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Corso di Laurea
In Economia e Gestione delle Aziende Tesi di Laurea L’evoluzione del concetto di sostenibilità e l’analisi del caso Benetton Relatore Prof. Chiara Mio Laureando Andrea La Camera Matricola 822281
Anno Accademico 2014 / 2015
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INDICE
Introduzione 5
CAPITOLO PRIMO: L’evoluzione della Corporate Social Responsibility e della
Sostenibilità 9
1.0 Introduzione 9
1.1 Evoluzione del CSR 10
1.1.1 Anni ‘60 11
1.1.2 Anni ‘70 13
1.2 Anni ‘80 18
1.2.1 CSP 18
1.2.2 Teoria degli Stakeholder 24
1.2.3 Business Ethics 27
1.3 L’evoluzione della sostenibilità attraverso le Organizzazioni Internazionali 28
1.4 La letteratura della sostenibilità 36
CAPITOLO SECONDO: I nuovi obiettivi per lo sviluppo sostenibile e l’economia
della condivisione 47
2.0 Introduzione 47
2.1 Definizione di Sharing Economy 49
2.1.1 La base della Sharing Economy è il “valore condiviso” di Porter 53
2.1.2 Gli aspetti negativi della Sharing Economy 55
2.2 J. Rifkin e la Terza Rivoluzione Industriale 57
2.3 Gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio 59
2.4 I Nuovi Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile 62
2.4.1 Organi per la stesura e il controllo degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile 66
2.4.2 Critiche nei confronti degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile 68
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CAPITOLO TERZO: Analisi del caso Benetton Group 71
3.0 Introduzione 71
3.1 Evoluzione storica di Benetton Group 73
3.2 Le azioni sostenibili intraprese da Benetton Group 77
3.2.1 Stakeholders 78
3.2.2 Catene di fornitura sostenibili 81
3.2.3 Ambiente 90
3.2.4 Impegno sociale 93
3.3 Analisi delle azioni sostenibili intraprese dal competitor H&M 97
3.3.1 I punti deboli e di forza di Benetton in relazione al competitor 103
3.4 Comitato della sostenibilità di Benetton Group 107
CONCLUSIONI 109
BIBLIOGRAFIA 121
SITOGRAFIA 125
5
INTRODUZIONE
La tutela dell’ambiente, la salvaguardia delle risorse naturali e il rispetto dei diritti
fondamentali dell’uomo sono alcuni dei principi fondamentali che sono alla base del
concetto di sostenibilità. Negli anni tale definizione si è evoluta notevolmente passando
dalle teorie di Corporate Social Responsibility o Responsabilità Sociale dell’Impresa, fino
agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, che oggi ci permettono di avere una definizione e
sapere perché è importante per uno Stato o un’impresa essere sostenibili.
L’obiettivo di questa tesi sarà quello di dimostrare come il concetto di CSR e sostenibilità
si è evoluto nel tempo e, attraverso l’analisi di alcuni economisti, si osserverà il
collegamento che intercorre tra la sostenibilità e le nuove teorie economiche e si
descriverà inoltre come le teorie della sostenibilità sono diventate oggi obiettivi che sia
le imprese che gli stati, attraverso la cooperazione, provano a raggiungere.
In conclusione attraverso lo studio del caso e di recenti studi in ambito di evoluzione
delle abitudini dei consumatori, si daranno dalle valide motivazioni per le quali
un’impresa che si dimostra socialmente responsabile ha la possibilità di avere
innumerevoli ritorni positivi e si dimostrerà come la sostenibilità, è da considerarsi
come leva strategica per generare valore.
Nella prima parte della ricerca si partirà dalla definizione di Corporate Social
Responsibility (CSR) contenuta all’interno del Libro Verde e definito dal vertice europeo
riunitosi a Lisbona nel 2000, si descriveranno le evoluzioni storiche che hanno
caratterizzato e definito il concetto di Responsabilità Sociale d’Impresa. Attraverso i
primi dibattiti avvenuti a metà tra il 19° e 20° secolo, quando la popolazione americana
aveva indotto alcuni industriali a sperimentare forme di filantropia d’impresa, si
presenteranno tre periodi storici che segneranno l’evoluzione della CSR, in particolare
partendo dai primi studi all’interno della letteratura accademica con autori come Berle e
Bowen che, delineando l’obiettivo principale dell’impresa, individuano il ruolo e
l’importanza della stessa all’interno della società.
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E’ durante gli anni ‘60 che alcuni studiosi iniziarono a fornire le prime definizioni di CSR,
in particolare K. Davis fu il primo che, grazie ad alcuni articoli scritti all’interno della
rivista California Management Review, incominciò a delineare tale concetto.
E’ con l’arrivo degli anni ‘70 che il concetto di Responsabilità Sociale d’Impresa inizia a
modificarsi notevolmente, grazie alla corrente economica Neoclassica infatti, la
letteratura di quegli anni individua nel profitto l’unico obiettivo che l’impresa si deve
prefiggere. Uno dei principali esponenti di questa teoria fu M. Friedman il quale,
nell’opera “Capitalism and Freedom” affermava che le teorie fino ad allora elaborate che
riguardavano la CSR, erano da classificare come sovversive per il sistema capitalistico,
poiché l’unico interesse per l’impresa era “fare più soldi possibili per gli azionisti” (M.
Friedman, 1962, pp.133). Durante questa decade altri importanti contributi, che
portarono il concetto di CSR verso nuovi orizzonti, furono forniti da studiosi come il già
citato Davis e Carroll con il suo modello a piramide; e anche organizzazioni come il CED
che, attraverso il modello a tre cerchi concentrici, dimostrava la relazione che
intercorreva tra l’impresa e la società che la circondava. Proseguendo all’interno
dell’evoluzione storica della Responsabilità Sociale delle Imprese, si descriverà la
letteratura degli anni ’80 che era caratterizzata da tre teorie: Corporate Social
Performance; Stakeholder Theory e l’Ethic Business.
È con la fine degli anni ’80, in particolar modo nel 1987, che la Commissione Mondiale
sull’Ambiente e Sviluppo diede la definizione di Sostenibilità contenuta all’interno del
rapporto di Brundtland, il quale definiva la situazione mondiale dell’ambiente e dello
sviluppo. Nel corso degli anni susseguirono altre conferenze e appelli, come quella di Rio
de Janeiro nel 1992 che definì la sostenibilità come un concetto integrato con la
sostenibilità ambientale, economica e sociale, e l’appello lanciato dall’OCSE alle imprese
e ai governi, per contribuire al progresso economico sociale ed ambientale negli stati
con i quali avevano rapporti commerciali e non solo.
Queste serie di raccomandazioni e conferenze, oltre a delineare il concetto di
sostenibilità, servivano per sensibilizzare i governi e le imprese a compiere azioni
positive per contribuire al progresso dei paesi in via di sviluppo perché, solo attraverso
l’integrazione della sostenibilità con la Responsabilità Sociale d’Impresa è possibile
effettuare azioni di lungo periodo al fine di tutelare l’ambiente e rispettare i diritti
fondamentali dell’uomo. Procedendo nell’evoluzione della sostenibilità, verranno
7
analizzate le teorie di alcuni economisti e studiosi che hanno contribuito ad ampliare e
definire tale concetto, essi sono: Porter; Freeman e Zadek.
L’evoluzione storica che ha portato alla definizione della Responsabilità Sociale
d’Impresa e l’integrazione di tale concetto con la tematica della sostenibilità, sottolinea
l’importanza e le motivazioni che hanno spinto gli stati appartenenti all’ONU a
trasformare tali concetti in obiettivi concreti. Nel settembre del 2000 gli stati
appartenenti all’ONU decisero di sottoscrivere otto obiettivi denominati Obiettivi di
Sviluppo del Millennio (MDG). Lo finalità degli MDG riguardavano molti argomenti:
migliorare le condizioni di vita delle popolazioni del mondo; creare una maggiore tutela
nei confronti delle donne; creare una sostenibilità ambientale per difendere il pianeta
terra e i suoi abitanti; lottare per combattere la mortalità infantile e le malattie come
l’AIDS.
A seguito di alcuni successi raggiunti grazie agli MDG, ma anche a causa di alcune
critiche, nel 2012 a Rio de Janeiro la Conferenza dell’ONU decise di trasformare i vecchi
Obiettivi di Sviluppo del Millennio nei nuovi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG).
Le modifiche che vennero apportate riguardavano una maggior partecipazione da parte
sia degli stati ricchi ma anche di quelli poveri, definendo cosa tutti i paesi potevano fare
insieme per il benessere della presente e futura generazione, vincolando così anche i
paesi ricchi a tutelare maggiormente l’ambiente.
Negli anni si sono sviluppate nuove teorie economiche che al contrario del consumismo,
consentono alle popolazioni di affacciarsi ad un consumo più sostenibile, si analizzerà la
Sharing Economy conosciuta come “economia della condivisione” o “collaborazione”.
Tale teoria, che per l’economista Rifkin viene definita come la Terza Rivoluzione
Industriale, permette di fornire un collegamento tra la Sharing Economy e la teoria della
“Creazione del Valore Condiviso” di Porter e Kramer, definendo quest’ultima come la
base dell’economia della condivisione.
Nella seconda parte del progetto verrà analizzato un caso concreto di azioni sostenibili
in ambito sociale, economico ed ambientale, che un’azienda nel settore della moda può
compiere; il caso che verrà preso in esame è l’azienda storica di Treviso: Benetton
Group.
L’attenzione alle tematiche sociali hanno da sempre contraddistinto l’azienda, celebri
sono le campagne pubblicitarie multirazziali che, oltre a rappresentare un collegamento
8
tra i colori delle popolazioni del mondo con la varietà dei colori dei capi di
abbigliamento, cercavano di sensibilizzare le persone sull’importanza della tutela dei
diritti fondamentali dell’uomo senza discriminazione di razza, sesso o religione.
Le azioni di sostenibilità intraprese dall’azienda spaziano su molte tematiche, dalla
salvaguardia dell’ambiente attraverso i progetti con organizzazioni non governative, alla
tutela dei diritti dei lavoratori lungo tutta la catena di fornitura, fino al forte legame che
lega l’azienda al territorio di Treviso.
Verrà inoltre presa in esame la principale competitor del Gruppo ossia H&M e, tramite
una comparazione con le azioni di sostenibilità che anch’essa intraprende, sarà possibile
individuare ed analizzare i punti di forza e di debolezza di Benetton Group, e verrà
proposto inoltre una personale analisi sul fattore di debolezza dell’azienda trevigiana e
le motivazioni per le quali dovrebbe sopperire a tale mancanza.
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CAPITOLO PRIMO
L’EVOLUZIONE DELLA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY E DELLA
SOSTENIBILITA’
1.0 Introduzione
Nel corso degli anni, numerosi economisti e Organizzazioni Mondiali hanno contribuito
ad arricchire i concetti di: Corporate Social Responsibility e di sostenibilità.
Nel seguente capitolo si dimostrerà attraverso un excursus storico, come tali concetti si
siano evoluti nel tempo, partendo dai dibattiti di inizio ‘900, fino ad arrivare ai giorni
nostri.
All’interno del primo capitolo si analizzeranno alcuni degli economisti che, a partire dal
1930 con le teorie del “businessman”, hanno ideato e in seguito approfondito il concetto
di corporate social responsibility. In particolare si analizzeranno tre periodi storici che
hanno caratterizzato le origini della CSR attraverso le prime definizioni degli anni ‘40,
passando per la decade degli anni ’70 caratterizzata dal pensiero della letteratura
Neoclassica e dai doveri che l’impresa deve assumere nei confronti della società , fino ad
arrivare alla letteratura degli anni ’80 esplorando tre teorie in riferimento alla CSR:
Corporate social Performance; Stakeholder Theory ed infine l’Ethics Business.
Nella seconda parte del capitolo si descriverà l’origine del concetto di sostenibilità,
attraverso un viaggio temporale che spiegherà tutte le Organizzazioni Mondiali e le
conferenze internazionali che hanno permesso la definizione di tale concetto.
Alla fine del capitolo verranno presi in considerazioni le teorie di alcuni economisti, in
particolare Porter, Freeman e Zadek e, attraverso una attenta spiegazione di alcune loro
opere più recenti, si fornirà l’evoluzione del concetto di sostenibilità.
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1.1 L’evoluzione del CSR
Il termine Corporate Social Responsibility (CSR) o Responsabilità Sociale D’impresa
(RSI) tradotto in italiano, venne definito dal vertice europeo riunitosi a Lisbona nel 2000
all’interno del “Libro Vede1” redatto dalla Commissione Europea come:
“ L’integrazione su base volontaria dei problemi sociali ed ambientali delle imprese nelle
loro attività commerciali e nelle loro relazioni con altre parti 2 ”. Attraverso tale
definizione la CSR per le imprese rappresenta la possibilità di rispettare non solo le
prescrizioni delle leggi, ma individua pratiche e comportamenti che può adottare su
base volontaria, nell’interesse di ottenere risultati che possono arrecare benefici e
vantaggi a se stessa e nel contesto in cui opera.
I primi dibattiti sulla CSR però, hanno origini molto più lontane, risalgono infatti al
mondo anglosassone tra la fine del 19° secolo e l’inizio del 20° secolo quando l’opinione
pubblica americana, aveva portato alla creazione di legislazioni antimonopolistiche,
inducendo alcuni industriali quali Rockefeller e Carnegie a sperimentare per la prima
volta forme di filantropia d’impresa. Grazie a tali pressioni espresse dell’opinione
pubblica, le organizzazioni sindacali dell’epoca indussero i primi filantropi a prendere
coscienza dell’ importanza delle condizioni abitative dei lavoratori, delle condizioni di
salute e sicurezza previdenziale, sviluppando per la prima volta forme di welfare
aziendale.
In seguito alla Grande Depressione americana avvenuta nel 1929, le teorie sulla
Responsabilità Sociale d’Impresa subirono una battuta d’arresto fin quando, negli anni
’30 e ’40, autori quali Berle3 e Means4 iniziarono a discutere di CSR identificando
nell’impresa capitalista, un’istituzione dove è presente la netta separazione tra la
proprietà e il controllo, facendo nascere così la figura del manager quale decisore
discrezionale.
Qualche anno dopo nel 1954 Berle5 con la figura dell’azionista, individua il soggetto che
detiene il potere decisionale e che conferisce al manager la responsabilità e il compito di 1 Libro Verde, Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese, Commissione Delle Comunità Europee, Lisbona, 2000 2 Ibidem 3 Berle, Means, The modern corporation and private property, Transaction Publishers, New Brunswick, N. J., 1932 4 Ibidem 5 Berle, The 20th century capitalistic revolution, New York, 1954
11
generare profitto, il manager quindi secondo lo studioso Berle, opera secondo il volere
dell’azionista.
Gli anni ’50 rappresentano l’inizio degli studi del concetto di CSR all’interno della
letteratura accademica manageriale, in particolare lo studioso H. R. Bowen nel 1953
identifica il ruolo dell’impresa come centro vitale di poteri e, attraverso la sua azione, ha
la capacità di influenzare vari soggetti, come ad esempio i cittadini. Grazie all’opera
“Social Responsibility of the Businessman6” pubblicata nel 1953, Bowen dà molta
importanza alla responsabilità sociale degli uomini d’affari, identificando in tali soggetti
l’obbligo di prendere decisioni, perseguire degli obiettivi e seguire delle linee d’azione in
base ai valori della società, in quanto “essendo servitori della società non devono
trascurare i valori socialmente accettati o anteporre i propri valori a quelli della società7”.
Secondo Bowen i businessman non servirebbero i desideri degli azionisti come
affermato da Berle, bensì li identifica come servitori di valori sociali nei confronti
dell’intera società, senza definire nello specifico né la società né i valori.
In contrapposizione al pensiero di Bowen, Selekman8 nel 1959 identifica nel Governo e
nei sindacati i soggetti che rappresentano la società, definisce necessario limitare i
poteri delle imprese al fine di poter essere maggiormente controllate dalla società.
Per Selekman il manager o businessman è privo di moralità o attenzione verso la società,
egli infatti persegue solo un interesse: generare profitto. Nasce la necessità quindi di
definire e sviluppare codici e filosofie in grado di identificare comportamenti etici da
seguire al fine di integrare la moralità nel manager.
1.1.1 Anni ‘60
Con l’inizio degli anni ’60 molti studiosi iniziano a trovare definizioni di CSR; il primo fu
Keith Davis che nel 1960 definisce CSR come “le decisioni e azioni intraprese dai
businessman, al di là dell’interesse tecnico o economico dell’impresa9”, e ritiene che
alcune decisioni aziendali siano giustificate, poiché contribuiscono ad avere un maggior
6 H. R. Bowen, Social Responsibility of the Businessman, Harper e Row, New York, 1953 7 H. R. Bowen, Social Responsibility of the Businessman, pp. 6 8 B. Selekman, A Moral Philosophy for Management, McGraw-‐Hill, New York,1959 9 K. Davis, Social responsibility of businessmen need to be commensurate with their social power, California Management Review, vol.2, Spring 1960
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guadagno nel lungo periodo, che ripaga l’impresa per i sacrifici sopportati dall’impresa
nell’ambito di una prospettiva di responsabilità sociale. Secondo K. Davis i manager con
le proprie azioni influenzano la società e, sostenendo la tesi che ci sia un legame tra
business power e responsabilità sociale, se i manager o businessman non includessero
le responsabilità sociali, ciò condurrebbe ad una graduale diminuzione del potere delle
imprese. Attraverso la sua celebre “Iron low of responsibility10” K. Davis afferma che non
può esistere responsabilità sociale senza potere e, il mancato rispetto di questo legame
porterebbe ad un arretramento da parte del mondo industriale lasciando cosi, maggiori
poteri ai governi e organizzazioni sindacali, con il compito di porre vincoli e limiti al
potere delle imprese.
Anche W. C. Frederick11 nel 1960 aggiunge un concetto importante riguardo il CSR
definendo che il significato economico della produzione deve essere inteso come la
possibilità di potenziare il benessere socio-‐economico totale e aggiunge inoltre che le
imprese, oltre ad avere un comportamento rispettoso verso le risorse economiche e
umane, devono utilizzare tali risorse non solo per interessi di soggetti e imprese private,
ma anche per ampi fini sociali.
Nel 1966 K. Davis e Blomstrom all’interno del “Business and its Environment12 ”
descrivono il legame biunivoco che intercorre tra business e ambiente sociale, definendo
inoltre l'obbligo di una persona a prendere in considerazione gli effetti delle sue
decisioni e delle azioni su tutto il sistema sociale. Gli uomini d'affari, secondo Davis e
Blomstrom, considerano la responsabilità sociale quando considerano i bisogni e gli
interessi degli altri che potrebbero essere influenzati dalle azioni di business. Così
facendo guardano al di là degli interessi economici e tecnici esclusivi della loro impresa.
Gli anni ’60 ricoprono un ruolo molto importante nello studio del CSR, in particolare
negli scritti di quegli anni, si considera la responsabilità delle imprese anche di natura
diversa da quella economico-‐legali anche se non vengono centrati dettagli specifici di
riferimento.
10 K. Davis, Social responsibility of businessmen need to be commensurate with their social power, California Management Review, vol.2, pp. 71, Spring 1960 11 W. C. Frederick, The Growing concern over Business Responsibility, California Management Review, vol.2, Summer 1960 12 K. Davis, Blomstrom, Business and its environment, New York, McGraw-‐Hill, 1966
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1.1.2 Anni ’70
Con l’avvento degli anni ’70 il pensiero sulla CSR incomincia a modificarsi notevolmente,
in particolare con la nascita del pensiero Neoclassico secondo il quale l’interesse sociale
dell’impresa è caratterizzato dal profitto, tutto quello che può compromettere
l’efficienza dell’impresa rappresenta solo un mero costo che deve essere eliminato.
Il principale esponente che supportava tale teoria era Milton Friedman il quale,
affermava che l’unico obiettivo delle imprese consisteva nel generare e massimizzare il
profitto nei confronti degli azionisti (shareholder), i quali vengono considerati i veri
proprietari dell’impresa mentre i manager sono semplici agenti che operano per conto
degli shareholder nella gestione dell’impresa. Secondo Friedman un’impresa ha
rapporto non solo con gli azionisti ma anche con altri soggetti quali: manager, lavoratori,
comunità, fornitori (stakeholder), legami di tipo contrattuale che impongono all’impresa
di rispettare e attribuire ciò che di diritto spetta a loro; ma ciò che rimane dopo aver
adempiuto al pagamento degli stakeholder spetta solo ed esclusivamente agli
shareholder, come rimborso del rischio che hanno assunto a seguito dell’investimento
dei propri capitali.
Lo stesso Friedman nel suo libro “Capitalism and Freedom13” del 1962 considera la
teoria sul CSR sovversiva nei confronti del sistema capitalistico in particolare scrive che:
“poche tendenze possono minare in modo veramente profondo le fondamenta stesse della
società libera come l’accettazione da parte dei dirigenti d’impresa del criterio della
responsabilità sociale a differenza di quello di fare più soldi possibili per i loro azionisti14”
(Friedman,1962)
Inoltre essendo il principale esponente della teoria Neoclassica, afferma che la
responsabilità sociale dell’impresa è una sola ovvero usare le sue risorse per dedicarsi
ad attività volte ad incrementare i propri profitti, rispettando sempre le cosiddette
“regole del gioco” ovvero senza ricorrere all’inganno o alla frode.
Durante questa decade un altro importante studioso che cercò di dare una definizione al
concetto di CSR fu C. Johnson(1971), il quale per la prima volta nel testo “Business in
13 Friedman, Capitalism and freedom, University of Chicago Press, Chicago, 1962 14 Friedman, Capitalism and freedom , University of Chicago Press, Chicago, pp. 133,
1962
14
Contemporary Society: Framework and Issues 15 ” fa un esplicito riferimento
all’approccio degli stakeholder, affermando che nella Responsabilità Sociale d’Impresa i
dirigenti (managerial staff) devono essere in grado di bilanciare una moltitudine di
interessi che riguardino i propri dipendenti, fornitori, comunità locale, anziché
suddividere il profitto esclusivamente agli azionisti.
Nell’esaltare l’importanza nel massimizzare il profitto nel lungo periodo, Johnson
ricorda l’importanza di una moltitudine di obiettivi da raggiungere e non solo il
perseguimento della massimizzazione del profitto, infatti secondo l’autore i manager
posseggono una funzione di utilità di secondo tipo che consente loro di agire non solo
per un loro esclusivo interesse, ma devono considerare anche altri soggetti con i quali
l’impresa ha un legame.
Un altro importante contributo venne fornito nel 1971 dal “CED16”(Committee for
Economic Development), un gruppo formato da uomini d’affari e formatori che
all’interno dell’opera “Social Responsibilities of Business Corporation”, ha inventato e
sviluppato un grafico formato da tre cerchi concentrici che serviva a fornire una propria
spiegazione sul concetto di CSR, mettendo in relazione l’impresa e la società che la
circonda.
Fig. numero 1: “modello dei tre cerchi concentrici”
15 C. Johnson, Business in contemporary society: framework and issues, Belmont, CA: Wadsworth, 1971 16 CED, Committee for Economic Development, 1971
1-‐ RESPONSABILITA' DELL'AZIENDA LEGATE ALLE FUNZIONI ECONOMICHE 2-‐ RESPONSABILITA DELL'AZIENDA NEI CONFRONTI DEI VALORI E DELE PRIORITA' DELLA SOCIETA'' 3-‐ RESPONSABILITA' DELL'AZENDA NEI CONFRINTI DEI GRANDI PROBLEMI SOCIALI
15
Nel cerchio più interno rappresentato col numero 1, il CED identifica un insieme di
responsabilità che un’azienda ritiene necessarie, per lo svolgimento efficiente delle sue
tradizionali funzioni economiche, quali ad esempio:
• Produzione,
• Sviluppo della forza lavoro,
• Crescita economica
Nel cerchio numero 2, quello intermedio, vengono identificate le responsabilità per
l’esercizio delle funzioni economiche sopra citate, con considerazioni che attengono
però ai valori e alle necessità sociali, quali ad esempio:
• Rispetto delle risorse naturali
• Le relazioni con i propri dipendenti
Nel cerchio più esterno, il numero 3, si evidenziano tutte quelle attività che in maniera
attiva e volontaria le imprese possono intraprendere per essere ancora più coinvolte in
attività destinate al potenziamento dell’ambiente sociale.
Tali attività possono riguardare:
• Miglioramento delle condizioni di sottosviluppo economico e culturale
• Povertà e degrado urbano
• Miglioramento della viabilità
Il già citato K. Davis nel 1973 fornisce una nuova definizione di CSR usando come tema
centrale, la volontarietà nell’agire in modo socialmente responsabile, affermando che :
“il CSR inizia quando finisce la legge e un’impresa non può limitarsi a compiere azioni di
responsabilità sociali minime richieste dalla legge, perché questo sarebbe quello che ogni
bravo cittadino farebbe17”.
Secondo Davis quindi, le azioni socialmente responsabili devono avere una visione di
lungo periodo al fine di trasformare tali azioni in benefici quali ritorno di immagine,
potenziamento sociale, possesso ed utilizzo di risorse utili per risolvere problematiche
sociali. Se da un lato le attenzioni alla responsabilità comportano benefici, dall’altro
Davis riconosce che tali azioni possono comportare anche dei costi aggiuntivi i quali
17 K. Davis, The case for and against business assumption of social responsibilities, Academy of Management Journal, n. 16, 1973
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diminuirebbero il profitto dell’impresa con una relativa perdita di competitività e una
confusione tra i diversi obiettivi che l’impresa deve perseguire.
A. B. Carroll nell’opera “A Three-‐Dimensional Conceptual Model Of Corporate Social
Perform18” dà la propria definizione innovativa di CSR definendola come l’insieme di
quattro diverse tipologie di responsabilità ovvero, quella economica, legale, etica e
discrezionale (filantropica).
Fig. numero 2: “Piramide di Carroll19”
Come si evince dalla figura numero 2, Carroll suddivide la Piramide in 4 grandi classi, al
fine di considerare una più ampia gamma di responsabilità che l’impresa ha nei
confronti della società. Nella parte più bassa della Piramide si trovano le Responsabilità
Economiche, ovvero l’insieme di beni e servizi che l’impresa, grazie alla sua efficacia-‐
efficienza e capacità produttive, soddisfa così il bisogno della società. Non è un caso che
la Responsabilità Economica sia alla base della Piramide poiché viene sottolineata
l’importanza e la caratteristica base dell’importanza del fine economico che un’impresa
deve sempre e comunque perseguire ovvero generare profitto.
18 A. B. Carroll, A Three-‐Dimensional Conceptual Model Of Corporate Social Perform, Academy of Management Review, n.4, 1979 19 Ibidem
Responsabilità FILANTROPICA
Responsabilità ETICA
Responsabilità LEGALE
Responsabilità ECONOMICA
17
Il secondo livello Responsabilità Legale, identifica l’importanza nel rispettare le leggi e le
norme giuridiche che un’impresa deve avere nel perseguire i propri obiettivi
identificando grazie a tali norme, il terreno entro il quale l’impresa può operare.
È importante inoltre che la società identifichi e punisca le imprese che attuano
comportamenti non conformi alle norme nazionali e locali, così da incentivarle a
generare profitto in maniera legale.
Il terzo livello denominato Responsabilità Etica, identifica tutte quelle attività o buone
pratiche che, anche se le società non hanno regolamentato tramite leggi o ordinamenti,
la società si aspetta che le aziende rispettino. Questo penultimo livello serve per indicare
alle imprese di operare secondo criteri di equità, giustizia e imparzialità.
Al vertice della piramide dove è situata la Responsabilità Filantropica o discrezionale,
Carroll identifica in questo livello le attività puramente volontarie svolte dall’impresa
nei confronti della società. Tali scelte, a contrario della categoria precedente, essendo di
natura volontaristica non ha attese da parte della comunità nella quale l’impresa opera e
sono quindi un riflesso del desidero dell’azienda ad impegnarsi in ruoli sociali che,
seppur non previsti dalla legge, hanno una forte valenza strategica. Tale categoria può
essere ricollegata al cerchio concentrico più esterno analizzato precedentemente
quando è stato trattato il grafico a tre cerchi concentrici ideato dal CED nel 1971 che
riguardavano gli aiuti che le imprese offrivano alla società.
Con questo grafico Carroll identifica le categorie che servono per migliorare lo sviluppo
sociale ed economico delle società nel quale l’impresa è inserita, senza dimenticare il
fine economico che è alla base della sopravvivenza dell’impresa. Le imprese che
vogliono essere socialmente responsabili oltre a soddisfare una moltitudine di obiettivi
(economico, legale, etico, filantropico) devono impegnarsi per raggiungere profitti
soddisfacenti, rispettando le leggi e avendo comportamenti etici positivi.
Oltre a fornire una nuova definizione di CSR, Carroll nel 1977 nel suo articolo “A Three
Dimensional Conceptual Model Of Corporate Performance20” introduce il concetto di
Corporate Social Performance (CSP). Secondo l’autore il CSP è l’insieme di tre
dimensioni, la Corporate Social Responsibility (CSR1) analizzata precedentemente nelle
sue quattro sfaccettature economica, giuridica, etica e filantropica o discrezionale, dalla
Corporate Social Responsiveness (CSR2) definita in termini di sensibilità nei confronti
dell’ambito sociale. Con il CSR2 si migliora il concetto di CSR perché non si individuano 20 Ibidem
18
solo gli obblighi sociali ai quali l’impresa deve adempiere, bensì si individuano anche gli
strumenti più idonei a tradurre in azioni concrete tali definizioni.
Infine i Social Issues sono intesi come identificazione di chiari obiettivi o aree
d’interesse a cui l’azienda vuole rivolgersi.
Come abbiamo potuto vedere in precedenza, gli anni ‘60 e ‘70 sono caratterizzati dal
proliferare di teorie e definizioni in ambito di CSR fornite da diversi autori nell’arco del
suddetto ventennio.
