LEZIONE V: PENSIERO MODERNO: SEICENTO · Coke si riferiva non era la legge del Parlamento inglese...

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LEZIONE V: PENSIERO MODERNO: SEICENTO: Il pensiero moderno (dal 1500) si caratterizza per il passaggio da una concezione del diritto prevalentemente consuetudinaria alla concettualizzazione dell’idea che il diritto è frutto di volontà di un legislatore (sia pure razionale). Il diritto si avvicina alla politica. Ma prima che questo avvenga dobbiamo dare uno sguardo ad uno strenuo difensore dell’autonomia del diritto dalla politica: LORD COKE: Siamo nel 1600 e Lord Coke un famoso giurista inglese che a quel tempo presiedeva un’alta corte - fu chiamato a risolvere un caso. Giacomo I (il re di Inghilterra) se lo chiamò per suggerirgli la giusta conclusione: l’argomento di Giacomo I era il seguente. Siccome tu magistrato sei un mio delegato sei un mio ministro non puoi emettere delle decisioni contrarie alla mia volontà). Il diritto infatti ora è connesso alla politica. Ma come rispose Lord Coke? (I brani sono tratti dagli Institutes of the Laws of England, Parte I). And by reasoning and debating of grave learned men the darknesse of ignorance is expelled, and by the light of legall reason the right is discerned, and thereupon judgment given according to law, which is the perfection of reason. This is of Littleton here called legitima ratio, whereunto no man can attaine but by long studie, often conference, long experience, and continuall observation”. Section 232b. ... for the maine rule of law is, that no man can frustrate or derogate from his owne grant to the prejudice of the grantee. Section 233b.

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LEZIONE V:

PENSIERO MODERNO: SEICENTO:

Il pensiero moderno (dal 1500) si caratterizza per il passaggio da una concezione del

diritto prevalentemente consuetudinaria alla concettualizzazione dell’idea che il diritto è

frutto di volontà di un legislatore (sia pure razionale). Il diritto si avvicina alla politica.

Ma prima che questo avvenga dobbiamo dare uno sguardo ad uno strenuo difensore

dell’autonomia del diritto dalla politica:

LORD COKE:

Siamo nel 1600 e Lord Coke – un famoso giurista inglese che a quel tempo presiedeva

un’alta corte - fu chiamato a risolvere un caso. Giacomo I (il re di Inghilterra) se lo

chiamò per suggerirgli la giusta conclusione: l’argomento di Giacomo I era il seguente.

Siccome tu magistrato sei un mio delegato – sei un mio ministro – non puoi emettere

delle decisioni contrarie alla mia volontà). Il diritto infatti ora è connesso alla politica.

Ma come rispose Lord Coke? (I brani sono tratti dagli Institutes of the Laws of England,

Parte I).

“And by reasoning and debating of grave learned men the darknesse of ignorance is expelled,

and by the light of legall reason the right is discerned, and thereupon judgment given according to

law, which is the perfection of reason. This is of Littleton here called legitima ratio, whereunto no

man can attaine but by long studie, often conference, long experience, and continuall

observation”. Section 232b.

... for the maine rule of law is, that no man can frustrate or derogate from

his owne grant to the prejudice of the grantee. Section 233b.

Lord Coke rispose che il magistrato è sottoposto alla legge e a nessun altra cosa. “la

principale regola di legge è che nessun uomo può tradire o derogare dal suo mandato

arrecando pregiudizio a colui nel cui interesse il mandato è prestato”.

Questo significa che un magistrato non può tradire il proprio ufficio magari

soggiacendo alle direttive di un organo politico e rifiutando di applicare la legge.

Lord Coke quindi difende una concezione antica e medioevale del diritto: il

diritto è autonomo dalla politica: ed è anzi superiore alla politica. Infatti la legge a cui

Coke si riferiva non era la legge del Parlamento inglese o del sovrano, ma piuttosto la

common law.

Lord Coke aggiungeva che la legge va interpretata con l’utilizzo della ragione e non

invece per assecondare la volontà di qualcuno piuttosto che di qualche altro (for reason

is the life of the law, nay the common law itself is nothing else but reason, gotten by long study,

observation, and experience, and not of every man's natural reason; for, Nemo nascitur artifex. This

legall reason est summa ratio. Section 97b). In questo senso Lord Coke continua ad

appartenere alla tradizione giusnaturalista: quella che afferma che il diritto ha certe

caratteristiche indipendenti dalla volontà di chi lo pone in essere: indipendenti cioè

dalla politica.

Il diritto ha una sua ragione interna: una ragione che non è accessibile a tutti ma che

richiede studio ed esperienza. E proprio questa idea che verrà fatta oggetto di critica

da Hobbes e in parte anche da Locke.

Legge naturale e legge civile in HOBBES e LOCKE:

Si tratta di due filosofi politici inglesi che scrissero entrambi nel Seicento e che si

occuparono di un tema classico per i filosofi del diritto: e cioè il rapporto fra legge

naturale e le legge positiva. Tuttavia scrissero in periodi leggermente diversi. Le opere di

Hobbes

Elementi di Legge naturale e politica 1640,

De Cive 1642

De Cive 2nda edizione 1647

Leviatano 1651

Dialogo fra un filosofo e lo studioso di common law in Inghilterra 1666

Vanno approssimativamente dagli anni 40 agli anni 70. Cosa succede in Inghilterra in

questo periodo? La nazione è dilaniata da una guerra scatenata dalle frizioni fra la

monarchia degli STUART (Giacomo I e Carlo I) e il Parlamento, cui erano alleati il ceto

dei giuristi e i movimenti religiosi più radicali. Carlo I viene decapitato, comincia una

guerra civile che si conclude con un protettorato abbastanza autocratico di Oliver

Cromwell e poi con la restaurazione degli Stuart.

Qual è lo spettro contro cui Hobbes vuole combattere? L’anarchia (si deve tenere a

mente che a minacciare l’assolutismo regio vi è anche la posizione del ceto dei giuristi

contro cui Hobbes sferrerà un attacco – e che sono esemplificati dalla persona di Lord

Coke, presidente dell’alta corte sotto la monarchia di Giacomo I).

Locke invece pubblica i suoi Due Trattati sul Governo nel 1690, due anni dopo la

cosiddetta Gloriosa Rivoluzione: che consiste nell’ascesa al trono della dinastia degli

Orange e con la dichiarazione di un bill of rights e il ritorno del partito whig sulla scena

politica inglese.

Qual è dunque la principale preoccupazione di Locke? Quella di offrire supporto teorico

ai limiti del potere politico.

Thomas Hobbes:

STATO DI NATURA

Con uno stile che contraddistinguerà anche Locke, Hobbes comincia la sua trattazione

con la descrizione dello stato di natura: lo stato cioè in cui non vi è alcun autorità

politica.

Com’è questo stato? Le condizioni obiettive di questo stato sono:

la scarsità delle risorse e l’eguaglianza naturale degli esseri umani (nel senso che nessuno

è così tanto forte o intelligente da sottomettere tutti gli altri). Ma l’eguaglianza lungi

dall’essere un principio normativo positivo (cosa a cui oggi crediamo) è fonte di guai.

Quali?

Gli uomini nello stato di natura sono sospinti da passioni feroci:

dal desiderio di guadagno smodato – che genera rivalità;

dal desiderio di sicurezza, che induce gli individui a prevenire gli attacchi degli altri e

alimenta diffidenza e violenza;

dal desiderio di gloria o reputazione (la vanagloria) (incidentalmente c’è un filosofo

politico che sottolinea questa caratteristica – Leo Strauss).

Questo stato è miserrimo perché è uno stato di guerra continua. Si noti che Hobbes si

discosta radicalmente sia dalla tradizione antica aristotelica della naturale socievolezza

degli individui che dalla concezione medioevale secondo cui negli individui vi è una

naturale inclinazione al bene.

Questo stato di natura non ha connotati morali negativi: dice Hobbes che non si può

parlare di ingiustizia o di immoralità perché questi attributi sono concepibili solo dopo

che lo stato è formato e non prima (noi un po’ comprendiamo questo argomento se

pensiamo alle brutalità compiute in guerra in cui sembra veramente verificarsi la

sospensione di qualunque legge). (su questo punto, che vedremo meglio oltre si è parlato

di Hobbes come un classico rappresentante del cd. positivismo ideologico: che in poche

battute consiste nel ritenere che la legge è giusta in quanto tale, cfr. Bobbio).

