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Federico Ghibaudo 9/5/80 - 9/1/95 Liceo Scientifico Gerardiana Basket Monza "Frisi" -1 G a Liceo Scientifico "Frisi" Monza Premio Letterario "Federico Ghibaudo" anno 1998 4 edizione a

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Federico Ghibaudo

9/5/80 - 9/1/95

Liceo Scientifico

Gerardiana Basket

Monza

"Frisi" -1 Ga

LiceoScientifico

"Frisi"Monza

PremioLetterario

"Federico

Ghibaudo"

anno 1998

4 edizionea

Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“L’INDICE”

Lorenzo Piccolo 4a - A pag. 4

Matteo Pozzi 4a - I pag. 11

Lucia Gardenal 2a - I pag. 13

Niccolò Manzolini 5a - A pag. 15

Stefania Giodini 2a - D pag. 17

Michele Nanzoni 5a - F pag. 18

Andrea Basile 1a - H pag. 19

Claudia Galbiati 4a - E pag. 21

Isabella Rossitto 1a - F pag. 25

Jacopo Galimberti 3a - H pag. 26

Lorenzo Sala 4a - I pag. 28

Chiara Penati 2a - B pag. 30

Roberta Negri 4a - F pag. 31

Paola Cossa 3a - A pag. 32

Francesca Lazzaroni 1a - H pag. 35

Elisabetta Valcamonica 2a - M pag. 36

Chiara Malerba 3a - G pag. 37

Arianna Ferrario 4a - G pag. 38

Thomas Brunney 3a - A pag. 40

Cristina Vitale 2a - H pag. 41

Pamela Guzzi 1a - H pag. 42

Chiara D’Amico 2a - H pag. 43

Marta Abbà 3a - A pag. 44

Matteo Maserati 5a - B pag. 46

Mariachiara Colombo 2a - H pag. 48

Marco Colnago 2a - N pag. 49

Simone Bregaglio 2a - D pag. 50

Vincenzo Freli 4a - B pag. 51

Rossanna Currà 4a - E pag. 55

Loredana Lunadei 5a - G pag. 56

Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“ELENCO FINALISTI PRECEDENTI EDIZIONI”

1995 1°Class. Alexandra Bonfanti 2a - F

2° Loredana Lunadei 2a - G

3° Arianna Ferrario 1a - G

1996 1° Martino Redaelli 4a - A

2° Elena Cattaneo 4a - G

3° Marika Pignatelli 3a - C

1997 1° Niccolò Manzolini 4a - A

2° Matteo Pozzi 3a - I

3° Elena Cattaneo 5a - G

“LA BIBLIOTECA”

sono disponibili presso la Biblioteca dell’Istituto,

per la consultazione,

i fascicoli delle precedenti edizioni del Concorso...

...oltre i seguenti libri premio:

1996 L’Alchimista - Paulo Coelho - Bompiani

1997 Messaggio per un’aquila che si crede un pollo

Istruzioni di volo per aquile e polli

Anthony de Mello - Piemme

1998 Il viaggio di Theo - Catherine Clèment

Longanesi

Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“LA GIURIA”

Elena Calore 4a - G

Dacia Dallalibera 2a - E

Marika Pignatelli 5a - G

Alessandro Cieli 1a - D

Daniele Benaglia 3a - B

“IL CONCORSO”

Il nostro concorso ha un grosso difetto, i vincitori

ufficiali sono pochi, mentre ogni partecipante, che ha

messo nero su bianco le sue idee, le sue esperienze, la

sua fantasia, la sua anima, per farli conoscere agli altri,

ogni partecipante, è un vincitore.

Ma le regole consolidate per i concorsi, che sono

poi le stesse che spingono a partecipare, richiedono

una classifica che, per le innumerevoli varianti in

campo, non potrà che essere imperfetta. I componimenti sono quelli originali, non sono

stati volutamente corretti o ritoccati ma si è preferito

lasciare ogni cosa nella sua forma originale

previlegiando il contenuto della comunicazione alla

forma della stessa.

Invitiamo pertanto ogni singolo lettore ha trovare

il SUO componimento preferito e a far suo lo stile ed il

messaggio in esso contenuto. Questo concorso vuole

infatti proporsi come punto di ritrovo, come un punto

di confronto, una palestra per idee, sentimenti ed

emozioni.

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo" 1° Classificato

“LO SPECCHIO NELLO SPECCHIO” Un labirinto

di Lorenzo Piccolo - 4aD

per Alice

EPILOGO

Era un tentativo di dire come il solo labirinto possibile -il solo labirinto pensabile- sia l’uomo, di come lo svolgersi della vita ne sia il riflesso, di quanto siano belli gli arabeschi disegnati sulla superficie degli specchi.

E tu dovrai mantenerti in equilibrio sul filo sottile

che separa il sonno dalla veglia, oppure galleggiare

come coloro per i quali il sonno e la veglia sono la stessa cosa.

Micheal

I.

Non sapendo quando l’Alba possa venire,

apro ogni Porta, che abbia Piume, come un Uccello,

o Onde, come una Spiaggia.

E.D.

Era prigioniero della torre, come tutti. E come tutti aspettava. Seduto, appoggiato alla finestra, i capelli che scivolavano a

ciocche sulla fronte pallida, nascondendola. Guardava giù. Il corpo della torre, nero come il sorriso di un assassino, non si poteva confondere con la

notte in cui essa era avvolta, ma se ne staccava, scintillando di una bellezza tetra e maestosa. Mattone dopo mattone, lo vedeva perdersi e quasi dissolversi nella nebbia, laggiù. Nebbia.

Impenetrabile e misteriosa, sfocava i confini di ogni cosa, nascondendone la realtà: sempre che ci fosse, una realtà da nascondere. Così pensava l’uomo, rimanendo rannicchiato; e così chissà quanti, quanti altri uomini pensavano, si disse, avvolgendosi nell’ombra, chissà quanti come lui nella torre, a guardare giù, e a pensare. Forse nessuno: forse, piuttosto, era solo, perché così si sentiva. Solo.

Imprigionato da mura indefinite e infinite, impalpabili, a vedersi immense come i desideri

di un uomo, eppure soffocanti come il ricordo di un dolore in una mattina di sole. Sembra che seguissero un perimetro circolare.

Del resto, una circonferenza è perfetta per contenere tutta quanta la fragile grandiosità -grandiosa fragilità- di un essere umano (che, a dire il vero, potrebbe essere considerato un

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suo punto). Avvolge uno spazio, avvolta da spazio, infinitamente finita. Non occorre niente di più: ed in effetti non c’era. Nessuna porta, nessuna uscita: solo le mura. Poi la finestra. E la torre si stagliava, esile e nera, sopra la nebbia, vaporosa come in una sera di

Novembre. Ma non esistevano i mesi, e le stagioni: non avrebbero avuto senso. Non che l’uomo in quel tempo ne avesse. Neanche un alito di vento. L’aria era fredda, tagliente come una spada, ma immobile

come sempre. Il piccolo uomo inspirò profondamente una, due, tre volte, e chiuse gli occhi. Il cielo,

adesso, sembrava accarezzarlo. Era rimasto per terra, rannicchiato, sprofondato nelle pietre fredde e dure del pavimento,

a ricordare, in silenzio, per un tempo interminabile. Dico in silenzio perché, a volte, pensando, parlava, come rivolgendosi alle ombre che

scivolano lungo le pareti. Non si aspettava certo una risposta, non da loro; lo faceva per ricordare se stesso, di quando in quando, di avere una voce: avrebbe preferito dimenticarsene, ma non ci riusciva. Se per abitudine, o piuttosto per via di quel misterioso e innato amore che ogni uomo nutre per la propria anima, non so.

Sta di fatto che parlava. Ed ora, ecco, in quel luogo gelido e buio e terribile, gli pareva possibile poter vedere, e

toccare, e respirare i suoi pensieri: e allora essi avrebbero parlato al suo posto, e lui sarebbe rimasto ad ascoltare. Attese, e attese.

Ma i suoi pensieri generarono sogni, e i sogni incubi. Si accorse dunque finalmente, all’improvviso -e fu come un bacio d’inverno- che essi non l’avrebbero condotto in alcun luogo, ma che a lui stesso -e a lui soltanto- spettava il compito di intrappolarli, e domarli, e condurli.

Non era troppo tardi. Non ancora. L’arco era ampio abbastanza da permettergli di non chinare la testa. Il viso ricordava, nel

suo pallore, la bianca vela di una zattera persa nell’oceano, spiegata e fiera davanti al mare senza confini senza terre senza pace, distesa e forte, appena scossa dal sussurro dell’immensa ultima tempesta che la chiama a sé.

Né i nudi piedi vacillavano, ma rimanevano immobili sul massiccio davanzale di pietra. Dopotutto, non era mai servito a niente. Mai aveva ospitato fiori o desideri irraggiungibili o speranze infrante, lasciando che si appoggiassero su di sé, che si aggrappassero, né mai li aveva confortati: bisogna tuttavia pensare che forse, in quel mondo, essi non esistevano.

Ma il piccolo uomo era già oltre quel mondo, e al di là di tutti i mondi; non più essere umano, né creatura terrestre avvolta dal cielo: ma aria, e terra, e cielo. Non più zattera alla deriva, piccola luce persa nel mare: ma acqua, e fuoco, e mare.

E bastava volerlo.

Lo scuro sguardo scrutava l’invisibile, la palpebre spalancate, senza riposo, rimanevano immobili, gli occhi sembravano quasi respirare, piano, come due predatori davanti alle loro prede. (chiunque lo avrebbe capito) Leone e zebra, topolino e serpente, uomo e cielo: la natura, in fondo, rimane sempre coerente con se stessa -per non dire uguale- anche se si maschera in modo meraviglioso. Sfida.

Sfida davanti al vuoto, sfida davanti al mondo, sfida davanti al tempo, davanti al passato e al futuro, davanti alla memoria degli uomini e delle loro fragili speranze.

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E accadde allora. Fu allora che l’infinito si accorse di lui e lo vide, attraverso quegli occhi, e allora lo

accolse, e lo avvolse: o meglio lo afferrò. Il tempo si fermò per un attimo, per un attimo si fermò il respiro: eppure il cuore

continuava a battere, come non aveva battuto mai. Odore di immenso. O meglio profumo. (sì, profumo è la parola giusta) Un profumo seducente come il canto di una sirena, eppure appena sussurrato come un

suggerimento, o una parola di conforto.

Un profumo da ascoltare.

Il cielo si apriva grande e libero dinanzi a lui, e dietro di lui si schiuse, docile, dopo aver atteso pazientemente la fine del viaggio. Il tempo sembrava non essere mai esistito, e chissà, forse era soltanto stato un’illusione, un passatempo, un intervallo nell’eternità, il tentativo di contare l’infinito.

Come un bambino che pretenda di chiudere le stelle tra le dita. Dove l’uomo, che da sempre si diletta giocando con gli specchi, poiché il mondo lo aveva

creato, volle a sua volta creare il mondo: non uno qualsiasi, bensì il suo. Inventare il tempo venne subito dopo. Certe volte le cose che marciano al rovescio sono le più interessanti. Tuttavia non sempre le migliori.

Ridestatosi improvvisamente dal non troppo logico filo dei suoi pensieri, il cielo si volse di

nuovo a guardare l’uomo. Detestava perdersi quello che sarebbe avvenuto di lì a poco, e si ripropose per il futuro di evitare di distrarsi senza un buon motivo per farlo.

Il passaggio dell’uomo fu dolce e leggero come una goccia di pioggia, e il cielo ne sorrise compiaciuto, ritenendo di aver operato una buona scelta e, ne era certo, se aveva imparato qualcosa della natura umana, anche il suo piccolo visitatore pensava esattamente la stessa cosa.

Ci sono giorni in cui il mondo intero sembra intento a pensare, a cercare le parole, a

costruire castelli in aria, e a sperare. E allora tutto tace. Questo di solito accade d’inverno, quando il freddo ti spinge a riscaldare il cuore.

(so, certo, che è per via della stagione, ma non ho mai davvero capito perché il cielo in questi giorni, che elevano l’uomo verso di esso, invece che azzurro -del colore, cioè, dei pensieri- sia grigio)

Non so se quello si potesse definire mondo, né se il tempo conoscesse i giorni, ma accadde esattamente la stessa cosa. Silenzio.

(...)

Anni o istanti, non si può dire: sta di fatto che del tempo passò. Il cielo sedeva annoiato, contando oziosamente le finestrelle della torre, quando fu

toccato da una prima, debole brezza. Rise piano, accorgendosi che finalmente il gioco ricominciava.

(a onor del vero, rise anche per via del solletico) Soffiò più forte, e più forte il cielo rise. Stavolta perché si era accorto di quanto fosse

nuovo quel vento che stava nascendo. Sapeva distinguerli, lui, sapeva dalla prima folata il nome, la forza, la direzione: d’altronde erano quasi tutti figli suoi, e da buon padre li conosceva.

Questo però era nuovo davvero, e figlio suo no di certo. Alla nebbia, cuscino dell’aria, era rimasto impigliato il respiro del piccolo uomo, qualche

pensiero e un sogno. Il vento si chinò e li prese, tutti insieme. Li trascinò con sé, nelle sue mani forti, li fece di nuovo volare. Veloce e leggero, soffiò

intorno alla torre, e andò più in alto, impetuoso, e più in alto ancora, verso le tenebre, verso

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le mura nere, e ancora più su, soffiando più forte, un altro giro tutt’intorno, quasi danzando: fino al triste, enorme davanzale di una stanza vuota, dove qualcuno aspettava, con gli occhi immersi nell’infinito.

Allora, e soltanto allora, si arrestò: e fu come se non fosse mai esistito. Sulla nera fila di mattoni depose i suoi piccoli doni ed un’occhiata furtiva.

Poi se ne andò. L’uomo aprì gli occhi, e vi fece entrare il cielo. Come solitamente si fa con un fiore, raccolse la sfida.

e intanto milioni di rose rifluivano sul bagnasciuga,

e chissà se si può capire,

che milioni di rose non profumano mica,

se non sono i tuoi fiori a fiorire.

F.D.G.

II.

Abbagliato dalla luna, rivide sulle fredde pareti le sue immagini riflesse

come ombre nere che s’intersecano e si sovrapponevano a formare

un labirinto d’ombre nel labirinto F.D.

Se solo avessi davanti a me uno specchio, tutto questo potrei vederlo riflesso negli occhi della mia immagine, e non sarebbe così difficile da dire e da capire.

Ti piacerebbe abitare nella Casa dello Specchio, Kitty?

Sono sicuro che ci sono delle cose meravigliose! Facciamo finta che ci sia un modo per entrare, Kitty.

Facciamo finta che il vetro sia diventato morbido come nebbia, e che possiamo passare dall’altra parte.

L.C.

I.

Camminare all’aperto, di notte, sotto il cielo silente, lungo un corso d’acqua che scorre quieto,

è sempre una cosa piena di mistero, e sommuove gli abissi dell’animo.

H.H.

La strada procedeva diritta, seguendo scrupolosamente la prospettiva. Un ragazzo camminava, solo, seguendo diligentemente la strada. Ai suoi occhi appariva come una V rovesciata; del resto lo sguardo umano è piuttosto

incline a rovesciare le cose. Ci si dovrebbe adesso chiedere come il ragazzo apparisse sulla strada, se non altro per

una questione di equità. Sui vent’anni, bello di quella bellezza che è forza, energia, gioventù; di passo veloce e

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allegro; di cuore leggero. Stava tornando a casa. Era la prima volta. L’aveva lasciata tempo prima, per vivere. Immaginava già i grandi spargimenti di lacrime di sua madre. Facevano parte della festa. Diavolo, stava tornando a casa! Avrebbe rivisto i suoi fratelli, i suoi amici, forse anche la

ragazza della porta accanto che un giorno -se si ricordava bene, era di maggio- gli aveva sorriso.

E poi suo padre, la fontana della piazza, la collina che si lasciava intravedere appena dalla finestra della cucina, avrebbe visto la luna, la dolcissima luna, che sembrava sorridergli solo quando camminava per il sentiero di ciottoli a lui così caro, con la sua testa di ragazzino piegata all’insù, tutta piena di pensieri complicati e bellissimi. Avrebbe incontrato ricordi che credeva perduti, e che erano invece appena smarriti. Avrebbe ritrovato i suoi luoghi segreti -il mio albero preferito, ti riconosco, sei tu, ci sei sempre. che bello poterti abbracciare ancora, il mio giardino, che mille e mille volte mi ha accompagnato attraverso mondi inventati per il solo piacere di esplorarli, e i fili d’erba che sembrano sempre tutti al loro posto, la roccia vicino al fiume sopra la quale ci si sdraiava a guardare le metamorfosi delle nuvole, quel gradino che dà sul vialetto dove mi sedevo a leggere quando ero triste, quel pianoforte che non sono mai riuscito a suonare e che alla fine amavo, la mia finestra!, dalla quale ho visto nascere e morire tante volte il sole, queste mura, dentro cui senza che io me ne accorgessi, sono rimasti impigliati tutti i miei pensieri e i sogni di bambino, la parte di me più misteriosa.

Pensando a queste cose, dondolava leggermente la testa e teneva gli occhi socchiusi. Se anche si fosse addormentato, pensò, sarebbe stata sua madre a risvegliarlo con un bacio, come un tempo.

Stava tornando a casa! Ogni tanto gli balenava il dubbio di aver sbagliato strada, ma il dubbio subito svaniva: le

indicazioni erano chiare. Imboccata la via, sempre dritto. Fino a casa. Certo, non si sarebbe immaginato che “sempre dritto” si dovesse prendere alla lettera:

niente curve, mai. Se poi avesse saputo che di auto camion furgoni biciclette motorini persino di persone neanche l’ombra, forse non sarebbe neanche partito. Almeno, non con l’idea di viaggiare in autostop.

