LEZIONE DI MALATTIE CARDIOVASCOLARI DEL 25/03/2015...

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LEZIONE DI MALATTIE CARDIOVASCOLARI DEL 25/03/2015 Prof. Careri [Il prof inizia con la sua presentazione, che ritengo superfluo inserire.] CARDIOPATIA ISCHEMICA Noi oggi facciamo un argomento molto importante, che è la CARDIOPATIA ISCHEMICA. La cardiopatia ischemica è una delle cardiopatie più importanti a livello mondiale e, guarda caso, soprattutto nel mondo industrializzato, che noi identifichiamo come mondo occidentale. Alla base della cardiopatia ischemica, nella maggioranza dei casi, c’è un problema di tipo aterosclerotico, c’è un’aterosclerosi dei vasi arteriosi. Definizione Adesso cominciamo a fare il nostro cammino su questa lezione, cominciando dalla definizione: per cardiopatia ischemica si definisce uno spettro di malattie, che hanno una diversa eziologia, che poi vedremo, in cui il fattore fisiopatologico unificante è rappresentato da uno squilibrio tra la richiesta metabolica del miocardio e l’apporto di ossigeno al tessuto stesso. Questo è un dato estremamente importante, perché vedremo che alla base del processo dell’ischemia miocardica, c’è questo squilibrio tra richiesta e offerta. Effetti Questo squilibrio ha degli effetti estremamente importanti, che sono innanzitutto: 1. delle alterazioni a livello dell’attività elettrica: il cuore, per potersi eccitare normalmente, quindi per potersi depolarizzare, deve avere una certa quantità di ossigeno, se no non riesce a farlo. 2. Nello stesso tempo, per avere una buona contrazione, deve avere ovviamente un buon apporto di ossigeno, se no il cuore non riesce a contrarsi bene [alterazione meccanica]. Quindi la riduzione dell’apporto di ossigeno comporta delle alterazioni elettriche e delle alterazioni meccaniche. Dati statistici In Italia, le malattie cardiovascolari sono causa di circa il 50% della mortalità globale. Noi siamo molto impressionati, giustamente, dai mass media quando parlano di altre cause di morte, però le malattie cardiache rappresentano il 50% di tutte le morti e questo ovviamente ci deve far riflettere, perché probabilmente molte di queste possiamo anche evitarle, facendo una prevenzione di quella che, nel caso della cardiopatia ischemica, è la causa principale, ossia l’aterosclerosi. Nell’ambito delle morti cardiache, che rappresentano il 50% [della mortalità globale], la cardiopatia ischemica, da sola, rappresenta il 35%. Quindi una grossa fetta delle morti per cause

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LEZIONE DI MALATTIE CARDIOVASCOLARI DEL 25/03/2015

Prof. Careri

[Il prof inizia con la sua presentazione, che ritengo superfluo inserire.]

CARDIOPATIA ISCHEMICA

Noi oggi facciamo un argomento molto importante, che è la CARDIOPATIA ISCHEMICA.

La cardiopatia ischemica è una delle cardiopatie più importanti a livello mondiale e, guarda caso,

soprattutto nel mondo industrializzato, che noi identifichiamo come mondo occidentale. Alla base

della cardiopatia ischemica, nella maggioranza dei casi, c’è un problema di tipo aterosclerotico, c’è

un’aterosclerosi dei vasi arteriosi.

Definizione

Adesso cominciamo a fare il nostro cammino su questa lezione, cominciando dalla definizione:

per cardiopatia ischemica si definisce uno spettro di malattie, che hanno una diversa eziologia, che

poi vedremo, in cui il fattore fisiopatologico unificante è rappresentato da uno squilibrio tra la

richiesta metabolica del miocardio e l’apporto di ossigeno al tessuto stesso.

Questo è un dato estremamente importante, perché vedremo che alla base del processo

dell’ischemia miocardica, c’è questo squilibrio tra richiesta e offerta.

Effetti

Questo squilibrio ha degli effetti estremamente importanti, che sono innanzitutto:

1. delle alterazioni a livello dell’attività elettrica: il cuore, per potersi eccitare normalmente, quindi

per potersi depolarizzare, deve avere una certa quantità di ossigeno, se no non riesce a farlo.

2. Nello stesso tempo, per avere una buona contrazione, deve avere ovviamente un buon apporto

di ossigeno, se no il cuore non riesce a contrarsi bene [alterazione meccanica].

Quindi la riduzione dell’apporto di ossigeno comporta delle alterazioni elettriche e delle alterazioni

meccaniche.

Dati statistici

In Italia, le malattie cardiovascolari sono causa di circa il 50% della mortalità globale. Noi siamo

molto impressionati, giustamente, dai mass media quando parlano di altre cause di morte, però le

malattie cardiache rappresentano il 50% di tutte le morti e questo ovviamente ci deve far

riflettere, perché probabilmente molte di queste possiamo anche evitarle, facendo una

prevenzione di quella che, nel caso della cardiopatia ischemica, è la causa principale, ossia

l’aterosclerosi.

Nell’ambito delle morti cardiache, che rappresentano il 50% [della mortalità globale], la

cardiopatia ischemica, da sola, rappresenta il 35%. Quindi una grossa fetta delle morti per cause

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cardiache sono legate [ meglio: è attribuibile] alla cardiopatia ischemica.

Si stima che la mortalità annuale per le forme limite [? Critiche? REC 9.22] di cardiopatia

ischemica, sia tra i 70.000 e gli 80.000 casi e questo solamente in Italia. Vi renderete conto che c’è

ancora un grosso [meglio: alto] tasso di mortalità.

Dal punto di vista eziologico, l’aterosclerosi coronarica è la causa più frequente. Possiamo dire che

dal punto di vista pratico rappresenta, nel 99% dei casi, la causa che noi vediamo nel quotidiano.

Fattori di rischio per la malattia coronarica

Numerosi studi epidemiologici hanno dimostrato che ci sono ovviamente delle variabili individuali

che sono collegate con l’aterosclerosi e questi fattori individuali vengono chiamate FATTORI DI

RISCHIO per la malattia aterosclerotica o malattia coronarica. Questi fattori di rischio per la

malattia coronarica li possiamo dividere in tre grossi gruppi:

1. Fattori di rischio non modificabili

2. Fattori di rischio parzialmente modificabili

3. Fattori di rischio modificabili

1. Fattori di rischio non modificabili: sono l’età, il sesso, che non si possono modificare (adesso si

può fare l’intervento, ma il sesso è sempre quello), i fattori genetici e la familiarità. Ognuno di noi

è la sintesi di papà e mamma, ci portiamo dietro i geni, una parte della mamma ed una parte del

papà e ci portiamo dietro sia i geni buoni che i geni non buoni e, come saprete dalla genetica,

alcune volte si può saltare qualche generazione e portarsi dietro qualche tara di qualche antenato,

se c’è la combinazione di [… REC 11.45].

Quindi la familiarità diventa il pilastro non solo della cardiopatia ischemica, ma di tutte le malattie

che sono trasmesse geneticamente e la cardiopatia ischemica, e nella fattispecie l’aterosclerosi, è

una di queste.

[Si può parlare di ] storie personali, perché ci sono persone, per esempio, che si ammalano

precocemente di aterosclerosi, avendo una piccola quantità di fattori di rischio, e persone che

hanno più fattori di rischio che invece si ammalano molto tardivamente. La storia personale di

malattie cardiovascolari è anche questa un’analisi molto importante.

2. Fattori di rischio parzialmente modificabili: sono l’ipertensione, il diabete, l’ipercolesterolemia e

l’obesità. Perché sono parzialmente modificabili? Perché uno può dire “io prendo la pillola, quindi

posso curarmi”, ma molte volte, pur prendendo [meglio: seguendo] la terapia medica in maniera

appropriata, non c’è un controllo ottimale di questo[? questa condizione REC 12.51], ecco perché il

termine di parzialmente modificabile.

3. Fattori di rischio modificabili: sono il fumo, perché se io smetto ovviamente riesco a togliere

completamente questo fattore di rischio. Lo stesso dicasi per [? REC 13.06]. C’è da dire che uno

che ha fumato per molto tempo e smette di fumare, chiaramente ha risolto il problema per

l’aggravamento, ma purtroppo spesso il danno è irreversibile e rimane anche con la sospensione

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del fumo. Però è chiaro che questo non giustifica il fatto di dover continuare a fumare, perché

continuando, i danni, se presenti, si aggiungono a quelli che si sono generati fino a quel momento.