1.2 Anni ‘80
Con l’inizio degli anni ’80 invece, si sono venuti a creare tre grandi filoni di pensiero che
vengono così descritti:
1. Corporate Social Performance
2. Teoria degli Stakeholder
3. Studi sul Business Ethics
1.2.1 CSP
Il termine Corporate Sociale Performance nasce negli Stati Uniti d’America tra la fine
degli anni ‘70 e gli inizi degli anni ‘80 e, i suoi autori più rappresentativi sono stati
Carroll, Sethi, Wartick e Cochran ed infine Wood .
Al contrario del CSR che soffermava l’attenzione sul risultato di un’impresa, il CSP ha il
focus sul processo e i metodi attraverso il quale un’impresa identifica e fa coniugare i
propri interessi con quelli degli stakeholder.
Gli studi effettuati da Carroll sul CSP21 e analizzati nel paragrafo precedente, sono un
proseguo dei modelli proposti da Sethi e Preston, in particolare Carroll analizzava e
definiva il CSR1 in termini di principi e categorie (con riferimento alle differenti
responsabilità: economica, giuridica, etica, discrezionale), CSR2 in termini di strategie e
processi per far raggiungere all’impresa obiettivi di responsabilità social, e cercava
inoltre di far bilanciare i due termini in modo da far raggiungere all’impresa obiettivi sia
economici che sociali. 21 Ibidem
19
Negli stessi anni anche Sethi22 dà una propria impronta al concetto di CSP, in particolare
distingue tre fasi precise che descrivono il comportamento aziendale in risposta alle
esigenze sociali.
Queste tre fasi-‐livelli sono nominati:
1. Social Obligation
2. Social Responsibility
3. Social Responsiveness
Con il primo termine denominato Social Obligation23, l’autore si riferisce a tutti gli
obblighi che un’impresa ha in base ai vari vincoli di mercato o legali che sono imposti;
Social Responsibility24 invece si riferisce a quell’insieme di vincoli che seppur non
imposti dalla legge o dal mercato, devono essere rispettati dalle imprese perché sono dei
vincoli che vanno oltre la società e per questo prevedono rispetto. Si possono riferire
alla terza categoria indicata nella Piramide di Carroll denominata Responsabilità Etica.
Con l’ultimo livello denominato Social Responsiveness25, Sethi descrive la capacità che
devono avere le imprese nell’anticipare e prevenire le esigenze sociali che la società
richiede.
Wartick e Cochran26 hanno fornito un contributo molto importante in termini di
Corporate social Performance definendo un loro modello, che rappresentava la fusione
tra Social Responsibility, Social Responsiveness e Social Issue presentato da Carroll nel
1979.
L’innovazione fornita dai due studiosi consiste nel considerare i tre aspetti forniti da
Carroll ovvero il CSR1 CSR2 e la gestione dei problemi sociali non in maniera distinta e
separata come affermava l’autore, bensì in tale nuovo modello le tre componenti
vengono utilizzate contemporaneamente ovvero c’è una continua interazione tra i
22 S. P. Sethi, Dimensions of corporate social performance: An analytical framework, California Management Review, n.17, Spring 1975 23 Ibidem 24 Ibidem 25 Ibidem 26Wartick, Cochran ,The Evolution of the Corporate Social Performance Model, The Academy of Management Review, Vol. 10, n. 4, pp. 758-‐769, 1985
20
principi delle responsabilità sociali, tra i processi del Social Responsiveness ed infine tra
i programmi e le politiche destinati alla gestione dei problemi sociali.
Nell’articolo pubblicato nell’Accademy Management Review intitolato “the evolution of
corporate social performance model”, i due autori oltre a descrivere l’evoluzione dal
concetto di CSR al CSP, descrivono tre “sfide” che grazie al nuovo modello di CSP
vengono superate.
La prima sfida che prendono in esame riguarda la concezione di impronta Neoclassica,
che concepisce come unica responsabilità dell’impresa, generare profitti. Nel rispondere
a tale affermazione, i due autori prendono in esame la famosa Piramide di Carroll, che
descrive ben quattro tipi responsabilità che un’impresa ha nei confronti della società
ovvero quella economica, legale, etica e filantropica, e nega come unica responsabilità
quella di generare esclusivamente profitti.
La seconda sfida analizzata da Wartick e Cochran, consiste nell’accettare l’ estensione
del concetto di responsabilità tradizionale delle imprese alla responsabilità pubblica,
non accettando invece la responsabilità di tipo sociale.
I due autori nell’articolo invece affermano che la responsabilità pubblica definita in
senso lato, è sinonimo di responsabilità sociale, mentre definire tale responsabilità in
senso stretto invece, non può essere accettata in quanto non può rappresentare
completamente tutte le responsabilità che un’ azienda ha nei confronti della società.
Nella terza ed ultima sfida Wartick e Cochran analizzano il concetto di Corporate Social
Responsiveness, definendola come una coesione con il CSR e non una contrapposizione.
Nel modello di CSP proposto dai due autori, i due termini pur coesistendo, poggiano su
due livelli differenti: a livello macro, troviamo il CSR; a livello micro, CSR2.
Nel modello descritto dai Wartick e Cochran quindi, nel descrivere il loro modello di
CSP, oltre ad individuare le due dimensioni sopra citate ovvero il CSR e CSR2, i due
autori individuano una terza dimensione ovvero il Social Issue Management, dimensione
che serve a minimizzare le situazioni controverse che si potrebbero presentare
all’impresa e trovare soluzioni sistematiche ed interattive causate dai cambiamenti
dell’ambiente circostante all’impresa.
Tale area viene descritta come un processo nel quale avvengono tre fasi:
l’identificazione del problema; analisi; sviluppo della risposta.
21
Il modello di CSP descritto da Wartick e Cochran può essere così sintetizzato nella
tabella che segue:
Tabella n.1: “Modello di CSP di Wartick e Cochran”
PRINCIPLES PROCESS POLICIES
Corporate Social
Responsibilities:
-‐ Economic
-‐ Legal
-‐ Ethical
-‐ Discretionary
Corporate Social
Responsiveness:
-‐ Reactive
-‐ Defensive
-‐ Accomodative
-‐ Proactive
Social Issue
Management:
-‐ Issues
identification
-‐ Issues analysis
-‐ Response
development
Directed at:
-‐ The Social
Contract of the
Business
-‐ Business is a
Moral Agent
Directed at:
-‐ The capacity to
respond to
changing societal
conditions
-‐ Managerial
approaches to
developing
responses
Directed at:
-‐ Minimizing
“surprise”
-‐ Determinig
effective
corporate
social policies
Philosophical
orientation
Istitutional orientation Organizationl
orientation
In questo modello vengono rappresentati tre elementi principali i “principi”, i “processi”
ed infine le “politiche”. Questi elementi che interagiscono tra di loro descrivono le
responsabilità che un’impresa ha nei confronti della società ovvero responsabilità di
tipo economico legale etico e discrezionale, la tipologia di processo che deve
intraprendere in base alle esigenze che si propongono, ovvero reattivo, difensivo,
accomodante e pro-‐attivo; attraverso le politiche invece, vengono da prima identificati e
analizzati i problemi ed infine viene trovata una risposta.
22
Il modello descritto da Wartick e Cochran, venne successivamente rivisto da Donna J.
Wood27 nel 1991 la quale mosse alcune critiche nei confronti di tale modello di CSP
ritenendolo per certi aspetti privo di alcune caratteristiche importanti. Secondo l’autrice
infatti, il modello innanzitutto considerava la Corporate Social Responsiveness come un
singolo processo invece che come insieme di processi, e considerava la terza dimensione
troppo limitata, a causa dell’associazione alle politiche sociali invece che considerare che
tale performance sociale potesse esistere anche senza le suddette politiche deliberate,
infine l’ultima critica che venne mossa consisteva nel ritenere che il modello proposto
anche se considerava i principi, processi e politiche, mancasse di due componenti
importanti ovvero la componente relativa alle azioni che un’impresa doveva compiere e
la componente relativa ai risultati.
Donna J. Wood nel definire il CSP come:
“la configurazione di una organizzazione aziendale che basa i suoi principi sulla
responsabilità sociale, i processi di risposta sociale, le politiche, i programmi e
l’osservazione dei risultati che l’azienda ha nei confronti della società28” (D. J. Wood, 1991)
propone il suo modello di CSP, prendendo spunto sia dal modello di Carroll del 1979,
che da Wartick e Cochran rivoluzionando però le loro tre classi ovvero: principi, processi
e politiche, in tre nuove categorie. La prima denominata Principi della Corporate Social
Responsibility si suddivide nel livello istituzionale, che consiste nei quattro domini
descritti da Carroll (economico, legale, etico, discrezionale), nel livello organizzativo che
rappresenta la pubblica responsabilità, e nel livello individuale che si riferisce la
discrezione manageriale. La seconda categoria denominata Corporate Social
Responsiveness, viene classificata in environmental assessment, stakeholder
management e issue management. La terza ed ultima categoria viene identificata come
Outcomes of Corporate Behaviour, che rappresenta le Politiche descritte nel modello di
Wartick e Cochran, rappresentano per Donna J. Wood i risultati o le performance
dell’impresa, e si suddividono in: social impacts; social programs che servono per
27 Donna J. Wood, Corporate Social Performance Revisited, Academy of Management Review, n.16, 1991 28 Ibidem
23
implementare le responsabilità dell’impresa, ed infine social policies utilizzate dalle
imprese per trattare i social issue e gli interessi degli stakeholder.
Tabella n.2: “Modello di CSP di Donna J. Wood”
PRINCIPLES OF CORPORATE
SOCIAL RESPONSIBILITY
PROCESS OF CORPORATE
SOCIAL RESPONSIVENESS
OUTCOME OF
CORPORATE BEHAVIOUR
Istitutional principle
legitimacy
Environmental assessment Social impacts
Organizational principle
public responsibility
Stakeholder management Social programs
Individual principle
managerial discretion
Issues Management Social policies
Nel modello descritto da Wood si individuano 3 dimensioni (Principi, Processi, Risultati)
suddivisi a loro volta in 3 livelli.
Nella dimensione dei Principi al primo livello ovvero quello istituzionale, l’autrice
considera tutte le aspettative che la società ha nei confronti dell’impresa.
Il secondo livello denominato Aziendale considera invece le aspettative della società nei
confronti dell’impresa considerando però le attività che esse svolgono, e ciascuna
azienda è responsabile per ogni tipo di risultato e impatto che genera.
Il comportamento dei Manager che ricoprono il terzo livello della dimensione dei
Principi, considera le azioni e decisioni prese dai Manager di un’impresa, considerandole
come decisioni discrezionali del singolo soggetto che non possono essere sempre
descritte in procedure aziendali.
Considerando invece la seconda dimensione, Corporate social responsiveness, Wood la
considera come l’ ”azione” del modello e serve ad indicare l’area di azione dell’impresa
ovvero quella relativa all’ambiente ovvero serve a definire il contesto di riferimento; gli
stakeholder cioè i soggetti con i quali l’impresa direttamente o indirettamente si
interfaccia oppure riguarda le problematiche sociali.
La terza ed ultima dimensione, oltre ad indicare gli impatti social, serve all’impresa per
considerare sia le politiche che i programmi aziendali di gestione nei confronti dei
problemi che possono nascere in ambito sociale o con gli stakeholder.
24
Una delle innovazioni proposte nel modello di Wood, oltre a considerare i Risultati
(outcome of corporate behaviour) in maniera esplicita, utilizza i tre elementi del
modello Principi-‐Processi-‐Risultati contemporaneamente gli uni con gli altri, in modo da
poter individuare i legami che possono portare a “buoni risultati derivanti da cattivi
principi ”, “cattivi risultati da buoni principi” oppure “buoni principi ma sviluppati con
cattivi processi” e così via. Secondo Wood infatti non è ovvio né tanto meno scontato che
se un’impresa intraprende buone politiche esse si trasformino in buoni risultati, ma
paradossalmente può accadere che buoni risultati sociali non vengano ispirati da buoni
principi o possono derivare da cattive politiche aziendali.
1.2.2 Teoria Degli Stakeholder
Nel 1963 l’Istituto di Ricerca di Stanford (SRI) descrisse per la prima volta il concetto di
stakeholder, e lo definì come un insieme di tutti quei soggetti che hanno un interesse
nell’attività dell’azienda e senza il cui appoggio, un’impresa non è in grado di
sopravvivere. Definire in maniera precisa il concetto di stakeholder è di fondamentale
importanza all’interno del mondo del CSR perché permette di definire un gruppo di
persone fino ad allora ancora troppo vago e di identificare quei soggetti nei confronti dei
quali l’impresa deve assumere comportamenti responsabili.
Lo studio condotto dal SRI nasce come una teoria manageriale che serviva ai manager,
per identificare le aspettative che gli stakeholder si prefiggevano e definire cosi degli
obiettivi comuni che sia l’impresa che gli stakeholder avrebbero supportato per
assicurarsi un successo nel lungo periodo.
Uno dei padri della teoria degli stakeholder fu Robert Edward Freeman29 che nel 1984,
oltre a definirli come: “gruppi o soggetti che sono influenzati o possono influenzare il
raggiungimento degli obiettivi dell’impresa30”, li suddivide in “stakeholder primari31”
ovvero quel gruppo di soggetti ben identificati dai quali dipende la sopravvivenza
dell’impresa che possono essere gli azionisti, dipendenti clienti, fornitori e le agenzie
governative, soggetti indispensabili e, l’inclinazione del rapporto che instaurano con 29 R. E. Freeman, Strategic Management: A stakeholder approach, Boston, Pitman ,1984, 30 R. E.Freeman, Strategic Management: A stakeholder approach, Boston, Pitman,1984, pag. 46 31 Ibidem
25
l’impresa può decretare la fine dell’impresa stessa; e gli “stakeholder secondari” che
sono identificati come gruppi di persone o singoli individui che possono influenzare o
essere influenzati dall’attività dell’organizzazione in termini di prodotti , politiche
oppure da movimenti di protesta, comunità locali, associazioni imprenditoriali,
concorrenti e la stampa.
Secondo Freeman è di vitale importanza oltre che identificare i gruppi di soggetti con i
quali l’impresa ha una relazione, essa deve tenere in considerazione le diverse esigenze
di tutti gli stakeholder e non solo quelle degli stokholder ovvero gli azionisti, perché solo
rispondendo ai diversi portatori di interesse, il management potrà sviluppare queste
relazioni anche in maniera strategica.
Seguendo l’onda della teoria degli stakeholder, nel 1995 Donaldson e Preston fornirono
una serie di raccomandazioni per gestire nel migliore dei modi l’insieme di
stakeholder32, indicando la scelta delle strutture organizzative e delle politiche aziendali
generali. I due autori descrivendo tre scenari, quello descrittivo, strumentale e
normativo, propongono un’analisi delle possibili modalità di utilizzo della teoria degli
stakeholder proposta da Freeman.
Attraverso la funzione descrittiva, nella teoria di Freeman l’impresa è vista come un mix
di interessi differenti e conflittuali tra loro a causa della moltitudine di soggetti che
fanno parte della famiglia degli stakeholder, ed è la natura dell’impresa stessa che ha la
capacità e il dovere di coordinare e far cooperare tra di loro i diversi stakeholder.
Nella funzione strumentale invece la teoria degli stakeholder descrive l’importanza nel
gestire le differenti relazioni con i diversi stakeholder, al fine di poter raggiungere gli
obiettivi che l’impresa si è prefissata. Solo in questo modo, attraverso una gestione delle
relazioni strategica, l’impresa potrà raggiungere il successo nel lungo periodo.
Con la funzione normativa, Donaldson e Preston prestano attenzione a due presupposti
della teoria di Freeman: il primo consiste nel fatto che gli stakeholder hanno interessi
legittimi rispetto all’impresa ed è proprio in funzione a tali interessi ,e non in base
all’interesse che l’azienda nutre verso di loro, che essi vengono definiti stakeholder; il
secondo presupposto invece considera tali interessi come un valore intrinseco e non
puramente strumentale per l’impresa, poiché provengono da soggetti (stakeholder)
32 Donaldson, Preston, The stakeholder theory of the corporation: concepts, evidence and implications, Academy of Management Review, n.20, 1995
26
essenziali per la durata dell’impresa e appartenenti a categorie che detengono interessi
e diritti.
Nel 1997 Mitchell insieme ad altri studiosi aveva progettato un modello che serviva al
management di un’impresa, a classificare in ordine d’importanza gli stakeholder con i
quali era necessario interloquire.
Questo modello venne sviluppato ulteriormente nel 2001 da Jawahar e McLaughlin, i
quali sostenevano che i rapporti che l’impresa aveva con i propri stakeholder non era
statico nel tempo, bensì si evolveva e perciò l’intensità era soggetta a continue
mutazioni. Secondo i due autori queste evoluzioni erano sintetizzabili in quattro fasi ben
precise: start up, ovvero la nascita del rapporto tra organizzazione e stakeholder;
emerging growth, che rappresentava la fase di crescita e consolidamento del rapporto;
maturity, fase di stallo e maturità del rapport; ed infine decline or revival, fase finale
dove il rapporto arrivava ad un punto critico, o terminava oppure avveniva una
rielaborazione.
Questo schema però risultò abbastanza schematico e privo di elasticità nel delineare i
probabili rapporti che si potevano creare tra gli stakeholder e l’organizzazione.
Un altro studioso che ha dato un contributo nello studio degli stakeholder è stato Jeff
Frooman, che nel 1999 pubblicò un articolo nell’Academy of Management Review
intitolato “Stakeholder Influence Strategies”.
Nel suddetto articolo J. Frooman classificava gli stakeholder secondo tre fattori di
distinzione:
• La capacità degli stakeholder di influenzare nelle scelte organizzative
• Le strategie che utilizzano per influenzare l’organizzazione
• Il grado di rischio a cui si espongono gli stakeholder interagendo con l’impresa.
Anche in questo caso però, come per lo schema di Jahawar e McLaughlin, venne criticato
a Frooman l’eccessiva staticità nell’illustrare il rapporto esistente tra impresa e
stakeholder.
27
1.2.3 Business Ethics
Con l’inizio degli anni ’80 nasce in America un nuovo concetto denominato Business
ethics o “etica degli affari” tradotto in italiano, che ha l’obiettivo di analizzare i fini e le
condotte che un’impresa adotta e studia inoltre i principi, i valori e le norme etiche che
stanno alla base delle scelte che un’impresa vuole intraprendere.
Mentre la CSR, analizzata precedentemente, nasceva a causa di una pressione esterna da
parte della società nei confronti dell’impresa, attraverso la corrente di pensiero del
Business ethics è l’impresa che vuole fornire adeguate giustificazioni in merito alle
azioni che vuole intraprendere, ponendo particolare attenzione ai valori etici che stanno
alla base dei propri comportamenti.
Secondo tale corrente di pensiero, esistono teorie etiche e normative di ambito
economico che indicano come dovrebbe essere una società e le istituzioni economiche
che la compongono e spiegano inoltre, in base ad un insieme di valori che risulta valido e
accettato da tutti, quali dovrebbero essere i comportamenti che devono essere adottati e
accettati.
Nel 1986 Frederick identificava il Business ethics con la sigla CSR3 ovvero “Corporate
Social Rectitude33”, per sottolineare l’importanza dei comportamenti etici nelle scelte
che intraprende un’azienda, incorporando la dimensione morale che né il CSR1 né il
CSR2 analizzati precedentemente, menzionavano nelle loro spiegazioni.
L’utilizzo della “Corporate Social Rectitude”, serve per individuare quelle imprese che
adottano scelte aziendali e decisioni manageriali con un occhio di riguardo all’eticità.
Inoltre se si include la CSR3 all’interno di un’impresa, si posseggono strumenti di analisi
per individuare ed anticipare le problematiche etiche che riguardano l’impresa e i suoi
dipendenti; infine la “Corporate Sociale Rectitude” riesce ad individuare una politica
continua tra le scelte aziendali presenti e future con i valori tipici di una cultura basata
sull’etica.
Nel panorama italiano furono diversi i personaggi che appoggiarono e ampliarono il
concetto di Business ethics, uno di questo fu L. Sacconi.
Nel 2005 Sacconi definisce il Business ethics come “lo studio dell’insieme dei principi,
valori e delle norme etiche che regolano (o dovrebbero regolare) le attività economiche più
33 Frederick, Why ethical analysis in indispensable unavoidable in corporate affairs, California Management Review, n.28,1986
28
variamente intese34”. Secondo l’autore le istituzioni e le pratiche economiche che sono
mosse dall’etica, vengono considerate in base a diversi livelli di astrazione ovvero:
macro; meso e micro.
Nel primo caso (livello macro), le principali istituzioni economiche della società come lo
stato o il mercato, vengono valutate sulla sfera morale attraverso lo strumento dell’etica.
Nel secondo livello, ossia quello meso, l’etica viene applicata nella valutazione morale
delle organizzazioni intermedie, nei luoghi quali le imprese dove le decisioni che
vengono prese non sono in autonomia ma dipendono da qualcun altro. Nell’ultima
dimensione descritta da Sacconi, quella micro, l’etica viene applicata nella valutazione
morale, nelle scelte prese da singoli soggetti quali i manager, persone in ruoli
professionali o all’interno di funzioni istituzionali, e come essi si interfacciano e
intraprendono trattative con varie categorie di soggetti ossia gli stakeholder.
1.3 L’evoluzione della Sostenibilità attraverso le Organizzazioni Internazionali
Il concetto di sostenibilità nasce nel 1987 quando le Nazioni Unite affidarono alla
Commissione Mondiale sull’ Ambiente e Sviluppo (World Commission on Environment
and Development, WCED) la redazione di un rapporto sulla situazione mondiale
dell’ambiente e dello sviluppo, conosciuto come Rapporto Brundtland (Our Common
Future). In tale rapporto viene definito il concetto di sostenibilità come: “uno sviluppo
che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni
future di soddisfare i propri35.”
Attraverso questa definizione la Commissione Mondiale sull’Ambiente e Sviluppo
(WCED) non mette in primo piano la tutela dell’ambiente in quanto tale, bensì si
riferisce al benessere delle persone, mettendo enfasi sulla responsabilità delle
generazioni d’oggi di preservare le risorse e l’equilibrio ambientale, al fine di poter farne
beneficiare alle generazioni future, tale concetto applicato alla CSR può essere
interpretato come la volontà di generare valore nel lungo periodo, non solo per gli
34 Sacconi, Etica degli affari, Guida critica alla responsabilità sociale e al governo d’impresa, Bancaria Editrice, pp.257, 2005 35 Rapporto di Brutland, Our Common Future, WECD, Nazioni Unite, 1987
29
azionisti, ma anche per gli altri stakeholder. Un altro aspetto importante che si è
sviluppato nel Rapporto di Brutland è la centralità della partecipazione di tutti:
“il soddisfacimento di bisogni essenziali esige non solo una nuova era di crescita
economica per nazioni in cui la maggioranza degli abitanti siano poveri, ma anche
la garanzia che tali poveri abbiano la loro giusta parte delle risorse necessarie a
sostenere tale crescita36”. (Our Common Future, 1987)
Tale rapporto è suddiviso in tre sezioni:
1. Preoccupazioni comuni
• Un futuro minacciato
• Verso uno sviluppo sostenibile
• Il ruolo dell’economia internazionale
2. Sfide collettive
• Popolazioni e risorse umane
• Sicurezza alimentare: sostenere le potenzialità
• Specie ed ecosistemi: risorse per lo sviluppo
• Energia: scelte per l’ambiente e lo sviluppo
• Industria: produrre più con meno
• Il problema urbano
3. Sforzi comuni
• Gestione dei beni comuni internazionali
• Pace, sicurezza, sviluppo e ambiente
• Verso un’azione comune
In seguito a questo evento che rimarrà nella storia, il concetto di sviluppo sostenibile
viene descritto come la via da percorrere per la tutela dell’ambiente ed anche come
strumento per una maggior cooperazione tra gli Stati, al fine di poter migliorare
l’utilizzo di risorse naturali, trovare nuove tecnologie per utilizzare energie rinnovabili
per evitare l’esaurimento delle risorse non rinnovabili.
36 Ibidem
30
Una successiva definizione di sostenibilità è stata data alla Conferenza di Rio de
Janeiro37 nel 1992, definendo lo sviluppo sostenibile come un concetto integrato, in altre
parole che interessava l’ambiente, l’economia e anche la società. Tale conferenza istituita
dalle Nazioni Unite prese il nome di “Conferenza sull’ambiente e lo sviluppo” e, oltre ad
aver avuto un enorme impatto mediatico, parteciparono ben 172 governi e 108 capi di
Stato e gli argomenti che vennero trattati furono:
• L’importanza dell’energia alternativa per diminuire l’utilizzo di combustibile
fossile, ritenuto responsabile del cambiamento climatico globale;
• La scarsità dell’acqua;
• Un quadro sui sistemi di pubblico trasporto per ridurre l’emissione dei veicoli.
Al fine di soddisfare i punti indicati, si rivelò necessario quindi promuovere un
progresso tecnologico sostenibile in grado di diminuire l’uso delle risorse non
rinnovabili e di limitare la produzione di rifiuti. Lo scopo di tale conferenza inoltre, era
quello di instaurare una nuova ed equa partnership globale, attraverso accordi
internazionali che avrebbero interessato e tutelato l’integrità del sistema globale
dell’ambiente e dello sviluppo:
“Gli Stati coopereranno in uno spirito di partnership globale per conservare, tutelare e
ripristinare la salute e l'integrità dell'ecosistema terrestre. In considerazione del differente
contributo al degrado ambientale globale, gli Stati hanno responsabilità comuni ma
differenziate. I paesi sviluppati riconoscono la responsabilità che incombe loro nel
perseguimento internazionale dello sviluppo sostenibile date le pressioni che le loro società
esercitano sull'ambiente globale e le tecnologie e risorse finanziarie di cui
dispongono38”(principio n.7 della Dichiarazione di Rio).
La Conferenza di Rio de Janeiro riprese il termine "sviluppo sostenibile" coniato nel
Rapporto Brundtland del 1987, per collocarlo al centro di una nuova analisi di politica
socioeconomica. I paesi che parteciparono alla Conferenza di Rio stilarono gli obiettivi e 37 Conferenza di Rio de Janeiro, United Nations Conference on Environmnent and Development, 3-‐14 Giugno1992 38 Conferenza di Rio de Janeiro, United Nations Conference on Environmnent and Development, Principio n. 7, 3-‐14 Giugno1992
31
le politiche da adottare in un documento ufficiale denominato "Agenda 2139", nel quale
21 significava il "ventunesimo secolo". Venne istituita un'apposita commissione presso
le Nazioni Unite, che avrebbe monitorato annualmente lo stato di attuazione dell'Agenda
21 presso i paesi firmatari. Il documento denominato “Agenda 21”richiedeva agli stati la
responsabilizzazione degli obiettivi ambientali nelle politiche nazionali. S’iniziò dunque
a monitorare il carico inquinante che derivava dalle attività umane, in particolar modo le
emissioni di gas serra nell’atmosfera terrestre.
Come risultato del summit furono sottoscritte tre Convenzioni:
1. Convenzione quadro delle nazioni unite sui cambiamenti climatici: col fine di
limitare il surriscaldamento del globo terrestre, limitando le emissioni di
anidride carbonica all’interno dell’atmosfera terrestre
2. Convenzione sulla lotta contro la deforestazione: per tutelare i paesi gravamenti
colpiti dalla siccità e desertificazione, in particolar modo in Africa
3. Convenzione sulla diversità biologica.
E tre documenti altresì importanti quali:
1. Agenda 21: documento base esplicativo sulla teoria dello sviluppo sostenibile,
contenente gli impegni per trasformare le dichiarazioni in principi guida
2. Dichiarazione di Rio per Ambiente e Sviluppo: contenente 27 principi che
sottolineano i diritti e le responsabilità degli Stati nei confronti dell’ambiente
3. Dichiarazione sui Principi Relativi alle Foreste.
1999 Kofi Annan Segretario Generale delle Nazioni Unite, lanciò per la prima volta un
appello per la creazione di un “Global Compact40”, ossia di “un’economia globale più
inclusiva e più sostenibile”. Il lancio del Global Compact rappresentò allora il primo
invito ufficiale alle grandi imprese multinazionali a impegnarsi nel rispetto e
nell’applicazione di nove principi relativi a: diritti umani, ambiente e lavoro, attraverso
un’adesione volontaria a tali principi. L’invito ad aderire a tale patto globale fu esteso ai 39 Agenda 21, Manuale per lo sviluppo sostenibile ed azioni da compiere nel 21 secolo, ONU, 1992 40 Global Compact, iniziativa per incoraggiare le imprese ad adottare politiche sostenibili, iniziativa delle Nazioni Unite, 1991
32
governi, alle organizzazioni della società civile e al mondo del lavoro, per favorire lo
sviluppo di partnership fra soggetti di diversa natura.
Il Rapporto di Brutland nominato precedentemente, racchiude in sé un altro concetto
fondamentale nella definizione di sostenibilità, ovvero il concetto di “Triple bottom line”.
Il concetto di sostenibilità che tradizionalmente è legato alla gestione dell’impatto
ambientale, quando viene applicato alla CSR racchiude in sé altre due dimensioni oltre
alle problematiche di tipo ambientale: economico; sociale. Questo tipo di approccio
tridimensionale è noto come “triple bottom line”. Un’organizzazione sostenibile quindi, è
definita come tale se e solo se è in grado di generare equilibrio e minimizzare i propri
impatti negativi, in ambito economico ambientale e sociale.
Fig. numero 3: “triple bottom line”
L’approccio triple bottom line associato alla sostenibilità, è stato adottato anche dalle
“Linee guida dell’Ocse destinate alle imprese multinazionali41”, pubblicate nel 1976 ed
emendate nel 2000, evolvendosi di pari passo con i cambiamenti strutturali intervenuti
nelle attività internazionali delle imprese. Esse infatti si aprono con l’invito alle imprese
a “contribuire al progresso economico, sociale e ambientale per realizzare uno sviluppo
sostenibile42”.
