Libri 10

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Bohumil Hrabal LA CITTADINA DOVE IL TEMPO SI E FERMATO Traduzione dal ceco e postfazione di Annalisa Cosentino. Titolo originale: Mestecko, kde se zastavil cas . Copyright 1978 by Bohumil Hrabal. Copyright 1992 by Edizioni e/o, Roma. Prima edizione Tascabili e/o novembre 1994. Prima ristampa Tascabili e/o febbraio 1996. Su concessione edizioni e/o. 1. Tornando da scuola mi piaceva fare un salto alla banchina dove stavano i barconi con la sabbia, le barche da cui uscivano delle passerelle che i renaioli percor revano trasportando con le carriole la sabbia bagnata tolta da enormi mucchi, co n le pale la caricavano con leggerezza, sembrava che sollevassero una lieve nuvo la friabile, che brillava al sole, perché ogni piccola pepita di sabbia giocava co n i colori dell arcobaleno. Una volta chiesi di poter riempire una carriola con la sabbia che era venuta giù dalle montagne e, se non fosse stata dragata, l Elba l avre bbe certo sospinta fino ad Amburgo e poi al mare, ma, quando feci per alzare la pala, pensai dapprima di essermi incastrato nella parete della barca, dovetti af fondare nuovamente la pala bagnata nella montagna di sabbia e poi, a fatica, len tamente, come se la stessi estraendo dal catrame o dalla gomma arabica, sollevai la pala sopra la passerella, ma a portarla fino alla carriola non ci riuscii, m i cadde di mano e i renaioli ridevano e io guardavo i loro toraci nudi, ogni ren aiolo aveva àncore e signorine tatuate sulle braccia, e uno di loro mi affascinò, su l petto aveva tatuata una barchetta, una piccola barca a vela, la guardavo e mi si riempirono gli occhi di lacrime, non è che piangessi, avevo capito, avevo cosci enza del fatto che dovevo farmi tatuare anch io una barchetta così sul petto, che se nza una barchetta come quella non potevo vivere, che quella barchetta doveva dar e calore, che era l emblema dell anima, e che anch io l avrei avuta. Quella barchetta lì s i può lavare?, faccio. Ma il renaiolo sollevava con leggerezza palate di dieci chi li e le lanciava nella carriola, ora aveva lanciato l ultima palata bagnata ed era salito con un salto sulla passerella, scagliò la pala vuota lucente con tanta abi lità che andò a infiggersi nel mucchio di sabbia, quando si chinò potei quasi toccare la barchetta sul suo petto, lui correva allegro sulla passerella con i piedi nud i che spuntavano dai calzoni blu da lavoro, doveva prendere lo slancio per arriv are in cima dove finiva la passerella, là rovesciò la carriola e con la carriola vuo ta tornò indietro di corsa, si sedette sulla passerella accanto a me, accese una s igaretta e aspirò il fumo nei polmoni con tanta forza che la sigaretta quasi prese fuoco, tanto la brace bruciò, e io guardavo la barchetta sul petto del renaiolo s ollevarsi mentre lui aspirava una lunga boccata, la barchetta quasi si muoveva, si faceva più grande, come se a vele spiegate si stesse avvicinando all attracco e po i il renaiolo mandò fuori il fumo e la barchetta si rimpiccioliva, si faceva più pic cola, come se stesse prendendo il largo, certo così sulle onde di continuo si alza va e si abbassava, come al ritmo del suo cuore, come col suo sangue pompato dal lavoro. «Ti piace proprio tanto?» si stupì il renaiolo quando vide le mie lacrime. «Sì» facc io io, «vorrei averla anch io, quanto costa una barchetta come questa?». E il renaiolo si girò, mostrandomi una sirena che aveva tatuata sul braccio, e disse: «Per una bo ttiglia di rum me l hanno tatuata ad Amburgo». «Ma allora quella barchetta si fa solo ad Amburgo?» chiesi sgomento, ma il renaiolo rise e scosse la testa e insieme al f umo emise parole consolanti, disse che l àncora e il cuore trafitto glieli aveva tat uati Lojza, che di solito sta alla birreria Sotto il ponte, per un bicchierino d i rum. «E la tatuerebbe anche a me?». Il renaiolo balzò in piedi, si tirò su i calzoni c he gli scendevano, si tolse il berretto e disse: «Sì, anche a te», e asciugò il sudore d

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Bohumil Hrabal

LA CITTADINA DOVE IL TEMPO SI E� FERMATO

Traduzione dal ceco e postfazione di Annalisa Cosentino. Titolo originale: �Mestecko, kde se zastavil cas�. Copyright 1978 by Bohumil Hrabal. Copyright 1992 by Edizioni e/o, Roma. Prima edizione Tascabili e/o novembre 1994. Prima ristampa Tascabili e/o febbraio 1996. Su concessione edizioni e/o.

1. Tornando da scuola mi piaceva fare un salto alla banchina dove stavano i barconi con la sabbia, le barche da cui uscivano delle passerelle che i renaioli percorrevano trasportando con le carriole la sabbia bagnata tolta da enormi mucchi, con le pale la caricavano con leggerezza, sembrava che sollevassero una lieve nuvola friabile, che brillava al sole, perché ogni piccola pepita di sabbia giocava con i colori dell�arcobaleno. Una volta chiesi di poter riempire una carriola con la sabbia che era venuta giù dalle montagne e, se non fosse stata dragata, l�Elba l�avrebbe certo sospinta fino ad Amburgo e poi al mare, ma, quando feci per alzare la pala, pensai dapprima di essermi incastrato nella parete della barca, dovetti affondare nuovamente la pala bagnata nella montagna di sabbia e poi, a fatica, lentamente, come se la stessi estraendo dal catrame o dalla gomma arabica, sollevai la pala sopra la passerella, ma a portarla fino alla carriola non ci riuscii, mi cadde di mano e i renaioli ridevano e io guardavo i loro toraci nudi, ogni renaiolo aveva àncore e signorine tatuate sulle braccia, e uno di loro mi affascinò, sul petto aveva tatuata una barchetta, una piccola barca a vela, la guardavo e mi si riempirono gli occhi di lacrime, non è che piangessi, avevo capito, avevo coscienza del fatto che dovevo farmi tatuare anch�io una barchetta così sul petto, che senza una barchetta come quella non potevo vivere, che quella barchetta doveva dare calore, che era l�emblema dell�anima, e che anch�io l�avrei avuta. Quella barchetta lì si può lavare?, faccio. Ma il renaiolo sollevava con leggerezza palate di dieci chili e le lanciava nella carriola, ora aveva lanciato l�ultima palata bagnata ed era salito con un salto sulla passerella, scagliò la pala vuota lucente con tanta abilità che andò a infiggersi nel mucchio di sabbia, quando si chinò potei quasi toccare la barchetta sul suo petto, lui correva allegro sulla passerella con i piedi nudi che spuntavano dai calzoni blu da lavoro, doveva prendere lo slancio per arrivare in cima dove finiva la passerella, là rovesciò la carriola e con la carriola vuota tornò indietro di corsa, si sedette sulla passerella accanto a me, accese una sigaretta e aspirò il fumo nei polmoni con tanta forza che la sigaretta quasi prese fuoco, tanto la brace bruciò, e io guardavo la barchetta sul petto del renaiolo sollevarsi mentre lui aspirava una lunga boccata, la barchetta quasi si muoveva, si faceva più grande, come se a vele spiegate si stesse avvicinando all�attracco� e poi il renaiolo mandò fuori il fumo e la barchetta si rimpiccioliva, si faceva più piccola, come se stesse prendendo il largo, certo così sulle onde di continuo si alzava e si abbassava, come al ritmo del suo cuore, come col suo sangue pompato dal lavoro. «Ti piace proprio tanto?» si stupì il renaiolo quando vide le mie lacrime. «Sì» faccio io, «vorrei averla anch�io, quanto costa una barchetta come questa?». E il renaiolo si girò, mostrandomi una sirena che aveva tatuata sul braccio, e disse: «Per una bottiglia di rum me l�hanno tatuata ad Amburgo». «Ma allora quella barchetta si fa solo ad Amburgo?» chiesi sgomento, ma il renaiolo rise e scosse la testa e insieme al fumo emise parole consolanti, disse che l�àncora e il cuore trafitto glieli aveva tatuati Lojza, che di solito sta alla birreria Sotto il ponte, per un bicchierino di rum. «E la tatuerebbe anche a me?». Il renaiolo balzò in piedi, si tirò su i calzoni che gli scendevano, si tolse il berretto e disse: «Sì, anche a te», e asciugò il sudore d

al berretto e io mi spaventai, il renaiolo era abbronzato come un indiano o la pubblicità di una crema abbronzante, ma, dato che portava sempre il berretto per il sole, aveva la fronte bianca, un cerchietto la separava dal resto del corpo, aveva la fronte bianca come l�aureola che portavano i martiri nella Cattedrale, una fronte che irradiava da tutte le parti, era come se la fronte del renaiolo fosse uno specchio concavo e riflettesse il sole verso tutti i punti cardinali. E io corsi via, con le mani mi reggevo alle cinghie della cartella con i libri, nella tela cerata blu della mia cartella era stampata una nave, correvo, il berretto da marinaio con il bordo nero e il doppio nastro dietro sobbalzava e il collo della giacca alla marinara era scappato fuori dalle cinghie della borsa con i libri e i quaderni e svolazzava dietro di me, e il nastro nero a zigzag, al ritmo della corsa, dondolava di qua e di là come la campanella di una nave, come una boa, e io sapevo che presto avrei avuto anche una barchetta indelebile, tatuata sul petto, una barca a cui sarei stato fedele, perché ormai non avrei più potuto essere altro che un marinaio. Il signor parroco Spurny a cui servivo la santa messa, fu il primo a cui volli confidare il mio desiderio di avere una barchetta tatuata sul petto, perché lui pure, a dimostrazione della sua ubbidienza a Dio, si era fatto tagliar e i capelli, si era fatto radere un tondo sulla sommità della testa. E poi il signor parroco Spurny era una persona meravigliosa, parlava sempre quel suo dialetto della Slesia, secondo il signor parroco anche Dio parlava il dialetto slesiano, perché il nostro parroco parlava sempre con Dio, almeno così tuonava dal pulpito, la domenica diceva: «Spurny Spurny, buffalo pelato, io t�ho affidato delle pecorelle pure e tu conduci a me in cielo �sti porci briaconi�». Un parroco così, mi dissi, se parla in questo modo sicuramente mi benedirà quando mi inginocchierò davanti a lui con la cotta da chierichetto, giungerò le mani e chinerò il capo e gli dirò della barchetta pura. Ma il signor parroco aveva fretta, si tolse il piviale, bevve del vermut, il signor parroco non beveva altro che vermut, anche quando andavamo a somministrare l�estrema unzione nel cestino accanto all�olio santo e alla patena dovevo portare con me una bottiglia di vermut� quindi il signor parroco se ne andò e io mi tolsi la cotta e, inginocchiato davanti al tabernacolo, guardavo il Cristo dorato che spuntava dai fiori di peonia e di viburno e all�improvviso mi accorsi che anche lui aveva un cuore tatuato sul petto, un cuore circondato da una ghirlanda pungente di spine di rose selvatiche� E allora, mentre svuotavo le cassette con le elemosine per le riparazioni della chiesa, prima presi cinque corone, poi le restituii, ma poi le presi in prestito definitivamente, con la ferma convinzione che le avrei rimesse a posto, dissi anche al Cristo dorato in sagrestia: «Sull�anima mia e parola d�onore, le prendo solo in prestito�», e le mostrai a Gesù, perché vedesse che non stavo prendendo di più. Io ci parlavo spesso con Cristo, perché con Dio non ne avevo il coraggio, soprattutto da quando il contadino Farda, di cui si diceva che per notti intere litigava e gridava con Dio e Dio con lui, dunque questo contadino trasportava l�ultimo carico di fieno e io stavo proprio tornando da scuola e si avvicinava un temporale, Farda frustava il cavallo per riporre il fieno secco in solaio prima che si mettesse a piovere, allora sotto il ponte cominciarono a cadere dei goccioloni e poi scoppiò un acquazzone e venne giù un diluvio, e il contadino Farda prendeva manciate di fieno bagnato e le lanciava per aria, verso i cieli, e gridava a Dio: «To�, ingozzati!». E Dio rispose con un lampo che spaccò in due il pioppo sull�argine, e i cavalli tremavano e io pure tremavo e i clienti dell�osteria Sotto il ponte, che guardavano da sotto la gronda, caddero in ginocchio, non davanti a Dio, il profumo del fulmine aveva fatto perdere loro conoscenza, perché il fulmine a palla correva lungo la strada sulla ringhiera del ponte come un gatto fiammeggiante. Oggi all�osteria Sotto il ponte c�era allegria. «Ma che bel marinaretto!» esclamò il signor Lojza quando fui davanti a lui con la giacca alla marinara e il berretto bianco da marinaio con il doppio nastro nero che dietro scendeva incrociato. «Fa� vedere» disse il signor Lojza, e prese il mio berretto e lesse la scritta «Hamburg-Bremen» e se lo mise in testa e io ero felice e ridevo ed ero contento perché il signor Lojza era così caro con me. E il signor Lojza si era messo il berretto e faceva delle facce così terribili che io ridevo e poi urlavo ridendo di cuore come l�intera tavolata, e mi misi in testa che quando sarei stato grande avrei considerato un onore stare anch�io in birreria con l�allegra gente del fiume. E poi al signor Lojza mancavano i denti e allora aveva messo il labbro inferiore

sopra a quello superiore, in modo che col labbro di sotto si copriva anche la punta del naso, e andava in giro così, e il suo tavolo di renaioli applaudiva, e qualcuno ordinò birra per tutti e, per di più, anche un giro di cognac. Se c�è tanta allegria qui Sotto il ponte vicino al fiume, mi dissi, figuriamoci quanta allegria c�è e quanta ce ne sarà quando sarò marinaio niente di meno che ad Amburgo. E dissi: «Signor Lojza, questi sono per lei da parte mia per un rum come si deve!». E il signor Lojza mi piazzò il berretto in modo buffo sulle sopracciglia e, quando guardai verso l�alto, feci gli occhi strabici fissando il bordo del berretto, e intanto davo al signor Lojza le cinque corone. «Dove hai preso questi soldi?» disse diffidente il signor Lojza. «Li ho presi in prestito dal Signore Iddio» dissi e annuii e il berretto mi scese sugli occhi, lo soffiai verso l�alto e l�intera tavolata si mise a ridere e il signor Lojza disse: «Allora hai parlato con lui?». E tutti tacquero. «No» dico, «ma me li ha prestati suo figlio, il Signore Gesù in persona» dissi, e aggiunsi: «Ma, signor Alois, me li ha prestati perché lei mi tatuasse una bella barchetta, come quella che ha tatuato a quel signore laggiù, al signor�» «Korecky» disse il renaiolo. «Sì» dico, «alnor Korecky». «Be�, allora, se te l�ha ordinato il Signore Gesù in persona, vorrà dire che lo faremo. E quando, poi?». «Adesso, subito!» faccio io. «Cristo» disse il signor Lojza, «ma io non ho con me gli aghi per tatuare, né il colore». «Allora vada a prenderli» dissi e il signor Alois corse via, così com�era, in camicia, e i clienti del locale si misero a farmi domande sul signor parroco, se aveva sempre due cuoche o se adesso erano tre. E io, per mantenere tutta la tavolata in umore da tatuaggio, dissi: «Ma cosa dite, macché tre! Due, ma sono giovani giovani�», e la tavolata Sotto il ponte vicino al fiume strepitava entusiasta e ripeteva dopo di me, come nelle litanie: «Tutte e due sono giovani giovani». «Sì» dissi, «e quando il signor parroco è di buon umore la cuoca si siede su una sedia, lui si china, prende la sedia per una gamba, e hop! E solleva verso il soffitto la bella cuoca e le gonne gli sventolano intorno al volto�». «Ooh!» gridava la birreria Sotto il ponte, «e le gonne gli sventolano intorno al volto�». «Sì, e le solleva così una dopo l�altra, e anche noi chierichetti, perché ha una forza enorme, sapete, sono sette fratelli e il loro papà era un tale gigante che quando schiacciavano le noci il papà del signor parroco metteva la mano sul tavolo e i bambini gli sollevavano un dito e ci mettevano sotto una noce e lasciavano andare il dito e crack! La noce andava in frantumi!». E gli avventori gridavano: «Oooh! e crack! E la noce andava in frantumi!». «Sì, signori, ma erano così poveri che quando tutti si erano seduti a tavola la mamma metteva davanti a quei sette colossi una scodella con le patate, tutti tenevano i cucchiai pronti� e la mamma metteva sul piano del tavolo la mano con le dita divaricate e picchiettava con le unghie sul tavolo e tutti i cucchiai si lanciavano sul cibo, e chi non si sbrigava aveva già finito di cenare, ma il signor parroco era il più debole della famiglia, allora si son detti -che cosa gli facciamo fare? Se fa il mugnaio quattro sacchi non li solleva, ne alza solo due di sacchi di farina da ottanta chili, allora lo mandiamo a fare il prete�». Ed entrò il signor Lojza portando con sé una valigetta, come quella che portano il barbiere Slavícek oppure il castraporci Salvet, e il signor Lojza chiuse la porta della mescita e mi fece un cenno e io mi tolsi la giacchetta alla marinara facendola passare per la testa e quando fui nuovamente alla luce il signor Lojza disse: «Ma, figliolo, io non so che tipo di barchetta desideri, un vascello? O un battello? O una iole? Un vascello a tre alberi, o un brigantino, oppure vuoi un piroscafo?». «Lei sa fare tutte le navi di tutti i tipi?» faccio io. Il signor Lojza annuì e all�improvviso smise di essere ubriaco, aveva un�aria solenne, fece un cenno e il renaiolo seduto sull�angolo della panca, non quello con cui avevo parlato ma quello che faceva il trasportatore con il cappello, si tolse il cappello per sfilarsi la camicia e il suo mezzo cranio brillò violentemente nel locale e dalla sua fronte la luce splendeva come da un faro bianco schermato per metà. E il suo corpo abbronzato entrò nella luce che pioveva dall�alto e non c�era un solo punto che non fosse coperto di sirene e àncore e cuori e iniziali e navi e scene di due persone nude e donne nude, io arrossii e il renaiolo si girò e sulla sua schiena scelsi una semplicissima barchetta da pescatori, come quelle che disegnano i bambini piccoli: «Mi tatui quella!» gli faccio. E il signor Lojza mi depose sui giornali stesi. «Farà male?» chiesi e mi sdraiai sulla schiena e fui completamente accecato dalla lampadina. «Non farà male, pungerà solo un pochino� allora una barchetta?». «Una barchetta» sussurrai, e quasi mi addormentavo beatamente, e poi sentii le punture leggere

dell�ago, poi mi sentii bagnare con uno straccetto freddo o col cotone e i clienti del locale erano intorno a me e io stavo sdraiato al centro come la pallina che corre nella roulette in mezzo ai giocatori� e sentivo: «Quella ci avrà proprio una bella chiglia� e fagliene due di vele�. e una barca come si deve ha fianchi come si deve�. e un canaletto profondo e un timone�». E il signor Lojza mi sussurrava: «Non respirare, respira solo col naso�». E così giacevo sulla schiena, le punture regolari dell�ago per tatuare mi svegliavano ma nelle pause dormivo beatamente. Poi il signor Lojza mi sussurrò che la barchetta era pronta, mi alzai, stavo seduto sul tavolo, tutt�intorno a me non vedevo altro che boccali da mezzo litro e gli avventori brindavano alla mia, appoggiai il mento sul petto per guardare la barchetta, ma tutti i bicchieri brindando si scontrarono con la mia testa e tutti ridevano, e il signor Lojza mi tirò giù la camicia e poi anche la giacchetta e io mi ricordai che abitavo all�altro capo della città, che da casa ero lontano, così mi inchinai al signor Lojza e lui mi diede la mano e tutta la compagnia brindò alla mia salute cantando: «Evviva, evviiva, evviiivaa�», e io in piedi facevo il saluto portando la mano al berretto da marinaio e poi corsi via nella sera. Correndo sul ponte mi ritrovai in una bufera, dai lampioni cadevano sul selciato del ponte e del marciapiede migliaia di effimere, si scivolava come quando è ghiacciato, ma le luci delle lampade sui pilastri splendevano senza pietà e dal fiume si alzavano in volo verso la luce turbini di effimere, dal nero del fiume si alzavano bianche farfalle alate, coleotteri con le ali, perché la luce che li attirava dal fiume li sbattesse poi sui marciapiedi e sulla carreggiata, dove le gomme delle auto slittavano e la gente cadeva come sul ghiaccio a S. Silvestro. Appoggiai una mano sul petto, respiravo e sentivo che anche la barchetta si sollevava, come sul mare, e in quel momento non desideravo altro che mostrare la barchetta al signor parroco e alle sue due cuoche, mi allontanai dai lampioni affondando fino alle ginocchia nelle farfalle agonizzanti, raccogliendole nel palmo della mano sentivo che si muovevano, ma perdevano calore e si raffreddavano come il fiume serale, dal cui fondo senza sosta saliva una nuova tormenta di effimere, sempre più forte, scivolai, caddi e gridai: «Mi sono rotto la barchetta!». Ma la barchetta non era di carta, né di fil di ferro, né di legnetti, era ancorata solidamente in me e su di me, solo con un coltello sarebbe stato possibile tagliarla via, proprio come dal mio cuore, in cui mi ero promesso alle barchette e alle navi e ai vascelli. Silenziosamente aprii il cancello chiuso, dovetti infilare tutto il braccio per arrivare al paletto dall�altra parte, silenziosamente scivolai nel cortile della canonica, dalle due finestre della canonica si spandeva la luce e dal fiume volavano fin lì le effimere, si agitavano nelle finestre creando una tappezzeria, una sorta di disegno ornato di bianche lacrime in movimento, la vite si avvinghiava alle ringhiere e alle pergole salendo fino al tetto, e i viticci si allungavano verso la luce, nella finestra, come nei volti delle giovani cuoche le ciocche dei capelli che si liberavano e loro continuamente se li infilavano ora dietro l�orecchio, ora sotto la cuffia. Chissà cosa starà facendo il signor parroco, mi dissi, non volevo sorprenderlo, forse sta di nuovo sollevando le cuoche sulla sedia e le trasporta e loro disegnano coi capelli sulle travi del soffitto e strillano e dimenano i piedini nelle scarpe nere, e allora come su per una scala salii per i pioli e le assicelle delle ringhiere, facendomi strada tra i germogli della vite, finché arrivai a guardare all�interno della canonica e lì vidi un�immagine che mi entusiasmò, non avrei mai detto che il signor parroco avesse tanta forza, all�inizio pensai che il signor parroco avrebbe fatto l�elevazione delle cuoche, che le avrebbe legate alla vita con la stola, si inginocchiò davanti a loro e con cura legò l�una all�altra alla vita le sue cuochine, le legava con un lungo asciugamano, e le cuoche sapevano quanto me cosa sarebbe stato di loro, perché la sedia era piuttosto distante� E il signor parroco dapprima sollevò le ragazze, tutte e due in una volta, non arrivavano a toccare terra e penzolavano come manichini e le loro fronti si scontravano, quelle si scansavano e ridevano e scoprivano il viso del signor parroco, che sollevandole le annusava all�altezza del ventre, le annusava addirittura un po� più in basso� poi le mise giù e si mise a ridere, di quella sua risata gioiosa, che faceva rizzare i capelli in testa ai buoni cristiani, come diceva il contadino Farda, poi si inginocchiò davanti alle ragazze e per un momento ebbi paura che stesse annusando loro il sedere, come fanno i cani o i gatti, ma all�improvviso accadde un miracolo, il signor parro

co si alzò e reggeva le sue due cuoche con i denti, reggeva con i denti il robusto asciugamano e portava le ragazze in giro per la stanza tenendo le braccia distese come un vero artista, e le cuoche dimenavano le scarpine e le manine e ridevano, erano come gemelle siamesi attaccate l�una all�altra dalla spina dorsale dell�asciugamano, e i denti del signor parroco lo reggevano e lui lo muoveva con la sua forza e io immaginai quale sorpresa sarebbe stata a Cana in Galilea, e molto più grande del miracolo del vino, se Gesù Cristo avesse portato in questo modo la sposa e Maria Maddalena in giro per la sala delle nozze, quale rafforzamento sarebbe stato per la fede cattolica, e in genere per tutte le persone che amano la religione, perché una forza così cara conquista non solo i cuoricini femminili, ma anche tutti i cuori degli uomini, soprattutto i cuori e le anime dei renaioli e dei marinai. E, quando si fu sfogato, il signor parroco mise giù le cuoche e si accasciò sdraiandosi nella poltrona, e aveva un occhio iniettato di sangue, come se qualcuno gli avesse dato un pugno, e aveva i capelli bagnati sulla fronte e la camicia aperta e ai suoi lati stavano le cuoche, una in ginocchio gli offriva l�arrosto e l�altra gli riempiva il calice di vermut� E io bussai e le cuoche accorsero alla porta e io entrai vestito alla marinara e col berretto da marinaio con la scritta «Hamburg-Bremen» e il signor parroco ebbe paura che dovessimo andare a somministrare un�estrema unzione� «Che c�è?» disse. E bevve, beveva e aveva ancora le labbra nel calice quando gli dissi che volevo solo mostrargli la cosa a cui quel giorno mi ero consacrato. Mi tolsi il berretto da marinaio, lo diedi in mano a una delle cuoche, poi mi levai la giacca e mi tirai su la camicia fino al mento, mi inginocchiai e pregai: «Reverendo Padre, beneditemi!». E le cuoche cacciarono uno strillo, e il signor parroco si mise dritto e guardava il mio petto, poi ci fu silenzio, si sentivano solo le effimere e le falene sbattere contro le finestre, e dopo un po� il signor parroco mi accarezzò i capelli e disse: «Chi te l�ha fatto?». Risposi: «Il signor Alois alla birreria Sotto il ponte». «E cosa ti ha tatuato?», il signor parroco mi accarezzò di nuovo i capelli. «Una barchetta con l�àncora». Il signor parroco mi condusse davanti allo specchio, mi prese piano piano sotto le ascelle e mi sollevò e io vidi tatuata sul mio petto una sirena con il ventre coperto di barba, con i seni e gli occhi grandi come torte, e quella sirena nuda mi sorrideva come la signorina del locale di Zofín, che rideva e mi mostrava sporcacciona la punta della lingua e poi mi faceva la linguaccia come il diavolo di S. Nicola. 2. Quando papà vide la sirena tatuata per sempre sul mio petto, rimase per un po� a fissarla, la guardò a lungo, non batté né un ciglio né l�altro, come se stesse indagando a ritroso le circostanze che potessero spiegare quell�indelebile segno marinaro� E io ansimavo, il cuore mi batteva così forte che al ritmo del mio cuore la sirena chiudeva e socchiudeva gli occhi e io con la mano coprii quella donna nuda proprio come nel quadro sull�altare Adamo ed Eva si coprono il ventre� Papà tuttavia si limitò a fare un gesto con la mano, perché dal cortile si levarono le urla dello zio, la voce gioiosa e penetrante dello zio Pepin, che, come diceva la mamma, era venuto da noi otto anni fa per una visita di due settimane ed era tuttora con noi. E lo zietto strillava: «Ma come si permette? Imbecille, secondo lei io sarei il tipo che pascola le capre? La schiaccio a terra come un maggiolino! La ficco nel marciapiede come un chiodo!». E papà tutte le volte che veniva preso alla sprovvista dallo zio Pepin, dalle sue urla, tutte le volte si fermava vicino ai fornelli, si versava del caffellatte nel bicchiere, si tagliava un pezzetto di pane e beveva il caffè e lo zio continuava a sbraitare e le sue urla penetravano come un coltello nel burro della luce gialla della nostra cucina: «Ma che cavolate va dicendo? Le caprette? Ma io non voglio nessuna capra e perciò neanche le caprette ma come si permette? Sa che succederebbe se io andavo al pascolo con le capre e mi incontrava il colonnello Zawada? Mi strillerebbe: �Che ti venga un canchero, bastardo figlio di puttana!�, e me le darebbe col frustino, perché un soldato austriaco non si può permettere a portare le capre al guinzaglio! Una parola di più e la appiccico al muro che non la gratta più via nessuno!». E io mi abbottonai la camicia e mi sedetti vicino alla stufa su un piccolo sgabello e sul tavolino dei bambini misi libri e quaderni, intinsi la penna nell�inchiostro, ma scrivere non potevo, tenevo solo il quaderno aperto e la penna sulla carta, se fosse entrata la mamma avrei fatto finta di scrivere� e la cucina scintillava di rabbia e di patimento, da papà usciva sempr

e un�aureola di sofferenza, sentivo delle mani invisibili che mi staccavano da papà, come anche dalla mamma, perché io volevo avere una mamma come quella che avevano gli altri ragazzi, una mamma di quel tipo, ma la mia mamma era sempre come una signorina, pensava sempre al teatro e ai divertimenti, era sempre inafferrabile, da me si divincolava sempre, tanto che non sono mai riuscito a stringermi contro di lei, troppo avrei dovuto dominarmi, con la mamma soffrivo sempre di rossori e vampate, come se fossi stato dietro un cespuglio di gelsomino in fiore all�imbrunire con Liduska Koprivová a sentire il profumo dei capelli ricciuti di lei, di Lidla. E anche quando la mamma cercava di calmare papà stando in piedi con lui sotto i pendagli della grande lampada, io stavo seduto sullo sgabello, tenevo la penna piazzata sulla riga del quaderno aperto, facevo finta di stare per scrivere e se qualcuno mi avesse guardato avrei iniziato a scrivere, ma se qualcuno avesse guardato cosa scrivevo avrebbe visto che erano cose senza senso, perché mi batteva il cuore per l�agitazione, perché la mamma stava abbracciando papà� e mi sentivo come se la mamma stesse spargendo biglietti da cento sulla piazza, come se stesse dando a bambini estranei l�albero di Natale con tutti i regali sotto� E così me ne stavo di nuovo seduto sullo sgabello e la cosa che mi spaventava era che papà si terrorizzasse proprio quanto me perché invece della barca con l�àncora il signor Lojza mi aveva tatuato una sirena nuda, e all�improvviso sentii che quella signorina con la coda da pesce sul mio petto non era nulla in confronto alla tristezza che scorreva dentro papà e irradiava da tutto il suo corpo, come l�aureola a forma di spade d�oro si allargava intorno a tutto il corpo di S. Ignazio sull�altare laterale della nostra chiesa. Sentivo che papà soffriva tanto che avrebbe preferito andarsene, non in un posto preciso, ma così avrebbe camminato e camminato, continuamente, via da quella fabbrica di birra dove faceva l�amministratore e in cui aveva anche la sua macchina, in cui aveva una bella casa e la mia bella mamma, in cui ero anche nato io� la fabbrica di birra in cui lavorava suo fratello, lo zio Pepin, che amavo più di papà per le sue urla e i suoi balli, lo zio Pepin, che quando finiva di lavorare alla fabbrica di birra si metteva il berretto da ufficiale di marina, il berretto bianco da ammiraglio con la visiera nera e i cordoncini dorati e con un�àncora dorata ricamata in campo blu sul davanti, il berretto ornato di bottoni dorati, il berretto che lo zio non faceva toccare a nessuno, solo alle belle signorine nei locali che frequentava tutti i giorni� e io avrei tanto desiderato uscire sulla soglia e vedere con chi urlava tanto lo zio Pepin ma, per far piacere a papà almeno un po�, rimasi lì seduto, con la penna intinta sul quaderno, così potevo cominciare a scrivere, se papà mi avesse guardato� Ah come mi faceva soffrire la mia casa, come mi sentivo proiettato attraverso la finestra, anche chiusa, attraverso il muro fuori, solo fuori e fuori e fuori, da fuori mi salutavano dalla finestra i rami dei vecchi tigli e degli ippocastani, da fuori mi bussava la pioggia, da fuori mi chiamava il vento, che faceva tintinnare la finestra aperta della fabbrica di birra! E come papà continuamente chiedeva alla mamma di essere una donna per bene, come a mia volta io volevo che la mamma fosse una mamma normale, così papà e la mamma volevano che io fossi un ragazzo a modo, e spesso mi rimproveravano perché mi lavavo poco, io però piangevo e giuravo che nello sporco mi sentivo bene e al calduccio, mi mostravano come si rivestono i sillabari e gli abachi, ma io ogni pagina che avevamo letto la strappavo, e allora S. Nicola mi portava sempre un libro di scuola nuovo e Gesù Bambino due. Papà voleva insegnarmi e inculcarmi l�amore per il giardino, piantò cavoli e insalata e insegnandomi a sarchiare mi spiegava che bisogna estirpare le erbacce, così come è necessario sradicare le mie cattive qualità, in modo che rimangano solo quelle buone, ma quando papà se ne andò io rimasi lì, tenevo il sarchiello e la vanga pronti e mi guardavo intorno, uccelli colorati ricamavano l�aria e il sole mi scaldava e il vento volava dai boschetti di pini subito dietro la fabbrica di birra e dal fiume si levavano le grida e le esclamazioni dei bambini e tutt�intorno a me c�erano e accadevano tante cose belle, ma io stavo lì, al centro del giardino, stavo in piedi in mezzo alle aiuole piene di erbacce e quando da qualche parte si apriva una finestra, o sentivo dei passi sul vialetto di cemento, subito prendevo il sarchiello che tenevo pronto e mi mettevo a sarchiare, ma, quando capivo che non erano né papà né la mamma, rimanevo lì con il sarchiello in mano, ma con la mente e tutti i desideri svincolato, da tutt�altra parte� a un certo punto presi una decisione, in realtà non fu una decisione vera e propria, mi venn

e un�idea, e sradicai e pulii tutta l�insalata e tutti i cavoli, gettai tutto su un mucchio, aspettai che la verdura si seccasse e non fosse più possibile ripiantarla e col sarchiello in spalla andai da papà e dichiarai che avevo pulito tutto, e papà si meravigliò, ma io ero come la mamma, ero capace di sguardi così sinceri che papà mi accarezzò e poi disse che potevo andare dove volevo, se però non avevo dei compiti da fare. E poi la sera papà stava in piedi sopra di me, teneva la cinghia in mano, poi si riallacciò la cinghia, poi andò nel corridoio, portò la pompa della bicicletta e svitò il tubicino di gomma, ma, dopo aver riflettuto, si accorse che era poco, frustarmi col tubicino picchiarmi con la cinghia, per picchiarmi per bene tutto questo era poco, perché in me la cosa era radicata come nella mamma, che lui guardava con aria di rimprovero e altrettanto a lungo, anche se la mamma rideva e pregava, Franzin, prendila come una comica americana. Ma papà uscì di nuovo in giardino e di nuovo si mise a guardare i mucchi di verdura, appassita come uccelli verdi ammazzati, guardava l�erbaccia zappata e fresca, che con la rugiada della sera si alzava rigogliosa in file regolari, e poi sollevò alcune piantine e impotente le lasciò cadere a terra e tornò in casa e io stavo seduto sullo sgabellino e concentrato intingevo nel calamaio e scrivevo sul quaderno, a lungo, finché mio padre si mise a guardarmi e correndo avanti col pensiero immaginava al posto mio cosa sarà di me, proprio come stasera, verso sera, quando ho dovuto mostrargli la sirena, che spontaneamente non gli avrei mai mostrato ma ho dovuto farlo, perché papà l�aveva già saputo in città. Mi guardava, sentivo i suoi occhi e scrivevo e più era bella la mia grafia, tanta più cura ci mettevo, come se ogni singolo carattere della scrittura fosse la mia salvezza, e sentivo che papà provava a uccidermi prima con un pugno, ma mi sentii meglio quando voltai pagina e continuai a scrivere il compito a casa: La mia famiglia� e continuavo a scrivere e poi rimasi paralizzato dal terrore al pensiero che papà mi avrebbe sgozzato, e, se si fosse ricordato, papà l�avrebbe fatto, ma papà considerava poco anche questo, poi si alzò, prese un coltello, e io scrivevo e all�improvviso ebbi la sensazione che quella fosse l�ultima volta che scrivevo, l�ultimo compito a casa, che unicamente la scrittura mi avrebbe salvato dalla morte, che se avessi smesso di scrivere sarei morto, che unicamente scrivendo avrei potuto sviare la morte, e anche se papà mi taglierà la testa non lo saprò, perché continuerò sempre a scrivere e scrivere e così a lungo, che quando avrò smesso di scrivere non saprò più di essere esistito, e papà tirò fuori dall�armadietto la mola che usava per il rasolo e con cura diede il filo al coltello, arrotava, provava con il polpastrello se la lama era abbastanza affilata e io scrivevo e all�improvviso pensai a quando ero nel mio lettino ed è passato un sacco di tempo ormai e papà e la mamma tornarono dal ballo e papà aveva lo smoking ed era bello e la mamma aveva un vestito rosa e un ventaglio e papà continuava a urlare qualcosa alla mamma e la mamma spaventatissima gridava: «No, no, Franzin, non è vero, no!». E papà gridava: «Taci, una donna per bene non deve ballare in quelle posizioni! Sei sposata, sei madre.». E io ero a letto agghiacciato dal terrore e sentivo papà che apriva il cassettino dello specchio ovale e la mamma che si aggrappava a papà, e io ero paralizzato dallo spavento, il grido di papà era come se venisse da lontano, papà sapeva urlare in qualche modo verso l�interno, sottovoce, era un mormorio urlante, e la mamma pregava in ginocchio: «Non mi sparare, Franzin! Per l�amor di Dio! Per l�amor di Dio!». E papà gridava: «Devo farlo� giura che tra voi non c�è stato niente�», e la mamma stava in ginocchio col vestito rosa e per terra era aperto il ventaglio di piume di struzzo come un arcobaleno nel cielo dopo la pioggia e la mamma giungeva le mani e papà con il revolver puntato, in smoking, era bello, e la mamma crollò in lacrime e così com�era si sparpagliò tutta sul tappeto, la sua gonna da ballo a pieghe si aprì sul tappeto proprio come il ventaglio di piume di struzzo e io ero agghiacciato dal terrore e facevo finta di dormire. Poi era buio da tempo e io guardavo nel buio con gli occhi aperti e ascoltavo chetarsi il pianto sommesso della mamma e papà eccitato continuare a parlare e sussurrare, parlando cercava di imporsi di entrare nell�anima umiliata della mamma, e poi all�alba tutto tacque e io avevo bisogno di andare a fare la pipì, ma quella scena notturna dopo il ballo mi aveva paralizzato al punto che mi rigirai in silenzio e tra i letti pisciai e pisciai, fino a farla tutta, era come se avessi pianto tutto come se avessi orinato nell�interstizio tra i letti invece di piangere� E ora scrivevo un�altra pagina del compito: La mia famiglia� E papà si alzò col coltello affilato, lo mise sul tavolino dei bambini, in silenzio, come il