Tuttavia c’era il sole, il cielo anche, ed egli partì. Avrebbe potuto essere un soldato, intendiamoci, non che necessariamente lo fosse, ma

sarebbe perfetto per la nostra storia. Un piccolo soldato che ritorna a casa con le sue piccole ferite, che il tempo ormai sta già iniziando a cancellare, e di cui, chissà, forse un giorno si potrà ridere.

Con un piccolo zaino pieno di pensieri, e occhi grandi con cui divorare la strada, correre avanti al di là della linea dell’orizzonte.

Sì, perché lui correva, camminando. Correva come quando, bambino, tornava a casa la sera. Correva con gli occhi. Perché stava tornando a casa.

Prati verdi e rigogliosi sorridevano quieti al cielo, campi accarezzati appena dal giorno si

piegavano mollemente al vento, e popolazioni intere di girasoli volgevano il capo a seguire il passaggio del ragazzo, cosa che se non altro spezzava la quotidiana monotonia: guardare qualcosa, una volta tanto, che splendesse più del sole.

Ma al di là di quel paesaggio che teneva in braccio la strada l’orizzonte continuava placidamente a stendersi senza lasciarsi scorgere, più e più volte invitando il ragazzo ad avventurarsi oltre il confine leggero che separava dall’erba il freddo asfalto. E lui a volte si fermava, guardando le infinite strade che si ricongiungevano intorno a lui come fossero ragnatele, cogliendone la bellezza quasi istintiva che un solo sguardo può dare, ed infine ripartiva.

Mondi sconosciuti e fantastici ruotavano su orbite nascoste chissà dove, dietro prati e campi e popolazioni intere di girasoli, si toccavano e si ingoiavano a vicenda, volavano come i pensieri delle lunghe sere d’estate, facevano ondeggiare le cime degli alberi e tremare le case, baciando il vento e le nuvole, regalavano costellazioni nuove al cielo e nuovi racconti agli uomini.

Tutti i futuri possibili, tutti quelli che possono capitare, o che si può scegliere di avere,

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quelli che ci rincorrono mentre noi ne inseguiamo altri, tutti i nostri giorni che ancora devono venire, e che ci aspettano proprio qui, dietro l’angolo, al prossimo bivio: tutta quella massa indistinta di cose che ci impone di sognare, che fa incontrare la gente, ciò che rende il mondo un bel posto per viverci, quello che un tempo qualcuno ha chiamato destino.

Ma c’è il rischio di perdersi, era come se pensasse il ragazzo, davanti a tutta questa bellezza. Anche soltanto a guardarla, anche nella sua apparente dolcezza. Meglio continuare verso casa, per la strada più lunga, magari, ma che mi ci porterà.

Riuscite ad immaginare qualcosa di più difficile, faticoso e contrario alla propria natura? Un uomo che procede seguendo una linea retta! Viene quasi da ridere. All’altro capo della strada c’era la sua vita, però, e sapeva per certo che non si sarebbe

potuto sbagliare; perciò il passo si faceva sempre più leggero, e gli occhi rispondevano con un gentile riflesso agli inviti dei prati e dei campi e di popolazioni intere di girasoli, che ormai si andavano disperdendo in paesaggi sempre più nuovi e stranieri.

Non si scorgevano frontiere, ma lui non si ricordava che ce ne fossero. Tutto bene. Senza alcun dolore o rimpianto aveva scelto e continuava ad ogni passo a scegliere il suo

cammino, e il resto del mondo guardava soltanto. A rompere il silenzio era solo il rumore dei passi, che si diffondeva nitido attraverso l’aria,

come a preannunciare l’arrivo del ragazzo alla casa lontana, suddividendo la distanza incolmabile in una ritmica successione di suoni, a tenere gli occhi chiusi lo avresti detto il tempo di una musica, magari un valzer, il battito di un cuore, il rumore di una solitaria goccia di pioggia che sfiora appena il mare e tuttavia lo scuote con tutta la sua forza.

E se il piccolo soldato avesse perso le sue battaglie? Mi spiego: se le ferite e la guerra da cui

fuggiva lo avessero ucciso, senza che avesse il tempo di accorgersene, di capire, quando ormai

aveva già iniziato il suo viaggio verso casa, con la testa e col cuore dico, là al fronte? Una cosa

che inizia si finisce, dopotutto. Basta non pensarci, e il dolore impallidisce davanti alla meta.

Era come se la strada che finora aveva seguito si fosse sgomitolata ai suoi piedi e l’insieme

confuso dei suoi giorni si fosse disposto in bell’ordine, sulla linea che adesso stava seguendo di

buon passo. Resta da stabilire in quale direzione procedesse, voi direte, ma in realtà non è che

questo importi più di tanto: una retta procede da entrambe le parti senza avere un’origine e

senza incontrare fine.

Un’illusione docile, una speranza estesa all’infinito che rende forti con le sue promesse, un

lentissimo raccogliere il proprio passato intuendo un futuro ormai irraggiungibile, come un

labirinto rettilineo dalle pareti a specchio -che tutti quei meravigliosi paesaggi fossero un suo

riflesso?- il tutto o il niente al di là di un orizzonte sempre più lontano.

Ed essere felici e inconsapevoli di tutto questo, canticchiare sapendo che casa non può essere

troppo lontana, ormai. Che essere insignificante sarebbe l’uomo, senza la speranza!

sarà quel che sarà, questa vita è solo un’autostrada,

che ci porterà alla fine della giornata.

L.D.

PROLOGO

-Che assurdità!- esclamò d’un tratto Alice, tenendo il dito puntato sulle righe del suo libro. -Perché mai si dovrebbe pensare di costruire un luogo così complicato, se poi basta un

pezzo di spago per uscirne! E a che serve poi scriverlo in un libro senza figure? -Sai Dinah,- continuò -se avessero chiesto a me di costruirne uno, mi sarebbe bastata una

linea, una sola!, che però proseguisse diritta senza arrivare in nessun luogo. che cosa ne pensi?

Dinah la fissò in silenzio, e Alice riprese a parlare: -Facciamo finta che davvero io debba imprigionare qualcuno... vediamo. Bè, basterebbe

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un cerchio, e tutto sarebbe risolto! Il poverino non saprebbe più da che parte andare, e ben presto finirebbe a camminare a testa in giù! Proprio così! Si, sono sicura che questo sarebbe il modo migliore, e stai pur certa, cara, che di queste cose io ho ormai una certa esperienza.

A questo punto accarezzò la vecchia gatta, chiuse il libro e, dal momento che il caldo della giornata la faceva sentire un po’ instupidita, si sdraiò sul prato predisponendosi ad uno dei suoi meravigliosi sogni, in quel frammento di giardino chiuso dalla graziosa siepe circolare, proprio accanto al vialetto di sassolini bianchi che scorreva dritto in mezzo al prato, nel dorato pomeriggio inglese.

-Perlomeno- disse prima di addormentarsi -sono riusciti a dargli un nome curioso:

labirinto è una parola così buffa da pronunciare!-

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo" 2° Classificato

“LA DIDASCALIA DELL’ULTIMO PERSONAGGIO RECA IMPRESSO” ovvero

macilente weltanschauung

di Matteo Pozzi - 4aI

Un bambino sta seduto in una pozzanghera elettrificata argillosa di lacrime, e non sa

perché piangere. Al centro del labirinto. Quel bambino sono io. Quel labirinto pure. Sono una delle persone più noiose e ripetitive al mondo. Sono una delle persone più

noiose e ripetitive al mondo. Sono una delle persone più noiose e ripetitive al mondo. Quando non ho nulla di meglio da fare, dormo. Dormire, forse sognare. E se sogno, è in

un Labirinto che mi pare di trovarmi. Bambino, al centro, nella sala circolare in cui convergono otto corridoi. E’ un sogno così sicuramente allegorico, che non lo riesco a capire.

Al di sopra dell’arco di ciascuna porta, è bassorilevato nella carne del mattone un numero. 0, 1, 1, 2, 3, 5, 8, 14. Da ciascuna porta entra un personaggio. Si muove male, come un cartone animato cecoslovacco, a scatti, non rispetta le leggi di conservazione della quantità di moto, come se volesse essere una fantasima sudario adorando, ma non ne avesse facoltà. ed io rido di: una vecchierella in grembiule blu che srotola il rosario, Shirley Temple in completino verde, un frate nel suo saio bruno, un pubblico ufficiale, un inquisitore, Bran Mak Morn guerriero iperboreo e uno chef francese. Dalla 14 non esce nessuno. I sette personaggi iniziano, palesemente ridicolmente, una danza macabra al terror muto; schiene mi girano addosso, distorsioni retiniche, curve castane mi tirano per le ciglia. Invece, il bambino che sono si fissa sulla porta vuota, fino a che qualc-uno-osa accenna finta l’entrata in scena. A quel punto si spegne tutto come in una demo di introduzione di un beat’em up Konami, l’azione lascia il posto ad una sorta di presentazione individuale dei personaggi che ho visto. Mi compaiono a turno, su sfondo buio, precedute dalla immagine a volo di gabbiano di me al centro del Labirinto, le otto figurine ballerine. Leggo le didascalie dei personaggi

inter_ Fuoco e fiamme, come in una gran fucina, scoppi e soffi fumosi, e quando il tutto si

dirada è incominciata la vita, ed una fenice vi assiste, assiste alle caverne, all’ergersi falloide di piramidi ed obelischi, agli omosessuali templi crisoelefantini, alle loricate conquiste e all’orgioso imperio, al suo sudato disfacimento balbettante, alla confusa rettilinea oscurità, al molle e copioso tsunami redivivo, alle oppiacee novità ed infine alla saturazione. La fenice ha già visto il film, e ha la bella idea di cambiare canale

inter_ C’era una volta di cattedrale, su un pianeta che non potrebbe essere il nostro, che

raccontava dai suoi affreschi una leggenda: su un pianeta che potrebbe essere il nostro esisteva un deserto roccioso, e nel deserto roccioso un canyon. Questo canyon aveva forme intricatissime, le gole scorrevano l’una accanto all’altra, l’una dentro l’altra, in circonvoluzioni elaborate, insomma, se fossi un pittore avreste già visto in esso un labirinto. Circolavano strane leggende sul conto del canyon labirinto, che fosse maledetto, infestato da mostri, dannato, così che la gente ne aveva paura. Passarono gli anni e i millenni, e in seguito a

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trasformazioni geologiche, del canyon labirinto evitato e dimenticato si perse ogni traccia, fisica e mnemonica. Nulla rimase

inter_ Il prete dice che senza resurrezione la morte di Cristo non comporterebbe fede Il soldato, dico io, non è d’accordo Il poeta, bacco, battista, petruska, pierrot bene e male sorride. _nulla rimase, di modo che nessuno seppe quello che il canyon labirinto era in realtà. _la fenice si stanca del documentario alla tv e spegne. Ah sì, devo rincominciare, pensa. E

imprime col polpastrello del pollice della sua umanissima mano (“a sua immagine e somiglianza”, no? bastano gli arti), la sua impronta digitale labirintica, su un pianeta che potrebbe essere il nostro. E in un altro posto.

_Legenda Labirinto con bambino: l’Ollevrec, nostro dio 0, 1, 1, 2, 3, 5, 8: le virtù 14: (l’anomalia) Il canto dell’anomalo (EXTRA! EXTRA!) “Ma il mio mistero è chiuso in me, il nome mio nessun saprà! Dilegua, o notte!...:) Tramontate, stelle All’alba :) vi” Ma ecco una scintilla dal buio della porta 14, alle spalle dell’anomalo; che ha smesso di... (ACCECANTE LAMPO BIANCO FINALE, TITOLI DI CODA)

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo" 3° Classificato

“ORA DORMI...”

di Lucia Gardenal - 2aI

Ora dormi... Da oggi in poi sarò io a cullarti. Ho paura papà, e fa freddo. Fa freddo ed è buio, e il

buio mi spaventa papà. Mi lasci qui, sola in questa mia vita, in questo immenso e intricato

labirinto che mi travolge e mi abbraccia, stringe, soffoca come un vortice tra la sue pareti...

Buonanotte papà.

No, non mi perdo, non voglio perdermi, ma è buio e fa freddo: dove sei papà? Vedo le ombre della

gente perdersi tra infinite colonne di marmo e trovarsi subito coi piedi sul soffitto cristallino e

cammino, cammino, cammino fino a trovarmi di fronte a una parete, forse due, tre...

diecicentomille... Non riesco a respirare: è così che ti sei sentito papà? Ci sono tante cose che avrei

voluto dirti, ma il tempo è stato più veloce a toglierti la vita che a darmi la parola: un giorno, un

gelido giorno d’estate, mentre mi cullavi, ha sciolto con prepotenza il tuo abbraccio e ti ha

trascinato via... per sempre. E ora qui. Non respiro. Stretta da alte pareti ombrose, lamine

d’acciaio che mi trafiggono, i passi come valanghe, le parole come il lamento dei venti che

arrivano da nord. Posso scegliere, ma ho paura papà. Potrei andarmene, ma è difficile papà.

Vorrei scappare, ma non posso papà. Ho con me una pesante valigia, ogni pezzo di cielo che ho

trovato sul mio cammino dorme lì dentro.

Mi trovo sola. Non so come uscire. In alto una stella, mi porta la luce, mi danno una mano,

l’afferro. Mi porta lontano. Sentieri tortuosi, lunghi e ripidi corridoi da percorrere; e ora qui,

muri come specchi: vedo la mia luce in cielo, poi me stessa bimba, sola in mezzo al vuoto che mi

hai lasciato, e la mia immagine presente e la tua... Sento il respiro di piombo, il battere sordo del

cuore... Mi manchi papà.

Sogna il tempo di rapire la vita, aggancia i corpi con gli uncini degli eventi e irrompe nell’anima

calpestandone le passioni. Una grotta laggiù, cava e sorda. Ci sentiamo soli contro il cielo, piegati

dal destino, figli di una luna che sta lassù nascosta. E i nostri sogni arrancano e naufragano poi

in fertili terre. E si nascondono in grotte tra lo scrosciare silenzioso di un fiume che corre.

E io sarò per te quel fiume che ha raccolto tutte le speranze, correrò senza farmi sentire da

nessuno, così lievemente avrai raggiunto i tuoi sogni. E piangi quando il mio viso si bagna di

lacrime: sto portando avanti per te quel cammino che ti è stato sbarrato. Ed è così che mi

riscaldo, papà. Ma qui è di nuovo buio papà. Credo ancora nelle fiabe. No, non ci credo: esiste un

lieto fine? Non esiste il lieto fino, ma tutto ha un fine. Fine, fine come la fine di quel fiume, fine

come la fine di una preghiera, fine come l’inizio del buio, dei bivi, delle belle parole urlate contro

tutti. Fine è la fine. Il senso di angoscia soffocato in un

singhiozzo.

Ora cammino su un lungo sentiero trasparente. Sotto di me i passi falsi, quelli che ho fatto o che

avrei voluto fare, gli sbagli e quella marea di errori. Poi mi fermo e cerco di guardare

profondamente lì sotto: vedo me stessa, vedo che in quel momento non ho sbagliato; eppure il

vetro si è incrinato... il labirinto si stringe papà. Ritorna la mia stella. Brilla di un candore

avvolgente, mi riscaldo trepidando con dolcezza.

E giungo qui, il paradiso rinchiuso tra sciami di raggi solari, una stanza di vita inesplorata e

acerba. Esiste, dunque, in questa scatola qualcosa di così straordinario? Esiste e mi travolge senza

che mi sia dato il tempo di capirlo.

La felicità è qualcosa di molto più improvviso, un inspiegabile fulmine che colpisce tanto

velocemente quanto esiste. Ma la solitudine, la tristezza, papà, sono forze che arrivano da

lontano e si sentono come il fischio di un treno: si avvicinano, crescono, dilagano. Sono

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sentimenti logoranti, papà, e la loro negatività sta nel fatto che si è consapevoli che

esistono in noi.

La felicità non è così: sai di tenerla in pugno e non te ne curi. Pensi che sia eterna e non la tieni

stretta. Non ti accorgi che è volata via fino a che non si spegne il sole intorno a te...

L’ho persa e non lo accetto, l’ho voluta, non ho potuto trattenerla.

Ascolta papà: lo senti? Il frusciare delle ombre lo senti? Scopro ciò che realmente sono coloro che

vivono intorno a me...

Percorro, uscita da quell’Eden fuggitivo, un vicolo strettissimo. Lo vedi? Le ombre ai lati come

statue, riconoscono l’assenza dei miei amici; tu... tu non puoi essere realmente così. Ti riconosco e

comprendo ora le tue scuse gelide e insensate a cui preferivo credere. E tu... mi scaldi quando la

mia stella... Ho poco in cui credere. Forse che qui ci sia anche la mia ombra? Ho paura papà, ho

il terrore di scoprirmi. E se fossi diversa da come credo? E se avessi poco di quello che penso? Ho

paura papà, temo di conoscermi...

Fa ancora freddo, papà, e non ho più la mia stella.

Solo il vento che sospinge le nuvole soffiando, solo le nuvole sospinte dal vento che soffia.

Avanzano. Lentamente si fermano. Indietreggiano velocemente. Così io. Torno indietro, cammino

senza voltarmi e non so se fidarmi delle mie gambe: dove mi portano?

Solo il suono del mio corpo che cammina in mezzo al vento: ulula. Uno sbattere di porte, un

soffio gelido alla schiena; c’è corrente quaggiù e devo cercare un riparo... forse lì in fondo... un

angolo solo per me solo mio, soffice e caldo, materno. E’ primavera, il tempo si è fermato; sopra

di me il cielo macchiato dal candore delle nuvole, il brillio del sole sbiadito dal fragile riverbero

della luna. Dolce freme il mare disegna cristalli sugli scogli popolati da pochi gabbiani. Silenzio.