Elementi peculiari della cardiopatia ischemica

Sono l’ischemia miocardica, l’alterazione segmentaria delle alterazioni della meccanica cardiaca (e

poi vedremo per quale motivo) e l’espressività clinica del danno miocardico, che noi valutiamo sia

effettuando degli esami emato-chimici, sostanzialmente i markers del danno miocardico, sia con

l’elettrocardiogramma, sia con l’eco o con altre metodiche di imaging.

Manifestazioni cliniche della cardiopatia ischemica

C’è l’arresto cardiaco primario, che è quello che evolve molto rapidamente, verso la morte

improvvisa, in assenza di manovre rianimatorie, o quando la rianimazione cardio-respiratoria è

inefficace. Cioè classicamente l’arresto cardiaco primario, purtroppo ancora oggi molto frequente,

è quello che succede spesso a casa: il paziente ha il dolore, non c’è il tempo che arrivi l’ambulanza

o l’equipe medica ed il paziente muore improvvisamente. Questo è un arresto cardiaco primario,

che è su base ischemica, a meno che il paziente non avesse delle cardiopatie o altre patologie, che

possano giustificare [? l’arresto cardiaco REC 16.08].

Poi abbiamo l’angina pectoris, che è legata ad uno squilibrio tra la domanda e l’offerta di ossigeno.

L’ischemia, nell’angina pectoris, è reversibile e non provoca il danno miocardico, non provoca la

morte della cellula miocardica, perché quest’ischemia è transitoria, cioè dura un periodo molto

breve, che non causa il danno miocardico irreversibile.

Poi abbiamo l’infarto, anch’esso legato ad un fatto ischemico, che però è protratto nel tempo e

quindi, se non curato subito, dà la morte cellulare.

Quindi la differenza tra l’angina è l’infarto è di tipo fisiopatologico, ma clinicamente [la differenza

si ha] dal punto di vista temporale: l’angina [provoca] un dolore che passa precocemente, mentre

l’infarto [provoca] un dolore prolungato nel tempo, che è legato ad un’occlusione di un’arteria

coronarica e, se non viene subito trattato, ovviamente determina la morte della cellula e quindi

tutto ciò che ne consegue.

Poi abbiamo lo scompenso cardiaco e le aritmie: lo scompenso è ovviamente legato ad una

compromissione della funzione del cuore su base ischemica e può determinare quel quadro clinico

(di cui parleremo lunedì prossimo) che comporta un’alterazione della funzione sistolica e diastolica

del cuore e poi le aritmie, che sono su base ischemica molte volte, e che possono provocare

l’arresto cardiaco primario.

Studente: nell’arresto cardiaco primario dev’essere colpito sempre il tessuto di conduzione?

Prof: No, non necessariamente, dev’essere colpito il miocardio comune, poi si creano dei rientri,

cioè si verifica un sovvertimento dell’attività elettrica del cuore e quindi questo può causare la

comparsa di un’aritmia ventricolare maggiore, tipo fibrillazione ventricolare [… REC 18.54] che

comporta un arresto cardiaco.

Studente: Quindi professore nell’infarto c’è necrosi del tessuto, che non si contrae più, quindi c’è

la fibrillazione ventricolare?

Prof: Sì. Diciamo che la fibrillazione ventricolare è una delle complicanze, anche precoci,

dell’infarto miocardico. Tant’è vero che molti pazienti che si ricoverano da noi in unità coronarica,

per infarto, molti di questi morivano precocemente [… REC 19.18], ma fibrillando “in un ambiente

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protetto” subito si fa la defibrillazione. Se quello stesso episodio si fosse verificato a casa,

ovviamente sarebbe morto, perché di fibrillazione ventricolare si muore, se non si riesce a fare una

rianimazione adeguata.

Studente: Sulla base dell’arresto cardiaco, c’è sempre un fatto elettrico prima, oppure c’è proprio

una perdita…[interrotto dal professore]

Prof: Questo caso, di arresto cardiaco primario, è sempre legato ad un’alterazione dell’attività

elettrica del cuore, nella fattispecie un’aritmia ventricolare, cosiddetta tachicardico-ipercinetica,

secondo una vecchia classificazione, con attività elettrica totalmente disincronizzata, qual è la

fibrillazione ventricolare, che comporta, dal punto di vista meccanico, una paralisi [… REC 20.14.

Dovrebbe comportare una paralisi del tessuto contrattile del miocardio ventricolare], in maniera

assolutamente irregolare.

Anatomia e fisiologia del circolo coronarico

Per capire bene l’ischemia miocardica, dobbiamo parlare un pò dell’anatomia e della fisiologia del

circolo coronarico.

Le coronarie sono due: coronaria destra e coronaria sinistra. La coronaria sinistra origina dal seno

di Valsalva coronarico sinistro, mentre la coronaria destra [origina] dal seno di Valsalva coronarico

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destro. Poi abbiamo un terzo seno di Valsalva, che è non coronarico, perché teoricamente da lì, a

meno che non ci siano anomalie congenite, non origina nessuna coronaria, quindi si chiama non

coronarico per questo.

-La coronaria sinistra, a sua volta, si divide in dei grossi rami: si estrinseca in un tronco comune,

che a sua volta poi si biforca, dando origine alla discendente anteriore, che decorre sul solco

interventricolare anteriore, e l’arteria circonflessa, che decorre nel solco atrio-ventricolare. La

discendente anteriore irrora la parete anteriore del cuore, il setto interventricolare, invece la

circonflessa [irrora] prevalentemente la parete laterale del cuore.

-La coronaria destra, che inizialmente decorre anch’essa sul solco atrio-ventricolare della parte

opposta, poi dà origine alla discendente posteriore, che decorre nel solco interventricolare

posteriore ed irrora la parete inferiore del cuore.

Questa distribuzione delle arterie coronariche è molto importante per noi cardiologi, perché

sappiamo che l’arteria discendente anteriore è quella che irrora una maggiore massa miocardica

del ventricolo sinistro e quindi diventa anche l’arteria più attenzionata dal punto di vista

fisiopatologico, anche se tutte le arterie [coronariche] sono tutte molto importanti. Vi rendete

conto che, se noi abbiamo un’alterazione a livello del tronco comune, diventa per noi un’urgenza,

se non emergenza, cercare di rivascolarizzare subito questo paziente, perché se si dovesse

chiudere il tronco comune, gran parte del ventricolo sinistro, parete anteriore, parete laterale si

fermerebbe e quindi il paziente avrebbe un infarto devastante, con grosse [… REC 23.55].

Studente: ma si può chiamare anche intraventricolare [si riferisce all’arteria discendente

anteriore]?

Prof: sì, anche intraventricolare, ma noi, dal punto di vista clinico, ce lo siamo dimenticati questo

termine [non sono certa abbia detto “questo termine”, ma il senso credo sia questo], cioè [… REC

24.06 immagino che il senso fosse che ormai non si chiama più intraventricolare, ma si usa solo

discendente anteriore, che ribadisce pure subito dopo]. Il termine corretto, usato ormai

comunemente, è arteria discendente anteriore e arteria discendente posteriore.

Un altro dato che voi dovete sapere è che, in condizioni basali, il cuore è molto avido, cioè

consuma molto ossigeno. Se c’è ossigeno, il cuore che tipo di substrato metabolico utilizza? Usa i

lipidi, ed ecco perché ha bisogno di molto ossigeno, perché guardate che dispendio energetico che

c’ha: al cuore, per contrarsi, serve una pompa che dura tutta la vita, quindi per tutto il nostro

periodo [di vita] il cuore deve battere e questo comporta circa il 75% del consumo di ossigeno

[quindi credo si riferisca all’attività meccanica, contrattile, del cuore]; un’altra quantità, circa il 3-

5%, per l’attività elettrica del cuore, per la sua depolarizzazione e ripolarizzazione; poi il 20% per il

mantenimento dell’integrità delle cellule. Il dato importante è che l’estrazione miocardica di

ossigeno del cuore, in condizioni basali, è già molto alta: in questo momento i vostri cuori stanno

estraendo dal circolo coronarico circa il 70-75% dell’ossigeno. Quindi questo vuol dire che se voi

fate una corsa e aumenta la frequenza cardiaca, aumenta la pressione arteriosa, quindi aumenta

notevolmente il consumo miocardico di ossigeno, aumenta la richiesta di ossigeno da parte del

cuore, il meccanismo non è più l’estrazione di ossigeno dal sangue, perché è già massimale in

condizioni basali, 70-80%, cioè solo un 20% resta e non sarebbe sufficiente il 20% per poter

soddisfare un incremento del fabbisogno di ossigeno, legato alla tachicardia ed all’aumento della

pressione, quindi il meccanismo fisiologico è che queste coronarie devono vasodilatarsi, devono

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portare più sangue, perché portando più sangue, portano più ossigeno e quindi il cuore può

ricevere l’ossigeno. Quindi vasodilatazione delle coronarie, che si chiama riserva coronarica.