Al contrario, lo stato di natura si caratterizza per i diritti illimitati degli individui (Right

si dissocia e si contrappone a Law).

Come si esce da questo inferno?

Hobbes ci dice: un po’ attraverso le passioni e un po’ attraverso la ragione.

Infatti, fra le passioni ve ne sono due che possono offrire la chiave per la salvezza: la

paura della morte violenta e il desiderio di godere di un’esistenza minimamente dignitosa

(non essere ferito nel corpo, godere della propria famiglia, etc..).

“Le passioni che inducono gli uomini alla pace sono la paura della morte, il desiderio di quelle cose che

sono necessarie a una vita piacevole e la speranza di ottenerle con la propria operosità ingegnosa. E la

ragione suggerisce opportune clausole di pace sulle quali si possono portare gli uomini a un accordo.

Queste clausole sono quelle che vengono chiamate leggi di natura”. (cap. XIII Leviatano).

Ma queste passioni da sole non bastano. Abbiamo visto che la paura della morte violenta

porta anche a prevenire gli attacchi altrui ed è quindi una delle cause della violenza.

E’ allora che interviene la ragione suggerendo degli strumenti per uscire da questo stato

infernale.

Le leggi naturali (DE CIVE cap. ; Elementi della legge naturale e politica, cap .,

Leviatano capp. XIV e XV):

Dopo averci prospettato un’antropologia a dir poco cinica e disperante (gli uomini

godono della sofferenza altrui, prevaricano senza trarne immediato vantaggio, amano

sparlare dei vicini, etc…), Hobbes compie un’operazione sorprendente: ci prospetta

diciannove leggi naturali.

E’ bene a questo punto segnalare che nella tradizione classica (Greca e Romana ed in

quella Medioevale) la legge naturale svolge essenzialmente una funzione morale che,

riferita al diritto, lo contiene e lo limita.

Hobbes, però, sembra muoversi su un solco diverso.

Ma intanto diamo un’occhiata alle leggi naturali. Citerò le prime tre e poi in modo

sintetico le altre.

1) La legge fondamentale: ciascuno deve cercare la pace e se non la ottiene, cerca e

utilizza i vantaggi della guerra (cap. xiv);

2) Nella ricerca della pace, ciascuno è disposto a rinunciare al suo diritto naturale (il

diritto a tutto), purché gli altri facciano altrettanto;

3) Gli uomini devono rispettare i patti: se così non fosse, ci sarebbe ancora la

condizione di guerra (cap. XV). Questa terza clausola della ragione è la più

problematica. Noi ci chiediamo, come fanno gli uomini a rispettare i patti in uno

stato di guerra? E infatti Hobbes prospetta la cosa nei seguenti termini: ci

impegniamo a deporre le armi a favore di un terzo a cui trasferiamo tutti i nostri

diritti. Il sovrano contestualmente acquista un potere assoluto su di noi – che però

glielo abbiamo consegnato – che ci impone obbedienza. L’obbedienza al sovrano

ha fondamento nella legge naturale, ma in ultima istanza nella costituzione dello

stato civile. Infatti prima dello stato civile non c’è giustizia o ingiustizia. La

giustizia è il suum cuique tribuere e dove non c’è il suum non c’è ingiustizia. I

patti vanno rispettati dopo la costituzione del potere civile che è capace di

costringere gli uomini ad osservarle.

4) La gratitudine è dovuta al donatore: se non ci fosse non vi sarebbe benevolenza e

quindi permarrebbe lo stato di guerra (cap. XV);

5) L’adattamento agli altri imposto dalla diversità degli uomini nelle loro affezioni.

Non si adatta chi, ad esempio, vuole mantenere le cose per lui superflue ma

necessarie ad altri. Privando gli altri di ciò che è necessario alla loro

conservazione, ricondurrà ad uno stato di guerra.

6) Perdono delle offese qualora l’offensore si ravveda. Il rifiuto al perdono è

avversione alla pace e quindi guerra;

7) Nella vendetta si deve guardare non al male patito ma al bene che ne può nascere.

Infliggere il male senza ragione è crudeltà (e quindi guerra);

8) Nessuno deve, con atti o parole, manifestare odio o disprezzo per gli altri: così si

evita la vendetta (e quindi guerra);

9) Ognuno deve riconoscere l’altro come uguale (superbia – guerra)

10) Imparzialità del giudice; ambasciator non porta pena; sentire un testimone; etcc..

LEGGI DI NATURA: CHE NATURA HANNO?

I teorici del diritto e gli storici del pensiero dibattono sul valore da attribuire alla ragione

che sta dietro alle leggi naturali. Sembra si tratti di ragione strumentale: la ragione cioè di

chi utilizza dei mezzi in vista di un fine.

1)dettami della ragione umana: nel de corpore, Hobbes afferma: ratiocinatio est

computatio. La ragione è calcolo.

Ma di che tipo di leggi si tratta?

Non sono leggi immediatamente vincolanti: a) vincolano condizionatamente, e talvolta

b) sembra non vincolino affatto (nello stato di natura tutto è lecito).

1) Legge naturale come comando divino (omaggio alla tradizione, ma senza

convincimento);

2) legge naturale come consiglio (flatus vocis);

4) legge naturale come inclinazione: a questo punto però la natura di cui parla

Hobbes va scomposta in una natura per così dire primordiale (dominata dalle passioni) e

una natura artificiale che va promossa nello stato civile. E’ una natura non buona in sé

ma solo nella misura in cui conduca alla pace (da ciò il Prof. Viola ha ravvisato il

possibile epilogo totalitario dell’impianto hobbesiano).

NASCITA DELLO STATO:

terza legge di natura:

rinuncia contestuale dei cittadini (fondata su accordi reciproci) a favore del

sovrano: che è un terzo.

Il sovrano non è parte del patto ma beneficiario.

LEGGI CIVILI

Con leggi civili intendo le leggi che gli uomini sono tenuti a osservare in quanto sono

membri non di questo o di quello stato in particolare ma di uno stato.

LEGGE CIVILE: è PER OGNI SUDDITO L’INSIEME DELLE NORME CHE,

ORALMENTE O PER ISCRITTO, O CON ALTRO SEGNO SUFFICIENTE A

MANIFESTARE LA VOLONTà, LO STATO GLI HA ORDINATO DI

APPLICARE PER DISTINGUERE IL DIRITTO DAL TORTO, VALE A DIRE

CIO’ CHE E’ CONTRARIO ALLA NORMA DA CIO’ CHE NON LO E’.

1) LA LEGGE E’ COMANDO DEL SOVRANO:

2) IL SOVRANO NON è SOGGETTO ALLE LEGGI CIVILI

3) LA CONSUETUDINE DIVENTA LEGGE NELLA MISURA IN CUI SIA

RECEPITA (ANCHE TACITAMENTE DALLA VOLONTA’ DEL

SOVRANO)

4) LEGGE DI NATURA E LEGGE CIVILE SI CONTENGONO

RECIPROCAMENTE:

“Infatti le leggi di natura, consistenti nell’equità, nella giustizia, nella gratitudine e nelle altre virtù

morali, non sono propriamente leggi, ma qualità che rendono gli uomini inclini alla pace e

all’obbedienza. Divengono propriamente legge solo quando viene istituito lo stato: in quanto sono i

comandi dello stato e con ciò anche leggi civili: è infatti il potere dello stato che obbliga gli uomini a

rispettarle.

Poi Hobbes spiega che il passaggio alla legge civile è di genere a specie: è la legge civile

che specifica cosa si intenda per legge di natura.

Poi il rapporto fra legge di natura e legge civile è di altro tenore: la legge di natura fonda

il potere civile.

5) Contro COKE.

6) Legge è comando. IL comando consiste in una dichiarazione o manifestazione

di volontà di colui che comanda mediante voce, scrittura, o qualche altro segno

della medesima volontà.

Il comando è legge solo per coloro che hanno i mezzi per prenderne cognizione.

Le leggi non scritte fanno parte della legge di natura (tipo la discrezionalità che il re lascia

al proprio ministro). E tuttavia la legge di natura è fedeltà all’intenzione del sovrano.