Seguo le mie orme sulla sabbia. Ho preso ciò che è mio e lo tengo in pugno tra una manciata di

granelli dorati. Ho fatto mio quel cielo e quelle nuvole, papà; ho preso quel sole e quella luna,

papà; mi sono bagnata con l’acqua di quel mare e ho lasciato le mie paure in custodia dei

gabbiani. Volate via, su, in alto, sopra le stelle, sopra la notte, via da qui, via da me.

Ora ho capito papà, ma ancora mi manchi e tutto torna gelido. Piove, papà, e sto correndo,

corro, ma il tempo è più veloce. Voglio spazio, minuti eterni, voglio tempo! E’ difficile, papà.

Accettare questa cosa. E’ terribile: nascere e scoprire la vita mentre tuo padre muore e capisce che

non vivrà abbastanza a lungo per poterti vedere crescere.

Ogni volta che mi trovo a percorrere questo intreccio di camere e corridoi sento l’eco della mia

anima: perché papà? Sento le sue risate cristalline che malignamente mi portano a soffocare i

desideri. Non senti anche tu? Vorrei andare avanti, ma questo lo volevi anche tu e non è rimasto

altro che la tua anima. Il corpo è fuggito, strappato da questo mondo: è rimasta la sua essenza

che talvolta esala come un profumo la sua pienezza. Mi chiedo se sia possibile chiudere la tua

anima in una scatola per tenerla con me sempre! Io il corpo, tu l’anima, tu il pittore, io il

dipinto: la mia vita lo specchio in cui puoi ancora vivere.

Tutto è buio, riesco solo a sentire il tepore di un falò vicino, solo a capire che stringo ancora quei

granelli, che sto realizzando i miei sogni.

Ora dormi... da oggi in poi sarò io a cullarti.

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo" Segnalazione Speciale Giuria

“IL LABIRINTO”

di Niccolò Manzolini - 5aA

Coro di ombre rosse del Tartaro: <Tu Minosse , re tra re, Giudice legislatore; Ora un orrido regno reggi costretto dal Caso. Prepararono un bagno, Le figlie di Cocalo, Dove le tue membra Bollirono nella pece. A causa di Dedalo Le ombre infelici Di quest’orrido regno Amministri invece Dell’impero terreno Che dalla piccola Creta L’Egeo assoggettò. Svela il tuo mistero Degno figlio di Zeus.> Minosse: <Lemuri, siete morti e sepolti, parlare a voi é come fare due chiacchiere con una zolla di

terra grassa. A che vi serve capire, siete morti. Lemuri, siete noiosi come una lezione paripatetica, di quelle tenute sulla morte e sulla

deontologia del condannato alla cicuta... ma non farla tanto lunga e muori, dico io! “Meglio essere schiavi ma vivi che regnare nell’oltretomba”, confessò lo stesso che disse:

“Meglio un giorno da leoni che cento anni da pecora. Sono costretto dite bene, che qui nessuno ci resta per diporto: un tal mortorio! Anche l’umorismo, suprema dote dell’uomo, alla fine, è da seppellire. D’altronde qui si cerca di ammazzare il tempo in eterno, sapete, non si può certo restare

luttuosi e castigati per l’eternità. Così delibero: soddisferò le vostre aride menti. Chissà che non cambi, davvero, qualcosa. Non fu Dedalo a uccidermi, ma il suo simulacro, in primis; la sete di sapere mi perseguitò

sempre, o meglio io perseguitai lei, antropomorfizzata nel mito; si sa il mito è una bellissima menzogna.

Perseguitare Dedalo rappresentava la ricerca incessante della conoscenza, della fiammella di Prometeo e anch’io, essendo fatto della stessa pasta un po’ gretta, terricola del titano sono morto nell’incompiuto sforzo di farla mia, bollito come il fanciullo Zagreo.

Ma quale fu la mia vera condanna, a parte avere per moglie una vacca? La ricerca che, per tutta la mia vita, compii dentro di me. La vita, concessa, non stiamo a dire da chi, all’uomo, è una vita già conclusa, limitata, non

lo nego; ma è un’ opportunità che va gustata per trarne piacere in ogni istante, poiché “non ci si bagna due volte nello stesso fiume”.

Non è saggio colui che trascorre la sua esistenza a domandarsi “Che cos’è”. Io ero re, ricco e potente, questo lo sapete, oh ombre. Invece non si dice perché non sta bene, che ebbi un sacco di amanti. Io credo che la

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fedeltà sia la scusa degli impotenti, infatti non vi nascondo che tradii mia moglie Pasifae più che potei: ebbi Crete, la ninfa Paria e la ninfa Dessitea, Britomarti che preferì il mare a me, Peribea, Procri e altre; qualche tradizione aberrante racconta che contesi Ganimede a mio padre o che me la feci anche con quel bel tomo di Teseo.

Insomma me la spassai più che potei. Ma poi anch’io mi chiesi “ti esti?” e precipitai in una affannosa introspezione. Mi avventurai nella costruzione più complicata e inesplorata che sia mai esistita, una

costruzione inevitabilmente legata al mio nome, matrice della tragedia umana. Il cervello non ricorda forse, anche strutturalmente, con tutti quei cunicoli

incomprensibili, con le sue camere segrete, coi suoi recessi inacessibili, un labirinto? Avete presente la mia figlioletta, Arianna? Ecco lei con il suo buon filo, è la memoria, dote

suprema dell’uomo, mortale anch’essa ed è per questa sua caducità, che ha bisogno del supporto cartaceo. Noi tutti scriviamo convulsamente pagine e pagine nell’insulso, umano tentativo di trascrivere quello che troviamo nel nostro viaggio infernale attraverso la nostra mente, ma non si può spiegare; le pieghe della corteccia cerebrale non si possono distendere come una tenera pergamena.

Quel poco che sopravvive grazie alla gentile Arianna, sono immagini, lampi di suggestiva intensità ma, ahi noi, inesprimibili. Si dice che Memoria sia madre delle Muse, intendendo che le arti, con la loro virtù metaforica, possono rappresentare queste immagini. E’ una menzogna.

Anche il potente Apollo, che presiede alla suprema arte gnoseologica, la poesia, non rischiara ma abbaglia. Egli dovrebbe stracciare il velo. In realtà cambia la forma, ma l’enigma resta: “Conosci te stesso!”, e che c’è di nuovo?

Bella forza! Ho passato tutta la mia vita a sbattermi su e giù nel labirinto, senza consultare nessun oracolo.

Alla fine, del discorso e del labirinto, sta una cosa molto semplice, per assurdo; ed è proprio per questa sua lampante, corrusca semplicità che non è accessibile a nessuno.

Anche quello che dirò ora, sarà soltanto la perifrasi della verità, l’errore che ci è dato di conoscere, approssimativo ma di cui ci dobbiamo accontentare, guai a non farlo.

A cosa servirebbe il mito altrimenti? In fondo, nel centro del labirinto, abita l’aspetto primordiale dell’uomo, l’animale prima di

essere sovraccaricato di razionalità, l’istinto, il dionisiaco imprigionato nelle plastiche forme apollinee, l’es: il Minotauro.

Non vogliamo lasciarlo uscire, perché ci terrorizza e d’altronde non possiamo, chi arriva al Minotauro non torna a raccontarlo.

Quindi questo lungo monologo è solo un’altra bugia. Il viaggio che si compie nel labirinto è solo un giro su se stessi, una tautologia, una

trappola temporale che mi ha tratto in tentazione. Purtroppo il Caso ha predisposto che io fossi un esempio.

Io sono solo un deuteragonista in questa tragedia, ma non conta. Il protagonismo è stressante.

Quello che conta, ora, è la morale, perchè senza moralina finale non si vende: prendete la via larga e visibile, sempre.

E ora avanti, bastardi, in fila, che prima o poi tocca a tutti!> Coro: <Minosse, re di Creta Giudice del Tartaro, Così hai risposto: La verità fa male. La verità è questa: Non abbiamo capito Proprio un c--o Questo è un bel finale.>

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo” Segnalazione Speciale Giuria

“L’UOMO CHE CAMMINA SUL BORDO DI UN PALLONE”

di Stefania Giodini - 2aD

Guardate un uomo camminare

sul bordo di un pallone. Lo segue

ancora l’ombra di sé

bambino lo attende

ancora la mano incerta

del destino. Cosa cerca? Cosa trova?

Non lo sapete.

Ammirate l’uscita del suo labirinto e, bramandola,

lui l’oltrepassa (ancora).

Sta osservando l’uscita del nostro labirinto.

Mentre noi

(curiose creature!) camminiamo

sul bordo del nostro pallone.

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo” Segnalazione Speciale Giuria

“IO, ARTURO E LE COSE”

di Michele Manzoni - 5aF

Giro e rigiro e corrompo il respiro

sul velo s’è tolto un filo, Arturo è seduto sul selciato

di coperte bianche tra le dita dei labirinti

a tentar la cosa nella cosa della cosa.

Per caso rendo il senso al soggetto mancato,

dietro al senso dei sensi, sul corpo

del concetto, han sparato, e ancora

schivo, ti han colpito, Arturo,

ruotando al centro dell’istinto nel labirinto

dell’oggetto.

[ruotando al centro

dell’istinto nel labirinto

del concetto]

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo” Segnalazione Speciale Giuria

“OTNIRIBAL”

di Andrea Basile -1aH

Nella vita di tutti noi c’è una costante che ci accomuna in una maniera sorprendente. Sì, proprio una costante, una cosa che è sempre uguale e non cambia mai.

Dal momento del concepimento ci giriamo e scalciamo nella pancia di nostra madre senza

sapere né perché ci troviamo lì, né cosa dobbiamo fare, né dove dobbiamo andare; tutto questo per nove mesi.

Mi piacerebbe sapere cosa pensa un bambino quando aspetta la sua nascita dentro la propria madre: le sue sensazioni ed i suoi sentimenti. In molti pensano che un bambino, anche se una piccolissima cellula non si possa considerare ancora un essere vivente perché non ha assunto la benché minima forma umana, ma sono convinto che (Sì, lo so che quello che sto per dire non ha alcun fondamento scientifico, ma provate a seguirmi ugualmente), a partire da quel momento, comincia a porsi delle domande ambigue del tipo: <Ma Pippo Baudo esiste ed esisterà per sempre?>, oppure <Perché la CocaCola da Gigi costa mille e trecento lire e negli altri bar tremila?>.

Ora, un bravo papà risponderebbe: <eh figliolo, queste sono le grandi domande della vita alle quali nessuno potrà mai rispondere>.

Sinceramente se fossi quel bravo figlioletto proverei un po’ di rancore nei confronti di mio padre perché non mi accontenterei di una simile risposta; <essendo ancora una cellula piccola piccola ed indifesa ho bisogno di risposte chiare, pulite, proprio come un Glen Grant> (detto inter nos, sappiamo da fonti sicure che il pargoletto si appropria di sostanze inopportune dal cordone ombelicale), direi proprio così senza usare mezzi termini, e volete sapere perché? Perché come ho già detto, un bambino appena concepito non sa dove andare e cosa fare.

La storia non è diversa dopo la nascita. La prima domanda che un neonato si pone è: <Ma come, ho passato nove inutili mesi a cercare la via d’uscita per saltare fuori e non l’ho trovata, però adesso sto riflettendo circa la via più comoda per tornare dentro la pancia di mia mamma>.

Sapete il perché di questa affermazione? No? Ma l’ho già detto: perché un bambino non sa né dove andare, né cosa fare. E’ facile criticarlo dicendogli: <Hai voluto la bicicletta? Adesso pedala!>, ma un bambino non l’ha voluta la bicicletta al momento della nascita (naturalmente escludiamo casi particolari come Gianni Bugno o Marco Pantani perché loro la bicicletta l’hanno effettivamente voluta) ed anzi, il pupo non chiede neanche il triciclo che gli viene puntualmente imposto perché tanto non sa dove andare con quell’arnese che raggiunge appena i venti metri orari se non elaborato.

Ora, voi tutti miei discepoli vi aspettate ch’io cambi la direzione del tema e che rinneghi tutto ad un tratto le mie teorie freudiane, ma non sarà così, perché ormai ci sono dentro fino al collo e fin quando la neuro o il fucile di mio nonno non mi fermeranno andrò avanti ad illustrarvi il magico ed intersecato mondo che offre la vita.

Eravamo rimasti al neonato? Ah sì, facciamo un bel saltino e passiamo alla veneranda età di quattro anni quando il bimbo s’appresta ad iniziare il suo primo giorno di asilo...

<Dai Junior, vedrai che ti divertirai con tutti i tuoi compagni dell’asilo! Poi ho conosciuto la tua maestra: è giovane, è molto alta ed adora vestirsi con minigonne, magliette scollate, alti tacchi a spillo e per contornare il tutto ha dei lunghi capelli biondi che le arrivano fino a metà schiena>.

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Fu così che il bambino ha iniziato a frequentare religiosamente l’asilo senza che la mamma avesse la minima idea del perché.

Quando si è però trovato in mezzo a tutti quei giochi ed a tutti quei bambini, il nostro pargoletto si trova davanti ad un bivio: <il Playmobil od il trenino fornito di luci abbaglianti e di clacson che pronuncia in una lingua scandinava ben sei frasi di senso compiuto?>,<il bambino con la tuta della Nike rossa o quello che si sta infilando una macchina telecomandata nell’orecchio destro?>.

Non che voglia catechizzare il nostro frugoletto a favore di un’asocialità nei confronti dei suoi coetanei, ma io me ne starei con la maestra, perché lei è l’unica persona che può darmi una vera spinta morale e psicologica verso un mondo che non mi regalerà mai niente.

Ma saliamo sulla nostra slitta del tempo e passiamo a quando il bimbo non è più un bimbo ma un bambino senza “diminutivi” né “vezzeggiativi” ed inquadriamo con la nostra cinepresa del tempo il suo primo giorno di scuola elementare.

Sicuramente la maestra gli farà tirare fuori l’astuccio ed inizierà a spiegargli: <Allora, ora non siete più piccoli, quindi dovrete comportarvi come dei bravi ometti. Tornando a noi; il nome sul quaderno deve essere scritto sulla prima pagina con la matita B2/XY418-419/BIS sui libri dovete scriverlo con la penna rossa “Syadler 2100 Ultra light” sul diario con la penna fosforescente giallo limone questo tratto di penna deve essere leggermente sfumato con uno sfumino da 2,23 mm la data va scritta secondo le regole che vi sto per dire e cioè va impostata a sinistra del foglietto e precisamente il giorno deve essere scritto in blu/blu scuro il mese in rosso e l’anno in verde smeraldo... >.

Ora, voi capite che un bambino non sa più a che santi rivolgersi quando si sente così privato della sua fantasia artistica alla giovane età di sei anni.

Indubbiamente tutti voi mi accuserete di estremizzare le cose, ma un bambino di sei anni si trova in una situazione di imbarazzo di impotenza immensa quando chiede alla maestra il permesso di andare in bagno, per due motivi:

1. Perché non si è ancora accorto che la maestra non è extraterrestre e che anche lei deve ogni tanto evadere certe necessità fisiologiche che accomunano appunto noi umani nella nostra totalità.

2. Perché quando si troverà nel corridoio non saprà dove andare in quanto nessuno gli ha mai spiegato dove fosse il bagno e quando, per un motivo inspiegabile vedrà la scritta “Toilette” su un cartello, non ci sarà nessuno che gli indicherà la strada più vicina per la biblioteca dove potrà accedere facilmente un comodo vocabolario anche perché a quel punto il bambino avrà già risolto la sua incombenza nel peggiore dei modi. A questo punto non voglio continuare a tormentarvi con le mie storie di improbabile

credibilità, anche se (questo ve lo posso giurare) totalmente reali e basate su fatti effettivamente accaduti (Episodio n° 234 della seconda serie di X-files) e come diceva il grande filosofo... va bene smetto.

Fatemi solo concludere con una affermazione: “Il mondo è bello e strano ed a volte lo si cerca di comprendere, ma in vano. Perché si sa che dalla nascita alla morte, ciascuno è spinto nel suo labirinto”.

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo" Segnalazione Speciale Giuria

“IL LABIRINTO”

di Claudia Galbiati - 4aE

20 marzo

Caro diario, ti sembrerà strano riavermi dopo tutto questo tempo, devo ammettere che sembra strano

anche a me essere qui seduta alla mia scrivania a scriverti, ma lo sto facendo perché so che posso sempre contare su di te, so che solo con te sono sincera fino in fondo, più profondamente di quanto non lo sia con me stessa. Forse è per pigrizia che non ti ho scritto per mesi, mi conosci e sai la fatica che faccio a vincere la mia svogliatezza, oppure sono stata talmente orgogliosa e presuntuosa da pensare di poter fare a meno di te!