Quindi il nostro circolo coronarico deve avere una buona riserva coronarica, per poter soddisfare

l’incremento della richiesta del miocardio di ossigeno, quando ce n’è bisogno.

Sappiamo anche che questa riserva coronarica, normalmente, dev’essere almeno il doppio di

quella che è la vasodilatazione [… REC 27.33] almeno il doppio rispetto a quella basale.

Vi faccio vedere quest’esempio [riferendosi ad un’immagine che purtroppo non ho]: questa è una

riserva coronarica valutata con ecocardiografia transtoracica. Questo che vedete, sulla vostra

sinistra, è il flusso coronarico sulla discendente anteriore o intraventricolare anteriore, come si

chiamava una volta. Vedete che c’è questo flusso qui e questo qui: questo è un doppler, che ci

permette l’analisi spettrale delle velocità del sangue, sistolica e diastolica. Qui ci abbiamo questa

curvetta e qui quest’altra curvetta. Queste sono le velocità espresse in m/s, normalmente qui sono

circa 30 cm/s, e qui sono meno di 10 cm/s. questa curvetta e quest’altra curvetta testimoniano

che c’è un flusso di sangue, dove noi siamo andati a mappare la discendente anteriore, che hanno

delle velocità diverse, non solo, ma la durata della seconda curva è molto più ampia.

Allora, se torniamo alla fisiologia del circolo coronarico, noi possiamo capire bene la morfologia di

queste due curve: la prima curva in quale fase del ciclo cardiaco si colloca? È una curva sistolica: la

sistole dura meno della diastole, quindi già la durata ci può aiutare, ma se andiamo a vedere l’ECG,

questa è la fase sistolica e la curva coincide con la fase sistolica, quindi quella è la sistolica. Mentre

questa, che comincia alla fine dell’onda T [?] e dura fino all’altro QRS, quindi questa è la fase

diastolica, quindi è la curva diastolica. Quindi noi abbiamo un dato fondamentale, che le velocità

diastoliche, nella discendente anteriore, sono più ampie di quelle sistoliche. Questo è un dato che

è assolutamente spiegato dalla fisiologia, perché la coronaria sinistra si riempie prevalentemente

di [… REC 30.24] quando il cuore si rilascia, quindi quando la tensione tra [… REC 30.28] si abbassa,

quindi le arterie [… REC 30.34] non sono meccanicamente compresse e quindi c’è minore

resistenza a livello delle arterie perforanti intramiocardiche e quindi la velocità è maggiore

[ragazzi scusate, ma quest’ultimo periodo è abbastanza lacunoso, perché si sentiva troppo piano la

voce].

Cosa succede se facciamo un farmaco vasodilatatore coronarico? In questo caso abbiamo fatto

l’adenosina o il dipiridamolo. L’adenosina è un potente vasodilatatore a livello delle arteriole di

resistenza delle arterie coronariche e la velocità diastolica aumenta in maniera significativa, si

raddoppia, anzi più che si raddoppia, in questo caso. Questo vuol dire che c’è una buona

vasodilatazione del letto coronarico e quindi c’è una buona riserva coronarica, che la valutiamo

come la velocità, dopo la somministrazione del farmaco, diviso la velocità, in condizioni basali, e

questa divisione dev’essere maggiore di 2.

Riserva Coronarica:

velocità (dopo somministrazione farmaco) / velocità (in condizioni basali) = > 2

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Se abbiamo una riserva coronarica sopra 2, significa che il circolo coronarico ha una buona

capacità di adattamento al farmaco o all’esercizio fisico, se l’avessimo fatto durante l’esercizio

fisico.

Questo è quello che possiamo noi oggi in clinica, questa è la discendente anteriore, questo è il

trasduttore, quasi alla punta del cuore, e questa è la discendente anteriore come noi la

visualizziamo con l' ecocardiogramma colordoppler. Possiamo anche studiare la coronaria

destra,anche qui si visualizza molto bene in fase diastolica. E questo è quello che possiamo fare

con l'analisi spettrale: flusso basale, questa è la velocità diastolica dopo dipiridamolo, guardate il

flusso come aumenta, la velocità aumenta in maniera significativa, con un CFR (riserva di flusso

coronarico) di 2,5. Quindi sono dati che possiamo ricavare routinariamente. Prima bisognava fare

un sacco di cose, mentre oggi non invasivamente, con un paziente che in 15- 20 minuti [ ...REC

33.40].

I fattori che regolano il circolo coronarico sono sostanzialmente anatomici, meccanici, neurogeni

e metabolici.

Anatomici: l'anatomia dell'origine dai seni di Valsalva, lo spessore del ventricolo sinistro e la

presenza di circoli collaterali.

Meccanici: la compressione sistolica che i rami coronarici hanno durante la fase della contrazione

[... REC 34.24]. Poi la viscosità ematica è estremamente importante e anche le resistenze vascolari.

Neurogeni: sono mediati dai recettori alfa e beta2

Metabolici: soprattutto adenosina, prostaglandine e [... REC 34.44].

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Se andiamo a vedere la regolazione anatomica ed i fattori anatomici, dobbiamo distinguere le

arterie coronariche in due grossi tipi: i vasi di conduttanza e i vasi di resistenza.

I vasi di conduttanza sono i vasi coronarici grossi, quelli che decorrono sulla superficie del cuore,

sono quelli sottoposti ad un controllo soprattutto di tipo recettoriale, beta o alfa-recettoriale.

Poi abbiamo i vasi di resistenza, che sono quelli che entrano dentro il muscolo cardiaco e dalla

discendente anteriore originano tanti rami settali, che sono i rami che dalla superficie epicardica

del cuore entrano nel muscolo e portano il sangue al muscolo, quindi sono i vasi perforanti, i quali

sono chiamati anche vasi di resistenza e che sono sottoposti alla regolazione metabolica e alla

regolazione meccanica.

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Tra i fattori metabolici abbiamo detto soprattutto l’adenosina, ma non è l’unica sostanza, c’è

anche l’attività del nitrossido, che è molto importante, che ha un’azione vasodilatatrice

significativa. L’adenosina ha un’azione vasodilatatrice, perché antagonizza l’ingresso del calcio

all’interno delle cellule muscolari lisce dei vasi e quindi determina una vasodilatazione.

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Questa è la regolazione meccanica [fa riferimento alle curve dell’immagine soprastante]: le

depressioni che il ventricolo destro sviluppa durante la fase sistolica secondo voi sono uguali a

quelle del sinistro? Lavorano a pressioni uguali o il ventricolo destro lavora a pressioni minori

rispetto al sinistro? Il ventricolo destro lavora a pressioni minori. Qual è la pressione che

fisiologicamente il ventricolo destro sviluppa durante la fase sistolica, in un soggetto senza

ipertensione polmonare? La pressione sistolica polmonare normale è intorno a 20-30mmHg. La

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pressione protodiastolica del ventricolo destro è intorno allo zero e scende anche sotto lo zero.

Questo vuol dire che il ventricolo destro, rispetto al sinistro, lavora con pressioni molto più alte

[certamente ha avuto un lapsus: chiaramente è il sinistro che lavora con pressioni molto più alte

rispetto al destro] (120 di sistolica in condizioni normali, ma se uno è iperteso anche 220-230, così

come la pressione diastolica è molto più alta rispetto al ventricolo destro). Quindi, intuitivamente,

il riempimento della coronaria destra è diverso da quello della coronaria sinistra: se noi abbiamo

una sistole con pressioni molto più basse, probabilmente il riempimento della coronaria destra

non è solo diastolico, ma anche sistolico, a differenza della coronaria sinistra, in cui c’è una forza di

contrazione maggiore, per cui c’è un effetto spremitura sui vasi pericardici, quindi i vasi non

possono riempirsi in fase sistolica. Vedete [riferendosi alle curve dell’immagine] che la coronaria

destra sia in sistole che in diastole si riempie, i due flussi sono entrambi anterogradi, quindi ci sono

velocità uguali, perché l’effetto meccanico del ventricolo destro sulle arterie di resistenza

coronarica, quindi in quelle intramiocardiche, è molto basso, perché sviluppa una pressione bassa

e quindi manca l’effetto spremitura sulle coronarie, che è proprio, invece, del ventricolo sinistro.