41 OCSE, Linee Guida Dell’OCSE Destinate Alle Imprese Multinazionali, 2007 42 Ibidem
economico
ambientale sociale
33
Le linee guida dell’Ocse sono una serie di raccomandazioni rivolte dai governi che hanno
sottoscritto la Dichiarazione OCSE del 27 Giugno del 2000, alle imprese multinazionali,
e contengono principi e norme volontarie per un comportamento responsabile che i
soggetti aderenti devono adottare.
Questo corpo di raccomandazioni serve per stimolare i governi e le imprese
multinazionali ad apportare un contributo positivo a livello economico, sociale ed
ambientale negli stati con lacune giurisdizionali a favore della società e dello sviluppo
sostenibile. Attraverso le Linee guida dell’OCSE ci si può adeguare ai cambiamenti
avvenuti nel contesto economico mondiale dove, la sempre più crescente
globalizzazione e l’aumento del potere delle multinazionali, provoca un enorme
svantaggio nelle economie locali, nelle quali la giurisprudenza è più permissiva; per
questo motivo si è dimostrata necessaria la cooperazione tra stati nel creare un’
“organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse)”.
Attraverso l’adesione al corpus di regole, i paesi firmatari hanno assunto un triplice
impegno:
1. Nei confronti delle imprese: assicurandosi che le stesse si uniformino a quanto
enunciato nelle linee guida.
2. Nei confronti degli altri governi: al fine di conformare al diritto internazionale la
propria normativa in materia di imprese multinazionali, a cooperare in buona
fede, ricorrendo a meccanismi internazionali di composizione delle controversie
derivanti dall’attività delle imprese.
3. Nei propri confronti: impostando strutture macroeconnomiche stabili, un
trattamento non discriminatorio delle imprese, una regolamentazione adeguata,
una giustizia nonché un’applicazione della legge imparziale ed infine una
Pubblica Amministrazione efficace ed integrata.
Le Linee guida dell’OCSE del 2000 sono suddivise in due parti: la prima contiene la
descrizione dei comportamenti e delle modalità operative alle quali si devono attenere
le imprese multinazionali nell’esercizio delle attività e nella gestione dei rapporti con
terzi, direttamente o indirettamente coinvolti con il loro operato.
La seconda parte invece, è dedicata alla descrizione della struttura e delle attività degli
organismi strumentali alla corretta diffusione ed applicazione delle linee guida, quali i
punti di contatto nazionali (PCN) ed il comitato degli investimenti dell’OCSE.
34
Il 15-‐16 maggio del 2001, un anno dopo l’avvio della fase operativa del Global Compact,
la Commissione Europea si riunì a Göteborg43, e istituì una strategia a lungo termine
volta a conciliare le politiche in materia di sviluppo sostenibile sul piano economico,
ambientale e sociale al fine di migliorare in ottica di sostenibilità il benessere e le
condizioni di vita delle generazioni presenti e future.
Solo un anno dopo il Global Compact, per la prima volta il Consiglio Europeo approva
una strategia per lo sviluppo sostenibile, considerato ora come una opportunità anche
economica e non solo come un vincolo del quale tenere conto, con la possibilità di
sviluppare un’ondata di innovazione tecnologia e di investimenti, in grado di generare
crescita e occupazione. Si afferma anche in questo caso l’approccio “triple bottom line”,
con l’esplicita dichiarazione che “la strategia dell’Unione Europea per lo sviluppo
sostenibile è basata sul principio secondo cui gli effetti economici, sociali ed ambientali di
tutte le politiche dovrebbero essere esaminati in modo coordinato e presi in considerazione
nel processo decisionale.44”
Con la presente strategia l’UE, oltre ad assumersi l’impegno di delineare un quadro
politico comunitario a favore dello sviluppo sostenibile, si assume le responsabilità
internazionali ovvero si impegna a far rispettare, al di fuori della comunità europea, gli
aspetti connessi alla democrazia, pace, sicurezza e libertà.
I principi sui quali si basa tale strategia sono sette e sono:
1. Promozione e tutela dei diritti fondamentali
2. Solidarietà intra ed intergenerazionale
3. Garanzia di una società aperta e democratica
4. Partecipazione dei cittadini, delle imprese e delle parti sociali
5. Coerenza e integrazione delle politiche
6. Utilizzo delle migliori conoscenze disponibili
7. Principi di precauzione e del “chi inquina paga”.
43 Consiglio Europeo di Göteborg, nel quale sono state approvate una strategia per lo sviluppo sostenibile ed è stato aggiunto una dimensione ambientale al processo di Lisbona per l’occupazione, le riforme economiche e la coesione sociale 44 Consiglio Europeo di Göteborg, II Strategia per lo sviluppo sostenibile, n.22, 15-‐16 Giugno 2001
35
Tale strategia identifica inoltre sette emergenze non sostenibili per cui è necessaria
un’azione, ed attraverso l’elencazione di obiettivi operativi e numerici e misure concrete
a livello EU, si cerca di raggiungere tali obiettivi.
Il primo obiettivo della strategia a lungo termine è diminuire i cambiamenti climatici e
limitare i loro effetti, attraverso il rispetto del trattato di Kyoto45 redatto l’11 dicembre
del 1997 nella città di Kyoto e sottoscritto da più di 180 paesi. Il protocollo di Kyoto
impegnava i paesi sottoscrittori, ad una riduzione quantitativa delle proprie emissioni di
gas ad effetto serra responsabili del riscaldamento del clima terrestre, che attraverso
l’emissione di CO2 nell’atmosfera rappresenta il principale costituente dell’impronta
ecologica umana nonché uno dei più preoccupanti problemi ambientali dell’era
moderna.
Il secondo obiettivo a lungo termine è limitare gli effetti negativi dei trasporti e
combattere gli squilibri regionali attraverso la rottura del legame tra crescita economica
e sviluppo dei trasporti, potenziando maggiormente le modalità di trasposto rispettose
dell’ambiente e della salute. Questo secondo obiettivo prevede inoltre la promozione dei
trasporti alternativi alla strada e dei veicoli meno inquinanti e più efficienti dal punto di
vista energetico.
Al fine di promuovere modelli di produzione e consumi più sostenibili, risultò essere
necessario spezzare il vincolo tra crescita economica e degrado ambientale, e iniziare a
considerare ciò che effettivamente l’eco sistema poteva sostenere. Era questo il terzo
obiettivo della Commissione Europea, che cercava inoltre di promuovere appalti
ecologici, aumentare la diffusione delle innovazioni ambientali e delle tecnologie
ecologiche.
Costituì un obiettivo anche la gestione sostenibile delle risorse naturali, diminuendone
l’eccessivo sfruttamento e migliorandone l’efficacia del loro uso attraverso il
riconoscimento del valore dei servizi ecosistemici e frenando la diminuzione delle
biodiversità. L’UE si impegna a definire ed attuare le azioni prioritarie per proteggere la
biodiversità e compiere sforzi a tutela del settore dell’agricoltura, della pesca e della
gestione delle foreste.
45 Protocollo di Kyoto, Trattato internazionale che riguarda il tema del riscaldamento globale, Kyoto, 11 Dicembre 1997
36
Il quinto obiettivo del Consiglio Europeo svolto a Göteborg, fu quello di aumentare la
qualità e la sicurezza degli alimenti per garantire una maggior sicurezza a tutti i livelli
della catena alimentare e per limitare i rischi per la salute pubblica.
I problemi relativi alle epidemie e alla resistenza dei farmaci devono essere contrastati,
anche per il fine di combattere il virus dell’HIV.
Per combattere la povertà e l’esclusione sociale e le conseguenze dell’invecchiamento
demografico, l’UE deve incrementare gli sforzi per garantire la sostenibilità dei sistemi
pensionistici e di protezione sociale, inoltre deve garantire l’integrazione dei migranti
legali e lo sviluppo di una politica comunitaria in materia di immigrazione ed infine la
parità di sesso tra donne e uomini.
Nel settimo ed ultimo obiettivo, la strategia prevede il rafforzare la lotta contro la
povertà nel mondo e di garantire uno sviluppo sostenibile e globale ed il rispetto degli
impegni internazionali. Nel raggiungere tale scopo l’UE aumenterà gli importi di aiuti ai
paesi più poveri, per rafforzare la coerenza e la qualità delle politiche di aiuto allo
sviluppo e promuovere una migliore governance internazionale.
1.4 La letteratura della sostenibilità
Numerosi furono gli economisti che negli anni più recenti si occuparono del concetto di
sostenibilità, riconoscendo l’impresa non più come “soggetto” autonomo, ma parte di un
ambiente e contesto competitivo territoriale, del quale essa fa parte.
Si incomincia ad indagare sulla natura e le interazioni delle quali l’impresa fa parte,
analizzando come l’impresa influenza ed è influenzata dall’ambiente del quale fa parte.
I principali riferimenti teorici sono rappresentati dall’evoluzione del pensiero di Porter,
Freeman e Zedek.
L’economista Porter nato il 23 maggio del 1947 negli Stati Uniti d’America, nell’articolo:
“Strategy and society. The thing between competitive advantage and corporate social
responsibility 46 ” pubblicato nella rivista Harvard Business Review, parte dal
presupposto che il business e la società sono due concetti interconnessi. Secondo Porter
affermare che l’impresa e la società abbiano bisogno l’uno dell’altro non è un luogo
46 Porter, Kramer, Strategy and society. The thing between competitive advantage and corporate social responsibility, Harvard Business Review, Dicember 2006
37
comune anzi, la dipendenza che intercorre tra questi due soggetti, implica che le
decisioni di business e politiche sociali, debbano seguire entrambe il principio di valore
condiviso ovvero che le scelte fatte creino beneficio per entrambe le parti.
In quest’articolo del 2006, l’economista non considera il benessere sociale e il successo
aziendale come un “gioco somma zero”, bensì introduce un:
“modello che le imprese possono utilizzare per identificare tutti gli effetti negativi e positivi
che hanno sulla società, determinando quelli che meritano un loro intervento ed
individuando un modo efficace per intervenire47”. (Porter, Kramer, 2006)
Questa relazione d’interdipendenza descritta da Porter e Kramer prende inizio con il
prelievo dal sistema competitivo, delle risorse di tipo economico, sociale e ambientale
per poter intraprendere le proprie attività. Una volta che le risorse sono state prelevate
ed elaborate all’interno del processo produttivo, apportano valore al sistema
competitivo, valore di tipo economico, ambientale e sociale.
Tale processo d’interdipendenza può ricominciare se e solo se l’impresa ha reso al
contesto competitivo un valore aggiunto superiore rispetto a quello prelevato, solo in
questo caso sarà la stessa impresa che potrà beneficiare di tale relazione,
rincominciando il processo con un altro prelievo di risorse.
Attraverso tale processo quindi, sarà necessario domandarsi quale e quanto valore deve
essere prelevato a monte del processo produttivo e in quale modo tale valore possa
essere massimizzato a favore degli stakeholder del territorio, attraverso una logica di
“win-‐win”, dove l’impresa si dimostra coerente e competitiva rispetto alle dinamiche del
territorio del quale fa parte.
Al fine di poter individuare gli impatti positivi o negativi e cercando di individuare una
scala di priorità, trovando le aree di maggior interesse strategico e il maggior benefici
per la società, Porter trasforma la catena del valore in “catena del valore sociale48”.
Tale strumento permette di entrare all’interno dei processi aziendali e fornisce inoltre,
una chiave di lettura per revisionare i processi organizzativi e produttivi, in modo da
massimizzare non solo la produzione del valore economico, ma anche quello sociale.
47 Ibidem 48 Porter, Catena del valore sociale, Competitive Advantage: Creating and Sustaining Superior Performance, 1985, ed. it. Il vantaggio competitivo, edizioni Einaudi, 2002
38
La catena del valore rappresenta tutte le operazioni che un’impresa effettua per portare
avanti il suo business, essa viene utilizzata per identificare l’impatto sociale, negativo o
positivo, prodotto dalle attività aziendali. Come si evince dalla fig. 4 le attività che
l’impresa può intraprendere sono di nove tipologie e si possono suddividere in due
categorie: primarie, supporto.
Le attività primarie sono: Logistica in entrata (immagazzinamento delle materie prime,
raccolta informazioni, servizi); Operations o produzione (assemblaggio, fabbricazione
dei componenti); Logistica esterna (gestione degli ordini, reportistiche); Marketing e
vendite (forza di vendita, promozione); Servizi-‐Servizi post vendita (installazione,
servizio clienti, risposte ai reclami).
Le attività di supporto invece sono: Approvvigionamenti o acquisti (componenti,
macchinari, pubblicità); Sviluppo della tecnologia (disegno prodotti, collaudo,
progettazione dei processi); Gestione delle risorse umane (selezione, formazione,
sistemi retributivi); Infrastruttura dell’impresa (finanziamento, rapporto con gli
investitori). Sia le attività primarie che le attività di supporto hanno dei legami di tipo
interno-‐esterno tra l’organizzazione e la società dove è inserita. Questi tipo di legami
sono le attività svolte dall’impresa che hanno inevitabilmente un impatto sulla società
nella quale essa opera.
39
Fig. numero 4: “Catena del valore sociale” di Porter49
Oltre a comprendere i legami interno-‐esterno dati dalla catena del valore, la CSR impone
il bisogno di comprendere anche le dimensioni sociali del contesto competitivo in cui
l’impresa opera, ovvero i legami esterno-‐interno, i quali incidono sulla sua capacità di
accrescere la produttività e mettere in atto la strategia.
Questo secondo tipo di legame, denominato “esterno-‐interno”, spiega come non è solo
l’attività delle imprese a interessare la società, ma sono anche le condizioni sociali
esterne ad influenzare nel lungo periodo le aziende. Questa seconda forma di
interdipendenza è chiamata “contesto competitivo” e, per verificare come le imprese
dipendono dalle condizioni territoriali in cui operano, come ad esempio l’applicazione
delle leggi, l’accesso efficiente al capitale oppure l’infrastruttura dei trasporti, è possibile
utilizzare un modello detto a “diamante”. 49 Ibidem
!!
!!!!!!!!!!!!!
"istruzione!e!formazione!dei!dipendenti!"condizioni!di!lavoro!sicure!"diversità!e!discriminazione!"politiche!retributive!
!
"rapporti!con!le!università!"pratiche! etiche! nell’ambito!della!ricerca!"sicurezza!dei!prodotti!"conservazione!delle!materie!prime!!
"Pratiche!relative!all’approvvigionamento!e!alla!supply!chain!(es.!corruzione,!lavoro!minorile)!"Utilizzo!di!input!particolari!(pellicce!animali)!"Impiego!di!risorse!naturali!
!
Reporting!finanziario!"pratiche!di!governance!"trasparenza!"utilizzo!del!lobbing!
"Esternalità!legate!ai!trasporti!(es.!gas!serra,!traffico,!strade!pericolose)!!
"Emissioni!e!rifiuti!"Impatto!ecologico!e!bio"diversità!"Utilizzo!dell’energia!e!dell’aria!"Sicurezza!dei!lavoratori!e!rapporti!sindacali!
"Utilizzo!e!smaltimento!del!packaging!!
"Marketing!e!pubblicità!"Pratiche!relative!al!pricing!"Informazione!ai!consumatori!
"Smaltimento!dei!prodotti!obsleti!"Gestione!dei!beni!di!consumo!"Privacy!dei!consumatori!
40
Fig. numero 5: “modello a diamante50” di Porter
Analizzando l’interdipendenza tra impresa e società, grazie alla “catena del valore
sociale” e il modello a “diamante”, l’impresa può mettere a fuoco le attività specifiche
strategiche da attuare, per ottenere il miglior effetto possibile nel lungo periodo sia per
la società esterna che per il proprio business.
Questi due strumenti aiutano le imprese a stilare una checklist di problematiche che
devono essere suddivise per ordine di priorità ed in seguito risolte, o per lo più
attenuarle. Le imprese saranno così capaci di eliminare il maggior numero di effetti
negativi presenti nella catena del valore e le attività dell’impresa potranno essere così
50 Porter, The competitive advantage of nations, 1990, ed. it. Strategie e Competizione, sostenere e difendere il vantaggio delle imprese e nazioni. Ed. Il sole 24h, 2001
Modello&a&diamante&di&Porter&&&. Disponibilita&di&risorse&umane&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&
(&es.&formazione&all’impiego)&. Accesso&a&università&e&istituti&di&ricerca&. Infrastruttura&fisica&efficiente&. Infrastruttura&amministrativa&efficiente&. Disponibilità&di&una&infrastruttura&scientifica&e&
tecnologica&&. Risorse&naturali&sostenibili&&. Accesso&efficiente&al&capitale&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&
. Disponibilità&di&fornitori&locali&
. Acesso&alle&aziende&che&operano&in&campi&correlati&
. Presenza&di&distretti&industriali&anziché&di&imprese&isolate&
&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&
&&&
&&&&&&
&&&
. Concorrenza&locale&corretta&e&aperta&(es.&assenza&bariere&allo&scambio)&
. Protezione&della&proprietà&intellettuale&&
. Trasparenza&&(es.&reporting&finanziario,&corruzione)&
. Applicazione&della&legge&&(es.&sicurezza,&protezione&della&proprietà)&
. Sistema&di&incentivazione&meritocratico&&(es.&assenza&discriminazioni)&
. Sofisticatezza&della&domanda&locale&
. Standard&legislativi&severi&&
. (es.&standard&su&emissioni&e&consumi&
. Bisogni&locali&particolari&che&possono&essere&soddisfatti&su&scala&nazionale&e&globale&&
IMPRESA&
Contesto&strategico&e&competitivo&dell'impresa&&
Condizioni&della&
domanda&territoriale&
Settori&correlati&e&di&trasporto&
Condizioni&legate&ai&fattori&(input)&
41
delle opportunità per la creazione di valore condiviso, specie se toccheranno dei temi
significativi per il contesto competitivo. Non potendo però impegnarsi in tutte le aree
considerate nel diamante, le imprese dovranno identificare soltanto quelle che
presentano il maggior valore strategico.
L’approccio utilizzato da Porter rappresenta la necessità di considerare l’impresa
all’interno dell’ambiente del quale è parte e dal quale essa può non solo prelevare
risorse di tipo ambientale, economico e sociale, bensì può apportare valore sociale
affinché tutte e due le parti interessate (impresa e società) siano soddisfatte.
Il Filosofo e Insegnante Statunitense R. E. Freeman 51 , padre della teoria degli
stakeholder analizzata precedentemente, ampliando il concetto di Porter, afferma che
non bisogna soffermarsi sul concetto di impresa in quanto tale, bensì bisogna ampliare il
concetto di Corporate Social Responsibility a tutte le organizzazioni, affinché il valore
venga condiviso con gli stakeholder. Secondo Freeman la massimizzazione del profitto
non deve riferirsi esclusivamente ai soggetti che fanno parte dell’impresa, bisogna
creare valore per tutti gli stakeholder in quanto l’impresa con la propria attività produce
effetti diretti-‐indiretti, negativi-‐positivi nei loro confronti, ed è per questo che è
obbligata a relazionarsi con gli stakeholder.
Come spiegato da Porter, l’impresa è parte di un sistema nel quale fanno parte molteplici
attori, e tutti devono cercare di conseguire un unico obiettivo ovvero: creare valore ma
che sia anche valore sociale per tutti “gli uni per gli altri52” .
La teoria degli stakeholder, in contrapposizione col concetto di shareholder (azionista),
viene spiegata attraverso queste parole: “il valore economico è creato da molteplici
soggetti, i quali volontariamente si aiutano e cooperano per migliorare le condizioni di
tutti53 ”(stakeholder theory and the corporate objective revisited). La teoria degli
stakeholder inizia col presupposto che i valori etici siano necessariamente ed
esplicitamente una parte dello stesso business di un’impresa, Freeman nel1994
respingeva l’ipotesi di separazione rifiutando l’idea che “etica e gli affari fossero un
51E. R. Freeman, Un nuovo approccio alla CSR: Compani Stakeholder Responsibility, The Darden School, University of Virginia e IESSE Business School, 2005 52 Ibidem 53 E. R. Freeman, Stakeholder Theory and the Corporate Objective revisited, The Darden School, University of Virginia, 2004
42
ossimoro”, in caso contrario la teoria che ne risulterebbe avrebbe una visione troppo
ristretta.
L’innovativo concetto di Company Stakeholder Responsibility proposto da Freeman,
parte dal presupposto che bisogna considerare tutte le forme di creazione di valore e di
scambio e considerare anche la moltitudine di tipologie di aziende, affinché la creazione
di valore non si soffermi agli shareholder, ovvero gli azionisti dell’impresa ma, come
affermava Porter, parlando dell’impresa all’interno di un ambiente e non come elemento
unico, il valore che viene generato va condiviso con gli stakeholder, ricordandosi inoltre
di adempiere alle responsabilità nei loro riguardi.
La definizione che Freeman offre di stakeholder risale agli anni ’80 e consiste nel
definirli come “qualsiasi individuo o gruppo di individui che può influenzare o essere
influenzato alle azioni dell’impresa54”, questa definizione è una delle più esaustive in
quanto può includere qualsiasi soggetto. In seguito lo stesso Freeman nel 1984 amplierà
tale definizione considerando non solo gli stakeholder tradizionali quali:
-‐ Dipendenti
-‐ Fornitori
-‐ Clienti
-‐ Finanziatori (banche)
Ma ha ampliato tale concetto ai nuovi gruppi di stakeholder che si sono venuti a creare
quali:
-‐ Stati
-‐ Concorrenti
-‐ Associazione dei consumatori
-‐ Ambientalisti
-‐ Media.
La teoria deli stakeholder quindi, consente di estendere la mission dell’impresa al
perseguimento di istanze sociali, l’impresa non risulterà più focalizzata esclusivamente
sulla generazione di profitto per soddisfare gli azionisti (shareholder), ma sarà orientata
anche a promuovere il benessere della società che la circonda attraverso il
54 R. E. Freeman, Strategic Management: A stakeholder approach, Boston, Pitman,1984
43
soddisfacimento degli interessi degli stakeholder con i quali interagisce, distribuendo in
modo omogeneo la ricchezza prodotta.
Risulta importante accostare Freeman all’economista Porter in quanto la teoria degli
stakeholder deriva dalle teorie di matrice sistemica ovvero “sui sistemi aperti” che
attualmente connotano i dibattiti tra imprese e sistemi di riferimento. Come affermava
Porter questo legame con l’ambiente di riferimento nel quale l’impresa è inserita,
consente la simultanea possibilità di azione/reazione tra impresa e ambiente di
riferimento che comporta una serie di complesse interazioni tra i diversi comportamenti
dei soggetti terzi coinvolti. Attraverso la teoria di Freeman sugli stakeholder quindi,
notiamo come le attività dell’impresa generino effetti su tutti i soggetti interni-‐esterni
all’impresa, con il quale viene a contatto. Al fine di conservare il proprio successo,
l’impresa oltre a consolidare ed intrattenere relazioni con i portatori di interesse, dovrà
inoltre soddisfare le esigenze e le attese di tali soggetti i cui comportamenti possono
influenzare il successo aziendale.
Le imprese socialmente responsabili sono quelle che, durante il corso della loro vita,
fanno coincidere le proprie redditività con quelle etiche, stando costantemente alla
ricerca di riscontri tra gli scopi aziendali e quelli con gli interlocutori sociali.
Compreso il legame che intercorre tra impresa e società e come i benefici delle loro
relazioni si possano verificare in modo diretto e indiretto, la domanda che ci poniamo è:
in che modo l’impresa nel perseguire i propri obiettivi, può generare benefici nei
confronti dei suoi stakeholder?
Freeman e Velamuri nel 2006 nell’opera “ Company Stakeholder Responsibility: A New
Approach to corporate social responsibility55”, identificano come soluzione a tale
domanda il bisogno di un sistema di cooperazione sociale, dove il lavoro fatto da tutti i
soggetti (imprese e società), serva per creare valore per ciascuno. La teoria occidentale
che tratta della divisione tra il business dall’etica e società, porta all’idea di un’impresa
che nasce solo per produrre profitto e di conseguenza minimizza l’importanza della
responsabilità sociale d’impresa definendola come qualcosa di “addizionale” al fine di
migliorare le dure conseguenze di tale ideologia.
Un’altra problematica sollevata da Freeman e Velamuri consiste nel definire la
responsabilità sociale solo a livello “Corporate” ovvero riferendola alla grande impresa.
55 E. R. Freeman, Velamuri, Company Stakeholder Responsibility: A New Approach to corporate social responsibility, The Darden School, University of Virginia, 2005
44
Questo sistema sembra dimostrare che solo le grandi imprese, grazie al loro successo e
forse al modello azionario, abbiano delle responsabilità nei confronti della società,
escludendo da questo ragionamento le piccole imprese che non dispongono delle
medesime risorse delle Corporate. È per questo motivo che hanno deciso di sostituire il
termine “Corporate Social Responsibility” con il termine “Company Stakeholder
Responsibility”, ovvero la responsabilità nei confronti degli stakeholder dell’impresa;
analizzando ogni singola parola, con il termine “Company” si indicano tutti i tipi di
azienda che creano valore o commercio; “Stakeholder” rappresenta tutti i soggetti con i
quali l’impresa si interfaccia e con i quali bisogna adempiere alle responsabilità nei loro
confronti; infine con il termine “Responsibility” ci si collega al concetto sopra spiegato
ovvero che non si può separare il business dall’etica ossia dagli obblighi dell’impresa
verso gli stakeholder.
Anche Simon Zadek56, condividendo il pensiero di Freeman nell’affermare che l’operato
di una impresa genera benefici economici e sociali che vanno oltre i confini della propria
organizzazione, crede inoltre che tale responsabilità da parte dell’impresa debba essere
gestita nella maniera più efficientemente possibile, affinché gli stessi stakeholder
apportino valore all’interno dello stesso ambiente di riferimento.
Per trovare una coordinazione tra l’impresa e gli altri attori, S. Zadek decide di apportare
una modifica al concetto di “governance” trasformandola in “governance partecipata”,
alla quale partecipano tutti quegli attori sociali che hanno contribuito alla creazione di
valore. Tale rivisitazione del concetto di “governance” è stata resa necessaria dal fatto
che più nessun soggetto è in grado di trovare soluzioni efficaci ed efficienti per le
situazioni molto articolate, ed è per questo che attualmente sono numerose le
partnership intersettoriali che si stanno venendo a creare, come la sottoscrizione da
parte delle Nazioni Unite al Global Compact, e ciò dimostra lo sviluppo di un nuovo
modello di governance partecipata. La “new civil governance57” è un modello descritto
da Zadek che, basandosi su forme di legittimazione molto forti, propone di affidarsi al
capitale fiduciario affidato alle organizzazioni della società e ai governi, consentendo
inoltre a ciascun stakeholder di venire a contatto con realtà distanti dalle loro, infine
permette di combinare fra di loro culture organizzative e competenze differenti al fine di
56 S. Zadek, The new economy of Corporate Citizenship, Copenhagen, 2001 57 Ibidem
45
poter potenziare la capacità di intrattenimento degli attori in gioco al fine di conseguire
gli obiettivi di business e sociali.
46
47
CAPITOLO SECONDO
I NUOVI OBIETTIVI PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE E L’ECONOMIA DELLA
CONDIVISONE
2.0 Introduzione
All’interno del presente capitolo si descriverà un nuovo sviluppo economico che sta
avanzando in America, Europa e Asia: la Sharing Economy o Economia della
Condivisione.
Descrivendo questo nuovo modello economico, si vedrà come l’avanzare dell’economia
del consumo collaborativo nasconde dentro di sé luci ed ombre, critiche e aspetti
positivi, che verranno analizzati nel capitolo secondo. Nonostante questo nuovo modello
di consumo sia molto discusso negli ultimi anni, partendo dalle sue origini che risalgono
al 1978, verranno prese in esame due moderne tipologie di Sharing Economy: la Sharing
Fashion e la Sharing Cultura.
Dopo aver analizzato nel capitolo precedente l’evoluzione del concetto della
sostenibilità, verranno analizzate le motivazioni che associano la teoria del già citato
Porter alla nuova economia della condivisione. Verrà analizzata in particolare la teoria
della creazione del valore condiviso (CVC) di Porter e Kramer, e si spiegheranno le
motivazioni che portano a considerare tale teoria come la base del concetto del consumo
collaborativo.
L’economia della condivisione viene associata per alcuni ad una nuova rivoluzione, si
analizzerà la moderna teoria di J. Rifkin il quale considera la Sharing Economy come la
Terza Rivoluzione Industriale, spiegandone le motivazioni che hanno portato alla
teorizzazione di questo concetto.
Dopo aver trattato nel primo capitolo l’evoluzione del concetto di CSR e Sostenibilità,
nella seconda parte del secondo capitolo vengono analizzate le motivazioni che hanno
portato gli Stati appartenenti all’ Onu, a sottoscrivere nel 2000 degli obiettivi formali al
fine di incentivare uno sviluppo sostenibile globale. Gli otto obiettivi denominati
Obiettivi del Millennio (MDG) hanno scopi economi, umanitari e ambientalistici e,
48
all’interno del capitolo, si condurrà un’analisi che indicherà se gli otto obiettivi, con
scadenza quindicennale, hanno raggiunto una soglia soddisfacente oppure no.
Verranno inoltre indicate le critiche che hanno mosso gli Stati a propendere nel 2012, ad
una inversione di rotta identificando cosi dei nuovi obiettivi.
Oltre agli MDG vengono descritti anche gli Sustainable Development Goals (SDG), con lo
sviluppo dei relativi nuovi obiettivi e le motivazioni che hanno portato il Segretario
Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-‐moon, a sostituire i vecchi Obiettivi del Millennio
con gli SDG.