Grave errore. Il fatto che ora sia qui è la prova che ho bisogno di te, sei l’unico mezzo attraverso cui mi esprimo, non i miei pensieri, non i miei sentimenti, ma la mia anima. Senza maschere, senza ipocrisie, semplicemente io. E’ tanto facile con te. Forse troppo. Tu mi ascolti sempre e con attenzione, in silenzio, mi capisci, mi rispetti, è facile con te perché non rischio niente. Mi sto sbagliando. Sto mentendo anche a te, per l’ennesima volta: la verità, o quella che suppongo sia la verità, è che ti scrivo perché mi sento sola. Sola fra gli altri e sola con me stessa. Non trovo la via d’uscita da questa solitudine, imbocco tante vie ma non so mai dove sto andando, non so dove mi trovo, non so dove voglio o devo andare. Ho paura di sbagliare. So cosa significa camminare a lungo ed improvvisamente capire di aver sbagliato completamente, è talmente triste dover ritornare sui propri passi, dover ricominciare da capo senza avere la certezza che sarà la strada giusta. Cerco di convincermi che sto arrivando all’uscita, che sono vicina al traguardo tanto anelato e invece no! Un muro di fronte a me che non posso scavalcare, non posso perché so che devo seguire un sentiero, ma nella molteplicità delle strade che mi si aprivano davanti quando ho deciso di attraversare questo labirinto qual era quella giusta? Perché di fronte a questo muro ora? Sapevo che non sarebbe stato facile ma allora perché io tanto pigra e svogliata mi sono addentrata in un’impresa che richiede tanto impegno ed è fuori dalla mia portata? Perché con tutta la mia paura di sbagliare ho rischiato tutto in questa situazione in cui cadere in errore è la cosa più ovvia che ti possa succedere?

Allora mi sto sbagliando: Ecco un muro. Devo tornare indietro: non sono pigra, né svogliata, ma ho voglia di impegnarmi in qualcosa e inoltre, conscia del fatto che sto rischiando, non ho paura di sbagliare!

Sarà vero? Ma come diavolo conosco me stessa?! E’ possibile non riuscire a trovare la verità neppure in se stessi? Credo che fra le innumerevoli cose senza senso che ho scritto l’unica impercettibile presenza di verità sta nell’affermazione che io suppongo la verità! Sto vaneggiando, sto parlando di niente. Ciao.

V.

21 marzo Ciao diario, dopo aver riletto ciò che ti ho scritto ieri mi sono decisa a riscriverti. E’ strano come dopo

mesi di astinenza mi senta ancora così vincolata a te. Sai dopo averti scritto, ieri, mi sono seduta davanti allo specchio fumando una sigaretta e volevo tornare a parlare con te perché

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mi sono resa conto che è poca la differenza tra scrivere un diario e stare davanti ad uno specchio. Mi sbagliavo su una cosa. Ecco un nuovo muro. Torno indietro rettificando che con te qualcosa rischio: rischio di trovarmi irreparabilmente di fronte a me stessa. Quel labirinto di cui parlavo non è la mia solitudine, sono io, io e basta.

Penso sia meglio esserci da sola qui dentro, nella mia anima. Non voglio che nessuno si metta nei guai perdendosi dentro di me, nessuno riuscirà mai a trovare la via d’uscita se prima non la trovo io. Credo di essere molto più lucida e decisa di quanto non lo fossi ieri ma non voglio illudermi di essere sulla strada giusta, so che da un momento all’altro potrebbe capitarmi una via chiusa ed è meglio arrivarci preparati!

Ciao!

V.

23 marzo Eccomi ancora qui! Mi sembra incredibile forse anche un po’ bizzarro e ridicolo, ma da quando ho iniziato a

scriverti tre giorni fa, non riesco a pensare ad altro, continua a ritornarmi in mente l’immagine della mia vita come un labirinto, mi domando quando vi sono entrata e credo che la risposta più adeguata sia che ho intrapreso questo particolare e confuso cammino nel momento in cui ho riaperto questo diario. E’ il mio unico grande pensiero e in questo momento non voglio parlare d’altro, mi sembra sciocco annotare che per esempio oggi sono stata interrogata in filosofia o che dopo pranzo ho avuto una discussione abbastanza accesa con la mamma per i miei continui fallimenti scolastici, sono cose di poca importanza, tutto quello che mi interessa è approfondire la conoscenza del mio labirinto e almeno in questo non voglio fallire, voglio metterci tutta la passione possibile per arrivare a qualcosa, per decidere quale sarà la prossima strada che imboccherò, è un percorso che non devo fare a caso, vale la pena di fare attenzione a non sbagliare. So che lo farò, so che qualche errore lo commetterò, i muri che incontrerò non li voglio neanche contare, ma posso perlomeno cercare di non imbattermi più di una volta nello stesso, di non girarmi a vuoto senza accorgermi che non sto andando da nessuna parte. Caro diario, sarai spettatore di ogni passo, non tralascerò di annotare nulla. Ci sentiamo presto.

V.

15 maggio Ciao, “Ci sentiamo presto” ti ho scritto l’ultima volta ma evidentemente mi sbagliavo (muro).

Pensavo di scriverti il giorno seguente e invece sono passati quasi due mesi! Beh, però sono di nuovo qui. Fa un certo effetto rileggere i miei pensieri, anzi la mia anima, di due mesi fa ma non credo di aver fatto molta strada da allora! Non ho più pensato molto al labirinto, probabilmente mi ero persa senza neppure rendermene conto, ma ora sono di nuovo qui e non credo sia per caso; è stato un segnale, una specie di magia che mi ha ricondotto qui, come quando si ascolta una canzone che è stata la colonna sonora di particolari periodi della propria vita e le immagini di quei momenti che si credevano completamente svaniti riaffiorano come situazioni presenti, è stato proprio un miracolo! Mi spiego: oggi in classe ero distratta e un po’ addormentata ma all’improvviso mi è arrivata all’orecchio proprio la parola magica “labirinto”, non ricordo in che contesto, ma quel suono è stato come un allarme e allora non vedevo l’ora di riaprire il mio diario! Ho ripensato alla strada che avevo intrapreso e ho capito che dovevo proseguire, e anche se non so dove arriverò e se da qualche parte arriverò, eccomi ancora qui a camminare.

Ho appena riletto le ultime cose e mi sono accorta che sono stata un po’ incosciente ad incamminarmi senza precauzioni, insomma, avrei dovuto pensare ad un filo d’Arianna o ai sassolini di Pollicino, come faccio a proseguire senza sapere dove vado? E se non esistesse

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affatto l’uscita? Se non c’è modo di raggiungere una meta? Accidenti, avrei dovuto pensarci prima, sarei stata senza dubbio più decisa e più determinata nel mio cammino. O forse è proprio con questo senso di incertezza e di profonda indecisione che si affronta un labirinto? Ma quante domande senza risposta, quante strade senza uscita! Ma ormai ci sono dentro e voglio restarci, in fondo sono io e non posso evitare di convivere con me stessa, anche se mi piacerebbe! Ciao!

V.

18 maggio Ciao mio carissimo diario!! Oggi sono davvero felice! Me ne sono resa conto un attimo fa e allora ho incominciato ad

interrogarmi sul perché di questa mia felicità: non riesco a trovare nessuna risposta. Come al solito mi pongo tante domande e vorrei trovare una risposta, ma alla fine non giungo mai a niente; so che devo solo avere pazienza, che prima o poi la situazione mi apparirà più chiara però mi sto stancando di tutti questi muri!

Ecco non sono più felice come prima, credo di aver sbagliato strada cercando il motivo della mia felicità, dovevo godermela e basta, avrei dovuto assaporare quell’attimo tanto speciale e invece subito ho rinchiuso tutto nel labirinto. Ormai niente che fa parte della mia vita riesce a rimanerne fuori, è come se i muri che mi circondano continuassero a moltiplicarsi, anziché lasciarmi alle spalle le varie situazioni e avanzare, continuo a girare attorno alle mie domande senza riuscire a rispondermi. Sono qui a scrivere sperando che mi aiuti e invece peggioro la situazione; è solo che non pensarci più a chiudere per sempre questo discorso mi sembra un po’ da vigliacchi, è come se dovessi assolutamente portare a termine questo strano impegno che mi sono presa e poi se ora decido di smettere non uscirò mai dal labirinto e invece se continuo a camminare forse ce la farò; spero tanto di riuscirci anche se per ora la situazione mi sembra abbastanza grigia: è stato un muro abbastanza doloroso passare dal rosa della mia felicità di quando ho iniziato a scrivere, al grigio di adesso. Ti saluto.

V.

19 maggio Caro diario, non volevo più scriverti, mi ha fatto male ieri rendermi conto che scrivere peggiora

soltanto le cose e così pensavo fosse meglio farla finita ma mi sbagliavo (l’ennesimo muro... ); infatti mi perdo comunque con i miei pensieri, non posso cancellare la strada che ho fatto fino ad ora neanche se smetto di scriverti. Quindi ho pensato che devo trovare una motivazione per continuare, uno scopo, non posso vagare senza sapere dove vado, d’accordo, è un labirinto, ma dovrò pur cercare qualcosa; visto che non sono sicura dell’esistenza di un’uscita è meglio avere uno scopo alternativo che mi spinga a continuare, una meta, non so di preciso cosa, sono ancora abbastanza confusa ma ci penserò, devo trovare qualcosa. Ti faccio sapere.

V.

più tardi

Eccomi ancora qui! Ho studiato un po’ ma il mio pensiero fisso era lo scopo che mi aiuterà a proseguire nel

mio labirinto e quindi non ho potuto fare a meno di risedermi qui a mettere nero su bianco la mia anima. Non ho ancora in mente niente ma questa ricerca mi sta già spingendo a continuare con entusiasmo e perciò credo di aver fatto la scelta giusta; forse avrei dovuto imboccare questa via tempo fa, ma è meglio tardi che mai, ed ora mi impegnerò a cercare uno scopo. Ciao.

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V.

23 maggio

Ciao, ho pensato al fatto che l’amore possa essere la strada giusta. E’ un tema gettonatissimo:

poesie, romanzi, film, canzoni, tanti scelgono l’amore come antidoto. Credo sia la scelta che farò anch’io, ora che finalmente ho una meta è più difficile che mi perda, potrò sbagliare di nuovo e sicuramente lo farò, ma da questo punto non tornerò mai più indietro, ora ho preso una decisione nitida: cerco amore! Avere le idee chiare in un labirinto è incredibile e quindi sono già a buon punto. Sarà il mio scopo. Non farò altro che andare alla sua ricerca. Ora ti lascio e prometto di scriverti solo una volta che l’avrò trovato.

Augurami buona fortuna. Ciao!!

V.

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“LABIRINTO”

di Isabella Rossitto - 1aF

Dedalo che ti squarci nell’immenso bruno tra i grovigli dei tempi andanti.

Intrepida sorte in te celi che io fatuo ambisco svelare.

Intriso del mistero che avvolge il brio indugi nel repellente fascino tuo

gli animi incauti, burlati dai rabeschi

ch’elucubravano chissà a quale saviezza

condurre.

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“IL LABIRINTO”

di Jacopo Galimberti - 3aH

Non farlo e basta

Non farlo. La notte è nera, la luce del box ce l’hai in faccia

e il soffitto è basso.

Non farlo. Il rumore del grigio è piatto

il tunnel è vuoto e io non ne esco più, la strada è lunga e forse non finirà mai;

e io non ne esco più non ne esco più.

Ossessione

là c’è un uomo; mi vuole uccidere

la luce... il caldo...

sudo, lo fisso negl’occhi la luce mi uccide...

c’è caldo... la porta è chiusa

un amico, forse... il sole,

ma perchè sono solo? la vita scotta come

il sole di oggi... il vento mi sveglia,

ci vedo! Mi uccide.

Senza senso

Cercavo di mettere in ordine queste poche idee, ma finisco sempre col pensare a te:

eppure sorrido... ma io no, no... Non so cosa fare... rischio di perdere qualcosa se sbaglio...

e mi ritrovo a guardarti, la tua pelle è rosa... senza senso...

Non capisco dove sto andando a finire, potrei dirti tante cose, ma in fondo...

...la perfezione delle tue labbra mi vuole provocare... senza senso...

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E poi sono circondato da queste case confuse colorate o buie che si mischiano e si contorcono e

cambiano in preda a bagliori di luce, si trasformano sinuose in solidi scuri o in forme che fluttuano... senza senso...

E mi perdo... Si intrecciano le vite di persone strane, diverse

e in fondo così uguali. Stavo per... ma forse anch’io ho perso la strada che porta fuori,

fuori da questo labirinto che alto e stretto si stringe attorno a me e mi confonde... senza... senso.

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“PENSIERI CARDINALI”

di Lorenzo Sala - 4aI

“...ci sono amori dimenticati

nel mio passato e nei tuoi passati

e notti come questa

passate e bruciate...”

-F.De Gregori-

Mi sono fermato un istante sul bordovasca a fissare l’orologio che segna le tre e zero

cinque. Una notte calda e umida di metà agosto, libero da orari e conformismi familiari,

restrizioni e pensieri (o impegni?) angosciosi. Mi asciugo con una mano gli occhi appoggiato sul lato della piscina, ancora immerso per

tre quarti in acqua e osservo la lieve, umida foschia che sale dall’erba ai lati della vasca azzurra. Il sapore del liquore di F. sale ancora alla gola, ma la sensazione non è affatto sgradevole.

Il nastro tenue delle costellazioni che non so decifrare è ben visibile davanti a me, quasi a confermarmi, qualora ne abbisognassi, che in questa notte non c’è confine.

E’ davvero una serata stupenda. Le stelle fanno a gara nell’illuminare il firmamento. Mi chiedo per un attimo se davvero i corpi celesti segnino la traccia del destino: sono però

sicuro che guardando il silenzio smisurato del cielo scuro, chiunque si perderebbe. E allora è forse meglio tendere la mente verso spigoli più terreni e in fondo mi riesce più

naturale di quanto non pensassi. Lo sguardo ritorna agli amici sull’altro lato della piscina, attenti a non fare troppo rumore,

ma soprattutto a non perdere neanche una goccia del fascino misterioso e cattivo della notte in corso.

In un lampo le voci mi giungono chiare e i discorsi decifrabili come se l’obiettivo avesse di scatto messo a fuoco lo sfondo, trascurando ora il primo piano.

Cerco di capire i giochi di sguardi catapultati diametralmente da un opposto all’altro. Saluto con una mano gli altri come se nel corso della giornata ci vedessimo per la prima

volta. Volgo la testa all’indietro, portando la nuca a pelo d’acqua. Pensieri e ricordi e sfumature e aneddoti, elementi cardine che emergono dall’acqua e in

questa notte, nell’acqua stessa, torneranno a giacere. Penso a quella ragazza che ho voluto perdere e a quella che ora occupa tutti i miei

pensieri. Chissà per quanto?

Ripercorro con la mente quel libro di De Carlo e il suo Arcodamore pensando a quanto cinicamente riesca a rispecchiare la realtà.

Penso ancora ai discorsi superficiali di certi compagni di viaggio, consapevoli di soffocare i sentimenti per non doversi scontrare con essi. E mi rendo conto giorno dopo giorno del fatto che abbiamo forse meno torto di quanto pensassi fino a qualche tempo fa.

E’ che le esperienze, anche se può apparire una massima assolutamente scontata, inevitabilmente lasciano un segno, e in base a questo cambia la prospettiva da cui ognuno osserva le cose.

Quello che mi lascia incredulo è, però, scoprire che talvolta si perde del tutto la voglia di ricercare qualcosa in cui si è sempre creduto.

Forse è anacronistico continuare a sognare, e lo penso quasi seriamente, per quanto il

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liquore me lo consenta. Mi giro e osservo F. appoggiato su un braccio abbronzato. Ha gli occhi chiusi e respira

affannoso, come sognasse inquietudini. Ma la distanza fra me e lui è ben maggiore di quella che appartiene ad uno spettatore... Ripenso ai recenti discorsi epidermicamente bigotti di T., al suo cieco desiderio del

Grande Amore, al sogno raggiungibile di una famiglia numerosa, alla condivisione cinquantennale della vita di coppia in cui basterebbero stima, fiducia e affetto; ...in cui l’ingrediente irrazionale e istintivo non sarebbe indispensabile, pur essendo la forza generatrice di quel rapporto che si tenta di conservare a bassa temperatura. (...Tristezza)

Mi rendo conto di quanto io consideri improbabile un rapporto di questo tipo, ma nello stesso tempo di quanto speri che esista, in qualche modo. (Sarà un problema che investe tutti?)

E allora è da preferire la fredda, calda stabilità, ricetta per una vita da manuale o forse l’improbabilità e l’imprevedibilità della passione, dell’incertezza, delle novità, del “sempre

diverso”? E soprattutto, si può davvero preferire o, in qualche modo, qualcosa è già scritto? O forse vogliamo sia già scritto?

Ricerco rapide spiegazioni dell’instabilità dei rapporti, regolata talvolta da fugaci, casuali e apparentemente poco importanti incontri. La prospettiva, navigando sereno fra l’intricata rete dei miei pensieri, muta di nuovo, senza che ci stia a badare troppo, senza che io possa solo avvicinarmi ad una boa di soluzione, ma labirinticamente mi perdo.

Mi lascio scivolare all’indietro, inghiottito dall’acqua tiepida e subito risalgo in superficie. Medito ancora sulla chimica che lega le passioni più o meno autentiche dei legami

affettivi e rapido mi smarrisco, prima ancora di affacciarmi seriamente sul ragionamento, prima di trovare spiegazioni per me stesso convincenti. Chiederei a qualsiasi interlocutore, in questo momento, cosa regola taluni sentimenti, cosa li governa e cosa li rende assolutamente indecifrabili.

“Scegli tu la vita, l’amore non si sceglie mai”, canticchio fra me e me senza quasi accorgermene...

Glu, glu, glu. Qualcuno mi prende alle spalle e mi trascina a pieno in acqua e mi rituffo, rassicurato e

leggero nel liquido vitale, nella viscosa ed estemporanea dolcezza notturna, appisolato nella leggendaria, virtuale e personalissima reggia di Minosse.

Certi ricordi, taluni entusiasmi, vivono solo nelle chiacchiere di notte (come un misconosciuto cantautore mi insegna), in quei discorsi coi tuoi amici più delusi.