CONDIZIONI PER CUI LE LEGGI SONO OBBLIGANTI:

a) rendere noto il legislatore

b) rendere note le leggi (possibilmente con linguaggio poco ambiguo)

c) interpretazione: possibile solo se sono chiare le cause finali per cui fu fatta: cause

finali di cui il legislatore è a conoscenza.

d) Il giudice applica la legge di natura quanto al contenuto, ma la sua vincolatività,

anche per le parti, discende solo dall’essere il giudice autorizzato dal sovrano.

e) Non c’è vincolo del precedente in quanto tale (se una decisione è sbagliata, per

quanto vincolante, non è detto che debba essere seguita).

f) Il giudice che rifiuta di ascoltare un testimone commette ingiustizia.

Il buon giudice:

le cose che fanno un buon giudice o un buon interprete delle leggi sono,

a) in primo luogo, una comprensione di quella corretta legge di natura che

consiste nell’equità (che dipende non dagli scritti dei giuristi ma dalla propria

ragione naturale): che non manca a coloro che hanno inclinazione e propensione

alla riflessione.

b) Disprezzo delle ricchezze non necessarie e delle promozioni

c) La capacità nel giudicare di deporre passioni come rabbia, compassione e amore

d) Pazienza ed attenzione nell’ascoltare, memoria nel trattenere, assimilare ed

utilizzare quello che si è ascoltato.

Distinzione di legge in ragione della fonte

Distinzione in ragione dei destinatari:

a) distributive: sono quelle che fissano i diritti dei sudditi (proprietà, diritti e

libertà di azione);

b) penali: quelle che stabiliscono la pena che dovrà essere inflitta a coloro che

violano la legge, e si rivolgono ai ministri e ai funzionari. Infatti, dice Hobbes,

ciascuno deve essere bensì informato delle punizioni prestabilite per la

trasgressione, ma il comando è rivolto ai pubblici funzionari incaricati di

badare all’esecuzione della pena e non del delinquente.

Leggi fondamentali e non fondamentali.

Legge fondamentale è quelle che, ove venga abolita, lo Stato cade e si dissolve

completamente. Ad esempio quella in forza della quale i sudditi sono tenuti a sostenere

ogni potere del sovrano senza il quale lo stato non potrebbe esistere (potere di guerra, di

giudicatura, di nomina dei funzionari, etc..).

Differenza fra legge e diritto:

“Trovo presso i più dotti autori, le parole Lex Civilis e jus civile, vale a dire legge e diritto

civile, usate indifferentemente per significare la stessa cosa”. Ma dice Hobbes, diritto

equivale a libertà, e precisamente quella libertà che ci lascia la legge civile, mentre legge

civile equivale ad un’obbligazione e ci priva della libertà che la legge naturale ci diede.

La natura ha dato a ognuno il diritto di garantirsi la sicurezza ricorrendo alla

propria forza e ad aggressioni preventive contro vicini sospetti, ma la legge civile

toglie quella libertà in tutti i casi in cui si possa fare affidamento sulla protezione

della legge. Cosicché lex e ius differiscono fra loro come obbligazione e libertà.

Legge e Carte: Le leggi vincolano tutti, le carte sono esenzioni speciali.

Hobbes e la conoscenza del diritto:

In un passo del Leviatano (1651), Hobbes distingue due modi radicalmente diversi di

conoscere il diritto: da un lato un modo specialistico, del particolare, proprio dei giuristi;

dall’altro, il modo non specialistico, o generale, proprio di qualunque individuo. Hobbes,

dunque, contesterà la pretesa dei giuristi (the students of the common laws of England)

di essere gli unici depositari della vera sapienza giuridica.

Hobbes manifesta proprio l’intenzione di conoscere non cosa sia il diritto in questo caso

particolare ma cosa sia il diritto tout court.

Nella concezione embrionale della teoria del diritto hobbesiano compaiono:

a) una concezione normativista e statalistica del diritto inteso come insieme di

regole che lo stato con la parola, lo scritto, o altro segno della sua

volontà, ha comandato di usare per distinguere il lecito (right) e l’illecito

(wrong).

b) Una concezione imperativistica delle norme giuridiche le quali sono

caratterizzate come i comandi che lo stato rivolge a coloro che si siano

previamente obbligati ad obbedirli;

c) L’idea che ogni stato produca le regole giuridiche per mezzo di un

rappresentante che Hobbes identifica con il sovrano che è l’esclusivo titolare

della funzione legislativa;

d) Una concezione volontaristica delle fonti del diritto (che si applicherebbe

anche alla consuetudine);

e) Una concezione disincantata – realistica – dell’interpretazione giuridica

secondo cui:

a. Tutte le leggi per essere applicate vanno interpretate;

b. Per abilità dell’interprete è possibile attribuire un significato diverso da

quello voluto dal sovrano ed in questo caso l’interprete diventa il

legislatore;

c. Per ovviare a tali inconvenienti occorre adottare le seguenti misure: i) si

deve attribuire significato di interpretazione autentica e vincolante ai

soggetti autorizzati dal sovrano; ii) la rilevanza delle interpretazioni

autentiche va circoscritta alla singola decisione; iii) si deve sempre

presumere che l’interpretazione dei legislatori sia l’equità.

TEORIA POLITICA: ASSOLUTISMO: CAUSE DI DISSOLUZIONE DELLO

STATO:

CAUSE DI DISSOLUZIONE DELLO STATO (cap. XXIX):

a) il giudizio privato dei cittadini

b) libertà di coscienza

c) pretesa ispirazione soprannaturale

d) la subordinazione del potere sovrano alle leggi civili: sebbene sia soggetto alle

leggi di natura

e) ogni diritto ha la proprietà assoluta sui suoi beni tali da escludere il diritto del

sovrano

f) divisione dei poteri e governo misto

g) popolarità di un suddito potente

h) libertà di contestare il potere sovrano

educazione dei sudditi.

RAPPORTI FRA LEGGI NATURALI E LEGGI CIVILI

BOBBIO:

LEGGI NATURALI: NELLO STATO DI NATURA NON VIGONO

ANCORA, NELLO STATO CIVILE NON VIGONO Più. E allora quando

contano? Per Bobbio nel momento del passaggio.

LEGGE CIVILE E STARE AI PATTI (INCONDIZIONATAMENTE):

La legge naturale comanda di obbedire alle leggi civili in virtù della legge naturale che

vieta di violare i patti: quando ci obblighiamo ad obbedire prima di sapere ciò che ci

verrà comandato ci obblighiamo ad un’obbedienza incondizionata.

Di fatto per quanto la legge di natura punisca il furto o l’adulterio, se la legge civile

comanda un’usurpazione allora il furto non è più punibile in quanto cessa di essere furto.

Bobbio: rapporto fra legge naturale e legge civile. A Hobbes preme di eliminare il

contrasto fra le due leggi: tre modi:

1) (cap. V, par. III): la legge positiva punisce i trasgressori della legge naturale: la

legge naturale è sempre vigente;

2) La legge naturale proibisce il furto, l’omicidio (cap. IV): la legge civile definisce

il furto e l’omicidio;

3) La legge naturale dice di obbedire incondizionatamente.

Nel primo modo: vi sarebbe una relazione del tipo: legge naturale precettiva, quella

civile esecutiva;

nella seconda: legge naturale e legge positiva sono entrambe sostanziali, ma la prima è

generale e la seconda speciale;

nella terza la legge naturale è la legge fondamentale: il principio di validità di tutte le

leggi positive. (BOBBIO, Warrender: a difesa dell’interpretazione giusnaturalistica di

Hobbes).

Lacune e interpretazione: il diritto naturale ritorna nelle lacune o

nell’interpretazione. Ma è diritto solo quello che decide il giudice.

SI è visto che la legge naturale viene messa a tacere nei rapporti con i cittadini: i quali

avendo rinunziato ai propri diritti assoluti hanno riposto tutto il potere nelle mani del

sovrano.

MA SUL SOVRANO?

Hobbes dice: il sovrano è sciolto da ogni vincolo derivante dalle leggi civili ma non è

sciolto dai vincoli che derivano dalla legge naturale.

(si può essere sovrani e tuttavia non essere nel giusto).

Rapporto fra stati:

di nuovo: l’osservanza della legge naturale è condizionata: nella misura in cui non arrechi

nocumento.