Si identificheranno anche gli “organi” che hanno aiutato a comprendere le nuove
esigenze degli Stati più bisognosi e che sono serviti per offrire un maggior controllo, al
fine di raggiungere i nuovi obiettivi. In ultima analisi verranno descritte le critiche che
sono state mosse nei confronti degli SDG.
49
2.1 Definizione di Sharing Economy
Il termine Sharing Economy definibile come “consumo collaborativo”, identifica un
nuovo modello economico basato su pratiche di scambio e condivisione di beni e servizi
oppure conoscenze. Grazie a tale modello che si pone come alternativa al modello del
consumismo, si possono ottenere molteplici benefici, uno di questi è ridurre l’impatto
dei consumi sull’ambiente.
Il termine Sharing Economy, anche se molto utilizzato negli ultimi anni, affonda le sue
origini nel 1978 quando Marcus Felson e J. L. Spaeth coniarono questo termine nel loro
articolo “Community Structure and Collaborative Consumption: A routine activity
approach58 ” all’interno della rivista American Behavioral Scientist. I due autori
definiscono le azioni di consumo collaborativo come: “eventi in cui una o più persone
consumano beni o servizi economici, nel processo di impegnarsi in attività comuni con uno
o più persone59”, nel dare tale definizione Felson e Spaeth applicano la teoria ecologica
umana della struttura di comunità al consumo, nella quale identificano come ecologia
umana “l'interdipendenza tra le persone, le altre specie e l'ambiente fisico, in particolare
le persone cercano di ottenere il sostentamento dal proprio ambiente”.
Il comportamento del consumatore riflette l’espressione non solo individuale, ma anche
gli sforzi degli individui nell’ impegnarsi in attività comuni con gli altri e ciò si riflette
oltre che nell’ allocazione delle risorse, anche nell’espressione di inclinazioni personali
che si traducono in azioni.
Quest’articolo racchiudeva in sé una visione sicuramente illuminata per i tempi, che
prevede un’organizzazione socio-‐economica basata non più sul possesso, ma
sull’accesso di beni e servizi, inoltre puntava sulla condivisione piuttosto che
sull’acquisto di beni e servizi.
Secondo Rogers e Botsman, autori di “What’s mine is yours60”, testo chiave di questo
nuovo approccio economico, la Sharing Economy promuove forme di consumo più
consapevoli basate sul riuso invece che sull’acquisto e sull’accesso piuttosto che sulla
proprietà. Inoltre secondo gli autori il consumo collaborativo non va a discapito 58 Marcus Felson, J. L. Spaeth, Community Structure and Collaborative Consumption: A routine activity approach, American Behavioral Scientist, 1978 59 Ibidem 60 Rogers, Botsman, What’s mine is yours, Harperbusiness, 15 Ottobre 2010
50
dell’individualismo bensì le persone possono condividere le risorse senza essere privati
della loro libertà personale. È solo grazie al sostengo della tecnologia e dei social
networks che il consumo collaborativo si sta espandendo nelle altre aree della vita
quotidiana che rispecchiano i valori di apertura, sostenibilità e collaborazione, derivanti
dalla cultura digitale.
Negli Stati Uniti d’America e in Europa l’idea di condividere l’auto, la propria casa o la
propria conoscenza sta diventando una realtà che coinvolge decine di migliaia di
persone, portando con sé un nuovo modo di concepire le nostre necessità basato sulla
condivisione.
Tale modello si concretizza con lo sviluppo della tecnologia che, grazie allo sviluppo di
internet, costituisce lo strumento che riesce a mettere in contatto milioni di persone,
dando così vita ad un nuovo modo di pensare l’economia. Questo nuovo modello pone
l’individuo al centro del sistema e con la creazione di un movimento dal basso, crea
valore dove sono presenti delle risorse inutilizzate, trasformando e dando potere al
consumatore rendendolo parte attiva e non più subordinata al mercato.
Ciò permette la creazione di nuovi modelli di mercato legati alle nuove modalità di
scambio di beni e servizi, che non sono più legati al capitalismo, ma derivano dal nuovo
modo di concepire l’economia legata a innovazione tecnologica e alla condivisione.
Grazie a tale nuovo modello economico, sono molteplici i benefici offerti come la già
citata capacità di ridurre l’inquinamento ambientale, attraverso la condivisione dei
mezzi di trasporto, il risparmio economico grazie alle formule di acquisto condiviso o
scambio di prodotti.
Un altro tipo di condivisione di beni che sta avendo molto successo sia in Italia che
all’estero è la “Sharing Fashion”, il modello della Sharing si allarga anche nel campo della
moda, dove sempre più piattaforme online mettono a disposizione guardaroba collettivi
a cui attingere.
Come dimostrano le ricerche condotte da Nielsen e Coop, gli italiani sono tra i popoli
europei più aperti alla Sharing Economy, il 22% della popolazione infatti già ne fa uso
come la impresa francese Blablacar o le americane Uber e Airbnb. Nel 2013 in Italia la
spesa investita nei vestiti e calzature è diminuita del 6,7%, mentre sono aumentati gli
acquisti di abbigliamento in rete, come su Zalando +60%.
Nel mondo della moda per esempio se prima le donne prendevano i vestiti in prestito
dall’armadio della mamma o della sorella, oggi internet permette loro di allargare
51
questa scala di abitudini, in Italia per esempio il 33%61 della popolazione ha dichiarato
di essere favorevole alla condivisione di abiti e accessori .
In Italia un esempio di azienda che è si è sviluppata grazie alla Sharing Fashion è “My
secret dressing room62”, ideata da un gruppo di persone di Milano che hanno creato
questa innovativa piattaforma, nella quale mettono a disposizione capi di abbigliamento
firmati e accessori di alta moda, e le persone possono prendere un determinato abito
anche solo per un giorno e poi restituirlo. Come afferma una delle fondatrici Sammy
Lavit, questa piattaforma oltre a mettere in mostra gli oggetti, mette in comunicazione
chi presta il capo e chi lo prende in prestito e aiuta la convinzione etica del web che la
reputazione è un valore che aiuta nelle successive transazioni.
La Sharing Fashion non è utile solo per i consumatori o ai fashion victim che non
possono permettersi un determinato capo, le piattaforme online permettono anche agli
aspiranti designer e stilisti di far conoscere i propri lavori.
La piattaforma Openwear63 permette a giovani stilisti di aprire online un proprio
“showbox” con i propri cartamodelli e, grazie anche ai fondi della Commissione europea,
permette di incontrare la comunity ed eventualmente vendere i propri prodotti, tale
innovazione ha permesso la nascita della prima collezione Forward to Basic, la prima
collezione collaborativa.
Un'altra piattaforma dedicata al crowdfunding (finanziamento collettivo), un processo
collaborativo attraverso il quale un gruppo di persone utilizza il proprio denaro per
sostenere uno o più progetti di persone o organizzazioni, nella realizzazione di
collezioni di moda è: Wowcracy. L’idea di base seppur semplice è innovativa, una
persone che ha un progetto ma non i fondi per realizzarlo, fa l’ upload dell’idea in rete e
se risulta interessante, grazie all’investimento delle persone, il budget per realizzare
questa idea si trasforma in realtà. L’idea dei cinque ragazzi italiani fondatori di
Wowcracy è stata talmente innovativa che ha trovato l’appoggio della rinomata rivista di
moda Vogue.
61 Laila Haijeb, Benvenuti nell’era della share economy, Nielsen, 24 Giugno 2014, Available at http://www.nielsen.com/it/it/insights/news/2014/benvenuti-‐nell-‐era-‐della-‐share-‐economy.html 62 My secret dressing room, piattaforma di noleggio di capi di abbigliamento e accessori che premette ai clienti di “avere a disposizione l’abito ideale per ogni occasione” 63 Openwear, piattaforma di creazione di collezioni di moda collaborative, Available at http://openwear.org
52
Oltre alla possibilità di condividere beni quali la macchina o la casa, attraverso la
Sharing Economy si ha la possibilità di condividere anche la conoscenza.
I Mooc64 (Massive open online courses) per esempio, sono dei corsi online che le
università come Stanford, Harvard o l’Università Federico II di Napoli, mettono a
disposizione per gli utenti telematici di tutto il mondo. Gli utilizzatori di questi servizi,
dichiara Rosanna De Rosa coordinatrice di “Emma65” aggregatore dei Mooc europei,
sono sia persone già laureate che seguono corsi per cultura personale o per aggiornarsi,
sia i lavoratori che hanno bisogno di
approfondire una lingua o un argomento particolare. Gli studenti hanno la possibilità di
avere a disposizione video delle lezioni e anche il testo disponibile gratuitamente online.
Anche se sembra che il mondo dell’università sia uscito dalle aule, bisogna ancora
risolvere dei problemi relativi alla sicurezza e identificazione delle persone durante gli
esami. Questa tipologia di corsi infatti solleva anche delle lacune come la mancata
certezza che gli esami li svolga davvero la persona che si è iscritta al corso, oppure che
durante le prove orali non ci siano aiuti esterni o la necessità di sistemi di “proctoring”
in grado di identificare l’identità di chi fa l’esame o l’assenza di aiuti esterni.
In Italia la fondatrice di “Invasioni Digitali66”, piattaforma che dà la possibilità di far
apprezzare la cultura e riscoprire siti artistici dimenticati, Marianna Marcucci, afferma
che il loro scopo è quello di rivitalizzare l’attenzione sui musei, monumenti e siti
archeologici in maniera del tutto gratuita, cercando inoltre di aiutare i musei a superare
la concorrenza dei centri commerciali.
Le università online e le piattaforme culturali, hanno la fetta maggiore di Sharing
Economy legata alla cultura ed hanno lo scopo di riaccendere i riflettori sull’offerta
culturale spesso dimenticata.
Nel futuro le aziende saranno disposte a pagare dei corsi online per migliorare nei
propri dipendenti e dirigenti la preparazione in determinate materie, al fine di
migliorare le prestazioni aziendali e rendere le proprie società più competitive nel
mercato di riferimento.
64 Mooc, corsi online pensati su larga scala per permettere il coinvolgimento più persone e aumentare il bacino clienti degli utilizzatori. 65 Emma, The european Multiple Mooc Aggregator, Available at http://platform.europeanmoocs.eu 66 Invasioni digitali, piattaforma che permette di trasformare l’arte in conoscenza attraverso la condivisione, Available at http://www.invasionidigitali.it/it
53
2.1.1 La base della Sharing Economy è il “valore condiviso” di Porter
Alla base della definizione di Sharing Economy analizzata nel paragrafo precedente,
ossia la capacità di condividere beni materiali (macchina, vestiti ecc.) o immateriali
(intelletto)
con vari soggetti o organizzazioni, è associabile la teoria di un economista del XI, già
citato nel capitolo primo: M. Porter. Egli nel 2011 all’interno dell’articolo intitolato
“Strategy and Society. The thing between competitive advantage and corporate social
responsibility67” scritto a quattro mani con M. R. Kramer, descriveva attraverso il
concetto del “valore condiviso”, l’importanza del legame che intercorre tra l’ impresa e il
territorio nel quale essa è inserita.
Secondo l’economista infatti, l’impresa non è analizzabile come entità autonoma, ma a
causa del legame con l’ambiente che la circonda ossia i vari stakeholder del territorio
(fornitori, dipendenti, organizzazioni finanziarie etc. ), rifletterà l’ esito delle sue azioni
sulla società.
Questo legame indissolubile tra i due soggetti obbliga l’impresa ad individuare, nelle
scelte strategiche che intraprende, scenari che producano dei risvolti positivi sia per sé
stessa, sia per la società nella quale è inserita.
Porter afferma che spesso le azioni e le strategie che un’impresa considera comportano
una errata considerazione del valore, in particolare secondo l’autore è usuale che le
imprese siano solite porsi obiettivi di breve termine come la creazione di valore
finanziario, questa visione porta le aziende a concentrare tutti i loro sforzi nella
performance finanziaria, dimenticando però i rapporti con i loro stakeholder, come ad
esempio il grado di soddisfacimento dei propri clienti, l’impoverimento delle risorse
necessarie per il funzionamento della propria attività e le difficoltà della comunità nella
quale l’impresa è inserita. Al contrario il valore condiviso descritto da Porter e Kramer,
rappresenta un ponte tra il business dell’impresa e gli interessi della società civile,
attraverso il raggiungimento di tale valore infatti, il soddisfacimento degli obiettivi
dell’impresa producono valore anche per il territorio nel quale è inserita. Un approccio
basato sul valore condiviso è ciò che mette in contatto il successo di una impresa con il
67 Porter, Kramer, Strategy and Society. The thing between competitive advantage and corporate social responsibility, Harvard Business Review, Dicember 2006
54
progresso sociale68. Un esempio di azione di valore condiviso da parte di un’impresa
consiste nel favorire la prosperità e l’istruzione della comunità in cui opera, oppure
salvaguardare le risorse naturali presenti nel territorio, che costituiscono un input per il
proprio sistema produttivo; il legame che intercorre tra i due soggetti è biunivoco,
ovvero è evidente che anche la società nutre interessi nel preservare le imprese capaci
di generare benefici, poiché solo le imprese più efficienti posso creare nuovi posti di
lavoro ed essere capaci di generare ricchezza e benessere per tutta la collettività. In
buona sostanza la competitività di un’azienda e il benessere della comunità circostante
sono strettamente interconnessi e ambedue necessitano di politiche pubbliche in grado
di regolare in modo adeguato le loro relazioni, così da poter incentivare le
interconnessioni globali del mercato. Il modello della Creazione di Valore Condiviso
(CVC) di Porter e Kramer non è da intendersi come il mero raggiungimento degli
obiettivi sociali dell’impresa, ma orienta la strategia della stessa impresa verso la
risoluzione di problematiche sociali attraverso il proprio business. In questo modo si
distinguerà il ruolo di chi governa l’azienda, il quale avrà il compito di interpretare e
percepire i bisogni sociali, così da poter individuare un modello di business adatto alle
sue soluzioni.
Allo stesso modo, la condivisione (oggetti, servizi) della Sharing Economy permette alle
persone coinvolte in tale processo, oltre alla possibilità di condividere e cooperare, di
creare del nuovo valore capace di apportare benefici nei soggetti che sono stati attivi nel
processo, la condivisione quindi diventa il mezzo per creare valore, come avveniva nel
procedimento di creazione del valore condiviso descritto dagli economisti Porter e
Kramer nel 2011.
68 Porter, Kramer, Creating Shared Value, How to Reinvent Capitalism and Unleash a Wave of Innovation and Growth, Harvard Business Review, Gennaio-‐Febbraio 2011
55
2.1.2 Gli aspetti negativi della Sharing Economy
La Sharing Economy detta anche “Gig economy” dagli americani, porta dietro di sé molti
aspetti positivi, ma anche molte critiche, se da un lato l’”economia dei lavoretti” fatta da
impieghi occasionali, a tempo pieno o precari, crea una nuova micro-‐imprenditorialità
capace di creare innovazione e opportunità economiche, dall’altra parte questo
fenomeno contiene dei lati oscuri. Il fenomeno della Sharing Economy che a detta di
molti oggi sta cambiando il mondo, non è ancora chiaro e comprensibile in tutte le sue
sfaccettature, la politica intrinseca di tale economia, ovvero la condivisione dei beni,
potrebbe portare alla possibile fine della proprietà privata, ma anche alla creazione di
moloch monopolistici, rendendo ogni persona micro-‐imprenditore di se stesso con la
possibilità di far fruttare al meglio le sue possibilità, i suoi talenti e le sue risorse
(macchine-‐ vestiti-‐ case), ma ha anche la possibilità di rendere ogni persona più povera.
Hilary Clinton nel mese di Luglio nel presentare il suo piano per l’economia da candidata
alla Casa Bianca, riferendosi alla nascita delle molteplici piattaforme online della Gig
economy come Uber e Airbnb, ha così dichiarato: “Sicuramente sta creando opportunità
economiche, ma solleva anche molte serie questioni sulla protezione dei posti di lavoro. E
su cosa intenderemo per buon lavoro in futuro69”.
Anche la rivista inglese Financial Times in un articolo del 5 Agosto scrive “La Gig
economy crea insicurezza e rischio70”, descrivendo come in Europa la protezione dei
diritti dei lavoratori, che è sempre stata solida, a causa dell’economia della condivisione
sta trasformando i giovani in una generazione che cerca molti lavoretti precari invece
che uno solido e sicuro, ciò produce una profonda frattura tra la generazione di adulti
con un lavoro stabile, e i giovani senza certezze.
Una delle aziende di grande successo nate con la Sharing Economy è Uber, azienda con
sede a San Francisco (USA) che fornisce un servizio di trasporto automobilistico privato,
attraverso un'applicazione software mobile (app) che ha la possibilità di mettere in
collegamento diretto passeggeri e autisti. Le auto possono essere prenotate con l'invio di
un messaggio di testo o usando l'applicazione mobile, tramite la quale i clienti possono
inoltre tenere traccia in tempo reale della posizione dell'auto prenotata. Tale
69 Hilary Clinton, New York Post, 13 Luglio 2015, New York 70 Financial Times, The new world of work , 5 Agosto 2105
56
applicazione in molti paesi dell’UE, come Francia e Germania Italia e Spagna, ha scosso la
categoria di tassisti e diviso l’opinione pubblica.
La categoria dei tassisti dichiara di sentirsi minacciata da tale concorrenza sleale che
priva l’ impresa statunitense del pagamento delle tasse e, dopo aver chiesto a gran voce
di negare la possibilità di utilizzo di questa app, in alcuni stati quali Francia, Germania,
questa applicazione non può essere più utilizzata. Se da una parte si considera la minor
tutela dei diritti dei lavoratori e la possibile causa di disoccupazione, dall’altra uno dei
vantaggi di tale servizio consiste nell’aumento dell’offerta di sevizi di trasporto, la
diminuzione dei costi per i consumatori e la creazione di nuovi posti di lavoro. La
condivisione può essere vista anche come chiave vincente per ridurre il consumo e
l’inquinamento, l’app come Uber permette infatti al consumatore di tale servizio, di
utilizzare una risorsa in condivisione riducendo così l’inquinamento atmosferico.
La Sharing Economy, qualunque cosa si rivelerà davvero essere in futuro, rimane ad oggi
un formidabile incubatore di lati positivi e negativi; porta dentro di sé speranze, sogni e
incubi: la fine della proprietà e forse la fine del lavoro.
Sta di fatto che questa nuova rivoluzione è cominciata, e solo quando l’avremo
attraversata tutta saremo in grado di avere un quadro completo ti tale fenomeno.
57
2.2 J. Rifkin e la terza rivoluzione industriale
L’economista visionario Jeremy Rifkin, descrive la Sharing Economy come la Terza
Rivoluzione Industriale e, nel suo ultimo libro “La società a costo marginale zero71”, ne
spiega le motivazioni.
Secondo Rifkin la Sharing Economy72 è figlia naturale del capitalismo, la vecchia
concezione dell’economia dovrà imparare a convivere con la nuova nella quale, lo
scambio e la mancanza della proprietà, lascia spazio alla possibilità di scambiare l’uso di
beni e servizi.
Il fenomeno della condivisione viene associata alla Terza Rivoluzione Industriale poiché,
come dimostra uno studio condotto da Nielsen73 in oltre 40 nazioni in un articolo
pubblicato il 28 maggio 201474, non è un fenomeno circoscritto in una nazione, bensì è
diventato oggi un fenomeno affermato nei Stati Uniti in Europa e anche nei paesi
dell’Asia e del Pacifico, un fenomeno quindi universale dove la propensione delle
persone a scambiare beni quali la casa o la macchina, è superiore rispetto al desiderio di
possederli.
Come afferma Rifkin questa Rivoluzione oltre ad essere un evento storico di enorme
portata e unico fenomeno in crescita in tutto il mondo, ha la capacità di ridurre quasi a
zero il costo marginale dell’economia portando ad una crescita sempre maggiore della
Sharing Economy. La società Airbnb per esempio, mette in contatto milioni di persone
per lo scambio di una casa e per loro aggiungere un appartamento o un nuovo utente
che vuole condividere la sua casa all’interno della loro applicazione, ha un costo
marginale vicino allo zero. Lo stesso non può avvenire invece per una società
alberghiera, che nel caso volesse ampliare la sua struttura aggiungendo una stanza,
dovrebbe acquisire un terreno, costruire un nuovo stabile, senza contare le tasse sulla
proprietà e spese di manutenzione. E lo stesso concetto vale anche per altri tipi di beni
71 Jeremy Rifkin, La società a costo marginale zero. L’internet delle cose, l’ascesa del << commons>> collaborativo e l’eclissi del capitalismo, Mondadori, Collana Saggi, 2014 72 Antonio Carlucci, Finalmente c’è una terza vita, L’Espresso, pp. 48, n.33, 20 Agosto 2015 73 Nielsen è una società che attraverso delle misurazioni statistiche studia le abitudini dei consumatori di tutto il mondo. 74 Nielsen, What consumers are willing to share, 28 Maggio 2104, Available at http://www.nielsen.com/lb/en/press-‐room/2014/global-‐consumers-‐embrace-‐the-‐share-‐economy.html
58
quali l’automobile o una barca, dove la nuova rivoluzione consiste nella condivisione di
beni e servizi che portano quasi all’azzeramento dei costi marginali.
Con il passare degli anni la Sharing Economy si diffonderà a macchia d’olio, grazie allo
sviluppo delle piattaforme digitali, che renderanno l’accesso all’economia di scambio
sempre più facile più veloce e soprattutto alla portata di più persone.
Come accadde nella Prima Rivoluzione Industriale che portò ad un grande scontro
politico, facendo nascere nuove entità come la sovranità nazionale o i mercati nazionali,
come afferma Rifkin, anche il fenomeno della Sharing Economy è un fenomeno talmente
veloce e innovativo, che molti governi non riescono stare allo stesso passo con questa
Rivoluzione, non riuscendo dunque a trovare un modo per interagire con la nuova
economia dello scambio.
La Terza Rivoluzione Industriale sta creando una nuova categoria di consumatori i quali,
sostituendo i consumatori classici che compravano e vendevano beni e servizi, ora
usano un bene o un servizio per un limitato periodo di tempo senza però possederli,
saltando cosi le regole classiche del mercato. E’ necessario perciò creare nuove regole,
pensate a tavolino, che possano indirizzare l’evoluzione della nuova economia e
condurre i governi quali: gli Stati Uniti, i paesi dell’Europa e dell’Asia, ad assistere a tale
fenomeno in maniera attiva e non in maniera passiva come avviene ad oggi.
Se da un lato l’affermarsi dell’economia dello scambio porta con sé la riduzione dei costi
marginali fino ad arrivare quasi allo zero, dall’altra parte ciò comporta una diminuzione
della produzione mondiale e del prodotto interno lordo dei rispettivi Paesi.
L’economista Rifkin nel constatare che il Pil mondiale è destinato a ridursi e che ciò avrà
un impatto sull’occupazione, afferma anche che i costi marginali tendono allo zero, ma
non sono uguali ad esso, in altre parole non si può imputare esclusivamente alla Sharing
Economy il diminuire del Pil mondiale che da diverso periodo decresce per molteplici
cause.
In conclusione in una intervista rilasciata al settimanale L’Espresso il 20 Agosto 2015,
Rifkin afferma che:
“la nascita dell’economia della condivisione (sharing economy), può essere associata alla
Terza rivoluzione industriale, nella quale con la nascita delle piattaforme digitali, uomini e
donne producono e consumano tra di loro a un costo marginale vicino allo zero e dove non
conta il prodotto interno lordo, ma è importante l’aumento del benessere economico, la
59
qualità della vita, la democratizzazione del sistema economico in generale perché gli
sforzi saranno concentrati, e così la nuova occupazione, per rendere accessibili a tutti le
piattaforme della sharing economy, l’automazione, le grandi reti del traffico digitale e
delle energie alternative75”
(Rifkin, 2015, pp.51 )
2.3 Gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio
Nel settembre del 2000 tutti gli Stati appartenenti all’organizzazione ONU, hanno
sottoscritto la Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite, con l’intento di
raggiungere otto obiettivi strategici denominati: Obiettivi del Millennio76.
Gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio o più semplicemente Obiettivi del Millennio
(MDG77-‐ Millennium Development Goals) sono otto punti, a scadenza quindicennale, che
hanno lo scopo di migliorare le condizioni di vita delle popolazioni del mondo, creare
una maggiore tutela nei confronti del genere femminile, lottare contro l’AIDS e favorire
una maggiore tutela del Pianeta Terra e dei suoi abitanti assicurando la sostenibilità
ambientale, passando per l’alfabetizzazione e la diminuzione della mortalità infantile.
Gli otto punti78 che gli stati firmatari si impegnano a promuovere sono:
1. Dimezzare la povertà e la fame nel mondo
2. Rendere universale l’istruzione primaria
3. Generare pari opportunità e l’autonomia delle donne
4. Ridurre la mortalità infantile
5. Migliorare la salute materna
6. Combattere malattie quali HIV-‐Malaria ecc.
7. Assicurare la sostenibilità ambientale
8. Creare una partnership globale per lo sviluppo.
75 J. Rifkin, Finalmente c’è una terza via, L’Espresso, pp.51, 20 Agosto 2015 76 Obiettivi di Sviluppo del Millennio, Millennium Goals, United Nations, Settembre 2000 Available at http://www.un.org/millenniumgoals/ 77 Ibidem 78 Unicef, Obiettivi di Sviluppo del Millennio, Available at http://unicef.it/obiettividelmillennio/
60
Utilizzando i dati forniti dall’ONU, analizziamo ogni singolo obiettivo del MDG e vediamo
come per alcuni obiettivi c’è molto da fare, per altri invece possiamo notare notevoli
miglioramenti che lasciano sperare ad una visione più ottimista. In particolare per
quanto riguarda il primo obiettivo ovvero “dimezzare la povertà e fame nel mondo”
notiamo come, a livello globale, in meno di cinque anni la prevalenza di bambini
sottopeso è diminuita dal 31% al 26% tra il 1990 e il 2008, ma nonostante i
miglioramenti che sono avvenuti, i dati forniti dall’ONU ci dicono che sono ancora 100
milioni i bambini malnutriti e sottopeso, il che ci dimostra quanto sia ancora lunga la
strada da percorrere.
Per quanto concerne l’obiettivo due ovvero “raggiungere l’istruzione primaria
universale”, l’ONU ha riscontrato che nel 2008 più di 100 milioni di bambini pur in età
adeguata a frequentare le scuole primarie non lo facevano e il 52% di loro era costituito
da bambine ed inoltre circa 70 milioni di bambini che non frequentavano la scuola
primaria vivevano nei 33 paesi colpiti da conflitti armati.
Per quanto riguarda invece gli obiettivi che riguardano la condizione del genere
femminile, tra il 1990 e il 2015 il tasso di mortalità materna è calato del 45%
riscontrando una diminuzione di due terzi nelle delicate regioni dell’Asia orientale e
meridionale e del Nord Africa. Nel mondo dell’istruzione primaria si è inoltre raggiunta
l’uguaglianza tra bambini e bambine e la partecipazione delle donne alla vita politica
continua ad aumentare. Rimane una piaga ancora molto sentita la violenza sulle donne
la quale limita ancora la piena realizzazione di tutti gli obiettivi.
Il quarto punto della Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite denominata
“mortalità infantile” è un obiettivo di massima priorità tra gli otto punti elencati
precedentemente, ed è per questa ragione che viene costantemente monitorato
attraverso “l’Inter Agency Group for Child Mortality Estimation79” (IGME), un’agenzia
nata nel 2004 con l’obiettivo di condividere i dati sulla mortalità infantile e per
armonizzare le stime all’interno del sistema delle Nazioni Unite al fine di produrre
tempestivamente e correttamente delle stime per monitorare i progressi sulla mortalità
infantile.
Questo interesse nel tutelare la categoria più indifesa, ovvero i bambini, lo si evince
anche dalle parole del Direttore esecutivo dell’UNICEF, Anthony Lake il quale dichiara: 79 IGME, Child Mortality Estimates, CME info, 2004
61
“Nel loro senso più profondo, gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio esprimono la necessità
di offrire ai bambini più vulnerabili del pianeta le possibilità per raggiungere il loro pieno
potenziale. Abbiamo di fronte a noi un lavoro notevole e urgente, che porterà ai traguardi
che ci siamo prefissati, nel 2015 ed oltre. E io credo che possiamo farcela.80” (Anthony Lake,
2000)
Ed è per questo enorme interesse che sono stati fatti grandi passi avanti, infatti nel
Mondo da 12.7 milioni di bambini morti nel 1990 si è passati a 6.3 milioni nel 2013, ciò
dimostra che ogni giorno muoiono 17.000 bambini in meno. Nel 1990 erano circa 12,7 i
decessi annui tra i bambini di età compresa tra 0 e 5 anni, con un tasso di mortalità
infantile globale pari a circa 90 decessi ogni mille nati, ma a partire dagli anni 2000 c’è
stata una constante diminuzione (-‐3,9% annuo tra il 2005 e 2012) e ciò dimostra che
oggi muore circa la metà di bambini sotto i 5 anni rispetto a venticinque anni fa.
Nonostante questo dato positivo quattro bambini su cinque, al di sotto dei cinque anni,
continuano a morire nell’Africa sub-‐sahariana e nell’Asia meridionale, due regioni che
registrano ben il 75% dei decessi infantili nel mondo, e questo dato è in continuo
aumento.
Il raggiungimento del quinto obiettivo ovvero “miglioramento della salute materna” ha
avuto un grosso successo arrivando circa al 47% dimezzando di circa la metà la
mortalità materna, tale tasso di successo risulta essere ancora lontano dal traguardo
prefissato per il 2015 del -‐75%. I successi più evidenti sono avvenuti in paesi come l’Asia
dove la riduzione di tale tasso è stata pari ai 2/3, mentre in paesi come l’Africa il
progresso procede con una maggiore lentezza.