signor parroco Spurny quando aveva aperto il tabernacolo e aveva scostato il piccolo sipario dorato papà mi scostò la camicia e si mise a guardare la sirena, vedevo le sue dita saltellare al ritmo del battito del mio cuore intinsi la punta della penna nell�inchiostro e continuai a scrivere, fluiva da me quella scrittura, non sapevo nemmeno cosa scrivevo ma sentivo che scrivendo mi salvavo la vita, all�improvviso però ebbi l�impressione che papà mi volesse tagliare via dalla pelle quella fanciulla, quella signorina del mare, mi sentivo come lo zio Pepin quando gli volevano prendere il suo berretto bianco da ufficiale di marina, quello che portava Hans Albers nel ruolo di capitano� e smisi di scrivere, guardai papà negli occhi come non avevo fatto mai, nel mio sguardo c�era tutto quello che gli avevo combinato, tutto, mi sentivo come la mamma, quando si era sdraiata e si era completamente arresa e aveva sparso il vestito e il ventaglio sul tappeto della camera da letto� No, papà, vi prego, no, per la prima volta in vita mia alzai le dita per giurare, come Cristo stavo in piedi con la camicia strappata e un disegno sul cuore e con due dita alzate giuravo: «No, papà, vi giuro che volevo qui una piccola barchetta con l�àncora� e il signor Lojza mi ha fatto questo!». E battei col dito della mano sinistra sulla signorina del mare e con la destra giuravo mostrando a papà i polpastrelli sporchi di inchiostro. E papà si alzò, si tagliò un fetta di pane e disse: «Sono combinato così anch�io, siamo nelle stesse condizioni». E con rabbia, ma neanche con rabbia, come quando non c�è niente da fare, come quando andai con il signor parroco all�estrema unzione, ma il signor Kurka morì mentre gli ungevo i piedi, allora a casa dei Kurka il signor parroco in persona andò ad aprire le finestre alla sera estiva, per dare sollievo all�anima, perché l�anima del signor Kurka volasse verso l�alto come vapore verso il cielo, così papà aprì le finestre e l�aria fresca entrò e lungo la finestra passò il berretto bianco da ufficiale di marina dello zio Pepin, come se stesse navigando nell�aria, spostandosi lungo il davanzale della finestra. E lo zio gridava, non più a qualcuno, ma così, solo per il piacere che gli dava, nell�aria della sera che lo accompagnava in città appresso alle belle signorine: «Gloriosamente ho di nuovo vinto, sono un vincitore, io funziono proprio come il colonnello Zawada, quando nel giorno del Corpus Domini fece irruzione a cavallo in Premysl conquistata!». E papà andò a incastrarsi tra l�armadio e la parete, con le mani giunte sussurrava: «Non è vero niente, quando in guerra si sparava lui si sdraiava nel fossato e ci rimaneva finché tutto era finito!». Ma lo zio Pepin sbraitava: «Con me nessuno si deve permettere niente, sguaino subito il revolver e bang, bang! E sarà tutto un rotolarsi nel sangue!». E papà continuava a tenere le mani giunte e si torturava con la verità: «Ma se quello aveva sempre tanta paura che quando tornava dal lavoro dovevo andargli incontro, e aveva già venticinque anni e aveva tanta paura e dovunque andasse se ne stava seduto in un angolino!». E lo zio Pepin continuava a strillare: «Fuori dai piedi! Ai tempi dell�Austria-Ungheria ero il più bello, le bellezze si sparavano per me. Il mio ritratto a Brno era appeso in Corso Cejl e le belle si davano di gomito intorno alla vetrina e una diceva all�altra: Quale ti piace di più? E tutte indicavano questo qui. E attraverso il vetro bussavano al mio ritratto e io ero dietro di loro e mi sentivo come se mi stavano ungendo il petto col grasso d�oca e me n�andavo in giro tutto gonfio e tronfio!». La voce dello zio risuonava forte e allegra e papà continuava a stare a mani giunte tra la parete e l�armadio e alzando gli occhi al cielo mormorava: «Questo poi non è affatto vero, perché fin da piccolino era pieno di pustole e a ventidue anni aveva il collo che era tutto un brufolo, se ne toglievano bende insanguinate». Ma dall�ufficio la voce dello zio saliva gioiosa come il fumo dell�offerta di Abele su verso il cielo: «Al capitano Hovorka ci piaceva parlare sopra tutto con me, ero l�attendente del capitano Tonser, che ci portavo la sciabola!». E la voce di papà, bassa e timida, strisciava e si spostava lentamente raso terra come il fumo dell�offerta di Caino: «Questo non è affatto vero, in guerra lui di gradi non ne aveva, la fotografia che ha se l�è fatta prestare e ci si è fatto fotografare sopra come furiere» si lamentava papà rivolgendosi al cielo, ma io sapevo che il Signore non ama la verità, che ama i pazzi e la gente esaltata, come mio zio Pepin, che al Signore piace la menzogna ripetuta con fede, preferisce anzi una bugia esaltata alla secca verità con cui papà voleva sminuire lo zio ai miei occhi, agli occhi della mia mamma, che con lo zio era capace di fare stupidaggini tali che piangevo e mi venivano i crampi per le risate e a volte mi dava di volta il cervello e anche gli occhi, perché avevo l�impressione che nella nostra cucin

a sarebbe accaduto un miracolo e sarebbe apparso il S. Ilario della nostra piazza, il patrono delle sane risate. E dal portone della fabbrica di birra entrò il guardiano notturno Vanátko, non lo si vedeva ancora ma si sentiva la voce del suo fedele cagnolino Trik, si sentiva il tintinnio dei gavettini e delle torce elettriche e delle fibbie e dei bottoni che scintillavano e tintinnavano sull�uniforme del signor Vanátko, che entrava in servizio sempre �feldmasig�, col fucile da messicano a tracolla e colmo di allegra aspettativa qualcuno una buona volta avrebbe pur tentato di rapinare la cassa o almeno di rubare le cinghie dalla capanna tra i montacarichi della ghiacciaia. «�Halt!�» urlò il signor Vanátko, e puntò il fucile messicano, che non era mai carico, perché il suo ultimo proprietario aveva perso l�otturatore. «!Wer da?�» gridò il signor Vanátko, aspettandosi che una buona volta là nel buio ci fosse qualcuno. Ma lo zio Pepin strillò: «�Ruht, Jozip Pepin mledet sich gehorsamst!�». E il signor Vanátko fece un passo avanti, inciampò e Trik gemette dal dolore, Vanátko aveva inciampato nel cagnolino e immediatamente, dato che aveva sofferto e continuava a soffrire di vampate per la malaria presa in guerra, prese il cagnolino e lo sbatté sul cemento e il cane emise pietosi guaiti e un gemito, ma Vanátko fece un passo avanti militaresco verso lo zio Pepin, adesso erano in piedi nella luce della finestra della nostra cucina, si fecero il saluto entusiasti e il guardiano notturno esclamò: «Signor Jozef, mi dia il cambio alla guardia del cancello, postazione numero uno, poiché devo andare a fare rapporto al signor amministratore». E lo zio fece il saluto portando la mano al bordo del berretto da ufficiale di marina, prese in consegna il fucile messicano e il signor Vanátko salì sulla panca, adesso era in piedi, terribile, con la barba e il berretto da autista tagliato dal nastro tricolore, con il cinturone dei soldati dell�Intesa su cui brillavano sei torce elettriche, attraverso la finestra trasparente fece il saluto a papà e dichiarò: «Guardiano notturno Vanátko in servizio!». E papà agitava tutte e due le braccia come orecchie di elefante, allontanava da sé quell�immagine di guardiano notturno per lui così orribile e per me così preziosa, quello saltò giù come in un esercizio di riscaldamento, abbandonò il cerimoniale, sollevò Tricek dal cemento si mise a baciarlo e lo accarezzava e ce lo mostrava, il cagnolino che aveva pianto dal dolore, Vanátko dichiarava: «Questa è la mia bestia fedele, non lo darei via per nulla al mondo�», e gli diede un bacio direttamente sul muso, e poi si tolse dalle spalle il vecchio pastrano arrotolato e lo stese sulla panchina sotto l�ufficio. Lo zio Pepin gridava eccitato: «Ecco com�è che dev�essere, la disciplina austriaca è la più bella disciplina del più bell�esercito del mondo». E dal buio si levavano allegri ordini alternati, si sentivano anche con le finestre chiuse, e in più papà aveva tirato le tende: «�Zum Gebet! Marsch eins! Hergestellt! Paradenmarsch!�». E sul vialetto di cemento le scarpe battevano i passi di parata della marcia di parata, tintinnava il calcio del fucile messicano sbattuto per terra, risuonavano i dietro-front delle suole che pestavano. Non ci fu poi da meravigliarsi se verso mezzanotte si sentirono le grida e le urla del signor Vanátko «Aiuto, i rapinatori!». E il guardiano notturno soffiava nella tromba e papà prese il revolver, corsi fuori anch�io con papà nella notte, e davanti all�ufficio papà con la mano tremante puntò il revolver e urlò: «Arrenditi, furfante!». E Vanátko gridava: «Ormai l�ho preso, gli sto già mettendo i ferri�!». E rovistava con il bastone nei cespugli di uva spina, i rametti saltavano via come tagliati con la falciatrice, e di corsa arrivò il mastro meccanico facendo luce con la pila e alla luce della lampada si poté vedere solo un alberello di uva spina rotto, diviso a metà, e io esclamai, benché anch�io, come Vanátko, non vedessi un bel niente: «Là, sta correndo, signor Vanátko, lo insegua!». E Vanátko corse nel buio e tornò tutto affannato, felice: «Masnada di ladri, a me non la fate! Io vigilo, io sorveglio, io li sorveglio gli obiettivi a me affidati�». E papà si allontanava col revolver e il meccanico con la pila, in mutande, tremanti per il freddo della notte. Papà disse al mastro, prima che si separassero: «Lo scopo prefisso riduce la fatica». E, affaticati, ce ne andammo tutti a letto e io a letto d�un tratto vidi me stesso vestito alla marinara che guardo dalla torre della cattedrale, mi schermo gli occhi e vedo le navi sul mare, le chiamo, le vedo, come le vedo, anche se le navi e il mare non potevano essere in vista, proprio come nessuno quella notte aveva cercato di attaccare la cassa della fabbrica di birra, né il signor Vanátko, il guardiano notturno, che in due anni di servizio alla fabbrica di birra con il fucile messicano aveva fermato e consegnato alla polizia in tutto sei coppie di giovani che si baciavano vicino al muro della fab

brica di birra e tre passanti notturni, di cui due pisciavano nella notte contro l�angolo della fabbrica e uno faceva bisogni grossi, e Vanátko li aveva consegnati alla polizia così com�erano, acciocché venisse effettuata un�inchiesta giudiziaria, in quanto erano sospettati di voler rapinare la cassaforte della fabbrica di birra. 3. Né a me, né a papà, e nemmeno alla mamma e, come a tutta la nostra famiglia, nemmeno allo zio Pepin piaceva molto stare a casa. Ci davamo troppo sui nervi, troppe sofferenze e troppi torti ci eravamo inflitti a vicenda, ci volevamo troppo bene, e quello stesso affetto ci portava ad allontanarci l�uno dall�altro, a scegliere di stare tra persone e cose diverse, in un altro ambiente. Papà, fino a quando abbiamo avuto l�Orion, quella motocicletta impossibile che ogni volta che veniva usata doveva essere revisionata, dunque papà la smontava ogni sabato, ma mai da solo, cercava di iniziare anche me a quell�operazione, ma io ho smontato con papà solo una volta, perché non era come papà prometteva, che avremmo smontato solo per un�oretta, la cosa andava avanti tutto il pomeriggio e poi tutta la sera e papà per tutto il tempo mi spiegava entusiasta gli inconvenienti di quella motocicletta marca Orion e come papà si sarebbe spinto nelle sue viscere solo per eliminarne i difetti come un esperto chirurgo. Ma io vicino all�Orion ululavo come un cane vicino alla cuccia, ogni minuto per me era un�ora e ogni ora successiva l�intera eternità, mi bastava poi solo vedere un qualche pezzo della moto per sentirmi proprio come il signor Dousa, che non sopportava la vista delle interiora, appena le vedeva vomitava, e io alle nove di sera, sabato, dopo che papà con grande cura aveva rimontato lo spinterogeno, lo aveva pulito accuratamente con un fazzoletto di batista e con immenso amore mi descriveva tutte le lamine e le vitine e la funzione dello spinterogeno, che era uguale alla funzione che nel corpo umano hanno le ghiandole, il pancreas, le surrenali, e io avevo la fronte contratta da un pentagramma di rughe e la fronte di papà splendeva di felicità, e quando vidi che avevamo ancora davanti il motore aperto, da cui spuntavano i cilindri neri e l�albero a camme, e sul banco c�era il carburatore smontato, mi si rivoltò lo stomaco e, prima che papà potesse arretrare con lo spinterogeno, gli vomitai sopra una porzione abbondante di salamino, di salame stagionato, e papà si mise a urlarmi contro e a minacciarmi col martello, che per lui era lo stesso che se da chierichetto avessi preso il corpo di Cristo, l�ostia santa, e l�avessi sputata sul pavimento, e io avevo avuto paura dello spinterogeno, che era panciuto come una gavetta al campeggio in colonia, una gavetta con una porzione doppia, io la prendo sempre, all�improvviso avevo avuto un�illuminazione e avevo fatto una cosa che sul momento mi aveva distrutto e spaventato, anche se dopo ne sorridevo e sapevo sempre più fermamente che quello che avevo fatto, avevo fatto bene a farlo� e papà correva col martello e, visto che non mi poteva uccidere, tirò fuori l�orologio, lo mise sulla piccola incudine e con un colpo lo mandò in frantumi, e unicamente così poté evitare di rompere la mia testa invece dell�orologio� e aprì la porta e puntando il dito mi cacciò dal suo paradiso e io mi ritrovai nella notte stellata, le stelle sguainate come pugnali d�argento tremolanti mi minacciavano taglienti nel cielo freddo e io me ne andai nel frutteto della fabbrica di birra e mi sdraiai sotto il vecchio filare di noci, mi strofinavo alla terra e col viso lambivo l�erba e la prendevo in bocca e mi allungavo fino a contorcermi, finché a tratti dolcemente ululavo. A casa avevamo un gattino, si chiamava Macík, Micio, e una volta la mamma decise che il gatto la notte non sarebbe uscito, che sarebbe rimasto in casa, perché fuori c�era fango e poi al mattino sarebbe saltato sul letto. Ma a mezzanotte con la zampetta Macík fece cadere prima una pentola e poi, visto che anche questo era stato inutile, con tutte le sue forze rovesciò la pesante sveglia austriaca facendola cadere dalla credenza, e papà si arrabbiò, prese Macík e lo mise sulla soglia, e, essendo assonnato, per prima cosa diede un calcio alla sedia con l�alluce nudo e poi con un altro calcio raggiunse Macík e lo sbatté fuori nella notte, e così il gattino si ritrovò per punizione là, dove per tutta la sera aveva voluto e desiderato essere. Dunque nelle operazioni di smontaggio papà in due anni aveva coinvolto a turno tutti gli operai della fabbrica di birra, poi tutti i vicini che abitavano intorno al la fabbrica di birra e infine una buona metà degli abitanti della nostra cittadina. Chi non lo sapeva veniva colto alla sprovvista da papà il sabato mattina con la domanda: «Allora, che cosa facciamo oggi pomeriggio?». E chi non sospettava nulla rispondeva la verità, che nel pomeriggio

era libero, e papà lo prendeva delicatamente per il gomito e con uno splendido sorriso pieno di mistero diceva entusiasta: «Allora, sa una cosa? Venga da noi alla fabbrica di birra a tenermi il controdado, così, per un�oretta». E tutti quelli che non sapevano niente ci andavano, senza sospettare che papà come al solito avrebbe smontato la testata del motore e poi il vicino gli avrebbe passato le chiavi e papà avrebbe continuato a infilarsi nel motore che batteva, seguendo un rumore che per quel motore era ereditario, era una specie di difetto cronico, come quando uno ha una gamba zoppa oppure balbetta. E papà riusciva a descrivere con tale passione la sua calata nelle viscere dell�Orion che intanto a casa la moglie dell�aiutante di papà diventava matta, intanto l�amante giurava che se non fosse arrivata a uccidere il suo amato lo avrebbe comunque piantato oppure sarebbe andata a letto con l�amico di lui, così giovanotti e anziani vicini smontavano col papà e il tempo passava e si avvicinava la mezzanotte e poi cominciava ad albeggiare e papà decideva che era ora di rimontare il motore, e che gioia sarà alle dieci di domenica mattina, quando cominceranno a suonare le campane, vuole scommettere, papà tendeva la mano, schiaccio una volta per prova e il motore si mette a rombare come le campane della domenica. E così avevano tutti smontato con papà una volta sola, si erano alternati tutti quelli che abitavano nei dintorni della fabbrica di birra e anche nella cittadina, e chiunque avesse già smontato una volta con papà, gli avesse tenuto il controdado solo per un�oretta il sabato, alla sua domanda melliflua chiunque avesse vissuto quell�orrore già a distanza gli gridava: «Ma neanche per idea! Io oggi pomeriggio devo andare all�ospedale. Io devo andare al cimitero. Io devo stare a casa, è venuta mia cognata. Io devo lavorare al bilancio. Io ho promesso a mio fratello di aiutarlo a costruire la casa�». E papà, malgrado ciò, diceva dolcemente: «Ma dovete riconoscere che un motore così, marca Orion, è una vera meraviglia�». E i vicini dicevano che infatti era una meraviglia, ma che loro non avevano tempo e tempo non ne avrebbero avuto mai più, perché se quella notte e quella mattinata l�avessero passata in birreria o se ne fossero andati a spassarsela con delle sconosciute, sarebbe stata la stessa cosa, perché nessuna moglie, nessuna amante avrebbe loro creduto, anche se papà forniva una conferma scritta di ciò che era accaduto il sabato pomeriggio, la sera e la domenica mattina, il signor Jarmilka richiese addirittura un certificato del notaio, ma sua moglie non gli credette ugualmente, e così non rimase altro da fare che divorziare. Così ora, quando papà si dirigeva verso la città, la gente, appena lo scorgeva, lasciava in fretta di lavorare e di spazzare il vialetto e di zappare in giardino, come in una fiaba, appena vedevano papà venivano risucchiati nelle porte delle case e delle cantine e delle legnaie, per uscire nuovamente con cautela quando papà fosse passato, si guardavano intorno circospetti e poi continuavano a lavorare, ma la tranquillità e l�allegria erano ormai solo un ricordo. Papà era arrivato al punto che quando arrivava in piazza le persone, non appena lo vedevano, fuggivano in fretta nelle viuzze laterali, entravano di corsa nella Cattedrale e si sedevano e, con la scusa di essere in meditazione, se ne stavano sulle panche con il viso tra le mani, perché papà non li riconoscesse. Alcuni cittadini il sabato mattina, e poi anche il venerdì appena vedevano papà che scrutava i visi della gente, preferivano entrare di corsa in casa di estranei e rimanere quindi per un pezzo vicino alla porta della cantina o nel cortile, per poi muoversi lentamente lungo il corridoio e, come detective che seguono un delinquente, guardare in strada sporgendo appena il profilo, per vedere se l�aria era pura. Il macellaio Burytek che doveva tenere il controdado a papà solo per un quarto d�ora, come papà gli aveva promesso, rientrò che era domenica e gli si era rovinata una tinozza piena, un calderone di minestra di trippa, perché la minestra di trippa mentre si raffredda va mescolata proprio come la minestra della maialatura, fino a che non è completamente fredda, allora il signor Burytek, il macellaio, quando vide papà in Corso Palacky si spaventò tanto che entrò nella cappelleria del signor Sisler e, dato che come tutti i macellai era terribilmente timido, il signor Sisler gli vendette un bel cappello, e il signor Burytek se lo provò a lungo e poi lo comprò e la cosa gli venne a costare di meno che se avesse tenuto il controdato a papà per una mezz�oretta. Lo zietto Pepin aiutò papà solo una volta. Verso mezzanotte, quando lo zio Pepin già vedeva tutte le belle nelle birrerie con le chellerine guardare invano l�orologio e poi la porta, in attesa di veder entrare il berretto bianco dunque lo zio Pepin picchiava con una mazza di quercia e papà reggeva l�albero motore, su c

ui con la mazza di legno -non sia mai col martello -stavano inserendo un cuscinetto nuovo, perché papà riteneva che quel cuscinetto e nient�altro avrebbe fatto sì che il motore si scaldasse arrivando in cima alla salita ed emettesse poi un tintinnio secco, come quando lasciate cadere un cucchiaino da caffè dopo l�altro in un secchio di stagno. E così papà reggeva l�albero sulla pancia e teneva anche il cuscinetto e lo zio batteva con la mazza e papà all�improvviso si accorse che un altro colpo avrebbe spostato il cuscinetto più avanti di quanto non fosse necessario, che era proprio al punto giusto, e allora gridò: «Perdio, basta!». E avrebbe dovuto dire solo basta, quel perdio fece appunto in modo che lo zio Pepin assestasse il colpo di mazza successivo, ma papà aveva tirato via l�albero col cuscinetto appena inserito e lo zio diede a papà una mazzata nella pancia e papà crollò e quando lo zio Pepin lo rimise in piedi riuscì nonostante tutto a tenersi in piedi e poi prese il martello e colpì lo zio, papà in realtà non ha mai colpito nessuno, ma doveva fare qualcosa che equivalesse a colpire e così prese l�orologio dello zio, un Patent Rosskop, l�orologio austriaco a cipolla, lo mise sull�incudine e, dopo che ebbe dato una martellata all�orologio e le lancette e le molle e le vitine si furono sparse contro il muro, il colpo di mazza nella pancia smise di fargli male e papà cacciò via lo zio, e così quello fece ancora in tempo a lavarsi e a mettersi il berretto da ufficiale di marina e a saltare lo steccato, perché il guardiano notturno Vanátko dopo mezzanotte dormiva così profondamente che nessuno osava svegliarlo, dormiva col cagnolino Trik sui piedi e non lo svegliava nemmeno il chiurlare degli assioli, dei chiurli e delle grosse civette, il guardiano notturno non si svegliò neppure quella volta che le donne lo legarono con la corda dei panni, il signor Vanátko continuò a dormire profondamente. 4. Ogni tre mesi lo zio Pepin era d�umore rivoluzionario, rifiutava che papà gli mettesse i risparmi sul libretto, rifiutava che papà gli desse dieci corone al giorno per le sigarette, rifiutava che la mamma si occupasse della sua biancheria, si rifiutava anche di prendere un pasto caldo da noi una volta al giorno� Cominciava sempre allo stesso modo, lo zio Pepin si metteva a gridare e scostando il piatto con l�arrosto di filetto alla crema sbraitava: «Che razza di mangime cinese sarebbe questa roba? Mi si contorce lo stomaco!». Quando la mamma gli diede l�oca e gli chiese: «Allora, era buona?», lo zio Pepin fece un gesto con la mano e disse: «I crauti sì, che erano buoni». E quando facemmo la maialatura e lo zio si fu saziato mangiando tutto quello che voleva, alla fine di proposito prese la coda del maiale, la guardava con avidità e poi tirava, teneva la coda tra i denti e tirava, e quando la coda gli sfuggì e lo zio sbatté la testa contro il muro vicino al quale era seduto, gridò: «Queste porcherie io non me le mangio! Quella cretina pensa che io sono un tontolone stupido, e poi la gente dice che mi rubate!». E papà si spaventò e col dito si mise a scrivere allo zio sul tavolo quanto gli dava per l�organizzazione e per le sigarette e quanto per la biancheria e cinque corone per la cena sempre calda, ma lo zio Pepin ci guardava freddamente, con odio, all�improvviso ci odiava tutti, tutti noi eravamo per lo zio dei padroni, dei signori, salivamo tutti su per la scala, mentre lui, un operaio, camminava lungo una scala distesa senza avere mai alcuna opportunità se non quella in cui si trovava già e in cui sarebbe rimasto fino a quando non fosse morto o andato in pensione. Ogni anno in casa nostra c�era lo sgomento per la rivoluzione dello zio, ogni anno, ma lo sgomento si affievoliva, perché la ripetizione porta la regola e l�ordine e i motivi ricorrenti attutiscono il colpo della prima sorpresa. Così papà diede allo zio tutti i contanti che Pepin gli aveva lasciato in custodia, gli diede i libretti di risparmio, perché lo zio non si lascia derubare di soldi guadagnati duramente, guadagnati con queste mani, lo zio dichiarò solennemente che ripudiava suo fratello, che era un tirapiedi dei capitalisti, rifiutò con un gesto la mano della mamma, che lei gli offriva per fare la pace, e se ne stava lì in piedi sulla porta, come se tutti noi lo avessimo offeso, come se fosse colpa nostra se lui abitava nella stanza comune degli operai, mentre noi avevamo tre stanze e cucina, come se noi potessimo farci qualcosa se lui era operaio nella fabbrica di birra che amministrava suo fratello Franzin, mio padre, il marito della mamma. E poi, una volta fuori, lo zio sputò con gusto e allontanandosi strillava che i padroni bisogna acciuffarli e sbatterli tutti per terra� E noi quella sera ci sentivamo piccolini, e ci sentivamo tutti vicini, pa

pà se ne stava appeso alla mamma sotto il lampadario e lei lo accarezzava, e papà con una mano accarezzava la mamma e con l�altra accarezzava me, anch�io me ne stavo stretto ai miei genitori, perché non riuscivamo a capacitarci di quello che era successo. E così lo zio Pepin per prima cosa spese tutti i soldi che aveva in contanti, la seconda settimana spese i soldi che papà gli aveva messo da parte, e la terza settimana tra sabato e domenica spese i soldi dell�acconto della paga e lunedì e martedì e mercoledì e giovedì se li fece anticipare sul conguaglio. E, malgrado ciò, quando lo zio Pepin si avviava verso la città le porte si aprivano e uscivano i vicini e le donne, si aprivano le finestre sotto cui lo zio Pepin passava col berretto da ufficiale di marina, e chi poteva gli domandava delle belle signorine a cui andava appresso, e le donne gli domandavano se avrebbero recitato insieme, o quando lo zio avrebbe dato loro convegno nel boschetto già buio, quando le avrebbe portate a Vienna e a Budapest, le ragazze gli domandavano quando le avrebbe accompagnate sull�Isola a ballare e si prenotavano per il ballo con la scelta alle dame che ci sarebbe stato in inverno, gli uomini con fiducia gli chiedevano informazioni sulle gambe delle donne nelle birrerie con le chellerine, su com�erano i seni delle signorine e com�erano i piumini nelle loro camere e lo zio nella prima casa chiedeva dei fiori e li regalava alle donne delle case successive, dove chiedeva altri fiori del giardino per regalarli alle belle affacciate alle finestre che si aprivano già sulle vie e sulla piazza. Così lo zio Pepin camminava e si inchinava, faceva il saluto e distribuiva baci e le sue risposte facevano scoppiare a ridere gruppi di gente e singole persone, e lo zio Pepin si allontanava accompagnato dalle risate come un trenino che marciando si lascia dietro il fumo� E la sua prima stazione era subito la birreria con le chellerine di Zofin, appena lo zio fu entrato le signorine annoiate saltarono su e cominciarono ad accapigliarsi per il mazzo di fiori che lo zio regalava a una di loro, si minacciavano di cavarsi gli occhi, e poi lo zio si sedette e ordinò un caffè e la signorina Marta disse: «Ecco qui, maschio, ti offro una coppa di champagne, così hai qualcosa da pisciare». E Bobinka mise su un disco e il grammofono suonava �O cimitero, o cimitero�, la melodia de �La Paloma� Bobinka si mise a sedere sulle ginocchia dello zio e i clienti battevano le mani e schiamazzavano e in genere, dovunque comparisse, lo zio produceva eccitazione a volte mi portava con sé, stavo seduto in un angolino a bere una limonata, oppure le ragazze mi prendevano accanto a loro e io con loro ci stavo volentieri, perché mi piaceva l�odore dei profumi da poco e mi piaceva vedere le sopracciglia dipinte e le guance imbellettate, quando si chinavano verso di me diventavo rosso, e loro per quei miei rossori mi accarezzavano i capelli e mi stringevano al seno e io chiudevo gli occhi, mentre lo zio Pepin infervorato predicava: «Ma, signore, signorine mie, bellezze mie, un mazzo di fiori come questo che vi ho portato lo recava solamente l�imperatore Cecco Beppe buonanima alla baronessa Schratt, l�arciduca Carlo alle signorine del casino degli ufficiali All�aquila rossa!». Bobinka sospirò dolcemente: «Ah, maestro, quando fissa i suoi occhi su di me, crollo anch�io come la baronessa Schratt, se dovessimo sposarci, sarebbe la fine del mondo! Oppure prendo un coltello e zac! Fine! Oppure le sparerei!». Marta buttò giù Bobinka dalle gambe dello zio e si chinò sopra di lei gridando: «Gli occhi ti strappo, io, solo io ho diritto a Pipinek, se non sposi me, mi avveleno!». Lo zio Pepin era estasiato dallo sparo e dai veleni, bevve il caffè e d�un tratto gridò: «Si avveleni, signorina, di slivovice!», e la birreria scoppiò a ridere e la signorina Marta disse: «Ma cosa dice in proposito, maestro il trattato del signor Batista?». Lo zio Pepin estrasse gli occhiali a stringinaso, se li mise e diede la mano alla signorina Marta, dicendo galante: «Si vede subito che lei è una signora, delicata come un piccolo Mozart, il professor Batista nel suo trattato sull�igiene sessuale dice che un vero maschio deve avere un organo sessuale sviluppato come si deve, tale organo deve essere composto di un pene e deve essere provvisto di testicoli sviluppati come si deve�». E Bobinka aggiunse ingenua: «E quando c�è un solo testicolo?». E spalancò gli occhi verso lo zio. «Secondo il trattato del signor Batista quello è il cosiddetto monocoglione, ed è un mostro». E le signorine cominciarono a litigare e tiravano lo zio per le maniche e per le mani: «Be�, noi non compreremo di certo a scatola chiusa! Faremo subito un�ispezione! Bisogna fare un�ispezione come si deve, maestro, la porteremo subito in camera!». Ma lo zio Pepin saltò su, si strappò alle signorine e comandò: «Mettete su qualcosa di movimentato! E venite a ballare!». E l�ostessa aprì la porta e nel l

ocale si infilò lentamente il vecchio San Bernardo, lo chiamavano Dedek, e lo zio Pepin si mise a ballare con Bobinka, ma le altre signorine si intrufolavano perché volevano ballare pure loro, e lo zio decise: «Allora faremo un ballo con tre signorine, la cosiddetta trilogia!». E lo zio prese le ragazze per mano e le ragazze facevano quello che faceva lo zio, correvano nell�angolo e una di fronte all�altra pungevano l�aria con le dita a tempo di musica e poi di nuovo con le dita puntate verso il soffitto annerito dal fumo, e i clienti del locale si misero in cerchio e l�ostessa col coltello stava il piedi a braccia conserte e rideva, scuoteva la testa ma rideva, sapeva che tra poco s�iniziava, e vino e liquori avrebbero cominciato a scorrere a fiumi, lo zio Pepin, il maestro, sapeva far sgorgare il divertimento, poi lo zio sollevò una gamba, la piegò e la lanciò in avanti tirando calci in aria e le signorine lo imitavano e morivano dalle risate, strillavano nel vedere quello che vedevano, poi lo zio accorse facendo degli affondi, sembrava un fante di campanelli, e le ragazze lo imitavano e la polvere turbinava e lo zio saltò molto in alto, divaricò le gambe e ricadde a terra facendo la spaccata. Bobinka urlò: «Maestro, per carità, non si strappi il cavallo!» Marta gridò: «Maestro Pepin, attento a non gonfiarsi i coglioni!». Solo Dasa arrossì e disse: «Ma come parlate ragazze? Gonfiarsi i coglioni� attento a non farti venire un�ernia all�inguine, ragazzo!». E saltò su e si mise a ballare il cancan e le ragazze alzavano le ginocchia e le gambe ballando il cancan e lo zio si chinò in ginocchio ricoperto dalla polvere che le gonne sollevavano. Poi il San Bernardo Dedek si alzò, si mise dritto e appoggiò le zampe sulle spalle dello zio facendolo cadere, ma lo zio si alzò, offrì il braccio a un�altra signorina e la sollevò, la lanciava verso l�alto e faceva gli affondi con lei, le rovesciava le braccia all�indietro e tenendola alla vita la piegava all�indietro fino a farle spazzare il pavimento coi capelli a tempo di musica, e il San Bernardo Dedek buttò di nuovo lo zio per terra, lo zio giaceva sulla schiena e il San Bernardo gli ringhiava e gli sbavava sulla faccia e nella birreria risuonavano risate fragorose, clienti sconosciuti ordinavano bottiglie di vino e l�ostessa portava interi vassoi di bicchierini e lo zio si mise seduto e le ragazze lo tirarono su e lo fecero sedere su una sedia e gli dipinsero le guance di rosso. «E� un po� impallidito, maestro» disse Bobinka, e Marta portò un suo vestito, un vestito nero con una rosa rossa artificiale, e così accadde che le ragazze in camera travestirono lo zio con il vestito nero e quando la musica incominciò lo zio entrò di corsa nel locale, la rosa finta tra i denti, e Carmen ballava il tango argentino, dopo una capriola e un salto per aria dalle mutande gli cascò fuori l�uccello, ma lo zio non se ne curava, imitava Carmen atteggiando le labbra al bacio� e di nuovo il San Bernardo Dedek si alzò e con la zampa stese lo zio, poi si mise sdraiato su di lui e gli ringhiava sul muso e la signora ostessa, in lacrime per le risate, portò via Dedek e lo zio si inchinava, da tutte le parti sempre quel dolce sorriso, le labbra e le gote colorate, non si era accorto che di sopra le signorine lo avevano dipinto con lo smalto e se lo sarebbe tenuto per tutta la settimana a ricerchiare le botti e a scrostare la caldaia e a calarsi nella fogna, perché lo zio, per via delle sue urla, ora lo mandavano di preferenza nella caldaia oppure nei sotterranei della fabbrica di birra� La mattina dopo, all�ora dello spuntino, alcuni operai vennero a cercare papà dicendo che quella mattina non erano riusciti a trovare lo zio, che l�avevano trovato solo adesso, stava dormendo sotto la branda, forse stava anche morendo. E papà, che aveva già capito, prese una bottiglietta di ammoniaca e andò con gli operai, tutti lo guardavano con aria di rimprovero, perché papà era quello che aveva affamato il proprio fratello, che adesso giaceva svenuto e lacero sotto la branda nel suo stanzone. Arrivati lì, due operai presero la branda e la spostarono. In mezzo a vecchi stivali ammuffiti e a scope da lavoro rotte, tra gli stracci sporchi e nella polvere giaceva lo zio Pepin, le sue guance brillavano di smalto rosso asciutto, aveva gli occhi bistrati di nero e sembrava che non respirasse. Papà si inginocchiò e si mise in ascolto sul suo petto, poi vide che lo zio Pepin respirava col naso� Avvicinò la bottiglietta aperta con l�ammoniaca, ma lo zio smise di respirare col naso e cominciò a respirare con la bocca, papà gli appoggiò una mano sulla bocca e così lo zio dovette respirare un po� di ammoniaca. Saltò su, sbruffando� E papà si raddrizzò e prendendo dal letto pezze e stracci chiese allo zio: «Cos�è questa roba?». E lo zio con gli occhi pieni di lacrime gli strappava quegli stracci e gridava: «Questa è una camicia fine, questa me l�ha regalata una bella donna, la signorina