Rapporto fra stato e cittadini

La violazione da parte del sovrano della legge naturale – sia pure ammissibile – non

autorizza i cittadini a disobbedire.

“E’ vero che un sovrano, sia esso un monarca o la maggioranza di un’assemblea, può

ordinare che molte cose siano fatte sotto l’impulso delle proprie passioni e contro la

propria coscienza, il che è un’infrazione della fede e della legge di natura: ma ciò non è

sufficiente per autorizzare i sudditi sia a muovere guerra sia ad accusarlo di ingiustizia sia

a dir male in qualunque modo del sovrano, perché essi hanno autorizzato tutte le sue

azioni e costituendo il potere sovrano le riconobbero come proprie” (LEVIATANO

XXIV).

ECCEZIONE: ben nota: il dovere di obbedienza viene a cessare nel momento in cui

l’ordine del sovrano mette in pericolo la vita del suddito. Ciò vuol dire che il suddito

deve obbedire a ogni comando tranne a quelli per cu ne va della sua stessa vita. Si noti

che questo non implica che il sovrano non abbia il diritto di infliggere condanne a morte.

Il patto è infranto, si è ritornati allo stato di natura: vince il più forte.

LE BUONE LEGGI (cap. trentesimo)

Hobbes asserisce che una legge non può essere ingiusta (i cittadini hanno delegato al

sovrano il compito di stabilire il giusto e l’ingiusto) ma una legge può essere più o meno

buona. Ora, dice Hobbes, una legge buona è quella necessaria per il bene del popolo e al

tempo stesso perspicua.

La funzione delle leggi non è quella di impedire alla gente ogni azione volontaria,

bensì quella di dirigerla e di consentirne il movimento nei limiti in cui non leda

se stessa a causa dei suoi desideri impetuosi, della sua avventatezza e

dissennatezza. Come le siepi, poste per fermare i viaggiatori ma per tenerli in

carreggiata.

Perciò una legge che non è necessaria, mancando del vero fine di una legge, non è buona

(si noti che a questo punto Hobbes aggiunge che tuttavia se la legge è vantaggiosa per il

sovrano, allora è vantaggiosa anche per il popolo in quanto le sorti di queste due entità

sono legate).

La perspicuità non consiste tanto nelle parole della legge stessa, quanto nella chiara

enunciazione delle cause e dei motivi per cui è fatta. Ciò ci rivela l’intendimento del

legislatore.

Corretta somministrazione delle pene e delle ricompense. Somministrare

correttamente punizioni e ricompense: Ora, poiché il fine della correzione, lungi

dall’essere la vendetta e lo sfogo di collera, è la correzione del delinquente e della società

(dando l’esempio), le punizioni più severe devono essere inflitte per i reati che causano

un pericolo pubblico e non invece quelle che trovano la loro fonte nella debolezza

umana.

Non elargire ricompense per accattivarsi la simpatia dei sudditi perché si apre un varco (è

segno di debolezza)

Circondarsi di buoni consiglieri.

LEZIONE VI

LOCKE

LOCKE. Il secondo trattato sul governo del 1690

Il potere politico è diverso sia dal potere paterno che dal potere che il padrone ha sul

servo o il marito sulla moglie.

POLITICAL POWER: I take to be the right of making laws with penalties of death and

consequently of less penalties for the regulating and preserving of property and of

employing the force of the community in the execution of such laws, and in the defence

of the Commonwealth from foreign injury, and all this for the public good.

Sicchè il potere politico ha certe caratteristiche:

- diritto di fare leggi che impongono sanzioni per la conservazione delle proprietà

- utilizzo della comunità per dar effettività a tali leggi

- difendere il Commonwealth dal pericolo straniero (foreign injury)

- e tutto per il bene pubblico.

STATO DI NATURA:

Locke asserisce che nello stato di natura tutti gli individui possiedono certe liberties.

All’interno di questa nozione vi rientrano i diritti di libertà, di proprietà, nonché

l’eguaglianza fra gli esseri umani.

1) LIBERTA’

2) Proprietà

3) EGUAGLIANZA ALLA BASE DELL’AFFEZIONE RECIPROCA

Tale libertà non è tuttavia licenza.

a) la legge di natura che è legge di ragione impone di preservare per

quanto è possibile se stessi

b) non invadere i diritti altrui.

Nello stato di natura l’esecuzione è affidata ai soggetti stessi (eguaglianza naturale).

Nello stato di natura il potere di reazione all’offesa va esercitato entro certi limiti:

1) a scopo risarcitorio, così come la calm reason e la coscience deliberano

2) in modo proporzionale

3) per risarcire ma anche prevenire

OGNI UOMO HA DIRITTO DI PUNIRE IL TRASGRESSORE E DARE

ESECUZIONE ALLA LEGGE DI NATURA

(Da questo Locke deduce che lo stato non ha giurisdizione su un soggetto straniero in

quanto nello stato di natura nessuno ha un potere sull’altro).

Dalla violazione della legge di natura discende il

DIRITTO A PUNIRE (CHE SPETTA A TUTTI)

IL DIRITTO AD ESSERE RISARCITI (CHE SPETTA SOLO ALLA PARTE

OFFESA).

(Caino: chiunque mi trovi sia autorizzato ad uccidermi)

IL GOVERNO è IL RIMEDIO ALLA PARZIALITA’ (ALL’ECCESSIVITA’)

DELLA REAZIONE

Tuttavia il governo è meglio dello stato di natura nella misura in cui ne rispetti lo spirito

(la proporzionalità della pena).

Non tutti gli accordi creano una comunità politica, occorre la volontà di creare un solo

corpo. Locke mutua da Richard Hooker l’idea che l’indole politica degli uomini nasce

dalla necessità di colmare un’insufficienza originaria.

STATO DI GUERRA: segue al progetto deliberato di dominio (è dunque diverso dallo

stato di natura. Diff. Con Hobbes).

La comunità politica consiste nell’unione di individui che hanno rinunciato a decidere da

sé la misura del risarcimento e a darne esecuzione.

A) per evitare che ciascuno sia giudice in causa sua

B) le leggi devono applicarsi a tutti: sennò tanto vale vivere nello stato di natura

C) uomini liberi, uguali ed indipendenti.

Siccome nello stato di natura ognuno ha diritto alla vita, alla libertà e proprietà

(properties) e siccome nessuno vuole peggiorare la propria condizione, lo stato è

legittimo nella misura in cui tuteli questi beni.

Questo significa:

a) che lo stato deve governare con leggi generali (OUTSTANDING), promulgate e

conosciute e non con decreti estemporanei.

b) ci devono essere giudici imparziali.

Cap. XI potere legislativo: fine: enjoyment of properties in piece and safety. Cioè lo

scopo del potere legislative è di consentire che si goda delle properties (dei diritti) in

pace ed in sicurezza.

Fare leggi: la prima è quella che crea il legislatore.

1) Le leggi devono essere conformi alle leggi di natura. (preservation of mankind)

2) Il legislativo è vincolato sia nel contenuto (quanto meno nei fini) che nella forma

(leggi generali, promulgate, note, etc.. applicate da giudici a ciò autorizzati).

3) Il governo non può togliere la proprietà senza consenso

4) Il potere legislativo non può delegare a terzi il proprio compito.

Si noti che Locke precisa che se è vero che il legislatore può cambiare le leggi quanto al

contenuto, non lo può fare per quel che concerne il funzionamento.

Il potere legislativo, pur essendo supremo, non è continuativo.

IL POTERE ESECUTIVO (PREROGATIVE)

La prerogativa era il potere discrezionale del re, contestato durante la guerra civile, al

termine della quale fu riformulato come il potere discrezionale del re sotto la direzione

politica del parlamento.

Locke riconosce la funzione specifica dell’esecutivo: nel dare esecuzione alle leggi con

flessibilità, mitigando le rigidità delle leggi generali ed estratte (ma solo per mitigare e

non per inasprire le sanzioni, ad esempio).

Locke definisce la prerogativa il potere di agire per l’interesse pubblico anche contra

legem.

Vizi del legislativo (rigidità, ma anche lentezza).