Nell’altra sistole la velocità anterograda è molto più bassa rispetto a quella diastolica.

Studente: “Perché non si riempie di più il ventricolo sinistro se lavora di più?"

Prof: Giustissima osservazione. Madre Natura non fa nulla per caso, perché, anche se si riempie

meno in sistole, la diastole compensa abbondantemente, quindi la coronaria alla fine si riempie

tanto quanto quella destra. Il problema fondamentale è quando si ha una patologia, perché nel caso di

una tachicardia sto parlando di una sinusale), ossia una frequenza cardiaca oltre 100 battiti al minuto

(120/130), succede che la diastole si accorcia, perché aumenta la frequenza cardiaca, la sistole è talmente

corta che non si può accorciare più di tanto, si può accorciare solo poco, quindi si riduce il riempimento

diastolico e si riduce il riempimento coronarico ed in corso di patologia il problema si crea subito.

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Fattori neurogeni: I beta recettori, a livello coronarico, sono vasodilatatori.

Patologia del circolo coronarico

Lasciamo la fisiologia ed entriamo nella patologia: alla base della cardiopatia ischemica c’è l’aterosclerosi

coronarica, che è una malattia che dura tutta la vita, non è una malattia che colpisce gli individui dai 40

anni in su. E’ una malattia che già inizia nella prima decade, fra la prima e la seconda decade ci giochiamo il

nostro futuro, ecco perché la prevenzione delle malattie cardio-vascolari dovrebbe essere fatta già all’asilo.

Fra la prima e la seconda decade già si formano delle alterazioni a livello del complesso intima media,

soprattutto se ovviamente ci sono delle abitudini alimentari sbagliate , se ci sono i fattori genetici

predisponenti che poi possono andare avanti e realizzarsi nella placca ateromasica. È stato fatto uno studio

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autoptico, ormai tanti anni fa, sui marines americani, che erano deceduti durante la guerra in Vietnam, la

cui età media è fra i 22/23 anni. Dall’autopsia si evince che i marines avevano tutti le strie lipidiche

coronariche, avevano già cumuli di grasso, visibili dal punto di vista autoptico, nell’arteria coronarica.

Questo dipende dall’alimentazione, dallo stress, ma soprattutto ci dà un messaggio importante, ossia che,

già a vent’anni, si può cominciare ad avere questo problema, tecnicamente silente, che si manifesterà a 50

anni, ma proprio nella fase silente dobbiamo intervenire.

La placca aterosclerotica in questo caso, si può anche rompere, la placca diventa sempre più grossa,

ostruisce il lume coronarico e alla fine si può complicare con la rottura, rottura che dà formazione del

trombo e quindi l’occlusione completa del vaso, e quindi ovviamente la mancanza di reflusso coronarico.

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Riferendosi all’immagine soprastante: questa è una coronaria normale, questa è la placca aterosclerotica

che occlude il lume, cioè l’interno del vaso, di oltre il 75%, quindi è una placca critica, perché le placche

superiori al 70% vengono chiamate “critiche”, quelle inferiori al 50% sono chiamate placche “non critiche”.

Però noi possiamo trovarci di fronte ad una placca stenosante inferiore al 50% ed avere un momento

funzionale, che sarebbe lo spasmo coronarico, e nonostante questa placca basalmente riduca il lume del

50%, se c’è uno spasmo sovrapposto, si avrà un’ostruzione significativa, perché abbiamo due componenti,

cioè la componente organica e quella inorganica.

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Voi dovete sapere una cosa: la cardiologia, in questi ultimi 30 anni, ha avuto uno sviluppo incredibile, credo

sia una delle branche della medicina in generale che avuto lo sviluppo maggiore, insieme a qualche altra.

Siamo passati da mortalità elevatissime a mortalità bassissime, c’è stato uno sviluppo incredibile ed io

credo che ci sarà ancora molto da fare e ci saranno molte soddisfazioni, sia per noi professionisti, ma

soprattutto per i pazienti.

[Riferendosi ad un video proiettato a lezione]Questa è una tecnica, che si chiama IVUS [Ecografia intra-

coronarica], che ci dà la possibilità di studiare con un catetere che ha in punta un cristallo piezoelettrico

[La piezoelettricità è la proprietà di alcuni materiali cristallini di polarizzarsi generando una differenza di

potenziale quando sono soggetti ad una deformazione meccanica (effetto piezoelettrico diretto) e al

tempo stesso di deformarsi in maniera elastica quando sono attraversati da corrente (effetto piezoelettrico

inverso o effetto Lippmann). Fonte: Wikipedia] e ci permette di fare un’ecografia intra-coronarica. Questo

è il catetere che mettiamo dentro la coronaria, questo è un fascio di ultrasuoni, che ruota a 360°, perché c’è

un rotore, e ci permette di vedere bene la parete del vaso. L’arteria coronarica è apparentemente indenne,

non c’è stenosi, facciamo l’IVUS e vediamo invece una placca coronarica che è circolare, per cui non

riusciamo a vederla con la coronarografia tradizionale, mentre con l’IVUS riusciamo a caratterizzarla in

maniera perfetta. La coronarografia non è nient’altro che un luminogramma, utilizzando il mezzo di

contrasto vediamo solamente quello che è il lume, ma non la parete: vediamo il lume perfettamente

normale, facciamo l’IVUS e ci accorgiamo che c’è una placca. Questo paziente non dovrà fare

l’angioplastica, in quanto la placca non occlude in maniera significativa il vaso, ma è un paziente che ha

un’aterosclerosi coronarica, che dovrà fare un trattamento mirato con antiaggreganti, con statine ecc, tutti

farmaci che devono cercare di bloccare la progressione di questa malattia.

Guardate quest’altro caso: vedete qui questo piccolo restringimento, facciamo l’IVUS e guardate qui che

“placcona”, enorme questa placca. Noi riusciamo a caratterizzarla, possiamo dire se è stabile, se c’è calcio,

se c’è colesterolo… Questo per dire dove siamo arrivati oggi.

Questo è un diagramma che vi serve solamente a capire: io vi ho detto poco fa 70% placca critica. Ma

perché abbiamo scelto 70%? Abbiamo scelto 70 % da questo vecchio studio pubblicato nel 1974, dove

sostanzialmente si vede che il flusso coronarico, la riserva coronarica è significativamente ridotta quando

c’è un diametro del vaso che è ridotto oltre il 70%. La riserva coronarica comincia a ridursi in maniera

significativa quando la stenosi è superiore al 70% ed è praticamente assente quando la stenosi è superiore

al 90%, cioè quando è ipercritica la stenosi. Quindi il 70 % ci viene dal fatto che, oltre questo valore, la

riserva coronarica si riduce in maniera significativa.

La riduzione del flusso coronarico, una volta che si realizza, quali strati andrà ad interessare inizialmente?

Voi sapete che il cuore è suddiviso in tre strati: lo strato subendocardico, lo strato mesocardico e lo strato

pericardico.

L’ischemia miocardica interessa inizialmente lo strato subendocardico, che è quello sottoposto a maggiore

tensione durante la fase sistolica, è quello che ha una maggiore compromissione meccanica e quindi è

quello che è più soggetto ai fenomeni ischemici. Tant’è vero che, quando facciamo alcuni esami, quando

vediamo delle lesioni subendocardiche, subito pensiamo che ci sia un fatto ischemico, perché c’è una

correlazione stretta tra topografia e la fisiopatologia.

Questi sono i fattori determinanti nel consumo del carico d’ossigeno: frequenza cardiaca, contrattilità e

tensione di parete. E queste sono tutte le variabili che possono condizionare quei tre parametri: il post

carico, che è la resistenza che il ventricolo sinistro trova nello svuotamento, durante la fase sistolica, che è

legato alle resistenze periferiche che deve vincere, come quella arteriolare; la contrattilità, che è la capacità

del cuore di contrarsi; la frequenza cardiaca; il precarico, ossia il ritorno venoso al cuore; il volume.

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Altre situazioni critiche per l’instaurarsi dell’ischemia includono fattori emoreologici, come un aumento

della viscosità ematica. Quindi un aumento dell’ematocrito può causare delle alterazioni a livello del flusso

coronarico ed è determinante per le alterazioni a livello della circolazione.

L’ischemia miocardica si caratterizza per un’alterazione dell’apporto di ossigeno e questa alterazione

dell’apporto di ossigeno comporta alterazioni elettriche, alterazioni meccaniche e poi la comparsa del

dolore, cioè dell’angina.