Bussa sgradevole alla porta. Mia madre. E’ il quindici settembre e mi rituffo... nella

svogliata consuetudine. Qualcuno diceva: “Dentro me segni di fuoco: è l’acqua che si spegne. Se

vuoi farli bruciare tu lasciali nell’aria oppure sulla terra”. E così sia.

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“LABIRINTO”

di Chiara Penati - 2aB

Ho sempre immaginato il labirinto Come una siepe tutta arrotolata;

Andare avanti e indietro Senza mai trovar la strada;

Girarmi su me stessa Vedere solo verde,

Buttarmi giù per terra Vedere il cielo blu;

Dormire per un po’, Poi rimbalzare su.

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“POESIA”

di Roberta Negri - 4aF

Non chiedo nulla, non chiamo il suo nome;

spazi infiniti mi avvolgono, mondi soli mi circondano.

Non m’interessa non voglio ascoltare,

il sole m’insegue, la vita mi sfugge. Non comprendo, non lo pretendo.

Se trovassi l’uscita non mi sentirei più viva.

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“MULTIPLEX DOMUS” (ovvero il labirinto)

di Paola Cossa - 3aA

6 marzo 1998 Ero tornata a casa verso le due, due e trenta,... o forse erano già le tre. non so... Ero

entrata in camera mia e avevo acceso la luce più per cercare di svegliarmi che per vedere meglio, dato che il sonno accumulato in una settimana e la birra in una sera mi avevano fatto ciondolare in una stato di trance. Ricordo che ero uscita presto, con un programmino niente male: pizza con le amiche più care e poi tutti, la mitica compagnia al completo, nel nostro pub preferito per festeggiare il mio diciassettesimo compleanno.

E sì, dato che tutti invecchiano prima o poi, ogni sei marzo tocca a me, e quindi, oltre all’arduo compito di pagare da bere a tutti e di non ubriacarmi prima delle nove e un quarto (ora della nascita), come promesso a mia madre, avrei dovuto aprire un’altra porta ed entrare in un nuovo labirinto in cui mi sarei dovuta destreggiare tra vicoli conosciuti e già percorsi e strade mai viste prima, forse anche troppo nuove per capirne la direzione. Ero consapevole di tutto ciò e ci avevo riflettuto a lungo mentre aspettavo con ansia di mettermi alla prova e di misurarmi sotto ogni aspetto, ma inspiegabilmente priva di qualunque angoscia.

Comunque mentre mi preparavo per andare a letto, un po’ dispiaciuta del fatto che avrei dovuto aspettare ancora un anno prima di consumare i “Grazie!” come risposta agli “Auguri!” e di ritornare alla semplicità del contatto fisico dei tre bacini, persa durante le tempeste ormonali, cercavo invano di mettere a fuoco alcune immagini di quella sera per poter fare un vago resoconto di quanto cavolo avessi bevuto!

Dio mio non capivo più nulla e il cacciarmi sotto le coperte nello strano abbraccio materno del mio letto, usato spesso come rifugio estremo, mi aveva fatto sentire tutto il calore della tranquillità impossibile da percepire di giorno. Avrei voluto essere un po’ più cosciente e un po’ meno stanca per respirare ancora per qualche istante quell’avvolgente sensazione, ma ero già piombata in un sonno a metà strada tra il più profondo, in cui non senti nemmeno tua madre che sbraita alle sette e trenta perché devi andare a scuola, e il più leggero in cui ti sembra di fluttuare al ritmo del tuo respiro a oltre venti centimetri dal letto.

Mi dovettero passare davanti una serie di colori, situazioni più o meno reali, volti ben noti di persone più che sconosciute, luoghi deserti e affollati e una caterva di nomi così velocemente, o forse troppo lentamente, per farmi capire che avevo veramente esagerato con l’alcool. Non so con quali forze, comunque mi alzai, decisa ad andare in cucina e prendere qualcosa per il mal di testa. La maniglia della porta di camera mia era inspiegabilmente calda e morbida, invitante, e per un attimo mi era sembrato di scivolare attraverso il buco della serratura prima ancora di aprirla.

Piano piano, mano a mano che il mio campo visivo si allargava verso la mia destra, mi dovetti accorgere che di fronte a me non c’era l’anticamera con i cappotti appesi, ma un corridoio di mattoni rossicci e pieni di scritte, fotografie, frecce colorate e simboli. Mi sfregai gli occhi e poi li sbatacchiai un po’, provai a riaprirli: l’immagine era più nitida, però... era sempre quella. Rimasi un attimo perplessa, cercando di capire cosa ci facesse lì quel corridoio che portava chissà dove. Feci un passo avanti, e un altro... e un’altro ancora, mi piaceva camminare. Ero tranquilla anche se non sapevo dove fossi o dove stessi andando.

Fin dall’inizio la mia attenzione era stata catturata da un foglio bianco appeso alla fine di questo corridoio, e quindi, ...perché non andare a vedere? Mi avvicinai e iniziai a leggere senza fatica perché comunque tutto era ben illuminato.

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“CIAO PAOLA, BENVENUTA! TI ASPETTAVO CON ANSIA. LASCIA CHE MI PRESENTI: IO SONO IL

LABIRINTO CHE TI OSPITERA’PER QUEST’ANNO. DOVRAI PERCORRERE TUTTE LE MIE VIE, MA SARAI

TU A DECIDERE IN CHE ORDINE, IN QUALE FERMARTI, CHE PERCORSO SEGUIRE E COSA APPENDERE

SUI MURI. LO SO CHE ORA TI POTRA’ SEMBRARE UN GIOCO, MA E’ MIO DOVERE AVVERTIRTI CHE IN

ALCUNI MOMENTI SOFFRIRAI, AVRAI PAURA, SARAI IN DIFFICOLTA’. ANCHE NELLE SITUAZIONI

PEGGIORI PERO’ NON TI SCORAGGIARE E NON PERDERE MAI LA FIDUCIA IN TE STESSA PERCHE’

RICORDA: IN QUESTO LABIRINTO CI SEI SOLO TU, E TU SEI L’UNICA COMPAGNIA E L’UNICO

CONFORTO CHE HAI. VAI AVANTI SEMPRE COL SORRISO SULLE LABBRA PERCHE’ QUI NON C’E’

NESSUNO CHE TI GIUDICA, E TU SEI L’UNICO PADRONE DI TE STESSO. NON TI ANGOSCIARE SE NON

RIESCI A CAPIRE DOVE STAI ANDANDO, PERCHE’ TANTO QUI NON DEVI ANDARE DA NESSUNA PARTE,

NE’ RAGGIUNGERE NESSUNA META, DEVI SOLTANTO FAR VIVERE TE STESSA FINO IN FONDO E

MANTENERE L’ATTENZIONE SU DI TE, PERCHE’ QUI CI SEI SOLO TU E QUESTO E’ IL TUO LABIRINTO.

IO DA PARTE MIA TI AUGURO DI DIVERTIRTI E DI IMPARARE MOLTE COSE, PERCHE’ QUESTO E’ IL

MOTIVO PER CUI SONO STATO CREATO.”

Se prima ero euforica perché sapevo di iniziare un’impresa nuova che mi avrebbe coinvolto interamente e che sentivo come solo mia, non posso negare che quel cartello mi aveva infuso nelle vene un po’ di paura e di angoscia: non riuscivo a capire perché mai per “visitare” questo labirinto avrei dovuto isolarmi dagli altri e stare sola con me stessa, insomma... è un labirinto o una prigione? Mentre tentavo di riflettere, anche se sarebbe più corretto dire che fingevo di riflettere, notai vicini al cartello una freccia nera che, ne ero sicura, mi avrebbe portato all’uscita. Iniziai a camminare nella direzione che mi indicava, sempre più convinta che a questo stupido gioco non ci sarei mai stata... che cavolo di vita sarebbe, lì, sola, a girare per quelle vie... ma chi mi obbligava a farlo? E se “nessuno” era la risposta, me ne dovevo andare. Ero abbastanza innervosita e quando arrivai al primo bivio la situazione peggiorò. Dove erano finite le frecce nere? Da che parte dovevo andare?

Mi giravo e rigiravo su me stessa, muovendo gli occhi rapidamente e facendo qualche passo prima in una direzione e poi nell’altra... Fortunatamente poco più in là ne vidi una: un secondo in più e sarei scoppiata dalla rabbia.

Anche per sfogarmi iniziai a correre, sentendomi vittima di una presa in giro. Imboccai più vie: destra, sinistra, e corri, e cerca le frecce nere, tutto senza badare a ciò che mi stava intorno. Ma quando mi ritrovai ancora di fronte al cartello, mi accorsi che forse, anzi, certamente, quella era proprio un presa per il *** (tutti abbiamo capito cosa).

Ma non poteva essere, avevo seguito le frecce attentamente... Riprovai a fare quel giro per una seconda volta, cercando le nere traditrici anche in altri corridoi vicini, ma niente: ero ancora lì! “Ma non è possibile!” gridai mentre le lacrime iniziavano a bruciarmi in gola e le scintille di euforia che scappavano da quel fuoco si spegnevano in aria. “Non è giusto!” e come al solito me la prendevo con Dio o con il destino (come spiega il mitico Liga) o con qualunque nome vogliate dare alla forza superiore che credevo si stesse prendendo gioco di me. Mi sentivo imprigionata, costretta in un luogo che non mi piaceva più, sola e piccola. Scivolai per terra, mi abbracciai le ginocchia e nascosi la testa tra le braccia. Alzando lo sguardo per cancellare con la mano destra una lacrima che mi stava scivolando sulla guancia, notai che mi ero seduta vicino ad uno specchio coperto da polvere secolare. Allungai timidamente la mano, lo afferrai e, singhiozzando sempre più lentamente, buttando giù grandi boccate d’aria, per bloccare per qualche istante il respiro, lo avvicinai a me. Ci soffiai sopra facendo rotolare la polvere nell’aria per qualche secondo. Nonostante ciò non riuscivo a vedermi nitidamente, però un po’ più confortata, mi alzai e lo appesi alla parete. Mentre lo sistemavo su un chiodo, continuando a fissare i miei stessi occhi lucidi e colmi di una dolcezza smarrita quasi infantile, mi accorsi che l’immagine diventava sempre più precisa e luminosa e lo specchio si ingrandiva intorno a questa, fino a ritrarla fedelmente per intero. Mi osservai un po’ stupita di tutto quel bagliore che continuava ad aumentare, ma quando mi accorsi che la luce non proveniva dallo specchio ma dal mio corpo, dalla mia aura, sorrisi a me stessa con una dolcezza incoraggiante. Per qualche secondo mi sentii stupida per non aver capito subito, ma poi tutto si fece più chiaro.

Mi guardai attorno per dimostrare a me stessa che non c’era nessun’altro in quel luogo, ma che tutto era pieno di me! Ne fui molto soddisfatta: mi sentivo una grande, e lo ero!

Sentii per la prima volta l’amore e la forza nascermi dentro, e crescere, essere parte di me, e sapevo che sarebbero stati quelli i miei compagni di viaggio, gli unici capaci di farmi andare avanti con fiducia in me stessa. Rimasi lì a guardarmi per un po’, e sì, ero così bella! Una volta

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assimilata quell’immagine stupenda, mi sentii pronta per iniziare... ops!... continuare. Osservai allora ciò che c’era sui muri: frecce di ogni colore a volte si intersecavano, a volte erano l’una opposta all’altra e già sapevo che la perseveranza nel seguire un percorso sarebbe stata spezzata dall’indecisione del colore. Avrei voluto seguirle tutte, ma temevo di non averne il tempo e mi ritrovai presto presa dall’imbarazzo della scelta... poi però mi accorsi di non avere al polso il mio inseparabile orologio e questo mi fece sentire sia libera dal suo severo ticchettio, sia persa in un luogo senza tempo. Non volevo angosciarmi nuovamente iniziai a guardare, tralasciando le considerazioni sul trascorrere del tempo, le foto che coprivano i muri e mi accorsi che erano tutte dei ricordi: luoghi, persone, episodi, tutte immagini del passato, su cui il “panta rei” aveva agito in modi differenti, lasciando emozioni uniche che le rendeva speciali. Mi sentivo a casa, avvolta dal tepore del mio passato, unico perché solo mio e svelato a pochi eletti, ma questa sensazione durò poco: ebbi la sensazione che tutto attorno a me fosse falso, dato che i ricordi non sono realtà. E questo lo sapevo bene, come sapevo che si vive nel presente e non nel passato,... ma nemmeno il presente è reale! E allora dov’è la realtà? E a cosa serve il passato se, non essendo realtà, non ci permette neppure di capire il presente? ...Ma dove cavolo ero finita? In un libro di filosofia? Se fossi andata avanti così ancora per un po’ credo che avrei iniziato ad accarezzarmi i capelli come fa la mia prof. E quindi decisi: basta con le domande, o meglio, basta con la ricerca di risposte: come al solito sarebbero giunte spontaneamente quando meno me lo sarei aspettata.

Scoppiai a ridere. Capii che mi stavo divertendo e che quindi ero entrata nel gioco con lo spirito giusto.

...E’ da un po’ che sono seduta qui a scrivere domandandomi se mai vi fregherà qualcosa

di quello che sto raccontando, ma non importa, al massimo questi fogli resteranno a me come... ricordo. Sapete? Sono curiosa di scoprire a che punto siate voi del vostro “Labirinto”. Io posso vantarmi di aver superato le fatiche maggiori, ora mi aspetta solo il resto della vita da diciassettenne e penso che per questa parte del programma uscirò dal mio “Labirinto” per passarla con voi!

No, no, non è una fuga della solitudine o il rifiuto di stare con me stessa, è che finalmente ho capito cosa vuol dire vivere per sé insieme agli altri! Cosa? mi chiedete se ho paura? Certo che ne ho! E anche tanta! La paura vive in un angolo buio vicino a me ed è pronta ad attaccarmi quando mi dimentico di lei, ma questa volta ho deciso di puntarle la torcia negli occhi e di vedere che faccia ha, la bastarda!

E allora non si potrà più nascondere, né combattere (è troppo debole), potrà solo scappare, ed è meglio per lei che lo faccia in fretta, altrimenti sarà travolta dalla mia allegria... e ci potrebbe rimanere molto male.

...E ora che ho finito di scrivere, spengo il computer, accendo la torcia e apro la porta...

sto arrivando!

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“IL LABIRINTO”

di Francesca Lazzaroni - 1aH

Sembrava un labirinto ma di certo era un labirinto ben strano. Salì le scale, o forse le scese. Non ricordava bene. Tutto appariva confuso e annebbiato. Gli sembrò di sentire il rumore dell’acqua che scorre e vide la cascata, con l’acqua che saliva, ne era sicuro. Non beveva da tre giorni: si lanciò nel vuoto per raggiungere la salvezza, accorgendosi solo dopo che forse la salvezza non era in quella direzione. In uno sprazzo di lucidità aspettò l’impatto col suolo ma non arrivò mai.

Senza esservi entrato si ritrovò in una piscina. Bevve avidamente ma l’acqua era salata. Il suo disgusto per la vita, per quella particolare sensazione aumentò considerevolmente. Decise di sedersi e di aspettare. “Aspettare che cosa?” si chiese. Era il secondo pensiero lucido in meno di un quarto d’ora: o stava guarendo o per lui non c’era proprio più speranza.

Solo allora si accorse di essere in cima a un pilastro altissimo, grigio, di forma cilindrica, Anzi, all’inizio sembrava grigio ma in realtà era uno specchio. Uno specchio che rifletteva il grigio circostante. Capì che l’unica speranza che aveva per salvarsi era rompere quello specchio e trovare così l’uscita di quel maledetto labirinto. Pregò di trovare un martello o qualcosa del genere.

Si guardò attorno e vide il labirinto in ogni minimo dettaglio. Laggiù sulla destra c’era per terra una scheggia di vetro e due passi a sinistra un mozzicone di sigaretta. Era entrato da lì. Lì aveva fatto quella stupida scommessa col diavolo. Quel luogo sembrava vicinissimo, in realtà era a sei giorni di cammino. Mentre i suoi pensieri vagavano tra i ricordi, i suoi occhi perlustravano ogni singola curva, siepe, sottoscala, sottocascata alla ricerca di quel qualcosa che non riuscì a trovare.

La disperazione stava lasciando posto a un senso di impotenza che in breve lo avrebbe sopraffatto se non fosse stato per quella curva. Era un angolo retto, cioè di novanta gradi. Gli tornarono alla mente tutte le formule matematiche studiate alle superiori e sentì la salvezza contemporaneamente più vicina e più lontana. Poi si ricordò tutti i vocaboli d’inglese e di francese studiati a memoria; cos’erano le proiezioni ortogonali e il senso religioso. La sua mente si riempì delle regole di tutti gli sport. Per ultimo la pallavolo.

E vide il pallone, bianco, candido, con la nera scritta MOLTEN che spiccava come un corvo sulla neve. E intuì che li era la sua salvezza. Cercò di distruggere lo specchio ma non riusciva a colpirlo abbastanza forte con la palla. Tornò la disperazione, seguita dalla rabbia. Solo allora, con la rabbia nella mente e nel cuore, riuscì a schiacciare con tutte le sue forze. Infranse lo specchio e il labirinto attorno a lui crollò.

“Ti sei imbambolato?” gli grida Marino “Sveglia! Quella schiacciata era una mozzarella! Devi tirare più forte! Gira il braccio più velocemente!” E’ tornato nella realtà. Il suo allenatore ha ripreso a gridare. Il suo labirinto-incubo è scomparso. Solo guardando attentamente, le linee del pallone si mescolano e pare una specie di labirinto.