La lotta contro l’HIV è ancora oggi un grosso problema, nel 2008 erano ancora 33,8
milioni di persone in tutto il mondo che convivevano con tale malattia e di questi 2,1
milioni erano bambini di età inferiore ai 15 anni.
Anche la malaria rappresenta una grossa piaga per i paesi più poveri, ma in 26 paesi
dell’Africa la percentuale di bambini che dormono sotto delle ITN (insecticide treated
nets) è aumentata da una media del 2% nel 2000 a una media de 22 % nel 2008.
80 Anthony Lake, Unicef, Direttore Esecutivo Unicef, Available at http://www.unicef.it/obiettividelmillennio/home.htm
62
La sostenibilità ambientale (settimo obiettivo del MDG) ha portato ad una maggiore
facilità nell’accedere all’acqua potabile a livello globale, in particolare è aumentata dal
77% nel 1990 all’87% nel 2008.
Tale miglioramento però non è riscontrabile nell’Africa sub-‐sahariana, dove solo tre
persone su cinque si servono di fonti di acqua potabile.
L’ottavo e ultimo punto della Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite
denominata “Partnership globale per lo sviluppo”, ha l’obiettivo di sviluppare un sistema
finanziario e commerciale aperto, basato su regole prevedibili e non discriminatorie, con
il compito di prevedere impegni a favore del buon governo e dello sviluppo e della
diminuzione della povertà sia a livello nazione che internazionale.
Gli stati appartenenti all’ONU, si devono impegnare a eliminare i dazi e vincoli di
quantità per le esportazioni da questi paesi più poveri, ed aiutarli inoltre a cancellare il
loro debito attraverso misure nazionali e internazionali, rendendo il debito stesso più
sostenibile nel lungo periodo, e dando così la possibilità di ridurre la povertà e far
ripartire l’economia a questi stati in via di sviluppo.
Grazie agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDG) sono stati fatti notevoli progressi in
ambito sociale economico e ambientale, ma tali successi non sono stati abbastanza ampi
da rendere il pianeta terra, un luogo del tutto giusto e vivibile.
2.4 I nuovi Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile
Nella Conferenza dell’ONU sullo Sviluppo Sostenibile svoltasi a Rio de Janeiro nel 201281,
è stata elaborata una nuova sfida per la comunità internazionale: sostituire i vecchi
Obiettivi del Millennio (MDG) con la creazione dei nuovi “Sustainable Development
Goals82” (SDG) .
La conferenza di Rio denominata anche Rio+20 poiché cade a 20 anni di distanza dal
Vertice della Terra di Rio de Janeiro del 1992, propone agli Stati l’obiettivo di
promuovere nuovi traguardi considerando i progressi raggiunti finora e valutando le
lacune emerse in questi decenni, per poter affrontare poi le nuove sfide e l’impegno
81 Rio+20, Conference, UNCSD, 2012 82 Rio+20, Sustainable Development Goals, ONU, 2012
63
politico per lo sviluppo sostenibile. In tale conferenza il Segretario Generale delle
Nazioni Unite ha dichiarato che i nuovi obiettivi SDG verranno presentati nel 2013
all’approvazione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la prospettiva di
attuarle a partire dal 2015.
Nel documento conclusivo di Rio+20 intitolato “The Future We Want83” si riconoscono
come sfide centrali due temi principali:
1. Un’economia verde (Green Economy) nel contesto dello sviluppo sostenibile e
riduzione della povertà, un impegno che gli stati devono rispettare sia nel
migliorare l’ambiente ma anche prevenire e alleviare minacce quali il
cambiamento climatico, perdita di biodiversità, desertificazione, esaurimento
delle risorse naturali e promuovere allo stesso tempo un benessere sociale ed
economico.
2. Un quadro istituzionale per lo sviluppo sostenibile, ovvero un sistema di
governance globale per lo sviluppo sostenibile identificato attraverso i tre pilasti
principali: economico, sociale e ambientale
Gli MDG hanno avuto molti aspetti positivi e hanno permesso, nell’arco di dodici anni, di
portare enormi successi in ambito globale, i loro otto punti cardine caratterizzati da
semplicità e concretezza hanno permesso agli Stati che hanno sottoscritto tale
dichiarazione, di impegnarsi moralmente ad adempiere ai propri obblighi, nonostante
questo però nella conferenza di Rio+20 si decise di introdurre dei nuovi obiettivi di
sviluppo sostenibile.
Una delle caratteristiche degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio consisteva nel fatto che
anche se non avevano forma vincolante da parte di chi vi aderiva, tali impegni potevano
essere perseguiti attraverso azioni concrete da parte dei governi, dal settore privato e
dalla società civile.
La semplicità e l’aspetto pratico delle azioni degli MDG hanno contribuito al loro
successo nei Paesi in via di sviluppo nel raggiungere gli obiettivi prefissati, anche se in
altri Paesi alcuni degli otto obiettivi non hanno avuto la stesso successo.
83 Rio+20, The Future We Want, 2012, Available at http://www.uncsd2012.org/content/documents/727The%20Future%20We%20Want%2019%20June%201230pm.pdf
64
Se per alcuni aspetti gli MDG hanno portato a risultati soddisfacenti, dall’altro la loro
semplicità ha portato a delle falle nel sistema delle attese previste. La mancanza di
risultati attesi e di tappe intermedie per esempio, non ha assicurato un collegamento tra
politiche e risultati attesi nei 15 anni di attività ed anche la mancata collaborazione
iniziale col settore privato, che dispone di capacità e tecnologie avanzate, avrebbe
potuto portare a soluzioni innovative e di ampia scala.
Un altro difetto degli MDG che ha portato a risultati modesti, è dovuto al fatto che solo
alcuni Paesi hanno adempiuto all’impegno di investire lo 0.7% del loro reddito nell’APS
ovvero l’Aiuto Pubblico allo Sviluppo e ciò ha portato ad una mancata sicurezza degli
investimenti.
Una delle differenze più evidenti tra gli SDG e MDG consiste nel fatto che, mentre gli
Obiettivi del Millennio erano rivolti ai Paesi poveri ai quali i Paesi ricchi dovevano
garantire assistenza sia tecnica che finanziaria, gli Sustainable Development Goals
propongono obiettivi e sfide per tutti rivolgendosi sia ai Paesi ricchi che a quelli poveri,
definendo cosa queste due tipologie di Paesi insieme possono fare per il benessere della
presente e futura generazione. In questo modo non saranno solo i Paesi più bisognosi a
ricevere il sostentamento per migliorare le condizioni di vita e rispettare l’ambiente, ma
anche i Paesi più ricchi dovranno impegnarsi a rispettare tali vincoli. Attraverso
l’impegno globale nel raggiungere gli obiettivi, gli SDG oltre ad essere universalmente
applicabili, avranno un approccio più integrato tra le questioni economiche sociali ed
ambientali per garantire la sostenibilità ed analizzare le cause profonde della povertà
globale e delle barriere sistematiche allo sviluppo sostenibile.
La caratteristica fondamentale degli SDG consiste nel fatto che sono il risultato di un
processo al quale hanno partecipato molteplici soggetti quali: istituti statali,
organizzazioni della società civile, accademici, scienziati e, attraverso il loro operato,
hanno trasformato gli obiettivi del SDG in un’ ottica di lungo periodo e puntato
l’attenzione dell’agenda globale sullo sviluppo sostenibile.
65
I diciassette nuovi obiettivi84 dell’SDG da realizzare entro il 2030 sono:
1. Sradicare la povertà estrema, ovunque e in tutte le sue forme.
2. Porre fine alla fame, realizzare la sicurezza alimentare e garantire adeguato
nutrimento per tutti, promuovere l’agricoltura sostenibile
3. Realizzare condizioni di vita sana per tutti e a tutte le età
4. Fornire un’educazione di qualità equa ed inclusiva e opportunità di
apprendimento permanente per tutti.
5. Realizzare l’eguaglianza di genere, empowerment delle donne
6. Garantire acqua e condizioni igenico-‐sanitarie per tutti in vista di un mondo
sostenibile
7. Assicurare l’accesso a sistemi di energia moderni, sostenibili, sicuri e a prezzi
accessibili per tutti
8. Promuovere una crescita economica sostenuta, inclusiva e sostenibile nonché il
lavoro dignitoso per tutti
9. Promuovere un processo di industrializzazione sostenibile
10. Ridurre l’ineguaglianza all’interno e fra le Nazioni
11. Costruire città e insediamenti umani inclusivi, sicuri e sostenibili
12. Promuovere modelli di produzione e consumo sostenibili
13. Promuovere azioni, a tutti i livelli, per combattere il cambiamento climatico
14. Garantire la salvaguardia e l’utilizzo sostenibile delle risorse minerarie, degli
oceani e del mare
15. Proteggere e integrare gli ecosistemi terrestri e arrestare la perdita di
biodiversità
16. Rendere le società pacifiche e inclusive, realizzare lo stato di diritto e garantire
istituzioni efficaci e complete
17. Rafforzare e incrementare gli strumenti d’implementazione e la partnership
globale per lo sviluppo sostenibile.
84 Sustainable Development Goals, United Nations, Available at http://www.un.org/sustainabledevelopment/sustainable-‐development-‐goals/
66
Per garantire il monitoraggio di ogni singolo obiettivo, sono stati creati numerosi
benchmarks con lo scopo di misurare i livelli raggiunti di ogni punto e per poter
monitorare i livelli periodicamente.
2.4.1 Organi per la stesura e il controllo degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile
Nel 2012 ha preso inizio il dibattito internazionale su ciò che la Comunità internazionale
avrebbe dovuto compiere nel post 2015, ovvero quando sarebbe scaduto il termine
ultimo degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDG). L’”Agenda post 2015”85 serviva
per sviluppare una cooperazione futura tra i Paesi Membri delle Nazioni Unite, volta allo
sviluppo multilaterale e bilaterale e basato su norme e principi condivisi.
Al segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-‐moon è riservato il compito di avere la
leadership globale dell’intero processo di formazione dei Sustainable Development
Goals, con l’aiuto del Vice Segretario Generale Asha Rose-‐Migiro e di un Consigliere
Speciale del Segretario Generale.
Uno dei primi compiti attuati dal Segretario Generale Ban Ki-‐moon, fu quello di creare
un gruppo composto da 27 leader che facevano parte di un organo chiamato High Level
Panel of Eminent Persons on the post 2015 Agenda. Questo organo co-‐presieduto dal
Primo Ministro britannico Cameron, dal Presidente indonesiano Yudhoyono e dal
Presidente della Liberia Johnson Sirleaf, ha il compito di presentare un rapporto con
indicazioni su visione e forma dell’agenda di sviluppo e dei principi guida a cui dovrà
ispirarsi un partenariato globale per lo sviluppo, meccanismi di accountability e
sostenibilità della nuova agenda.
In parallelo all’High Level Panel, Ban Ki-‐moon ha avviato un altro processo di
consultazione ed elaborazione denominato UN System Task Team, composto da
rappresentanti di oltre 60 organizzazioni internazionali ed enti delle Nazioni Unite. Lo
scopo di tale organo è quello di trovare e indicare le priorità e i temi da trattare nella
85 Agenda post 2015, United Nations, Available at http://www.cooperazioneallosviluppo.esteri.it/pdgcs/Documentazione/AltriDocumenti/2013-‐04-‐04_processopost%202015NU.pdf
67
stesura degli SDG al fine di coordinare e proporre una visione condivisa e unificata nella
definizione del programma, per poi proporle ai Paesi membri delle Nazioni Unite.
Lo United Nations Development Group (UNDG)86 serviva per coordinare le molteplici
consultazioni di soggetti quali: governi, società civile, settore privato e istituti di
ricerca, il cui scopo serviva per mettere a punto un progetto finalizzato a facilitare il
processo di consultazione per il post 2015 in oltre 60 Paesi.
Queste tipologie di consultazioni in oltre 60 Paesi servivano per raccogliere nuovi input
e idee, allo scopo di avere una visione globale condivisa e per facilitare il dialogo
nazionale nei temi inerenti alla nuova agenda di sviluppo, che avrebbero interessato le
nazioni prese in esame.
Il Sustainable Development Solutions Network (SDSN)87 consiste in un network globale
indipendente formato da centri di ricerca, con il compito di collaborare nell’elaborazione
di soluzioni per affrontare i problemi più complessi quali quelli ambientali, sociali e
economici a livello globale, inoltre tale organo è parte integrante nel processo di
elaborazione dell’agenda di sviluppo sostenibile post 2015 con il mandato di elaborare
contributi da mettere a disposizione dell’High Level Panel e del Segretario Generale.
Nell’identificare all’interno dell’agenda post 2015 il ruolo anche delle imprese e degli
affari, viene identificato l’ UN Global Compact, organo integrato all’interno del processo
dell’UN System Task Team. Tale organo, oltre a prendere in considerazione i punti di
vista e i contributi delle imprese, serve per espandere e rafforzare la rete di società che
svolgono attività con le Nazioni Unite in relazione di sviluppo sostenibile.
L’Open Working Group (OWG) 88 è un meccanismo intergovernativo previsto dal
documento conclusivo di Rio+20, composto da 30 membri nominati dai cinque gruppi
regionali dell’ONU sulla base di un’ equa rappresentazione geografica; tale meccanismo
ha il compito di elaborare un rapporto sull’argomento, con specifiche proposte, da
sottoporre all’Assemblea Generale.
L’High Level Political Forum (HLPF)89, come deciso dalla Conferenza di Rio+20, prende il
posto della Commissione Sviluppo Sostenibile che, nel corso dei 20 anni delle sua
esistenza, tentò di costruire una valida piattaforma per tutto lo sviluppo sostenibile, per
86 Ibidem 87 Ibidem 88 Ibidem 89 Ibidem
68
lo scambio delle storie di successo, per consolidare il ruolo della società civile ma, a
causa di crisi interne, tutto ciò non ha portato ad un grande successo.
Nasce così l’HLPF che, oltre a monitorare lo stato di attuazione dello sviluppo
sostenibile, tra i suoi ruoli ha quello di offrire la possibilità di: consultare gli stakeholder,
promuovere la responsabilità, rivedere l'Agenda dello sviluppo post 2015, verificare la
fase di attuazione degli SDG e esaminare i problemi a partire dalle loro basi scientifiche
e dalle prospettive nazionali e locali. C'è stato un accordo generale sulla necessità di un
vero e proprio riequilibrio tra le tre dimensioni dello sviluppo sostenibile che deve
essere un obiettivo dell'HLPF e deve dunque cercare di integrare le dimensioni in tutto il
sistema delle Nazioni Unite.
2.4.2 Critiche nei confronti degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile
Nonostante i nuovi obiettivi, nati dalla Conferenza di Rio+20 denominati Sustainable
Development Goals (SDG) abbiano sostituito gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio
(MDG) con l’ introduzione di correzioni e migliorie, tali obiettivi però hanno suscitato
allo stesso modo alcune critiche.
La celebre rivista inglese “The Economist”90 pubblicò un articolo il 28 marzo del 2015
intitolato “i 169 comandamenti”, nel quale sferra un duro attacco nei confronti degli
Sustainable Development Goals definendoli inutili dispersivi e dannosi.
Nell’articolo si evince come l’autore trovi fin troppo ambizioso sostituire gli 8 obiettivi
(con relativi 21 sotto-‐obiettivi) degli MDG con ben 17 obiettivi e relativi 169 sotto-‐
obiettivi degli SDG, definendoli come “un’ambizione Biblica che non porterà a niente di
buono”. Un’altra critica che viene mossa all’interno della rivista The Economist descrive
che, anche se alcuni sostenitori giustificano la moltitudine di obiettivi, in quanto sono
più ambiziosi e toccano più argomenti rispetto agli MDG, sono obiettivi del tutto
irraggiungibili economicamente anche se i paesi in via di sviluppo credono che più
obiettivi portino a più aiuti economici. Soddisfare tutti gli obiettivi dell’SDG
comporterebbe un costo molto oneroso, pari a circa 2000-‐3000 miliardi di dollari
all’anno di denaro pubblico e privato per circa 15 anni. Ciò corrisponde a circa il 15% 90 The Economist, 169 Commandments, 28 Marzo 2015
69
del risparmio globale o del 4% del PIL mondiale e gli Stati aderenti hanno promesso di
fornire “solo” lo 0,7% del PIL in aiuti ed è quindi impossibile pensare che uno Stato
possa spendere di più di quello che non riesce a dare.
I redattori degli SDG nel promuovere 169 sotto-‐obiettivi dichiarano di non avere una
piramide di priorità, tutti gli obiettivi sono sullo stesso piano; così facendo però
l’obiettivo “Sradicare la povertà estrema” avrà la stessa importanza del “Promuovere un
processo di industrializzazione sostenibile“.
L’ultima critica che viene mossa nei confronti degli obiettivi del SDG consiste nel fatto
che nel mondo, nei prossimi 15 anni, la possibilità di sradicare la fame del mondo non è
così remota, l’ambizione di porre fine alla miseria di circa 1 miliardo di persone che
vivono con circa 1,25 dollari al giorno è possibile. Tale programma così ambizioso
costerebbe circa 65 miliardi di dollari all’anno, una quantità seppur ingente, di gran
lunga inferiore rispetto ai 3000 miliardi di dollari all’anno previsti per il
soddisfacimento di tutti gli obiettivi degli SDG.
Per tutti queste perplessità e dubbi che vengono sollevati nell’articolo, gli SDG
(Sustainable Development Goals) vengono così ironicamente rinominami “Stupid
Development Goals”91.
91 Ibidem
70
71
CAPITOLO TERZO
ANALISI DEL CASO BENETTON GROUP
3.1 Introduzione
Dopo aver descritto l’evoluzione della sostenibilità e gli obiettivi sostenibili che le
organizzazioni internazionali hanno prefissato nell’arco degli anni, nel presente capitolo
si analizzerà un caso concreto di azioni sostenibili che un’azienda può compiere.
Il caso che verrà preso in esame è la nota azienda italiana Benetton Group e, dopo una
descrizione della vita e dell’evoluzione dell’azienda di moda trevigiana, verrà fornita
un’attenta analisi delle azioni intraprese in ambito di sostenibilità.
Come si vedrà in seguito l’azienda ha sempre avuto un forte legame con la sostenibilità
sociale e, attraverso le prime campagne pubblicitarie innovative, ha cercato di
sensibilizzare la comunità sui problemi sociali, in particolare le prime pubblicità
cercavano di porre l’attenzione sull’importanza dei diritti fondamentali redatti dalle
Nazioni Unite nel 1948 e, attraverso le storiche pubblicità che raffiguravano modelli e
modelle provenienti da ogni parte del mondo, l’azienda dimostrava l’uguaglianza delle
persone nonostante la diversità del colore della pelle, del sesso o della religione.
Negli anni l’azienda ha dimostrato anche interesse alle cause ambientali, attraverso
partnership con organizzazioni non governative come Greenpeace per salvaguardare le
risorse del pianeta e tutelare i consumatori da sostanze chimiche pericolose.
Come si avrà modo di dimostrare nel capitolo, le aree di interesse della famiglia
Benetton in ambito di sostenibilità sono molteplici, esse spaziano dalla tutela
dell’ambiente, alle condizioni sociali dei lavoratori lungo tutta la catena di fornitura e
alla qualità e sicurezza del prodotto finito.
Per suddividere la moltitudine di azioni sostenibili intraprese dall’azienda, esse
verranno suddivise in: stakeholder; catene di fornitura sostenibili; ambiente; impegno
sociale.
72
Con l’obiettivo di individuare se l’azienda compie tutto il necessario in ambito di
sostenibilità, nella seconda parte del capitolo verrà fatta una comparazione con le azioni
di sostenibilità di una delle sue principali competitor.
Grazie all’analisi di comparazione, sarà possibile individuare le azioni sostenibili che
accomunano le due aziende di moda, evidenziando inoltre un’ interpretazione personale
sui punti di forza e di debolezza che contraddistinguono l’azienda Benetton Group.
73
3.1 Evoluzione storica di Benetton Group
Una delle aziende di successo nel mondo della moda riconosciuta in Italia e all’estero è:
Benetton Group.
La storia di Benetton inizia nel 1965 a Castrette in provincia di Treviso, quando Luciano
Benetton e i suoi fratelli decidono di aprire il primo negozio di maglieria in centro a
Ponzano (Tv) nella rinomata e antica via Minelli dove, col passare degli anni, questo
negozio si trasformerà in sede centrale dell’azienda.
L’intuizione della famiglia Benetton, anche se semplice, è stata un’idea di enorme
successo per quegli anni, invece di utilizzare lane di colori diversi per fare maglioni,
utilizzavano lane grezze per realizzare molteplici modelli che, in una seconda fase,
venivano tinti, in base alle esigenze di colori che il mercato in quel momento richiedeva;
ciò permetteva all’azienda di avere una maggiore velocità nel riassortire i negozi e nel
seguire le esigenze del mercato. Un altro vantaggio derivante da questo trattamento,
definito “tinto in capo”, dava la possibilità all’azienda di colorare buona parte della
produzione dopo aver raccolto tutti gli ordini stagionali, in questo modo si poteva
minimizzare il rischio di invenduto dello stock in magazzino.
Dopo aver aperto nel 1965 un nuovo negozio a Belluno, per aumentare il numero di
negozi, la famiglia ebbe un’altra intuizione per espandersi dal punto di vista
commerciale ovvero il franchising, che i Benetton importarono per la prima volta in
Italia. Nel 1971 decisero di aprire il primo negozio al di fuori dei confini italiani, e come
meta scelsero Parigi, che in quegli anni dettava legge dal punto di vista della moda e per
questo veniva denominata “la capitale della moda”.
In quegli anni la chiave del successo di Benetton, consisteva nell’assecondare le decisioni
dei propri clienti, i capi dei negozi seppur di amabile semplicità, venivano presentati con
un colore naturale, ed erano gli stessi clienti che sceglievano il colore direttamente dal
catalogo, il quale diventava il marchio della famiglia Benetton, ampio e ricercato.
Il Primo marchio fu disegnato nel 1971 da Franco Giacometti e Giulio Cittato, il logo
riproduceva una particolare trama di tessuto che ricordava la figura di un polipetto
abbinato ad un “lettering” originale; e nonostante il passare degli anni tale marchio
viene ancora utilizzato nei capi di abbigliamento.
74
Negli anni ’70 Luciano Benetton, il primogenito della famiglia, si pone alla guida del
gruppo di famiglia e decide di investire in nuovi settori inglobando anche altri marchi,
così nel 1972 crea “Jeans West” e nel 1974 decide di acquistare l’azienda “Sisley”.
Col passare degli anni i punti vendita dell’azienda iniziano ad ampliarsi, nel 1980
compare per la prima volta un negozio a New York e nel 1982 una nuova ed importante
apertura in Asia nella città di Tokyo.
Con gli inizi degli anni ’80 il Gruppo Benetton aveva aperto più di 1.000 punti vendita in
Italia, oltre 250 in Germania, 280 in Francia, 100 in Inghilterra e 25 nei Paesi Bassi,
questo forte impulso verso l’internazionalizzazione permise al Gruppo di creare una
forte immagine globale ed omogenea nel mondo, derivante anche da un’offerta nei vari
paesi di prodotti standardizzati.
In quegli anni il Presidente del Gruppo Benetton, Luciano Benetton, decise di investire
anche nello sport per cercare di internazionalizzare definitivamente il prodotto,
attraverso efficaci campagne pubblicitarie e sponsorizzazioni, le quali permisero
all’azienda di poter essere riconosciuta a livello internazionale.
Uno dei primi rami sportivi dove Benetton decise di investire, è stato nella Formula Uno
attraverso il team Tyrell ed in seguito attraverso l’acquisizione della Toleman. Dopo tre
anni nacque il “Team Benetton Formula Limited” e nel 2000, il Gruppo decide di lasciare
la Formula Uno, cedendo la sua casa automobilistica alla Renault.
Il Gruppo decide di investire anche nel rugby, diventando primo sponsor ufficiale del
Rugby Treviso e, in seguito all’acquisizione della Società nel 1983, inizia una serie di
successi nazionali che farà diventare la società Benetton Rugby di grande fama.
Oltre alla Formula Uno e al Rugby la famiglia Benetton decise di investire anche nel
basket. Nel 1982 rileva la società sportiva di Treviso ceduta dal presidente Bordignon e
nel 1987 dopo aver acquistato Antares Vittorio Veneto, i membri della famiglia Benetton
decidono di trasformare il nome della squadra in Sisley Treviso iniziando così una serie
di successi. Le serie di sponsorizzazioni sportive, nelle squadre di basket e rugby di
Treviso, hanno avuto anche un enorme impatto nella comunità locale trevigiana e ciò
sottolinea il forte e profondo legame con il territorio che la famiglia Benetton ha nei
confronti della sua città, dimostrando un interesse non soltanto nell’idea dello sport ma
anche nell’importanza della tutela sociale.
Benetton oltre che per la moltitudine di colori nei capi di abbigliamento, è conosciuta
anche per le sue campagne pubblicitarie innovative e spregiudicate. L’Art Director e
75
fotografo Oliviero Toscani, nelle prime campagne pubblicitarie, utilizzava modelli di
ogni nazionalità, facendo emergere così il concetto dell’integrazione tra razze e,
inseguito ad uno slogan pubblicitario del 1989 che recitava “Tutti i colori del mondo”
divenne l’headline per tutte le campagne pubblicitarie degli anni ’80. Col passare degli
anni questo slogan si tramutò nel marchio: “United Colors of Benetton”.
Se durante gli anni ’80 le campagne pubblicitarie di Benetton si rivolgevano con
semplicità e spensieratezza al mondo giovanile, negli anni ’90 incominciavano ad
assumere toni più cupi e provocatori, si rivolgevano ad un mondo adulto e cosciente,
mostrando immagini di notevole impatto visivo, che si riallacciavano a temi sociali
particolarmente sensibili.
Famosa per lo scalpore che ha creato, è stata la foto datata 1991 scattata da Oliviero
Toscani, che ritraeva un giovane prete di spalle che baciava sulle labbra una donna che
indossava le vesti di una suora. Oliviero Toscani insieme a Benetton creò nel 1991 la
rivista “Colors”, venduta in ben oltre quaranta paesi diversi e tradotta in quattro lingue,
che attraverso un ricco uso di fotografie descrive il resto del mondo attraverso differenti
temi.
Negli stessi anni prese inizio una nuova fase di sviluppo per il Gruppo Benetton
attraverso la nascita di “Fabbrica”, un centro multiculturale che serviva per la ricerca e
ha sperimentazione dei nuovi linguaggi di comunicazione per il Gruppo. All’interno della
Fabbrica si cerca di promuovere il marchio Benetton e non solo, attraverso il lavoro
fornito da giovani artisti e designer internazionali che vengono ospitati all’interno del
complesso architettonico, dove sviluppano dei progetti di comunicazione culturale e
sociale attraverso i settori di design, comunicazione visiva, fotografia, video, musica ed
editoria, utilizzati dai marchi del Gruppo da aziende esterne ed organizzazioni no-‐profit.
Questo spirito di continua ricerca nella sperimentazione e nella comunicazione, lo si
evince dalle parole di Luciano Benetton il quale afferma che “La comunicazione non si
dovrebbe mai comprare da un fornitore estero, deve nascere dal cuore dell’impresa92”.
In seguito all’uscita di Oliviero Toscani nel 2000, venne nominato il nuovo direttore
creativo Joel Berg che, attuando una “Evoluzione senza rivoluzione93”, ossia utilizzando
92 Luciano Benetton, Da azienda familiare a impresa globale, 9Maggio 2011, Available at http://www.lescahiersfm.com 93 Ibidem
76
gli stessi codici stilistici, presentò per la prima volta al centro della campagna di
comunicazione il prodotto come soggetto principale.
Un altro investimento efficiente della famiglia Benetton è stato quello di entrare nella
Società Autostrade, attraverso la filiale “Edizione Holding”, la finanziaria della famiglia
denominata “Schemaventotto”. Altri due sono stati gli investimenti importanti del
Gruppo, attraverso una serie di scalate azionistiche infatti, il Gruppo Benetton riesce a
rilevare anche Olivetti e Telecom.
Le ragioni del successo del Gruppo Benetton si possono verificare, non solo nella
genialità della “tinta in capo” e della flessibilità industriale, ma anche nella progressiva
internazionalizzazione attraverso il mercato distributivo diretto che ha permesso un
ampliamento del mercato. Le altre ragioni del successo del Gruppo sono state la forte e
spiccata immagine dell’azienda, derivata anche da sponsorizzazioni mirate, che le hanno
permesso di essere internazionalmente riconosciuta, e le importanti scalate azionistiche
che hanno permesso al Gruppo di ingrandirsi e investire in altri progetti quali il
controllo della logistica o la rivista Colors.
Benetton Group negli anni ha dimostrato di fondare la sua storia nella tecnologia,
offrendo prodotti pieni di colori e sempre all’avanguardia, attraverso la rivoluzione del
punto vendita e la comunicazione universale che è diventata un fenomeno di costume e
dibattito culturale ed ha permesso al Gruppo di far scaturire l’anima globale.
77
3.2 Le azioni sostenibili intraprese da Benetton Group
Fin dagli albori Benetton ha dimostrato di essere un’azienda socialmente attenta e
impegnata in progetti culturali e, attraverso le prime campagne pubblicitarie multi-‐
razziali, il Gruppo dimostrava l’attenzione ai temi quali la lotta contro il razzismo e
l’importanza dell’integrazione,
Con il passare del tempo l’azienda ha dimostrato un forte interesse nella tutela
dell’ambiente e nei temi con valori etici, come il sostegno dei diritti umani.
Negli anni Benetton Group ha intrapreso delle campagne pubblicitarie come “Unhate”
nata nel 2011, per contrastare la cultura dell’odio, e ha intrapreso numerose
collaborazioni con molteplici organizzazioni no-‐profit riconosciute a livello
internazionale, per trattare temi quali:
• La tutela dei rifugiati del Kossovo
• La fame nel mondo
• La salvaguardia delle specie animali
Ieri come oggi l’impegno di Benetton Group è quello di un’azienda socialmente
responsabile, dal punto di vista sociale, ambientale ed economico che si impegna a
tutelare le generazioni sia presenti che future, al fine di crescere in armonia nelle
comunità in cui l’azienda è presente.