Glancová�». E papà tirava fuori stracci e sbrendoli e biancheria sporca, che quando lo zio veniva a pranzo da noi era sempre pulita� «E cos�è questa roba?». E lo zio ogni volta gridava che erano regali preziosi di signorine e bellezze, e riprendeva gli stracci dal secchio vicino alla stufa e li riponeva sotto il guanciale sporco� E papà guardava e vedeva che gli operai guardavano, vedevano che di tutto ciò non aveva colpa lo zio, ma il signor amministratore della fabbrica di birra, il fratello dell�operaio, che abitava in una casa di tre camere, mentre suo fratello Pepin dormiva lì come una bestia. Prima di uscire dalla malteria papà aprì la bottiglietta con il cloruro di ammonio, aspirò alcune volte ma non lacrimò, forse neanche l�ammoniaca era abbastanza forte per tutto ciò che gli procurava suo fratello che era venuto otto anni prima per una visita di due settimane. La sera vidi lo zio Pepin con il berretto da ufficiale di marina e le gote smaltate che si dirigeva verso il retro, verso i chiusi, vidi il suo berretto che si abbassava verso terra, aggirai il carro con le trebbie e passando vicino alla legnaia andai silenziosamente verso le porticine che davano sul cortile. Lo zio Pepin sceglieva le patate bollite con la crusca, si puliva la crusca sui calzoni e mangiava, quindi mangiò alle galline tutte le patate e poi si finì anche le bucce, che aveva scartato. 5. Quando l�inverno fu arrivato davvero, sul fiume si formava il ghiaccio e venne il momento di tagliarlo. Papà doveva sempre penare per distribuire il lavoro ai montacarichi per il ghiaccio, il lavoro alle centinaia di carichi di ghiaccio che i contadini trasportavano coi carri, perché ogni carico era ben pagato. Papà doveva fare la voce grossa, perché a lavorare col ghiaccio non ci voleva andare nessuno, solo Pepin era contento e non vedeva l�ora che venisse il tempo del taglio del ghiaccio, per gli altri operai era come andare ai lavori forzati e cercavano tutti di sottrarsi, minacciavano addirittura papà che sarebbe venuto il giorno in cui sarebbe stato l�opposto e gli operai sarebbero stati in ufficio e i padroni a tagliare il ghiaccio, tutti, anche il signor Dimácek, il nuovo presidente della fabbrica di birra. Papà a queste osservazioni taceva, forse se lo augurava anche lui che quel giorno arrivasse e nel mondo le cose si capovolgessero, neanche papà amava i padroni, specialmente il nuovo presidente, che allevava maiali e aveva tre verri di razza, era così preso dall�allevamento dei maiali, ci metteva l�anima, al punto che assomigliava a una testa di maiale, a un verro, aveva pure il labbro inferiore cascante e gli sporgevano i denti dalle gengive, e in ufficio aveva introdotto un sistema per cui gli impiegati stavano seduti con le penne sempre pronte, in modo che quando il signor presidente entrava tutti stessero scrivendo e facendo conti. E se qualcuno non scriveva o non faceva conti, subito il signor presidente impallidiva e rimproverava a papà, in quanto amministratore e capo contabile, che in ufficio non si lavorava e che c�era una forza superflua. E mentre il signor dottore Gruntorád, che era stato presidente prima, andava il calesse, questo presidente compariva, all�improvviso girava la maniglia ed entrava negli uffici e nelle cantine di fermentazione e nella malteria e nei laboratori e nelle falegnamerie, faceva finta di non vedere niente, ma vedeva tutto, e così non solo gli operai soffrivano a causa sua, ma anche papà, ogni sera la mamma doveva abbracciarlo sotto i pendaglietti della lampada e papà, dopo essersi confidato con lei, tutt�a un tratto faceva una faccia terribile e, indicando se stesso, si prendeva per i mento, ma quello non era il suo mento, era la barba de nuovo presidente, la strappava con uno strattone e la lanciava con ribrezzo lontano da sé, e strappare la barba del signor presidente gli faceva bene, perché solo così si calmava. Così papà divise gli operai per il taglio del ghiaccio e di tutti gli addetti prese nota il vice del mastro birraio quello che alla fabbrica di birra era stato anche operaio ed era riuscito a diventare caposquadra di tutti gli operai, segnava i turni sul taccuino e nelle sue annotazioni teneva conto dell�orario di arrivo al lavoro e del comportamento sul lavoro di ogni operaio, il caposquadra era così contento di sé che non poteva credere alla fortuna che gli era toccata, di avere potere sugli operai, certo la mattina non vedeva l�ora di guardarsi allo specchio e di vestirsi e di prendere la giacca con le quattro tasche coi bottoni e di infilarci il taccuino con i nomi e i dati di tutti gli operai della fabbrica di birra, ed era così con tento di sé che mezz�ora prima della sirena era già davanti all�ufficio e, in piedi a gambe larghe, con gli stivali e i pantaloni alla cavallerizza, con sguardo pungente osservav

a gli operai che arrivavano al lavoro, notando non solo se arrivavano in orario, ma con che voglia e se sbadigliavano ancora, e così via. Lo zio Pepin non piaceva al signor caposquadra, siccome lo zio sul lavoro gridava tanto lo mandava sempre nella caldaia quando bisognava scrostarla, togliere il salnitro, anche quel lavoro non lo voleva fare nessuno, perché nella caldaia c�era polvere e le lampadine accese e due operai con i martelli battevano come picchi centimetro quadrato per centimetro quadrato, un pezzetto dopo l�altro, e il salnitro si polverizzava e gli operai dovevano tenere sciarpe e fazzoletti avvolti intorno alla bocca. Ma lo zio Pepin lavorando cantava e strepitava, perché l�operaio che lavorava con lui altrimenti si sarebbe disperato, l�unica difesa contro la polvere e l�aria soffocante della caldaia era per tutti divertirsi a spese dello zio che sbraitava, ogni momento qualcuno entrava nella sala macchine e urlava nella polvere rosa della caldaia: «Il vecchio Repa ha detto che lei al fronte pascolava le capre». E lo zio con martellate possenti scrostava la caldaia e tenendo il ritmo urlava: «Ma le pare, imbecille, che al fronte ci sono le capre? La capra è delicatina, come sente uno sparo quella se la batte. Ah! E quando c�è battaglia, al fronte, è proprio il momento di stare a combattere con le capre!». E i meccanici avevano aperto le bocchette di ventilazione e la voce dello zio tuonava sulla fabbrica di birra come mandata da un megafono e il signor caposquadra arrivò di corsa e aprì il taccuino gridando nella caldaia: «Come si permette di urlare sul lavoro? Non pensi che visto che suo fratello è il signor amministratore lei può permettersi tutto, questa cosa me la segno!». E annotò qualcosa sul taccuino e guardandosi intorno con aria vittoriosa sorrideva pieno di boria ed esultante, perché fra tutti gli operai solo lui era riuscito a diventare caposquadra, che sugli operai ha molto potere. E quando il lavoro di pulitura della caldaia fu terminato, il signor caposquadra organizzò lo spurgo dei canali, anche in questo caso lo zio Pepin spariva, si infilava sottoterra come in un sottomarino, e un operaio stava fuori con la carriola di latta e lo zio nelle viscere e negli intestini della fabbrica di birra prendeva la fanghiglia con una piccola pala e vuotava nel secchio una palata dopo l�altra e quello che lavorava con lui tirava su il secchio, lo svuotava nella carriola, e quando si annoiava o quando un altro operaio passava vicino alla fogna aperta, allora si inginocchiava e urlava nel canale: «E� venuta Zaninka, diceva che si sta cucendo un pigiamino per le nozze». E se ne andava e dalla fogna come un enorme geyser sgorgava e risuonava gioioso e batteva sulle pareti e si sollevava in alto verso il cielo l�urlo dello zio: «Cosa, quel vecchiaccia? Cammina come se ci ha una poppa tra gambe, e io dovrei sposarmi con quel coso? Io, quello che miete successi con le primarie bellezze?». E la voce dello zio era così penetrante che attraversava il frutteto della fabbrica di birra e volava fino a noi, arrivava fin a papà entrando dalla finestra aperta dell�ufficio, e il signor caposquadra correva, ancora in corsa apriva il taccuino e poi si inginocchiava sulla puzza della fogna gridava verso il basso: «Signor Jozef, non pensi che su fratello abbia alcun potere� Sugli operai qui decido io! Si dedichi immediatamente al lavoro e non perda tempo in chiacchiere!». Fu quando arrivò il tempo del taglio del ghiaccio che il signor caposquadra mise lo zio Pepin al lavoro più duro. Era ancora buio quando gli operai addetti cominciavano a tagliare dalla superficie del fiume i lastroni di ghiaccio, delle lunghe strisce di ghiaccio che poi presso la riva un operaio divideva in lastre e in ogni lastra ritagliava un occhiello e all�occhiello si agganciavano gli operai sulla riva, e poi in due coi ganci tiravano a riva le lastre di ghiaccio, e poi, sempre in due, coi guanti viola gli operai prendevano le lastre e le lanciavano sui carri e, dato che il ghiaccio si pesava, ogni contadino voleva avere un carico pesante, così con altre lastre di ghiaccio rialzavano le sponde e le fiancate dei carri, e i carichi di ghiaccio lucente splendevano iridati nel rosso sole gelato del mattino e i cavalli cominciavano a tirare, la pelle sulle cosce posteriori gli si raggrinziva, ogni volta era come se le gambe gli si spezzassero, come se cadessero in ginocchio, i loro ferri taglienti si conficcavano nella riva ghiacciata, sotto gli zoccoli il ghiaccio si frantumava e le sale di ferro si incollavano e ogni carico cigolava e gemeva, ogni ruota era come una pompa male oliata, e così uno dopo l�altro, come le sfere sul quadrante, i carri si muovevano verso la pesa della fabbrica di birra e poi ancora avanti, a volte c�erano tre, quattro carichi fermi davanti alle macine del ghiaccio, ai frantumatori del ghiaccio, che le tazze

dell�elevatore, passando per il vano di corsa del montacarichi, sollevavano fin sotto il tetto della ghiacciaia alta sei piani, lì vuotavano il contenuto della loro tasca e tornavano indietro sul nastro trasportatore. Nel pomeriggio dal fiume si levava il suono del grammofono, su un tavolo bolliva il punch e bambini e studenti pattinavano e io soltanto avevo paura, io soltanto vedevo il lavoro sul fiume ghiacciato, io soltanto vedevo i cavalli stanchi con la criniera e le code fiorite e intrecciate di brina, io soltanto vedevo e vivevo la gravezza del ghiaccio che veniva sollevato, vedevo caricare sui carri l�intera superficie del fiume, una catena di lavoro spaventoso, durante il quale non c�era dove scaldarsi o, se pure, solo nella capanna attaccata alla parete della ghiacciaia, dove sopra la stufa infuocata erano sempre protese alcune paia mani intirizzite� E dal frantumatore si levavano sonori il canto e le urla dello zio, le sue grida allegre, irose, solo le bizze dello zio Pepin riuscivano a scaldare gli operai e, soprattutto, riuscivano a fargli venire voglia lavorare� Lo zio stava in piedi vicino al frantumatore con un gancio, e quando arrivò un carico, si mise a gridare: «Un soldato austriaco è sempre vincitore, vince sempre e dovunque!». E prese il piccone e con due colpi sganciò il fermo della fiancata, che si aprì, e il ghiaccio si versò nella macina e la macina golosa con gran gusto frantumava quel ghiaccio trasparente e lattiginoso, e lo zio Pepin prese il gancio e si piegò e, come Don Chisciotte che ingaggia battaglia contro i mulini a vento, conquistò la posizione alla baionetta e cacciò uno strillo e l�operaio dall�altra parte assunse pure lui una posizione ridicola e lo zio comandò: «�Einfacher Stoss! Vorwärts!�». E attaccò le lastre incastrate, e gridava strillava e distribuiva colpi, e il ghiaccio si versava nella macina, varie volte dovettero tenere lo zio abbracciandolo con tutte e due le braccia, perché non sgobbasse tanto, perché non si ammazzasse di fatica, a bracciavano lo zio amorevolmente, dei giganti a cui arrivava a mala pena alla spalla� ma lo zio Pepin non si arrendeva, gridava: «Un soldato austriaco deve solo e soltanto vincere!». E si mise a lottare con il cocchiere, un gigante, anche gli altri cocchieri accorsero e risero fino alle lacrime, perché lo zio Pepin aveva steso il cocchiere che rideva, lo aveva schienato e gridava agli altri: «Così Fristensky batté il negro� e io così stendo chiunque!». E minacciava agitando il pugno viola sopra il naso rosso di quell�orso, ma il rumore della macina vuota richiamò lo zio e gli operai, bisognava tirare giù gli ultimi resti del carico, e quando l�elevatore a tazze ebbe portato su gli ultimi resti di ghiaccio e li ebbe versati nella ghiacciaia, in un certo senso respirò anche lui, allegramente a vuoto, con battiti regolari si rilassò, si riposò anche lui� A volte il ghiaccio era tanto duro che la macina non riusciva ad attaccarlo, gli operai dovevano spezzarlo con le mazze, con i ganci e con i pali, bisognava però fare attenzione che la macchina non prendesse anche gli attrezzi, che poi frantumava e non solo, spezzava anche i manici e li scagliava verso l�alto, mandandoli a conficcarsi nel soffitto del sottotetto. E lo zio non aveva paura, lottava per qualsiasi manico di qualche cosa, mentre gli altri cadevano a terra e si allontanavano di corsa per ripararsi dietro le travi, lo zio rideva e gridava e urlava di gioia: «Un soldato austriaco vince su tutti i fronti anche in tempo di pace!». E l�aiutante urlò: «Se solo Zaninka potesse vedere!». E lo zio urlava: «Cosa potesse vedere, che cosa blatera, imbecille! Quella vecchiaccia non sa neanche ballare il tango». E in disparte se ne stava inosservato il signor caposquadra, si avvicinò e sorrise e disse: «Zaninka guarda caso il tango lo sa ballare eccome, sapete?». Così disse, e si voltò verso i tagliatori e gli operai, poi verso lo zio, ma lo zietto Pepin divenne silenzioso e disse piano: «Che cosa te ne frega», e cominciò a fare pulizia intorno al frantumatore, si era inginocchiato e prendeva il ghiaccio frantumato coi guanti viola, e gli operai, come se avessero capito dopo un momento, si inginocchiarono accanto allo zio e si misero a gettare i pezzettini di ghiaccio nel montacarichi e i cocchieri si allontanarono verso i loro carri e il signor caposquadra rimase lì da solo, il sorriso gli si gelò in faccia e preferì far finta di non capire quello che era appena successo, tirò fuori il taccuino, ci scrisse qualcosa, e gli operai erano più silenziosi, come con lo sguardo fisso sul fuoco guardavano il frantumatore che girava, finché il signor caposquadra capì e se ne andò, infilò il cancello della fabbrica di birra, perché da tempo ormai gli operai non lo consideravano più uno di loro. Ah, com�erano diverse le arrabbiature che sapeva prendersi il nonno! Allora, durante le vacanze ero seduto col nonno in giardino e il nonno voleva acce

ndersi il sigaro e, dato che c�era vento, il nonno cominciò ad arrabbiarsi e a imprecare contro il vento, che gli spegneva i fiammiferi uno dopo l�altro, finché gli spense anche l�ultimo. E il nonnino chiamava: «Nanynka, portatemi fiammiferi, capito?». Ma nessuno portava i fiammiferi e il nonno urlò: «Nana, i fiammiferi!». E rimase in ascolto, ma i fiammiferi non li portava nessuno e allora il nonno gridò: «Nanka, per la miseria, che fate con questi fiammiferi?». E si teneva alla poltrona di vimini lanciava occhiate alle finestre aperte dietro di lui, da cui uscivano le tende gonfiandosi. E io dissi: «Nonnino, vado io a prenderli!». E il nonno urlava: «Per lamiseriaporcomondoeporcaputtana, ragazze, possibile che non mi portate i fiammiferi?». Allora corsi in casa e la nonna e la serva stavano correndo da una finestra all�altra e non riuscivano a srotolarsi dalle tende e attraverso la finestra aperta arrivavano le urla del nonno: «Puttane, dove sono i fiammiferi?». E io presi i fiammiferi alla nonna e feci finta di mettermi a correre, ma mi fermai nel corridoio ad ascoltare il nonno che sbraitava e sbatteva non solo la poltrona, ma anche il tavolino e urlava «Puttane, io vi ammazzo tutte quante, dove sono �sti fiammiferi?». E la nonna e la serva Anicka stavano già tirando fuori dalla legnaia un vecchio armadio e diedero l�accetta al nonno e il nonno in due minuti spaccò tutto l�armadio e poi si accasciò nella poltrona e io gli diedi i fiammiferi, ma il nonno non li voleva più, rimase per un po� a riposarsi, come se fosse stato reduce da una terribile lotta, come nel film, quando il marito viene a sapere che la moglie lo tradisce, e intanto la nonna e la serva mettevano nel cesto per la stipa le schegge dell�armadio e portavano nella legnaia i pezzi più grossi, il nonno guardava fisso davanti a sé con espressione terribile e roteava gli occhi, ma un quarto d�ora dopo ritornò in sé, rise, si scosse ed era di nuovo allegro e giocherellone. La mamma mi raccontava che a suo padre piaceva arrabbiarsi come a questo mio nonno, e io pensavo che fosse una cosa usuale in passato, ma lui si arrabbiava volentieri anche adesso che era già in pensione. Prima che andassi via, alla fine delle vacanze, mi portò alla giostra, mi comprò tutto quello che volevo, tanto che mi sentii male, ma mentre tornavamo, il fatto è che la nonna aveva messo le tende ad asciugare in giardino su dei lunghi pali, le quattro stagioni dell�anno e i dodici mesi erano ricamati su quelle grandi tende, che la nonna aveva fatto lei stessa all�uncinetto, e quando mi svegliavo guardavo la finestra e leggevo quelle tende come un libro illustrato a fisarmonica o un libro con le figure, insomma il nonno mentre passavamo si impigliò i pantaloni a un chiodo dei pali su cui le tende erano stese al sole e se li strappò un pochino� e subito il sorriso sul volto gli si rovesciò, come nella pagina per i più piccini del «Piccolo lettore», se girate verso l�alto la faccia che ride la stessa testa diventa una faccia che piange, e così, come se il nonno si fosse strappato non i pantaloni, ma l�anima, la risata in cui eravamo stati tutto il pomeriggio lo abbandonò e il nonno tirò col dito nel buchino e lo allargò, forse perché così poteva gridare e arrabbiarsi: «Chi ce li ha ficcati apposta qui �sti chiodi? Chi?» urlava rivolto alle finestre aperte della casa. «Dov�è Anka? Nanynka, dove siete?» urlava, ma le tende sventolavano e la casa era silenziosa. «Dunque è così che fate, chi è quella puttana che ce l�ha messi? Confessate, o non confessate?». «Nonnino» faccio io, «vado a vedere dov�è la nonna�». Ed entrai nella casa e da dietro le tende mi misi a guardare il giardino, e nonno stava là in piedi e guardava le finestre, le fissava pieno di rabbia, come se fossero state occhi, e urlava e pestava i piedi: «Quindi voi fate così? Non vi fate vive Puttane, questi sono pantaloni nuovi! Venite a cucirmeli, di corsa!». Ma in casa nessuno si mosse, c�era silenzio, le tende sventolavano e il nonnino splendeva nei fiori vicino al prato verde su cui si asciugavano le tende splendenti, erano stese ad asciugare imbevute di amido con le quattro stagioni dell�anno e i dodici mesi, tutte le figurine erano figure di angioletti, anche in inverno gli angeli avevano le alucce, come li aveva ricamati la nonna per il corredo quando era giovane. «Allora voi fate così» gridò il nonno, e saltò sopra le tende pestandole e le tende si strapparono dalla cornice e dai chiodi e il nonno si avvolgeva gli angioletti sulle scarpe e ci si rigirava dentro e, siccome avevano almeno mezzo secolo, le tende si strapparono, sentii lo strappo e il rumore, e anche questo fu poco per il nonno, quando si strappò via dalle tende, per l�ultima volta chiamò e gridò ancora: «Anka, prendete il filo, Nanyna, puttane, portate il filo, riparatemi questi pantaloni!». Ma la casa era silenziosa e il nonno infilò il dito e poi tutta la mano nella fessura e si strappò i pantaloni fino a sotto e si chinò e prese la gam

ba sana e mentre la strappava cadde, tanto la stoffa era forte, ma per terra si spogliò rimanendo in mutande e poi strappò i pantaloni ormai senza ostacoli e poi si mise a saltarci sopra e a pestarli, ma anche questo era poco per lui, li portò di corsa nella lavanderia, li ficcò sotto la caldaia, ma anche questo per lui era poco, prese i fiammiferi dalla caldaia e accese e diede fuoco ai pantaloni� e in quel momento arrivarono la serva e la nonna e si disperarono e posarono il cesto con i panni stirati e per prima cosa tirarono fuori un armadio e il nonnino lo buttò per terra con le mani e sfasciò quel vecchio armadio con le mani e col peso del corpo e poi con l�accetta spaccò le ante e la nonna tirò fuori da sotto la caldaia i pantaloni che bruciavano e corse fuori e tolse dalle tasche i documenti e la borsa con i soldi, perché il nonno quando aveva un dispiacere era terribilmente sensibile, ma quando ritornava in sé era di nuovo il più caro nonnino del mondo e scaricava tutta la colpa sulla razza, diceva: «Gli slavi sono spaventosamente sensibili». E così stavo lì con i pattini a tracolla, le lampadine erano già accese, si sentivano i treni in lontananza e gli operai addetti al taglio del ghiaccio dicevano che entro due giorni sarebbe arrivato il disgelo, e io guardavo arrivare dal buio i carichi di ghiaccio, sembravano i Tatra quegli iceberg caricati di traverso sui carri, i cocchieri e gli operai erano avvolti nelle coperte e ai piedi avevano dei sacchi zuppi legati con delle corde, alcuni agitavano le braccia e i guanti viola erano come pesanti ali di uccelli che non potranno mai alzarsi in volo, dunque agitavano almeno le braccia per riscaldarsi e lo zio Pepin gridava e cantava �In riva al lago gorgheggia un usignolo�, e attaccava col gancio i lastroni che dalle fiancate dei carri opponevano resistenza, come San Giorgio con la lancia lottava contro il drago di ghiaccio, dal fiume arrivava la musica del grammofono e nella luce delle lampadine colorate coppie di studenti e studentesse ballavano e si poteva vedere il vapore uscire dalla pentola sotto la luce della lampadina, dalla pentola da cui venivano tolti mestoli d�acqua bollente e si faceva il punch caldo e io guardavo lo zio, che da noi non veniva più perché aveva fatto di nuovo la sua rivolta, e io ero infelice, gli portavo il pane imburrato con la scusa che lo imburravo per me, non sopportavo più di vedere che lo zio Pepin, dopo aver speso in due giorni tutta la paga con le signorine, già il mercoledì prendeva il pane vecchio alle galline e mangiava con loro le patate. Quando mi ricordai che dovevo andare a casa non ebbi voglia, preferivo starmene lì, in un angolino in penombra, nel libro di lettura avevamo la figure dell�Orfanello, me ne stavo lì così e non avevo voglia di andare a casa, anche se a casa avevo tutto e il caldo e grammofono, di certo là c�era di nuovo la compagnia di bella gente, la gente della città, che la sera si scambia visite e conversa di teatro e di cultura e beve birra, era già successo tre volte che la mamma il giorno successivo, dopo che i nostri ospiti avevano bevuto tre casse d birra, lei la mattina dopo aveva bestemmiato perché qualcuno degli ospiti aveva confuso il gabinetto con la dispensa e invece che nella tazza del water aveva pisciato nel secchio dello strutto� E la mamma la mattina aveva fatto scolare il liquido, e la sera, quando arrivò la compagnia, vidi che aveva portato il secchio e offriva agli ospiti il coltello e il pane fresco e li pregava di spalmarsi il pane con lo strutto, quanto ne volevano� e gli ospiti si spalmavano il pane e lo assaggiavano e dicevano: «Altroché, questo sì che è strutto, si riconosce il mangime della fabbrica di birra�». E io li guardavo come la mamma e la mamma gli aveva solamente restituito quello che loro le avevano fatto, ma io glielo auguravo, ai nostri ospiti, perché mi erano tutti antipatici, erano troppo perfetti, tanto che mi facevano venire i complessi e non sapevo cosa gli dovevo dire, e diventavo rosso e tacevo e nessuno riusciva a tirarmi fuori una parola. Mi facevano ridere, i nostri ospiti, adesso che guardavo camminare intorno a me una dozzina e più di pesanti scarpe bagnate, avvolte nei sacchi e legate con le corde, e vedevo tutti i nostri ospiti là da noi dall�altra parte del frutteto, vicinissimi, che in quello stesso istante avevano scarpette su misura, adesso per gli uomini era addirittura di moda avere il piede piccolo, spesso vedevo i nostri ospiti che, dopo aver camminato lungo il fiume attraverso i campi per il tratto che ci separa dalla città, si appoggiavano al muro della fabbrica di birra, alzavano la gamba e si chinavano e cercavano di riattivare la circolazione e si massaggiavano le scarpine e le dita, che gli facevano male solo perché avevano le scarpe di un numero più piccole, ma erano eleganti� E dissi allo zietto: «Zio, tornate da noi�». Ma lo zio fece un g

esto con la mano: «Il lavoro viene prima di tutto, ma poi cosa te ne frega!». E mostrava come si agganciano i fermi in modo impeccabile, e come il suo braccio con energia incrollabile, quasi fosse stato ubriaco, lavorava col gancio e faceva scendere le lastre di ghiaccio nella macina. E attraversai il cancello aperto, le lampade agli angoli erano accese, dal fiume tirava il vento profumato che portava il disgelo, i treni in lontananza sferragliavano era come se passassero proprio accanto al muro della fabbrica di birra� E vicino alla malteria il vento si alzò come sempre, mi soffiava forte nella schiena, dovetti sdraiarmici sopra, se mi fossi piegato in avanti solo un po� di più avrei volato e incespicato, sarei caduto, tanto era forte il vento in quel punto, adesso mi soffiava vicino alle orecchie e mi prendeva i pattini che avevo a tracolla, me li scostava di dosso� ma dopo alcuni metri il vento cessò di colpo e i pattini si scontrarono rumorosamente e io vidi le finestre illuminate delle case assegnate ai dipendenti, gettai un�occhiata in cucina, ma vicino alla stufa della cucina c�era papà, assorto, beveva il caffè lentamente e con espressione assente, vidi che i fornelli erano pieni di tegamini e pentolini, poi arrivò il signor direttore della scuola e rideva e la mamma era in piedi sulla porta che conduceva nelle stanze e rideva anche lei, e poi vidi che sul tavolo c�erano degli straccetti tagliati a forma di quadrati, la mamma e il signor direttore della scuola li prendevano al centro e li scuotevano e poi li legavano con dei fili e li immergevano nei pentolini sulla cucina, poi dall�altra stanza vennero anche il signor consigliere del tribunale e il signor farmacista ed erano tutti di buon umore, anche papà sorrideva, e poi gli diedero gli straccetti e papà li stringeva, si divertivano tutti enormemente in quel lavorio, e io non riuscivo a spiegarmi che scopo avesse tutto ciò. Cosa ne faranno? E poi lo vidi. la mamma scioglieva le cordicelle e i fili e quando li spiegava gli straccetti erano belli come l�ala di una farfalla, come un�occhio di pavone, su ogni straccetto giocavano colori metallici, blu e verdi e neri� e i nostri ospiti portavano i fazzoletti di batista nell�altra stanza dove non arrivavo a vedere� e allora feci il giro delle case dei dipendenti passando silenziosamente per il giardino, sentivo che i montacarichi della ghiacciaia stavano frantumando un altro carico di ghiaccio, le luci delle lampadine sistemate lungo la ghiacciaia verso l�alto tagliavano violentemente gli spigoli delle travature di quell�edificio, era come se là dietro, dietro la fabbrica di birra, ci fosse un�incendio, era come un quadro sacro del giudizio universale, le lampadine mandavano nella notte un segno di sventura che ardeva di zolfo e di mercurio, tanto che i contorni della fabbrica di birra e le ombre mi sembravano verdi� dalla finestra invece vedevo dentro casa nostra, su lunghe corde erano stese ad asciugare centinaia di fazzoletti di batista, e la mamma e gli ospiti ne portavano continuamente degli altri dalla cucina, era una cosa meravigliosa quello che vedevo accadere in casa nostra, avevo voglia di entrare ad aiutare, ma quando mi ricordai dello zio Pepin avvolto nelle sciarpe e con le scarpe avvolte nei sacchi e nelle corde e degli altri operai che tagliavano il ghiaccio, cominciai a sorridere con amarezza, era come se stessi cominciando a intuire l�esistenza di due mondi completamente differenti, ciò che vedevo là e ciò che vedevo qui, tremai per quella percezione di un mondo differente, di un mondo diviso in due parti come il mantello di S. Martino diviso dalla sciabola, due parti che malgrado ciò continuano a esistere l�una accanto all�altra, come i fazzolettini di batista, che il signor direttore della scuola stava stirando dopo essersi messo il grembiule della mamma, e le scarpe e i vestiti zuppi là dietro la fabbrica di birra, dietro la ghiacciaia, da cui il nastro a tazze continuava a portare verso l�alto il suono del ghiaccio frantumato e la luce delle lampadine appesa nel livido cielo buio. E la mamma aveva avviato la macchina da cucire schiacciando il pedale e aveva misurato i pantaloni a papà, mentre gli prendeva la misura al cavallo gli ospiti strillavano eccitati e si soffocavano dal ridere, solo papà era serio e si vergognava� e la mamma metteva i fazzoletti di batista asciutti e stirati uno accanto all�altro e la macchina da cucire cigolava e gli ospiti osservavano e chiacchieravano, e ridevano e bevevano birra, e la mamma dopo un po� pestando sul pedale della macchina da cucire cigolò fuori un bel paio di pantaloni, e poi prese a papà la misura dell�altezza, del torace e delle braccia e continuò a cucire e cucire, e il signor direttore, seduto su una sedia, con ago veloce cuciva le maniche al corpo e attaccava dei pompon al posto dei bottoni, delle specie di bacche nere, e dopo

un�ora papà andò a cambiarsi e quando tornò era Arlecchino, gli diedero anche un berretto nero aderente con una lunga piuma di struzzo, la mamma gli infilò le scarpe nere nuove di vernice con lo stesso pompon invece della fibbia e ritagliò anche un quadratino di nastro nero e lo attaccò a papà sulla guancia e lo incipriò di cipria bianca fino a farlo tossire� e tutti si meravigliavano, anch�io ero stupito, perché papà non era semplicemente bello, era il più bello di tutti gli uomini, eppure lui continuava a immaginarsi brutto, una specie schiavetto dell�infinito. E il direttore della scuola e consigliere del tribunale portarono lo specchio ovale dalla camera da letto e quando papà si guardò me ne accorsi, mi sembrava di vedere me stesso, come me papà in se stesso non ci credeva, come papà io avevo paura di guardarmi allo specchio, ma adesso papà doveva vedere, e infatti vedeva, si guardò a lungo, poi alzò un, mano, forse non ci credeva che era proprio lui, io facevo il tifo per lui lì fuori dalla finestra, adesso guardati per bene, papà! E guarda gli altri nostri ospiti! E papi si mise in una posizione da vero Arlecchino e rise di una risata sana, per la prima volta, benché fosse vestito come un buffone da circo, riconobbe se stesso, si ritrovò. E sollevò la gamba con la scarpa elegante di vernice e la mise sullo sgabello, si appoggiò col gomito al ginocchio piegato, posò il viso nel palmo della mano, faceva il personaggio malinconico di Arlecchino, �I milioni di Arlecchino�� E la mamma dal corridoio portò un secchio e lo mise sul tappeto sotto la bocca di papà come al ballo, quando ad Arlecchino viene da vomitare si sente così male� vedevo e capivo ogni cosa� e vedevo la compagnia a casa nostra continuare a stirare e continuare a cucire, e la macchina da cucire continuava a cigolare, mentre adesso dietro la ghiacciaia l�elevatore a tazze cigolava a vuoto, ormai non veniva più portata su nemmeno una scheggia di ghiaccio, adesso solo la macchina da cucire allegramente sbatteva le cinghie e sfregava gli ingranaggi� e io mi sentii sollevato, il senso di oppressione sparì, ero riuscito a sentirmi tanto in sintonia con la macchina che ero stato lei per tutto il pomeriggio di oggi, ma poi le luci si spensero� e le cinghie si raffreddarono e il signor Vanátko, il guardiano notturno, imbracciò il fucile messicano e tolse la sicura al revolver, erano armi che non potevano sparare, e con il suo cagnolino si addentrò lentamente tra gli alberi, per tutta la notte avrebbe sorvegliato terrorizzato le cinghie vere, perché quelle costavano cinquantamila corone e Vanátko aveva sottoscritto a papà che le avrebbe dovute ripagare. Poi all�angolo della malteria comparve il berretto bianco da ufficiale di marina dello zio, come quello che portava il vecchio Hans Albers, lo zio lo teneva con tutte e due le mani contendendolo al vento, alla fine riuscì a trasportare il suo berretto in un punto riparato, vidi lo zio saltare il cancelletto e correre via, per fare ancora in tempo a trovare le belle signorine di Zofín e a ballare con loro e a regalare loro gli ultimi due biglietti da dieci corone che sabato si era messo nelle scarpe, perché le ragazze domenica non glieli prendessero. E poi scivolai in casa, aspettai un po� in silenzio sulla porta e mi svestii e mi misi a letto, nessuno mi cercava, e poi, come esaudendo un mio desiderio, le porte si aprirono da sole e io di sotto al piumino e dal buio guardavo la fila illuminata delle stanze e vedevo che col passare delle ore sotto le dita della mia mamma scorrevano fuori dalla macchina per cucire altri pantaloni di batista e maniche e lunghe giacche, vedevo abili mani maschili attaccare infaticabili i pompon neri, e continuamente altre casse di birra e una stanchezza incrollabile� e. verso mezzanotte vidi che l�entusiasmo della compagnia non accennava a diminuire, per arrivare al culmine� E io ero vecchio, io ebbi all�improvviso la sensazione di essere vecchissimo, più vecchio della compagnia della mia mamma, loro erano dei bambini che cucivano i vestitini alle bambole�. ma quando la compagnia si vestì con i costumi da Arlecchino e tutti si furono messi i berretti neri attillati e le piume e si furono rimirati a sufficienza negli specchi e negli specchi degli occhi degli altri, e quando ormai non trovavano più parole per lodarsi, dicendosi l�un l�altro come gli stava bene il costume, e quei vestiti stavano davvero bene a tutti, il signor direttore della scuola batté le mani e diede l�ordine e la compagnia si mise le maschere nere sul viso e, dopo che si furono incipriati, il direttore della scuola dichiarò iniziate le prove della scena di mezzanotte degli Arlecchini per il ballo in maschera del Sokol. 6. Dopo che lo zio Pepin fu dimagrito di cinque chili, dopo che lo zietto ebbe smes