E questa è la cascata ischemica fisiopatologica [riferendosi all’immagine sottostante], cioè quello che

succede durante un processo ischemico. Abbiamo l’anormalità della perfusione, che noi possiamo valutare

molto bene con la scintigrafia, abbiamo l’anormalità del metabolismo, perché se arriva poco ossigeno, il

metabolismo del miocardio deve shiftare dal metabolismo lipidico a quello glicidico e quindi vi sono

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alterazioni di tipo metabolico. Poi abbiamo le alterazioni meccaniche, quindi l’incapacità del cuore a

contrarsi bene, le alterazioni elettrocardiografiche e poi l’angina. L’angina sostanzialmente è la punta

dell’iceberg. Prima che compaia l’angina, compaiono tutte quelle alterazioni che vanno dall’alterazione alla

perfusione, alle alterazioni del metabolismo a quelle meccaniche, a quelle elettriche.

Solo dopo che succede tutto questo, compare il dolore. Quindi molte volte noi possiamo vedere un

paziente che ha delle anormalità, ad esempio elettrocardiografiche, senza avere angina. Questo in clinica

può succedere: un paziente ha delle alterazioni elettrocardiografiche, però non presenta dolore. Questa si

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chiama “ischemia silente”. L’ischemia silente si verifica in un gruppo particolare di pazienti, che hanno delle

alterazioni della soglia del dolore, per una neuropatia sensoriale. Perciò la cardiopatia ischemica silente è

molto frequente nei diabetici. Quindi voi potreste tranquillamente avere un paziente che ha già una

cardiopatia ischemica, però se gli chiedete: “ma lei ha dolore?” dirà: “no, mai avuto dolore”. Però non ha

avuto il dolore ma avuto altri sintomi, ad esempio la dispnea da sforzo, cioè sintomi collaterali che

comunque possono indurci a pensare che possa avere una problematica cardiaca.

Questo è come noi riusciamo a valutare durante un esame, che si chiama “Ecostress”, l’ischemia

miocardica, ma qui non mi soffermo molto, perché è troppo specialistico, quindi andiamo oltre.

Clinica

Una delle espressioni cliniche della cardiopatia ischemica è l’angina, tradotto come dolore retrosternale.

L’angina la possiamo a sua volta classificare in due grossi gruppi: angina stabile e angina instabile. Fate

attenzione per favore a questa cosa, perché queste sono anche domande di esame: che cos’è l’angina

stabile e cos’è l’angina instabile.

L’angina stabile è classicamente l’angina da sforzo: il paziente con angina stabile sale le scale, dopo venti

scale si deve fermare, perché ha la comparsa del dolore. Si ferma, si siede, nel giro di pochi istanti il dolore

passa.

L’angina instabile, è un’angina che può insorgere anche a riposo. Se è a riposo, per definizione è un’angina

instabile. Oppure può anche essere un’angina da sforzo che ha cambiato le sue caratteristiche: Il paziente

viene e dice: “ah, sa, Professore, io prima facevo 200 metri e mi veniva il dolore, adesso faccio venti metri,

trenta metri e poi mi viene subito”. Quindi vuol dire che il quadro è peggiorato, abbiamo una fase di

instabilizzazione . Quindi questo è un paziente che dev’ essere fortemente attenzionato, perché qualcosa è

cambiato.

Poi abbiamo l’angina post infartuale, sono sempre varianti dell’angina instabile, l’angina in crescendo, che

sono quelle angine in cui gli episodi aumentano come numero, e poi alla fine abbiamo l’angina variante

(vasospastica) di Prinzmetal, che è sempre un’angina prevalentemente notturna e legata ad un

vasospasmo.

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-L’angina stabile, o angina cronica, è quindi legata ad un’ischemia transitoria, si riproduce sempre in

situazioni omogenee, sempre uguali, che sono anche stabili nel tempo. I fattori che precipitano sono

sostanzialmente legati, per esempio, allo sforzo. I sintomi associati sono: respiro corto, vertigini,

palpitazioni, debolezza. Questi non sono sintomi associati in maniera costante. Il paziente può anche avere

dispnea, delle palpitazioni ed anche un senso di prostrazione, di stanchezza profonda. Comunque dovete

sapere che il dolore dura molto poco, che regredisce sicuramente con il riposo ed è sensibile anche ai

nitroderivati, cioè al Carvasin sublinguale, che sarebbe un potente vasodilatatore coronarico e quindi

questo ci permette molte volte di fare una diagnosi differenziata tra angina ed infarto.

Il dolore che caratteristiche ha? E’ un dolore di tipo costrittivo, di tipo oppressivo, retrosternale. Cioè, il

paziente viene da voi e vi fa proprio il segno del pugno: mette un pugno sul petto, proprio a significare

come se avesse dei mattoni sullo sterno, che comprimono il suo sterno. Cioè, un dolore di tipo

classicamente oppressivo. Il dolore è prevalentemente retrosternale, però si può irradiare al braccio

sinistro e soprattutto alla parte interna del braccio sinistro, interessando la parte ulnare dell’avambraccio,

tra il mignolo e l’anulare. Ci sono però anche altre sedi: il dolore può essere anche alle spalle, può avere

anche un’irradiazione epigastrica, allo stomaco, molte volte uno può confondere un’angina, ma anche un

infarto, con una gastrite. Poi, una cosa molto importante, è che l’insorgenza del dolore spesso è graduale e

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raggiunge il suo massimo entro breve tempo, questo soprattutto per quanto riguarda l’angina stabile.

Queste sono le diverse irradiazioni [riferendosi all’immagine successiva]: qua è retrosternale, si irradia

prevalentemente al braccio sinistro, ma può irradiarsi anche al braccio destro, da solo o ad entrambe le

braccia e poi, attenzione, c’è anche un’irradiazione verso la mascella, ci sono persino pazienti che hanno

dolore, oltre a quello restrosternale, anche a tutti i denti. Quando viene da voi e vi dice che ha dolore

retrosternale e a tutti i denti, vi si deve subito accendere la lampadina, perché pensate subito a quello che è

stato detto sull’angina. Questa è un’irradiazione non così poco frequente.

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Questi sono una sintesi di quello che abbiamo detto sulle localizzazioni: retrosternale, braccio sinistro,

anche braccio destro, epigastrico, dorso, mascella. Sono molto diverse le presentazioni, per cui noi

dobbiamo fare molta attenzione, bisogna essere molto attenti, molto prudenti e cercare di trovare le

giuste soluzioni per ogni esigenza del paziente. (Vi raccomando, nella nostra professione, di non essere

superficiali: si può anche sbagliare, siamo uomini. Però una cosa è sbagliare perché uno non ha capito il

problema, anche se si è impegnato, e allora può anche starci, può capitare, però sbagliare per superficialità

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non è una bella cosa. L’importante è fare sempre le cose secondo coscienza).

-Nell’angina instabile il dolore è molto simile, per qualità, al dolore che c’è nell’angina stabile, però è un

dolore che insorge anche a riposo. Le caratteristiche sono identiche a quelle dell’angina pectoris stabile,

anche se a volte il dolore è più prolungato. Ma la cosa importante è che questo tipo di dolore che insorge a

riposo può essere a volte più precipitante, perché mentre il dolore nell’angina stabile è causato sempre da

quello sforzo, l’angina instabile è imprevedibile e quindi, come tale, è un tipo di angina molto peggiore

rispetto a quella precedente.

L’angina instabile evolutiva è quella in cui i dolori sono sempre più frequenti. E quindi il dolore diventa più

intenso, diventa più prolungato, oltre che più frequente, e quindi questo è un quadro di angina che ha

bisogno di essere molto attenzionato, perché evolverà verso il quadro maggiore dell’infarto.

L’angina mista è un’angina che può insorgere sia a riposo che sotto sforzo.

[A questo punto uno studente fa una domanda, ma non si sente assolutamente nulla. REC: 1.08.35]

Risposta: nell’angina, a differenza dell’infarto, non c’è il vaso coronarico completamente chiuso. Ora, i

nitroderivati hanno una doppia funzione: sono coronarodilatatori, per cui danno una dilatazione della

coronaria, e quindi se c’è una componente spastica la riducono e nel contempo riducono il consumo

miocardico di ossigeno. Quindi hanno un doppio effetto. Riducono il consumo di ossigeno, perché i

nitroderivati sono potenti vasodilatatori anche a livello periferico, soprattutto a livello venulare, cioè

dilatano soprattutto le venule. Quindi, dilatando le venule, riducono il ritorno venoso al cuore. Riducendo il

ritorno venoso al cuore comportano una riduzione dello sviluppo della tensione sistolica miocardica e

quindi riducono il consumo miocardico di ossigeno. Cioè, meno volume dentro il ventricolo sinistro c’è,

minore è lo sviluppo della tensione sistolica. Questo è il concetto. Quindi, riduzione della tensione sistolica

vuol dire riduzione del consumo miocardico di ossigeno: da una parte vasodilatano, dall’altra parte

riducono la tensione miocardica di ossigeno. L’effetto finale è il miglioramento della situazione coronarica.