Da oltre cinquant’anni i valori di Benetton si traducono nella volontà di far diventare
l’azienda agente di cambiamento sociale, attraverso una maggiore attenzione, dialogo e
cooperazione, volti ad incrementare gli interessi di tutti gli stakeholder.
L’internazionalizzazione del Gruppo Benetton comporta un impatto globale delle sue
azioni, ed è per questo motivo che le strategie di sostenibilità che intraprende l’azienda,
si dispiegano in azioni a più livelli, al fine di interessare maggiormente tutte le aree di
influenza per integrare i criteri sociali, ambientali, creando valore condiviso nel lungo
termine all’interno e all’esterno dell’azienda.
Alcuni degli strumenti utilizzati dal Gruppo Benetton per migliorare la strategia di
sostenibilità nel mettere in relazione le attività dell’impresa con i diritti umani sono
“I Principi Guida del Rappresentante Speciale su Imprese E Diritti Umani” delle Nazioni
Unite del 2011, e la “Comunicazione della Commissione Europea sulla Responsabilità
Sociale d’Impresa” dell’Ottobre 2011.
78
Le aree aziendali e gli aspetti che il Gruppo considera fondamentali al fine di
incrementare la salvaguardia della Sostenibilità sono molteplici, tra le più importanti
Benetton effettua un continuo monitoraggio della catena di fornitura, in particolare pone
molta attenzione alle condizioni sociali e ambientali nelle proprie catene di fornitura e
pone come vincolo obbligatorio a chiunque voglia entrare in relazione con l’azienda,
l’adozione e il rispetto del Codice di Condotta redatto dal Benetton Group.
Oltre alla catena di fornitura, un altro punto sul quale Benetton dà molta importanza è il
prodotto finito. E’ necessario che i prodotti rispecchino standard di sostenibilità non
solo nei processi di produzione, ma devono rispecchiare standard di sicurezza per il
consumatore finale.
Attraverso l’attenzione e l’impegno di Benetton, come vedremo nel paragrafo che segue
l’approccio alla sostenibilità dell’azienda avviene attraverso:
• Stakeholders
• Catene di fornitura sostenibili
• Ambiente
• Impegno sociale
3.2.1 Stakeholders
Per Benetton Group l’impegno nei confronti della sostenibilità è da sempre
un’opportunità e una sfida molto importante, al fine di elaborare una strategia di
sostenibilità efficace, l’azienda cerca di creare un legame con tutti gli stakeholders e
presta attenzione sia agli interlocutori interni all’azienda che a quelli esterni.
Gli interlocutori esterni dell’azienda con i quali si deve interfacciare per creare un
legame duraturo sono ad esempio le Istituzioni nazionali come: Confindustria, Enti
locali , Organizzazioni sindacali o associazioni di categoria; concorrenti e partner, ossia i
concorrenti effettivi e potenziali e le Società partner; Istituti di Finanza, come gli istituti
di credito ovvero le banche, Società finanziarie o gli investitori finanziari; il pubblico,
ovvero i mezzi di comunicazione, i movimenti e i gruppi di pressione, gli opinionisti, il
mondo universitario e della ricerca; il mercato, che risponde alla categoria degli
acquirenti, consumatori, clienti effettivi e potenziali, fornitori.
79
Gli interlocutori interni invece sono tutti i soggetti che appartengono in maniera diretta
alla vita dell’azienda e sono rappresentati dai vertici aziendali, dipendenti, lavoratori e
organizzazioni sindacali interne.
Riuscire a creare un legame e un dialogo effettivo con tutti gli stakeholder non è
semplice sia per la diversità degli interlocutori, sia perché i rapporti che intercorrono tra
loro e Benetton Group sono in continua evoluzione.
Fig. numero 6: “Mappa degli stakeholders”94
94 Mappa degli stakeholders, Available at http://www.benettongroup.com/it/sostenibilita/stakeholders/
80
L’importanza di creare un rapporto con tutti gli stakeholders è di grande utilità per
Benetton, poiché gli permette di poter misurare l’impatto delle attività del Gruppo sulla
sua sfera di influenza, inoltre serve per poter analizzare gli effetti del suo operato e dei
suoi comportamenti. Infine per poter identificare il grado di apprezzamento di un
determinato prodotto, è necessario che l’azienda stabilisca un rapporto con i diversi
interlocutori sia interni che esterni, per poter ascoltare le loro opinioni, aspettative e
poter ottimizzare così contributi che si ritengono essenziali per il futuro del Gruppo.
Avere buoni rapporti con tutti gli stakeholders, oltre che ricavare opinioni sui prodotti,
permette a Benetton Group di avviare delle iniziative in ambito di sostenibilità e
realizzarle con la collaborazione di più stakeholders, Benetton infatti ritiene che la
sostenibilità sia il futuro di un impegno comune e di un dialogo proattivo.
Una delle iniziative promosse dal Gruppo insieme ad altre 150 aziende del mondo della
moda, è stata la sottoscrizione dell’”Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh”
iniziativa nata nel Maggio del 2013 per migliorare le condizioni di vita e sicurezza del
lavoro in maniera duratura, dei lavoratori delle aziende tessili in Bangladesh. Tale
accordo sottoscritto da aziende di tutto il mondo ha avuto anche la partecipazione di
Organizzazioni Internazionali e Organizzazioni non governative, riunitesi tutte insieme
per un unico obiettivo: migliorare la sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro.
Benetton inoltre è in prima linea per l’eliminazione dell’uso di sostanze chimiche
pericolose nei prodotti tessili entro il 2020. Per riuscire in questo ambizioso progetto.
Benetton Group si è alleata con i principali operatori del tessile e si è affiliato alla
coalizione internazionale ZDHC95 (Zero Discharge of Hazardous Chemicals), per riuscire
ad azzerare le emissioni di sostanze chimiche pericolose.
Tramite tale programma nato nel 2011 e al quale hanno aderito note aziende come Nike,
Adidas, HeM, Burberry etc. etc. i marchi firmatari collaborano con ZDHC per
incoraggiare la responsabilità ambientale all’interno dell’industria tessile e contribuire
al raggiungimento di condizioni di lavoro sicure per le comunità locali. Come parte
dell’impegno nel perseguimento dell’obiettivo di abbattere lo scarico di sostanze
chimiche pericolose entro il 2020, il gruppo di marchi firmatari ha pubblicato una
tabella di marcia che rappresentava tutti gli sforzi che dovevano compiere i leader delle
95 ZDHC, Zero Discharge of Hazardous Chemicals, Available at http://www.roadmaptozero.com
81
calzature e della moda entro il 2020, comprensivi di impegni e scadenze specifiche da
realizzare per raggiungere l’obiettivo comune.
Per garantire la trasparenza nei confronti delle persone, tutti i dati raccolti vengono
pubblicati in maniera trasparente ogni trimestre, in modo da poter verificare
regolarmente i progressi da parte dei marchi che hanno sottoscritto il programma ZDHC,
lungo la tabella di marcia.
3.2.2 Catene di fornitura sostenibili
L’impegno di Benetton Group nella promozione e nel rispetto dei diritti umani e nella
tutela dell’ambiente, si estende anche ai suoi collaboratori lungo tutta la catena di
fornitura. L’azienda infatti applica ai suoi fornitori e subfornitori , il Codice di Condotta
di Benetton che fonda le sue radici sul rispetto dei diritti umani e sulla salvaguardia
dell’ambiente. Per ampliare il controllo lungo tutta la filiera, viene citato nel Codice di
Condotta96 che: i fornitori ufficiali di Benetton non potranno utilizzare subfornitori per
la realizzazione, o parte della realizzazione, dei prodotti del Gruppo, senza il consenso
scritto, precedentemente ricevuto dal Gruppo stesso; inoltre chiunque volesse
intraprendere relazioni d’affari con il Gruppo Benetton, dovrà assicurarsi che i
subfornitori si attengano al Codice di Condotta e firmino una copia dello stesso.
All’interno del Codice di Condotta sono presenti anche delle regole di monitoraggio e
procedure di conformità, che chiunque entra in relazione con Benetton deve accettare e
sottoscrivere. In particolare i fornitori e subfornitori dovranno permettere controlli da
parte di Benetton Group o enti terzi, i quali verificheranno la conformità delle attività
svolte in relazione al Codice di Condotta e inoltre dovranno fornire, in forma gratuita,
tutta l’assistenza necessaria al fine di facilitare l’accesso illimitato, non solo alle proprie
strutture, ma anche a quelle dei propri subfornitori. Al fine di garantire la trasparenza
nelle procedure di monitoraggio, tali ispezioni in loco, che non saranno preannunciate,
96 Benetton Group, Codice di Condotta di Benetton Group, Available at http://static.benettongroup.com/wp-‐content/uploads/2015/06/codice_di_condotta_di_benetton_group.pd
82
riguarderanno ispezioni ai documenti, alla corrispondenza e possibili colloqui privati
con i lavoratori.
Per migliorare la tracciabilità dei suoi fornitori e per verificare il livello di conformità del
Codice di Condotta, Benetton Group ha avviato un progetto pilota nel 2011 a 25 dei suoi
fornitori in India, applicando lo strumento per la valutazione del rischio ovvero,
utilizzando i principali strumenti internazionali, regionali e nazionali, si mira a una
ridefinizione dei piani di gestione aziendali, attraverso l’integrazione del rischio sui
diritti umani e delle misure correttive.
Tale progetto denominato “Responsible Traceability 201197 ” pone come obiettivi
principali il verificare la tracciabilità dei fornitori di riferimento e, partendo dai risultati
ottenuti dalla valutazione del rischio, effettuare l’analisi qualitativa del portafoglio dei
fornitori e subfornitori.
Al fine di ridurre sempre più l’inquinamento ambientale lungo tutta la catena di
fornitura e considerato che entro il 2020 Benetton si è posto l’obiettivo di eliminare
tutte le sostanze chimiche pericolose dalla catena di fornitura, per rendere limpido e
trasparente questo obiettivo, nel sito del Gruppo è possibile osservare e consultare i
dati98 chimico ambientali relativi all’attività dei fornitori.
Questo modo di operare così preciso e metodico, e l’ambizione di cercare sempre nuovi
obiettivi, consente al Gruppo Benetton di ampliare in maniera crescente il monitoraggio
e il controllo nei confronti delle aziende esterne, riuscendo così a garantire una maggior
tutela dei diritti umani e la difesa dell’ambiente.
La sottoscrizione del Codice di Condotta di Benetton Group99 a tutte le società
controllate direttamente/ indirettamente e a tutti i fornitori e subfornitori, serve
all’azienda per promuovere il rispetto dei diritti umani e la tutela dell’ambiente e per
poter migliorare il mercato globale tessile e dell’abbigliamento, poiché si deve fondare
su pratiche di correttezza, equità e reciprocità.
97 Benetton Group, Responsible Traceability 2011, Available at http://www.benettongroup.com/it/sostenibilita/catene-‐fornitura-‐sostenibili/ 98 Benetton Group, Dati relativi ai fornitori, Available at http://www.benettongroup.com/it/sostenibilita/catene-‐fornitura-‐sostenibili/ 99Benetton Group, Codice di Condotta di Benetton Group, Available at http://static.benettongroup.com/wp-‐content/uploads/2015/06/codice_di_condotta_di_benetton_group.pd
83
Tale Codice si basa sulle normative internazionali più importanti come le Linee Guida su
Imprese100 e Diritti Umani101 redatto dalle Nazioni Unite e dalla Comunicazione della
Commissione Europea per una Rinnovata Strategia sulla Responsabilità Sociale
d’Impresa. Queste normative racchiudono le leggi e i regolamenti internazionalmente
riconosciuti, contenute nelle Convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro
e della Dichiarazione dell’OIL sui principi e diritti fondamentali nel lavoro del 1988 fino
alle norme sulla protezione dell’ambiente e sul diritto ad un ambiente salubre e sicuro e
alla normativa su salute e sicurezza.
Il Codice di Condotta di Benetton Group è suddiviso in quattro capitoli:
1. Standard internazionali nel lavoro salute e sicurezza
2. Protezione dell’ambiente
3. Trasparenza
4. Catene di fornitura e conformità
Nel primo capitolo denominato ”Standard internazionali nel lavoro, salute e
sicurezza102”, si descrivono i regolamenti che, chiunque entra in relazione di affari con
Benetton, deve condividere e rispettare, come ad esempio:
• Il lavoro minorile; nessuna azienda può impiegare persone di età inferiore a 15
anni o 14 anni, ma solo nel caso in cui le leggi nazionali lo consentono.
• Lavoro forzato, chiunque entri in affari con il Gruppo non può ricorrere al lavoro
forzato, illegale o involontario.
• Non discriminazione, si deve bandire qualsiasi forma di discriminazione nelle
pratiche di assunzione, remunerazione, accesso alla formazione, promozione,
cessazione del lavoro o pensionamento. Per discriminazioni si considera la
discriminazione basata sulla razza, casta, partecipazione ai sindacati, colore,
genere sessuale, orientamento sessuale, malattie o disabilità, religione, età,
opinione politica e nazionalità.
100 , Linee Guida Ocse, Linee Guida su Imprese, 27 Giugno 2000 101 Linee Guida Ocse, Cap IV, Diritti Umani, 2011 102 Benetton Group, Standard internazionali nel lavoro salute e sicurezza, Codice di Condotta di Benetton Group, pp.1, Available at http://static.benettongroup.com/wp-‐content/uploads/2015/06/codice_di_condotta_di_benetton_group.pdf
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• Abusi e molestie, ogni dipendente dovrà essere trattato con dignità e rispetto e
non dovrà essere inflitta alcuna pena corporale, minacce dell’uso di violenza o
altre forme di molestie o abusi fisici, sessuali o verbali.
• Associazione, chiunque entri in relazione con il Gruppo Benetton dovrà garantire
ai propri dipendenti la libertà di associazione, di organizzazione e di
contrattazione collettiva in maniera pacifica e nel rispetto della legge.
• Contratto dei lavoratori, qualsiasi lavoratore ha diritto ad un contratto scritto e
deve essere a conoscenza dei termini e delle condizioni di lavoro.
• Orario di lavoro, qualunque azienda entri in affari con Benetton deve garantire il
rispetto di tutte le leggi applicabili in materia, la normale settimana lavorativa
dovrà essere definita secondo la legge e non deve superare le 48h, inoltre gli
straordinari devono essere volontari e remunerati.
• Remunerazione, i salari devono essere conformi alle leggi e ai regolamenti vigenti
o agli standard dell’industria locale relativi al salario minimo, e deve essere
sufficiente a garantire il soddisfacimento dei bisogni di base dei lavoratori.
• Diritti dei lavoratori migranti, il lavoratori migranti avranno gli stessi diritti dei
lavoratori locali e, qualsiasi spesa aggiuntiva relativa all’impiego, dovrà essere a
carico del datore di lavoro.
• Salute e sicurezza, Benetton Group richiede ai suoi collaboratori lungo la catena
di fornitura che la sicurezza dell’ambiente lavorativo sia messa come priorità.
Bisogna quindi concedere ai lavoratori un ambiente sicuro e salutare, e bisogna
inoltre garantire un accesso all’acqua potabile e alle strutture sanitarie; bisogna
fornire ai lavoratori che svolgono determinate mansioni pericolose un adeguato
equipaggiamento protettivo; le uscite di emergenza devono essere segnalate in
modo chiaro; il l kit di primo soccorso deve essere disponibile e, ove previsto
dalla legge, un medico o un infermiere dovrebbero essere disponibili durante
l’orario di lavoro.
• Condizione degli alloggi, i requisiti da rispettare elencati al punto precedente,
riguardano anche le strutture per i lavoratori dove questi alloggiano.
• Valutazione del rischio, chiunque entri in relazione con Gruppo Benetton deve
verificare l’impatto sociale ed ambientale delle proprie attività sulla comunità
locale nel suo complesso.
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• Riferimenti a legislazioni locali nazionali e internazionali, tutte le disposizioni del
Codice di Condotta includono le normative locali e nazionali e, nel caso in cui una
stessa questione sia regolata dalla normativa nazionale o da altre leggi
applicabili, allora si deve obbligatoriamente applicare la disposizione che offre
una maggior tutela per i lavoratori.
Nel secondo capitolo del Codice di Condotta di Benetton Group, denominato “Protezione
dell’ambiente103”, si descrivono le norme e osservazioni che le aziende che vogliono
intraprendere legami con Benetton devono rispettare. Tali imprese dovranno applicare
il principio “precauzionale”, ovvero devono basare tutte le attività sul fatto di prevenire
gli impatti ambientali negativi e le aziende dovranno essere in possesso di
autorizzazioni ambientali, che avranno l’obiettivo di prevenire l’inquinamento del suolo,
dell’acqua e dell’aria e saranno un requisito essenziale per poter svolgere le proprie
attività.
Il capitolo riservato alla tutela dell’ambiente viene suddiviso in tre paragrafi:
• trattamento delle sostanze chimiche, ovvero vengono date delle restrizioni sulle
sostanze chimiche utilizzabili in base ai tipi di produzione aziendale, in
particolare si vieta l’utilizzo delle sostanze chimiche presenti in APEO104, e di
eliminare entro il 31 dicembre 2015 il PFC
• trattamento dei rifiuti, lo smaltimento dei rifiuti deve essere trattato in maniera
responsabile e in accordo con le leggi, a partire dalla legge più restrittiva e tutte
le emissioni devono essere trattate in maniera appropriata e trasparente a
seconda delle leggi e dei regolamenti applicabili in materia.
• Trattamento delle acque, le aziende che entrano in affari con Benetton Group
devono avere massimo rispetto nel trattare le risorse idriche, a causa della loro
scarsità in alcune aree della Terra, e dovranno trattare le acque reflue prima di
essere scaricate in accordo con quanto previsto dalle leggi locali e nazionali.
103 Benetton Group, Protezione dell’ambiente, Codice di Condotta di Benetton Group, pp. 3 Available at http://static.benettongroup.com/wp-‐content/uploads/2015/06/codice_di_condotta_di_benetton_group.pdf 104 APEO, Codice di Condotta Benetton Group, pp. 2, Available at http://static.benettongroup.com/wp-‐content/uploads/2015/06/codice_di_condotta_di_benetton_group.pdf
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Il terzo capitolo del Codice di Condotta denominato “Trasparenza105”, indica alle
aziende, che vogliono entrare in relazione con Benetton, di fornire sempre informazioni
trasparenti in merito alle loro attività al fine di cooperare e raggiungere soluzioni
sostenibili. Infine le aziende dovranno far reperire ai propri lavoratori dipendenti una
copia del Codice di Condotta scritta in lingua locale da poter usufruire in qualsiasi
momento in luoghi facilmente accessibili ai lavoratori.
Il quarto ed ultimo capitolo del Codice di Condotta di Benetton Group denominato
“Catene di fornitura e conformità106”, ampliamente descritto all’inizio del paragrafo
3.2.2, obbliga le aziende della catena di fornitura a rispettare le norme presenti nel
Codice e, nel caso utilizzino subfornitori per realizzare parte del prodotto, dovranno
assicurarsi che anche loro si attengano a questo Codice di Condotta.
L’impegno di Benetton Group nelle azioni sostenibili, lo si può riscontrare anche nel
sostegno che offre alle comunità locali dei paesi in cui opera, in particolar modo
l’azienda continua a muoversi proattivamente, nel cercare soluzioni durevoli per
risolvere i problemi che interessano il settore tessile e dell’abbigliamento, in particolar
modo Benetton si è mostrata in prima linea nel cercare di aiutare le persone del
Bangladesh in seguito al tragico crollo dell’edificio Rana Plaza107.
In tale edificio, alto nove piani e situato nella periferia di Dacca, erano presenti diverse
aziende tessili locali che producevano materiali per conto di molteplici marchi
internazionali. Il 24 Aprile 2013 è ricordato come il giorno della tragedia più devastante
nel mondo dell’industria tessile: malgrado il sopralluogo di un ispettore della polizia che
aveva dichiarato inagibile tale struttura a causa di alcune crepe sui muri in diversi piani,
i proprietari di alcune fabbriche del 3° e 4° piano, ignorarono il divieto di chiusura e
decisero di continuare la loro attività causando così la morte di 1.100 persone.
105 Benetton Group, Trasparenza, Codice di Condotta Benetton Group, pp.5, Available at http://static.benettongroup.com/wp-‐content/uploads/2015/06/codice_di_condotta_di_benetton_group.pdf 106 Benetton Group, Catene di fornitura e di sostenibilità, Codice di Condotta di Benetton Group, pp.5, Available at http://static.benettongroup.com/wp-‐content/uploads/2015/06/codice_di_condotta_di_benetton_group.pdf 107 Rana Plaza, La tragedia del Rana Plaza. I fatti e l’impegno di Benetton, Available at http://static.benettongroup.com/CRONISTORIA_RANA_PLAZA_it.pdf
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Nonostante Benetton non avesse più rapporti commerciali con le fabbriche presenti
all’interno dell’edificio il giorno del crollo, avendo cessato i rapporti commerciali il
giorno 3 Aprile 2013 e avendo acquistato solo alcuni prodotti per pochi mesi pari al
1,8%108 della produzione complessiva del Rana Plaza nei dodici mesi prima del crollo,
l’azienda decise di muoversi tempestivamente nelle settimane immediatamente
successive alla tragedia, promuovendo l’”Accord on Fire and Building Safety109” di cui è
stata una dei primi cinque firmatari. L’accordo, che è stato lanciato nel Maggio del 2013,
è un’iniziativa indipendente che si occupa di rendere più sicuri tutti gli stabilimenti di
produzione di abbigliamento in Bangladesh e prevede inoltre l’ispezione di società
indipendenti nei luoghi di lavoro, al fine di garantire la trasparenza e la sicurezza lungo
tutta la catena di fornitura del settore tessile dei grandi marchi internazionali. All’Accord
on Fire and Building Safety in Bangladesh hanno aderito più di 150 aziende del settore
dell’abbigliamento, Organizzazioni Sindacali, Organizzazione Internazionale del Lavoro
e varie Organizzazioni Non Governative; Benetton essendo stata tra i primi firmatari di
tale accordo, ha dimostrato il proprio impegno per contribuire a un miglioramento delle
condizioni dei lavoratori e della sicurezza nei luoghi di lavoro nel Paese.
Nel Maggio del 2013 decise inoltre di destinare autonomamente, a causa della mancanza
di un’iniziativa collettiva, la somma di 500.000 dollari alle famiglie delle 280 vittime del
Rana Plaza in partnership con BRAC110, la principale ONG presente in Bangladesh.
In seguito a tale tragedia il progetto di Benetton Group in collaborazione con BRAC
aveva il compito di offrire assistenza ai superstiti e supporto alle famiglie delle vittime
del crollo. Tale progetto si scomponeva in due fasi ben precise:
nella prima fase si prevedevano cure mediche, che comprendevano medicinali, arti
artificiali per i superstiti, e successivamente terapie riabilitative per gli assistiti,
selezionati in base ai parametri stabiliti da BRAC e dalle indicazioni del Ministero della
Salute e del Welfare per le Famiglie del Governo del Bangladesh; la seconda fase
comprendeva sostegno ai superstiti e alle famiglie delle vittime attraverso corsi di
formazione e capitali di avvio per attività economiche attraverso programmi di
micro credito. In questa parte del progetto si intende dare sostentamento a circa 280
assistiti, compresi i superstiti che spesso rappresentano l’unica fonte di reddito per le 108 Ibidem 109 Accord on Fire and Building Safety, Available at http://bangladeshaccord.org 110 BRAC, development organisation dedicated to alleviating poverty by empowering the poor, Available at http://brac.net
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proprie famiglie, oppure ai familiari a carico delle vittime decedute durante il crollo o
ferite gravemente. Grazie a tale progetto avviato da BRAC con il sostegno di Benetton
Group, molte persone hanno ricevuto una grossa opportunità di sostentamento
economico, grazie alla quale alcune sono riuscite ad aprire nuove attività permettendo
loro di avere un nuovo lavoro e nuove forme di guadagno.
Solo nel Gennaio dell’anno successivo venne fondato un fondo di raccolta denominato
“Rana Plaza Trust Found”, con l’obiettivo di raccogliere 30 milioni di dollari per
predisporre un programma di risarcimento per le vittime del crollo.
Il 16 Aprile 2015 Benetton Group, dopo aver richiesto una consulenza auditor
indipendente PWC111, perché venisse qualificata la quota di contribuzione e, dopo aver
chiesto il parere alla WRAP112 (ong specializzata nei diritti umani nelle catene di
fornitura), decise di donare al Rana Plaza Trust Fund il doppio della cifra che le era stata
raccomandata dagli audit indipendenti, raggiungendo la quota di 1.1 milioni di dollari113
la quale, sommata alla cifra precedente, raggiungeva la somma di 1.6 milioni di dollari114
destinati come risarcimento alle famiglie delle vittime.
Come si può notare nella figura sottostante, il primo grafico a barre a sinistra, mostra la
quota di Benetton Group sul totale della produzione nei dodici mesi prima del crollo del
Rana Plaza, che corrisponde all’1,8%, mentre il grafico a barre a destra mostra il
contributo economico che Benetton ha donato al Rana Plaza Trust Fund rispetto alle
altre ventinove grandi aziende.
Il presidente e CEO di WRAP, Avedis Seferian, riferendosi alla donazione fatta da
Benetton Group ha cosi dichiarato:
“Con una tragedia di questa portata, nessun risarcimento monetario potrà mai essere
sufficiente, ma accogliamo con favore la decisione di Benetton di corrispondere un importo
ben superiore alla sua quota, basata sul rapporto pubblicato da PwC… Se tutti quanti
adottassero lo stesso approccio di Benetton, l’intero fondo potrebbe superare
considerevolmente gli obiettivi indicati115”
111 Pricewaterhousecoopers 112 Worldwide Responsible Accredited Production 113 Fonte PWC Report 2015, Elaborazione dei dati Benetton Group su base Report PWC 114 Ibidem 115 Avedis Seferian, Cartella stampa, Available at http://static.benettongroup.com/wp-‐content/uploads/2015/04/Comunicati_infografiche_completo.pdf
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Fig. numero 7: “Contributo totale di Benetton Group”
In seguito alla donazione offerta al Rana Plaza Trust Fund, l’Amministratore Delegato di
Benetton Group ,Marco Airoldi, ha così dichiarato :
” Accogliamo con favore il rapporto di PwC e le raccomandazioni di WRAP, e abbiamo
deciso di andare oltre per dimostrare molto chiaramente quanto sia profondo il nostro
impegno…. Benetton vanta con orgoglio una tradizione d’impegno sociale. Siamo convinti
che, lavorando a stretto contatto con i fornitori, possiamo contribuire a migliorare le
condizioni di lavoro nelle fabbriche, in Bangladesh e in molte altre parti del mondo.116”
Tutte queste iniziative intraprese da Benetton Group, dimostrano lo sforzo e l’impegno
che l’azienda mette per migliorare le condizioni di lavoro e lo standard di vita dei
lavoratori nel settore del tessile, attraverso i progetti di sostenibilità realizzati lungo
tutta la catena di fornitura a livello mondiale, e attraverso le cooperazioni con enti
internazionali e organizzazioni no-‐profit.
116 Marco Airoldi, Cartella stampa, 17 Aprile 2015, Available at http://static.benettongroup.com/wp-‐content/uploads/2015/04/Comunicati_infografiche_completo.pdf
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3.2.3 L’ambiente
Il successo e la fama di Benetton si basano non solo sullo sviluppo industriale ma anche
per la sua lunga tradizione di attenzione nei confronti dell’ambiente. Il Gruppo Benetton
si impegna a salvaguardare e a proteggere l’ambiente nei luoghi in cui opera, attraverso
un controllo diretto dei suoi fornitori e subfornitori lungo tutta la catena di fornitura,
tramite certificazioni e controlli a sorpresa nelle aziende.
Negli anni Benetton Group ha collaborato anche con Greenpeace con l’adesione al
programma “Detox117”, cercando di eliminare completamente le sostanze chimiche
pericolose utilizzate nel settore tessile e tutelando così la salute e la sicurezza dei
consumatori e salvaguardando le condizioni delle comunità locali di tutto il mondo.
Il progetto di Greenpeace consiste nel chiedere al mondo della moda una “moda libera
da ogni forma di inquinamento118 “ e, in seguito a campagne pubblicitarie sul web e
flashmob, diciotto grandi marchi si sono impegnati nel progetto Detox.
Per garantire un impegno concreto delle aziende in questo progetto, cercando di
eliminare tutte le emissioni di sostanze chimiche pericolose, Greenpeace esige che le
aziende si impegnino ad adottare soluzioni preventive volte ad eliminare l’utilizzo di
ogni sostanza chimica e ad agire con trasparenza nei confronti delle comunità locali
dove si scaricano le sostanze pericolose, ed infine ad eliminare dal ciclo produttivo tutte
le sostanze chimiche pericolose.
Oggi è possibile scoprire quale dei marchi aderenti all’iniziativa, ha mantenuto
l’impegno con Greenpeace e chi invece non ha mantenuto la parola e ha continuato ad
inquinare.
Per facilitare la comprensione dei marchi attenti all’ambiente e chi invece ha fatto il
minimo indispensabile, Greenpeace ha creato tre categorie119 di marchi:
1. Detox Leader: ovvero i marchi che si sono impegnati a garantire ai propri
consumatori dei vestiti liberi da sostanze tossiche.
117 Greenpeace, Detox, 25 Agosto 2011, Available at http://www.greenpeace.org/italy/it/campagne/inquinamento/acqua/Campagna-‐Detox/ 118 Ibidem 119 Greenpeace, Detox, 2011, Available at http://www.greenpeace.org/italy/it/campagne/inquinamento/detox-‐catwalk/
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2. Greenwasher: marchi che non sono passati dalle parole ai fatti e non si assumono
la responsabilità dei propri "peccati tossici".