so di farsi il bagno, e, semmai, una settimana si lavava una mano e la settimana successiva un piede e la terza settimana l�altra mano e la quarta il piede rimanente, dopo una settimana poi lavava il collo e dopo un�altra ancora il torace, quando, dunque, cominciò a essere fisicamente malridotto, sfumarono in lui la rivolta e la rivoluzione. Ritornò da noi mortificato, in segno di umiltà portava il berretto da ufficiale di marina in un sacchetto di carta trasparente andò a sedersi in cucina come faceva tre mesi prima. E la mamma gli diede solo la salsa al cren con i �knedlíki� e lo zio la mangiò avidamente e nelle pause gridava con la bocca piena: «Roba così la mangia solo l�arcivescovo!». E quando poi la mamma riscaldò i �knedlíky� coi crauti del pranzo del giorno prima, l�entusiasmo e le lodi dello zio Pepin non finivano più, prima di passare direttamente alla pentola gridò: «Questo era il cibo più caro al defunto imperatore Cecco Beppe!». E poi baciò la mano alla mamma e le stampò sul dorso della manina la salsa al cren e un po� di crauti e disse che la mamma funzionava proprio come la baronessa Schratt, l�amante dell�imperatore, altrimenti attrice e a quel tempo la più bella donna non solo di Vienna, ma di tutta l�Austria, compresa la Transilvania, dove c�erano le più belle puttane di tutta la Cisleitania. E poi pregò papà di tenergli di nuovo i conti e di dargli quello che gli serviva ogni giorno per le spese e per le sigarette e per il bucato e per l�organizzazione. E papà, vedendo suo fratello così sottomesso, pianse e disse: «Sai cosa, Pepin? Ti insegnerò a smontare la Skoda quattrocentotrenta!». Lo zio Pepin disse: «Bisogna poi vedere se ci ho talento criminale, è come forzare la cassaforte con una chiave inglese». Ma papà disse che con la buona volontà si impara tutto, e aggiunse: «E dove sta scritto che devi rimanere per tutta la vita maltatore e operaio? Infatti puoi diventare autista, abbiamo venduto i cavalli e ora abbiamo due camion!». E quello che aveva detto era vero, anche la mamma rimase assorta, Bubik, l�enorme castrato, l�avevano rapato a zero e verso sera l�avevano portato al mattatoio, Bubik al mattatoio si slegò e si aprì il cancello e attraversò tutta la città, poi il ponte, conosceva a memoria le strade di tutto il distretto, e dopo mezzanotte nitrì vicino al cancello, ma Vanátko, il guardiano notturno, dormiva profondamente e papà riconobbe il nitrito di Bubik e allora si alzò, aprì il cancello e poi anche la scuderia e Bubik nitrendo andò dritto al suo posto, la mattina nitrì agli operai che era venuto da loro, dagli amici, ma il cocchiere non c�era, il cocchiere aveva tre giorni di permesso, perché quando un cocchiere va in giro per diciotto anni con gli stessi cavalli e poi quei cavalli vengono mandati al macello, papà aveva deciso che era come un lutto in famiglia e che quindi gli spettavano tre giorni, perché potesse piangere tutte le sue lacrime e bere per il dolore di aver perso il cavallo, come se gli fosse morta la mamma o un fratello, insomma uno dei membri più stretti della famiglia� e allora riportarono Bubik al mattatoio, ormai camminava mogio, non nitriva più, dal suo aspetto si capiva che non c�era più niente da fare, che per lui era la fine, perché a fiuto aveva già capito che al mattatoio ne va della vita di qualsiasi essere vivente. E allora papà camminava insieme allo zio Pepin, papà mise persino un braccio intorno alle spalle del fratello, quel sabato si allontanavano così, intimi e affettuosi, e papà con entusiasmo spiegava allo zio Pepin che la Orion doveva essere smontata perché aveva un guasto tecnico, mentre la Skoda quattrocentotrenta funzionava così bene, che papà la smontava solo per capire perché quella macchina funzionava in maniera così precisa, perché partiva, marciava così perfettamente, che per quanto era perfetta papà non ci dormiva. «Uno deve capirle le cose» urlava lo zio Pepin. E papà annuiva soddisfatto: «Eh sì, proprio così, io non solo le capisco, ma ho il desiderio, come un filosofo, di capire la causa della perfezione dell�ordine, perché ricordati, Jozinek, che il motore di una Skoda quattrocentotrenta è perfetto come la natura, come l�Universo». E papà stese per terra giacche sacchi, ci mise sopra Pepin e a marcia indietro spostò la macchina sopra Pepin, poi ci strisciò sotto pure lui, si ficcò sotto il telaio, trascinandosi dietro le chiavi per smontare. Quando si fu sdraiato accanto a Pepin, papà disse: «Allora, quei fili portano ai freni e noi adesso vediamo perché questi freni frenano così bene�». E papà si mise a smontare e porse una chiave allo zio pregandolo di scrostare piano il fango secco. E Pepin gridava «Uno non deve sapere troppe cose, sennò sono guai! In guerra un certo Jenícek, un Sacher, voleva sapere che cos�è un cannone, e lo domandava al maresciallo maggiore. E il maresciallo glielo spiegò per tutta la mattina e tutto il pomeriggio del sabato e Jenícek alla fine domandò come si fa a sbloccare il cannone. E il maresciallo lo portava come esempio a t

utti e gli insegnò come si sbloccava il cannone. E domenica pomeriggio Jenícek sbloccò il cannone, che si trovava nella caserma di Jicíri, il cannone sfondò il catenaccio e uscì dal portone e si lanciò dalla collina lungo il viale diretto verso Jicín. La gente riusciva a mala pena a ripararsi dietro gli alberi e il cannone finì poi con un salto nel verziere. Il fatto è che uno non deve sapere troppe cose» aggiunse lo zio e, siccome il fango non veniva via, colpì tre volte con la chiave il fondo asciutto della Skoda quattrocentotrenta e papà non se lo aspettava e il fango gli si sparse negli occhi e papà urlò: «Jozka, porco a pelo lungo, che cavolo fai?». E sdraiato sulla schiena sbatteva le palpebre e si puliva le ciglia con le mani sporche, e poi dovette girarsi sulla pancia, perché le lacrime facessero scorrere via quello schifo. Quindi constatarono che i freni erano a posto, e papà si meravigliava di non trovare nulla di visibile, perché i freni della Orion smettevano di funzionare quando bisognava usarli e quando li smontava e li rimontava, proprio così, con la stessa attenzione con cui aveva rimontato i freni della Skoda, smettevano di funzionare quando servivano proprio come prima. «Non è più bello smontare che andare dietro alle ragazze nei locali?» disse papà, e aveva già aperto il cofano e mostrava allo zio dove erano le candele e dov�era la testata del motore e dove il filtro dell�aria, e poi smontò i vari pezzi e poi la testata, e batté le mani e con passione spiegava e mostrava allo zio cosa sono i cilindri e cosa sono i pistoni e dove si trova il perno con la bronzina. E lo zio annuiva e raccontava: «E ci hai ragione, fratello, una certa Vlasta, dagli Havrda, senti questa fratello, gli uomini stavano giocando a carte, a �Gottes�, e Vlasta mi fa: �Ehi, maschio, dedicati un po� a me!�. Ma il vecchio Svec mi aveva dato dei mille da tenere, stavo seduto vicino a lui come una specie di Roscild, chi altro avrebbe ricevuto quell�onoranza, eh? E Vlasta si toglie la camicetta e mette una mano dietro la schiena e fa: �Discutiamo un po� del rinascimento europeo, mi senti?�. E io tenevo quei mille e non prestavo attenzione e all�improvviso Vlasticka slacciò il bottone del reggiseno e il suo seno sgorgò come due boccali da mezzo litro di birra e uno dei seni mi colpì alla testa e l�altro mi stese e il vecchio Svec cadde pure lui e trascinò giù il telo con le carte e tutti quanti i giocatori furono travolti dal seno di Vlasticka e lei stava sopra di noi, e come il quadro sacro, �Gesù risorge dalla tomba�, anche noi eravamo stati stesi a terra come quei soldati�. E Vlasta era in piedi e si rimetteva i seni nel reggiseno e il vecchio Svec fa: �Le caprette devono tornare all�ovile�, e ordinò due Martell e mi disse: �Tu starai seduto vicino a me, tu sì che sei un ragazzo cattolico, tu mi porti fortuna�». E papà disse: «Qui mi devi tenere il contro dado, però vi divertite, eh?». «Sì»se raggiante lo zio, «davvero!». «Uhm» disse papà con ribrezzo, «oggi per la prima volta tiriamo fuori anche la coppa dell�olio, va bene?». «Ma sì» disse lo zio, «allora lo riconosci che è un bel divertimento dagli Havrda! Se conoscessi Vlasta. Quella prima di mettersi a fare la chellerina era parrucchiera a teatro, era famosa anche in quel teatro, Franzin, faceva le parrucche, e una volta, mi ha raccontato, avevano dimenticato l�armadietto con i trucchi e le barbe ed erano in tournée e recitavano una commedia spagnola, si chiamava �Cid� oppure �Kid�� e sai come ha fatto Vlasta a procurare barbe e baffetti?». Papà preferì dire: «Adesso viene una delle operazioni più belle, ci riinfiliamo sotto la macchina e sganciamo la coppa dell�olio!». E poi strisciando sulla pancia si ficcò sotto la Skoda e lo zio continuava: «Allora Vlasticka si tirò su la gonna e poi prese le forbici e zac, zac, si tagliò i peletti, si rapò tutta, e siccome per fare i baffi non bastava, tagliò metà dei peli dell�aiutante parrucchiera� li incollarono a delle strisce di cerotto ovverosia pecetta ed ecco fatto, dieci cavalieri passeggiavano per il teatro arricciandosi i baffi, e Vlasticka ricevette poi dal direttore un encomio scritto�». «Puah» sputò papà, «e sì che potevano prendersi la lebbra oe piattole, ma, per l�amor di Dio, adesso concentrati, queste viti che ti passo mettile sull�assicella, poi quando arrivo all�ultima io sorreggerò la coppa sul petto e tu poi ti tiri fuori e mi porti il barattolo dei cetriolini e io ci verso l�olio». «Lo so» disse lo zio Pepin, «questo è l�olio della pigna, vero?». «Ma che pigna e pigna, il pignone è nel differenziale, là daremo un�occhiata sabato prossimo, o, se tu volessi, anche domani mattina, il pignone e il differenziale sono dietro, questa è la coppa dell�olio, dal motore, lì, come ti ho già detto, scende l�olio e la pompa lo spinge nuovamente verso l�alto, vedi?». «Vedo» disse lo zio, anche se non vedeva un bel niente, «l�olio va su allo spinterogeno, vero?». «Al culo!» gridò papà, «al culo e non allo spinterogeno, al culo!» urlava, e l�olio gli colò sul petto. «Adesso per pietà concentrati, io mi faccio sc

endere la coppa sul petto». E lo zio strillava entusiasta: «Questo sì, a Caruso ci mettevano i libri sul petto perché gli venisse una voce più bella, e cantava come la mucca destra del tiro, una gioia, un collo da giovenca svizzera, ma lo sai che Vlasta dice che come chellerina deve pagare la tassa sull�attività artistica? E letteraria? Come una scrittrice o una pittrice?». E papà ormai dimorava nel motore con tutta l�anima e rantolava per l�eccitazione «Reggi la coppa, ancora una vite, tirala su, così, con tutte e due le mani�». «Lo so» disse lo zio, «perché non cada il carburatore». «Signoddio, non mi torturare, il carburatore è sopra�.». «Lo so» disse lo zio fiducioso, «questa è la camma che spinge la benzina allo spinterogeno». «Quale spinterogeno?» mugolò papà. «Sì, in modo che ti vengono le scintille nel cardano, lo diceva un cliente del City bar, si chiamava Jarunka, è quello che fa l�aiutante alla stazione, la divisa gli sta un sacco bene, come al generale Gajda, lo sai che gli è successo? Si era addormentato in servizio e il telegrafista gli ha tirato fuori l�uccello e il signor manovratore gliel�ha spalmato di inchiostro per i timbri e Jarunka la mattina, arrivato a casa, così com�era, in divisa, volle dalla signora Jarunková la più bella prova d�amore e la signora disse di sì, ma quando il signor Jarunka ha tirato fuori l�uccello per eseguire conformemente al trattato del signor Batista una copula ovverossia coito, la signora Jarunková ha avuto paura di quell�uccello tinto di viola ed è corsa dal capostazione, che razza di casino ovverosia pasticci fate in servizio, e facendo irruzione di prima mattina nell�ufficio ha beccato il capostazione a testa nuda, che sul tavolo aveva la parrucca sul manichino e la pettinava proprio perché stava per prendere servizio, e allora la signora Jarunková ha dovuto prendere il sapone e mettersi a strofinare l�uccello al signor Jarunka sulla tavola per il bucato, ma non funzionava, allora ha preso l�acido, quello per pulire i gabinetti, ma il signor Jarunka si è messo urlare e a correre per tutto il quartiere fino alla stazione e ritorno e la gente si spaventava, un po� perché era in divisa, un po� perché ci aveva l�uccello viola, e un po� perché strillava tanto�». E papà estrasse l�ultima vite e la coppa gli si appoggiò sul petto e papà urlava: «Non mi urlare nelle orecchie, o comincio a urlare anch�io, vai a prendere le assicelle e portale qui e sollevami �sta coppa, è pesante». Lo zio Pepin sdraiato sulla pancia dava consigli: «Fratello, prova a cantare come Járinek Pospísil, si deve allenare un tenore, si deve allenare un allenatore�» biascicò e poi strisciò fuori, ma in ginocchio ci ripensò un�altra volta e chinò la faccia e chiese: «Non è che dovrei andare a pagare per l�organizzazione?». Ma papà urlò: «Non andare da nessuna parte, porta quelle assicelle, mi scorre già negli occhi!» «Cosa ti scorre?» chiese lo zio. «Negli occhi, l�olio!». E lo zio si meravigliò: «Negli occhi e l�olio? Ma, per finire di raccontarti, quel Jarunka, quello che abbassava le sbarre, ha anche scritto all�Accademia una comunicazione, corredata dalle osservazioni proprie e da quelle dei capotreni e dei capostazione, che i passerotti, gratis e in gruppo, salivano in un vagone vuoto e se ne andavano in gita nella Boemia meridionale, altre volte poi andavano alle terme Bohdanec, e una volta addirittura sono partiti da Kostomlaty per fare una gita a Vienna, senza permesso scritto, così, solo per dare un�occhiata a Vienna dallo �Stefi� ovverosia cattedrale di S. Stefano, e poi nei vagoni vuoti sono arrivati a Vrsovice e hanno preso la coincidenza del merci che trasporta il latte e sempre nei vagoni sono tornati a Kostomlaty, giusto a Praga hanno fatto un voletto per dare un�occhiata al Castello� ma mi chiudono, non dovrei fare un salto a prendere il bucato?». E papà ormai non ce la faceva più, versò metà dell�olio della coppa e con le ultime forze la sollevò e la adagiò con cautela accanto a sé, così non andava, era come sepolto in miniera, dovette trascinarsi fuori, perché la coppa e papà combaciavano come due fette di pane imburrate� e poi papà strisciò fuori alla luce del sole, sporco e imbevuto d�olio, poi si girò ed estrasse con cautela la coppa, si raddrizzò e la portò fuori tenendola sulle braccia e teneramente, come un bimbo nel lettuccio, la adagiò nel vecchio smielatore. «Allora questa è la coppa dell�olio» fece allegro lo zio Pepin quando vide che papà era arrabbiato. «Questa è la coppa dell�olio» si addolcì Franzin, «e adesso vieni a vedere che meraviglia troviamo di sotto!». Si inginocchiò e chiamò Pepin, perché si infilasse dietro a lui sotto il telaio della Skoda. «Non è che dovrei piuttosto andare a comprarmi il latte e il pane?» si spaventò lo zio. «Sei di nuovo a mangiare da noi» disse papà e, appoggiandosi sui gomiti, si introdusse con circospezione in quello spargimento d�olio e Pepin lo seguì, poi si girarono sulla schiena, stavano sdraiati nell�olio e papà indicava col cacciavite e con voce sommessa e piena di ardore nominava come una preghiera i pezzi della macchina,

che pendevano sopra di loro attaccati all�albero e ai giunti, qua e là gli gocciolava una grassa lacrima d�olio sul viso, ma papà continuava a parlare e a illustrare, e lo zio Pepin aveva nostalgia dei tempi d�oro, il giorno prima mangiava ancora la crusca con le patate alle galline, ma a quell�ora era già in cammino col berretto da ufficiale di marina diretto dalle belle signorine, mentre andava da loro, le finestre e le porte della cittadina si aprivano, la gente usciva di corsa e lo zio faceva il saluto come Hans Albers. In quel momento vicino alla Skoda 430 si fermarono un paio di pantaloni bianchi visibili fino al ginocchio, poi delle scarpe bicolori fecero alcune volte avanti e i dietro, e poi si abbassò accosciandosi una figura in un completo bianco da terme. Il signor Burýtek, il macellaio, già in tenuta da terme, la faccia rossa e piena emanava tè, il signor Burýtek il rum lo chiamava tè, aveva già finito di lavorare, al mattatoio non aveva importanza che bevesse, ogni settimana quando arrivavano i due vagoni di porcellini ungheresi con l�aiutante attaccavano una passerella che andava a restringersi, poi si mettevano ai due lati con i coltelli, appena i porcellini correvano fuori alla luce del sole, uno per uno gli tagliavano la gola col coltello, e i porcellini poi continuavano a correre nel sangue e a rantolare finché non cadevano, e quando l�ultimo porcellino si era deciso a venir fuori, gli facevano anche dei tagli perché, come diceva il signor Burýtek, solo così, correndo di qua e di là, il porco si dissangua per bene. E poi il signor Burýtek non era un macellaio qualunque, si lanciava su un maiale grande, su una troia di due quintali, lottava con lei da solo col coltello, che lo volesse o no, affrontava il maiale, e, quando si faceva la maialatura casalinga, dopo averlo schienato gli bucava il collo con il coltello e resisteva e ne sopportava lo spasmo mortale. Era capace di affrontare tutto, quel macellaio, solo sua moglie no, quella gli stava a casa nella bottega, è vero, ma le piaceva bere, a volte quando era ubriaca si spogliava completamente e non si rendeva conto delle sue azioni, e i vicini le versavano addosso dell�acqua e, se non bastava, anche il piscio delle bestie. E il signor Burýtek, accosciato, pregava papà: «Signor amministratore, ormai la cosa grida vendetta al cielo, per favore, verso sera si fermi da noi e convinca mia moglie a smettere di bere, capisce?» diceva malinconico il signor Burýtek. «Io vado a rimettermi alle terme di Houst�ka, passeggerò nel colonnato, non sarò a casa stasera, per misericordia, la convinca�». Si accese il sigaro e si alzò lentamente e con fatica, perché gli facevano male le gambe, come a tutti i macellai della sua età. E si guardava intorno, papà come una tartaruga che spunta dal guscio aveva solo la testa che sporgeva da sotto il telaio della Skoda, vicino a lui sbucò anche lo zio Pepin e il signor Burýtek si guardava intorno e prima che papà potesse impedirlo si mise a sedere nella coppa dell�olio, comodamente e con soddisfazione accavallò i pantaloni bianchi, si accese il sigaro e guardando papà insisteva: «E poi siamo amici, per due volte ho smontato con lei l�Orion per due giorni, mia moglie ha imparato a bere per colpa sua, perché ha pensato che per due giorni me ne sia stato da qualche parte a giocare a �Färbel�, che me ne sia andato a donne per due giorni, e noi intanto stavamo smontando� E un po� anche colpa sua se lei si è messa a bere, e se la convince, a un intellettuale darà retta, allora smonterò con lei anche questa macchina�». E papà, quando vide la faccia implorante del macellaio, quando vide che l�olio imbeveva i calzoni e il macellaio continuava a stare seduto in posa voluttuosa nella coppa dell�olio come in poltrona, quella coppa gli stava addirittura a pennello, sembrava fatta su misura, papà disse: «Stia tranquillo, buon uomo, gli prometto, farò un salto da voi, tenterò�» E si ficcò sotto la macchina e lo zio strisciò dietro di lui, preferiva stare sdraiati negli immensi laghi d�olio sotto la macchina e limitarsi a guardare dalla penombra, come sotto un tettuccio o da sotto il cappello calato sugli occhi, il signor Burýtek che si toccò il sedere, poi si portò davanti agli occhi la mano nera, poi lentamente si alzò, prese il panno sulla chiappa, staccò i calzoni appiccicati, poi rimase in equilibrio su una gamba scuotendo 1�altra, poi si voltò, si chinò e appoggiò tutte e due le mani nella coppa, e guardava l�olio chiudersi sul suo anello nuziale. Lo zio Pepin raccontava: «Una volta viaggiavo con una bella di Bruck e non ci staccavo gli occhi di dosso e lei imbarazzata preferiva leggere un romanzetto diventava rossa, di fronte a noi stava seduto un colonnello e leggeva il �Prager Tagblatt�, e io guardo e dall�alto dal palchetto scorreva lentamente una treccina, un rivoletto, un serpentello dorato, e il serpentello si appoggiò sulle spalline del colonnello, ma il colonnello probabilmente stava leg

gendo la pagina umoristica, sorrideva, e il serpentello si allargava e continuava a scorrere sempre più grosso, e io guardo ed era miele, scendeva dalla borsa rovesciata della signorina che, quando se ne accorse, si avvolse nel cappotto facendo finta di dormire� e il colonnello all�improvviso si grattò una spalla ci lasciò le dita, poi saltò su e poi arrivò il controllore andò a finire che altri due civili si ritrovarono pure pieni di miele e io ci avevo ancora miele nei capelli quando sono arrivato a casa, dove stavo andando in licenza�» Il signor Burêtek si voltò e minacciò col pugno la Skoda 430 e gridò: «Armagedon! Armagedon!». E poi girò l�angolo della malteria, per fare in tempo a prendere il treno per le terme di Houps�ka, come aveva detto, per una passeggiata, una passeggiata, sì, ma andava da un suo amico che era pure macellaio, perché tutti e due erano membri dell�associazione dei predicatori, quando tagliava la gola ai maialini che stridevano dal dolore il signor Burýtek sentiva in quei rantoli la voce di Dio, che lo colorava col sangue di maiale, e così il signor Burýtek si mise a fare il predicatore ambulante, predicava la parola di Dio secondo il �Messaggero di Dio�, secondo il programma e i libri che gli avevano mandato dall�America, e il compito del signor Burýtek era predicare che sarebbe arrivata l�ultima battaglia, Armagedon, e i macellai lo prendevano in giro, ma il signor Burýtek quando tornava dal mattatoio predicava l�ultima battaglia e perciò andava ogni sabato alle terme di Houst�ka e con un amico si esercitavano nell�attività predicatoria esaminandosi a vicenda. La settimana precedente però il signor Burýtek aveva ricevuto dall�America un grammofono e dei dischi e sui dischi c�era il messaggio di Dio in ceco, bastava caricare il grammofono e mettere il disco con la voce che invocava la preparazione dell�ultima battaglia, Armagedon, che era sopraggiunta� e il signor Burýtek, che andava in bicicletta, si era fatto rinforzare il portapacchi di dietro e ci aveva legato il grammofono e la sera andava in giro per le birrerie di campagna e di periferia per annunciare Armagedon col grammofono e con la voce impostata del grammofono. Poi papà e lo zio Pepin sostavano davanti alla bottega del macellaio in periferia, alla luce di una lampada schermata con dei giornali attaccati con gli spilli sedeva la macellaia, la signora Burýtková, si mordeva il labbro inferiore e tirava fuori la punta della lingua e cercava di toccarsi la punta del naso. Non le riuscì e allora si alzò e prese un lungo filo di salsicce e si diede a contarle, come dicendo il rosario. Quando finì di contare si fermò assorta e poi riprese a contare, più concentrata, ma a metà del filo probabilmente si confuse, gettò via le salsicce e prese un coltello e con cura si mise a gratta via dal tagliere le ossa spezzettate e il grasso spiaccicato. Poi si mise a sedere, lentamente scartò una caramella per la tosse e soprappensiero mise in bocca la carta e gettò nel cestino la caramella e cercò la maniglia tastando il muro, alla fine riuscì a trovarla e la girò ed entrò in cucina e portò il grammofono, caricò la molla, sistemò la puntina, ma il grammofono non suonava, girava, ma la puntina era fuori. La macellaia prese una mannaia e prima piano, poi con un colpo possente piatto, fece in modo che la puntina saltasse direttamente sulla musica, musica da chiesa: «L�angelo dell�amore santo arde nell�ombra delle stelle sante�». E zio Pepin, ripulito e col berretto da ufficiale di marina entrò nella macelleria, fece il saluto, la macellaia si mise a ridere, batté le mani e gridò: «Maestro, arriva proprio al momento giusto, balliamo? Recitiamo?». Ma zio Pepin indicò il grammofono e disse: «Che roba è lezioni di catechismo? Mettiamolo più veloce», e sollevò il coperchio e spostò la levetta dei giri e veramente l�angelo dell�amore si mise a girare a ritmo di polka nel lucore santo delle stelle. E la signora macellaia allungò braccia sulle spalle dello zio, lo zietto le baciò la mano unta e ballò con lei, facendo attenzione a non ungersi il berretto da ufficiale di marina, perché la macellaia di continuo lo mandava a finire sul polmone di maiale o su carnaccia di manzo. E la macellaia ansimava e con la mano si asciugava il sudore dalla fronte. Poi piantò lì lo zio e andò in cucina e quando tornò si fermò nuda sulla porta della bottega. Solo i suoi capelli erano coperti da un grande fazzoletto. Dopo un po� entrò papà con una valigetta, con cura chiuse la porta dietro di sé e si inchinò alla signora Burýtková e disse: «Mi manda il signor parroco Spurny», e guardando la macellaia nuda si innervosì. Poi sollevò il coperchio del grammofono, rallentò i giri e rimise la puntina sul disco e nella macelleria dalle mattonelle e dalle piastrelle del banco si levava ora un canto corale da chiesa, «L�angelo dell�amore santo arde�». «Venite dentr

o, voi due» invitava la macellaia, «entrate, entrate», faceva cenno di entrare chinando la testa e si sedette sulla sedia. «Non vorrebbe mettersi il grembiule?» propose papà. «No, fa caldo, spogliatevi anche voi nudi, mettetevi comodi, signori» disse, e si mise una mano sul ventre. «Ma cosa mi portate?» disse sospettosa. «Guardi, signora macellaia, la chiesa stessa non è tanto contraria alla gola quanto all�alcolismo, il signor parroco�». «Il signor parroco che cosa?» esclamò la macellaia e alzò un braccio, «si beve sedici quartini di vermut al giorno, e quando è fatto fradicio lo guidano alla canonica l�alano o il macellaio Trávnícek». «Questo è vero» disse papà, «ma un minuto prima cheni la mezzanotte vuota il bicchiere e poi fino alle messe mattutine non manda giù neanche un sorso, e lei qui, come sappiamo, beve alcolici, vergogna. Perché beve tanto?» chiese papà, e aprì la valigetta che aveva portato e infilò nella presa la spina dell�apparecchio per le folgorazioni, poi si alzò e spense la luce, chiuse la bottega e quando tornò in cucina l�aria violetta profumava e scintillava e papà inserì gli anodi per gli epilettici e le irregolarità mestruali, si avvicinò alla fronte la piastrina di vetro, viola, scintillante e cava e piena di fumo azzurro, poi la sollevò verso l�alto e toccò la fronte di Pepin, poi prese a muoverla intorno al volto dello zio, intorno a tutto il viso, e poi accostò l�apparecchio alla fronte della signora Burýtková e il fazzoletto e i capelli crepitarono e le scintilline volavano e sprizzavano, poi papà toccò le spalle della macellaia e lo zio sussurrò estasiato: «Questo coso me lo devi prestare quando vado dalle belle quelle pisceranno olio�». «Sta� a vedere» disse papà, e continuò come un mago ipnotizzatore ad avvolgere con l�apparecchio la nuvola viola e il profumo intorno al seno e al cuore della signora macellaia, i suoi seni si gonfiavano non per l�agitazione, ma di piacere, di meraviglia. «Ecco» disse papà sottovoce, «se smetterà di bere verrò a farle il massaggio elettrico ogni sabato�», e la signora macellaia si alzò, tirò una cordicella sulla nuca e il fazzoletto scivolò e poi i lunghi capelli rossi si sparsero quasi a toccare terra, e quando Franzin scorse quei capelli l�apparecchio cominciò a tremargli tra le dita� Poi diede l�apparecchio in mano alla macellaia, prese il grembiule di lei e coprì la macellaia nuda, legò lui stesso il nastrino bianco, e in più la macellaia era vestita dei suoi capelli, e papà prese quei suoi capelli, li avvolse attorno alla macellaia, erano come un accappatoio quei suoi capelli� e papà fece sedere la macellaia sulla sedia e inserì il pettine al neon e si mise a pettinare quei capelli ribelli fuori moda, e la macellaia chinò la testa e chiuse gli occhi e si poteva sentire il tubare amoroso del pettine e il tubare voluttuoso dei raggi ultravioletti. «Dove lo tiene l�alcol?» chiese teneramente papà alla macellaia nell�orecchio. Lei tirò fuori una piccola chiave dal seno e gliela diede e papà le diede in mano l�apparecchio che profumava di temporale e di viole e indicò l�armadio: «Qui?». Ma la macellaia scosse la testa. «Qui? Qui no. Allora qui?». Papà si inginocchiò e infilò la chiave e aprì e su un palchetto c�erano i vasetti col timo e la maggiorana e il pepe e la paprica� «Qui?». Papà spostò i vasetti e dietro c�erano tre bottiglie, una di Nuntius, una di Sagavir e una di cerasella. Papà mise le bottiglie sul tavolo e disse: «Ubriacarsi è peccato ma, dico, se ci si limita ad assaggiare non può far male» disse così e la macellaia gli diede l�apparecchio e portò i bicchieri. «Ma lei no, lei mai più!» se la prese papà, ma fu di nuovo affascinato dai capelli della macellaia, erano come quelli che aveva la mamma, i capelli che si era tagliata senza chiedere il permesso a papà. «Date un po� qua» disse lo zio Pepin, «ne verso un po�, così assaggiamo, il vecchio Holub, quando ci consegnavo i panini, pure lui mi offriva un bicchierino». E versò nel bicchiere il Nuntius e poi lui e papà bevvero e giudicarono quella bevanda corroborante per lo stomaco e curativa per tutti i problemi di fegato e di digestione. «Dice che mi verrà a curare ogni sabato?» disse la macellaia e la voce le tremò. «Ogni sabato, io sono l�agnello suo, che le porterà una vita nuova» disse papà, «la cura è molto semplice, basterà che la pettini con questo pettine» disse papà, e non riuscì a trattenersi e attirò a sé i capelli e ne aspirò il profumo, era un profumo che non aveva dimenticato, era lo stesso profumo del grembiule di sua madre, dove andava a nascondersi quando era piccolino� Adesso lì, dalla macellaia ubriaca, aveva trovato la cosa da cui era stato tagliato via da otto anni ormai, i capelli di sua moglie, che li aveva riportati dal barbiere Bod�a Cervinka sul portapacchi posteriore della bicicletta come una treccia di Natale o quattro chili di salsicce da vino. Lo zio Pepin disse: «Eh sì, questo qui se lo beve volentieri Vlasta, dice sempre -bevi pure tu, ragazzo, così ci hai una cosa giusta nello stomaco�». E la macellaia si girò e guardava papà con occhi pieni di gratitudine e non r

iuscì a trattenersi e gli accarezzò il dorso della mano, in cui papà continuava a tenere il pettine luminoso «Io però penso» disse lei teneramente, «che per voi sia meglio questo qui nella bottiglia col ragazzone, il Sagavir, il Nuntius anche nel sapore è traditore come il saio di un monaco francescano, apparentemente è curativo ma, come tutte le medicine, appena ne prendi un po� di più hai chiuso, amen, e credetemi io ne so qualcosa, ma il Sagavir� Ha un bel colore verdino chiaro che dà sul giallo, è come bere l�arcobaleno dalle sfere celesti, e il suo sapore è speziato, il suo tono principale somiglia al gusto del miglior vino da dessert e il retrogusto è come il distillato della gonna di una pastorella che al pascolo si sia seduta un po� sul timo po� sulla menta piperita e poi sull�anice». E papà e lo zio volevano versarlo, ma la macellaia reagì violentemente «Siete due barbari!», e si alzò e si chiuse con cura capelli e andò a sciacquare i bicchieri nel secchio e li riportò, versò il liquore, prese teneramente il pettine dalla mano di papà e avvicinò il fulgore ai bicchieri alla bottiglia, la bevanda emetteva un leggero bagliore e brillava invitante. Assaggiarono il liquido, poi vuotarono il bicchiere, poi ci fu silenzio, solo le mosche ronzavano nella bottega e impazzite andavano a sbattere alle finestre. Il grammofono smise di suonare e papà col bicchiere entrò nella bottega, invece della manovella del grammofono girò la manovella della vecchia cassa, che si aprì con un tintinnio. Poi papà trovò tastoni il grammofono, lo caricò, sistemò la puntina e, quando il coro da chiesa ricominciò «L�angelo dell�amore santo arde nell�ombra azzurra delle stelle sante», papà spostò la levetta dei giri, la musica da chiesa diventò un chiassoso galop� Papà tornò e bevve ancora, la macellaia era sdraiata sulla sedia, i capelli scostati dalle spalle, qualcosa l�aveva colpita, i capelli giacevano per terra, era come se scorressero dalla spalliera. Così papà bevve ancora un bicchiere e quando lo finì la macellaia lo accarezzò sul dorso della mano e gli disse in modo incredibilmente tenero: «Non così». E ora non barcollava più, entrò anzi nella bottega orgogliosa e altera, come quel pettine al neon l�avesse consacrata, andò al grammofono e rallentò la musica e la musica da chiesa era da chiesa e avanzava maestosa nella macelleria come in una cappella romanica. Dopo essersi seduta toccò nuovamente papà e papà immerse il viso nei suoi capelli e non riuscì a trattenersi, gli era stato negato per tanti anni, per otto anni non aveva potuto sentire il profumo dei capelli lunghi di una donna, vi si immerse e prese piano quei capelli in bocca e avevano proprio quel sapore e la macellaia sentiva le labbra di un uomo che tremavano e si avvicinò pure lei, si accostò tanto che mandò un gemito sonoro, erano otto anni e più che non gemeva così al contatto di labbra maschili, da tanti anni ormai era come priva di sensibilità, mai più, pensava, mai più sarò santa, per essere con qualcosa che sia più di me� «E, signori» disse la macellaia quando papà si tirò su, perché doveva tornare a casa, «non c�è due senza tre, la cerasella, signori, questo sì che è un liquore, tutti gli esercizi d�Europa hanno sempre questo liquore, in tutto il mondo tutti i ristoranti con l�insegna del gallo, tutti i ristoranti del mondo hanno la cerasella, seicento alberi di visciole coltiva il signor Wantoch per la cerasella, e la preparazione è un segreto, è una bevanda famosa proprio come la Becherovka di Becher, come la slivovice di Jelínek o di Gargulák, come la birra di Plzen. Quando la prendete in bocca, uno dei suoi toni vi ricorda il profumo delle mandorle amare», ma papà annusava i capelli della macellaia e ripeteva: «Sì, il profumo delle mandorle amare», e la macellaia continuava: «Sì, delle mandorle amare, il secondo tono della cerasella è alto, è il tono di luglio delle ciliegie che maturano, delle visciole gonfie fin quasi a scoppiare, e il terzo tono è il profumo che lascia il lampo estivo quando spacca in due un tiglio e tutte le foglie si drizzano� signori, perdonate il mio comportamento, ma io ho fatto il liceo e dopo un inizio così brillante mi sono ridotta in queste condizioni�», la macellaia si inchinò e papà la prese per le spalle e tirandola su disse: «Non è degno di lei, lei è una donna buona e lo sarà ancora, deve solo lasciarsi curare con le folgorazioni di corrente, e» le sussurrò con voce profumata di una sintesi di Sagavir e di Nutius, «e solo da me�». E la macellaia fece cenno di sì con espressione seria: «Sì, solo da lei», e aprì gli occhi che teneva sempre socchiusi, da quanti anni ormai aveva gli occhi socchiusi, guardava il mondo come un selvaggio da una fratta, come una bestia, come una fuggiasca� aprì gli occhi e guardò papà negli occhi e papà alzò il pettine luminoso e le illuminò gli occhi e vide che erano belli e pieni di bagliori e che occhi così non glieli aveva mai mostrati neanche sua moglie, con occhi così tanti, proprio tanti anni prima lo guardava la sua mamma. E Franzin versò un bicchier

e di cerasella e la macellaia saltò in piedi, lo prese teneramente per mano e disse: «Siete dei barbari�», e mise il bicchiere nella credenza e prese dei bicchierini puliti e ci versò la cerasella, un liquore pesante, sciropposo, oscuramente passionale. Papà disse: «Potrebbe brindare con noi, un bicchierino non le fa niente�». Ma la macellaia scosse la testa: «Io ho bevuto un liquore più forte di questo». Papà indagò: «Molto più forte di questo?». Bevve e annuì. «Molto, molto più forte, più di tutto». Lo zio Pepin beveva soltanto, taceva, si versava da bere e vedeva che la macellaia e suo fratello si guardavano, papà beveva, la macellaia sospirava dolcemente quando poi si separarono la macellaia dolcemente pianse. Nella bottega, tra gli enormi polmoni e cuori di manzo appesi ai ganci, papà riuscì a estorcere alla macellaia il giuramento che la settimana successiva sarebbe potuto venire di nuovo a curarle l�alcolismo. Quando poi i due fratelli girarono l�angolo, il vento soffiava e l�aria li faceva barcollare tutti e due. Sotto un lampione papà prima cadde su un ginocchio e poi all�improvviso mandò un grido, un grido di gioia, non era voce umana, era un urlo di gioia che si spandeva fluido e il suo tono fondamentale era la gioia. E lo zio Pepin tornò sul ponte, poi in città e poi ritornò portando con sé il vigile Holoubek, che era appena tornato dalla Zingara, si stava togliendo l�elmo, che i venditori ambulanti gli avevano calcato impietosamente, ce l�aveva mandato il capo della polizia Procházka, che quando aveva visto che alla Zingara ricominciavano a picchiarsi, era corso via e aveva detto al primo poliziotto che aveva incontrato: «Signor Holoubek, non sente niente? Ho l�impressione che alla Zingara stiano per darsele�». E quando Holoubek fece irruzione alla Zingara era troppo tardi, gli schiacciarono l�elmo tra le porte e lo presero a bastonate sull�elmo facendogli ronzare le orecchie. «Signor Holoubek» disse lo zio Pepin, «là per terra c�è un ubriaco che urla, vada a fargli la multa, dobbiamo proprio starlo a sentire?». E così papà fu riportato alla fabbrica di birra da quel gigante del signor Holoubek, papà ubriaco, mentre lo zio Pepin con la valigetta correva dalle belle al locale notturno, per far loro provare le radiazioni luminose e guarirle, come aveva letto nel manuale, dalla mancanza di mestruazioni. 7. Fu nel mezzo della guerra, agli arrestati si aggiunse anche il signor Burýtek, la Gestapo lo arrestò con tutto il grammofono. Lo caricarono con tutta la bicicletta e il Signor Burýtek risplendeva di felicità, urlava: «Armagedon! Armagedon!», ma poi lo buttarono giù e la gente ricordava che in fondo quel macellaio lo diceva già da tanti anni che era scoppiata l�ultima battaglia, Armagedon, e loro lo prendevano in giro e quando passava bicicletta gli gridavano dietro: «Armagedon!». E lui si limitava a chinare la testa e ripeteva, ma con un altro senso: «Armagedon, Armagedon». E alla fabbrica di birra era venuta una commissione militare e aveva requisito le cantine di germinazione e disposto che il malto la fabbrica di birra l�avrebbe comprato altrove e nelle cantine di germinazione sarebbe venuta una fabbrica di munizioni, ma la fabbrica di munizioni non venne, solamente si stabilì nell�alloggio degli operai uno di Vienna, l�ingegner Friedrich, passava la giornata a disegnare progetti, come avrebbe sistemato nelle cantine macchine e quali, e la sera usciva per andare in città, si fermava a Zofín, chiacchierava con le signorine in ceco storpiato, ma Vlasta, quella che conosceva perfettamente il tedesco, da quando erano arrivati i tedesco nella cittadina dove il tempo si è fermato lei parlava solo e soltanto in ceco. E quel Friedrich, quando andava con i padroni in giro per la fabbrica di birra salutava rispettosamente tutti gli operai, ma gli operai lo guardavano come se non ci fosse, come se fosse trasparente, non rispondevano, ma il signor Friedrich continuava salutarli tutte le volte. E quando faceva buio c�era 1�scuramento e quando scendeva la sera le luci stradali si spegnevano, ma lo zio Pepin continuava a fare il giro delle sue birrerie con le chellerine, continuava sempre a portare i fiori alle belle signorine, continuava a portare il berretto bianco da ufficiale di marina e, quando entrò nel locale di Zofín oscurato, urlò: «Che ci fate lì seduti come funghi del fiele? Suonatemi un pezzo scatenato!». E offrì a Marta delle rose sfiorite e Marta le odorava. «Sono solo per lei» disse lo zio, e ordinò un caffè nero. «E com�è agghindato oggi, maestro!» disse Bobinka, «non starà mica andando a fissare le nozze?» indagava, e passò la mano sul polpaccio dello zio Pepi e tastando gli contò addosso tre paia di mutandoni e sopra la tuta da ginnastica. «Non le stanno salendo addosso le formiche?» disse Marta, «e tu, Bobinka, lasciamelo, è una visita per m