E questo funziona sia nel caso di angina instabile sia in quelli di angina instabile. Non funziona nell’infarto.

Domanda [continua a non sentirsi. REC. 1.10.25]

Risposta: trattandosi di angina instabile, si ripresenta in seguito il problema. Mentre nell’angina stabile, una

volta passato il dolore, poi il paziente ha una sua stabilità dal punto di vista coronarico, nell’angina instabile

questo serve solo temporaneamente da [ REC. 1.10.46]

Quindi queste sono le sindromi coronariche acute e andiamo verso l’infarto. Abbiamo visto quella cronica,

che è l’angina stabile, abbiamo visto poi l’angina instabile, che è una sindrome coronarica acuta, perché,

soprattutto quella evolutiva, muove verso l’infarto miocardico.

Sindromi coronariche acute: STEMI e NSTEMI

Quando parliamo di sindromi coronariche acute abbiamo due grossi sottogruppi, che sono basati sulle

alterazioni elettrocardiografiche. Abbiamo l’infarto miocardico con sovraslivellamento del tratto ST, che

sarebbe STEMI, ossia il classico infarto miocardico, e poi abbiamo l’infarto miocardico senza

sovraslivellamento del tratto ST, con sottoslivellamento quindi, che è STEMI e non stemi (NSTEMI), però,

attenzione, nel non stemi, dove c’è un sottoslivellamento del tratto ST, oltre che l’infarto miocardico

abbiamo anche l’angina instabile, perché l’angina instabile per definizione rientra nella sindrome coronarica

acuta, mentre l’angina stabile è una sindrome cronica. Questo è un concetto importante.

La differenza tra angina instabile e infarto miocardico non stemi è la presenza o no di enzimi cardiaci. Cioè,

se al paziente che entra in unità coronarica con ST sottoslivellato, dolore al petto, facciamo gli enzimi la

prima volta, la seconda volta e non ha enzimi, vuol dire che ha un’angina instabile, non ha un infarto

miocardico, perché nell’infarto c’è la citolisi. Mentre il sopraslivellamento del tratto ST si associa, in

maniera direi costante, a meno che non sia una variante, ad un infarto ST sopraslivellato e quindi sarebbe

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uno stemi classico.

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Ora, che differenza c’è tra stemi e non stemi, dal punto di vista coronarico?

Vedete, questo è lo stemi [si riferisce all’immagine soprastante], in cui c’è un trombo che occlude

completamente la coronaria. Quindi questo è lo stemi, cioè di fatto ST sopra.

L’ST sopra vuol dire che la lesione è transmurale, cioè interessa tutto lo spessore della parete del

ventricolo, vuol dire che la lesione ischemica interessa dal submiocardio al sub epicardio, tutto lo spessore

parietale.

Mentre l’ST sotto è espressione di una lesione subendocardica, solo nello strato subendocardico. Quindi

questa è la differenza importante, che voi dovete sapere. Quindi l’ST sopra, lo stemi classicamente, è legato

ad un infarto importante, che interessa tutta la parete del ventricolo , mentre l’ST sotto , il non stemi,

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interessa solo la parte subendocardica della parete del ventricolo sinistro. Nello stemi c’è l’occlusione

completa del vaso, nel non stemi il vaso non è chiuso completamente, c’è una stenosi critica, quindi un po’

di sangue passa. Dunque soffre soprattutto il subendocardio, che è la parte più sensibile all’ischemia, soffre

molto meno il meso e l’epicardio. Questo è il concetto di base che dovete mettervi bene in testa. Quindi

stemi transparietale, non stemi subendocardio.

Domanda: Professore, ma il non stemi può evolvere in stemi?

Risposta: Certo. Il non stemi potrebbe anche evolvere in stemi. Se si fissura, perché tutto il problema nasce

dal fatto che, se si parte da questa placca aterosclerotica che non ostruisce completamente il vaso, poi c’è

un processo in cui, per vari motivi, per un fatto di stress sulla placca, legato soprattutto alle forze di shear

stress o anche ad un fatto infiammatorio, il cappuccio della placca si può fissurare. Quindi il materiale che

c’è dentro la placca viene esposto al circolo ematico e dà l’attivazione dell’ aggregazione piastrinica. Per cui

si possono avere due evoluzioni: o che questo trombo che si forma occluda completamente il vaso, oppure

che lo stenotizzi in maniera critica ma non lo occluda. Se non si modula l’ iperaggregazione piastrinica,

questo trombo può sempre più ingrossarsi e quindi andare ad occludere il vaso. Il punto di partenza

sostanzialmente è lo stesso, è l’evoluzione diversa.

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[Riferendosi alla figura soprastante]Questo è un esempio di stemi, di infarto miocardiostemico. Anche qui,

vedete, questo è classicamente la versione subepicardica che vi dicevo prima, questo è l’ECG normale,

questo è il tratto ST. Quando noi parliamo di stemi o non stemi ci riferiamo al tratto ST, quindi alla

ripolarizzazione nell’elettrocardiogramma. E questo è classicamente uno stemi, cioè un ST sopra. Cosa vuol

dire dal punto di vista elettrocardiografico? Vuol dire che questa è una isoelettrica, questa bianca, quindi

l’ST è esattamente sull’isoelettrica, bianco e bianco, sullo stesso livello. Mentre in questo caso l’isoelettrica

è qua sotto e l’ST è qua sopra. Quindi questa è espressione di un infarto miocardico trans murale.

L’infarto dal punto di vista clinico lo possiamo diagnosticare con un dolore intenso, prolungato, associato ad

altri sintomi d’accompagnamento, anche qui l’ irradiazione, la sede principale è retro sternale, possiamo

avere un’irradiazione alla mandibola, al braccio sinistro ma anche al braccio destro, all’epigastrio e al dorso.

È sostanzialmente come l’angina, solamente qui il dolore è ancora più intenso e soprattutto duraturo nel

tempo e non sensibile ai nitroderivati. In questo caso la nitroglicerina sublinguale non ha nessun effetto.

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Classificazione dell’infarto miocardico.

Dal 2000 al 2012, la Società Europea di Cardiologia ha fatto tre diverse classificazioni dell’infarto

miocardico. Come vi dicevo, in questi ultimi trent’anni abbiamo avuto un’esplosione della cardiologia e

queste diverse classificazioni sono il risultato dell’esplosione della cardiologia. Ora vi diamo un approccio

pratico a quello che è oggi l’infarto miocardico acuto. Stemi e non stemi va sempre bene, ma con questa

nuova classificazione del 2012 entriamo ancora più nel merito della causa dello scatenamento miocardico,

entriamo ancora più dettagliatamente, questo è il grosso vantaggio di questa classificazione. Questa è la

patologia dell’infarto miocardico: Morte cellulare legata ad un’ischemia prolungata. Questa è la

definizione. Questo è l’infarto miocardico dal punto di vista patologico.

Come possiamo fare diagnosi? Ci sono esattamente cinque capisaldi.

1. Dolore. Sintomi ischemici. Quindi il dolore è uno dei momenti fondamentali della diagnosi clinica del paziente.

2. L’elettrocardiogramma. E’ molto importante fare l’ECG quando un paziente ha dolore per vedere se ci sono alterazioni ischemiche, ST sopra, ST sotto, eccetera o vedere se c’è la comparsa di un nuovo blocco di branca sinistra. Cioè, se il paziente fa l’elettrocardiogramma e ha un blocco di branca sinistra di nuova insorgenza e ha il tracciato precedente, fatto una settimana prima , dieci giorni prima, che era normale, adesso ha il blocco di branca sinistra con dolore, anche se non vediamo ST sopra o ST sotto, perché c’è il blocco di branca sinistra, per noi quello è un marker elettrocardiografico di stemi, lo stesso. Questo è un concetto per noi fondamentale.

3. Sviluppo di onde Q patologiche, sempre all’elettrocardiogramma, questo ovviamente nella fase non acuta, nella fase post acuta.