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“LABIRINTO”

di Elisabetta Valcamonica - 2aM

Se esercitassi la mia mano sinistra imparerei a scrivere anche con quella. E invece mi trovo spiazzata da questi limiti, da questi confini che la realtà pone al

mio regno disordinato. E tutti gli sforzi che faccio per uscire non servono a nulla, anzi, mi fanno ricadere, ed è dura rialzarsi; se non fosse che ho trovato la luna, che si china e mi porge la mano, che mi aiuta a ricominciare. La luna, una guida salda e sicura, un’amica fedele e silenziosa che osserva, e sa parlare più di ogni altro. E’ bello lasciarsi trasportare dalla musica, seguire leggera le note, e volare nel cielo stellato, e guardare il mondo addormentarsi... Sapere di poter pensare, fare vagare libera la mente nell’aria fresca per cogliere il mistero di un sorriso, di ciò che racchiude in sé il gusto della vita, il vivere stesso: una cosa fantastica, e non merita di essere sciupata, di essere buttata via.

E il sole sorgerà di nuovo; un raggio di luce bucherà il buio della mia mente, che troppo spesso non riesce a lasciar perdere il pensiero di imparare a capire...

Ho visto un gatto giocare, e i dolci colori dell’alba invadere la campagna; ho visto le stelle sorridere, e la paura negli occhi di un giovane passero che non riusciva a rialzarsi in volo, la paura di dover rimanere per sempre intrappolato e non poter più parlare con le nuvole.

E’ un miracolo questa vita che racchiude tutto l’universo, che passa in ogni istante nelle mie mani, e scorre negli sguardi puri e caldi dei veri amici; una vita unica e speciale. E scoprire questa unicità mi spinge a non smettere di cercare, perché la banalità è un nemico da fuggire, ed è brutto il rumore del vuoto interiore. Sento l’indifferenza girare fra i banchi di scuola, e cattiva condizionare i rapporti già deboli di persone diverse tra loro, ma rese uguali dallo stesso copione che si ostinano a recitare. Ho scoperto l’amicizia di uno sguardo, di due occhi sinceri che vogliono e possono accogliermi...

Tornerò a sdraiarmi sulla neve ad ascoltare il silenzio sotto il cielo azzurro tra cime di montagne uniche e speciali. E poi condurrò la mia anima a correre sui prati e nei boschi, dove sento libera la libertà. La cosa più bella che ho della vita è la vita... e so che tutto ciò che accade non avviene a caso.

Il fatto è che non riesco a parlare... a volte sembra che tutto vada

bene, e poi arriva il dolore come uno schiaffo improvviso, e di nuovo lacrime scendono, e si perdono nell’aria; ora so cosa fa star male.

E in questo labirinto di pensieri mi perdo, mi sto perdendo, e cerco la strada per uscire; ormai è come un tunnel che piano piano mi sta portando a rivedere la luce, una luce che forse non sono mai riuscita ad afferrare, pur avendola sottomano...

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“LABIRINTO”

di Chiara Malerba-3aG

Unica idea che spazia tra gli infiniti meandri della mente:

labirinto. Sola senza speranza d’uscita,

il cuore è lontano, ascolta il suo affannoso respiro,

silenzio: via dopo via,

chiusa dopo chiusa, disperazione, contraddizione,

buio, fame e sete di sapere,

di conoscere l’inconoscibile, quale e dove si a il passaggio verso la luce,

là dove è solo ombra e malinconia.

Unica idea che spazia muore

tra gli infiniti meandri di una mente

che non la calcola. Tu, unica idea che spazia,

sopisci nell’infernale labirinto della solitudine.

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“IL LABIRINTO 1”

di Arianna Ferrario - 4aG

Era scappata via da lui prima ancora che sorgesse il sole e la vita nella casa di campagna si risvegliasse. Aveva sceso le scale a perdifiato, era uscita dalla porta ancora in camicia da notte, cercando di superare con la corsa i pensieri bui che la inseguivano. Corse per i campi neri di notte, per i prati ancora bagnati, lungo il placido fiume, finché non sentì dentro di sé una fitta: il fiato le mancava e si sentiva le gote esplodere per la lunga fatica. Si guardò intorno, le sembrava che il quel posto l’aurora non sarebbe mai sorta, era un luogo soffocato dagli alberi, da cespugli irti, da erbe alte.

Fin dove era giunta nella sua folle fuga? non ne aveva idea, l’unica cosa che voleva era allontanarsi da quell’uomo, da quelle sue false promesse, da quelle bugie.

Si alzò e tentò di farsi largo, girò, girò, finché sconsolata, non si ritrovò nello stesso punto. Si sedette e guardò le sue gambe graffiate dai rovi e la veste strappata; si sentì ancora più persa.

Nascose la testa fra le mani e pianse, delusa dalla sua vita, dalla sua condizione, da se stessa. D’un tratto sentì una lieve mano accarezzarle i capelli, una voce rassicurante la chiamò: -Coraggio, bambina cara, non piangere!-

Alzò lo sguardo e vide davanti a sé una donna anziana, una vecchia dai capelli bianchi e dalla pelle chiara, che le sorrideva dolcemente.

-Io mi sono persa, sono scappata dalla tenuta qui vicino, non so più dove mi trovo...- La vecchia sospirò, -E’ vero, questo luogo è come un labirinto, per chi ha nell’animo la

tristezza. E’ aspro e impervio per chi non ha coraggio di andare avanti, è come se predisponesse all’abbandono, e piano piano non solo si perde la via, ma si perde anche se stessi.-

La giovane si alzò, poi, asciugandosi una guancia disse: -Io non voglio tornare indietro, sto bene qui-

-Tutti lo pensano all’inizio; ma verrà il momento in cui ti sentirai sola, e allora davvero non potrai tornare indietro.- Rispose la vecchia sorridendole -Non basta fuggire per risolvere i problemi, in fondo questo luogo intricato, questa selva oscura, è come la vita: bisogna essere in due per non perdersi, per confortarsi. E io ho l’impressione, mia cara, che da qualche parte ci sia qualcuno che ti cerchi. Riesco quasi a sentire il battito forte del suo cuore, mentre ti sta chiamando.-

La ragazza rimase sorpresa, -Lei non sa quello che dice, nessuno mi cerca, perché nessuno mi vuole!-

-Non sempre, mia giovane amica, si riesce a dire tutto; non ringraziamo mai per i favori che la vita ci concede, siamo così presi da noi stessi che, a volte, diamo anche per scontato il vivere, il che è quasi un miracolo. Talvolta abbiamo così paura dei nostri sentimenti che rinunciamo a dire “ti amo” alla persona che desideriamo, dando per certo che lei lo sappia. E’ così facile rimanere soli. Non perdere colui che ami e ti ama, per incomprensioni, o un giorno te ne pentirai.- La vecchia le si avvicinò, le coprì le spalle con uno scialle, -Non fare come me- Le bisbigliò. -Ora ti porterò fuori di qui, io abito nella casa rosa, qui vicino. Mi chiamo Greta. Aspettami sotto quest’albero, ti verrò a prendere.-

L’anziana donna l’abbracciò e scomparve nel bosco. La ragazza la seguì con lo sguardo fin dove riuscì. Stanca si addormentò. Un raggio di

sole la svegliò, ormai fuori dal bosco; davanti a lei c’era Mark, che la guardava preoccupato: -Mio Dio Ellen! Ti ho cercata ovunque, ero terrorizzato al pensiero di averti perduta!-

-Scusami Mark, io mi ero persa, poi qualcuno mi ha salvato... io non so chi sia...- Lui le sistemò lo scialle nero intorno alle spalle, la fece salire in macchina e si diressero

verso casa. Lei, guardando indietro, vide una casetta rosa, ai limiti della selva, allora gridò: -

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Fermo Mark!! Dimmi chi abita in quella casa rosa! Ti prego!- Lui volse appena lo sguardo, -Ellen, quella è la casa della signora Greta Greenvalley, ma è

disabitata da molto tempo, da quando quella gentile vecchietta è morta, cinque anni fa. Perché mi chiedi questo?-

“IL LABIRINTO 2” Stette ferma, con la penna in mano per un po’, guardando quel foglio bianco, ad

aspettarsi, come una magia, che diventasse stracolmo di massime filosofiche e pensieri profondi. Ma la verità era ben diversa, doveva comunicare qualcosa e non aveva niente da dire.

La sua non era una fugace mancanza di idee, piuttosto una specie di apatia esistenziale, che le ricopriva i sensi e le impediva di ritrovare anche una sola misera emozione nel labirinto sconosciuto che le soffocava l’animo. Non poteva neanche più piangere per la perdita di qualcuno, o essere felice per un avvenimento, o provare rabbia verso le ingiustizie, insomma vivere appieno.

Tutto ciò non capitava solo a lei, ma alla maggioranza dei suoi giovani amici. Era come se alla loro nascita il modo o avesse smesso di dare scopi, obiettivi, risposte alle loro domande, che ben presto furono da loro stessi dimenticate, gettando tutti loro in bui cunicoli.

Non si poteva banalmente catalogare ciò che le accadeva, nominandolo “disagio giovanile”, quello in fondo era solo un termine usato dagli adulti per coprire facilmente qualcosa di più grande, qualcosa che loro non riuscivano a spiegare, perché per loro, quando erano giovani, era tutto più bello; la gente si voleva più bene, non come accadeva a lei... com’è che li chiamava il suo patrigno?... ah, “tempi bui in cui bambina cara, non ti puoi fidare di nessun altro che della tua mamma e del tuo papà...”, forse era perché gli aveva dato retta che si sentiva così sola, perché in fondo era quello l’unico sentimento che un po’ la scuoteva, che percepiva anche in un sacco dei suoi “amici”, ma era possibile che lo sentisse solo lei? Forse il mondo si stava spegnendo pian piano, e con lui tutta l’umanità. Sarebbe dispiaciuto a qualcuno? Forse a sua madre, perché quando sarebbe arrivato quel giorno non avrebbe potuto più guardarsi la sua telenovela, che inspiegabilmente riusciva a suscitare in lei più emozioni della morte del vicino di casa, riusciva a volte a farla singhiozzare, e per questo la invidiava.

Una volta alla tv aveva visto le immagini della guerra, di bambini magri e malati, ma tutto ciò le era servito a tenersi più strette per paura le cose a cui teneva, e di fronte a quei volti non aveva provato nient’altro che indifferenza. Aveva girato canale, perché a sua sorella non piaceva guardare quelle cose mentre mangiava.

Tornando al foglio, sempre più bianco, cosa mai potevi scrivere? Le sembrava impossibile che nel mondo qualcun altro fosse così “ammalato”, perso nella sua stessa anima, come lei.

Ma, se osservava il livello di odio e cattiveria che aveva vicino, non si sarebbe detto. Forse avrebbe dovuto chiedersi se era vero che ai tempi dei suoi genitori erano tutti

allegri e felici e la terra era in pace con sé, o questa apatia c’era sempre stata e ora stava riemergendo furiosamente per rivendicare il suo diritto a essere considerata un risentimento?

No, nessuno l’avrebbe capito, perché era solo lei a non avere più cuore, o più anima. Forse era solo lei che non aveva mai capito dove fossero finiti i fili principali della sua vita, o dove avrebbe mai potuto recuperare la sua fragile identità; avrebbe avuto bisogno di una specie di mirabolante “filo di Arianna”, che l’avrebbe assicurata, che le avrebbe dato anche una sola spinta iniziale, ma era inutile continuare a chiedere aiuto, quando nessuno la poteva udire: lei era troppo lontana, troppo persa, e il suo grido era troppo debole.

Sbuffò, poi si arrese: avrebbe scritto di come “grande e profondo fosse il senso della vita”, in fondo, come diceva sua mamma, “buttati sul classico, non si sbaglia mai!”

Sarà... sì, sua madre aveva sempre ragione, in fondo.

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“IL LABIRINTO” (non hai più nessuna speranza)

di Thomas Brunney - 3aA

Di qua di là non sai dove andare. Provi a destra, provi a sinistra, ma sono tutti corridoi chiusi. Devi decidere in fretta perché lui si avvicina; senti i suoi passi pesanti ma rapidi e tu piangi come un bambino che ha perso la sua mamma. Frettolosamente ti immetti in un vicolo buio e corri, corri sempre più veloce perché lui ti cerca con sanguinosa rabbia. Sei stanco, le tue gambe sono diventate pesanti ma a pochi metri, sul fondo del corridoio, vedi una porta; smetti di piangere, un sorriso compare sul tuo viso adesso felice e speranzoso. Afferri la maniglia fredda della porta, la giri e spingi ma quella non si apre; allora la tiri ma si rifiuta di lasciarti passare.

La paura torna ad annebbiarti la mente, il panico s’impossessa del tuo corpo. “Apriti, apriti maledetta!” Urli, mentre con le poche forze che la paura non ti ha ancora portato via cerchi di aprire la porta con movimenti disordinati. Improvvisamente senti un ruggito che ti mozza il fiato e di colpo smetti di piangere; lentamente ti giri singhiozzando ed in fondo al lungo corridoio, contro luce, vedi una spaventosa sagoma nera.

Vorresti diventare un moscerino per poter volare via senza essere visto perché hai capito che ormai non hai più nessuna speranza: L’alieno squamoso ha vinto.

Mentre te ne esci dal bar, incazzato per aver perso 500

lire, sul monitor lampeggia ancora la scritta: GAME OVER!

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“ALLA FINESTRA”

di Cristina Vitale - 2aH

Volare, volare! Hai preso male le misure, in bilico, cadi.

Il fondo di quel pozzo. Fidati ci sono qui io.

Amori falsi, amori come doveri. Vivere senza amori non è vivere I giorni passano, passano.

Quella montagna innevata, quelle nuvole, quel cielo. Persone che se ne vanno, giusto quelle più vere.

Una carezza, un abbraccio, un pianto, un sorriso, dolcezza. Tutto da deboli. Vergogna stupida! Quanto ti costa?

Stiamo precipitando! Fidati. Non cacciarti in quel labirinto, è buio, ti perderai. Prendi il volo. Va con loro, spensierati,

ariosi uccellini. Questo cielo è pure tuo. Vento che ti scorre nelle vene.

Caro mio maestro di vita! Guarda: tutti opachi. Non si fidano “Com’è finita l’allegria, quanto amaro disincanto”.

Io sono qui, insultami, calpestami. Non ti abbandono comunque. Burattini del tedio. Guardali: amici? No! Fidati.

Caro mio maestro di vita! Guarda: si vergognano di essere. Quella montagna innevata, quelle nuvole, quel cielo.

Libertà! Vai! Esci da quel corpo! Vola! “Interpreta chi sei”. Il dolore parla non fuggire, ascoltalo, piangi insieme a lui.

Giovane, sei pieno di energia, non lasciarla in fondo al cuore. Vivi! Intensamente! Sempre libero di amare!

Caro mio maestro di vita! Guarda: è in balia dell’apatia. Di me ti puoi fidare. Perché dovrei riempire di parole subdole

questo mondo già andato? Possiamo dargli una mano, tirarlo fuori da quel pozzo.

Giovane, sei pieno di energia. Azzarda l’impossibile.

Cresci, gioia o disperazione. Vola, sei libero di amare. L’ipocrisia deve perdere. Questo cielo è pure tuo.

Vento, dolce carezza. “Interpreta chi sei”. Getta quella maschera! Boccia quella recita!

Vivi! quella montagna innevata, quelle nuvole, quel cielo.

Caro mio maestro di vita! Andiamo!

Vivo di questa mia utopia. “Mentre fuori dalla finestra, si alza in volo soltanto la polvere”

(le frasi fra virgolette sono di Renato Zero)

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“LABIRINTO”

di Pamela Guzzi - 1aH

Sono qui, affacciata alla finestra, davanti a un cielo stupendo,

che fra un po’ si colorerà di rosso. Sono qui, ma la mia anima è lontana,

è dentro un labirinto, un labirinto invisibile che... ...chissà se avrà un’uscita.

Sono qui, e penso a cosa farà la mia anima: continuerà ad andare avanti?

Troverà la sua porta? O si arrenderà, e poi, tornerà indietro?

La vita di ogni essere umano è dentro a questo enorme labirinto. Qualcuno riesce talvolta ad uscirne e a trovare al sua strada,

altri invece, anche dopo tanti sforzi, non riescono a realizzare i loro sogni,

altri ancora, purtroppo, ci sono appena entrati, e si arrendono subito...

L’unica cosa, secondo me, è non perdere mai la speranza, e chissà, se prima o poi, la porta di questo labirinto si

troverà?!

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“ABILNORT”

di Chiara D’Amico - 2aH

C’è qualcuno là fuori?

Vano girotondo

Ricerca continua dell’essere

Vano girotondo

Centro dell’abilnort

essere

Vano girotondo C’è qualcuno là fuori?

Vano girotondo Vano girotondo

C’è qualcuno là fuori?

Nell’abilnort ricerca, ricerca

essere

C’è qualcuno là fuori?

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“CAVIE, LABIRINTI ED ALTRO”

di Marta Abbà - 3aA

Mi aggiro fra queste pareti bianche che si alternano a lastre di vetro in un antipatico intrico di corridoi assurdamente identici. Nessun appiglio, nessun segno, niente scritte né cartelli intorno solo muri, in coreografica disposizione, mi imprigionano senza rinchiudermi, mi circondano ma non limitano del tutto la mia libertà di movimento. Non posso dire di essere in trappola poiché mi è stata lasciata la possibilità di agire, non ho alibi né scuse: sono condannata a tentare se voglio tenere alta la mia dignità. Oggi è toccato a me, proprio a questo musino aguzzo e baffuto e non mi resta altro che provare ad orientarmi in questo assurdo gomitolo di cunicoli. A testa bassa mi aggiro per i corridoi sterili, con il naso cerco un odore che mi guidi, con gli occhi un “epico” filo di Arianna che mi conduca alla fine di questo incubo. (Da notare la citazione, e poi confondono noi “cavie” con quegli ignorantoni delle fogne, non c’è confronto!!) E’ da molto tempo che vago e mi sembra di non essermi mai mossa, intorno a me ancora pareti bianche, la luce dall’alto è forte e fredda e si riflette creando un’atmosfera pungente e tesa. Ogni volta che giro l’angolo mi appare davanti un corridoio identico a quello appena percorso, l’ambiente è asciutto e asettico, così assurdo ed essenziale; mi sembra di essere l’unica potenziale imperfezione in questo intrico di corridoi.