Locke spiega così la trasformazione della prerogativa: all’origine delle comunità politica,

magari dall’assemblaggio di poche famiglie, il governo era affidato alla saggezza di pochi,

ma con l’espansione dalla comunità, i governanti cominciarono a governare non per

l’interesse pubblico ma per il proprio interesse. Fu allora necessario introdurre un regime

di norme generali ed astratte, sebbene fosse poi egualmente necessario temperarne

l’applicazione.

Locke critica coloro che obiettano che la pretesa di sottoporre il principe a leggi generali

equivalga ad esautorare il principe. Ma ciò implica che il principe non abbia a cuore

l’interesse del proprio popolo.

Al contrario, la comunità politica si caratterizza proprio per questo:

“And indeed .. the people under his government are not a society of rational

creatures entered into a community for their mutual good, they are not to such as

to have set rulers over themselves to guard and promote that good; but are to be

looked on as a herd of inferior creatures under the dominion of a master who

keeps them and works for his own pleasure and profit. If men were so void of

reason and brutish as to enter into society upon such terms, prerogative might

indeed be what some men would have it: an arbitrary power to do things hurtful

to the people. “

Prerogative: the power to do public good without a rule.

QUALE RIMEDIO PER IL POPOLO QUALORA L’ESECUTIVO O IL

PARLAMENTO TRAVALICHINO DALLE PROPRIE COMPETENZE?

Appello al cielo. Non c’è rischio di disordine.

POLITICAL POWER: every power which every man hath in the state of nature

and which has given up into the hands to the society and therein to the governors

whom the society has set over itself (cap. XV) with the express or tacit trust that

it will be used for the good and the preservation of their property

Il potere dispotico, spiega Locke, è un potere innaturale. In quanto il desiderio di

dominio va contro la legge di natura. Nessuno può entrare in un patto con costui

(perché costui non è neanche master of his life). Tale concezione è esattamente antitetica a

quella hobbesiana dove la vanagloria e il desiderio di riconoscimento sono caratteristiche

innate: da qui la descrizione della legge di natura come lo stato di guerra di tutti contro

tutti.

Il potere paterno si esercita sui bambini e sugli incapaci; quello politico su coloro che

sono capaci e dispongono di proprietà: quello dispotico su coloro che non hanno alcuna

proprietà.

SINTESI:

ENTRAMBI UTILIZZANO LO STATO DI NATURA: ma Hobbes come parametro

negativo da cui distanziarsi e che va neutralizzato con le leggi di natura e civili e Locke

invece come parametro positivo cui riferirsi anche per la società civile.

In entrambi il diritto assume l’importanza che avrà nella cultura moderna. IN Hobbes

vengono accentuati gli aspetti formali, in Locke anche quelli sostanziali.

In entrambi però vi è un discostamento dalla tesi più diffusa nella cultura giuridica

inglese: che il governo del diritto coincide con l’indipendenza della magistratura. In

entrambi infatti il potere legislativo comincia ad assumere una posizione preminente che

manterrà fino ad oggi.

Comincia a tramontare un ideale rimasto sostanzialmente intatto nel periodo

antico e in quello medioevale: e cioè che il diritto è indipendente e autonomo dal

potere politico. Questo avviene sia in Inghilterra – con la filosofia utilitarista di

Bentham e Austin (la general jurisprudence) – che nell’Europa continentale con

l’età della codificazione.

DIRITTI SOGGETTIVI IN GROZIO E LOCKE: Genesi della concezione

patrimonialistica dei diritti soggettivi

La giustizia, si dice sin da Aristotele, è dare a ciascuno ciò che gli spetta. Il legame fra ciò

che spetta e il soggetto a cui spetta di esprime dicendo che questi ha un diritto su

qualcosa o a qualcosa, cioè un diritto soggettivo. Aristotele tuttavia non si sarebbe

sognato di parlare di diritto soggettivo. Sia nella tradizione greca che in quella romana

che in quella medioevale (almeno fino al 1300) il diritto consiste nella conformità ad un

ordine naturale – un ordine cosmico che investe uomo e natura. Il diritto non riguarda

tanto gli stati soggettivi, ma gli oggetti. Il diritto naturale è innanzitutto legge naturale.

Magari è una legge scritta nei cuori (come in Antigone) e quindi radicata nel soggetto.

Ma la peculiarità di tale legge è la conformità ad un ordine che precede (e in qualche

modo prescinde da) gli esseri umani.

Emblematico è il passo di Epitteto – filosofo stoico: “sappi che sei l’attore (prosopon) di

uno spettacolo, scelto dal direttore del teatro, breve, se lo desidera breve, lungo, se lo

desidera lungo; e se vuole che tu faccia l’accattone, devi fare bene questa parte; e lo

stesso se si tratta di uno zoppo, di un principe, di un privato cittadino. Il tuo compito

consiste nel far bene la parte che ti è stata assegnata; sceglierla, però, spetta ad un altro”.

Per Aristotele il diritto consiste nell’oggetto: o meglio in quello che noi oggi

definiremmo oggetto del diritto. Ad esempio non vi è distinzione fra restituzione di un

bene rubato (nel furto) e restituzione di un bene ricevuto in prestito. Quello che conta è

che l’ordine momentaneamente alterato sia ripristinato. Ma l’ordine è essenzialmente

oggettivo.

Il pensiero moderno si caratterizza per un radicale cambiamento di prospettiva. Al

centro del diritto non è l’ordine delle cose, ma uno stato di natura esclusivamente

umano. Al centro del diritto c’è l’uomo. E’ in questo contesto che comincia ad essere

elaborato il diritto soggettivo (Villey rintraccia la genesi del diritto soggettivo nel 1300 e

precisamente nell’opera di Guglielmo da Ockam, monaco francescano che elaborò una

teoria dell’origine volontaria del diritto in quanto contrapposta all’origine naturale del

diritto).

La storia del diritto soggettivo ha origini molto antiche, sebbene la sua formulazione va

ricercata nel periodo moderno e va di pari passo all’affermazione dell’idea che l’ordine

politico e giuridico non sono ordini naturali, ma artificiali e che tutti gli uomini sono

uguali.

La storia ha inizio con il diffondersi della convinzione che i beni della terra sono in

origine a disposizione di tutti gli uomini per le loro necessità e i loro bisogni, cioè sono

beni comuni. Questa tesi che proveniva dallo stoicismo era stata rafforzata dalla

dottrina cristiana della creazione. Dio non ha assegnato i beni a nessun in particolare, ma

li ha destinati a tutti in comune. Ciò significa che bisognava trovare un titolo legittimo

che giustificasse il possesso e l’uso personale ed esclusivo di beni di per sé comuni, non

essendo più l’ordine sociale – inteso come naturale – più l’unico possibile. Ora siccome il

mondo esterno è per così dire indiviso – almeno da un punto di vista morale – occorre

trovare qualcosa cui agganciare il senso del limite, del definito. Questo qualcosa –

almeno in origine – coincide con il proprio essere, con il suum.

La nascita del diritto soggettivo si accompagna ad una concezione moderna dell’identità

personale.

Per Ugo Grozio (1583-1645) l’io è per natura dotato di un patrimonio personale, che

egli chiamava il suum. Esso si compone di beni corporali, quali la vita stessa, il corpo e le

membra, ma anche di beni incorporali, quali la libertà, la reputazione, l’onore e le stesse

azioni proprie. Questo nucleo originario costituisce la spettanza dell’io e non può

essere violato senza commettere ingiustizia.

In altri termini: la formula della giustizia aristotelica (sia quella commutativa che quella

distributiva) presuppone un equilibrio fra posizioni: ogni posizione si contraddistingue

per la relazione fra il soggetto e ciò che spetta a quel soggetto. Se non ci fosse questo

punto di partenza non si potrebbe parlare di giustizia nei termini di equilibrio. Perché

l’equilibrio presuppone che si possa rispondere alla domanda: equilibrio fra cosa?

Occorre individuare dei punti di partenza. Se non è l’ordine naturale che ci indica il

modello da tenere in mente nel momento in cui la giustizia va ripristinata, quale modello

adottare?

Grozio suggerisce di partire dalla percezione più immediata. La percezione di sé (si noti

che questo modo di procedere era già stato intuito da Agostino nel suo dubito, ergo sum).