3. Dotox Loser: marchi un po' troppo dipendenti dalle sostanze tossiche che non si
sono assunti alcuna responsabilità per il proprio impatto ambientale sulle risorse
idriche del Pianeta.
Benetton Group si riconferma anche nel 2015 uno dei leader della classifica stilata da
Greenpeace, in quanto azienda impegnata attivamente nella tutela dell’ambiente e
nell’offrire trasparenza sulle informazioni relative alla catena di fornitura.
L’impegno che Benetton Group ha nei confronti dell’ambiente, è visibile attraverso
alcuni progetti verdi volti alla tutela e alla salvaguardia dell’ecosistema: come ad
esempio la creazione e l’introduzione degli appendiabiti in legno liquido.
Questi nuovi appendiabiti innovativi composti al 100% da prodotti biodegradabili e
riciclabili, hanno permesso di sostituire i comuni modelli in plastica difficilmente
biodegradabili e riciclabili, in tutta la rete mondiale dei negozi del Gruppo Benetton.
Nel gennaio del 2010 il Gruppo ha deciso di sostituire in tutti i punti vendita, le shopper
di plastica con le shopper di carta eco-‐friendly. Queste nuove borse, fatte esclusivamente
con inchiostri a base acquosa, sono composte da una carta certificata FSC120 ovvero da
aziende che utilizzano la materia prima, che proviene da foreste controllate e gestite
secondo i regolamenti della sostenibilità sociale ed ambientale.
L’attenzione all’ambiente si realizza in concreto anche con la scelta degli imballaggi.
Grazie all’utilizzo di imballaggi di particolari dimensioni, Benetton Group effettua un
risparmio annuo di circa 140 tonnellate di cartone121, con un notevole risparmio in
emissioni di CO2 sull’intero ciclo di vita del cartone e sul trasporto122.
Inoltre lo stoccaggio degli imballaggi sugli automezzi, viene effettuato con un risparmio
di volumetria che permette di utilizzare circa 1000 camion in meno123 nei trasporti
utilizzati annualmente dall’azienda.
120 FSC, Available at https://it.fsc.org/index.htm 121 Benetton Group, Sostenibilità, Available at http://www.benettongroup.com/it/sostenibilita/ambiente/ 122 Ibidem 123 Ibidem
92
La strategia di sostenibilità ambientale di Benetton Group pone come suoi obiettivi
principali, la sicurezza, la qualità dei prodotti e dedica particolare attenzione alla
trasparenza dell’informazione nei confronti dei consumatori.
Per Benetton la fedeltà dei clienti si crea attraverso la garanzia dei prodotti offerti, privi
di sostanze pericolose o l’utilizzo di sostanze tossiche e attraverso uno scrupoloso
controllo della qualità del prodotto.
Nasce così il progetto “Vestiti sicuro124” che si occupa di offrire un’informazione
trasparente ai clienti che acquistano i prodotti Benetton, per quanto riguarda i materiali
e i processi utilizzati per creare il prodotto finito. Tale progetto ha il compito di
segnalare attraverso la comunicazione, la qualità e la garanzia dei prodotti Benetton e di
rassicurare il cliente sull’utilizzo di sostanze chimiche nei capi di abbigliamento.
Il programma “Vestiti sicuro” si estende su tutta la linea bambino, United Colors of
Benetton, Undercolors of Benetton e Sisley Young, in quanto sono considerati
consumatori che necessitano della protezione più alta e, attraverso il marchio
“Ecosafe125”, si vuole offrire una certificazione esterna che garantisce il monitoraggio
delle sostanze chimiche e dei materiali utilizzati nei propri prodotti.
L’obiettivo di “Ecosafe” consiste nel dare un valore aggiunto ai prodotti attraverso i
settori della sicurezza e della sostenibilità, offrendo al consumatore la garanzia di
acquistare prodotti sempre più sicuri e di qualità. I parametri che vengono presi in
considerazione comprendono sia le sostanze regolamentate da riferimenti legislativi, ma
anche altre sostanze che, seppur non contemplate dalla legislazione dell’Unione
Europea, si trovano nei prodotti tessili e possono essere riconosciute come
potenzialmente nocive per la salute.
Un’azienda che vuole ottenere il marchio “Ecosafe” deve garantire prodotti che
soddisfino determinati requisiti di sicurezza: sicurezza chimica, sicurezza meccanica.
Con il primo termine si identificano tutte le sostanze chimiche vietate, che non possono
essere parte del capo per poter avere il riconoscimento di sicurezza; un esempio sono
l’utilizzo di coloranti cancerogeni che, anche se vietati da leggi europee, spesso vengono
ancora utilizzati da molti produttori per il loro basso costo; gli ftalati sono sostanze
chimiche derivanti dal petrolio e vengono utilizzati per ammorbidire le plastiche, spesso
124 Benetton Group, Vestiti sicuro, Available at http://safety.benetton.com/it/vesti-‐sicuro/ 125 Ecosafe Textile, Ecosafe, Available at http://www.ecosafetextile.com
93
molti ftalati sono considerati tossici e in determinati casi sono considerati responsabili
di effetti nocivi per la salute come le allergie o danni al fegato; altri materiali vietati sono
i metalli pesanti, che vengono spesso utilizzati per creare i bottoni e componenti in
plastica o il nichel impiegato nelle finiture di metalli come le fibbie delle cinture, gli
effetti sui bambini possono comprendere effetti cancerogeni o danni al sistema nervoso
o irritazioni della pelle.
La sicurezza meccanica invece comprende invece un controllo accurato delle piccole
parti che posso essere ingerite, come le pailettes o strass, e una verifica sulla corretta
fabbricazione del prodotto in modo da constatare la conformità del capo per l’utilizzo
del bambino.
Al fine di rispettare i parametri decisi da “Ecosafe”, Benetton forma gli stilisti già nella
fase di progettazione affinché i capi non prevedano l’uso di elementi dannosi per i più
piccoli.
I prodotti di Benetton Group sono stati ideati, realizzati e distribuiti, con un unico
obiettivo comune: offrire al consumatore finale un prodotto sicuro e di qualità, il quale è
stato sottoposto a severi controlli e accertamenti, per garantire la sicurezza di offrire
dei capi affidabili.
3.2.4 Impegno sociale
Fin dalle origini Benetton Group ha sempre dimostrato un alto interesse nei confronti
dei temi sociali. Celebri sono le campagne pubblicitarie degli anni Ottanta dell’ Art
Director Oliviero Toscani, raffiguranti modelli e modelle che rappresentavano
popolazioni differenti della terra, il cui significato tocca temi di carattere sociale e cerca
di catturare l’interesse e l’attenzione della gente sul tema dell’uguaglianza e della lotta
contro il razzismo. I temi sociali descritti da Benetton Group spaziano dalla lotta contro
il razzismo fino alla fame del mondo; nel 1996 il gruppo decide di cooperare con
l’associazione no-‐profit delle Nazioni Unite FAO (Food and Agricolture Organization),
per creare l’immagine ufficiale del vertice mondiale sull’alimentazione e allo stesso
tempo, dimostrare che era possibile fare una campagna pubblicitaria che sensibilizzasse
le persone sul tema dell’alimentazione e sulla scarsità del cibo.
94
Nel 1998 l’azienda italiana celebra con l’ ONU il cinquantesimo anniversario della
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e decide di presentare a Roma e
contemporaneamente a New York, la nuova campagna pubblicitaria internazionale.
Tale campagna di comunicazione globale, serviva per ricordare a tutte le Nazioni quali
fossero i diritti inalienabili dell’uomo, intesi sia come individuo sia come appartenente a
diversi gruppi etnici, sociali o religiosi. Tale campagna venne diffusa in molti paesi come
la Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Canada, Corea, Taiwan , Stati Uniti,
Portogallo etc. etc. L’invito riconosciuto dall’ONU a svolgere una campagna mondiale,
rappresenta un riconoscimento di grande valore e prestigio nei confronti dell’azienda
Benetton per la qualità dei programmi di comunicazione centrati sui temi sociali di
rilevanza mondiale.
Oltre alle campagne pubblicitarie di Benetton Group nate per smuovere le coscienze
delle persone, trattando temi sociali sensibili quali: il rispetto delle diversità e
l’importanza delle risorse alimentari, l’azienda negli anni ha collaborato con molteplici
enti internazionali. Nel 2001 ha collaborato con” United Nations Volunteers” creando il
progetto “Volunteers in Colors” in occasione dell’Anno internazionale del Volontariato,
un’altra collaborazione significativa è avvenuta nel 2003 insieme al “World Food
Programme” (WFP) per la creazione del programma “Food for Life”, con l’intento di
combattere la fame nel mondo. Durante tale campagna di sensibilizzazione, il Direttore
Esecutivo del WFP James T. Morris126 riferendosi alle persone che muoiono di fame agni
giorno, affermò che :
“…abbiamo bisogno di attirare l'attenzione in ogni modo possibile per evitare che questa
terribile tragedia continui. Ci auguriamo che questa iniziativa possa costituire la base di
una discussione pubblica di rilievo sulla fame nel mondo… ”.
L’impegno sociale di Benetton Group ha portato alla creazione della “Fondazione
UNHATE127”, che si propone di contribuire alla creazione di progetti, per creare una
nuova cultura contro l’odio che è alla base dei valori del Gruppo. Le campagne di
comunicazione UNHATE si propongono di offrire un messaggio forte e deciso a sostegno 126 James T. Morris, Food for Life, World Food Program Editorial, Global Hunger Benetton Group (2003), Available at http://www.benetton.com/food/press/pressinfo/index.html 127 UNHATE Foundation, Available at http://unhate.benetton.com.
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dei diritti umani, con la volontà di attirare l’attenzione per promuovere azioni positive al
fine di trasformare le persone da osservatori passivi a protagonisti nella lotta contro
l’odio. Una delle campagne promosse dalla Fondazione è stata “Unemployee of the
Year 128 ”, che trattava il tema della disoccupazione giovanile. Tale campagna
pubblicitaria denunciava il mito e il cliché che colpiscono i giovani non occupati,
ponendo l’attenzione sulla fiducia nella creatività che bisogna conferire ai giovani di
tutto il mondo.
Il progetto UNHATE Foundation ha portato nel Febbraio del 2014, alla creazione
dell’iniziativa “Unhate NEWS129”, una rivista online che mira a diventare un potente
stimolatore digitale con l’obiettivo di invitare le persone a creare notizie-‐storie, che
vorrebbero si avverassero, per portare alla luce diversi problemi sociali e raggiungere
un pubblico più ampio.
Nello stesso anno sono state lanciate due importanti iniziative di comunicazione in
partnership con le Nazioni Unite intitolate: “I Belong130” e “End Violence Against Women
Now!131”.
La campagna “I Belong” nasce in collaborazione con UNHCR (l’Alto Commissariato delle
Nazioni Unite per i rifugiati), ed è stata creata per porre fine alla condizione di apolide
entro il 2024 a dieci milioni di persone, dando una voce e un volto ai rifugiati di tutto il
mondo. Attraverso questa campagna si vuole ricordare che alle persone prive di
nazionalità, vengono negati molti diritti essenziali per l’uomo come l’istruzione,
l’assistenza sanitaria, l’impego e la libertà di movimento, costringendoli a vivere la loro
vita in maniera invisibile non essendo né ascoltati né rappresentati.
La seconda campagna promossa da Benetton “End Violence Against Women Now!” è
nata in occasione della Giornata internazionale dell’Onu per eliminare la violenza nei
confronti del genere femminile il 25 Novembre 2014. Creata in collaborazione con UN
Women (l’agenzia delle Nazioni Unite per promuovere l’uguaglianza tra i sessi e
l’emancipazione femminile), la campagna si occupa di sensibilizzare i cittadini del
mondo sulla necessità di interventi di sistema a sostegno delle donne e del bisogno di 128 Unemployee of the Year, Available at http://www.unhatenews.com/rules 129 UNHATE NEWS, the news you would like to see, Available at http://www.unhatenews.com/rules 130 I Belong, Fabrica, 4 Novembre 2014, Available at http://www.fabrica.it/projects/i-‐belong-‐2/ 131 End Violence Against Women Now!, Fabrica, 27 Novembre 2014, Available at http://blog.benetton.com/italy/2014/11/27/end-‐violence-‐against-‐women-‐now/
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creare programmi di prevenzione per realizzare una cultura fondata sul rispetto della
differenza tra uomo e donna e sull’importanza delle pari opportunità. L’immagine di
questa nuova campagna, è rappresentata da una donna lapidata con petali di fiori da un
gruppo di uomini, questa immagine simbolo rovescia il cliché che “neanche con un fiore
una donna va toccata” e Benetton insieme a UN Woman dicono basta ai soprusi e alle
discriminazioni nei confronti delle donne, che non devono più pagare il disagio e la
sofferenza nella loro vita.
Un’altra iniziativa che è stata proposta da Benetton, è avvenuta nel Giugno del 2012
quando, in occasione di Rio+20 la Conferenza Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile
avvenuta a Rio de Janeiro, ha realizzato “Turn Your World Around132”,un progetto
dedicato interamente al tema della sostenibilità.
Tale progetto faceva emergeva il concetto che il futuro della terra è nelle nostre mani:
sono le persone che, in base al loro modo di vivere e alle decisioni che prendono, hanno
la possibilità di decidere il futuro della terra risollevandola o distruggendola in maniera
irreversibile. Il progetto che è stato diffuso sui principali social network ed è stato
visibile per un anno sul sito delle Nazioni Unite, rientrava nell’ambito di “The Future We
Want133”, un’iniziativa lanciata dall’ONU che serviva per mobilitare su scala globale
energie e proposte per immaginare un futuro sostenibile.
Il valore della sostenibilità sociale insita in Benetton Group, la si evince anche dal forte
legame che ha con il territorio locale trevigiano, ne è testimone la creazione di Ponzano
Children, il centro per l’infanzia e asilo nido situato in provincia di Treviso, che offre
accoglienza ai bambini in età prescolare in una struttura all’avanguardia, sia per quanto
riguarda il progetto architettonico sia per il modello educativo.
Anche lo sport ricopre un forte legame tra la comunità locale e il tessuto sociale, in
particolare la sentita passione della famiglia Benetton per lo sport, ha permesso ai
ragazzi del trevigiano di avviarsi alla vita sportiva attraverso i settori giovanili del rugby,
o di usufruire dell’impianto polivalente Palaverde, dedicato agli avvenimenti sportivi o a
spettacoli culturali.
La volontà dimostrata da Benetton Group di impegnarsi e di porre la propria attenzione
nel sostenere cause sociali che, attraverso anche le campagne di comunicazione 132 Turn Your World Around, 26 Giugno 2012, Available at http://blog.benetton.com/italy/tag/turn-‐your-‐world-‐around/ 133 The Future We Want, Report of the United Nations Conference on Sustainable Development, Rio de Janeiro Brazil, 20-‐22 Giugno 2012
97
realizzate in collaborazione con organizzazioni no-‐profit, tra cui le Nazioni Unite,
Organizzazione Mondiale della Sanità, hanno permesso di conferire al marchio un senso
ed un valore, riconosciuto su scala globale.
3.3 Analisi delle azioni sostenibili intraprese dal competitor H&M
Dopo aver analizzato e descritto le azioni di sostenibilità che negli anni hanno
contraddistinto l’impegno di Benetton Group, per poter verificare i punti di forza e di
debolezza del Gruppo è necessario compiere un’analisi in parallelo, con uno dei
principali competitor. Attraverso il paragone delle iniziative di sostenibilità intraprese
tra Benetton e l’azienda competitor, sarà possibile verificare se sono state compiute
tutte le azioni necessarie in ambito di sostenibilità, oppure se esiste un margine di
miglioramento derivante da alcune mancanze da parte dell’azienda di moda trevigiana.
Tra i principali competitor di Benetton Group l’azienda che viene presa in esame è il
gruppo H&M; la scelta è ricaduta sul colosso svedese poiché, come nel caso di Benetton,
in ambedue le aziende sono presenti molteplici caratteristiche che le accomunano, tutte
e due le aziende si affacciano allo stesso segmento di mercato, anche il gruppo H&M
infatti ha la particolarità di offrire un capo d’abbigliamento di moda ad un prezzo
medio-‐basso rispetto al mercato, inoltre nelle aziende prese in esame sono presenti le
medesime linee di abbigliamento: uomo; donna; pre-‐maman; la linea bambino 0-‐12 ;
linea intimo.
Lo studio che verrà fatto consentirà di analizzare le azioni di sostenibilità e i progetti
realizzati da H&M e, attraverso una comparazione con l’azienda italiana, si
individueranno i punti di forza e i punti di debolezza delle iniziative di sostenibilità
intraprese da Benetton.
L’azienda svedese nel 1947 apre il primo negozio a Västerås in Svezia e dopo l’ingresso
alla Borsa di Stoccolma nel 1974, inizia ad ampliare sempre di più i suoi negozi fino ad
arrivare ad oggi con più 3600 punti vendita in oltre 60 mercati.
H&M crede molto nel valore della sostenibilità e in un futuro migliore per la moda, un
futuro nel quale non si debba scegliere tra capi sostenibili o capi alla moda e, grazie a
98
questi presupposti, l’azienda si impegna a creare una moda che non scende a
compromessi sul design, sulla qualità, sul prezzo o sulla sostenibilità.
Attraverso la creazione di un progetto chiamato “Conscious”, H&M si pone l’obiettivo di
rendere sostenibile la moda e rendere alla moda la sostenibilità. Per realizzare tale progetto l'azienda si è posta sette impegni principali e ad ognuno di
essi comprende centinaia di azioni, cosiddette Conscious Actions134, che le consentono
di creare un futuro migliore per la moda. Gli impregni135 dell’azienda sono:
1. Offrire moda ai clienti consapevoli, significa proporre capi di abbigliamento di
qualità a prezzi economici e con un impatto ridotto sul pianeta.
2. Selezionare e premiare partner responsabili, ovvero controllare i fornitori e
verificare il rispetto degli standard prefissati da H&M.
3. Comportamento etico, proteggere i diritti dei lavoratori e combattere contro la
corruzione.
4. Azioni consapevoli nei confronti dei cambiamenti, ovvero compiere scelte che
tutelino il rispetto dell’ambiente, come l’utilizzo di lampade a basso consumo
per il risparmio energetico.
5. Ridurre riutilizzare riciclare, H&M si fa promotrice di azioni per aumentare il
riciclaggio dei materiali come le shopper o le grucce.
6. Utilizzo responsabile delle risorse naturali, attraverso le collaborazioni con
alcune associazioni per utilizzare cotone biologico e per ridurre l’utilizzo di
acqua.
7. Rafforzamento della comunità, attraverso la creazione di posti di lavoro, 16000
nuovi posti di lavoro nel 2014, e collaborazioni con partner locali per
migliorare le condizioni di vita delle persone nei paesi in cui l’impresa opera.
134 Conscius Actions, azioni intraprese dal gruppo H&M per poter realizzare gli obiettivi di sostenibilità 135 I setti impegni di H&M, Available at http://about.hm.com/it/About/sustainability/commitments/our-‐seven-‐commitments.html
99
I sette punti sopra elencati dimostrano come anche l’azienda di moda H&M, sia
impegnata attivamente nella tutela dei propri stakeholder e disposta ad investire risorse
in progetti e studi, per offrire prodotti di qualità e a basso impatto ambientale.
A mio avviso però affermare che l’azienda voglia offrire capi d’abbigliamento prodotti
attraverso procedimenti attenti e sostenibili, tutelando i diritti dei lavoratori e attuando
processi che rispettino le risorse naturali per salvaguardare il pianeta, è riduttivo, H&M
vuole far sentire il consumatore parte attiva del processo di sostenibilità.
Per l’azienda è di fondamentale importanza che anche il consumatore sia parte attiva nel
progetto Consious Action, poiché attraverso un impegno collettivo tra azienda e
consumatore, i risultati che si possono ottenere sono maggiori e si raggiungono in minor
tempo. Come afferma Karl-‐Johan Persson ,CEO di H&M:
“H&M offre moda e qualità al miglior prezzo, ma non a qualsiasi prezzo. Vogliamo che per
tutti sia facile fare scelte consapevoli in fatto di moda. Per questo continuiamo a lavorare
duramente ogni giorno per rendere più sostenibili i nostri prodotti e l’intero settore della
moda, dalla coltivazione del cotone fino alla raccolta dei vostri abiti smessi per dar loro
una nuova vita.”136 (Karl-‐Johan Persson ,Stoccolma 2015)
Ogni anno migliaia di tonnellate di tessuti vengono buttati, ciò causa un aumento dei
materiali nelle discariche, provoca l’ eliminazione di materie prime che potrebbero
essere riutilizzate, infatti il 95% del materiale scartato potrebbe essere riciclato.
E’ da questo punto che parte il progetto Garment137, riutilizzare i capi di abbigliamento
per generare nuovi tessuti in modo che “la moda non finisca in discarica”138.
L’azienda di moda è stata la prima a lanciare l’iniziativa di raccolta globale di capi smessi
dei consumatori, ancora oggi chiunque ha la possibilità di consegnare nei 3600 punti
vendita H&M i propri capi usati, può dare il proprio contributo al progetto Garment
Collecting, e dare nuova vita ai capi e ridurre così la quantità di rifiuti. L’obiettivo di
H&M consiste nel ridurre l’impatto ambientale dell’industria della moda limitando la
136 Karl-‐Johan Persson, CEO H&M, Consious Actions, 2014 137 GARMENT, progetto di sostenibilità di H&M che tramite il riciclo dei capi di abbigliamento crea nuove fibre da utilizzare in nuove collezioni. 138 Garment Collecting Project
100
quantità di rifiuti, il cliente oltre a poter consegnare qualsiasi tipo di capo e di qualsiasi
marca, riceverà in cambio uno sconto di 5E da poter riutilizzare all’interno del negozio.
I capi smessi potranno essere utilizzati in molteplici modi: potranno essere riciclati
trasformando i capi di abbigliamento in fibre tessili da utilizzare in nuove collezioni di
moda o da impiegare nella manifattura di altri prodotti come ad esempio materiali
assorbenti o isolanti per l’industria automobilistica; i materiali che non potranno essere
riciclati perché troppo vecchi verranno riutilizzati trasformandoli in altri prodotti, ad
esempio come panni per le pulizie; infine potranno essere reindossati capi ancora
utilizzabili e verranno riproposti sul mercato mondiale come abiti di seconda mano.
Grazie all’iniziativa Garment Collecting, l’azienda è in grado di prendere i tessuti usati,
trasformarli in nuovi filati e utilizzare il materiale ricavato per generare nuovi prodotti,
al momento la percentuale dei tessuti riciclati utilizzata per creare il materiale misto
composto da materiale riciclato e nuovo, è pari a circa il 20% della fibra totale, ma
l’azienda sta lavorando affinché la percentuale riutilizzabile arrivi fino al 100%.
Il materiale misto che viene creato oltre a non compromettere la durabilità del prodotto
e oltre ad essere di elevata qualità, permette all’azienda di ridurre drasticamente le
risorse utilizzate e incrementa la tutela dell’ambiente.
L’idea dell’azienda svedese seppur
semplice è molto efficace, una volta che il
capo è stato progettato, prodotto,
trasportato nei negozi, acquistato ed infine
utilizzato dal consumatore, invece che
eliminarlo gettandolo nella discarica, lo si
può riciclare e trasformare in qualcosa di
nuovo, in questo modo si evita: lo spreco
di materie prime quali il cotone, attraverso
il riutilizzo delle fibre; e si ha la possibilità
di ridurre l’inquinamento, eliminando la
fase dello smaltimento dei rifiuti.
101
L’iniziativa Garment Collecting permette di allungare il ciclo di vita del prodotto (Life
Cycle Asessment, LCA)139 consentendo all’azienda H&M di trasformare il processo
tradizionale di produzione “From Cradle to Grave”140 (dalla culla alla tomba) ovvero
partendo dalla processo di estrazione delle materie prime necessarie al processo
produttivo (dalla culla), fino allo smaltimento del prodotto a fine vita (alla tomba), in un
nuova tipologia di analisi LCA dove la dismissione di un prodotto a fine vita, coincide con
un processo di riciclaggio. Secondo questa filosofia che viene chiamata “From Cradle to
Cradle”141 vi è un continuo ciclo di utilizzo e riutilizzo di materiali senza produzione di
rifiuti. Attraverso questo progetto l’azienda riesce a chiudere il cerchio della vita del
prodotto eliminando la fase dello smaltimento del capo.
Fig. numero 8: “il cliente nel ciclo di vita del prodotto”
A mio avviso il punto di forza di questo progetto consiste nel fatto che l’azienda fa
sentire anche il consumatore parte attiva della campagna Garment Collecting,
consentendogli di generare effetti positivi e ridurre gli impatti negativi lungo la catena
del valore.
139 Life Cycle Assessment, Metodo oggettivo di valutazione e quantificazione dei carichi energetici ed ambientali e degli impatti potenziali associati ad un prodotto/processo/attività lungo l’intero ciclo di vita, dall’acquisizione delle materie prime al fine vita. 140 From Cradle to Grave, processo tradizionale del prodotto che, una volta che è stato prodotto ed utilizzato, viene dismesso facendo cessare il suo utilizzo. 141 From Cradle to Cradle, novo processo di produzione dove la fine della vita di un prodotto coincide con il riciclaggio e il riutilizzo dei materiali.
102
Poiché l’impatto ambientale causato nella fase di utilizzo dei prodotti è pari al 36%,
attraverso il progetto Garment di H&M, si sensibilizza sia il cliente sull’importanza della
tutela dell’ambiente e della salvaguardia delle risorse naturali, ed inoltre si offrono
soluzioni efficaci per migliorare il pianeta.
Attraverso Garment Collecting H&M ottiene un triplice guadagno:
• Il consumatore attraverso questa iniziativa si sente attivamente coinvolto e si
rende partecipe al progetto e, grazie alle scontistiche che riceve, è invogliato a
partecipare e a consumare all’interno del negozio.
• L’azienda fa pubblicità intelligente, dimostra di essere sostenibile e coinvolta
nelle azioni a tutela dell’ambiente. In questo modo inoltre l’azienda attira un
maggior numero di clienti aumentando così la sua quota di mercato
• Oltre a sensibilizzare il consumatore attraverso un progetto che lo rende
attivamente coinvolto, riesce a ridurre i rifiuti e chiudere il cerchio delle fibre
tessili. “We want to reduce the environmental impact of the fashion industry by
limiting the amount of waste ending up in landfills…. The H&M garment collecting
initiative was created to decrease the waste and close the fashion loop.”142 (H&M;
2015)
Grazie al progetto Garment Collecting iniziato nella primavera del 2013 in tutti i negozi
in ogni paese del mondo, per ogni chilogrammo di materiale tessile raccolto, sono stati
donati 0,02E ad una organizzazione benefica locale. In Italia la ONG scelta è stata Save
the Children e nel mondo, grazie al recupero di ben 19.859.725KG143 di materiale, sono
stati raccolti ben 397.195EUR144 da donare a molteplici organizzazioni di beneficenza
locali.
142 H&M, web site, 2015 Available at http://about.hm.com/en/About/sustainability/commitments/reduce-‐waste/garment-‐collecting.html 143 Charitystar, Available at http://www.hm.charitystar.com/en/home/ 144 Ibidem
103
3.3.1 I punti di debolezza e di forza di Benetton in relazione al competitor
Attraverso la comparazione delle aziende H&M e Benetton Group, è stato possibile
individuare le azioni sostenibili che accomunano le due imprese di moda, ma anche una
mancanza principale che ha creato un gap tra le due. Attraverso il grafico sotto riportato
sarà possibile individuare qual è il punto di forza che contraddistingue Benetton rispetto
alla competitor analizzata precedentemente e sarà anche possibile trovare il punto
debole dell’azienda di Treviso.
Fig. numero 9: “ Relazione di sostenibilità tra Benetton e H&M ”145
Una delle principali differenze tra le azioni di sostenibilità intraprese dell’azienda H&M
con Benetton, consiste nel fatto che l’azienda svedese è riuscita in un’ occasione a
rendere partecipe il consumatore in una sua iniziativa di sostenibilità, in particolare
modo grazie alla campagna Garment. Tale progetto promosso dall’azienda svedese,
consiste nel riciclare gli abiti usati del consumatore, al fine di riutilizzarli per riprodurre
capi con il 20% di materiale riciclato, oppure per utilizzarli come materiale isolante con
l’obiettivo ultimo di ridare vita a capi smessi riducendo allo stesso modo il materiale
nelle discariche.
A mio avviso tale progetto è innovativo poiché, consente sia all’impresa di raggiungere il
suo fine primario, ovvero tutelare l’ambiente preservando le materie prime come il 145 Andrea La Camera, Relazione di sostenibilità tra Benetton e H&M, 2015
CONSUMATORI
AMBIENTE
SOCIALE
CATENE DI FORNITURA
BENETTON GROUP
H&M
104
cotone e riduce l’inquinamento diminuendo la quantità di materiale che altrimenti
verrebbe gettato nelle discariche; ma grazie a tale iniziativa il consumatore è parte
attiva nel processo di sostenibilità aziendale, e permette così all’azienda di far conoscere
il proprio lato sostenibile migliorano in modo crescente l’immagine dell’azienda.