Che prova mi tocca oggi! Cos’ho fatto per meritarmi questa orribile tortura? Perché mettere in crisi una povera topina? Perché, a tu per tu con la mia volontà e con le mie qualità, mettermi subito giovane e inesperta davanti alla vita nuda e cruda che spesso non ci concede scusanti o via di fuga?

A questo punto inizio a ritenermi sfortunata per essere stata prescelta per questo luogo sterile e glaciale invece di raggiungere, confusa nella massa, uno di quei tanti pet-shop o addirittura una confortevole gabbia singola con bagno a mezza pensione. Altro che ambiente domestico, ora sono qui ed è meglio che la smetta di perdermi nei sogni: basta e avanza l’intrico reale in cui mi trovo, non mi sembra il caso di vagare anche negli antri confusi e contorti della mia psiche.

Libero la mente e respiro a pieni polmoni, per la prima volta alzo gli occhi al cielo... -Ehi, ma che sono questi “musi” enormi che mi scrutano? Ma che avete da guardare? Sopra di me attraverso una lastra trasparente diverse teste rosa mi osservano, alcune attente, con gli occhiali sulla punta del naso, fissano il mio corpicino e annotano su un foglio. Altri annoiati sbadigliano e seguono distratti l’evolversi della mia prova; altri ancora mi guardano con un ghigno beffardo e aria di superiorità.

Subito mi arde nel petto una voglia matta di schiaffare in faccia a questi maledetti umani la soluzione dell’enigma in cui mi hanno introdotto: glielo faccio vedere io cosa sono capace di fare!!

Mi metto subito in moto e quasi impazzita inizio una nevrotica serie di corse e scatti in ogni direzione, irrazionalmente; non so più cosa sto facendo ma le mie zampe continuano a portarmi contro superfici fredde e

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dure. Finalmente l’ira si placa e riacquisto lucidità, un po’ mi pento di essermi comportata come una stupida mula testarda e ottusa; chissà quale ironia e quale divertimento ha animato quei guardoni.

Mi ergo sulle zampe posteriori e accosto il muso al soffitto, volgo in alto lo sguardo e fisso gli osservatori: nei miei occhi lampeggia un esplicito S.O.S.

Tutti mi fissano ammutoliti, i più seri annotano interessati, gli altri deformano il viso in una smorfia di sorpresa.

-Non ve lo aspettavate, eh? Altro che superare prove e uscire da quell’enigmatico labirinto che è la vita, io ho imparato a guardare in alto, a riconoscere i miei limiti e a chiedere aiuto. Uomo, fai come me, non intestardirti a voler superare muri umanamente invalicabili da solo, facendoti prendere da orgoglio e da rabbia, accettati nelle tue possibilità e impara a dire qualche volta “Ho bisogno di aiuto”. L’ho capito io “minuscolo esserino disgustoso, cuginastro della pantegana”, sei in grado di farlo anche tu... alza lo sguardo e sii te stesso!!

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“DELIRIO DI UN INNAMORATO TRADITO” il labirinto

di Matteo Maserati - 5aB

Fu in una solitaria giornata d’ autunno che per la prima volta la Cupa Signora mi fece visita. Sebbene assorto nei miei tristi pensieri la vidi. Avvolta nel suo grigio sudario Ella m’apparve sul far della sera, il bel volto contratto dal muto dolore, lo sguardo deciso bruciante d’ira nascosta. Scostandomi da inutili pensieri di rammarico mi condusse al luogo da cui raramente gli uomini fanno ritorno. Al mio cospetto si stagliò, immenso contro l’orizzonte di fuoco, uno degli innumerevoli ingressi che portano l’uomo a percorrere la via del male. Era scolpito nella stessa materia oscura da cui sorgeva e da secoli era protetto da titanici marmi dalle demoniache fattezze. Essi fissarono con vuoti occhi di ghiaccio colui che da sempre attendevano immoti. Come sedotto da un terribile presagio oltrepassai la soglia millenaria e subito ne fui lontano. Immense pareti si chiusero su di me e il mio lungo cammino ebbe inizio. Proseguendo lungo ignote vie vidi sorgere la luna nel cielo di tenebra e la sua pallida luce gettava fantastiche ombre sulle lucide mura coperte di muschio. Le fui grato, ignaro che il metallico disco, in tutto il suo freddo splendore, avrebbe vegliato su di me più a lungo di quanto pensassi.

Camminavo istintivamente, senza far rumore per il dedalo di vicoli battendo la terra umida con passo leggero.

Lungo la strada solitaria vidi strane rocce scolpite dal vento fremere al mio passaggio e piccoli esseri dai grandi occhi gialli nascondersi nella bizzarra vegetazione. Più volte il paesaggio cambiò intorno a me ma nell’aria restava sempre un cupo sentore d’arcano potere che minacciava di macchiare per sempre la mia anima. A stento trattenni il mio lato più oscuro e recondito. Il tempo strisciava con piedi di piombo e la mia stessa esistenza perse il suo senso. Sette volte il mio corpo patì l’ira bruciante dell’impietoso astro di fuoco e sette volte con la notte malvagia portatrice di incubi un freddo mortale calò fin dentro le mie ossa crepate dal dolore. Fermatomi d’un tratto a riposare le membra inquiete, ripensai a colei che un tempo mi amò e che io ancora amavo e il suo solo ricordo portò conforto al mio cuore impazzito e rabbia al mio spirito affranto. La Cupa Signora tornò allora a farmi visita e mi portò su ali mostruose verso il margine rotto di un buio abisso infinito. Ora la strada era lastricata d’oro e gemme lucenti e pietre preziose screziate d’argento spaccavano il lucido cristallo delle pareti. Miriadi di immagini, rese grottesche dal puro terrore, aggrovigliate e contorte come vive cose dolenti, scorsero davanti ai miei occhi infuocati come un ultimo disperato moto della coscienza, ma io le ricacciai lontano con stolta superbia.

Poi l’ignota Ombra sparì lasciandomi in balia delle mie paure e la mia mente tornò lucida. Un’immensa radura si apriva innaturale davanti a me e il tempo stesso si arrestò in attesa degli eventi.

Al centro del labirinto mi attendeva l’ultima letale tentazione. A lungo camminai per la piana coperta di ossa sotto un bronzeo cielo. Tutto intorno ai cangianti teschi dei morti, beffardi con il loro eterno ghigno, crescevano rigogliosi fiori neri come la notte e ogni contorto stelo pareva un’anima in catene. Mentre blasfeme reliquie divenivano polvere, sotto di me orribili insetti cremisi suggevano il nettare scarlatto dall’immonda campagna. Assaporai il sangue nell’aere denso e i neri fiori si inchinarono al mio passaggio sussurrando nel vento pestilenziale indicibili lusinghe.

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L’urlo agghiacciante di un demone lontano raggiunse le mie sorde orecchie ed il suono di tormentate risa rifluì nel passato e fu inghiottito da un innaturale silenzio.

Fu allora che giunsi all’Albero delle Ombre Dannate. Anime un tempo viventi furono appese ai suoi rami e nutrirono le sue radici in

tempi remoti. Torcendosi dal dolore della loro traviata lealtà le Ombre fecero la loro alleanza e ora godevano la triste ricompensa. Quelle strane ombre piangevano il proprio pentimento e urlavano in agonia. Esse danzavano, simili a folli fantocci dalle mobili maschere, implorando pietà da ogni ramo.

Tutte, tranne quella di cui incontrai il deviato e consapevole sguardo. Mi fermai alla luce di quei saggi occhi lattiginosi. L’albero stesso parlò con voce scheggiata e con lui mille voci s’udirono sorgere dalle aride gole dei Dannati.

-Con fede rotta e amare promesse un uomo vaga per il Giardino del Sangue. Una volta che le mie radici assaggiano il suo corpo mortale egli è mio ed io sono lui. Un uomo... Un uomo... Sarò libero nella carne e nelle ossa. Ucciderò per te mio signore. Liberami da questa lignea forma e ancora una volta potrò sentir battere il mio cuore portando il seme del male per i campi del mondo.-

Un ennesimo avventato passo mi accostò alla più totale perdizione. La mia mente in un soffio rivide scene di vita passata e proprio allora scorsi l’angelico viso di lei, splendido seppur traditore.

L’Albero scosse i suoi neri rami ferrigni ma io fuggii, lontano, perché il mio fato non era quello di un’orribile anima prigioniera, ma di uno spirito immortale reso tale dal costante vagare per le spire dell’inconcepibile labirinto della sua mente; corrotto dalla sua stessa Disperazione ma guidato verso la salvezza dall’amore.

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“LABIRINTO”

di Mariachiara Colombo - 2aH

Sono li immobile, come pietrificata ad un tratto i miei occhi si aprono

ed attorno a me compare il vuoto può assoluto. Chi sono io? Che cosa mi ha portato fin qui? Perché?

Mi guardo attorno e sento delle voci dietro di me, lontane. E’ forse il mio passato che cerca di togliere fiato alla mia anima?

Oh no, non ce la farà, le strade sono tante e qualcuno, si qualcuno mi aiuterà.

Qualcuno camminerà al mio fianco e mi stringerà la mano, e insieme, voleremo via, voleremo lontano.

Ma ora, ora io sono sola in questo giorno senza fine, sono sola sotto questo cielo, sotto queste stelle.

Ora è questo il mio pensiero, aiutatemi a trovarlo, il mio unico sentiero.

Questo labirinto è per me senza via di uscita, aiutatemi a ritovar la porta, aiutatemi a ritrovar la vita!

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“SERVO DEGLI USI”

di Marco Colnago - 2aN

Rinuncia ai tuoi diritti e comportati come gli altri;

il mondo non accetta i diversi e coloro che vanno

controcorrente.

Rimani nel labirinto delle usanze e abbi paura di uscirne

perché mostrare la tua libertà significherebbe estraniarsi dalla massa,

non farlo...

Oh, povera pecora nera, sei riuscita a uscire

da quel groviglio di convenzioni conformiste e di perbenismo

sprezzante.

Sei solo ora, sei un reietto, cacciato dal sacro dedalo

puoi solo esprimerti liberamente, osservando la planata del gabbiano

Jonathan, spunto della tua fuga.

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“CON O SENZA BUSSOLA”

di Simone Bregaglio - 2aD

Con o senza bussola non ritroverai la “diritta via”.

Mi dispiace, compagno, siamo tutti persi

e nessuno mai

ci cercherà.

Rimanevano solo frammenti di solidarietà che il vento

dell’ipocrisia ha ormai depositato sul grande muro

della società Non cercare di scavalcarlo

già le guardie ti stanno puntando.

Voltati, oltre l’orizzonte un altro confine

dovunque ti dirigi il panorama è

sempre lo stesso.

Riaffiorano a volte

i suoi sorrisi e i suoi baci ma, attenzione,

non devi , non puoi né distrarti né capire

se mai vuoi essere chiamato “diverso”.

Il tempo che passa non può tornare

di fronte a te un groviglio di vie

a te la scelta (è inutile, non pensarci troppo,

hai già sbagliato)

Ma una volta, una sola volta ti ricorderai da dove sei venuto,

uscirai da dove sei entrato: eri nel nulla e lì ritornerai.

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“IL LABIRINTO”

di Vincenzo Freli - 4aB

1 - Dopo una settimana di pioggia finalmente le primavera si è fatta avanti prepotentemente ed i raggi di un pallido sole mattutino riempiono la piccola sala d’ ospedale. Da quassù il panorama è fantastico, si scorgono le montagne ancora innevate ed i primi fiori che sbocciano sugli alberi del giardino sottostante, sempre ben curato da un anziano giardiniere.

Un pianto soffocato riporta l’attenzione nella camera 401, dove il clima non è così disteso. In un angolo della stanza infatti una donna di non più di quarant’anni è seduta su una sedia di plastica nera con la testa fra le mani ed un fazzoletto di stoffa che le copre gli occhi. L’abito non è ben curato, come se fosse stata strappata via con la forza dalla sua cucina ed avesse lasciato a casa tutta la sua femminilità; il corto caschetto spettinato, il viso privo di trucco rigato dalle lacrime e quei vestiti tipicamente casalinghi, l’avrebbero resa irriconoscibile agli occhi dei colleghi di lavoro presso i quali soleva mostrarsi sempre in ordine e ben vestita.

Un ritmico ed alienante “bip” scandisce il battito cardiaco dell’uomo che occupa l’unico letto della stanza posto sul lato sinistro, proprio di fronte alla porta.

Tra le bianche lenzuola giace un ometto dal viso paffuto ma pallidissimo; il suo atteggiamento solenne non era scomparso dopo il grave incidente e chi lo vede lì, inerte e pieno di tubicini collegati al naso e alle braccia, non può non rendersi conto della forza con cui il fisico affronta il gravoso coma.

D’improvviso la porta si apre ed un giovane medico con l’immancabile camice bianco solca l’uscio seguito da una infermiera dal viso corrucciato e seccato per la mole di lavoro. Entrambi rivolgono un cenno di saluto alla donna che si era alzata di scatto dalla sedia in attesa di notizie confortanti, ma, prima di dedicarsi all’impaziente coniuge, rivolgono la loro attenzione all’ammalato.

Finite le visite di routine, il medico con la solita aria pacata ma decisa afferma che la situazione è stazionaria, che deve trovare dentro di sé la forza per uscire dal coma.

Dopo queste parole piene di speranza il medico apre la porta e, ceduto il passo all’infermiera, la richiude dietro di sé.

2 - Un lungo sbadiglio riporta alla vita Pitt il nostro protagonista che, dopo aver sbattuto

tre volte le palpebre ed essersi a lungo strofinato gli occhi a causa dell’abbagliante luce bianca, è di nuovo sul punto di perdere i sensi vedendosi circondato completamente dal nulla.

Sì, voi come definireste un luogo tutto bianco, niente sotto i piedi, niente sopra la testa, nessun odore o qualche oggetto sensibile al tatto.

Insomma, reazione di qualunque essere umano sarebbe quella di iniziare ad urlare e a correre: proprio ciò che fece Pitt.

Dopo aver corso fino a sentirsi la milza scoppiare, Pitt si ferma ansimante come dopo una gara dei mille metri, con il cuore pulsante in gola, il sudore sulla piccola fronte corrucciata e le gambe che, non reggendo il peso del corpo affaticato, si piegano contro la sua volontà facendolo finire in ginocchio.

Rimane in quella posizione, per quanto il tempo possa valere in questo strano posto, dieci minuti buoni come immerso nel tentativo di dimenticare gli avvenimenti di qualche momento prima.

Recuperate finalmente le forze, si rialza con gli occhi chiusi, sperando forse che una volta aperti avesse visto sua moglie, la sua casa o qualche cavolo di posto a lui conosciuto o per lo meno reale; viene preso dallo sconforto quando nota che tutto è uguale a prima e che il nulla regna incontrastato.

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Dall’orizzonte qualcosa compare presentandosi agli occhi di Pitt prima come un piccolo puntino nero, poi come una figura non identificabile che si avvicina celermente.

Questa strana presenza è completamente coperta da una lunga tunica nera che arriva fino ai piedi, anche il viso è nascosto da un largo cappuccio che impedisce a Pitt di incrociare il suo sguardo: solo le mani sono libere da veli ma impegnate a sorregere uno strano attrezzo non ancora identificabile.

Come riconfortato Pitt inizia a muovere qualche passo verso l’inquietante figura gridando: “Ehi signore, da questa parte”.

Una volta arrivati l’uno di fronte all’altro un gelido brivido scorre lungo la schiena di Pitt quando capisce che il famoso attrezzo che da lontano non riusciva a distinguere è un falce, uno di quegli attrezzi usati una volta dai contadini, dotati da una lunga ed affilata lama a forma di mezza luna.

“Chi sei?” Sibila Pitt incapace di comprendere le effettive intenzioni del misterioso figuro. “Io sono” Queste le prime parole emesse da quella specie di fantasma con voce roca e

penetrante: “Io sono colei che tutto spiega e che nessuno può spiegare, sono il mistero che è al di là della vita, sono il sonno senza sonno, sono il pensiero che vola via, la grande consolatrice... IO SONO LA MORTE”.

Scandendo bene queste ultime parole, con un veloce movimento della mano destra si scopre il viso facendo ricadere il cappuccio sulle spalle e mostrando un volto orribile: pallidissimo, completamente disidratato con gli zigomi sporgenti e gli occhi incavati.

3 - “Credo di non aver capito bene” afferma Pitt comodamente seduto su una poltrona

dopo aver aspirato il fumo della sigaretta che teneva tra le dita, mentre la morte, dall’altra parte del piccolo tavolino che li divide, lo ascolta paziente.

“Vuoi dire” riprende Pitt “che io sono morto e che questo è l’aldilà?”. “Non proprio, questo non è il regno dei morti, ma IL CONFINE: un istante nello spazio e

nel tempo, al limite tra la vita e la morte prima del buio, un luogo o un non luogo molto difficile da raggiungere, e tu non sei morto, ma il tuo corpo è in ospedale che lotta tra la vita e la morte”.

Pitt ascolta queste parole in maniera distaccata, come se assecondasse tutto e tutti perché cosciente di vivere solo un sogno, uno strano sogno.