e, va be�?», e lo zio giocherellava con le dita e nel locale entrò un vecchietto, aveva i capelli ricciuti come un cappello di pelle di pecora, portava un pacco e sulla porta già gridava e sbraitava allegro: «Gente, la vita è bella, ma tanto bella, offro un bicchierino a tutti!». E si sedette subito vicino allo zio Pepin, strappò il pacco e mostrò allo zio che dentro c�erano una stoffa chiara e una scura. Poi disse: «Io ormai ci vedo poco, ma vedo giusto, vedo che lei è un uomo di mondo, che ne pensa, come me lo devo far cucire un vestito con questa roba?». Bobinka portò un vassoio di bicchierini, di quelli grandi, distribuì i bicchieri e il vecchietto alzò il suo e disse: «Alla salute, alla fine della guerra! Ho ottantatré anni, gente, non vedo l�ora che venga la pace! E per la pace mi faccio cucire subito due vestiti! Allora, signore, come me li devo far cucire?». Lo zio Pepin disse: «Con la stoffa chiara si faccia cucire un completo sportivo con le tasche applicate e ci metta un cappello da cacciatore con un ciuffo di pelo di camoscio o una piuma colorata, come quello che portava l�imperatore Cecco Beppe quando in landò andava a caccia di camosci a Ischl». «Doveva essere bello come lei, eh?» disse Bobinka. «Che? Io sono un bell�uomo, ma a quel tempo il più bello non solo tra i civili, ma tra le famiglie regnanti di tutto il mondo era l�imperatore Cecco Beppe, una bella boccia pelata, qui sotto il naso baffoni come quelli di una tigre e un naso meraviglioso, come quello di un bimbo. Una meraviglia!». Bobinka accarezzò i capelli radi dello zio e disse piena di stupore: «Come le sono diventati folti i capelli, maestro, quando si pettina non ce la fa a passarci il pettine, vero? Ci deve mettere l�olio!». «Ma che gliene frega», lo zio fece un gesto con la mano e staccandosi dalla mano della signorina perse l�equilibrio e cadde sulla schiena con tutta la sedia, le signorine sollevarono lo zio e si misero a pulirlo, gli pulivano con cura i pantaloni sulla patta Bobinka in ginocchio alzò gli occhi e disse: «E� già eletrizzato?». Ma lo zio Pepin alzò il dito davanti al naso del vecchietto e disse: «E per il vestito bianco prenda una camiciola azzurra e una cravatta bianca a pallini come quella che portava Hans Albers ne �La Paloma�, da questa stoffa blu si faccia cucire una giacca a doppiopetto, come quella che porta Járynek Pospísil nel commedia �Io ho nove canarini�, e ci metta una camicia bianca e una cravatta blu�». Il vecchietto sbatté ripetutamente il pacco sul tavolo, appoggiò la testa sulla tovaglia e gridò ridendo: «Gente, io sono felice, come sono felice, oggi pago tutto io!». E la signora ostessa entrò col coltello, fece un gesto di disperazione, poi girò il bottone della radio e si sentì una voce mesta informare che era stato assassinato il Reichsprotektor Heydric, che erano vietati tutti i teatri e i cinematografi e che erano vietati tutti i divertimenti e le feste in cui si ballava. E lo Zio Pepin saltò in piedi e gridò: «Cristo, che razza di schifo è? Noi cechi non possiamo mai fare niente; Cristo! Nel Venti abbiamo occupato un pezzo di Ungheria e poi ci hanno detto che non potevamo! Abbiamo occupato un pezzo del territorio di Tesín, e, di nuovo, dice che non potevamo prenderlo ai polacchi. E poco tempo fa volevano darle ai tedeschi, e ancora dice che non possiamo! Ancora l�Inghilterra e la Francia! Cristo, se io mi lascerei svegliare così a mezzanotte dagli ambasciatori, che non possiamo attaccare la Germania! Se fossi stato io i1 presidente ci avrei detto al portiere e ai servitori: �Buttate gli ambasciatori sul marciapiede a calci nel culo!�. E mi sarei circondato dei portabandiera e dei marescialli della vecchia Austria e avrei fatto la guerra e i tedeschi li avremmo sbaragliati! E adesso perché hanno ammazzato Heydrich non possiamo ballare? Bobinka, metti su un pezzo bello scatenato!». E Bobinka mise il disco �Io ho nove canarini� e lo zio la invitò a ballare, e il vecchietto batteva il tempo col pacco delle stoffe che si era comprato per i vestiti che avrebbe portato appena la guerra fosse finita e la pace fosse incominciata, quel vecchiettino ricciuto continuava a urlare: «Gente, la vita è bella! Portate i bicchierini, io rimarrò qui fino a novant�anni! Ascoltate!». E lo zio ballava veloce con Bobinka, prima se la appoggiava sulla schiena, poi la prese, la lanciò verso l�alto e se la mise sulle spalle e la portava in giro per il locale a passo di danza e la signora ostessa intanto chiudeva a chiave la porta principale e si disperava e il vecchietto gridava: «Mio padre, anche se non aveva le gambe, aveva il vantaggio che era il più vecchio della Invalidovna, e allora deponeva ogni anno per il compleanno del conte Strozzi, che aveva fondato l�Invalidovna per i veterani, ogni anno gli deponeva una corona al monumento! Gente mia, io sono felice! I soldati spingevano papà sulla sedia a rotelle verso il monumento, gli mettevano la corona in mano e lo sollevavano e lo po

rtavano fino al monumento, passando accanto ai drappelli d�onore dei veterani e della guarnigione! Solo il fante Valásek invidiava a papà questa cosa, ma che ci poteva fare, dal momento che papà aveva novantadue anni e lui solo novanta! Mentre papà deponeva la corona Valásek sussurrava: �Che tu possa crepare subito, carogna�. E poi ogni giorno quando la mattina Valásek, pure lui sulla sedia a rotelle, quando usciva nel corridoio, lì tutti i veterani andavano in sedia a rotelle, solo alcuni fortunati camminavano, ma a quelli in compenso mancavano tutte e due le braccia. allora Valásek ogni giorno veniva a vedere, apriva la porta della stanza dov�era il letto di papà, e domandava a papà: �Ancora non sei crepato?� E papà gridava dal letto: �Valásek, io sono vivo e vivrò fino a cent�anni, per altri dieci anni andrò a deporre corone al monumento del conte Strozzi, e tu intanto sarai crepato e la rabbia ti avrà divorato!�» E il vecchietto si alzò, all�improvviso era così bello, il viso liscio, e il berretto di pelle di pecora dei suoi capelli duri, irti e ricciuti fremette come il crine di cavallo sull�elmo romano, Marta lo prese per le mani e si misero a ballare una danza infantile, �Pascolava le pecorelle nel bosco nero�, e lo zio sollevò Bobinka e se la tolse dal collo e in quattro si misero a ballare, «Io a lei tralla lalla là, lei poi tara tara tà» e tenendosi per mano muovevano le gambe di qua e di là e il disco ricominciò �Io ho nove canarini�. E si aprì la porta del corridoio e dal corridoio entrò il San Bernardo Dedek, quello che non sopportava il ballo, ma ormai non ce la faceva più a buttare per terra nemmeno lo zio Pepin, così si limitava a camminare per il locale e a rosicchiare con le gengive sdentate, tentò di rosicchiare allo zio la tuta che gli spuntava dai pantaloni, ma lo zio indietreggiava e così alla fine le ragazze smisero di ballare e anche il vecchietto e lo zio si ritrovò a ballare da solo con il San Bernardo Dedek, in realtà ormai non ballava, si difendeva, perché Dedek lo voleva buttare per terra, ma lo zio saltava all�indietro, saltava in alto, sempre a ritmo di foxtrot, e le signorine Marta e Bobinka battevano le mani e piangevano e urlavano per le risate, mentre il vecchietto rimase soprappensiero, poi sbatté alcune volte le stoffe sul tavolo, poggiò la testa sulla tovaglia e ridendo gridava: «Gente, la vita è bella!». E dalla stessa porta da cui era entrato il San Bernardo ora entrò silenziosamente con l�uniforme del Reich l�ingegner Friedrich, stanco, ma d�un tratto irritato si sedette e si mise a guardare la compagnia. Bobinka aveva preso lo zio e ballava con lui e il signor Friedrich all�improvviso batté il pugno sul tavolo e disse: «Basta!». E Bobinka si mise a sedere e lo zio Pepin indicò il militare e disse: «Sarebbe quello?». E si sedette e ansimava e Marta gli asciugò il sudore dalla fronte e con la mano gli ravviava i capelli. «Non avete sentito la radio?» disse Friedrich, «Un uomo così nobile è caduto, e voi ballate?». Bobinka disse: «Hans, ricordati che se ci combini qualcosa non voglio più avere niente a che fare con te». Ma Friedrich continuava: «Il Reich tedesco combatte anche per voi». Bobinka disse: «Ma noi non siamo tedeschi. Hans, bada di non denunciarci!». Friedrich Si alzò, sollevò il coperchio del grammofono e fermò la musica. Lo zio Pepin gridò: «Se solo ci fossero cento divisioni austriache, per la madonna, vi cacceremmo via! Basterebbe che il �Freiherr� Von Wucherer comandasse: �Vorwärts! Nach Bertin!�, e i tedeschi li avremmo già cacciati via!». Bobinka prese il signor Friedrich per la manica e disse: «Lui, il maestro, si riferisce agli eserciti dell�imperatore, non è vero, Pepinek?». Ma lo zio Si infuriò: «Macché, penso proprio a quelli uncinati, quelli li cacceremmo fino a Berlino, se solo ci fossero cento divisioni austriache al comando dell�arciduca Carlo!». E Bobinka cambiava discorso: «Adesso, maestro, qualcosa di più delicato, qualcosa sull�igiene sessuale, qualcosa di adatto alle signorine. Secondo il trattato del signor Batista, maestro, qual è la cosa più importante?». E lo zio ansimava e lanciava occhiate al signor Friedrich, ma Bobinka lo accarezzava e gli girava la testa facendo in modo che la guardasse negli occhi e implorava: «Dopo le faccio vedere le federe nuove del piumino, va bene?». E lo zio Pepin si mise a ridere e disse: «La diverte? Allora, lei lo sa che la cosa principale è un sesso sviluppato come si deve, testicoli e pene». «Appunto di questo si tratta» disse Marta e aspirò con voluttà il fumo della sigaretta. Lo zio continuava: «Il vecchio Havránek voleva farsi investire per via della copula ovverosia coito, sua moglie durante la copula mangiava delle mele, e allora Havránek prese delle pillole per dormire e si sdraiò sui binari e si addormentò, e al mattino si svegliò e vicino a lui passavano i treni, infatti quel binario lo stavano riparando e avevano girato il traffico su un solo binario e quindi il vecchio Havránek non l�avevano investito, perché secondo il trattato del signor

Batista il coito deve essere eseguito nel letto e nel silenzio e in concentrazione, e non mentre la vecchia intanto sgranocchia delle mele� Ma cento divisioni austriache quello», lo zio indicò il signor Friedrich, «lo sconfiggerebbero». Il signor Friedrich bevve un po� di liquore dalla coppa, accavallò le gambe e disse: «Non lo sconfiggerebbero». Lo zio Pepin cacciò un urlo: «Lo sconfiggerebbero». Bobinka cercava di salvare la situazione: «E com�è che io e Marticka potremmo fare delle brutte esperienze, eh, come?». E lo zio Pepin disse: «Come? Per caso ce ne sono pochi di delitti e di disgrazie? I giornali ne sono pieni! Un membro sessuale maschile come si deve bisogna che ci ha il pene e lo scroto e poi i testicoli e una bella prostata, il pene secondo il trattato del signor Batista ci deve avere il cosiddetto prepuzio, la parte superiore ovverosia l�inizio del pene è il glande, poi c�è un frenulo come si deve, e lo scroto è importante, è una specie di sacchetto che contiene le ghiandole i maschili�». Marta respirò: «Le cosiddette tiroidi�?». «Ma che cosa blaterate come delle giovani gazze? Quelle sono da qualche parte nel petto, queste qui sono le ghiandole ovverosia palle, il signor Batista usa un brutto termine, testicoli, tastando potrete convincervi, conformemente a quanto dice il trattato del signor Batista, che c�è anche una prostata, ma a volte non ci so no neanche i testicoli, cioè, ci sono, ma attraverso l�inguine sono saliti nella cavità addominale, oppure sono nel canale inguinale, e questo è il cosiddetto criptorchidismo». «Che cosa?» si spaventò Bobinka, che aveva portato dei bicchieri di caffè, «il criptorchidismo, ovverosia criptopallismo?». E scoppiò a ridere rivolta al signor Friedrich, che ordinò una tazza di cioccolata e intanto aggiunse: «Non vincerebbero!». Lo zio Pepin si alzò e puntò il gomito verso il signor Friedrich: «Vincerebbero! Sarebbero vittoriosi! Su quei cazzo di tedeschi!». E il signor Friedrich scosse la testa e disse: «Non vincerebbero!». E Marta si inginocchiò davanti allo zio Pepin e giunse le mani: «Allora devo fare prima un�ispezione di tutto quanto?». Lo zio Pepin continuava a urlare: «Deve fare un�ispezione, perché ci sarebbe poco da ridere se invece di un giovanotto focoso le capitasse un finocchio ovverosia un frocio, oppure la pagherebbe cara, se come a una nel trattato del signor Batista le capitasse un ermafrodito, un certo Gottliesch, ci aveva lo scroto conformemente al trattato del signor Batista composto di due testicoli, al posto del pene ci aveva un clitoride ovvero un caporalino, se gliene capitasse uno così, lei si metterebbe a piangere�». Bobinka, quando vide che lo zio voleva gridare al signor Friedrich: «Vincerebbero!», gli mise una mano sulla bocca e disse dolcemente: «Come mai ha le orecchie tutte belle screziate, maestro?». E lo zio rise allegramente: «Vero? E� per via del colore con cui abbiamo dipinto lo steccato con una bella, che in cambio mi ha cucito dei bei calzoncini». «Su misura, vero, su misura, oh, lei è un fedifrago!» si adirò Marta, e correva di qua e di là per il locale e inciampò nel vecchietto che dormiva beatamente, se ne stava abbracciato al pacco con le stoffe e si era addormentato sul pavimento. «Cosa c�è tra lei e quella bella che le cuce le mutande?» esclamò Bobinka, che portava un calice fumante, una tazza di cioccolata. «Deve decidersi, o lei o me, oppure nessuna», batteva per terra con la scarpina, «se poi succede qualcosa, se poi faccio una sciocchezza, allora vedrà!», punse lo zio al petto tanto forte che lui si spaventò, «Mi avrà sulla coscienza!». «Non vincerebbero!» disse il signor Friedrich dopo aver riflettuto. «Ma cosa sta cianciando? Vincerebbero e gloriosamente!» urlò lo zio, ma Bobinka gli muoveva un dito avanti e indietro davanti agli occhi, «Un momento, è me che deve vincere, ma lo dica qui, quando ci sposiamo?». E lo zio Pepin si intenerì, giocherellava con le dita e disse: «Quando ci avrò l�armadio nuovo, e poi lei deve anche andare dal dottore, lo scrive trattato del signor Batista, che alla sua età ed essendo stata nubile per tanti anni, potrebbe avere la tendenza all�onanismo ovverosia masturbazione�». «Che cos�è? Cosa si sta insinuando sul mio conto?» batté le mani Bobinka. «E che invece di un membro maschile come si deve lei utilizza le dita, o secondo il trattato del signor Batista magari anche una bottiglia della birra o altri oggetti che hanno la forma del membro maschile e suppliscono così la sensazione di piacere, come adesso che c�è la guerra e invece del caffè vero si bevono orzo e cicoria come Perola o Caro Franckovka di Pardubice, perciò la cosa migliore sarà che lei si sposi, perché quel primo presupposto ce l�ha, ed è un coso ben sviluppato�». «Veramente?» arrossì Bobinka. «Però sei fortunata, tu» esclamò Mafortunata, tuttavia durante la copula secondo il trattato del signor Batista non deve passare un treno sotto la nostra finestra, né martellare l�officina di un fabbro, questo disturba moltissimo» istruiva lo zio Pepin raggiante di felicità. «Non vinc

erebbero!» disse il signor Friedrich. «Che cosa?» gridò lo zio, ma Bobinka disse: «Lasci perdere! Adesso mi istruisca, sono una stupida ochetta, ho imparato solo qui al locale, mi dica, come stanno le cose riguardo a membro come si deve? Come?». «Be�, come, c�è chi ce l�ha fatto in modo tale che quando si infila nella vasca deve prima mandare avanti il membro e poi seguirlo nell�acqua, altri, invece, quando ci hanno voglia di pisciare devono prendere le pinzette, ma soprattutto deve fare attenzione a non prendersi malattie veneree come il tifo, il colera, la dissenteria e l�influenza� Che cosa? Vincerebbero!», lo zio si alzò e il signor Friedrich pure e stando in piedi uno di fronte all�altro si gridarono trenta volte in faccia: Vincerebbero! Non vincerebbero! Sarebbero vittoriosi! Non sarebbero vittoriosi!, e le ragazze correvano di qua e di là e separavano il tedesco urlante e lo zio Pepin, gli tappavano la bocca, ma lo zio riusciva sempre a divincolarsi e urlò: «Vinceremmo!». E il signor Friedrich all�improvviso si infiammò di rabbia, puntò il dito e scandendo col dito gridò: «E voi qui ballavate, mentre proditoriamente sparavano al Reichsprotektor Heydrich assassinandolo, mentre veniva commesso un attentato contro di lui! Una parola di più e io vi denuncio! Vinceremmo!». E lo zio Pepin taceva, giocherellava con le dita e guardava per terra, e Bobinka disse piano: «Non vincereste!». E Friedrich buttò i soldi sul tavolo e se ne andò, e quando ebbe aperto la porta e fu uscito nel buio, Bobinka urlò dietro alle sue spalle che si allontanavano: «Hans, non fare nessuna denuncia, ricordati che poi da me non ci puoi venire!». E il signor Friedrich la denuncia la fece, ma non alla Gestapo, che lo zio Pepin ballava per festeggiare l�attentato al Reichsprotektor lo disse a papà. E papà ne fu atterrito, ma il signor Friedrich fece un gesto con la mano e disse che non lo sapeva nessuno, solo lui e le signorine di Zofín, e così papà ideò un piano e lo confidò al maresciallo dei gendarmi Klohn, e il maresciallo dei gendarmi venne alla fabbrica di birra e papà la sera convocò Pepin nell�ufficio della fabbrica di birra, nella sala delle riunioni, e il maresciallo si sedette e accese una candela e si mise a fare domande allo zio, dove era nato e come si chiamava, e poi gli comunicò che era stato presentato un rapporto, secondo cui lo zio Pepin ballava, mostrando così di approvare l�attentato al Reichsprotektor, e poneva allo zio delle domande e lo zio rispondeva, e quando lesse il verbale allo zio, lo zio Pepin giocherellava con le dita ed era imbarazzato, soprattutto quando il signor maresciallo disse che in questo modo aveva danneggiato specialmente suo fratello, l�amministratore della fabbrica di birra, perché i tedeschi non hanno pietà e trascinano nella cosa tutta la famiglia, e che quindi lo zio Pepin con i suoi balli aveva precluso a suo fratello la promozione, perché doveva essere nominato direttore della fabbrica di birra. E poi il maresciallo dei gendarmi chiese se lo zio non fosse stato ferito in guerra. E lo zio Pepin disse di sì, ma alla testa, alla nuca, che di sangue ne aveva perso uno stivale pieno. E il maresciallo disse che in questo caso, giacché era stato ferito, le conseguenze del ferimento alla testa avrebbero potuto causare un deterioramento delle condizioni psichiche dello zio, che ballava senza rendersene conto, che quindi il maresciallo dei gendarmi voleva favorirlo, e sul verbale scrisse una postilla, che lo zio fu ferito alla testa il giorno del Corpus Domini, quando gli eserciti fecero gloriosamente irruzione a Premysl nell�anno 1916, e le conseguenze di questo ferimento durano ancora, che raccomanda allo zio di farsi rilasciare un certificato medico che attesti che il suo stato di salute è miserando, che fa cose di cui non si rende conto, che quindi non è responsabile delle proprie azioni, dunque domani vada subito dal dottor Vojtesek, che gli rilascerà un attestato, in cui lo zio Pepin sarà privato della capacità di intendere e di volere. E lo zio e papà la mattina si fecero subito rilasciare questo certificato e quando la sera lo portarono, il maresciallo rilesse il verbale allo zio, gli chiese di firmarlo ed esclamò, rivolto allo zio: «Se però promette che non ballerà mai più nelle birrerie e nelle osterie con le chellerine e nei locali notturni, considererò nullo questo verbale�». E lo zio Pepin piangeva, papà gli batteva la mano sulla spalla e lo zio Pepin porse la mano al maresciallo dei gendarmi e il maresciallo prese il verbale e lo strappò due volte a metà, le metà di nuovo a metà e tutto insieme ancora una volta, lasciò cadere i pezzetti di carta sul pavimento della sala per le riunioni e uscì dall�ufficio. Papà poi ricostruì il verbale rimettendo insieme i pezzettini di carta, affinché non ne sparisse nemmeno uno o non lo trovasse un�estraneo, e li gettò nella stufa e li bruciò, quando i pezzetti di carta furono bruciati, papà uscì in bicicletta e raggi

unse il maresciallo vicino al muro della fabbrica di birra e lo ringraziò, gli strinse la mano con dentro un biglietto da mille corone, «per il servizio prestato». «Non c�era tempo da perdere» disse il maresciallo dei gendarmi, «con questa storia dei balli vi avrebbe portati tutti in campo di concentramento». E così il signor Friedrich continuava ad andare a trovare Bobinka a Zofín, quando si incontravano lui e lo zio Pepin continuavano a gridare fino a diventare rauchi e nessuno poteva capire perché e cosa si gridassero. Continuavano a strillarsi: «Vincerebbero!». E il signor Friedrich: «Non vincerebbero! Sarebbero vittoriosi». Lo zio Pepin e il signor Friedrich: «Non sarebbero Vittoriosi!». Così si incrociavano, da lontano si gridavano ancora con urla sempre più deboli, alla fine si sentiva un suono quasi impercettibile, come quando uno scrive con la matita numero quattro, ognuno dei due voleva avere l�impressione che il proprio urlo fosse l�ultimo, quello trionfante� Ma poi il signor Friedrich smise di gridare quando il fronte si spostò il signor Friedrich si trovò un angolino vicino alla malteria della fabbrica di birra, tra la tettoia e due vecchi prugni, e ci andava tutti i pomeriggi sul tardi e poi anche dopo pranzo con un seghetto, e tagliò paletti e rami e ne fece un bello sgabello, uno sgabellino per bambini, poi un intero sabato e una domenica lavorò a un tavolino e poi con il seghetto e il coltello a serramanico da bacchette e bastoncini e rami tagliò anche una poltrona e una sedia, quando pioveva si sedeva sotto la tettoia e leggeva e lavorava lì, in quella cameretta per bambini fatta di frasche e rami, si fece addirittura degli armadi, che assomigliavano a gabbie per uccelli, si potevano chiudere, ci appendeva la giacca e la camicia, poi per un mese intero il signor Friedrich lavorò a un cavallo a dondolo, si fece persino un lampadario, quando il signor Friedrich andava alla guarnigione o agli uffici, a chiedere che fine avevano fatto le macchine per la fabbricazione di munizioni da mettere nelle cantine di germinazione della fabbrica di birra, gli operai della fabbrica di birra andavano a guardare, ammiravano tutti quel lavoro, si fermavano lì davanti e si stupivano e si chiedevano perché quell�uomo si ammazzava di fatica in quel luogo, perché giocava in quel modo per giornate e serate intere� e poi sugli operai della fabbrica di birra scese la paura, avevano paura di quella cameretta per bambini, che era così priva di senso, ma lo zio Pepin disse: «Se osservate bene, vi renderete conto che quel tedesco fa queste cose solo per non dover pensare al fatto che gli eserciti alleati batteranno gloriosamente gli eserciti dei tedeschi. Si avvicina una fine amara» aggiunse lo zio Pepin, «e quel vecchietto può farseli cucire i suoi vestiti, perché la pace non si farà aspettare a lungo�». E infatti era così, il signor Friedrich si era ormai intristito, era ormai incerto, ormai sapeva che presto sarebbe andato da un�altra parte, ma che anche là, in un altro luogo, sarebbe stata la stessa cosa fino a quando sarebbe arrivata la fine e gli altri eserciti avrebbero inondato non solo il paese in cui si trovava adesso, ma anche la sua patria, e che il risarcimento sarebbe stato proporzionato a quello che i suoi eserciti avevano fatto nei paesi dove erano venuti senza essere stati invitati� e così tutte le sere stava seduto sul cavallo a dondolo e si dondolava, poi un giorno l�ordine arrivò e il signor Friedrich fu trasferito altrove. Papà gli disse addio, ma quando offrì agli operai quello che era rimasto di suo, un maglione e giacche da lavoro e scarpe appesi negli armadi trasparenti della cameretta per bambini fatta di frasche e bastoncini, nessuno prese niente, il signor Friedrich se ne era andato come se fosse stato trasparente e nessuno lo aveva salutato, solo lo zio Pepin gli aveva gridato: «Avremmo vinto! Avremmo vinto gloriosamente!». E il signor Friedrich se ne andò, camminava verso la stazione con una piccola valigia e disse piano: «Avete vinto�». E poi nessuno ne seppe più niente� Subito, il giorno dopo, i bottai presero una tanica di alcol, portarono secchi e catinelle d�acqua e dietro la malteria cosparsero di alcol la cameretta per bambini, le poltrone e il cavallo fatto di frasche e gli armadi e le giacche e i maglioni, e diedero fuoco a ogni cosa. La cameretta si incendiò e bruciava, ma si oppose al fuoco fino all�ultimo momento, rimaneva in piedi e i paletti che la componevano erano circondati da una criniera di fiamme, che sembrava una copia della cameretta, ma di fuoco, finché all�improvviso le poltrone e la panchina cominciarono a sfondarsi contemporaneamente, caddero a terra, e come eseguendo un comando si incendiarono ancora di più, i paletti si torsero e si adagiarono per terra, era come se stesse bruciando solo la pianta di quelle cose a tre dimensioni� solo il cavallo a dondolo bruciò a lungo, si impennò per il fuoco e nel

fuoco, come se volesse saltare, saltò, ma nell�impennata cadde su un fianco, si liberò dei piccoli zoccoli e le fauci gli si aprirono e le fibbie gli si rizzarono dalle fauci avevano l�odore della carne affumicata, poi il cavallo di legno cadde disteso, e uno dei bottai spruzzò dell�alcol sul lampadario fatto di frasche e gli diede fuoco e quello bruciò verso l�alto come una sorta di segno celeste, rapidamente, e senza posa ne cadevano piume in fiamme, come dall�uccello di fuoco, dalla Fenice, alla fine con potenti secchiate d�acqua i bottai spensero la cameretta per bambini, che fin dall�inizio era stata un miglior barometro e un miglior indicatore degli sviluppi al fronte di tutti i comunicati di guerra del mondo. 8. Verso la fine della guerra, quando la benzina scarseggiava, affinché gli automezzi della fabbrica di birra potessero continuare a consegnare la birra due camion furono trasformati a gasogeno. Dato che girava per i paesini per andare dagli osti, papà fece trasformare a gas pure la Skoda 430. E lo zio Pepin, che aveva sempre il lavoro che nessuno voleva fare, fu nominato fuochista del camion, e papà lo nominò fuochista della Skoda quattrocentotrenta. Il signor Fuks della piazza, quello che vendeva libri, quello aveva una grossa Lancia lunga otto metri, a sedici cilindri, anche lui se l�era fatta trasformare a gas, i meccanici avevano dovuto applicare a quella carrozzeria stupenda non una, ma due caldaie. Ogni sabato due persone scaldavano la caldaia della Lancia fin dal mattino con legna di quercia, in modo che nel pomeriggio la macchina fosse calda e avesse gas a sufficienza. E il signor Fuks si metteva il completo. bianco per le terme e nel pomeriggio saliva sulla Lancia, due meccanici stavano dietro, alle caldaie, in piedi sul predellino, e il signor Fuks usciva dallo stretto cortile, ma ogni volta si incastrava nel passaggio in modo tale che i meccanici dovevano chiamare gli operai, perché facendo leva con cric e pali staccassero la macchina dal muro. Allora i meccanici decisero di disegnare con la calce sul pavimento del passaggio il percorso che il signor Fuks doveva fare, in modo che riuscisse almeno a uscire. Ma, appena furono usciti, nelle caldaie il fuoco si abbassò, allora i meccanici in piedi attizzavano con i ganci e aggiungevano pezzetti di quercia e i cittadini guardavano, curiosavano, che bella cosa era quel giro in automobile, le caldaie dietro fumavano e i meccanici in piedi stavano pronti a versare i blocchetti di quercia, e allora il signor Fuks uscì, attraversò la piazza vestito di bianco e, dopo aver fatto il giro della piazza, rientrò nel passaggio della sua casa e di nuovo, entrando come un pistone nel cilindro, di nuovo incastrò la Lancia nel passaggio in modo tale che dovettero venire gli avventizi che, facendo leva con i cric e i pali, staccarono la macchina dal muro, la raddrizzarono e i meccanici con la calce segnarono il percorso per le ruote anteriori, per mandare la macchina in garage. Il camion della fabbrica di birra, che veniva alimentato dallo zio Pepin, non si trovava in una situazione migliore. O lo zio Pepin faceva troppo fuoco, oppure troppo poco, mentre caricavano la birra lo zio Pepin urlava e con i lunghi ganci e gli attizzatoi ingaggiava battaglia con la grande caldaia, imprecava e si rivolgeva alla caldaia come se si fosse trattato di un cavallo o di un bue o di una persona stupida, ostinata e recalcitrante. E allora quando i camion con la birra uscivano dalla fabbrica di birra, l�autista, che ne era contento, per tutto il tragitto non faceva che ridere, e una volta che in piazza c�era molta gente si fermò, anche se avrebbe potuto andare avanti, e disse: «signor Jozef, non mi convince per niente, mi pare di avere poco gas, ci dia un po� un�occhiata!». E lo zio Pepin uscì dalla cabina e già urlava: «Ecco qua -se vedesse il capitano Tonser, a cui portavo la sciabola, come si è ridotto un soldato austriaco!». E saltò sul predellino e scavalcò la sponda e si mise in ascolto, poi prese la caldaia con tutte e due le mani e si mise a tastarla per sentire quanto fosse arroventata, poi sollevò il coperchio, ogni volta sembrava che il fuoco nella caldaia fosse spento, ma in realtà mancava l�aria, all�improvviso il gas prese fuoco e la fuliggine saltò in aria, nella piazza si sentì un botto e poi di colpo uscì una colonna di fumo nero alta cinque metri, da cui uscivano volando le scintille, e quando il fumo si diradò lo zio Pepin era lì in piedi e si reggeva al bordo della caldaia, il coperchio della caldaia saltellava per la piazza, lo zio stava lì nero in faccia e con le sopracciglia bruciacchiate urlava: «Un soldato austriaco si fa valere nelle situazioni più difficili. Ho vinto di nuovo!». E prese il gancio si mise ad ammucchiare

le braci nella caldaia e aggiunse blocchetti di quercia, rimise e chiuse il coperchio che gli aveva portato uno dei cittadini più coraggiosi, perché dopo la detonazione erano scappati via tutti� e si mise a sedere nella cabina per lo scaricatore strillando entusiasta. Così ogni volta che aggiungeva legna, che riempiva il focolaio di blocchetti di quercia, lo zio Pepin non indovinava mai la situazione, ogni volta pensava che fosse tutto a posto, che nella caldaia il fuoco fosse quasi spento, ma, quando sollevava il coperchio per guardare bene, si sentiva sempre un botto e il fumo infuocato usciva di colpo verso l�alto come un razzo e lo zio Pepin non toglieva mai la faccia in tempo e ogni volta il fumo gli frustava il viso. E così accadde che una volta, mentre passavano vicino a un corteo funebre, lo zio si mise a rimestare nella caldaia e i cavalli si spaventarono tanto che si misero a correre e si imbizzarrirono un�altra volta, mentre incrociavano una compagnia di soldati tedeschi che tornavano da un�esercitazione cantando «In der Heimat, in der Heimat�», dopo la detonazione nella caldaia tutti i soldati caddero a terra riparandosi, e per poco non spararono sul camion della fabbrica di birra, perché avevano pensato che fosse un tentativo di attentato. Il giorno del Corpus Domini l�autista, dato che era un libero pensatore, disse, mentre passava un corteo di damigelle che spargevano fiori e lui aveva cominciato a scaricare la birra in una casa cattolica, davanti alla quale c�era un altare ornato di rami di betulla, l�autista, dunque, disse allo zio Pepin: «Si sta spegnendo, non ce la faremo a ripartire�», e appena lo zio Pepin sollevò il coperchio la fuliggine prese fuoco e il gas si incendiò e la polvere di carbone scoppiò verso l�alto, e la fuliggine poi cosparse maestosa il corteo di bambini vestiti di bianco e blu che spargevano petali dai cestini e la corrente d�aria non strappò, è vero, l�ostensorio al reverendo padre, ma nessuno poté impedire che il baldacchino si sollevasse, gli si strappasse di mano e volasse sulla piazza come una vela rossa ricamata d�oro, come un tappeto persiano volante� Un�altra volta, alla fiera annuale, stavano scaricando la birra dai Beránek all�angolo della piazza, lo zio Pepin aggiungeva legna, voleva solo aggiungere un po� di legna nella caldaia, a causa delle esplosioni lo zio ormai era così nero che non riusciva più a lavarsi, però era un autentico fuochista, bruno come un italiano o uno zingaro, con le sopracciglia bruciacchiate e la testa pelata, perché gli prendevano sempre fuoco anche i capelli o il berretto, dunque l�autista espresse il dubbio che il fuoco fosse spento, voleva che lo zio lo ravvivasse con l�attizzatoio, e raccomandò allo zio di lasciare il coperchio chiuso, però lo zio, dopo aver ascoltato con l�orecchio incollato alla caldaia se lì dentro si sentiva crepitare, suppose che il fuoco si fosse davvero spento, allora sollevò il coperchio e lì alla fiera ci fu un altro botto, e dopo la detonazione e il fumo i campagnoli scappavano di qua e di là, incespicavano nei cavalletti, nelle corde che legavano le tende e le tele, e le bancarelle si rovesciavano, e i bambini gridavano e strillavano e i venditori imprecavano e minacciavano, ma curiosi e compratori, mentre scappavano, mentre si allontanavano dal focolaio del camion lanciandosi in tutte le direzioni, cadevano sui cavalletti sollevati e sulle tavole sparse di qua e di là, inciampavano nelle stoffe e nei panni e, quel che è peggio, cadendo sullo spiazzo libero andarono a finire sui piatti e sulle pentole di coccio e ci vollero ore perché la fiera riprendesse il suo corso� Verso la fine della guerra papà ormai non viaggiava più a blocchetti di faggio, né smontava più. In compenso lo zio Pepin entrava nella cittadina ancora più gloriosamente, soprattutto da quando la gente era venuta a sapere che lo zio Pepin aveva ballato in onore dell�assassinio del Reichsprotektor Heydrich, le porte e le finestre si aprivano anche di più e sempre più gente, se non poteva parlare con lo zio Pepin, voleva almeno vedere l�eroe, che continuava a andare dietro alle belle col berretto da capitano di corvetta, come se nulla fosse accaduto. Nessuno degli abitanti della cittadina voleva più smontare con papà, da un lato perché alla fabbrica di birra c�era una compagnia dell�esercito del Reich, dall�altro perché a turno ormai c�erano andati tutti a smontare con papà il sabato e la domenica. E poi ci fu anche la mobilitazione di tutti i mezzi di trasporto e papà mise la Skoda sui cavalletti e una volta, di notte, svegliò lo zio Pepin, smontò le ruote e mise i pezzi dentro dei sacchi e poi portarono le ruote, compresa quella di scorta, sul tetto della fabbrica di birra e papà aprì il coperchio del vecchio comignolo e calò prima una corda, poi calò giù lo zio Pepin con una torcia elettrica, papà sussurrava: «Com�è la situazione laggiù?». E lo z