Grozio afferma che c’è qualcosa che ci spetta – per natura – e questo qualcosa non

attiene immediatamente ai beni del mondo ma alla propria persona. Questi beni sono

corporali (il corpo, le membra, ma anche dei beni incorporali, quali la libertà, la

reputazione, l’onore e le stesse azioni proprie). Questo nucleo originario costituisce la

spettanza dell’io, che non può essere violata senza commettere ingiustizia. Il soggetto è

dominus sui e cioè padrone di sé: ma non nel senso (contemporaneo) di una padrona

assoluta sulla propria persona (che implica anche il diritto di atti radicali di disposizione:

mi vendo un organo, o mi prostituisco). Ma come facoltà: di fare o di avere qualcosa.

Il potere che il soggetto ha su se stesso è una qualità:

Il diritto soggettivo è per Grozio la qualità che appartiene alla persona di avere

qualcosa legittimamente o di fare qualcosa con giustizia.

Il diritto dunque non è più res iusta ma qualitas moralis personae competens ad aliquis juste

habendum vel agendum. (De Jure Belli ac Pacis). Il diritto si sposta dalla natura delle cose al

potere sul soggetto. Il diritto diventa potestas.

Ma fino ad adesso siamo rimasti all’interno. Siamo padroni di noi stessi, abbiamo diritto

alla non interferenza (sul nostro corpo, sulla nostra reputazione, etc..). Ma come creare

un ponte verso l’esterno?

Risponde Grozio: Attraverso le azioni che per Grozio sono il cavallo di Troia attraverso

cui protendersi (ed espugnare) il mondo esterno.

Per conservare il suum bisogna usare beni esterni. Il corpo deve essere nutrito e l’onore si

manifesta attraverso segni esteriori. Fra le azioni, le più importanti sono le dichiarazioni

di volontà (che possono essere desunte anche per facta concludentia).

Secondo Grozio, mediante una dichiarazione di volontà, il promittente cede al

cessionario una parte della sua potestas e l’altro si appropria e l’altro si appropria di una

facultas moralis altrui, cioè della facoltà di godere e di disporre di una cosa determinata. Vi

è una vera e propria vendita della propria libertas. Ciò è possibile perché si è distinto il

suum dal sé: per cui cedendo parte della propria libertà non ci si espropria di se stessi.

Si assiste ad una progressiva soggettivizzazione del diritto ed ad una contestuale

oggettivizzazione dei contenuti del diritto: infatti, a seconda del tipo di potestas sulla cosa

si hanno diritti diversi (di proprietà, di usufrutto, etc..).

Anche se l’obiettivo fondamentale è la relazione di potere di un soggetto e l’oggetto o il

bene, ciò implica necessariamente un rapporto giuridico con soggetti passivi che sono

obbligati a riconoscere la prevalenza della volontà del titolare del diritto sul determinato

bene.

Ora, siccome ogni diritto soggettivo presuppone un dovere corrispondente (almeno

questa è l’idea dei pensatori moderni), occorre qualcosa che giustifichi il limite imposto

alla volontà altrui. Questo limite può avere due origini.

Secondo i pensatori giusnaturalisti – l’origine del limite è nell’accordo originario. Così la

potestas moralis acquisisce valore giuridico sono nella misura in cui l’ordinamento –

creato per effetto della volontà dei consociati – offra tutela giudiziaria del diritto

medesimo.

Dirà Windscheid (1817-1892) , grande romanista tedesco, che il diritto soggettivo è

potestà o signoria della volontà impartita dall’ordinamento giuridico.

Per Hobbes il diritto soggettivo è ciò che residua dalla legge civile

“Trovo presso i più dotti autori, le parole Lex Civilis e jus civile, vale a dire legge e diritto

civile, usate indifferentemente per significare la stessa cosa”. Ma dice Hobbes, diritto

equivale a libertà, e precisamente quella libertà che ci lascia la legge civile, mentre legge

civile equivale ad un’obbligazione e ci priva della libertà che la legge naturale ci diede.

John Locke elabora una teoria del diritto soggettivo radicata più che sulla volontà sul

titolo di acquisto. Col lavoro si trasformano i beni esteriori e si acquisiscono.

Sia la concezione di Grozio che quello Locke portano ad una concezione

patrimonialistica dei diritti soggettivi. Il diritto discende dall’essere proprietario di sé.

Nel corso del Novecento questa teoria è stata riformulata sotto l’etichetta della choice

theory: il diritto consiste essenzialmente nella scelta (Hart).

La teoria opposta radica il diritto soggettivo non nella volontà del titolare ma

nell’interesse. Questa teoria – elaborata da Jhering – da un lato può portare al

dissolvimento del diritto soggettivo nel diritto oggettivo (nello statalismo), ma dall’altro è

importante perché contribuisce all’idea che vi è anche nel soggetto qualcosa di

radicalmente non negoziabile: anche contro la volontà del soggetto medesimo.

DAI DIRITTI SOGGETTIVI AI DIRITTI UMANI

Esiste una continuità fra diritti soggettivi e diritti umani? Il legame fra le due categorie di

diritti è complesso. Se da un lato i diritti umani sono frutto del processo di

soggettivizzazione che ha fatto da sfondo alla pensiero politico moderno, dall’altro

tuttavia presuppongono un superamento della concezione patrimonialistica.

I diritti umani presuppongono che nel soggetto vi siano dei beni essenziali che vanno

tutelati in quanto tali e che i soggetti pubblici non possono manomettere, calpestare,

violare, etc….

Se tali diritti sono inizialmente legati alla potestas e cioè al potere, gradualmente diventerà

chiaro che il potere non si giustifica da sé e che ogniqualvolta si imponga un correlativo

dovere su qualcun altro occorre una qualche ragione che giustifichi l’imposizione.

Questo significa che avere un diritto implica due questioni:

1) Quali prerogative esso conferisce in termini di pretese soggettive (pretese

legittime, privilegi, immunità, esenzioni) e quali vincoli impone ad altri;

2) Per quali ragioni o giustificazioni qualcuno ha diritto a qualcosa

La ragione che sta dietro al diritto è ciò che spiega il contenuto e l’estensione del

diritto.

Si suole distinguere fra Moral Rights e Legal Rights: fra diritti morali e diritti legali. In

realtà si tratta di due facce della stessa medaglia. I diritti legali sono solo il

riconoscimento di diritti che sono radicati sullo statuto morale dell’essere umano.

Cap. II, paragrafo 3, Le Ragioni del Diritto

LEZIONE VII

ETA’ DELLA CODIFICAZIONE e l’Illuminismo giuridico

da G. Tarello,

All’inizio dell’Ottocento l’Illuminismo giuridico che aveva fra le altre cose ispirato le

rivoluzioni, francese ed americana, sfocia nella cd. età delle codificazioni. Si noti che

mentre in Germania l’illuminismo giuridico di Kant restò per lo più una filosofia, in

Francia le cose andarono diversamente. I rivoluzionari francesi avevano fatto tabula rasa

della cultura giuridica tradizionale, chiudendo le facoltà di diritto e procedendo a riforme

che spesso erano fallite perché troppo radicali. Ad esempio era stato introdotto il cd.

réferé legislatif: i giudici che avessero incontrato delle lacune od oscurità nelle leggi

dovevano rimettere la decisione del caso allo stesso Parlamento. L’obiettivo era di

sopprimere la discrezionalità giudiziale e specie la interpretatio e cioè l’integrazione delle

leggi da parte dei giudici. In realtà il réferé consentiva ai giudici di sbarazzarsi delle

decisioni più difficili investendone il Parlamento.

Fu Napoleone colui che si fece promotore della codificazione. Nel 1804 fu

redatto un Codice Civile la cui ossatura è rimasta pressoché inalterata fino ad oggi

(mentre la Francia ha cambiato una decina di costituzioni).

Fattori che hanno contribuito alla codificazione:

a) Superamento del particolarismo giuridico

Per particolarismo giuridico si intendono due cose: diritto differenziato per regioni anche

adiacenti (diritto romano, codice teodosiano, diritto germanico, etc..), ma anche diritto

differenziato in base agli status: ad esempio il diritto penale non prevedeva fattispecie

astratte per casi generali, ma piuttosto per categorie di persone (il divieto di caccia dei

non gentiluomini, dei contadini, etc…) (cfr. sul punto, l’idea di Waldron sulla dignità

umana); le pene erano molto differenziate, mancanza di proporzione fra offesa e

sanzione.