“E come sarei finito in ospedale?”. “Un incidente d’auto dovuto ad un malore improvviso causato dai funghi che hai

mangiato poco prima di recarti al lavoro; sulla provinciale hai sbandato e sei finito in testa coda contro il guardrail. La macchina che è sopraggiunta ti ha preso in pieno; sei arrivato in ospedale con l’elicottero e qui sei entrato in coma profondo”.

La sigaretta scivola dalle dita di Pitt irrigiditesi improvvisamente, non tanto per le cruente parole con cui la sua morte era stata descritta, ma per aver riconosciuto in quegli episodi gli ultimi ricordi prima di quell’assurdo sogno.

“Ritieniti un uomo fortunato, sei stato scelto da me per conoscere prima di morire la verità dell’esistenza umana, Io, la morte, unica compagna in ogni circostanza, ti accompagnerò lungo il labirinto che è la vita. Cos’è infatti al vita se non un immenso labirinto nel quale l’uomo, messo da me, il destino, sulla via principale cerca di destreggiarsi in modo da evitare le insidie che si nascondono dietro ogni angolo?

Ogni scelta che compi non è forse la strada di un bivio che intendi percorrere per raggiungere al più presto la meta prefissata; ogni persona che interagisce con te non è forse una differente strada che si unisce alla tua? Ebbene, l’insieme di tutte le decisioni prese, dei conseguenti rimpianti, dei desideri inappagati e di quelli esauditi rappresenta IL LABIRINTO”.

4 - L’oscura figura facendo perno sul bastone della falce riassume una posizione eretta e,

dopo aver rivolto una gelida occhiata all’indifeso uomo ancora stordito, inarca il braccio destro puntando il grande attrezzo verso il punto dell’orizzonte reso invisibile da un’assurda nebbia.

Come per un comando divino, anche se non so quanto di divino ci possa essere in quanto vi sto descrivendo, la folta nebbia si dirada e fa apparire una strana costruzione dai contorni non ben delineati e che sembra assumere col passar del tempo sempre più le caratteristiche di un castello medioevale.

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Pitt, sempre alle spalle del suo Virgilio, varca il maestoso portone di questa tenebrosa costruzione; misteriose figure di uomini senza volto e di labirinti stilizzati sono rappresentate in bassorilievo sulle colonne che costeggiano l’ingresso, mentre una grande iscrizione domina la parte superiore del portone.

Pitt sussurra le parole incise: “La vita... il labirinto di cui tutti noi cerchiamo il centro, seguendo il nostro destino, contro il nostro destino”; poiché la sua accompagnatrice non accenna nessuna spiegazione in proposito, chiede se allora è davvero già tutto scritto e che quindi il destino è padrone delle nostre vite, o se noi siamo gli unici artefici della nostra esistenza.

“Il destino” riprende la morte “esiste”, niente è ancora scritto, noi con le nostre scelte mutiamo la nostra vita, ma a volte il destino si permette di intervenire ed allora contro le sue decisioni niente ci è concesso.

Come risollevato Pitt si avvia verso il corridoio principale completamente immerso nelle tenebre: come per magia le candele poste sui muri adiacenti iniziano ad accendersi una ad una svelando agli occhi del visitatore la fisionomia del palazzo.

Il rosso del tappeto si intona perfettamente con il colore delle candele che sono sorrette da piccoli e raffinati candelabri in argento, mentre la luce emanata dona quel tocco di mistero che contribuisce a rendere la visione più reale.

Dopo aver percorso l’intero corridoio ed aver aperto l’unica porta, varca con sicurezza l’uscio pronto ad immagazzinare, pieno di curiosità, tutte le immagini che gli sarebbero state mostrate.

Scostate le pesanti tende in stoffa che coprono la sua visuale, osserva la grande stanza piena di posti a sedere completamente occupata da genitori e ragazzini di quattordici anni, mentre alla sua sinistra quattro persone parlano al pubblico comodamente sedute dietro una scrivania che domina “la piazza” poiché posta su di un palco.

Una di queste ha in mano un microfono ed elenca gruppi, ognuno dei quali contrassegnato da una lettera dell’alfabeto, di circa venticinque persone.

Pitt riconosce quasi subito l’auditorium della sua scuola e, scavando nei suoi ricordi, rivede in quella scena il sorteggio delle classi al quale assistette dopo essersi iscritto al primo anno del liceo.

“Perché?!” interrompe Pitt a gran voce. Uno dei ragazzini seduti in prima fila si alza in piedi “Ti sei mai chiesto il valore che

hanno avuto durante il corso della tua vita i tuoi compagni di liceo? Riesci a ricordare tutti gli episodi vissuti con loro, la sorpresa nello scoprire che il legame che c’era tra voi non esisteva in nessun’altra classe e che gli altri vi invidiavano per la compattezza di cui il vostro gruppo era dotato? Sei sicuro che se il destino non vi avesse fatto conoscere e non vi avesse riuniti nella stessa classe la tua vita sarebbe stata la stessa?”.

Dopo queste parole il buio torna a regnare sovrano, mentre Pitt, nel aver riconosciuto in quel bambino uno dei suoi più grandi amici, rivive con la mente tutti gli episodi più importanti della sua vita, rendendosi conto che sempre quei suoi amici gli sono stati vicini.

Come se ne era andata, la luce torna a scacciare le tenebre e un corridoio identico al precedente si apre di fronte ad uno scosso Pitt.

“Quello” afferma la morte “è stato un esempio di come il destino ti abbia indirizzato verso uno dei tanti sentieri; in questo caso sei stato molto fortunato, prova per un istante a pensare cosa sarebbe accaduto se in un’altra sezione i tuoi compagni fossero state persone per nulla interessanti, egoiste o se tu non fossi riuscito a stringere un legame più forte di quello che lega i comuni compagni di classe!”.

Pitt si rende conto di questo importante episodio della sua giovinezza e, annuendo, ricomincia a camminare.

5 - La porta si richiude, e nel voltarsi Pitt riconobbe casa sua, o meglio la casa nella quale

aveva vissuto fino all’età di ventisei anni. La cucina è arredata come all’epoca e lui poco più che diciasettenne suo padre e sua

madre sono seduti a quel tavolo dove per anni avevano cenato insieme, in procinto di compilare il modulo per l’iscrizione all’università.

“Ricordo perfettamente quel giorno” afferma con stupore Pitt “ero indeciso tra due facoltà: Economia e commercio spinto dalla prospettiva di una ricca carriera, e Medicina con

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l’intenzione di fare ciò che fin da piccolo mi aveva affascinato, il ricercatore. Scelsi economia, non so perché, forse perché offriva maggior impiego”.

“Già” riprende quel ragazzino seduto al tavolo “se avessimo fatto ciò che realmente volevamo ora saremmo un dottore pienamente soddisfatto del proprio lavoro, una di quelle poche persone che ha intrapreso gli studi desiderati ed è riuscita ad inserirsi con successo nel mondo del lavoro”.

Di nuovo buio. Pitt è sul punto di scoppiare a piangere quando si rende conto di quanto i pensieri della

gente, i desideri delle persone che gli stavano intorno hanno influenzato le sue scelte e la sua vita.

Ancora luce. Durante questo viaggio Pitt rivive molti altri episodi della sua vita, rendendosi conto degli

sbagli compiuti, delle giuste decisioni prese e di quanto il fato abbia interferito nel suo cammino.

6 - “Questa” incomincia la morte dopo che le candele si riaccendono “è l’ultima stanza che

visiterai, l’ultimo episodio, quello che ha segnato in maniera più netta la tua vita. Dietro quella porta rivedrai il principio della tua fine, il momento in cui hai mangiato i

funghi che ti hanno provocato quel malore che alla fine risulterà letale; vedrai che se avessi mangiato qualsiasi altra cosa saresti ancora vivo”.

“Ci sarà pure una via d’uscita” inizia ad urlare Pitt colto da un improvviso panico dovuto all’impotenza di fronte alla morte “E’ una morte troppo stupida per essere vera, non posso morire così!”.

“Non esiste il destino” ricomincia Pitt mentre un’esasperata risata segna il suo viso “Il mio destino me lo creo da solo, io sono l’unico artefice delle scelte della mia vita”.

Pieno di disperazione si inginocchia e con voce supplichevole sussurra “Ti prego, tu sei la padrona qui, permettimi di tornare indietro, non farmi morire”.

“Lo sai che sarebbe inutile” riprende lei “nulla si può fare contro ciò che è già scritto, e niente posso fare io contro il destino; comunque puoi vantarti di essermi quasi riuscita a commuovere”.

“Non mi interessa niente di te” urla Pitt pieno di disperazione “io voglio vivere!” e così dicendo si avvia di corsa verso quell’unica porta col solo intento di buttarla giù con una spallata.

La porta cede, poi il buio, urla, disperazione. 7 - “Allora Pitt” ripete intensamente Linda “Li vuoi o no i funghi?”. L’uomo scuote improvvisamente la testa come ridestandosi da un sogno ad occhi aperti,

una goccia di sudore scivola lungo la tempia destra e poi sul collo. Superato lo smarrimento iniziale Pitt mette a fuoco la situazione: riconosce casa sua, sua

moglie Linda, la sua cucina ed il suo pranzo, mentre il labirinto, la morte ed il confine sono ormai lontani nella sua mente.

“Sai cara” dice “Ho fatto uno strano sogno ed occhi aperti: c’era una strana figura incappucciata che diceva che ero morto per aver mangiato i funghi, così in uno strano modo mi faceva rivivere gli episodi fondamentali della mia vita.”

“Che buffo sogno, tesoro” “Già, sogno veramente cose senza senso” afferma Pitt col sorriso sulle labbra prima di

portare alla bocca la prima forchettata di quei fantastici funghi. LA VITA... IL LABIRINTO DI CUI NOI TUTTI CERCHIAMO IL CENTRO, SEGUENDO IL

NOSTRO DESTINO, CONTRO IL NOSTRO DESTINO.

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“LA DOMANDA E’ SEMPLICE”

di Rossana Currà - 4aE

La domanda è semplice. La risposta al contrario è complessa. O forse no.

Forse l’impresa più ardua è trovare la domanda giusta. La nostra. Perché

-“Come stai?”- non può essere il fulcro attorno a cui

ruotano le parole. Avrebbero mille inizi e non una

-non una- fine.

E’ quello che si cerca poi, una fine, quello che raramente si spera di trovare. La fine della risposta, della domanda ultima.

Della vita.

Vorrei un inizio, un indizio per sapere qual è la strada da percorrere. Non quella giusta, quella più bella.

L’inizio della verità. Guardo

Guardo negli occhi le gioie tentatrici.

Un bambino, un desiderio, un amore, un dio.

O luna, compagna del cielo stellato. Sei il sogno di amanti, filosofi e folli.

Sei custode dei miei dolci segreti. Quelli che neppure io rivedrò mai più. Quelli che, intravista

la luce orale -oratrice- fuggono. Senza rinchiudere la porta. Senza dire addio.

Essi hanno visto. Hanno trovato l’uscita dal labirinto dei miei pensieri. Ed ora sono in te. O luna.

Se questo è il premio -un tuo bacio-l’incanto-

chi non vorrebbe arrivare? E rimanere in sospeso sulla vita senza sapere dove sta, realmente.

In un bambino. In un desiderio. In un amore. In un dio.

“QUESTA NOSTRA ESISTENZA”

Questa nostra esistenza è intreccio di fili, incrocio di vie prima straniere.

E’ scoprire che si cambia, si sbaglia, si soffre

Non è nostra, è... E’ del mondo cui apparteniamo. E’ delle altre vie. E’ dei fili legati.

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Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

“I MIEI LABIRINTI”

di Loredana Lunadei - 5aG

VORREI CHE IL VESTITO DI VITA CHE MI RICOPRE MI VENISSE

STRAPPATO E DISTRUTTO E BRUCIATO E BUTTATO NEL VENTO.

VORREI RIMANERE IMPIGLIATA FRA I TUOI RESPIRI E

SCAVARE NELL’ARIDA TERRA CHE RICOPRE IL TUO CUORE VORREI SEMINARE ME IN TE,

AFFONDARE LE RADICI DEL MIO SEME NEL TUO VENTRE,

CRESCERE DENTRO IL TUO CORPO E, ATTRAVERSO I TUOI OCCHI,

RAGGIUNGERE LUOGHI DA CUI NIENTE E’ IRRAGGIUNGIBILE.

VORREI TI NUTRISSI DEI MIEI FRUTTI, GODESSI DEI MIEI FIORI,

SUCCHIASSI LA MIA LINFA. VORREI TI ARRAMPICASSI SU DI ME

ESPLORANDO OGNI PIU’ PICCOLO RAMO DEL MIO FUSTO,

FINO A SCOPRIRNE LA FRAGILE CIME E VORREI TE NE PRENDESSI CURA

COME FOSSE LA TUA ANIMA -Il labirinto del cuore-

TAM, TAM, TAM... TI VEDO, CI SEI.

TI GUARDO, NON CI SEI PIU’. TAM, TAM, TAM...

TI CERCO, NON TI TOCCO. MI FERMO, MI RAVVOLGI.

TAM, TAM, TAM... IN TUTTO, TI RITROVO.

NULLA, TU SEI.

AMICO DI TEMPI PASSATI, COMPAGNO DI GIOCHI PERDUTI,

MI HAI PORTATO PER VALLI INCANTATE,

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MI HAI STRETTO IN UN BRACCIO D’AMORE.

FLUIDO VITALE DI ALBERI E FIORI, NETTARE DOLCE DI API E ANIMALI, IN TE HAI ACCOLTO IL MIO MONDO,

IN TE HAI CINTO OGNI SPAZIO.

TRAMONTATA ORMAI E’ L’ESTATE. CON RAPIDO PASSO SOPRAGGIUNGE

L’AUTUNNO, IL FREDDO DELL’OBLIO MI TRAVOLGE E MI RITROVO SOLA SU DI UN LETTO DI FOGLIE.

CON LA TUA PIOGGIA DISSETI I MIEI

FRUTTI, MA NE HAI INGRIGITO I VIVACI COLORI, CON LA TUA NEBBIA INCANTI OGNI

LUOGO, IN CUI IL TEMPO SEMBRA ESSERSI FERMATO.

ASPETTERO’ CHE RITORNI IL SERENO, DA SEMPRE NASCOSTO IN OGNI MOMENTO.

CERCHERO’ IL CALORE DEI TUOI RAGGI, CHE DA SEMPRE MI RISCHIARA CON DOLCI BACI.

TROVERO’ ANCORA IN ME LA SPENSIERATA BAMBINA

IMPRIGIONATA NELLA TELA DEI RICORDI, TROVERO’ ANCORA IN ME LA NASCOSTA ESSENZA

CHE RAPISCI ALLE CREATURE QUANDO SMETTONO DI GIOCARE. -Il labirinto del tempo-

MI HAI CRESCIUTO AL DORATO CALORE DEI TUOI OCCHI LUCENTI

E MI HAI AVVOLTO NEL ROSSO COLORE DELLE TUA LABBRA RIDENTI.

IN TE HO CAMMINATO SU SALITE SCOSCESE,

IN TE HO AFFONDATO LE MIE MANI PROTESE., SEMPRE SEI STATA IN OGNI MIO VIAGGIO,

SEMPRE SEI STATA ACCOGLIENTE MIRAGGIO.

COME UNA RONDINE CHE IMPARA A VOLARE DA SEMPRE SAPEVI CHE TI DOVEVO LASCIARE,

MA CON IL TUO AMORE, ETERNO E VICINO, SEI STATA OMBRA PERPETUA SUL MIO CAMMINO.

CAPELLI DI NEVE CIRCONDANO IL TUO VISO

E ANCORA MI ABBRACCI CON TENERO SORRISO, NEL TUO SGUARDO ORMAI SI LEGGE IL TEMPO,

MA TU SEI ANCORA FORTE PER DONDOLARMI SUL TUO GREMBO.

GUARDAMI! MI VEDI? SO VOLARE, MA SEMPRE RITORNO NEL TUO LIMPIDO MARE,

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DOVE OGNI VOLTA MI PIACE NUOTARE.

GRAZIE PERCHE’, COME UN CIELO STELLATO, NON MI HAI MAI ABBANDONATO

ED ETERNAMENTE LA MIA VITA HAI RISCHIARATO. -Il labirinto della madre-

SPECCHI, SPECCHI DEI DESIDERI, DIMMI, DOV’E’ LA RAGAZZA DI IERI?

URLANDO, GRIDANDO, STRAPPANDO BRANDELLI DI VUOTO NON MI RIMANE CHE IL SOLITO GIOCO.

SCAPPO, FUGGO DA QUESTO GROVIGLIO, MA TORNO SEMPRE AL MIO TRISTE GIACIGLIO.

VORREI TROVARE IN ME LA FORZA PER CONOSCERE QUALE COLPA

ORIGINA L’IMMOBILE DANZA CHE ALIMENTA LA MIA FOLLE ANSIA.

VORREI SCOPRIRE QUEL MISTERO IN CUI ANNEGA OGNI MIO PENSIERO, PER FERMARE UN MARE CHE AVANZA

BRUCIANDO LA MIA ESSENZA. STAGIONI E STAGIONI SONO PASSATE,

MA SOLO SU FREDDI E TEMPESTOSI INVERNI SI SON SOFFERMATE. NON HO MAI CAPITO

COS’E’ CHE SI E’ SPEZZATO, NON HO MAI VISTO COS’E’ CHE SI E’ SMARRITO,

MA DA QUEL GIORNO PASSATO, IO,

LOTTO CON IL MIO PECCATO, E CON L’IMMAGINE

CHE NON MI HA MAI LASCIATO. -Il labirinto del corpo-