io Pepin dichiarò con gioia che la fuliggine gli arrivava fino al petto� E papà fu contento: «E� il mezzo di conservazione migliore, è come se li mettessimo nell�olio, è anche meglio che se mettessimo i pezzi della macchina nella grafite o nella piombaggine o se li coprissimo di grasso animale o di strutto di maiale�». E poi papà si mise a calare i pezzi e lo zio li slegava, li sistemava in attesa di tempi migliori sul fondo del camino, in cui il fuoco non veniva acceso da vent�anni e più. E poi giù una gomma dopo l�altra, ma, mentre papà la calava, l�ultima ruota, cosiddetta di scorta, gli scivolò, cadde, e papà gridò: «Jozka, attento!», e poi si sentì un tonfo e dal camino turbinò a lungo la fuliggine, papà si chinò sulla fuliggine e chiamò: «Jozka, non ti è successo niente?». E dal basso si levarono le grida allegre dello zio Pepin: «A un soldato austriaco non ci può mai succedere niente, ho vinto di nuovo gloriosamente! Che forza, eh?». Ma ormai il nascondiglio non era neanche più necessario. Il fronte si era spostato tanto che anche i treni si erano fermati, i soldati tedeschi feriti si incamminavano attraverso la cittadina da soli, a piedi, quelli che non potevano camminare venivano trasportati sulle barelle, poi si fermavano al traghetto nel primo paesino lungo il corso dell�Elba, pregavano il traghettatore di traghettarli, stavano lì malridotti, dominava il colore bianco del gesso, sembravano calchi di arte moderna, sembravano i resti di quando si toglie dal calco l�involucro di gesso, dunque sulla riva verde d�erba fresca e di ranuncoli gialli c�erano gambe e braccia ferite e clavicole rotte e teste fasciate, si frugavano nelle tasche e stavano lì in piedi, tendevano le mani offrendo soldi e catenine e orologi, e il traghettatore si grattava dietro le orecchie, alla fine, però, i tedeschi feriti li traghettava, a gruppi. i soldati feriti avevano l�impressione che di là, dall�altra parte fiume, ci sarebbero stati ancora i loro eserciti in fuga che avrebbero avuto ancora una possibilità di arrivare a casa, ma il traghettatore sapeva che là c�erano i partigiani, che aspettavano nelle tagliate e nei canali e nei fossati e nelle cunette con le mitragliatrici e i fucili, che per loro ormai era finita, amen, e nonostante ciò traghettava, perché anche se non amava i tedeschi e non poteva amarli, quando vedeva la speranza nei loro occhi, quel momento di felicità, di possibilità di salvarsi, di essere felici una volta arrivati con le fasce e con i gessi lucenti sull�altra sponda� perché non procurare loro un poco di quella gioia? Proprio come si fa con i condannati a morte, quando l�ultima notte si esaudiscono loro eventuali ultimi desideri. E i tedeschi misero dei fazzoletti bianchi su dei piccoli pali e si avviarono i marcia come andando verso la terra promessa. Era l�ultima compagnia tedesca e poi continuarono a correre di qua e di là calessi con cavalli imbizzarriti e soldati tedeschi terrorizzati e la sera arrivarono i russi, l�Esercito sovietico. Il nonno, il papà della mamma, quella sera di nascosto aveva tagliato del lillà fresco in fiore, i soldati russi si erano insediati nel suo cortile e si erano messi nei letti e con i moschetti in mano dormivano come sassi, davanti alla stanza in cui dormiva il colonnello un soldato col fucile dormiva sdraiato sulla soglia e allo stesso tempo vegliava e faceva la guardia al colonnello e sul far del mattino il nonno prese i fiori freschi di lillà e voleva metterli in un vaso, ma il vaso era in cucina e quando il nonno voleva qualcosa quella cosa doveva accadere, era sempre tanto accecato dal proprio volere che non notò che il grande vaso si trovava nella credenza solo perché insieme ad alcuni libri fungeva da supporto a un lato della credenza e allora in una mano teneva il lillà tagliato, con l�altra tirava il vaso, su cui erano appoggiati alcuni piatti e le salsiere e stoviglie varie, tirava e gridava: «Nanynka, dove sei finita, vieni ad aiutarmi!». E continuava a tirare il vaso, contento al pensiero di come ci sarebbe stato bene il mazzo di fiori che avrebbe messo sul tavolo al signor colonnello� E continuava a gridare: «Dove siete, ragazze, per la miseria! Nanka!». Ma la nonna e la serva tenevano il mastello in cui il macellaio sovietico stava versando il fegato di una mucca squarciata, e il nonno urlava: «Puttane, puttane, che fine avete fatto, perché non mi venite ad aiutare? Mannaggia e porcaccia!». E urlava, perché voleva fare piacere ai soldati sovietici donandogli i fiori� E la nonna arrivò di corsa quando il nonno era riuscito a tirar fuori il vaso ma contemporaneamente la credenza crollava con rumore di vetri rotti, il nonno calpestava le stoviglie e gridava: «Puttane, quando chiamo, perché non venite?». E la nonna correndo chiudeva le finestre, ma il nonno le riapriva e dalla finestra gridava ai vicini: «Razza di puttane, se ne stanno con le mani in mano ma un vaso non me lo danno!». E la nonna gridava dalla fine

stra: «Non è vero!» e chiudeva le finestre, ma il nonno apriva le altre finestre e gridava: «Puttane! Io vi ammazzo tutte quante!». E poi pestava le stoviglie, tirò giù tutta la credenza e i piatti che non si erano rotti, e calpestava e imprecava, ma a un certo punto cominciò a pestare di meno e più lentamente, e smetteva anche di gridare, e poi si mise a sedere, prese in grembo i fiori di lillà� muoveva solo le gambe e voleva dire qualcosa. Quando la nonna si chinò su di lui, sussurrò soltanto: «Nanynka, addio� io trapasso�». E dopo un momento la nonna sentì il polso al nonno e quando vide che la serva Anna apriva la legnaia per trascinare nel cortile un vecchio armadio, aprì la finestra e disse: «Ora di armadi non avremo mai più bisogno», saltò in bicicletta a cercare il dottore e si fermò alle pompe funebri, che vengano nel pomeriggio� Quella sera papà e la mamma si misero un nastrino nero sul bavero del cappotti e intanto preparavano gli abiti neri, lo zio Pepin partecipò ai festeggiamenti col berretto bianco da ufficiale di marina, sulla banchina al fiume i russi avevano portato le fisarmoniche, offrivano pezzi di carne arrostita e bottiglie di vodka, verso sera erano ubriachi, alcuni cittadini non riuscirono a reggere quella quantità di grandi brindisi alla salute e alla fine della guerra, brindisi bevuti nei bicchieri della senape, vomitavano nella penombra vicino allo steccato, e l�alcol era così forte che nella penombra strappavano le assicelle a cui si reggevano, e a ritroso percorrevano di corsa la banchina illuminata dal fuoco e dai lampioni, qualcuno a casa vomitò addirittura accanto al lavandino attaccato al muro e strappò la coppa di porcellana del lavandino e a ritroso corse sulla soglia, poi sulla via e a ritroso, sempre reggendosi al lavandino, passò in mezzo ai ballerini e sparì sulla riva e si rovesciò addosso il lavandino. Solo lo zio Pepin beveva e brindava con tutti, e più beveva, più era sobrio, si lasciò convincere a ballare dal primo ballerino dell�esercito, e al suo kasatcok lo zio rispose pure con un kasatcok, ma migliorato da un salto per aria concluso da una spaccata magnifica, poi un soldato riposato attirò lo zio in una specie di monferrina in cui era incorporata una danza armena veloce, una specie di danza su variazioni, come fanno gli slovacchi della Moravia, con scambietti, lo zio Pepin comprese bene e a ritmo della fisarmonica aggiunse agli scambietti degli affondi nell�aria, un fante di campanelli volante, che prima di ricadere si girò per aria e a terra fece una capriola in avanti e poi una all�indietro, e i soldati russi esaltatissimi battevano le mani e gridavano: «�Bravo, papascka! Bravo, papascka!�». Poi un altro soldato mise alla prova lo zio Pepin con una danza delle spade, girava come un gallo, saltava sotto una sciabola inesistente evitandone i colpi, e lo zio Pepin circondato da bellezze e belle signorine ansimava e continuava a brindare con tutti e si preparava alla danza successiva, in cui applicò un miglioramento che aveva visto fare alla coppia Fuksa e Kost�álová, come se avesse davanti a sé una ballerina saltò sulle mani e fece il salice secco, come faceva con la signorina Vlasta sul biliardo, del resto era come se per tutta la vita lo zio Pepin si fosse esercitato nella danza per quel confronto, in cui aveva trovato per la prima volta dei veri partner, che non ballavano per ridere, ma perché così si ballava nel loro paese, perché così era d�uso ballare e non diversamente, quindi lo zio per la prima volta non ballava per divertimento e per ridere, ma per la danza stessa, vedeva che anche i soldati prendevano la danza come una gara, che si consultavano su chi mandare perché battesse �papascka�, giacché non l�avevano sopraffatto con l�alcol, a cui erano abituati, che però lo zio Pepin beveva proprio quanto loro e per di più brindava con i vicini, e beveva per quelli che non potevano bere affatto o che non ne potevano più. E tutti potevano vedere che di tutte le persone sulla banchina il più stimato dai russi era lo zio Pepin, gli manifestavano la loro stima, lo avevano fatto sedere sulla sedia accanto al direttore della banda, il maestro alla fine porse allo zio il bastoncino di salice e lo pregò di dirigere la banda che era venuta a suonare per festeggiare la vittoria. Quando le danze finirono i soldati accarezzavano lo zio e gli dicevano continuamente �papascka� e, quando finì di dirigere, il miglior ballerino dei russi riconobbe che lo zio era bravo quanto lui e dichiarò: «Mi porto �papascka� con me a Mosca!». Ma lo zio Pepin disse che il giorno dopo alla fabbrica di birra bisognava solfitare le botti, che non ci aveva tempo, forse con l�aieroplano avrebbero potuto farci un salto sabato pomeriggio, a �sta Mosca, a una qualche gara di danza. E aggiunse: «Un soldato austriaco vince dovunque». Papà quella notte sfruttò il fatto che aveva i vestiti neri da lutto e aspettò lo zio Pepin, che tornò dalle visite alle signorine nei lo

cali solo sul far del mattino, papà portò zio Pepin sul tetto della malteria, aprì il coperchio in cima al vecchio comignolo tronco, calò lo zio Pepin con una corda e tirò fuori i pezzi della macchina uno dopo l�altro, poi anche le ruote� quando ogni cosa fu tirata su, papà si mise in ascolto, ma non sentiva lo zio sul fondo del camino, e laggiù nulla si mosse. «Jozka, Jozka!»i chiamava papà nel camino, faceva luce verso il basso, ma dal fondo della voragine nera saliva un pennacchio di fuliggine dopo l�altro. «Jozka, rispondi!» chiama disperato papà, e poi corse giù, verso l�ufficio, dove sotto la gru dormiva il guardiano notturno Vanátko coperto con il pastrano, lo svegliò, ma il guardiano era così assonnato che all�inizio pensò che i rapinatori avesse attaccato la cassaforte all�improvviso e fu contento, ma papà gli disse che lo zio Pepin era nel camino e non rispondeva, e il signor Vanátko disse: «Un momento!» batté i tacchi, fece il saluto e si presentò: «Il guardiano notturno al posto di guardia, comandi�». E slegò Tricek, il fedele cagnolino, e salì con papà sul tetto della malteria, poi fece luce verso il basso con la torcia elettrica, poi chiamarono a turno, poi provarono a chiamare insieme, ma là sotto c�era silenzio� Allora il guardiano notturno Vanátko, contento, si tolse il cinturone dell�uniforme dell�Intesa, posò il fucile messicano e il revolver e papà gli passò una corda intorno al petto, e signor Vanátko fece il saluto, batté i tacchi e dichiarò: «Il guardiano notturno è pronto!», si mise in posizione di riposo e papà lo calò lentamente verso il fondo del camino� Poi Vanátko gridò verso l�alto: «Dichiaro che signor Jozef è qui, ma dorme! Sta schiacciando un pisolino!». E papà gridò: «Lo leghi!». E Vanátko chiamò verso l�alto: «E� legato, issa!». E papà si mise a tiraticosamente lo zio Pepin, la corda strisciava sul bordo del camino, ma un metro dopo l�altro lo zio saliva dal quel pozzo di sette metri. Quando la testa tutta nera dello zio comparve, papà non ebbe la forza di afferrare lo zio per un braccio o di prenderlo sotto le ascelle, perché doveva tenere la corda a cui lo zio era appeso. Sembrava ormai che dovesse calarlo nuovamente giù, quando Vanátko da sotto gridò: «Vada a legare la corda al parafulmine!»� E papà per la prima volta ringraziò che alla fabbrica di birra anni prima fosse arrivato il signor Vanátko, perché per la prima volta riconobbe che il consiglio del guardiano notturno era sensato. Assicurò la corda, diede un forte strattone alla graffa del parafulmine, poi prese lo zio sotto le ascelle e lo tirò su, stanchissimo e distrutto cadde con suo fratello nei semprevivi gialli, e lo zio continuava a dormire profondamente, giaceva sulla schiena e le stelle fredde gli facevano corona. Poi papà tirò su anche Vanátko e per prima cosa gli diede la mano con piacere, e anche questo era poco, allora lo abbracciò, e Vanátko con le labbra nere gli diede un bacio militare. Ma poi si spaventarono entrambi: Dov�è il berretto da ufficiale di marina? Fecero luce verso il basso, ma la pozza di fuliggine si era richiusa e del berretto bianco non c�era traccia� 9. Il signor caposquadra stava in piedi dietro il cancello col taccuino tra le dita come sempre, gli operai andavano al lavoro come prima, ma questa era solo un apparente apparenza. Non salutavano il signor caposquadra di proposito erano arrivati tutti con un quarto d�ora di ritardo, e il caposquadra era trasparente, inesistente, come se non ci fosse. Prendeva appunti, registrava il ritardo sul taccuino con note velenose, mentre poi distribuiva il lavoro l�aiuto bottaio disse: «Non abbiamo più bisogno di un negriero, non abbiamo più bisogno di avere sopra di noi un qualche signor Franz del castello, da oggi in poi il lavoro ce distribuiremo da soli». E il signor caposquadra disse «Fino a quando avrò la nomina di vostro superiore finché alla fabbrica di birra ci sarà il consiglio d�amministrazione che mi ha nominato, fino a quel momento ascolterete me». Ma l�aiuto bottaio disse: «Solo che da oggi la fabbrica di birra è un�impresa nazionalizzata e non ci sono più padroni, i padroni adesso siamo noi, e da oggi è stato nominato un consiglio di fabbrica e io ne sono il presidente�». E se ne andò, e il caposquadra rimase lì attonito e, quando tornò dall�ufficio, era piccolo piccolo. Rintracciò l�aiuto bottaio disse piagnucolando: «Ma io sono uno di voi, sono stato per tanti anni operaio qui alla cantina di fermentazione». Ma l�aiuto bottaio disse: «Però ci è stato contro, ha sempre voluto quello che volevano i padroni, l�amore dei padroni calpesta la gente, e non solo, lei ha voluto dimostrare di essere più bravo di noi e questo non possiamo perdonarglielo, questo non si può davvero perdonare�». Il caposquadra si oppose ancora: «Ma non mi avete assunto voi�». Ma il mastro bottaio disse: «Non l�abbiamo assunta noi, ma la licenziamo noi, abbiamo deciso che faremo a meno di lei� del resto la sua lettera di licenziamento è già alla

posta, e sarà meglio che se ne vada a casa�».. E il caposquadra se ne andò, poi ritornò, come sempre gli sembrava di stare solo sognando, era come il sogno di riuscire a diventare caposquadra, tanti anni prima non ci credeva, allora adesso ritornò nel cortile della fabbrica di birra, perché non ci credeva, pensava di stare solo sognando, pensava che non era possibile che fosse stato licenziato, ma nessuno lo notava più, nessuno si accorgeva di lui, era trasparente, perché aveva perso il potere, non poteva più licenziare un operaio e assumerne un altro al suo posto, gli operai non torturavano più il berretto tra le mani, non chiedevano più umilmente del lavoro, adesso i padroni erano loro. E così accadde che in autunno, quando la mamma cominciò a raccogliere le mele, quando anche il caposquadra venne a raccogliersi le mele degli alberi che aveva in assegnazione, si portò i suoi cestini, le sue scale, e allora stava sulla scala e porgeva i cestini di mele che sua moglie in lacrime svuotava nelle ceste della biancheria, la mamma con due donne raccoglieva le mele mettendole nei suoi cestini, allora la moglie del caposquadra scoppiò a piangere, perché la mamma stava cogliendo le mele dal suo albero, le renette a botticella che erano sempre appartenute a lei� ma la mamma disse che il signor caposquadra non aveva più voce in capitolo, che adesso quegli alberi erano suoi, perché papà era rimasto sempre in servizio e secondo i vecchi accordi come amministratore della fabbrica di birra aveva diritto alla metà, e la metà del frutteto arrivava fin lì e quindi comprendeva anche il filare che ingiustamente si era preso il signor caposquadra, e allora la moglie del caposquadra si arrampicò sulla scala dietro la mamma e si mise a raccogliere le renette a botticella, e la mamma di proposito si scrostava le scarpe piene di fango e il fango secco cadeva sulla faccia e sui capelli della moglie del caposquadra, ma lei continuava a raccogliere, e allora la mamma scese dalla scala pestando la moglie del caposquadra sulle nocche delle mani richiuse intorno al piolo della scala, dovette scendere pure lei con la mamma, e allora la moglie del caposquadra prese il cesto della mamma con le mele e lo svuotò nel proprio e poi le donne si affrontarono, sembrava ormai che sarebbero venute alle mani, avevano già preso lo slancio per gettarsi sui capelli e strapparsi le camicette e dare sfogo al vecchio odio che si rinnovava con la raccolta delle mele autunnali, quando dalla malteria si avviarono tre operai capeggiati dall�aiuto bottaio, e, una volta arrivati lì, l�aiuto bottaio disse: «Anche l�assegnazione ai dipendenti è finita, il frutteto e la frutta sono nostri. Tutto il frutteto, portatevi via le scale, da oggi la frutta ce la raccoglieremo noi, abbiamo figli, nipotini, e, anche se non li avessimo, il giardino appartiene adesso a tutti noi, non appartiene più ai padroni�» Papà si avvicinava attraversando il giardino, camminava evitando i rami, e, sentita la fine del discorso, disse con voce sommessa: «Ma io non ho mai fatto il padrone». L�aiutante bottaio disse pacato: «Signor amministratore, lei non ha fatto il padrone, lei è stato gentile e buono con noi, ma il fatto che sia stato buono con noi oggi più che altro la danneggia, perché ha servito padroni, ma adesso qui i padroni siamo noi e, visto che è qui, neanche lei sarà più il nostro amministratore, l�amministratore ce lo eleggeremo dalle fila degli operai, i sindacati ci nomineranno qui un amministratore operaio, perché da domani le azioni nazionalizzate si vendono solo agli operai e gli azionisti della fabbrica di birra siamo noi, quindi abbiamo il diritto di nominare i nostri capi, come la società borghese a responsabilità limitata aveva il diritto di nominare alla guida dell�impresa la sua gente� Signora caposquadra, si prenda le mele che ha raccolto, e lei, signora amministratrice, prenda le mele che ha colto, e lei, signor amministratore, se ne vada a casa, ha un preavviso di tre mesi, in ufficio da lunedì non ci deve più andare, perché abbiamo già i nostri dirigenti. Lei è stato buono con noi e noi glielo rimproveriamo, perché in questo modo ha smussato la lama della lotta di classe, capisce?». Papà scosse la testa e disse: «Non capisco, ma mi rendo conto e mi adeguo�». E il mastro bottaio, mentre si allontanava con i tre membri del consiglio di fabbrica, si girò e, benché con fatica, disse: «Oggi stesso cominciamo anche a sgomberarle il garage, l�auto se la porti via e tutte le taniche e i pezzi di ricambio pure, le metteremo tutte quelle carabattole contro il muro�». E la mamma arrossì fino alla radice dei capelli, prese le ceste piene di mele e le svuotò sull�erba calpestata, sistemò i cesti più piccoli dentro quelli più grandi e si mise a ridere e disse a papà: «Ora cominceremo una nuova vita», e accarezzò papà e gli sorrise e lui la guardò negli occhi, questo dalla mamma non se lo aspettava, prese i cesti per i manici e se ne andaro

no, si guardarono intorno come per l�ultima volta o per la prima nel bel frutteto della fabbrica di birra, dove avevano vissuto insieme per un quarto di secolo, e videro il giardino bello come non mai, le mele sui rami emettevano colori e profumi come per accompagnarli nell�ultima passeggiata nel giardino dove stendevano la biancheria sulle corde ad asciugare, dove la mamma raccoglieva margherite e altri fiori di campo, ma bastava chiudere gli occhi e nell�immaginazione il giardino si ripeteva, la mamma chiudendo gli occhi avrebbe potuto non solo contare dietro le palpebre chiuse tutti gli alberi, ma riconoscere ogni albero come accade per i ricordi delle persone, dei loro volti, dei movimenti, dei loro piccoli difetti� E dopo che papà ebbe portato i pezzi della macchina nella nuova rimessa, alla casetta che avevano comprato anni prima, dopo che ebbe tirato fuori la Skoda, tornò in ufficio, era lì per l�ultima volta, svuotò i suoi cassetti, prese le sue penne, il nuovo direttore apriva la posta e beveva birra di prima mattina, com�era sua abitudine, aprì la posta la distribuì e aspettava che papà se ne andasse, e papà aspettava, tergiversava, entrò di nuovo nella fabbrica di birra, dimenticò apposta le taniche vuote vicino muro, anche lì temporeggiava, ma nessuno degli operai gli si avvicinò, nessuno andò a salutarlo, nessuno gli manifestò la sua comprensione, neanche una parola, passavano come se papà non ci fosse, come se con la Skoda e con la motocicletta non avesse accompagnato le loro mogli a partorire, i loro figli in vacanza, come se poco tempo prima non avesse prestato loro i camion e le macchine per trasportare i mobili nuovi o il materiale per le case e le casette che si costruivano, e così papà se ne andò come se fosse stato colpevole come il signor caposquadra. Quando si fu portato via l�ultima scatola con le penne e i calendari e i taccuini, papà aprì l�armadietto e prese due lampade panciute, le lampade alla cui luce soleva scrivere anni prima, che erano sempre pronte, per il caso che se ne andasse la luce elettrica, le lampade panciute con i paralumi verdi, e mentre se le stava portando via, il direttore operaio disse: «Quelle lampade, veramente, sono nell�inventario della fabbrica di birra�», e le tolse di mano a papà. «Le compro» disse piano papà. Ma il direttore operaio scosse la testa e disse con durezza: «Ha già accumulato abbastanza, ci si è fatto la villa�». E poi papà uscì dall�ufficio, il direttore operaio stava aspettando proprio questo e gettò dalla finestra tutte e due le lampade con tutti i paralumi verdi su un mucchio di ciarpame e di ferraglia e i paralumi verdi e i cilindri andarono in frantumi, e papà si prese la testa tra le mani e gli sembrò di sentire che qualcosa all�interno si frantumava, come se gli stessero mandando in pezzi il cervello. «La nuova epoca comincia anche qui» disse il direttore operaio ed entrò nell�ufficio. E così il giorno in cui papà e la mamma traslocarono, dopo che ebbero appeso le ultime tende, dopo che papà ebbe attaccato col cacciavite il suo nome sul muretto, dopo che ebbe avvitato con cura su quattro tronchetti la cassetta verde per le lettere, allora dalla fabbrica di birra arrivò lo zio Pepin con due valigie, intorno alla testa gli svolazzava un macaone e dove andava lo zio, lo seguiva volando ondeggiante quella farfalla bruna con gli occhi di pavone sulle ali. Quando lo zio Pepin ansante posò le valigie, il macaone si alzò in volo sopra di lui come la colomba che annuncia l�immacolata concezione, papà guardava lo zio e uscì anche la mamma, e quando vide la farfalla, disse: «Zio Jozin, ma dove ve ne andate, e che ci fa quella farfalla sopra di voi?». E lo zio Pepin fece un gesto con la mano e disse: «Questo mostro vola con me fin dalla fabbrica di birra, appena sono uscito dall�alloggio degli operai, eccomelo dietro� Lo caccio, ma non ne vuole sapere». E la mamma chiese: «E dove ve ne andate, zietto? A divertirvi? In gita dalle belle signorine? Quale di loro vi ha invitato?». E lo zio Pepin disse: «Macché, ormai sono in pensione, e allora vengo da voi per un pochino a trovarvi. Tutto ciò che ci ho lo sto portando con me». E la mamma si spaventò, con tutte e due le braccia si fece scudo come per difendersi da una nube, con tutte e due le mani, e i capelli le si rizzarono dal terrore. Ma papà sorrise e disse: «Dai, entra, fratello, vieni dentro». E la mamma sussurrò a papà: «Vedrai che rimarrà da noi vita natural durante�». Ma papà sorrise di nuovo e disse: «E allora�?». E così lo zio Pepin si installò nel seminterrato e un tempo nuovo ebbe inizio, papà impiantò un giardino e lavorando cominciò a cambiare, lui, lui che beveva solo caffè con un pezzo di pane asciutto cominciò a mangiare carne, beveva volentieri la birra, lui, che prima non la sopportava, adesso andava matto per la cipolla. E adesso che mangiava di più pure la sua voce divenne più forte, gli piaceva arrabbiarsi e gridare, e più gridava, più gli si ingrossava la voce e col grid

are cominciò a mangiare con appetito, e quando gli mandavano la maialatura papà non soltanto faceva fuori da solo tutta la minestra, ma mangiava anche la coppa di testa fredda, e le salsicce di fegato le mangiava senza pane e ci beveva sopra la birra. Invece lo zio Pepin, che aveva sempre mangiato così volentieri, e dovunque fosse invitato faceva fuori sei pranzi e beveva tutto ciò che chiunque gli offrisse, dunque lo zio Pepin cominciò a tornare al principio, a diventare come era Franzin per il mangiare, e le pietanze di carne le lasciava lì e chiedeva solo un bicchiere di latte o di caffè e un pezzo di pane. «Che volete, cognata, quando uno non lavora non ci ha voglia di mangiare». Ma smettendo di mangiare e mangiando solo gli alimenti fondamentali, patate e minestra, smetteva di gridare, smetteva di arrabbiarsi, non aveva più motivo di andare urlando a tutta la città le sue sparate, si limitava a fare un gesto con la mano, e quando Franzin si arrabbiava e gridava lo zio Pepin lo calmava giungeva le mani, si turava le orecchie e pregava Franzin di calmarsi. E così durante il giorno i due fratelli lavoravano nell�orto, lo zio affermava che cominciava a vederci poco, allora Franzin gli diede la zappetta, tese delle corde e Pepin zappettava la verdura, ma una volta scavò anche i cavoli insieme alle erbacce, Franzin si mise a gridare, Pepin dovette limitarsi a zappare i vialetti. Li faceva così profondi che diventavano delle trincee, ma Franzin era contento che lo zio facesse un po� di moto, e così lo zio zappava, ma col passare del tempo sempre di meno, ogni tanto si sedeva, e aveva imparato a camminare con i movimenti cauti dei ciechi o di chi ci vede poco, con le braccia tese tastava davanti a sé, come se lo minacciasse sempre un qualche ostacolo. «E� come se camminassi nell�acqua» diceva, e poi non trovò più nemmeno il sentiero e, quando papà ce lo condusse, tastando non riuscì a trovare neanche la zappetta, e quando papà gliela mise in mano, si mise a zappare in modo disordinato e non manteneva la direzione e scavava il sentiero nelle aiuole, e Franzin sbraitava e urlava. E così i vicini, che erano abituati allo zio Pepin, cominciarono a dare consigli presso il recinto: «Signor Jozef, dica un po�, e se portasse qui due locomotive per arare il giardino?». Ma lo zio Pepin tastando trovò il bordo del sentiero, si sedette, e Franzin intanto strillava: «Che cosa, pezzo d�imbecille, secondo lei in mezzo a questi teneri alberelli possiamo rimorchiare una trebbiatrice? Una locomotiva le pare un giocattolo? Come potremmo trascinare qui un bestione del genere? Dovremmo abbattere il recinto! Ma di chi è stata l�idea?» E il vicino si teneva con le dita alla rete metallica e insisteva: «Signor Jozef, è un consiglio del capitano Meldík, quello che adesso è presidente del circolo di giardinaggio». E lo zio Pepin guardava lontano, da tutt�altra parte, e Franzin gridava: «Eh già, perché secondo lei questo Meldík può essere presidente del circolo di giardinaggio! E in guerra quello non e mai stato capitano». E il vicino continuava: «Ma, signor amministratore, le dico che era capitano, un momento fa diceva: �Io, a quei due ragazzini della villetta, glielo insegno io a coltivare il giardino. Pipánek��». E papà strillò: «E secondo lei quell�imbecille può insegnare a qualcuncoltivare il giardino? E quale Pipánek, come si permette? Quello che lui ci ha nella zucca io e mio fratello ce l�abbiamo nel culo!» esclamò conciso papà. E il vicino disse: «Meldík diceva che vi insegnerebbe a coltivare il trifoglietto e che potreste tenere delle capre, ma dovreste arare il giardino in profondità con l�avanvomere�». «Macché allevare le capre, non è mica una cosa da niente» gridava papà con la zappetta in pugno, «la capra è una puttana golosa, a mia madre ha mangiato tre fiorini dal portamonete, e una volta avevamo messo a freddare un secchio di strutto e la capra se l�è bevuto, non rompa l�anima con le capre, pezzo d�imbecille!» la mamma aprì la finestra e disse: «Potremmo fare un piccolo ovile per le capre vicino al garage e sarebbe guadagno». E papà scatarrò e gridò alla mamma: «Siete tutti degli imbecilli, con le capre ci si perde sempre!» Ma la mamma insisteva: «Non è vero niente, due capre tranquille le vorrei proprio, la mattina la capra vi sveglia e poi ve ne andreste al pascolo con le capre, che bella cosa, all�aria aperta�». Ma Franzin gridava che all�aria aperta non ci voleva andare, gridava rivolto al fratello, che però ormai non si opponeva più, ormai era altrove, ormai non gli veniva più neanche in mente di gridare, tutto ciò che sentiva non lo agitava più, non gli dava motivo di arrabbiarsi, si limitava a stare seduto al margine del sentiero, stava seduto su un�assicella e faceva caso solamente alla luce del sole, se ne stava seduto come in un bagno caldo e per essere felice non aveva bisogno d�altro che di ciò che aveva intorno, di quel tiepido silenzio. «Io non ci vedo più?» diceva Pepin, e Franzin si mise a gridare: «Che cosa? Non ci v

edi? Tu non vuoi vederci, ecco come stanno le cose!». E lo zio Pepin disse piano: «Io le capre non riuscirei a trovarle tastoni nell�ovile». E la mamma disse dalla finestra: «Basterebbe che vi accompagnassi al pascolo, zio Pepin, poi al pascolo vi legherei le capre al braccio», mamma era contenta che lo zio si lasciasse attirare nel gioco, ma lo zio Pepin fissò lo sguardo sulla finestra, dove brillavano le tende chiare, e fece un gesto con la mano e disse: «Che cosa ve ne frega�». «Ma ci sarebbe latte e il latte di capra fa buon sangue!» disse il vicino con voce speranzosa, ma invece dello zio Pepin, che aveva fatto un gesto con la mano e si era zittito definitivamente, fu Franzin a gridare: «Ma che cosa sta dicendo? Mio fratello Pepin, che il tenente gli mandava cognac e champagne, e si divertiva con le signorine, e in società era lui a condurre la conversazione, che una volta i poliziotti se lo sono portato via lungo disteso, adesso dovrebbe bere latte di capra?». Il vicino allargò entrambe le mani a ventaglio e disse: «Ma al maestro piaceva così tanto cantare e ballare, se cantasse alle capre, quelle avrebbero tanto latte, Micurin scrive che quando si canta e si fa sentire la musica alle vacche, danno più latte�». Ma invece di Pepin si arrabbiò papà: «Che cosa sta dicendo? Micurin insegna che si possono coltivare le mele sui salici, innestarli, ma che ne può sapere quello dell�allevamento delle capre? Come si permette?» gridava papà, e si mise in posizione d�attacco ed esclamò: «Pepin, vieni diamogli un �einfacher stoss� dritto sul naso, come soldati austriaci, vieni, diamogli addosso!». E papà fece un affondo diretto col manico, infilò il manico della zappetta attraverso la rete metallica, e aggiunse allegramente: «E il soldato austriaco sarà di nuovo vincitore�», e guardava suo fratello, ma lo zio Pepin era silenzioso, guardava altrove, fece solo un gesto con la mano, come se quel che era stato detto non valesse ormai neanche un solo urlo, un solo movimento, perché tutto era vano, ormai tutto era vano. Eppure lo zio si lasciò trascinare ancora una volta da Franzin, si misero a cercare funghi, porcini. E Franzin dovette utilizzare ancora l�inganno, la prima volta che andarono nei boschi di Dymokury Franzin prima di partire comprò tre porcini, e la mattina, quando presero il treno, videro che con loro partivano altri cento cercatori di funghi, quando arrivarono a Rozd�alovice scesero tutti precipitosamente, tutta una mandria di cercatori di funghi arrabbiati l�uno con l�altro e il bosco era pieno di urla e di esclamazioni e di richiami. E Franzin sapeva come fare per allontanare da sé i cercatori che gli passavano vicino, lasciò passare un cercatore e subito, sul bordo del bosco, tirò fuori il porcino che aveva comprato e lo sollevò dietro al cercatore che si affrettava e disse: «Ma i funghi lei li lascia lì?». E sollevò il porcino comprato e il cercatore si fermò, fulminato e papà pulì il porcino e lo mise nel cestino dello zio, e lo zio lo tastò e lo annusò e si beava e papà utilizzò così i tre porcini comprati, per allontanare da sé i cercatori di funghi, sempre dietro a un cercatore tirò su il secondo e il terzo fungo, e il cercatore dietro il quale papà aveva trovato il porcino era ormai tanto distrutto dall�invidia che cominciava a cercare male. E così i fratelli camminavano per il bosco, Franzin guidava lo zio nell�attraversare i fossati e poi si sedevano, lo zio prendeva i porcini, li odorava e papà urlava di entusiasmo. Poi però cominciarono a venire dalla stazione della cittadina dove il tempo si è fermato tanti di quei cercatori di funghi che papà disse che sarebbe stato meglio andare in cerca di funghi nel pomeriggio, ma la stessa cosa probabilmente se l�erano detta anche gli altri cercatori di funghi, e così alla stazione nel pomeriggio si incontrarono di nuovo tutti quanti, poi decisero di andarci in autobus, ma di nuovo vicino all�autobus si accalcarono tutti i cercatori di funghi che prima andavano in treno, erano così tanti che dovettero far partire un autobus in più, e così papà disse che la cosa migliore sarebbe stata andare in macchina, ma la mattina all�alba dalla cittadina dove il tempo si è fermato uscì una colonna di macchine e motociclette e biciclette e tutti andavano di nuovo nella stessa direzione, e quindi si ritrovarono di nuovo tutti quanti nel bosco e ciascuno aveva gli altri a portata di mano e di occhi. E papà decise che, seguendo le indicazioni del professor Smotlacha, avrebbero cominciato a raccogliere anche i funghi non commestibili e i funghi sospetti. Papà portava con sé un tegamino e un pezzetto di burro e con lo zio Pepin cominciarono a coltivare la micologia sperimentale. E avevano funghi continuamente, quasi dalla fine della primavera sino all�autunno inoltrato. Cominciarono col raccogliere colombine e famiglie di zolfini, accesero un focherello, fecero soffriggere la cipolla nel burro, aggiunsero una vescia e un�amanita panterina. Papà die