4. L’ utilizzazione dell’imaging, cioè la valutazione della cinetica del cuore e la comparsa di nuove alterazioni cinetiche cardiache sono assolutamente diagnostiche di lesione ischemica miocardica, di infarto del miocardio.

5. E poi anche la possibilità di fare una coronarografia, ovviamente a paziente vivo, o se il paziente è

deceduto fare un’autopsia e identificare una trombosi intracoronarica. Questi sono

sostanzialmente la valutazione strumentale clinica del paziente cono sospetto infarto miocardico,

ma al primo punto loro hanno messo anche la valutazione della troponina, cioè dei vari marker, dei

marker di necrosi miocardica e fra questi appunto la troponina cardiaca, che fra i marker è

sicuramente il più utilizzato, quello che ha una maggiore sensibilità e una maggiore specificità per

identificare il danno miocardico.

Quindi: biomarker, clinica (sintomi), elettrocardiogramma, imaging e, se possibile, anche

coronarografica subito.

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[Riferendosi all’immagine soprastante] Questo è l’infarto nel mondo reale di un paziente che è entrato nella

nostra unità coronarica perché aveva back’s pain, dolore retrosternale, entra con questo

elettrocardiogramma. Questo è uno stemi, guardate qui l’ST com’ è sopra. È uno stemi anteriore. Anteriore

vuol dire che interessa l’arteria discendente anteriore o interventricolare anteriore. E posso dire in questo

elettrocardiogramma anche dov’è interessato il ventricolo anteriore e dov’è interessato il ventricolo destro.

Cioè, da questa lettura elettrocardiografica noi possiamo avere una serie infinita d’informazioni. Quindi

non solo possiamo dire che è un infarto, ma possiamo anche dire qual è il ramo coronarico interessato e

anche il livello in cui il ramo coronarico è occluso. Lo possiamo dire con una buona sensibilità e con una

specificità, non diciamo del 100%, per carità, però in maniera direi quasi ottimale.

Domanda: professore, questo lo capisce dalle derivazioni che sono interessate?

Risposta: certo. Qua sono interessate le precordiali. Sono tutte queste derivazioni anteriori, che studiano la

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parete anteriore del ventricolo sinistro.

Ovviamente, accanto a questo, abbiamo quest’altro strumento, che utilizziamo spesso durante la gestione

del paziente in fase acuta. Cioè il paziente arriva al Pronto Soccorso, ha dolore al petto, facciamo

l’elettrocardiogramma e non è diagnostico al 100%, ci vuole mezz’ora per dei marker, allora facciamo

un’Eco. Se facciamo un’eco ci rendiamo conto che il dolore è abbastanza tipico e il paziente presenta

quest’ alterazione, guardate qua questa parete [si riferisce probabilmente ad un video proiettato a

lezione]come si contrae bene. Guardate come si contrae male questa parte del cuore durante la sistole.

Questa era un’alterazione meccanica del ventricolo, che è l’equivalente di un’ischemia. Quindi sicuramente

il paziente aveva dolore perché aveva un infarto. Quindi anche se l’elettrocardiogramma non ci dà

un’espressione chiara, una diagnosi chiara, l’eco ci viene in soccorso e dalla tipologia possiamo dire che

questa è anche una discendente anteriore, perché è interessata proprio la punta della parte distale del

setto interventricolare.

Poi abbiamo anche altre tecnologie. Questa addirittura ci permette di studiare la deformazione del tessuto

cellulare, cioè come queste cellule si deformano durante la sistole e durante la diastole. E con questa

tecnologia ancora di più aumentiamo la nostra sensibilità e specificità nella diagnosi delle alterazioni

meccaniche di tipo ischemico, ovviamente in pazienti che hanno una cardiopatia ischemica.

Vediamo quindi come possiamo classificare oggi l’infarto miocardico.

La Società Europea ha proposto una classificazione che prevede cinque tipi di infarto miocardico.

Tipo 1 - Infarto miocardico classico, quello aterotrombotico: Placca aterosclerotica, fissurazione del

cappuccio, formazione del trombo calcifico, occlusione del vaso. Quindi classico infarto.

Tipo 2 – è secondario ad uno sbilanciamento tra le richieste metaboliche di ossigeno, le richieste

metaboliche miocardiche e l’apporto di ossigeno. Quindi c’è uno sbilanciamento tra la richiesta e l’offerta.

Tipo 3 – Infarto miocardico che determina sostanzialmente la morte improvvisa, prima ancora che il

paziente abbia potuto fare una valutazione pragmatica [?]. Quindi è classicamente la morte cardiaca

improvvisa che può avvenire a domicilio ma può anche avvenire in ospedale o al Pronto Soccorso.

Tipo 4A – è l’infarto miocardico che è provocato da noi. Ossia noi, facendo del bene, perché accade,

facendo l’angioplastica, possiamo creare, quando andiamo a dilatare la placca aterosclerotica, possiamo

frantumare la placca e dei pezzetti di questa placca possono embolizzare perifericamente nel circolo

coronarico e andare a ostruire i vasi coronarici e quindi avere un piccolo infarto periprocedurale durante

l’angioplastica.

Tipo 4B - è sempre legato all’angioplastica ed è l’occlusione tardiva dello stent coronarico che noi andiamo

a mettere. Cioè, noi mettiamo una molletta che si chiama stent, per tenere il vaso un po’ disteso. Questo

stent può anche andare incontro a complicanze trombotiche, quindi può chiudersi, e quindi dare un infarto

di tipo 4B.

Tipo 5 – Infarto legato alla rivascolarizzazione chirurgica, al bypass aortico. E’ l’infarto che avviene durante

la procedura di bypass aortocoronarico.

Ricapitolando, questo è il tipo 1, classicamente aterotrombotico. Vediamo la placca aterosclerotica. Questa

è la placca, si fissura, si crea il trombo piastrinico, poi si chiude il vaso ed abbiamo l’infarto miocardico

classico.

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Questo è il tipo 2, che è dato dallo sbilanciamento tra richiesta e offerta. Nel tipo 2 ci sono tre meccanismi

fisiopatologici: C’è il tipo 2 legato al vasospasmo o a disfunzione endoteliale, perché c’è un vaso pressoché

normale, va incontro al vasospasmo e quindi può dare sofferenza miocardica importante, quindi dare

necrosi. Oppure può essere che abbiamo una placca critica, però fissa, che non si fissura, quindi non chiude

il vaso. Però se il paziente con questa placca qui va incontro ad un’ anemizzazione, va incontro a

tachicardia, ad un’aritmia, qualsiasi altra causa, come una crisi ipertensiva, possiamo avere un piccolo

danno miocardico, quindi un incremento della troponina, senza che ci sia un’occlusione completa del vaso.

Questi sono i classici infarti che noi vediamo. Gli stemi ci arrivano, perché il paziente è [?], oppure perché il

paziente ha una grossa insufficienza respiratoria, la saturazione dell’ossigeno è bassa e quindi arriva meno

ossigeno al cuore, dunque se abbiamo di fronte una placca erosiva [?] ed è ridotta la capacità di

vasodilatazione, è semplice che possa andare incontro a questa problematica.

E poi questo qui è un vaso apparentemente normale, ma è un vaso rigido. Qui c’è un’importante restrizione

endoteliale per cui non ha capacità di vasodilatarsi.

Questo è il tipo 3: morte cardiaca precoce, prima ancora di fare i markers miocardici, quindi morte cardiaca

improvvisa legata ad un’aritmia, ad una fibrillazione ventricolare.

Poi il tipo 4A, quello periprocedurale, legato all’ angioplastica, per disseminazione di materiale embolico

periferico.

Tipo 4B, complicanza trombotica dello stent. C’è lo stent che si è trombizzato e quindi si chiude il vaso.

E poi il tipo 5, che è classicamente quello legato al bypass aortocoronarico, quello periprocedurale.

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Reinfarto, infarto ricorrente ed infarto miocardico silente

A questo punto dobbiamo capire bene cosa s’intende per reinfarto. Questo è un termine che bisogna

capire, così come cosa vuol dire infarto miocardico ricorrente. Non sono sinonimi. Cioè, un paziente che ha

avuto un infarto oggi e poi ha un altro infarto fra sette mesi, non è un reinfarto. Si parla d’infarto ricorrente,

che è concettualmente diverso, il meccanismo. Perché reinfarto è un nuovo episodio d’infarto miocardico

acuto che avviene entro le quattro settimane dal primo episodio. Questo è l’infarto per reinfarto.

