte le parti in lizza alla violazione delle norme basi-lari di umanità. L’esempio più clamoroso fu quello dei bombarda-menti su città e territori nemici, che non risparmiarono quei civiliche pure le nazioni si erano impegnate a non coinvolgere nei con-flitti. Il comandante del Bomber Command britannico, Sir ArthurHarris, non ebbe scrupoli nell’ordinare attacchi terroristici finaliz-zati alla distruzione delle abitazioni nei quartieri operai delle cittàtedesche, pur sapendo che quelle case fossero certamente abita-te da persone in carne e ossa. Le resistenze morali furono facil-mente superate dalle considerazioni che anche i tedeschi aveva-no colpito le città inglesi, che occorresse indebolire il morale delnemico per indurlo a finire la guerra e che, in definitiva, i civili ve-nissero coinvolti soltanto accidentalmente e non di proposito. Se-condo J. Glover (Humanity. Una storia morale del Ventesimo seco-lo, Il Saggiatore, Milano 2002) l’insensibilità verso i civili costituivala naturale prosecuzione degli effetti del blocco navale imposto al-la Germania al termine della Prima guerra mondiale, che avevacontinuato a provocare vittime anche dopo l’armistizio: ciò aprì lastrada alla disponibilità al coinvolgimento pesante dei civili nellaseconda guerra mondiale, sino ai grandi bombardamenti (fra cuiquelli di Tokio con bombe incendiarie) e, poi, al lancio delle dueatomiche sulle città giapponesi giustificato con l’asserzione, pur-troppo non sostenuta da un adeguato studio costi/benefici, che ciòavrebbe fatto concludere il conflitto più rapidamente.La scoperta degli orrori dei campi di concentramento e di ster-minio contribuì ad avvalorare l’immagine di un nemico tedescobarbarico, che proprio dopo essere stato sconfitto si offriva, nel-la sua inedita vulnerabilità, a facili vendette.

I profughi tedeschi delle regioni orientali concesse alla Poloniafurono massacrati indiscriminatamente nel corso del loro esodoverso ovest, mentre nel contempo il processo di Norimberga ri-costruiva minuziosamente le accuse contro i capi della Germa-nia in una serie di dibattimenti che lasciavano ben pochi dubbisul nazismo. Per la prima volta i notabili delle cittadine tedeschefurono messi di fronte alle responsabilità del loro popolo, attra-verso visite obbligate ai lager e proiezioni di filmati con funzionepedagogica: non è casuale che di quello girato dagli inglesi aBergen-Belsen nel 1945 fosse stato realizzato un montaggio peri tedeschi, in cui l’attenzione era fissata più sugli aguzzini che sul-le vittime.Qualche perplessità era semmai destata dal processo di Tokio,condotto contro i capi giapponesi con modalità analoghe a quel-le di Norimberga, ma fortemente incentrate sull’assimilazionedell’imperialismo giapponese al nazismo, con evidenti fini puniti-vi e di legittimazione del comportamento statunitense. Difficil-mente, però, le atrocità potevano essere ricondotte a una piani-ficazione programmata dall’alto, mentre le guerre d’aggressione– di cui i vincitori non erano immuni (e non lo sarebbero stati nep-pure in seguito) – non potevano ragionevolmente essere consi-derate di per sé criminali, non essendoci leggi internazionali chele punivano espressamente. Inoltre appariva assurda l’esclusio-ne dell’imperatore Hirohito dal processo, mentre si tentava di ad-dossare le responsabilità maggiori al ministro della guerra HidekiTojo. Proprio quest’ultimo era già stato additato come il nemicoprincipale dalla propaganda americana, che nel famoso film diJohn Ford e Gregg Toland, 7 Dicembre, ne aveva anche ridicoliz-zato l’improbabile “voce” inventata dai doppiatori di Hollywood,che per l’americano medio era divenuta la cadenza inquietantedel nemico giapponese. L’episodio di Pearl Harbor restò dipintoa chiare lettere come il simbolo della vigliaccheria del nemico(“un’ora e cinquanta minuti di perfidia”, affermava il film citato),mentre forse aveva rappresentato l’ultima speranza di salvezzaper una nazione già strangolata dall’embargo del petrolio scien-temente imposto dagli Stati Uniti. Insomma, come e più che al ter-mine della Grande guerra i vincitori decretarono unilateralmen-te colpe e meriti.

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L’idea di “nemico”

I criminali nazisti al processo di Norimberga Propaganda bolscevica.La Guardia rossa uccide il drago

Vignetta antinipponica,dalla rivista americana Fortune del 1941

L'immagine dell’ebreonella propaganda nazista

La crudeltà degli americaniin una cartolina di Gino Boccasile

La morte del CappellanoReginaldo Giuliani

Il simbolo del nemico.I contrassegni nei lager nazisti