de la frittura di funghi prima allo zio Pepin e aspettò una mezz�oretta, e chiedeva allo zio: «Jozka, non ti sembra di sentire suonare le campane?». E dato che lo zio non sentiva le campane, oppure le sentiva, ma era solo lo scampanio della campana della chiesa o il tintinnio del campanello di una bicicletta, anche papà mangiò la frittura e la trovò buonissima. Una volta però rimasero nel bosco per cinque ore intere, papà aveva aggiunto più vescia o tartufo e, dopo aver mangiato, erano rimasti nel bosco perché gli si erano paralizzate le gambe. Lo zio Pepin era contento che non avrebbe più dovuto camminare, che sarebbe stato invalido, che lo avrebbero portato sulla sedia a rotelle. Ma un paio d�ore dopo lo zio rimase deluso. Le forze ritornarono ed entrambi arrivarono alla stazione a piedi e se ne tornarono a casa. In quel periodo Franzin cominciò a sentirsi molto in forma mangiando quei funghi sospetti, portarono con sé anche la mamma, ormai si erano spinti tutti e due tanto lontano, che avevano fatto una frittura di porcini del fiele e di boleti luridi e di agarici, con alcune elvelle, che secondo il professor Smotlacha contengono acido elvellico� e diedero da mangiare quella prelibatezza di funghi prima alla mamma, e poi, mezz�ora dopo, visto che la mamma non aveva sentito nessuno scampanio, la mangiarono pure loro, le elvelle raccolte la mamma le mise sott�aceto e le trovò ottime, molto migliori dei porcini. E poi a Franzin venne in mente che quelle elvelle in conserva, se si mettono sotto aceto aromatizzato con l�assenzio insieme a gallinacci e anche a steccherini e piedi di capra, chiamati anche pagnottine, poi si possono mettere in una coppetta, aggiungendo qualche goccia di limone e un pochino di worchester e di tabasco, e questo misto di funghi ha il sapore dei più delicati frutti di mare e dell�aragosta. E così accadde che una volta scesero a Trebestovice e mentre Franzin e Pepin tenendosi per mano attraversavano il campo di calcio vicino al boschetto, Franzin fa, cos�è che rosseggia laggiù? E tornarono indietro e rimasero sbalorditi, poi si inginocchiarono e raccolsero un cestino colmo di bei porcinelli rossi. E poi rimasero seduti sulla rena al margine del boschetto a riscaldarsi, e poi alla stazione i cercatori di funghi, che avevano cercato per tutto il giorno e sul fondo del cestino avevano un paio di funghi commestibili, gli gridarono contro che li avevano comprati da qualche parte, che quella di Franzin e Pepin era una provocazione. E così accadde che la sera, quando a casa la mamma per la prima volta rifece una frittura di classici funghi commestibili, vomitarono tutti e tre e allo zio Pepin vennero svenimenti, diarrea, poi gli venne una gran sete e di nuovo da vomitare, poi un dolore sordo alla testa, i crampi ai polpacci e a tratti vedeva doppio e aveva uno scampanio continuo nelle orecchie. Quando portarono la famiglia all�ospedale, perché avevano le gambe paralizzate da sei ore, il primario disse che si erano tutti avvelenati coi funghi commestibili, cosa che alla fine era accaduta anche al professor Smotlacha, che pure fu trovato in profondo stato di incoscienza dopo aver ingerito dei porcini. 10. Una volta papà tornò con lo zio senza funghi, ma estremamente eccitato. Il giorno dopo comprò le gomme per i camion, quelle più grandi, le caricò sulla Skoda quattrocentotrenta, tirò fuori i sedili posteriori e là sistemò gli attrezzi e le leve e anche il suo tornio a pedale e poi lo zio Pepin, presero con sé del cibo per alcuni giorni e delle coperte e se ne andarono nel bosco. Il giorno prima, mentre erano in cerca di funghi, in mezzo ai rovi papà aveva trovato un camion marca White, che significa bianco, e quel camion lo aveva affascinato tanto, in effetti era senza gomme, gli erano ormai cresciuti sopra rovi di more e di lamponi, nella cabina era addirittura cresciuta una piccola betulla, ma quando papà aveva sollevato il cofano, era rimasto di stucco. Il motore era intatto, perché era cromato o di un acciaio speciale, non era un motore, era un�officina intera, e quando guardò il telaio, scoprì che il camion aveva la trazione integrale, e allora con lo zio Pepin sollevarono col cric una ruota dopo l�altra, inserirono le gomme sui cerchioni e, quando il camion fu in piedi, papà smontò il carburatore, poi lo spinterogeno, lo zio ormai vedeva di nuovo tutto come dentro l�acqua, allora papà gli diede da toccare ogni pezzo e lo zio annuiva contento. Poi papà tirò fuori anche la testata del motore e urlò di gioia, il motore non s�era nemmeno ingrippato, era ancora ben oliato, come se avesse smesso di funzionare il giorno prima� E papà allora controllò il livello della benzina, ne versò dalla tanica e inserì la manovella di avviamento e facendole fare un giro fece girare lentamente il motore, perché avesse abbastanza miscela e si trova

sse al punto morto superiore, e poi avviò e il motore partì, e papà correva di qua e di là per il bosco e gridava e cantava, e lo zio Pepin scatarrò, voleva cantare pure lui un bel do di petto, ma la voce lo tradì, voleva ballare pure lui col fratello e solo per fare piacere al fratello, ma inciampò e cadde tra i lamponi e le more. E papà salì in cabina, pigiò l�acceleratore e il motore rombò, emise una voce allegra, il canto allegro e bianco del motore, poi papà tagliò i piccoli tronchi della betulla, e riusciva già a regolare i giri del motore usando l�acceleratore� E poi si sedette nella cabina di guida, diede gas, con cautela e con angoscia schiacciò la frizione, inserì la marcia, e quando lasciò la frizione la fronte gli si imperlò, ma il White non solo si mise in movimento, non solo partì, ma si trascinò dietro anche il boschetto che gli era cresciuto sopra e lo strappò senza misericordia, strappò via con facilità tutti i gambi e le radici che a centinaia e con enorme gusto gli erano cresciuti intorno, e quel motore non temeva nemmeno il pantano, papà gridava e lo zio, che papà aveva messo seduto accanto a sé, voleva gridare pure lui qualcosa di allegro, per far piacere al fratello, ma non emise neanche un suono. E papà era così entusiasta che mise Pepin a sedere accanto a sé e gli diede il volante, aprì la porta e saltò fuori dalla cabina, lo zio Pepin si limitava a tenersi al volante ed era ammutolito dalla paura e poi anche dalla fiducia di cui lo aveva onorato il fratello, che gli aveva affidato la guida del camion, non poteva accadere nulla, perché il White si faceva strada attraverso la radura lentamente e quasi al passo� E papà da dietro guardava la sponda, poi sorpassò di corsa il White e lo guardava da davanti come se non ne avesse mai visto uno, come se vedesse un camion per la prima volta, e guardando il White da tutte le parti e da tutte le angolature, ogni volta vedeva che quel camion era un bel veicolo, e sarà ancora più bello dopo che gli avrà fatto fare le sponde nuove, di quercia. E in quel momento sentì che tutta la vita aveva vissuto solo per quel momento, in sostanza il fatto che era stato contabile e poi amministratore e infine direttore della fabbrica di birra era stato un errore, in realtà dall�inizio avrebbe dovuto fare l�autista di professione, sentì che quel suo amore per i motori adesso era diventato professionalità, proprio come se uno per trent�anni avesse scritto dopo il lavoro per hobby poesie e racconti chiudendoli nel cassetto e poi avesse avuto il coraggio di interrompere il lavoro, lasciarlo e non fare altro che quello a cui sentiva di essere chiamato. E così papà uscì col White sulla strada, si fermò, poi tornò a prendere la Skoda 430 e con quella raggiunse il White, in cui lo zio Pepin stava seduto e stringeva spasmodicamente il volante, poi papà fece un altro chilometro col White e di nuovo tornò a prendere la sua macchina, e così, un pezzo alla volta, papà entrò nel cortile� e la notte non riuscì a dormire, ogni momento si svegliava e con la torcia elettrica andava a guardare il camion, sollevava il cofano e di nuovo ispezionava il motore, e l�euforia non lo abbandonava. La mattina dopo andò subito al Comitato nazionale a dichiarare quello che aveva trovato, e dal Fondo di ricostruzione nazionale comprò il camion per diecimila corone del deposito vincolato. E subito si occupò delle sponde nuove, e un mese dopo papà comunicò alle autorità che avrebbe trasportato verdura col White, dato che aveva una pensione bassa. E così papà trasportava verdura, lo zio Pepin viaggiava con lui come scaricatore, questo sempre, quando arrivarono sul campo oppure al deposito della verdura, gli domandarono: «E lo scaricatore dov�è?». E papà chiese che lo aiutassero a tirar fuori lo zio Pepin dalla cabina, lo estrassero e quando videro che lo zio era effettivamente in grado di portare le cassette con la verdura, ma che molte volte invece che sul camion portava la cassetta di lato, mancando il camion, allora rimisero lo zio nella cabina e aiutarono loro stessi, e quando poi vedevano il camion di papà e lo zio Pepin come aiutante, gli operai del deposito dicevano vogliamo finire prima, lo zio è meglio lasciarlo sul camion� E così papà chiuse le sponde, continuavano a lanciargli delle altre cassette, papà poi legò con cura il carico con delle corde e con una gran risata si mise al volante, mise le bolle d�accompagnamento nella tasca laterale e non era mai stato così contento come al pensiero che sarebbe andato con il camion in città sconosciute, oltre le colline e le montagne, e ascoltava White marciare, e durante il viaggio papà cantava e lo zio Pepin berciava con lui. E una volta arrivati al luogo di destinazione papà faceva marcia indietro verso la passerella o verso il deposito, quando gli chiedevano se aveva con sé uno scaricatore, papà diceva di sì, ma perché lo aiutassero a tirare fuori lo scaricatore, e dopo che avevano tirato fuori lo zio Pepin, e dopo che av

evano visto in che condizioni era ridotto, preferivano rimetterlo lo dov�era e lo mettevano a sedere su una sedia e caricavano loro stessi le cassette, perché tutti volevano finire in fretta di caricare. Così papà trasportava verdura, poi trasportò stufe fino in Moravia, niente poteva debellare papà, in qualche modo lo aiutava il tempo che andava contro di lui, adesso lo aveva aiutato a rimettersi in piedi, era come se per papà gli anni, mentre aumentavano, in realtà si detraessero, riacquistava la forza che aveva da giovane, e mise su i muscoli e le spalle, e aveva le mani come pale e le dita rigide e separate, quando la serrava, la sua mano diventava il pugno di un operaio, proprio come quello che c�era sui manifesti. Anche papà, come Pepin prima, cominciò a raccontare fatti grotteschi di quando era giovane, quando raccontava gridava e strepitava, proprio come gridava, quando raccontava, lo zio Pepin, che però ormai era tanto malridotto che si limitava a sorridere, e poi in fondo papà aveva capito che lo zio Pepin, per non dover gridare e strepitare, faceva arrabbiare papà facendogli delle domande e dicendo apposta frasi mal formulate, così papà gridava proprio come lo zio Pepin aveva fatto per un quarto di secolo da quando era arrivato alla fabbrica di birra per due settimane. E anche la vista non andava poi così male, quante volte papà aveva detto: «Cos�è, Jozka, che sta passando?». E lo zio Pepin: «Una vecchia in bicicletta». E papà aveva detto: «E cosa trasporta sul manubrio, un collare?». E lo zio si era messo a strillare sottovoce: «Che vai cianciando, quella lì trasporta una corona funebre». E papà aveva detto: «E che c�è scritto sul nastro? �Riposa in pace�?». Ma lo zio Pepin aveva dato un�occhiata e aveva detto: «Ma come leggi, possibile che sei tanto stupido, come la mattina agli esami? Là ci sta �Ultimo addio��». E poi papà sospirava e lo zio Pepin giocherellava con le dita, perché sapeva che non era vero che non ci vedeva, ma adesso l�aveva dimostrato, che ci vedeva, che ci vedeva anche molto bene. Ma lo zio Pepin aveva deciso che ci vedeva male, e quindi ci vedeva male. Papà gli diede da firmare gli auguri di compleanno per la cugina, ma lo zio firmò a lato, sul tavolo, sulla tovaglia d�incerata. E così passò la primavera, e papà ora trasportava gassose e limonate. E a maggio partirono con le bibite per la cittadina vicina, dove c�era la festa per l�inaugurazione del monumento a un celebre generale, ma papà appena partito dovette cambiare una gomma, e così fece tardi. Quando lui e lo zio Pepin arrivarono nella cittadina, un tenente dell�artiglieria li fermò e comunicò a papà di aspettare, perché dieci minuti dopo sarebbe cominciata la salva di artiglieria dal fossato insieme all�inaugurazione del monumento, da cui sarebbe stato rimosso il drappo. Ma papà disse che in due minuti doveva oltrepassare la batteria di artiglieri, che portava proprio le bibite per il festeggiamento ed era già mattina inoltrata e sicuramente gli scolari che assistevano alla scopertura del monumento avrebbero avuto sete come tutti i giovani del mondo. E allora il tenente dell�artiglieria di nuovo si collegò via radio con la piazza della cittadina e da lì gli dissero che il camion con le bibite poteva passare perché c�era abbastanza tempo. E papà fece il saluto e il White partì, andava lentamente e papà vedeva i cannoni nel fossato, centoventidue millimetri, con un servizio di sette artiglieri, e così oltrepassò il primo cannone, quando passò oltre il secondo cannone vide l�artigliere nel sole, era in piedi con la carica accanto al cannone, vicino al terzo cannone papà notò che i serventi si stavano già inginocchiando accanto agli affusti e li legavano saldamente a terra� E il White cominciò per la prima volta nella vita a sputacchiare, sicuramente una scoria nel carburatore, e papà si spaventò e lo zio Pepin disse: «Non vorrei che crepasse così, ci abbiamo ancora sette cannoni davanti!». E White si fermò� e papà si buscò così un reumatismo, adesso papà avrebbe avuto di nuovo bisogno che qualcuno gli scaldasse col cannello le giunture, e non solo il ginocchio, ma anche le giunture delle braccia, teneva il volante e vedeva che il tenente da lontano gli faceva segno di sparire, gli faceva così: sciò, sciò! Il tenente scacciava il White come si fa con le galline, e papà si dominò e saltò fuori, sollevò il cofano e poi tornò a prendere il cacciavite e le chiavi e con movimenti rapidi sganciò il carburatore, e dopo che papà ebbe svitato la vaschetta e sbloccato l�ugello e ci ebbe soffiato dentro vide che il tenente ascoltava la radio e poi con un movimento della mano dannò papà, guardò l�orologio, alzò la mano guardando l�orologio da polso, e tutti gli artiglieri erano concentrati, alcuni soldati si tappavano le orecchie� e poi nella mattina di sole il tenente diede l�ordine con un movimento della mano e la prima salva partì, e papà vide che quella prima salva aveva divelto le sponde dalla fiancata del White, le sponde cadendo spazzarono via tutte le

gassose e le schegge di vetro come una bufera di neve si spinsero lontano nella campagna scintillando e papà sentì che lo spostamento d�aria aveva strappato il cofano, e quella fu probabilmente la sua salvezza, perché sul cofano come su un orecchio di elefante papà volò nell�aria sopra al campo che maturava, come volava nell�aria alle feste religiose il signor Jirout, un maltatore che da giovane si faceva sparare dal cannone alla festa del patrono, e quando la forza dell�aria si attenuò, papà sul cofano toccò terra, planando arrivò sul margine del fossato, ma teneva sempre il carburatore, e poi fu coperto da uno spruzzo di vetri e vetrini� e poi una seconda salva rovesciò il White e spazzò via le cassette rimaste e la gassosa già in frantumi e le sponde divelte sorvolarono papà� e poi altri colpi, papà aveva il tempo di sporgere la testa per vedere che ogni volta il White veniva spostato un po� più lontano e rivoltato da un�altra parte e ad ogni colpo ne rimaneva sempre di meno, e papà si sforzava di vedere attraverso la polvere cosa era successo allo zio Pepin� e, calatosi nel fossato, papà vide che lo zio Pepin stava seduto sul sedile del White in un cespuglio di biancospino e rose selvatiche, probabilmente come lui era volato in aria e aveva toccato terra nei cespugli che avevano attutito il colpo, e dopo ogni scarica di salva d�onore dell�artiglieria i cespugli erano scossi da una forte corrente e lo zio dondolava come in una vecchia carrozzina a dondolo di vimini. E poi l�inaugurazione solenne con la scopertura del monumento sulla piazza della cittadina cominciò con un discorso che con gli altoparlanti era trasmesso da tutti i megafoni, collocati non solo sui pilastri in prossimità delle vie d�accesso, ma anche lì su alcuni prugni, e la voce celebrativa descriveva e illustrava entusiasta la pagina gloriosa della vita del generale� E il tenente arrivò di corsa, e quando vide che papà aveva solo il cappotto strappato e i pantaloni lacerati e lo zio Pepin continuava a dondolarsi sul sedile in braccio ai rovi, allargò braccia, e papà disse che era stata �vis maior�, perché la prima volta in due anni, per la prima volta il carburatore aveva fatto cilecca, e questo era un successo enorme, anche se� disse papà tristemente e indicò rottami e la carcassa del camion, che la violenza dell�aria aveva trasportato fin nei campi� e gli artiglieri uno per lato, stavano già portando la poltrona con lo zio Pepin, che sembrava proprio un bel monumento di uno scrittore ceco� e lo caricarono in una macchina militare. Quando un paio di minuti dopo arrivarono su piazza, il monumento era ancora coperto, adesso dai portici e dalle case uscivano soldati e civili in abiti da cerimonia, cautamente corsero fuori bambini in camicine e fazzoletti e tutto il selciato della cittadina brillava di schegge e frantumi e pezzetti di bottiglie di limonata e bibite varie, che con la scarica d�artiglieria la corrente e il vento avevano fatto arrivare fin lì come una pioggerella, e alcune fronti erano tagliuzzate e le infermiere appiccicavano pecette e fasciavano i tagli� E così accadde che la musica suonava l�inno e il sindaco tirò la cordicella e mentre la tela si muoveva verso il basso, verso l�alto si ergeva e saliva la statua del generale, e l�esercito faceva il saluto, e i soldati deposero lo zio Pepin sulle assi poggiate su dei cavalletti che costituivano una bancarella con targhe e souvenir per fare il saluto pure loro mentre c�era l�inno� ma lo zio Pepin si piegò e cadde con tutta la poltrona, il cui piedistallo di metallo fece un botto enorme� ma nessuno poté aiutarlo, né fare niente, perché durante l�inno tutti dovevano stare sull�attenti. E in più il trattore cingolato militare aveva trascinato sulla piazza il White in pezzi, che arrancava con tutte le ruote dinoccolate e mentre l�inno finiva di suonare il cingolato si fermò, i soldati fecero il saluto, ma il White con gran fracasso di acciaio e ferro crollò sul selciato della piazzetta e si sfasciò come una specie di animale antidiluviano, una specie di mammut ferito, il mostro di Lochness. E questa volta fu il fulcro a non dar pace al White, da un lato pesava alcune decine di grammi in più e quindi si rivoltò sottosopra e sparse rumorosamente gli ultimi frantumi e gli ultimi resti delle bottiglie che erano rimaste attaccate sul fondo e al telaio e nelle crepe del motore. E l�inno finì e quelli che erano già stati beccati dal vetro non riuscirono a trattenersi e, quando videro quest�altro monumento nella parte inferiore della piazza, corsero a infilarsi nelle viuzze e nei portici e nei corridoi. Poi papà e il White furono trascinati via dai soldati, non più sulle proprie ruote, ma a rimorchio fino a casa. E tirarono giù il camion militare nel cortile proprio accanto alla Skoda, portarono lo zio Pepin sempre seduto sul sedile della cabina del camion, e dato che papà aveva la gamba un po� slogata dall�anca, lo tirarono giù lasciandolo sul cofano, su c

ui aveva planato nella campagna, e papà continuava a tenere stretto il carburatore� E così papà non si rimise più insieme, perché non poté più rimettere insieme il camion marca White, lo zio Pepin stava seduto vicino a lui, papà sui rottami delle macchine erigeva prospettive radiose, basta spendere qualche migliaio di corone per la carrozzeria e i motori romberanno nuovamente e il camion White trasporterà nuovamente la verdura e con la Skoda andranno nuovamente nella loro cittadina natale� Allora una volta papà andò al passaggio a livello dal falegname a prendere delle assicelle di quercia e rimase per un po� a guardare il verniciatore che dipingeva le strisce sulle sbarre, ma appena cominciava a dipingere le sbarre salivano verso l�alto indicando via libera. Il verniciatore avvicinò una scala e ci salì sopra e continuò a verniciare le sbarre dalla scala, il colore che aveva sul pennello finì, allora il verniciatore scese e prese il secchio e lo portò sulla scala e lo appese a gancio, e bagnò il pennello e aveva appena cominciato che le sbarre tornarono giù� il verniciatore si guardava intorno e nessuno stava osservando, solo papà sorrise, e il verniciatore molto tranquillamente scese dalla scala e, dopo aver tolto il secchio con il colore, intinse il pennello. Ma aveva appena cominciato a verniciare seconda striscia nera che all�improvviso le sbarre salirono di nuovo, allora il verniciatore rimase fermo, dal pennello gli gocciolava il colore, aspettava, ma non riuscì ad aspettare che le sbarre scendessero e così risalì sulla scala, ma sul pennello non c�era più colore e quindi tornò giù e, dopo che ebbe riportato su il secchio e lo ebbe appeso al gancio, le sbarre scesero di nuovo e verniciatore non aveva dato nemmeno una spennellata� Nessuno l�aveva notato, solo papà, che vedeva già una congiura del destino, sorrise, ma non sapeva ancora cosa ciò significasse anche per lui. E così, là dietro il passaggio a livello, dal laboratorio del falegname papà continuava a guardare le sbarre che salivano a turno quando passava un treno, quando venivano spostati treni merci e locomotive, e il mastro verniciatore, che più andava avanti, più, invece di arrabbiarsi, era calmo, ogni volta che saliva sulla scala e le sbarre gli scendevano, ogni volta si dimenticava il secchio, ma pazientemente tornava a prenderlo, perché dopo poche pennellate le sbarre gli si allontanassero di nuovo dal pennello e dovesse cambiare metodo di lavoro� così papà vide il simbolo di se stesso, nella verniciatura delle sbarre trovò il proprio destino, l�immagine del proprio destino, con gusto aveva aspettato di vedere il mastro verniciatore che continuava a verniciare e aveva verniciato soltanto un�unica striscia nera. E così papà cambiava assicelle e assi e tavole, senza accorgersi che il camion White aveva gli alberi spezzati e il motore rotto, che ogni ruota aveva le coppie e i tamburi dei freni in frantumi, si concentrava sui dettagli e non voleva pensare alle cose sostanziali. In quel periodo il dottore aveva dichiarato che lo zio Pepin doveva fare del moto, altrimenti avrebbe smesso completamente di camminare, e così papà una mattina portò lo zio alla pompa e gli chiese di pompare una botte d�acqua, una botte di duecento litri d�acqua, lo zio pompava e papà intanto aggiustava le macchine, dal cortile proveniva il rumore dei colpi regolari della leva della pompa contro il condotto di ghisa e il gorgoglio dell�acqua fresca del pozzo e lo zio Pepin ogni momento andava a toccare nella botte per sentire se l�acqua saliva, e, quando toccava l�acqua, sorrideva e continuava a pompare, i vicini continuavano a passare, facevano domande allo zio e lo zio faceva un gesto con la mano e stava in piedi nel sole e pompava, godeva dell�acqua fresca che saliva dalle viscere della terra, e quando toccando sentiva che la botte era piena, questo avveniva nel pomeriggio, allora strascicando i piedi si trascinava nel cortile, camminava come se avesse avuto le gambe legate, cercava il muro tastoni, e quando lo trovava camminando rasente al muro arrivava nel cortile e dichiarava che la botte era piena. Papà la sera versava l�acqua spargendola nel giardino e, quando pioveva, la sera faceva un buco nella botte e faceva uscire l�acqua e tappava il buco con un tondino di legno. Così i fratelli lavoravano, ma il risultato del loro lavoro ormai era uguale al contenuto della botte, cominciava a non avere più senso, come del resto tutto quel tempo, che non si era fermato solo sul campanile della chiesa con l�orologio rotto, che aveva smesso di funzionare e nessuno lo aggiustava, il tempo tutt�intorno lentamente si fermava, da qualche parte si era ormai fermato del tutto mentre un altro tempo, il tempo di altre persone, era pieno di entusiasmo e di fatiche e sforzi nuovi, però zio Pepin e Franzin non ne sapevano niente, ormai non si preoccupavano nemmeno del fatto che si era fermato il tempo dei mercati del best

iame, si era fermato il tempo delle fiere e dei mercatini di Natale, che era sparito il tempo delle passeggiate mattutine domenicali di quelle serali su e giù per il corso, e i partiti politici non organizzavano più gite nei boschi, le gite con tombole e le gattabuie e i tirassegni, che se n�erano andati i balli in maschera e i balli di gala e le sfilate a cavallo dei contadini, se n�erano ormai andati i veglioni e i cortei allegorici e i cortei invernali di Bacco a carnevale, ormai le associazioni locali per l�abbellimento della cittadina avevano smesso di bandire concorsi per la finestra più bella, cinque teatri avevano smesso di lavorare e dei due cinematografi ormai ne funzionava uno solo. Se ne era andato anche il tempo delle esibizioni pubbliche dei Sokol e dei campi per gli allenamenti estivi, dove alle quattro del pomeriggio entravano allievi e allieve e più tardi ragazzi e ragazze adolescenti, se n�era andato il tempo degli allenamenti serali di uomini e donne, nella cittadina nessuno aveva più messo insieme un�orchestra sinfonica né un complesso canoro, erano spariti anche i pensionati che camminavano in processione nei parchi della città, era scomparso perfino il tempo degli innamorati con le loro passeggiate serali lungo il fiume e nei boschetti, si era fermato il tempo dei balli di maturità e non c�era più nemmeno una birreria in cui si giocasse d�azzardo, ormai non c�era più neanche una birreria con le chellerine, col tempo se n�erano andati pure i famosi insaccati di fegato della città e le famose salsicce, che i garzoni alle quattro del pomeriggio portavano in osteria e i giocatori di �mariásc� posavano le carte e si compravano due salsicce con un panino, se n�era andato il tempo in cui si cantava durante il lavoro in falegnameria e alla malteria, dalle finestre non si sentiva più suonare neanche un Ariston, tutte le vecchie cose legate ai vecchi tempi risalendo il corso delle lancette se n�erano andate a dormire o, come se gli fosse rimasto il boccone in gola, soffocavano e lentamente morivano, il vecchio tempo si era fermato come Biancaneve, che aveva mangiato la mela avvelenata, e il principe non veniva, e ormai non poteva nemmeno più venire, perché la vecchia società non aveva più forza né coraggio, e così era giunto il tempo dei grandi manifesti e delle grandi assemblee, in cui si minacciava col pugno contro tutto ciò che era vecchio, e chi aveva vissuto di quel vecchio tempo se ne stava a casa silenzioso e viveva di ricordi� Papà poi cominciò a irritarsi per il rumore della pompa, per il battere continuo della leva della pompa sul condotto di ghisa, cominciò a compiangere lo zio e se stesso, perché il fatto che lo zio pompava duecento litri d�acqua che poi papà di nascosto la sera versava cominciò a essere per lui un chiaro simbolo di ciò che lui stesso faceva� E allora non come surrogato, ma come mezzo più silenzioso per mantenere lo zio Pepin in movimento e quindi in vita, papà prese due enormi camere d�aria delle gomme del White e una mattina avvitò la pompa nella valvola e lo zio per tutta la mattinata pompava la camera d�aria, con movimenti lenti, si sollevava, si metteva dritto come uno �Hampelmann�, quel giocattolo, quel pupazzo che quando i bambini tirano la cordicella solleva le gambe e le braccia� E così lo zio Pepin, dato che aveva polmoni e cuore buoni, perché non aveva mai fumato, pompava, tastava la gomma, la camera d�aria, la dava a Franzin perché la tastasse, ma Franzin batteva col martellino, lodava il fratello e quello continuava a pompare, nel pomeriggio pompava l�altra camera d�aria� e verso sera, mentre lo zio mangiava le patate seduto in cucina, Franzin sgonfiava entrambe le camere d�aria, perché lo zio Pepin il giorno dopo avesse di nuovo moto a sufficienza. Tutte le volte che sentiva il suono dell�acqua lasciata uscire dalla botte, quando sentiva il suono prima forte e poi sempre più debole dell�aria che usciva dalla camera d�aria, papà non riusciva a non pensare che la sua vita e quella di suo fratello e ogni vita somigliassero molto a quello che lui faceva con la camera d�aria o con la botte, e poi entrava in cucina pallido e per un po� rimaneva livido e tremava proprio come quando doveva ammazzare un gallo e lo ammazzava, o sgozzare un coniglio e lo sgozzava, dopo averlo stordito con un pugno. Lo zio Pepin sedeva per tutta la sera immobile vicino alla credenza, dietro di lui c�era il vecchio gatto Celestýn, corroso dal tempo proprio come il volto dello zio, quel gatto quando era giovane dormiva unicamente sotto le rose e le peonie, lui solo aveva montato quasi tutte le gatte dei dintorni, lui solo non tornava a casa per due settimane, e quando rientrava per tutto il tragitto urlava: «Aprite, vengo a casa! Datemi subito le cose migliori che avete!»� e a lungo le aveva ottenute, come lo zio Pepin, e neanche lui si lasciava accarezzare, e quando capitava Celestýn faceva un attacco diretto ed era sempre vincit

ore, come un soldato austriaco, a papà saltava addirittura sulla schiena quando lui lo minacciava con la scopa. E per le zuffe Celestýn aveva la faccia piena di cicatrici come lo zio Pepin aveva il volto segnato dalle rughe per i vagabondaggi notturni e le levatacce, per il duro lavoro alla �Waschhaus� nelle caldaie e nelle ghiacciaie e nelle fogne. Adesso erano lì insieme, lo zio Pepin toccando trovò la testa del gatto e disse piano: «Sei qui, tu?». E il gatto ronfava e faceva le fusa allo zio, come una civetta sulla spalla di una veggente se ne stava dietro lo zio, stretto contro di lui, e il gatto si beava e lo zio pure. Ogni sera stavano seduti solo insieme, loro due parlavano solo insieme, non comunicavano con nessun altro, solo loro due. E così accadde che per due volte toccando dietro di sé lo zio non trovò la testa di Celestýn e per due volte nessuno ronfò alla domanda: «Sei qui?», lo zio Pepin smise del tutto di camminare, non si alzava più dal letto, proprio come Celestýn, il vecchio gatto, non era più tornato a casa, perché i gatti non muoiono in casa. 11. La casa dei pensionati è in un bel castello. Se uscite dalla cittadina in cui il tempo si è fermato percorrendo il viale di tigli, il castello ancora non si vede, continuate a salire sulla collinetta, nella pianura la piccola collina fa l�impressione di una montagna, su cui d�inverno si potrebbero fare delle belle corse in slittino. E poi lungo la strada c�è la portineria, nascosta tra le chiome dei tigli fiorite e ronzanti di api, e all�improvviso dal cancello si vede il convento beige. Anni fa ci stavano i domenicani e come passatempo e come occupazione avevano oltre che la scienza, un orto botanico da coltivare. Durante il regno di Giuseppe Secondo, quando il tempo del Convento si compì, i domenicani furono sciolti e il convento fu abbandonato, il giardino botanico rimase orfano. Prima perirono le piantine e i fiori che non potevano vivere senza la mano dell�uomo, rimasero tuttavia i fiori e gli arbusti che si adattarono. Rimasero solo alcune di quelle piante, e non si mantennero solo in quel giardino abbandonato, il vento soffiando spargeva e portava i loro frutti e i loro semi nel territorio al di là del recinto, e così ancora adesso, dopo duecento anni, grazie alla distruzione di quel giardino, nella regione ci sono strani fiori e arbusti, i discendenti di quelle piante i cui semi oltrepassarono il recinto e si adattarono alla zona. In generale nella nostra regione era in qualche modo usuale adattarsi e poi fondersi con un tempo diverso e nuovo. Durante il regno di Maria Teresa si insediarono nella nostra regione contadini tedeschi, interi villaggi e interi borghi, ma col passare del tempo i tedeschi non solo si adattarono, ma alla fine si fusero, come i fiori del giardino botanico, con la terra e con la lingua, e così nella nostra regione non c�è più traccia dei tedeschi, sono rimasti solo i nomi tedeschi e chi li porta parla e si sente ceco. Papà entrò nel cortile e poi nel giardino, dai ballatoi dell�ex convento e del palazzo scorrevano spessi piumini di gerani rossi, come quelli che si possono vedere nelle illustrazioni delle case contadine e degli alberghi in Tirolo e in Svizzera, sulle panchine stavano seduti al sole vecchiette e vecchietti, avevano tutti un�espressione in qualche modo solenne, perché era l�ora delle visite e ogni pensionato si illudeva che sarebbero venuti la figlia o il figlio o almeno un conoscente, magari non venivano, non venivano mai, ma potevano venire, perché tutti gli anziani hanno parenti o amici. Papà stava lì in piedi e guardava quelle persone anziane, li paragonava a se stesso e si rendeva conto che non erano molto più vecchi di lui, che alcuni erano perfino più giovani, ma papà per quelle persone era un giovanotto, perché era venuto da fuori, e chi è fuori è giovane e può occuparsi di se stesso da solo, e occuparsi di sé e non essere di peso a nessuno, è tutto per le persone il cui tempo si è fermato. Papà stava lì in piedi e aveva in mano un grosso sacchetto con la scritta «Alois Scisler», ascoltava i suoni, e dato che nei più delicati accenni di suoni e toni ed eventi era abituato a sentire le catastrofi, come gli aveva insegnato la vita, percepì una musica lontana, che però non fluiva da un solo centro, ma da più punti contemporaneamente. Allora si guardò intorno, cercando di capire da dove poteva provenire, vedeva le finestre aperte e le tende svolazzanti, e però l�orchestra suonava una sommessa musica di violino, che divenne più forte quando lui varcò il cancello principale, ora papà poté sentire e vedere che sui ballatoi e nei corridoi, addirittura sugli alberi, come beccatoi per gli uccelli, erano appesi dei piccoli apparecchi per la filodiffusione, coperti con delle foderine di pl

astica contro la pioggia, perché la musica suonasse sempre, anche quando pioveva o nevicava, e la musica suonava sempre �I milioni di Arlecchino�, il dolce caratteristico intermezzo, che sottolineava la solenne atmosfera oleografica dei pensionati in attesa, che, appoggiati ai bastoni o con le mani incrociate in grembo oppure sul petto, coi cappelli di sghembo per ripararsi dal sole, lanciavano rapide occhiate alla porta principale, se per caso non stesse entrando qualcuno che aspettavano. Se qualcuno fosse venuto non avrebbero manifestato nemmeno troppa gioia, per loro la cosa più importante era il tempo dell�attesa e dell�aspettativa, era lo stato in cui si trovano i bambini che aspettano di sentire le campanelle che annunciano che Gesù è venuto all�albero di Natale, quello stato di tensione dei bambini che vanno a guardare alla finestra se San Nicola o Santa Barbara hanno già messo sul piatto o nella calza i regali, lo stato di grazia dell�aspettativa bastava a rendere loro piacevole la giornata in cui erano permesse le visite. E alcuni pensionati riconobbero papà e si alzarono, erano persone che anni addietro avevano smontato l�Orion con papà per tutto il sabato e la notte e la mattina della domenica, erano quelli che non avevano smontato mai più, che avevano paura di incontrare papà, che di fronte alla prospettiva di smontare fuggivano e si nascondeva nelle cantine quando papà si avvicinava� e oggi si alzavano in piedi e andavano incontro a papà, gli tendevano la mano, credendo che papà avrebbe loro offerto di andare con lui a smontare, a smontare qualsiasi cosa, ma papà con la mano faceva segno che per le operazioni di smontaggio era finita, che ormai per tutto era la fine� Così papà ascoltò cinque volte �I milioni di Arlecchino� ed entrò nel fresco del corridoio barocco imbiancato, per la larga scala salì di sopra e altri �Milioni di Arlecchino� gli andavano incontro. Al primo piano si snodava un corridoio pieno di fiori, da ogni supporto scendevano fiori, gerani, petunie e bocche di leone e asparagi, proprio come dagli armadietti sulle mensole scendeva l�orchestra di violini, che scioglie i suoi crini e le iniziali calligrafiche colorate che si gonfiavano nella corrente delle corde musicali. E attraverso le porte socchiuse papà sbirciò nella sala delle armature e di nuovo su ogni tavolino della mensa comune luccicavano delle piante o vasetti da cui spuntavano steli di fiori colorati, e ancora, mentre per tutta la lunghezza della parete i cavalieri lottavano sull�arazzo, dagli armadietti nuovamente e senza posa si spargevano tra i pensionati poveri �I milioni di Arlecchino�. E poi lo toccò la mano di una donna e, quando papà si voltò, stava davanti una suora grassa col viso gentile e con gli occhiali, occhiali i cui cerchietti erano incisi nel suo naso e nel suo viso proprio come il colletto bianco inamidato si incideva nella grassa gola rosa della suora e le conferiva per sempre un collarino come quello delle tortore. Papà disse che cercava suo fratello, lo zio Pepin. E la suora portò papà verso la finestra, nel vano ricavato in muri tanto larghi che in quella nicchia c�erano entrati un tavolino e quattro sedie, e la suora guardava dalla finestra e diceva allegra a papà che lo zio Pepin presto avrebbe preceduto gli altri, che non sarebbe rimasto più di quindici giorni in questo mondo, che lo zio cadeva per terra, quindi aveva disposto che lo zio Pepin fosse messo nel reparto dei degenti. E con tono gioioso negli occhi aggiunse che, se il nonno Pepin aveva dei parenti, che venissero pure a dirgli addio, perché nei casi di moribondi, come era quello, l�ingresso e le visite erano permessi tutti i giorni e a qualunque ora, perché il tempo dello zio era compiuto. E la suora parlava con godimento e gioia tali che papà all�improvviso considerò che se un giorno fosse stato di peso alla gente avrebbe voluto vivere fino alla morte con un�infermiera come quella. E papà entrò con il sacchetto in mano, in realtà si teneva a quel sacchetto, come la maggior parte dei visitatori della casa dei pensionati si tenevano sempre al bordo del cappello, spasmodicamente, come se il bordo rotondo del cappello fosse un salvagente. Nel reparto dei degenti c�era un�ombra profonda, attraverso le grandi finestre il sole fuori splendeva anche di più tra gli alberi alti, come se violenti fari illuminassero gli alberi dal basso, le finestre erano riempite con sonora allegria dalle foglie, che si agitavano e frusciavano e stormivano, che penetravano attraverso il vetro e il muro, come se là fuori oltre agli alberi ci fosse anche una cascata o uno zampillo che saliva verso l�alto. Quando si fu abituato alla penombra e alle finestre accecanti papà vide che la suora era in piedi al capezzale di un letto. Là giaceva un uomo piccolino -quasi un bambino, aveva le braccia piegate dietro la testa e guardava fisso verso il soffitto, i suoi occhi non aspettavano più nessun