La complessità del sistema giuridico nuoceva ai titolari di diritti immobiliari, al ceto dei

commercianti mentre giovava agli avvocati, ai titolari di prerogative notarili, ai giudici.

“Tale interesse, viene ad accentuare, la naturale propensione al formalismo ritualistico e il naturale

conservatorismo abitudinario che sono propri dei giuristi pratici (non invece degli studiosi di diritto o dei

teorici del diritto) di ogni tempo” (p. 33).

Al contrario la scuola di teorici del diritto (anche vicini al sovrano) sono favorevoli ad

una razionalizzazione.

b) Semplificazione del diritto e codificazione borghese.

La semplificazione del diritto richiedeva tre cose: 1) che si introducessero criteri

economici nella formulazione di regole giuridiche; 2) eliminazione delle eterointegrazioni

atte a riprodurre conflitti fra sistemi di norme (sicché in nuovo diritto doveva sostituirsi

al vecchio o meglio ai vecchi); 3) che il nuovo diritto consentisse il massimo di

semplificazione.

Gli antecedenti teorici: il giusnaturalismo germanico (Pufendorf, Thomasius diffusi per

mezzo di Barbeyrac) (codificazione Prussiana – Progetto Martini); opere giuridiche

germaniche (Leibniz e Wolff); teorie giuridico-economiche francesi (Pothier Domat).

La semplificazione prevedeva la riduzione dei molteplici soggetti giuridici ad uno:

(l’uomo, chiunque, etc…) operazione che riuscì solo parzialmente nel codice prussiano

del 1794 e che invece riuscì nel Progetto Martini e poi nel Codice della Galizia. E

prevedeva altresì la riduzione dei predicati; la riduzione delle figure di reato, e delle

ipotesi di rapporti interpersonali. Si cominciò anche a porre un problema penale: e cioè a

differenziare il diritto penale da quello civile.

In Germania, la lotta condotta dalla Scuola Storica contro la codificazione era anche una

lotta contro un ceto di giuristi tecnici e politicamente irresponsabili.

La codificazione delle procedure fu possibile solo quando si percepì la giurisdizione

come una funzione separata e distinta dalle altre funzioni politiche.

Il codice napoleonico presentava dei caratteri moderni, sanciti dalle conquiste

rivoluzionarie: ad es. il soggetto unico di diritto e una disciplina della proprietà quale

diritto di godere e di disporre delle cose nella maniera più assoluta (art. 544). Dall’altro il

codice civile concepisce i rapporti familiari e di lavoro alla stregua di quelli statali, come

subordinazione dei familiari al capo famiglia e dei lavoratori al capo dell’impresa.

Per sfuggire al rischio che il codice venisse manipolato dal ceto dei giuristi, Napoleone

aveva provveduto a riorganizzare gli studi giuridici nella linea adottata dai monarchi

assoluti. La riforma napoleonica infatti mira a conferire all’università di diritto un

carattere eminentemente tecnico: le facoltà giuridiche dovevano trasformarsi in scuole

professionali, dalle quali non solo restavano escluse le materie estranee al diritto positivo,

come il diritto naturale, ma dove il diritto positivo andava insegnato in modo

catechistico – e nozionistico: seguendo pedissequamente l’ordine dei codici.

FRANCIA: SCUOLA DELL’ESEGESI

In questo contesto nasce la cd. SCUOLA DELLE ESEGESI (Mourlon,

Demolombe, Troplong): che praticava un metodo esegetico che, nel privilegiare

rigidamente l’interpretazione logico – grammaticale dei singoli enunciati normativi,

venerava in modo feticistico i testi di legge, di per sé considerati sempre sufficienti a

prevedere e regolare tutti i casi possibili dell’esperienza concreta del diritto. In tale

prospettiva l’interpretazione è mera ricognizione e riproduzione di un diritto legislativo

preesistente. Si diffuse lo stile sillogistico delle sentenze, invocato prima da Montesquieu

e Beccaria, e poi da introdotto dal ricorso di legittimità di fronte alla Corte di Cassazione.

Il diritto naturale non viene negato, ma ne viene negata rilevanza pratica (Mourlon 1852).

Le opere della Scuola dell’Esegesi si risolvono in parafrasi del codice napoleonico: sia

che assumano la forma del commentario, sia che assumano la forma del trattato. Gli

aderenti alla scuola dell’Esegesi prediligono l’interpretazione letterale ed in caso di

dubbio ricorrono all’argomento interpretativo cd. psicologico, consistente nell’attribuire

al testo il significato corrispondente all’intenzione del legislatore, accertata sulla base dei

lavori preparatori. Il massimo dell’audacia interpretativa viene raggiunto con la tecnica

del combinato disposto. Ciò con l’interpretazione di una norma alla luce non di uno ma

di due articoli.

L’art. 4 del titolo preliminare del codice napoleonico prevedeva che “il giudice che

ricuserà di giudicare allegando il silenzio, l’oscurità o l’insufficienza della legge, dovrà

risponderne come colpevole di denegata giustizia”.

L’intento dei redattori era comunque di autorizzare il giudice a trovare una soluzione:

non solo all’interno del codice (auto integrazione) ma anche all’esterno (etero integrazione).

All’interno delle facoltà di legge tuttavia si affermò il principio che non si sarebbe potuto

fare ricorso al diritto universale o all’equità o ai principi di diritto naturale, ma che la

soluzione andava ricercata esclusivamente all’interno del codice.

Si afferma dunque il dogma della completezza dell’ordinamento giuridico.

GERMANIA: SCUOLA STORICA DEL DIRITTO

In Germania, le cose vanno diversamente. Alla Scuola delle Esegesi si contrappone la

Scuola Storica del diritto che invece sostiene una posizione anti-legislativa ed assegna

alla scienza giuridica – o meglio alla dogmatica – il compito di mettere ordine nel

materiale giuridico. Savigny e Puchta espressione di queste posizioni ritengono che dal

materiale giuridico può essere desunto lo spirito del popolo. Sicché mentre nella Francia

illuminista il principio democratico va di pari passo a quello della separazione dei poteri e

della soggezione del giudice alla legge, nella Germania di Savigny l’indipendenza del ceto

dei giuristi dalla politica è la migliore garanzia di decisioni giuste e corrette. E’ verosimile

che l’ideologia della Scuola Storica sia stata influenza anche da sentimenti anti-francesi.

Carl von Savigny (1779-1861):

Savigny fu giurista ed in particolare culture del diritto romano-civile, fondatore di quella

Scuola Storica del diritto e ispiratore della corrente di studi civilistici nota come

Pandettistica. Savigny fu esponente di punta della cultura romantica ed elaborò una

concezione storicistica ed evoluzionistica del diritto in due grandi opere: un agile

opuscolo contro la codificazione e un poderoso trattato di diritto romano-civile.

1) La vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza

(1814): Con questo opuscolo Savigny scende in campo contro la proposta

avanzata da un altro grande giurista Anthon Justus Thibaut (1772-1840) il

quale in uno scritto intitolato La necessità di un diritto generale per la Germania

(1814) aveva proposta la redazione di un codice civile comune a tutta la

Germania che favorisse il processo di unificazione del paese in un unico stato

(nazionalismo tedesco). Thibaut aveva deplorato lo stato di confusione in cui

versava il diritto civile tedesco e prospettava la codificazione come antidoto

non solo alla caoticità ma anche alla natura obsoleta del metodo delle pandette

(in Germania le glosse del Corpus Iuris erano ancora il materiale da cui si

muoveva per la soluzione di casi concreti). La codificazione avrebbe dovuto

raccogliere il plauso dell’opinione pubblica tedesca in quanto solleticava l’idea

di una raccolta di leggi che rappresentasse lo spirito del popolo tedesco. E

tuttavia l’opinione pubblica tedesca dei primi dell’Ottocento era composta per

lo più da professori universitari: ceto di funzionari che specialmente dopo la

sconfitta della Prussia ad Jena ad opera di Napoleone era passato da un

illuminismo tiepido espresso nella monarchia illuminata a un romanticismo

nazionalistico e antifrancese. Dopo l’avventura napoleonica addirittura molti

stati tedeschi avevano adottato il codice napoleonico. Ed in effetti la cultura

tedesca non era ostile alla codificazione: in quanto anche l’idea romanistica del

diritto era impregnata di una concezione paralegislativa in cui il codice di

partenza era un’opera razionale. Già nella stessa Prussia di Savigny vigeva da

più di vent’anni il Diritto territoriale generale, primo dei tre grandi codici

continentali. Sicché Savigny per opporsi al progetto di Thibaut (e della Scuola

filosofica cui costui apparteneva) doveva dapprima screditare l’idea della

codificazione tout court. Poteva sembrare un’impresa disperata vista la

dimestichezza dei tedeschi ad un sistema semi-codificato. E tuttavia l’opera di

Savigny riuscì tanto che la pubblicazione del codice civile tedesco (BGB) fu

ritardata fino al 1900. La tesi di Savigny era la seguente: il diritto – proprio

come la lingua o la cultura – nascerebbe da ciò che i romantici chiamavano lo

spirito del popolo, o meglio della nazione (Volksgeist).