Mentre l’infarto ricorrente è un nuovo episodio infartuale che viene dopo le quattro settimane

dall’episodio. Quindi c’è un inizio temporale diverso, entro o uguale alle quattro settimane si parla di

reinfarto, oltre si parla di infarto ricorrente.

Mentre per infarto miocardico silente si intende quell’infarto che viene in totale assenza di dolore. E in

questo, caso, ovviamente, sono soggetti spesso diabetici, che hanno problemi sensoriali, a livello della

percezione del dolore e guarda caso il diabete è uno dei fattori di rischio per le malattie aterosclerotiche.

Complicanze dell’infarto

Le complicanze dell’infarto possono essere precoci e tardive.

Quelle precoci possono essere solo di tipo aritmico, spesso aritmie maggiori, che possono esser considerate

fino alla fibrillazione ventricolare. Però possiamo anche avere sostanzialmente delle complicanze

meccaniche quando l’infarto è molto esteso e quindi avere una perdita dell’attività meccanica di una parte

del ventricolo sinistro. E se questa perdita di capacità contrattile è molto estesa, cioè oltre il 30 % della

massa miocardica, il ventricolo può andare incontro ad uno scompenso acuto, può andare incontro ad

un’insufficienza ventricolare sinistra, quella che si chiama edema polmonare.

Poi, altre complicanze sono anche quelle legate ad un’ ostruzione acuta della valvola mitralica, insufficienza

mitralica acuta, quando c’è il versamento [REC. 1.35.50] della valvola mitralica. Oppure ci può anche essere

una rottura di cuore, quando c’è un interessamento a tutto spessore della parete con una mancata

guarigione della cicatrice e quindi si può andare incontro a fissurazione della parete e questa non è

precocissima. Precoce vuol dire che vengono nelle prime 48 ore e tardive dopo settimane. Mediamente

nella prima settimana sono precoci.

Quindi questa è un’insufficienza valvolare mitralica [si riferisce ad un’immagine che non ho], secondaria ad

una disfunzione capillare. Vedete qui proprio questo getto di rigurgito, questo giallo, che entra dentro

l’atrio sinistro. Questo proprio è un rigurgito mitralico da disfunzione capillare.

Quelle tardive, si verificano quindi anche dopo settimane dall’infarto e sono sostanzialmente il

rimodellamento post infartuale, la trombosi cardiaca, che può anche essere abbastanza precoce, lo

vediamo anche a distanza di giorni, non è necessariamente tardiva.

Poi lo scompenso cardiaco, ma soprattutto il rimodellamento del ventricolo sinistro. Questo è il cuore

normale, l’infarto miocardico, dopo giorni, dopo mesi, avete questa dilatazione del ventricolo sinistro con la

formazione di questa sacca aneurismatica, che ovviamente è la parte di cuore che non si contrae più, cioè la

parte di cicatrice che è residuata dall’infarto. Questo rimodellamento noi oggi non lo vediamo quasi più

facendo ormai l’angioplastica primaria, perché ormai la terapia dell’infarto e dell’infarto soprattutto stemi,

è l’angioplastica primaria. Angioplastica primaria vuol dire sostanzialmente che il paziente deve essere

portato entro breve tempo in un centro che si chiama Hub, che è il centro dov’ è possibile fare la

disostruzione meccanica della coronaria, cioè mettere un catetere dentro il cuore, vedere dove c’è il

trombo, entrare, lisare il trombo e mettere lo stent. Quindi riaprire subito il vaso. Nella provincia di Messina

sta per partire la rete dell’infarto, che è una cosa estremamente importante, che prevede dei centri Hub e

dei centri Spoke. I centri Hub sono i centri dove il paziente dev’ essere indirizzato, se riesce ad arrivare

entro due ore dall’insorgenza dei sintomi, per effettuare l’angioplastica primaria. E i centri Hub nella rete

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della provincia di Messina sono il Papardo, il Policlinico e l’Ospedale di Taormina. Sono questi i tre centri

Hub. I centri Spoke sono tutti gli ospedali periferici, quindi Milazzo, Patti, Sant’Agata di Militello e

Mistretta, che sono i centri dove i pazienti arrivano, per i Nebrodi è un grosso problema, perché arrivare

entro centoventi minuti a Messina non è facile, però l’alternativa è che se non riescono ad arrivare entro

120 minuti da noi, questi pazienti vanno a Patti, perché da Tortorici vanno tutti verso Patti, fanno un

farmaco, un trombolitico, che dovrebbe lisare il trombo, quindi fanno la terapia farmacologica. Dopo, fatta

la trombo lisi, entro 24 ore devono portarlo al centro Hub, per fare la coronarografia. Per chi vive qui,

vicino a qui, è possibile fare subito la chirurgia primaria, purtroppo chi vive lontano deve accontentarsi della

trombolisi, che comunque funziona e funziona bene: nel 60-70% dei casi il trombolitico funziona. Poi il

paziente viene spedito con calma all’Hub e si fa l’angioplastica. Quindi oggi, aprendo subito il vaso entro

due ore, questi danni miocardici non li vediamo più. Cioè, il paziente esce da noi che ha un ventricolo quasi

normale, come praticamente quello nella prima fase, esce un ventricolo che non è per nulla rimodellato e

questo è un grosso vantaggio, vuol dire che il paziente potrà vivere bene, non avrà affanno, non andrà

incontro a scompenso cardiaco. I pazienti che sviluppano questo rimodellamento purtroppo sono destinati

ad una vita molto, molto triste, in quanto andranno incontro a scompenso, andranno incontro a tremila

problematiche e alla fine anche verso il trapianto di organo.

Domanda: Ma quando si fa una trombo lisi e si ha un’occlusione parziale, si va a fare sempre la

coronarografia?

Risposta: sì, sempre. Trombolitico subito, entro 24 ore angioplastica. Va comunque fatta anche la

coronarografia. Le linee guida parlano chiaro: Il paziente che ha un infarto non può fare angioplastica

primaria, deve fare necessariamente la trombolisi entro la prima ora se possibile, addirittura 30 minuti. Per

cui dovete pensare: questo paziente lo posso portare entro due ore al centro Hub? No, non ce la faccio:

non ci pensate più! Subito trombolisi. Perché prima lo fai il trombolitico meglio funziona. Se lo fai entro i

primi 30-60 minuti funziona, se glielo fai dopo, molto meno. Per cui prima glielo fai, meglio è. Poi il

paziente lo restituisci entro 24 ore al centro Hub, per fare la coronarografia.

Domanda: Il trombolitico richiede un’ospedalizzazione?

Risposta: In questo momento si stanno attrezzando le ambulanze per fare il trombo litico a domicilio. Cioè, i

medici del 118 arriveranno a casa del paziente, fanno il tracciato elettrocardiografico, per via telematica lo

mandano all’unità coronarica di riferimento. L’unità coronarica di riferimento dice che è infarto, comincia

subito e fa il trombolitico prima dell’arrivo in ospedale. Quindi si guadagna molto tempo, il 118 è

autorizzato, deve fare solo due-tre domande al paziente, come se è stato operato recentemente.

Domanda: e se ci si presenta a una guardia medica?

Risposta: lo stesso, deve chiamare subito il 118. E’ una lotta contro il tempo. Cioè se uno ha il sospetto di

avere un infarto è una lotta contro il tempo. Perché noi sappiano che l’ora, la golden hour è un’ora.

Sarebbe ottimale fare tutto entro un’ora. Ma fino a due ore abbiamo buone probabilità di successo. Il

trombolitico noi l’abbiamo fatto anche a 6 ore, quando abbiamo iniziato. Poi abbiamo capito che andava

molto meglio nelle prime due ore.

[seguono due domande con brevi risposte del prof, che non ho nemmeno riportato, perché non si sente

quasi nulla. REC 1.45.00]

Domanda: e invece, professore quanto è il rischio?

Risposta: devo dirti che il rischio è maggiore nei primi sei mesi. Dopo i primi sei mesi il rischio è

assolutamente minore. Ormai il rischio è soprattutto nei primi 3-6 mesi dopodiché il rischio è un po’

elevato ma non gravissimo.

Domanda: Professore, ma gli stent dopo quanto si integrano?

Risposta: Dopo 6 mesi. Dopo 6 mesi è perfettamente integrato nella parete anteriore. Addirittura adesso ci

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sono anche gli stent assorbibili. Cioè dopo 6 mesi non ci sono più, scompaiono. Hanno dei vantaggi, perché

se c’è uno stent metallico, ad esempio, è difficile andare a mettere dei bypass sullo stent, non è possibile.

Arianna Mancini