o, non desideravano più niente, erano occhi in cui il tempo si era ormai quasi fermato. Era lo zio Pepin. La suora si chinò, prese lo zio sotto la schiena come si fa con bimbo, tanto lo zio era leggero, come una bambinetta che prende la bambola dalla carrozzina giocattolo. «Nonno» disse la suora, «c�è una visita per lei». E poi scoprì le gambe dello zio, ed erano bianche, era come se giacessero nell�acqua di calce. Papà notò con un certo orrore e disgusto, come tutte le persone sane, del resto, che lo zio Pepin aveva addosso pannolini e fasce come i bambini piccoli. E la suora sfasciò i pannolini e disse gioiosa: «Vediamo se per caso si è fatto la pipì addosso». E poi aggiunse: «Nonno, non vuole andare sul grammofono?». E lo zio Pepin non disse nulla continuava a guardare il soffitto e aveva gli occhi celesti come lillà sbiadito, come due nontiscordardimé gelati. La suora avvicinò il grammofono, era una specie di sgabello, tirò su il sedile superiore e mise a sedere lo zio sul seggiolone con il vaso da notte, e lo zio cadeva, si rovesciava come una statua, papà sorreggeva il fratello e guardava i suoi piedi blu, macerati, da cui la pelle bianca si staccava, lo zio stava seduto nudo con l�asciugamano steso sopra la pancia, stava seduto come Cristo coronato di spine. E papà all�improvviso gemette, emise un lungo gemito, con cui liberò tutto quello che la giacca gli stringeva, tanto che i bottoni saltarono, e poi aprì il sacchetto e nella penombra del reparto degenti tirò fuori un berretto bianco da capitano con l�ancora e la scritta «Hamburg-Bremen»� e lo mise davanti agli occhi dello zio, ma lo zio non guardava il berretto, guardava attraverso il berretto da tutt�altra parte, il berretto bianco era trasparente e lo zio guardava nel cuore stesso del tempo che si fermava. «Te l�ha cucito mastro Sisler» sussurrò papà, e lo mise in testa allo zio e aggiunse: «Te l�ha cucito su misura�». Ma il berretto scese allo zio fin sopra le orecchie, era dimagrito così tanto che la testa gli si era rimpicciolita di alcuni numeri. La suora si lamentò un po�: «Non mi mangia proprio niente niente». E sistemò il letto dello zio e papà guardò i letti che stavano intorno, guardavano tutti papà come la visita che avrebbero desiderato, negli occhi avevano tutti il desiderio di una visita che non veniva o non sarebbe più venuta o che era già andata via. Vicino alla finestra stava in piedi un vecchietto che pigolava spaventato: «Ah, che orrore, ho novantasei anni e non muoio, non muoio, ah, è un orrore, è una disgrazia, ho cuore e polmoni sani, proprio un bel regalo, eh» annuiva chinando la testa verso gli occhi di papà. E papà si accorse che lì nessuno sapeva nulla dello zio Pepin, non sapevano niente delle belle signorine, dei balli e dei suoi vagabondaggi, non sapevano che entrava nella cittadina col suo berretto come un sovrano o un re, che dappertutto le finestre si aprivano, mentre davanti a lui, davanti a papà, le finestre si chiudevano e le porte si sprangavano e tutti scappavano perché li derubava di tempo prezioso, mentre lo zio Pepin il tempo alla gente lo riempiva. E poi papà rimase impietrito, aspettava il rumore spaventoso della diarrea, un suono che terrorizza ogni essere deambulante e vivente, temeva di sentirlo, temeva che l�avrebbe sentito anche la suora ma la suora considerava tutto ciò qualcosa di umano, una sciocchezza da bambini, perché la diarrea non poteva toglierle la luce vivida che le dava la sua fede, perché in cambio di tutto ciò, quando il suo tempo sarà venuto, guarderà il fulgore stesso di Dio, la luce vivida che, del resto, guardava anche adesso, e non attutiva quel fulgore nei propri occhi, ma faceva sentire a tutti e quindi anche a papà quanto è fulgida la grazia di Dio negli occhi dei credenti. E papà continuò a guardare i letti che aveva intorno, accanto allo zio giaceva un uomo paralizzato, le sue mani sembravano dei moncherini, come le giunture di un vecchio vitigno, quell�uomo aveva probabilmente sempre fame, sul comodino aveva pezzetti di pane e ciotoline col tè, come un cagnolino paralitico chinava il viso e prendeva direttamente con le labbra un pezzo di pane o beveva con il viso, vicino alla finestra su un letto rialzato con delle tavole, forse perché il degente potesse guardare meglio nel giardino, era seduto un giovane con gli occhiali e tra le dita gli si muovevano rapidi dei ferri da calza e lui guardava fuori e lavorava a maglia una grande tenda, che era già lunga come una coperta e scendeva quasi fino a terra, su quella tenda erano lavorati uccellini e foglie e ramoscelli, ed era come se il degente stesse suonando la cetra seguendo le note, guardava un momento fuori nel fogliame che fremeva e stormiva e poi lavorava nel filo quello che aveva visto. «Ecco fatto» disse la suora e prese lo zio Pepin, lo pulì, papà raccolse il berretto da ufficiale di marina che era caduto, si voltò dall�altra parte, dal rumore della carta avrebbe capito quando la pulizia sareb

be finita, non riusciva a dominarsi e non riusciva a guardare, e si era anche reso conto di quale regalo fosse per una persona anziana potersi occupare di sé da sola, non essere dipendente dagli altri. Poi lo zio Pepin giaceva ormai nel letto e guardava il soffitto. Papà si mise a sedere sul bordo del letto e la suora stava in piedi e la sua sagoma si stagliava nella finestra e lei guardava il giovane lavorare a maglia la tenda. E all�improvviso lo zio Pepin cercò la mano di papà e lo accarezzò sul dorso della mano gli tastò i calli, le mani di papà distrutte dalle leve e dalle chiavi, poi guardò papà e papà singhiozzò, quasi soffocò, perché lo zio lo guardava ormai dal tempo che si è fermato, di là da qualche parte, da regioni non umane. E poi lo zio si appoggiò sulla schiena mise un braccio dietro la testa e piegò l�altro sulla fronte e di nuovo guardava con gli occhi fissi lo spazio freddo che gli si avvicinava. «A cosa pensi, Jozka?» chiese papà. La suora si avvicinò e si mise in ascolto, guardava le labbra violacee dello zio Pepin. «Che ne sarà di quest�amore?» sussurrò lo zio. «Che cosa?» chiese papà e tese l�orecchio. «Che ne sarà di quest�amore?» ripeté lo zio, e uora toccò la manica di papà e fece dolcemente un cenno con la testa e papà capì e si alzò, prese il berretto se lo mise, ma la suora gli tolse il berretto dalla testa e glielo mise in mano, e si allontanò in silenzio e papà la seguì, prima che l�alta porta del castello si chiudesse papà vide che il giovane gli aveva lanciato una rapida occhiata attraverso il vetro degli occhiali, e gli occhiali scintillavano proprio come i ferri per la maglia. Nel corridoio dalle radio sui muri sgorgavano ancora �I milioni di Arlecchino�, dalle porte aperte sulla sala delle armature fluiva il profumo delle minestre e della salsa, e i pensionati zoppicando o camminando normalmente entravano nella sala da pranzo in cui tanti anni prima si era fermato il tempo dei domenicani e dei nobili, per essere sostituito dal tempo degli anziani, che tra i fiori e la musica lontana finivano di vivere la loro vita. Quando papà uscì dal parco ormai nessuna panchina era occupata, nessuno più stava seduto al sole, ormai non poteva venire nessun visitatore, ormai era di nuovo il tempo del cibo e del pranzo, poi sarebbe stato il tempo della siesta. Papà si mise il berretto da ufficiale di marina, se lo rimise sistemandolo con cura e, guardando il mondo intorno a sé schermato dalla visiera nera ebbe una sensazione magnifica, si raddrizzò persino tutto raddrizzò a lungo la schiena, fino a camminare con portamento militarmente eretto, dignitoso, quando oltrepassò il cancello presso il quale era in servizio un vecchio malato di mente, papà gli fece il saluto e il vecchio batté i tacchi e spalancò il cancello principale e fece un inchino a papà e papà gli diede cinque corone. «Per la birra» disse papà mentre scendeva lungo il viale, entrava e usciva nel sole e nell�ombra dei tigli. Passando accanto al vecchio cimitero si fermò. Come poteva vedere, la gente si recava in corteo anche al vecchio cimitero con picconi e carrucole e cric e leve, anche lì alla gente non bastava che il tempo si fosse fermato. Quasi tutte le lapidi erano state estirpate dalla terra, quasi tutte le tombe e le cappelle erano aperte, su camion scoperti come pesanti botti di birra su assi e tavole venivano tirate su con le catene le lapidi con le scritte, lapidi che per più di duecento anni avevano esibito indirizzo e condizione ed età e versi innamorati, tutto quello che era scolpito nella pietra ora veniva trasportato in un�altra cittadina, dove con smerigliatrici e trincianti venivano cancellati i nomi delle persone del vecchio tempo. E con le lapidi furono estirpati anche i vecchi cipressi e le tuie ovvero alberi della vita e i cespugli di sambuco, e insieme alle radici furono strappati dalla terra anche resti di bare e di ossa. E papà stava lì a guardare e vedeva che i lavori di smantellamento del cimitero non li eseguivano persone del tempo nuovo, forse loro li avevano solo disposti, i lavori li facevano persone che conosceva fin da quando si era trasferito nella cittadina dove il tempo si è fermato. E per un momento ancora papà fu quasi contento che le tombe opponessero resistenza, che le ruspe dovessero sforzare, che le catene si rompessero, ma alla fine pure ci riuscirono, dovevano riuscire a strappare dalla terra i vecchi tempi, e papà camminava, guardava le lapidi e vedeva le scritte e le leggeva e si accorse che anche il suo tempo era morto davvero, non con lo zio Pepin, ma con quel cimitero, e si sentì soddisfatto di quello che vedeva. E così dalla terra furono strappate le tombe e le cappelle di Frantisek Hulík, il pescatore detto lo Sciancato, di Cervinka detto Parapioggia, di Cervinka Pescepersico, di Cervinka lo Sbilenco, di Cervinka Ciancia, del ricciuto Cervinka Onda, di Cervinka il Damerino, di Cervinka Levriero, dello splendido Cervinka Bankrott

, di Cervinka Sigaro, di Cervinka Vifaccioapezzi, di Cervinka Vogliasudare, vide che erano già sul camion le lapidi di Dlabac Ducato, di Dlabac il Porcaro, di Dlabac Pidocchio, di Dlabac Contessina, di Dlabac Culone, e sul camion successivo c�erano Votava Pagliaccio, Votava il musicista, Votava Invano, e vicino a lui Vohánka Lederer e Vohánka Laudon. E sul camion che si era fermato al cancello del cimitero e non riusciva a passare nel fango c�erano le lapidi di Zedrich Dell�angolo e di Zedrich Maschietto, di Procházka Robinson e, vicino a lui, c�era la lapide della signorina Tubicová detta Reggilatreccia, e altre lapidi di gente che nella cittadina in cui il tempo si è fermato avevano anche un altro nome, un nomignolo. E sta bene si disse papà, ogni cosa torna al suo principio, ora vedo che il tempo si è fermato per davvero e il tempo nuovo è davvero incominciato, ma io ho solo la chiave dei vecchi tempi e l�accesso ai nuovi mi è negato, e il tempo nuovo ormai non posso viverlo, perché appartengo al tempo vecchio, che è morto. Impegnato in queste considerazioni papà salì sul ponte e, quando vide la fabbrica di birra beige laggiù, dove finisce la periferia, si chinò sul fiume e si mise a guardare l�acqua che scorreva. E si tolse il berretto da ufficiale di marina il celebre berretto dello zio Pepin, ed era come se quel berretto fosse il simbolo dei vecchi tempi d�oro, e non solo per lo zio Pepin, ma anche per papà. Papà porse il berretto al vento e poi lo lanciò nell�aria, nel sole, e il berretto planò e cadde sull�acqua e la corrente lo portava via, fino all�ultimo momento papà seguì con lo sguardo il berretto trasportato dalla corrente dell�Elba e il berretto da ufficiale di marina non affondava e papà ebbe l�impressione non che non sarebbe mai affondato, ma che non poteva affondare, e anche se così fosse stato, quel berretto avrebbe continuato a splendere nei suoi pensieri come un ricordo luminoso. E quando papà arrivò a casa, la mamma disse: «E� arrivata ora la notizia che lo zio Pepin è morto». E papà rispose con gioia e assentì: «Sì» disse, «lo so». Questa �Cittadina� l�ho scritta all�approssimarsi della primavera del 1973, quando la malattia mi apostrofava e, irragionevolmente ritenevo di essere l�unico ad avere la chiave dei racconti sui due fratelli, che quindi solo io potevo abbozzarne la storia, in modo che se fossi morto qualcuno potesse completarla al posto mio. E un anno prima della malattia avevo anche chiamato un fotografo al cimitero di Letná e lì avevo ordinato un ritratto con le lapidi nere sullo sfondo, e poi volli che mi fotografasse di nuovo nello stesso punto, ma già dentro la tomba fino alla vita, e infine volli che fotografasse solo le croci nere, come se io mi fossi infilato completamente nella terra. Allora me lo sentivo che sarei stato gettato su un letto bianco e sì, anche mentre stavo a letto e in un certo momento critico mi venne il dubbio che me ne sarei andato, di nuovo ricordai la �Cittadina dove il tempo si è fermato� e la mandai a cercare e ogni mattina cancellavo ed eliminavo soltanto, pensando irragionevolmente che solo io avevo la chiave della cittadina. Dunque anche questo testo, come il �Re� (1), è scritto in modo spontaneo, per direttissima, e come nel �Re� anche in questo testo ho solamente cancellato. Penso però (dato che mi sono ripreso e, essendo convalescente, comincio a guardarmi intorno), che in futuro non sarà più importante collocare le zone boscose di Kersko nelle immediate vicinanze della cittadina, non sarà più fondamentale far sì che i miei personaggi possano raggiungere con una passeggiata il bosco di cui sono innamorati e le belle radure. Forse non sarà più affatto necessario spostare la cittadina a rimorchio dell�immaginazione di quindici chilometri a ovest solo perché miei eroi possano raggiungere il portale del bosco e secondo necessità entrare in qualsiasi paesaggio, ovvero edificio verde. Del resto, se Pieter Breughel poteva collocare le Alpi a due passi dai suoi paesaggi e dalle sue città di pianura, perché io non dovrei poter usare le stesse forbici e ritagliarmi dai miei paesaggi e dalla mia gente no solo ciò che è proprio adeguato al testo, perché non dovrei anche poter ritagliare dalla mia testa ciò che sogno più intensamente e quindi con maggior piacere? Così, adesso che il peggio è passato, ho di nuovo l�irragionevole convinzione di avere la chiave di certi avvenimenti e che, quindi, dipenda solo e soltanto da me tentare di scriverne. E non è solo questo -che io sappia cosa scrivere e che cosa: comincio anche a sentire che la cosa più importante sarà come scriverò in futuro. E, dato che la malattia è venuta in aereo e se ne sta andando a piedi, essendo debole, erigo prospettive vigorose e comincio a rendermi conto che �Gli innamorati� il primo libro che scriverò, sarà guidato da una dinamica dolcemente sensuale, nel senso del quadro di Matisse �Calma, lusso e voluttà�, che questo testo sarà compenetrato del pigmento luminoso della lu

ce e dello spazio. Il secondo testo si chiamerà �Sorpresa nel bosco� e sarà pieno di paura e di stress e vani adattamenti nel senso dell�espressionismo lirico di Munch. In questo testo tenterò un�operazione a cui penso da parecchi anni, a partire da un disegno realistico tenterò di raggiungere lentamente la deformazione per passare infine a quella che è la sostanza della pittura gestuale, come l�ha realizzata Jackson Pollock. Pongo l�asta così in alto che mi scompare nell�azzurro splendente, perché per quello che tenterò di fare, per unire coscienza e incoscienza, vitalità ed esistenzialità, per distruggere l�oggetto come modello interno ed esterno, per tutto questo è necessario un salto, e solo la mia malattia, questa mia università frequentata a piazza Karel, questa sarà forse unica cosa che potrà fornirmi il trampolino da cui salterò testa nel polo gravitazionale dell�emozionalità. Verso l�alto, dunque, incontro a ciò che ancora non è.

NOTE. Nota 1: B. Hrabal, �Ho servito il re d�Inghilterra�, Edizioni e/o 1986 (n. d.T.). Note in margine alla traduzione. Queste Note indirizzate al lettore della �Cittadina dove il tempo si è fermato�, seconda narrazione del «ciclo di Nymburk» (2) -sono motivate dal tratto più caratteristico della prosa hrabaliana, che esiste essenzialmente in quanto atto linguistico, realtà coincidente con la creatività linguistica. Scrive Sergio Corduas a proposito di �Una solitudine troppo rumorosa� «Se quella di Hrabal è parola che vede, è anche parola che ode e parola che tocca» (3). Hrabal si serve della lingua ceca in maniera magistrale, la piega alle proprie esigenze sfruttandone le possibilità connotative e allo stesso tempo esaltandole. L�efficacia della sua narrazione risiede nella lingua, nel lessico e nella fraseologia come nella giustapposizione di registri stilistici differenti, che fondendosi o alternandosi creano una polifonia di sorprendente scorrevolezza. L�andamento paratattico della narrazione riproduce il flusso del racconto orale, ma è anche uno degli accorgimenti stilistici che contribuiscono a creare una prosa ritmata, cadenzata da pause che sembrano seguire il ritmo della respirazione più che le regole della punteggiatura (4). Nella �Cittadina dove il tempo si è fermato� ogni personaggio, anche secondario, è connotato linguisticamente: lo zio Pepin parla un divertente miscuglio di dialetto moravo, di «ceco comune» e di gergo militaresco austroungarico. Era impossibile rendere le sue chiacchiere in un italiano altrettanto colorito; si è tentato, quindi, di riprodurre almeno l�effetto comico accentuando la struttura colloquiale e ricorrendo in alcuni casi a espressioni sgrammaticate. Franzin o, nella grafia ceca, Francin, tenta di dare alla sua vita il corso pacato che è tipico del suo linguaggio misurato; si è scelto di mutare la grafia del nome per mantenere almeno in questo caso il riferimento allo strato lessicale tedesco, vivo nella lingua ceca fino al 1945 e costantemente presente nella lingua del romanzo. Per lo stesso motivo sono state definite «chellerine» le «signorine» a servizio nei locali notturni preferiti di Pepin, tipici della vecchia Austria-Ungheria rievocata continuamente dallo zio. Il guardiano notturno Vanátko parla un impeccabili gergo burocratico-militaresco. Il signor parroco parla un dialetto slesiano, e per la verità è un decano, a sottolineare l�importanza della Cattedrale di Nymburk, Sant�Eligio, sede addirittura di un Capitolo. Gli operai della fabbrica di birra, una sorta di «coro» che accompagna le vicende de due fratelli, dopo la nazionalizzazione delle imprese parlano per slogan. I soldati sovietici chiamano Pepin con un affettuoso appellativo russo, �papascka�, dimostrandogli anche così, lessicalmente, il loro rispetto; dal canto suo Pepin non gli risparmia un (ironico?) «aieroplano». La morte del Reichsprotektor viene annunciata e commentata con parole che sembrano prese di peso da un comunicato del 1942, e probabilmente lo sono. La voce narrante, quella di un bambino, solo raramente parla un linguaggio infantile: è il registro stilistico più «alto», quello più spesso vicino allo standard della lingua ceca letteraria. Quando il ritmo del respiro e quello del ricordo pulsano all�unisono la prosa si fa lirica, sono pòèmes en prose i brani in cui il tempo si ferma nella parola, per non essere cancellato dalla storia. Per il bambino che scrive l�equazione tra realtà e parola è esplicita e la sua funzionalità si spinge fino alla sublimazione, alla percezione della scrittura come mezzo salvifico e poi all�identificazione della scrittura con la realtà della salvezza. La parola è

scongiuro e mezzo di beatificazione: Franzin nomina i pezzi della macchina come le parole di una preghiera, parlando cerca di imporsi, di «entrare nell�anima della mamma». Nel romanzo la storia non rivive solo nel pastiche e nei collage verbali (5): la vita della provincia boema dei primi dei secolo e del periodo della prima repubblica tra le due guerre è rievocata dalle canzoni, dai film interpretati da Hans Albers, dalle storielle sui teatri che la giravano, dalle scene da comica muta a cui dal nostro tempo assistiamo senza sfuggire all�accelerazione dei fotogrammi: per esempio quando Franzin smonta e rimonta e si arrabbia e ci propone episodi sincopati ed esilaranti. �I milioni di Arlecchino�, leitmotiv che diventa motivo portante nell�ultimo capitolo e titolo della terza narrazione del «ciclo di Nymburk» (�Harlekýnovy milióny�, 1979) è una serenata cantata in un balletto italiano del 1900 e divenuta in seguito molto popolare. Accanto ai personaggi d �invenzione a quelli trasferiti dal ricordo nel racconto, compaiono figure appartenenti alla memoria collettiva: il lottatore Fristenský (1879-1957), il biologo sovietico Micurin (1855-1935), il micologo Smotlacha (18841936). Hrabal aveva veramente uno zio Pepin, acceso e infaticabile narratore, prototipo di tanti dei «pábitelé» (6) dei suoi racconti: lo faceva conoscere agli amici, che tentavano di registrare su nastri le storie che raccontava (7). Il trattato del signor Batista, che potrebbe essere preso per una divertente invenzione di Hrabal, è una pubblicazione del 1898 (�Autodifesa e igiene sessuale. Prescrizioni e consigli coscienziosi e proficui per tutte le malattie del sesso, istruzioni sull�amore, la maturità sessuale e il matrimonio, come anche sulle conseguenze dell�onanismo, delle perversioni e delle infezioni sessuali�), la cui popolarità è testimoniata dalle nuove edizioni che si sono susseguite nel giro di pochissimi anni (1899,1901,1909,1920). Hrabal cita Batista quasi testualmente: «Nei pressi di Dresda è nato poi un certo Gottliesch. Questo �ermafrodito� aveva il glande composto di due metà uguali, in cui non c�erano testicoli. Al posto del membro maschile aveva una specie di clitoride�» (8). Oppure: «Quanto detto a proposito degli uomini vale pure per alcune donne, specialmente per quelle che non si sono sposate oppure, divenute vedove, sono ancora piene di sensualità. Non potendo peccare col coito, peccano con l�onanismo�». La straordinaria capacità evocativa d�immagini della prosa hrabaliana è fatta di descrizioni precise, dettagliate che, oltre ad assolvere una funzione scenica, non di rado hanno anche una funzione straniante, comica. Gli esempi citati di testimonianze, di brani di realtà inseriti nel racconto di finzione, sono riconducibili a quello che Hrabal (che alimenta volentieri le leggende sul presunto carattere «popolare», non colto, della sua prosa dicendo di essere un «trascrittore», e non uno scrittore) ha definito il proprio realismo totale (9), distinguendolo dal presunto realismo socialista e dal surrealismo degli epigoni. La trasfigurazione catartica della realtà nella scrittura passa anche attraverso la «fattografia spostata» (10) della prosa hrabaliana. Molti dei suoi lettori ritengono che la maggior parte degli episodi e dei fatti narrati siano frutto di invenzione o di deformazione. E� vero che sulla piazza principale di Nymburk non c�è la statua di Sant�Ilario (confronta sopra), ma è altrettanto vero che c�è la colonna della peste sormontata da statue di santi sorridenti. A volte la fattografia non si muove di un passo: il locale di Zofín, che molti lettori ricollegano all�isola praghese che porta lo stesso nome, è tuttora una birreria di Nymburk; a Nymburk le diramazioni dell�Elba creano una penisola che nella topografia locale viene chiamata Isola. Nel corso della narrazione si possono notare delle «imprecisioni»: nel capitolo 4 la rivolta dello zio avviene all�inizio ogni tre mesi e a distanza di poche righe sembra ricorrere ogni anno; poi sono i montacarichi e non le macine a frantumare il ghiaccio; si dice che lo zio Pepin ha aiutato Franzin a smontare una volta sola, mentre assistiamo a due episodi in cui i due fratelli «smontano» insieme. La descrizione puntuale nei dettagli presenta incongruenze evidenti: all�inizio del capitolo 6 Cisleitania e Transletania vengono confuse in un contesto in cui l�autore sembra voler curare l�esattezza della precisazione geografica. Sa di surrealismo il luogo dove le contraddizioni apparenti della poetica hrabaliana si risolvono (11). Nella nota che segue il romanzo Hrabal descrive la propria scrittura come un flusso spontaneo, non controllato come un processo che deve svolgersi con il rito direttissimo. Indica nella malattia avuta, nell�«università» frequentata all�ospedale di pi

azza Karel, la circostanza che avrebbe provocato un mutamento nella sua poetica, determinando un�evoluzione soprattutto stilistica («comincio anche a sentire che la cosa più importante sarà come scriverò in futuro»). E� stato più volte sottolineato che questa vicenda personale ha coinciso con l�impossibilità di pubblicare nella mutata situazione politica della Cecoslovacchia «normalizzata». Hrabal avrebbe abbandonato le sue sequenze di racconti e le sue serie di aneddoti per passare a forme più complesse, più vicine al romanzo, e a tematiche più «importanti», come la riflessione sul tempo e sutta storia (12). Senza entrare nel merito della discussione critica sulle origini, le parentele e le evoluzioni della scrittura hrabaliana, che esula dallo scopo di queste «avvertenze» per il lettore, vale la pena di ricordare che il sottotitolo della prima versione della �Cittadina dove il tempo si è fermato� era «Racconti» (13). Questa circostanza, insieme al senso delle precisazioni fornite dallo stesso Hrabal nella nota conclusiva, fa pensare che le prose degli anni settanta, e quindi anche il «ciclo di Nymburk», spesso considerato atipico rispetto alla produzione precedente e a quella successiva, non siano conseguenti a una cesura, ma costituiscano una tappa nell�evoluzione di uno scrittore le cui opere sono sempre intimamente collegate e ripetutamente citate e riprese. Tra �La tonsura� e �La cittadina dove il tempo si è fermato� le connessioni e le analogie, sia tematiche che testuali e stilistiche, sono particolarmente evidenti e rilevanti. Tuttavia il lettore che conosca anche soltanto le opere già uscite in italiano non potrà non aver notato molte altre coincidenze (14) Con un movimento anche troppo hrabaliano di regressus �ad originem� torniamo al punto di partenza di queste osservazioni, ossia alla realtà linguistica o, meglio, alla realtà-lingua della �Cittadina dove il tempo si è fermato�. I differenti registri linguistici non servono solo a definire il carattere dei singoli personaggi: anche le fasi della vita sono momenti del linguaggio. Pepin strilla e blatera fino a quando è giovane e vitale, come Franzin nella fase più piena e soddisfatta della sua esistenza, quando ha compiuto il ricongiungimento con se stesso che rincorreva fin dai primi capitoli (15). Il silenzio di Pepin, la sua rinuncia alle parole, fanno parte del rallentare inesorabile del suo tempo, che infine si ferma. La morte di Pepin, come la vecchiaia di Franzin, è un ritorno al principio: le ultime parole dello zio ritornano al tempo che si è fermato, ricordano il ritornello di una canzone cantata nella �Tonsura� da un operaio della fabbrica di birra (16). Ogni registro linguistico rappresenta anche un preciso momento storico e contribuisce a delineare lo svolgimento della storia. I «tempi d�oro» della vecchia monarchia asburgica rivivono nel gergo dei mestieri, in gran parte derivato dal tedesco, nelle parole di Pepin, in quelle di Vanátko, nelle citazioni del trattato del signor Batista sull�igiene sessuale. Una sola parola basta a Hrabal per rievocare intera l�atmosfera di un�epoca e di una situazione. La parola «gattabuie», che compare accanto alle tombole e ai tirassegni delle feste di paese (confronta. sopra), riporta almeno i più anziani tra i lettori, e specialmente quelli che hanno dimestichezza con le consuetudini della provincia boema, al tempo in cui la prigione del paese veniva utilizzata, durante i giochi e le feste, per chiuderci chi doveva pagare pegno. Il tempo della prima repubblica è sfumato, incerto, anche un po� ambiguo: come Franzin e il suo tono gentile e sommesso. La sua è la lingua di un tempo di passaggio, che si sposta e scompare in punta di piedi, lontana dal fragore del crollo della vecchia monarchia asburgica e dalle urla di Pepin. Franzin rifiuta il kitsch di Vanátko e le esagerazioni di Pepin, ma rimpiange i capelli lunghi che le donne portavano una volta, è spinto in avanti con il suo amore per i motori, ma al tempo nuovo non appartiene, non ne comprende le regole, né il linguaggio. Il ritorno al principio, un movimento sempre presente nelle narrazioni hrabaliane, per Franzin significa ricongiungimento con il vecchio tempo e accettazione della scomparsa di una modalità di passaggio al nuovo che non ha potuto realizzarsi. Il linguaggio dell�epoca nuova, del tempo delle nazionalizzazioni e dei pugni serrati sui manifesti, è solo accennato nelle parole degli operai, e del resto il suo schematismo non ha bisogno di abbondanti esemplificazioni. L�epoca nuova, d�altra parte, non è il tempo dell�epopea di Nymburk, che vive nella dimensione del ricordo. Il tempo si è fermato, quindi nel ricordo non è finito, non è trascorso. Hrabal non racconta la fine di un�epoca, né propone la rievocazione nostalgica di un tempo passato: l�epopea di Nymburk vive nella dimensione del ricordo fattosi racconto, fattosi

parola e, dunque, di nuovo, realtà. marzo 1992 Annalisa Cosentino NOTE. Nota 2: Il primo romanzo situato nella cittadina e dedicato da Hrabal ai ricordi sulla sua famiglia è �La tonsura�, Edizioni e/o 1987. Nota 3: S Corduas, �Hrabaliana�, in B. Hrabal, �Una solitudine troppo rumorosa�, Einaudi 1987, pag. 107. Sul carattere della lingua hrabaliana confronta. tra l�altro S. Richterová, �Totoznost cloveka vé svéte znakù� in �Slova a ticho�. Munchen, Arkyr 1986. La bibliografia della critica dedicata all�opera di Hrabal è molto vasta. In questa sede ci si limita a indicare i riferimenti più immediati nell�ambito dei contributi più recenti e comunque i contributi esistenti in italiano. Nota 4: Sulla funzione della punteggiatura nella prosa hrabaliana confronta. M. Jankovic, �Try tecky v Prolukách Bohumila Hrabala� e �Text jako pround� in �Nesamozrejmost smyslu�, Praha, Ceskoslovenský spisovatel 1991. Nota 5: Hrabal ha indicato più volte le analogie tra la propria esperienza artistica e le arti figurative (confronta. per esempio la nota che segue il romanzo). Sono palesi le somiglianze tra il suo modo di «maneggiare» i mezzi espressivi e i procedimenti caratteristici dell��action painting� e dell�arte gestuale: la libertà nella scelta dei mezzi espressivi, che spesso coincide con l�abbandono di quelli tradizionali; la violenza dell�espressione; la rapidità dell�esecuzione; la percezione dell�opera d�arte come brano di realtà. Nota 6: Il «pábitel» è una figura che si incontra frequentemente nelle prose di Hrabal. «I bislacchi praghesi sono invasati da un�infrenabile brama di confabulare, di sfogarsi in ciarle, di stordire gli interlocutori con chiacchiere, Hrabal li denomina �pábitelé�, con un vocabolo che significa insieme parabolano e gradasso»; confronta A. M. Ripellino, �Praga magica�, Einaudi 1973 pag. 27. A questo proposito confronta anche S. Corduas, �Hrabal, ferroviere di Dio�, in B. Hrabal, �Treni strettamente sorvegliati�, Edizioni e/o 1982. Nota 7: Confronta J. Hirsal, �Start Bohousce Hrabala v «letu let»� (1955-1959), in �Hrabaliana�, Praha, Prostor 1990. Nota 8: Batista, �Sebeochrana a pohlavní zdravoveda. Svedomité a prospescné rady i predpisy pri vscech nomocech pohlavních, pouceni o lásce, pohlavní dospelosti a manzelství, jakoz i o následcích onanie, pohlavních výstredností a nákazy�, Praha, Rudolf Storch, 1899, pag. 19. Nota 9: Confronta J. Zumr, �Ideová inspirance Bohumila Hrabala�, in �Hrabaliana�, cit. Nota 10: Confronta V. Kadlec �Wichterle a Kovarik aneb Jak jsme Psali Dubence�, in B. Hrabal �Ruzový kavalír�, Praha, Prazská imaginace 1991. Confronta anche S. Corduas, �Hrabal, ferroviere di Dio�, cit. Nota 11: Sul surrealismo della poetica hrabaliana confronta tra l�altro, A. M Ripellino, �Introduzione�, in B. Hrabal, �Inserzione per una casa in cui non voglio più abitare�, Einaudi 1968; S. Roth, �Laute Einsamkeit und bitteres Glück�, Bern, Petr Lang 1986; R. Kalivoda, �Básnický cin Bohumila Hrabala aneb Bohumil Hrabal a ceský surrealismus�, in �Hrabaliana�, cit.; J. Zumr, �Ideová inspirace Bohumila Hrabala�, cit. Nota 12: Confronta tra l�altro G. Dierna, �Su una corda tesa tra la culla e la bara: Bohmil Hrabal nella Storia e fuori�, in B. Hrabal, �Ho servito il re d�Inghilterra�, Edizioni e/o 1986; �Della memoria e dei suoi trucchi. L�arte del ricordo nell�ultimo Hrabal, in B. Hrabal, �La tonsura�, cit. Nota 13: Confronta J. Zumrová, �Edicní poznámka�, in B. Hrabal, �Mesteck kde se zastavil cas�, Praha, Odeon 1991, pag 58: «E� opportuno sottolineare che il significato del sottotitolo �Racconti�, usato per un testo coerente, diviso in capitoli indicati coi numeri 1, 2, 3�. va inteso come �narrazione, raccontare�» (il corsivo virgolettato è mio). Nota 14: Per fare solo qualche esempio, scelto tra i motivi più immediati: �I milioni di Arlecchino� compaiono già nel racconto �La Bella Poldi�, in �Inserzione per una casa in cui non voglio più abitare�; l�episodio dell�aiutante Jarunka tinto con l�inchiostro per i timbri non può non ricordare la telegrafista dei �Treni strettamente sorvegliati�; l�equazione tra scrittura e salvezza richiama immediatamente alla memoria �Ho servito il re d Inghilterra�; in �Una solitudine troppo rumorosa� Hant�a si lava proprio come lo zio Pepin dopo che ha «fatto la sua rivolta» Mancinka e Hant�a ballano a una festa con la scelta alle dame, ricompare Jackson Pollock, lo «scopo prefisso riduce la fatica», il kantiano cielo stellato con le stelle tremolanti ricorda uno dei brani più lirici della �Cittadina� («e io mi ritrovai nella notte stellata, le stelle sguainate come pugnali d�argento tremolanti mi minacciavano taglienti nel cielo freddo»). Nota 15: Confronta la scena in cui Franzin indossa il costume da Arlecchino. Nota 16: Confronta �La tonsura�, cit., pagine 87-89.