L’evoluzione del diritto a partire dallo spirito del popolo avverrebbe in tre fasi:

a) Nella prima fase, caratteristica delle culture orali, nelle quali non si è ancora

sviluppata la divisione del lavoro e non si è quindi ancora specializzato un ceto

di giuristi – il diritto prodotto dallo spirito del popolo verrà documentato solo

dalle consuetudini spontaneamente osservate dai consociati: si tratterebbe di

un diritto essenzialmente consuetudinario.

b) In una seconda fase, caratteristica di culture che conoscono la scrittura e la

divisione del lavoro e nelle quali si è specializzato un ceto di giuristi il diritto

verrebbe rielaborato dagli stessi giuristi e sarebbe diritto scientifico. Savigny

chiama infatti la dottrina scienza giuridica: ciò che in seguito provocherà la

discussione sulla scientificità della giurisprudenza.

c) In una terza fase, lo stesso diritto, primo documentato dalle consuetudini e

poi rielaborato dalla dottrina e dalla scienza giuridica, verrebbe riformulato in

leggi e codici e diventerebbe legislativo. Questa fase sarebbe, tuttavia, una

fase di decadenza: la vera fioritura del diritto, per Savigny, si ha quando esso

viene elaborato da giuristi. Il diritto romano si era evoluto secondo questo

schema: mores maiorum (le consuetudini dei padri); iurisprudentia (la fioritura della

dottrina) e infine la fase di decadenza rappresentata dal Corpus Iuris civili – di

cui non a caso si utilizzavano il Digesto o Pandectae (raccolta di frammenti di

giurisprudenza).

La concezione di Savigny è giuspositivista ed giusevoluzionista: ma

l’evoluzione non è impressa da alcuna intenzione del legislatore. Il diritto si

evolve per una sua dinamica interna che tuttavia va colta dal giurista. Sicché

mentre l’Inghilterra assegna un ruolo centrale al giudice (Lord Coke,

Blackstone), la Francia al legislatore (Codice Napoleone, la Scuola

dell’Esegesi), la Germania di Savigny prospetta la centralità del giurista e

ribadisce l’autonomia del diritto dalla politica (tema oggi ripreso dai

necostitutionalisti).

Nella sua seconda grande opera: Sistema del diritto romano attuale (1840-49)

Savigny assume un atteggiamento più magnanimo nei confronti della Scuola

Filosofica. Si noti che Savigny divenne, per ironia della sorte, ministro della

legislazione del governo Prussiano.

L’elaborazione dottrinale principale riguarda il concetto di Sistema: il termine

latino nel corso del Seicento aveva designato le diverse sistematiche, o

sistemazioni dottrinali del diritto: l’ordine razionale che al diritto veniva

attribuito da parte dei giuristi e dei filosofi. In questa concezione il sistema,

chiamato sistema esterno, il diritto non è sistematico, ma la sistematicità viene ad

esso attribuito dai giuristi. La posizione di Savigny si discosta gradualmente da

questa posizione e Savigny elabora l’idea del sistema interno: L’ordine razionale e

sistematico del diritto comincia ad essere attribuito al diritto in se stesso. Nel

Sistema del diritto romano attuale si trovano due argomenti per l’intrinseca

sistematicità del diritto: logico e organico. In base agli argomenti di tipo

logico, il diritto è un sistema di concetti o di proposizioni dottrinali; in base

agli argomenti di tipo organico, il diritto è un sistema di comportamenti e di

rapporti sociali. Fra i due sistemi vi è un nesso assai stresso: l’ordine

superficiale dei concetti è solo il riflesso dell’ordine profondo dei

comportamenti.

Queste le tappe obbligate del procedimento interpretativo:

a) Elemento grammaticale, che considera le parole del testo da interpretare

come il mezzo necessario per raggiungere l’intenzione della legge

b) L’elemento logico

c) L’elemento storico

d) L’elemento sistematico.

L’enfasi sulla sistematicità del diritto verrà poi posto dalla Pandettistica

successiva a Savigny – che i movimenti anti-formalisti ribattezzeranno

giurisprudenza dei concetti. Né la Pandettistica, né la teoria generale

torneranno al sistema esterno dei giusrazionalisti: essi daranno per scontata la

sistematicità interna del diritto di Savigny.

A partire da Savigny il diritto verrà concepito come sistema, unitario,

coerente, completo: unità, coerenza e completezza che potrebbero

essere intrinsecamente colte né dal legislatore, né dal giudice, ma solo

dottrina giuridica.

Savigny prospetta un rapporto fra diritto e politica in termini opposti rispetto

agli Esegeti francesi e all’utilitarismo inglese. Questi due ultimi movimenti

predicavano la subordinazione del diritto alla politica . sul presupposto che la

politica fosse più razionale e lungimirante del ceto dei giuristi incancrenito dai

propri privilegi e imbrigliato nelle proprie logiche oscure (guadagnare di più,

rendere la legge più oscura di quella che è, etc…), Savigny prospetta un

modello opposto che è quello della autonomia del diritto della politica:

modello già caro alla tradizione medioevale transitata nella tradizione di

common law di cui Lord Coke e Blackstone erano espressione. Il tema verrà

ripreso oggi dai neocostituzionalisti.

Si noti che sia la Scuola dell’Esegesi che la Scuola Storia insistono sul metodo

interpretativo: metodo tipicamente giuridico. L’interpretazione è innanzitutto una

tecnica.

Il Metodo logico-gramaticale è quello prediletto dalla Scuola dell’Esegesi. Si tratta di un

metodo che si articola nell’interpretazione letterale e al più nella ricostruzione della

norma a partire dal combinato disposto, e che declina la decisione giudiziale in termini

di sillogismo logico deduttivo. La logica formale è il paradigma a cui questo modello si

ispira.

I movimenti formalisti continuarono a riferirsi a questo modello interpretativo,

ricostruendo l’attività giudiziale come un’attività ricognitiva e non creativa e, da un punto

di vista teorico politico, ribadendo la sottomissione del giudice alla legge.

PANDETTISTICA

Nel suo sviluppo la storia storica andò accentuando sempre di più l’aspetto sistematico,

dogmatico e scientifico, fino a sfociare nella Pandettistica e nella Giurisprudenza dei

Concetti. Il risultato fu il formalismo giuridico e la tendenza dogmatizzante della scienza

del diritto, l’allontanamento da una visione propriamente storica e il distacco fra teoria e

pratica giuridica.

Il compito dello scienziato del diritto consiste adesso nel reperimento di principi guida

da cui si deduce l’intero sistema giuridico. Colui che sviluppò queste intuizioni – già

presenti in Savigny – fu F. Puchta. Il Pandettista tedesco, oltre a continuare l’opera di

formalizzazione delle Pandette, avanzò la convinzione che il giurista crea diritto valido: il

diritto scaturito dalla scienza si pone al pari livello del diritto scaturito dalla coscienza

popolare (per via consuetudinaria o per via legislativa).

Sia la Scuola delle Esegesi che la Scuola Storica finiscono per riconoscere scientificità

piena alla scienza giuridica. Entrambe le scuole vedono nel diritto un sistema chiuso,

formale, conoscibile e razionale.

Dal concetto di diritto così delineato nel corso dell’Ottocento si muoveranno due

orientamenti contrapposti.

Da un lato il formalismo che culminerà con Hans Kelsen e dall’altro l’antiformalismo, la

scuola del diritto libero, la giurisprudenza degli interessi di Jhering e la teoria marxista del

diritto.