Come dimostrato da una ricerca condotta da Nielsen146, società che studia le abitudini
dei consumatori, in Italia i consumatori “socialmente consapevoli” che sono disposti a
pagare di più per i servizi e prodotti offerti da imprese che hanno implementato i
programmi di responsabilità sociale, sono il 44% mentre nel resto d’Europa la media è
del 36% (dato ricavato da un campione di 29000 intervistati). La campagna Garment è
innovativa perché permette al consumatore di venire a conoscenza dell’attenzione
dell’azienda a tematiche socialmente importanti come la tutela dell’ambiente e, poiché il
dato fornito da Nielsen è in continua crescita (38% 2011 e 44% 2013)147, l’azienda H&M
ha la possibilità grazie a tale servizio, di ampliare il target di consumatori raggiungendo
una quota maggiore di mercato. Le azioni di sostenibilità intraprese da Benetton invece
sono “passive”, il consumatore medio, a meno che non si informi di sua iniziativa sul web
site dell’azienda, difficilmente viene a conoscenza dell’enorme interesse che
contraddistingue la politica aziendale. Indubbiamente le azioni del Gruppo sono
molteplici e hanno da sempre contraddistinto la storia dell’azienda, ma a causa della
loro staticità hanno reso il consumatore parte passiva del processo di sostenibilità,
limitando indubbiamente la possibilità da parte dell’azienda di ampliare il proprio
bacino di clienti, limitandone di conseguenza il profitto.
In tutte e due le aziende prese in esame, è presente un forte interesse nei confronti della
sostenibilità ambientale, grazie alle continue cooperazioni e ai rapporti di lungo periodo
instaurati organizzazioni non governative. Benetton per esempio collabora con
Greenpeace al progetto Detox148, al fine di eliminare completamente le sostanze
chimiche utilizzate nel settore tessile, e nel 2015 Benetton è stata premiata come
azienda leader nell’impegno alla campagna Detox. L’azienda svedese vanta una
collaborazione di undici anni con l’organizzazione WWF per promuovere la
conservazione degli ecosistemi acquatici e migliorare l'accesso all'acqua potabile e alle 146 Samanta Rovatti, Crescono in Italia i consumatori socialmente responsabili, Nielsen, 16 Ottobre 2013 147 Ibidem 148 Greenpace, Detox, Campagna contro l’inquinamento.
105
strutture igieniche. Oltre a partnership con organizzazioni non governative, le due
aziende hanno adottato politiche interne all’azienda per salvaguardare l’ambiente, come
l’utilizzo delle energie rinnovabili, le shopper eco-‐friendly o le grucce in legno liquido
100% biodegradabili e riciclabili.
Dal punto di vista sociale invece è innegabile l’impegno che negli anni ha contraddistinto
Benetton Group, portando tale interesse come principale punto di forza dell’azienda.
Fin dalle sue origini l’azienda si è sempre dimostrata attiva nelle campagne pubblicitarie
che, oltre a caratterizzare tutti i colori dell’azienda (United Colors of Benetton),
promuovevano alcuni dei diritti fondamentali dell’uomo promossa dalle Nazioni Unite
nel 1948, come la garanzia dei diritti ad ogni persona senza alcuna distinzione di: razza,
colore, sesso o religione. L’attenzione ai temi sociali come la parità di genere tra uomo e
donna, la lotta contro il razzismo o la fame nel mondo, dimostrano l’impegno che da
sempre contraddistingue il Gruppo, rafforzato poi dagli innumerevoli progetti con
organizzazioni come la FAO (Food Agricolture Organization) delle Nazioni Unite per
sensibilizzare le persone sul tema dell’alimentazione e della scarsità di cibo, e sempre
con l’ONU ha partecipato ad una campagna internazionale per sensibilizzare tutte le
Nazioni sui diritti inalienabili dell’uomo.
L’impegno nelle cause sociali è riscontrabile anche nell’interesse che l’azienda trevigiana
ha dimostrato nei confronti dei superstiti e delle famiglie delle vittime del crollo
dell’edificio Rana Plaza in Bangladesh, dove all’interno erano presenti aziende tessili
locali che producevano materiali per diverse aziende straniere. Nonostante Benetton
non avesse più rapporti commerciali con le fabbriche, ha deciso di donare 500.000
dollari ai superstiti per garantire loro cure mediche, terapie riabilitative e arti artificiali
e alle famiglie delle vittime attraverso dei micro crediti e corsi di formazione per l’avvio
di attività. Successivamente decise di donare al Rana Plaza Trust Found, fondo per la
raccolta di donazioni, il doppio della cifra che era stata raccomandata alle aziende,
raggiungendo la somma di 1.1 milioni di dollari.
Tutte queste attività insieme alla creazione di fondazioni come UNHATE per
promuovere la cultura contro l’odio o UNEPLOYEE OF THE YEAR, che trattava della
disoccupazione giovanile, hanno permesso di riconoscere nel marchio Benetton Group il
valore della sostenibilità sociale. Anche se non paragonabile con lo storico interesse di
Benetton Group, anche l’azienda H&M dimostra un forte interesse sociale, attraverso
106
collaborazioni con H&M Conscious Foundation149 , fondazione no-‐profit indipendente,
che si occupa di trovare delle soluzioni in alcuni temi promossi anche dalle Nazioni
Unite negli Obiettivi di Sviluppo del Millennio che sono: istruzione; accesso all’acqua
potabile; emancipazione femminile promuovendo e investendo nell’emancipazione
economica delle donne.
L’attenzione che le due imprese hanno nei confronti della sostenibilità ambientale,
sociale ed economica si estende lungo tutta la catena di fornitura, in particolare:
Benetton Group nell’assicurarsi che i lavoratori dei paesi nei quali opera abbiano la
tutela dei diritti umani e dell’ambiente, obbliga i suoi fornitori e subfornitori ad
accettare tramite consenso scritto, il Codice di condotta dell’impresa al fine di migliorare
le pratiche di correttezza, equità e reciprocità lungo tutta la catena di fornitura. Inoltre i
collaboratori dell’azienda devono accettare controlli ed ispezioni da parte di enti terzi, al
fine di garantire la conformità delle attività svolte in relazione al Codice di Condotta.
Lo stesso controllo dei fornitori viene fatto da H&M il quale oltre ad impegnarsi a
garantire un salario minimo equo ai lavoratori, collabora con gli stabilimenti per
garantire loro i diritti sanciti dalle Nazioni Unite come la libertà di associazione e la
contrattazione collettiva. L’azienda svedese ha inoltre sancito un accordo quadro con
l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), per poter attuare azioni congiunte150
volte a sostenere trattative eque e il miglioramento delle condizioni di lavoro
nell’industria dell’abbigliamento a livello globale. Tutte e due le aziende al fine di
rendere trasparenti agli occhi dei consumatori i rapporti che intraprendono con le
aziende lungo tutta la catena di fornitura, hanno pubblicato le liste dei fornitori con i
quali collaborano e Benetton in particolare, ha reso pubblico anche gli esiti dei dati
chimico-‐ambientali relativi ai propri fornitori.
149 H&M Conscious Foundation, fondazione che si occupa di risolvere temi quali l’istruzione, l’acqua potabile e l’emancipazione femminile. 150 H&M, Conscious Actions, 2014
107
3.4 Comitato della Sostenibilità di Benetton Group
L’azienda Benetton Group nel corso degli anni ha sempre trattato temi sociali delicati,
promuovendo campagne sull’integrazione razziale, l’aids o le discriminazioni religiose.
In seguito alla donazione di 1.6 milioni di dollari nei confronti del Rana Plaza Trust
Fund, per le vittime del crollo del Rana Plaza, oggi Benetton si avvale di un Comitato di
Sostenibilità151 che ha il compito di definire e presiedere l’attuazione della strategia di
sostenibilità dell’azienda, presieduto dalla docente di economia all’università di Ca’
Foscari e dal 2015 Presidente dell’ESF Reporting Task Force a Bruxelles, Dott.ssa Chiara
Mio.
Tra gli obiettivi del Comitato il primo compito sarà quello di produrre un "bilancio
integrato", caratterizzato dal fatto che oltre a trattare aspetti finanziari, verranno posti
in rilievo i capitali umani, naturali, relazionali e reputazionali dell'azienda. Il compito di
tale bilancio sarà quello di comunicare all'esterno le componenti di sostenibilità
introdotte da Benetton, non solo nella filiera produttiva, nell'ambiente e nei prodotti, ma
di porre particolare attenzione nell’impegno che il Gruppo mette nel cercare di ridurre
le emissioni di anidride carbonica e dell'impiego di acqua e alla promozione di adeguate
retribuzioni e condizioni di vita per i lavoratori delle sedi produttive di ciascun paese in
cui vi sia un indotto industriale riferibile al gruppo.
Il Comitato di Sostenibilità, oltre a definire e presiedere la strategia di sostenibilità
dell’azienda, si occupa di essere un punto di riferimento per tutti i portatori di interesse
sia quelli interni che gli stakeholder esterni. Attraverso la creazione di tale Comitato, si
denota l’impegno massimo di Benetton Group nel cercare di contribuire attivamente al
cambiamento sociale attraverso delle iniziative di sostenibilità intraprese di propria
iniziativa. Gli obiettivi di tale comitato comprendono molti aspetti, tra i più importanti si
evince la promozione di un’integrazione efficiente e continua tra le iniziative per la
sostenibilità nelle attività dell’azienda, e il supporto al CSR Manager nelle proprie
mansioni. Con il fine di evitare possibili rischi reputazionali, verranno effettuate analisi e
revisioni periodiche degli strumenti di implementazione della sostenibilità , partendo
dal Codice di Condotta e dalle sue procedure di attuazione, inoltre verranno presiedute
151 Benetton Group, Comitato di Sostenibilità, Available at http://static.benettongroup.com/wp-‐content/uploads/2015/04/Benetton-‐Group-‐Comitato-‐Sostenibilità.pdf
108
le attività in relazione alla comunicazione integrata dei KPI e dei dati rilevanti in merito
alle problematiche sociali ed ambientali, e verrà fornita una comunicazione costante di
informazioni e indicazioni riguardanti l’applicazione della strategia di sostenibilità e dei
relativi strumenti da fornire al Consiglio di Amministrazione di Benetton Group.
La volontà del Gruppo di creare un Comitato di Sostenibilità, è la conferma che l’azienda
è da sempre caratterizzata da azioni che ha intrapreso con obiettivi socialmente
responsabili per diventare attivatori di processi di cambiamento e, come ha dichiarato
l’ Amministratore Delegato e Direttore Generale del Gruppo Marco Airoldi riferendosi al
nuovo Comitato afferma: “Non si tratta di un'operazione di marketing e nemmeno un
sistema per lavarsi la coscienza. Benetton da sempre è percepita come un'azienda
socialmente responsabile152.”
La creazione del nuovo Comitato di Sostenibilità, oltre ad introdurre il bilancio integrato
due anni prima della direttiva comunitaria che lo impone per le aziende con più di 500
dipendenti, dimostra il più alto livello di impegno da parte di Benetton nell’estendere le
attività relative alla sostenibilità in tutte le direzioni aziendali.
152 Marco Airoldi, Bilancio integrato Benetto scommette sulla sostenibilità, La tribuna di Treviso, 21 Aprile 2015
109
CONCLUSIONI
La sostenibilità è una leva strategica per generare valore oppure no?
Il tema della sostenibilità, come si è dimostrato nel capitolo uno, ha origini lontane e,
nonostante la sua evoluzione negli anni, ad oggi non è ancora possibile stabilire con
certezza se un’azienda che ha attenzioni e atteggiamenti sostenibili ha la possibilità di
creare maggior valore rispetto ai propri competitors e soprattutto quali potrebbero
essere le motivazioni che fanno propendere ad un’azienda a diventare socialmente
sostenibile.
Alcune delle motivazioni che potrebbero spingere un’azienda ad avere comportamenti
sostenibili sono: pressioni dei consumatori; reputazione del brand.
Nel corso degli anni è aumentata in maniera sempre più crescente la pressione dei
consumatori, essi hanno dimostrano un interesse nei confronti delle aziende che hanno
adottato, all’interno dei loro processi, aspetti sociali-‐ambientali per la produzione dei
prodotti. Per un’azienda quindi, abbracciare e divulgare strategie della “green economy”
è molto importante poiché, mostrando maggior considerazione per la qualità della vita e
del lavoro dei propri dipendenti, effettuando strategie a tutela dell’ambiente quali
limitare le emissioni di sostanze inquinanti, serve per poter creare a mantenere alta la
reputazione del marchio. I consumatori, grazie a Internet, social media e alle
associazioni a tutela dei consumatori sono meglio informati sui prodotti che acquistano,
soprattutto sul rispetto degli standard ambientali-‐sociali e sulle modalità di reperibilità
delle materie prime lungo tutta la catena di fornitura. Le pubblicità negative che
possono colpire un’azienda come la contaminazione del fiume locale derivante dalle
fabbriche tessili o del cuoio, o dalle cattive condizioni di lavoro nelle fabbriche dei
fornitori, può danneggiare l’immagine dell’azienda. Pratiche commerciali responsabili e
l’integrazione della sostenibilità nel sistema di qualità di gestione nelle filiere, non solo
consentono alle aziende di evitare i rischi di reputazione, ma creano delle opportunità
attraverso la creazione dell’azienda con una “marca responsabile".
I fattori che caratterizzano la reputazione di un brand e che ne influenzano l’evoluzione
sono: credibilità; affidabilità; fiducia e responsabilità. Nel caso in cui uno di questi fattori
subisse un’influenza negativa, a causa di uno scandalo mediatico per esempio, ciò
110
potrebbe compromettere la reputazione e l’immagine del brand agli occhi dei
consumatori, causando all’azienda ingenti perdite di guadagno.
Uno studio condotto dalla società Nielsen153, azienda che si occupa di studiare le
abitudini dei consumatori e che basa le proprie ricerche sullo studio di 47 mercati
europei e in oltre 100 Paesi di tutto il mondo, ha dimostrato che il 55%154 dei
consumatori in oltre 60 Paesi, dichiara di essere disposto a pagare di più per i prodotti e
servizi offerti da aziende impegnate per il sociale e per l’ambiente, e il 52%155 dei
partecipanti all’indagine globale Nielsen afferma che prima di acquistare un prodotto
controllano l’etichetta per verificare se l’azienda ha una relazione con le tematiche
socio-‐ambientali.
Un’azienda che dimostra di essere socialmente responsabile ha la possibilità di
conquistare un maggior numero di consumatori, poiché oggi si dimostrano sempre più
sensibili alle tematiche di sostenibilità al momento dell’acquisto di un prodotto. Per
quanto riguarda la tutela de Diritti Umani, il 62%156 degli intervistati italiani di Nielsen,
dichiara di essere sensibile al tema della mortalità infantile, giudicando positivamente le
aziende che sviluppano programmi appositi, per cercare di sopperire al problema,
mentre per il tema della salvaguardia dell’ambiente il 58%157 degli intervistati afferma
di vedere di buon occhio l’azienda che si impegna a rendere maggiore la disponibilità di
acqua potabile e il 56%158 degli italiani afferma di apprezzare maggiormente le aziende
che si muovono attivamente per eliminare la povertà estrema o la fame nel mondo.
In Italia il consumatore non si limita più alla considerazione del rapporto qualità prezzo,
ma è interessato nel sapere quali sono stati i processi produttivi industriali che hanno
portato alla realizzazione del prodotto e se gli stessi sono stati effettuati in maniera
responsabile. Dal 2012 a metà del 2014 infatti, la percentuale degli italiani che ha
acquistato prodotti provenienti da aziende socialmente responsabili è cresciuto del
153 Nielsen, Alice Bolognani, Italiani sempre più socialmente responsabili, 30Lugio 2014, Availabe at http://www.nielsen.com/it/it/search.html?q=Doing+Well+by+Doing+Good&sp_cs=UTF -‐8 154 Ibidem 155 Ibidem 156 Ibidem 157 Ibidem 158 Ibidem
111
12%159, oggi rispetto al passato sta avvenendo una inversione di marcia, ciò che una
volta era considerato una “buona intenzione”, si sta trasformando in acquisti
consapevoli e l’Italia rispetto agli altri Paesi europei è tra le più alte posizioni di cittadini
che acquistano in maniera consapevole.
Avere un’azienda sostenibile quindi, oltre ad evitare scandali giornalistici e gogne
mediatiche, che rovinano l’immagine e la reputazione del Brand e provocano ingenti
perdite di guadagno, permette all’azienda di aumentare il bacino dei clienti,
trasformando i clienti potenziali in clienti effettivi e serve inoltre a consolidare il
rapporto di fidelizzazione con i consumatori.
Sono molteplici le aziende che, a causa di una cattiva o addirittura inesistente politica di
sostenibilità, hanno subito un danno alla reputazione, i casi più noti sono: Moncler e
Nike.
Recentemente lo scandalo dell’azienda Moncler, nato dal servizio della trasmissione
televisiva Report, ha indignato moltissime persone e ha causato polemiche su tutti i più
famosi social media. Il servizio-‐denuncia mostrava il metodo barbaro che gli allevatori
ungheresi utilizzavano per ricavare la piuma d’oca, che serviva all’azienda italiana di alta
moda per confezionare i capi di abbigliamento, nonostante i regolamenti della comunità
Europea imponessero agli allevatori di oche di ricavare la piuma attraverso la tecnica
della “pettinatura”, mentre nel servizio mandato in onda si mostrava che la materia
prima veniva ricavata strappandola dal collo e dal petto delle oche, questo metodo
causava gravi lesioni agli animali e vìola i regolamenti vigenti.
Dopo la messa in onda del servizio il crollo in borsa del titolo Moncler è stato immediato,
il giorno seguente infatti, alla chiusura di piazza Affari , il titolo aveva subito una
flessione del 4,88%160. Se Moncler avesse dimostrato maggiore attenzione lungo tutta la
“supply chain” (catena di fornitura), muovendosi attivamente con strategie di
sostenibilità ambientale e sociale e attraverso controlli periodici negli allevamenti, non
avrebbe subito un danno economico e reputazionale così ingente.
Una delle aziende che negli anni è stata spesso colpita da scandali, relativi a violazioni
dei diritti umani o a causa della mancata tutela dell’ambiente è stata Nike.
159 Nielsen, Alice Bolognani, Italiani sempre più socialmente responsabili, Available at http://www.nielsen.com/it/it/insights/news/2014/italiani-sempre-piu-socialmente-responsabili.html 160 Libero Quotidiano, Report Affonda Moncler: il titolo crolla in Borsa e sul web infuria la polemica, 3 Novembre 2014
112
Il primo scandalo è avvenuto nel 1996, quando la rivista Life161 ha pubblicato la foto
che immortalava un bambino dodicenne pakistano, che cuciva un pallone da calcio Nike
con il marchio FIFA. Tale immagine fece il giro del mondo provocando sdegno e
scalpore, nello scatto si dimostrava il lato insensibile della multinazionale che, al fine di
guardare esclusivamente ai suoi interessi, calpestava i Diritti Umani delle persone
soprattutto rovinando l’infanzia dei bambini. L’anno successivo arrivarono le prime
denunce a causa del maltrattamento che dovevano subire i lavoratori del Vietnam,
pagati con salari talmente bassi da non riuscire a coprire il costo di tre pasti al giorno, e
col divieto di andare in bagno, per più di una volta per turno.
A seguito di queste denunce e scandali mediatici, il ’97 diventò per Nike l’anno con la
diminuzione più consistente di profitti.
Un’altra motivazione che potrebbe far propendere un’azienda ad avere un’alta cultura
sostenibile è data dalla nascita di legislazioni più restrittive in materia di sostenibilità.
In Italia ne è un esempio il D.Lgs. 231/2001162, norma che tratta di salute e sicurezza sul
lavoro: in particolare tutela il lavoratore sugli infortuni e malattie professionali anche di
contenuta gravità, che servono a tutelare il lavoratore in ambito di sicurezza sul lavoro.
In caso di mancato rispetto di tale decreto sono previste sanzioni che vanno 200.000 a
1.500.000 euro, ma anche sanzioni di carattere interdittivo, come il divieto di contrarre
con la pubblica amministrazione fino al commissariamento della società.
Il 12 Giugno 2015 viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 134, il decreto del 24
Aprile 2015163 che mette a disposizione 120 milioni di euro alle imprese, localizzate nei
territori di Puglia, Sicilia, Calabria e Campania, che vogliono investire sull’efficienza
energetica e nelle energie rinnovabili. Tale bando, sostenendo la crescita delle imprese
del mezzogiorno, vuol far sì che ci sia un uso più razionale e sostenibile dell’energia
utilizzata all’interno dei processi produttivi.
Oltre alle regolamentazioni nazionali, anche la Comunità Europea sta introducendo
nuove direttive in ambito di sostenibilità, obbligatorie per le imprese. Il 29 Settembre
2014 è stata adottata dal Consiglio d’Europa la Direttiva Europea che prevede l’obbligo
161 Life, 1996 162 Modelli organizzativi, ex D.Lgs. 231/2001 sicurezza sul lavoro, Available at http://www.bollettinoadapt.it/old/files/document/14779Unione_Ind_Porde.pdf 163 Nuovo bando efficienza energetica, Decreto 24 Aprile 2015, Available at http://www.sviluppoeconomico.gov.it/bando-‐efficienza-‐energetica
113
per gli enti di interesse pubblico con più di 500 dipendenti, di integrare nel report
annuale (annual report), anche le informazioni non finanziare(financial information),
ovvero un informativa sulle politiche e sui rischi e sui risultanti riguardanti le questioni
ambientali e sociali, legate al lavoro e al rispetto dei diritti umani, alla lotta contro la
corruzione e alla diversità dei consigli di amministrazione. Attraverso la
rendicontazione delle informazioni non finanziarie, le imprese avranno la possibilità di
dimostrare le loro capacità di generare valore sostenibile nel medio-‐lungo periodo agli
stakeholders come i clienti, e investitori, rendendo così l’impresa più attrattiva e
aprendo nuove possibilità di sviluppo.
Alla luce di quanto sopra esposto, con l’aumento delle regolamentazioni nazionali ed
internazionali in ambito di sostenibilità , un’azienda può avere due tipi di approccio
nell’ottica di sostenibilità.
Se l’azienda si pone nella prospettiva di sviluppo della sostenibilità, allora orienterà i
propri processi decisionali in una prospettiva di prevenzione, tale approccio viene
definito “from cradle to grave ”, ovvero le misurazioni dell’impatto ambientale
avvengono durante tutte le fasi di vita del ciclo del prodotto, con l’obiettivo di
individuare opportunità di miglioramento dell’impatto ambientale, oppure un’azienda
può limitarsi ad osservare le norme vigenti in ambito di sostenibilità ed orientare i
propri processi decisionali solo nel rispetto delle regolamentazioni già esistenti.
Le possibili strategie164 ambientali messe in atto dall’azienda a fronte delle prescrizioni
vigenti, possono essere di quattro tipologie:
1. Strategia Passiva, il rispetto della dimensione ambientale e sociale è
esclusivamente derivante dal rispetto della legge, ottica di intervento “End of
pipe” ovvero non si introducono modifiche nel processi di produzione ma la
regolarizzazione della posizione dell’impresa nei confronti della sostenibilità
viene fatta alla fine del processo produttivo.
2. Strategia Adattiva, l’azienda acquisisce la consapevolezza che le azioni che
compie hanno un impatto sul mondo esterno, i suoi interventi in ambito di
sostenibilità sono all’interno dell’area produttiva, tali modifiche non sono mosse
164 Chiara Mio, Il budget ambientale, Programmazione e controllo della variabile ambientale, Egea, 2002, Cap 1 pp 27
114
da uno spirito di intraprendenza ma derivano dalla pressione pubblica e dagli
obblighi legislativi.
3. Strategia Reattiva, l’azienda attua strategie conformi al rispetto ambientale e
sociale, al fine di cogliere opportunità di mercato, ma tale sensibilità rimane
circoscritta al vertice aziendale.
4. Strategia Proattiva, l’impresa considera la responsabilità ambientale e sociale
non più come un obbligo prescritto dalla legge, bensì come fonte di vantaggio
competitivo e di differenziazione della strategia rispetto alla concorrenza. Tali
imprese condividono la sensibilità in ambito di sostenibilità lungo tutta l’impresa
e non solo nel vertice aziendale.
Oltre alla reputazione del marchio, al rapporto con il cliente finale e alle
regolamentazioni nazionali ed internazionali sempre più restrittive, anche la
comunità scientifica attraverso saggi e pubblicazioni, descrive l’importanza per
un’impresa ad avere comportamenti e atteggiamenti socialmente responsabili.
Due dei rappresentanti della comunità scientifica sono M. Porter e R. Kramer, che nel
saggio intitolato “Strategy and Society: The Link Between Competitive Advantage and
Corporate Social Responsibility 165 ” pubblicato nell’ ”Harvard Business Review”,
espongono l’importanza che ha un’impresa nell’influenzare positivamente la comunità
locale nel quale opera.
Secondo i due autori, nei giorni nostri accade che molti Paesi con l’intento di incentivare
il business e attirare imprese estere, hanno diminuito le regole per la tutela
dell’ambiente e hanno calpestato i diritti dei lavoratori. Con questi atteggiamenti però,
incentivano il business nel modo sbagliato, avviando un circolo vizioso nel quale: i bassi
salari incentivano gli investimenti iniziali, ma i Paesi non ricevendo abbastanza input di
qualità da parte del Business e non avendo una base adeguata di fornitori locali da
offrire alle imprese, le invitano ad inseguire profitti a breve termine e attraverso metodi
truffaldini, non interessandosi delle conseguenze sociali o ambientali che derivano dalle
loro azioni. Con questo modo di agire però si condannano alla povertà i Paesi che
ospitano le imprese, i quali sono “costretti” a svendere le proprie risorse umane e
165 M. Porter, M. R. Kramer, Strategy and Society: The Link Between Competitive Advantage and Corporate Social Responsibility, Dember 2006, pp78
115
naturali, incrinando sempre più il già precario equilibrio economico ambientale e
sociale.
Per Porter e Kramer la responsabilità dell’impresa, non si traduce nella capacità di
risolvere tutti i problemi del mondo, ma come descrivono nell’articolo “di individuare un
set specifico di problemi sociali rispetto ai quali è in grado di dare il contributo più
risolutivo, e dai quali può trarre il maggior vantaggio competitivo166”. Spesso le azioni
sostenibili che le imprese adottano sono sconnesse dal loro business, provocando la
limitazione delle opportunità più rilevanti che un’impresa può cogliere per trarne
vantaggi, ma attraverso una integrazione tra business e società, l’impresa ha la
possibilità di trarre dei benefici.
La capacità di trarre il vantaggio competitivo è data dal “valore condiviso”,
l’investimento che un’impresa affronta nei temi sociali serve anche per accentuare la
competitività dell’impresa stessa, in questo modo infatti si avvia un rapporto simbiotico,
il successo dell’impresa e il successo della comunità si rafforzano a vicenda. Per creare
questo rapporto, l’impresa deve essere in grado di individuare una causa sociale legata
al suo business, così tanto maggiore sarà la capacità di far leva sul commitment e sulle
capacità dell’impresa, tanto maggiore sarà il benefico che il Paese nel quale opera
riuscirà a trarre, così “quanto più uno scopo sociale è connesso al business di una
azienda, tanto più grande risulta essere la possibilità di far leva sulle risorse aziendali
per farne beneficiare tutta la società167”.
Se le imprese riusciranno a risolvere dei problemi sociali e ambientali attraverso
l’integrazione con il loro Business , allora saranno anche in grado di tramutare le azioni
che portano impatti duraturi e positivi sulla vita delle persone e sull’ambiente
circostante in benefici per l’impresa e in vantaggio competitivo.
Nel 2007 l’Organizzazione Internazionale WWF pubblicò una ricerca intitolata “Deeper
Luxury168”nella quale denuncia la tendenza delle aziende nel mondo della moda a non
essere socialmente sostenibili e indica la responsabilità e le opportunità che potrebbero
scaturire da una visione aziendale più sostenibile.
166 Ibidem 167 Ibidem 168Jem Bendell,Anthony Kleanthous, Deeper Luxury, Quality and style when the world matters. WWF, 2007
116
WWF-‐UK ha analizzato le aziende più famose della moda internazionale, in ambito di
sostenibilità ambientale e sociale, posizionandole all’interno di una classifica, indicando
con “ F “ l’azienda peggiore in ambito di azioni sostenibili, fino ad arrivare ad “ A “ che
indicava l’azienda con migliori performance.
Per stilare questa classifica sono stati utilizzati dei dati provenienti da due tipi di
informazioni: ciò che le imprese stesse riferiscono alla comunità degli investitori,
tramite bilanci sociali e comunicati stampa; le mancanze e inadempienze che le
Organizzazioni Non Governative e i media riferiscono alle imprese prese in esame. I dati
raccolti vengono inoltre forniti da “Ethical Investment Research Service” (EIRIS169), una
organizzazione di ricerca no profit che conduce esami nelle aziende quotate in borsa dal
1983, analizzando in particolare due tipi di relazioni: le relazioni ambientale, relazioni
etico-‐sociale. EIRIS raccoglie le informazioni direttamente dalle aziende attraverso dei
questionari e dai documenti pubblici dell’azienda presa in considerazione, come le
relazioni annuali, siti web e specifiche riguardo l’ambiente, la parte sociale e i rapporti
presenti nei rapporti di sostenibilità. I dati raccolti vengono suddivisi in 50 criteri
raggruppati in 4 macro aree: ambiente; diritti umani; corporate governance; relazione
con gli stakeholder.
Fig. numero 7: “ Grafico delle performance di sostenibilità nelle aziende della moda170”
169 EIRIS, Organizzazione indipendente che si occupa di analizzare le società attraverso dei questionari, per sensibilizzare gli investitori e le società stesse sul tema della sostenibilità, Available at, http://www.eiris.org 170 Grafico delle performance di sostenibilità nelle aziende della moda, fonte Deeper Luxury, WWF, 2007, Cap 6 pp. 32/33
0
20
40
60
80
100
Hermès LVMH Swatch Richemont Tods
ClassiLica delle performance nelle aziende della moda in ambito di sostenibilità
ambientale e sociale
117
I dati che sono stati forniti sono stati poi trasformati dal WWF in punteggi numerici, per
poter stilare poi una classifica, in ambito di sostenibilità, nelle aziende del settore della
moda. Attraverso tale grafico pubblicato nell’articolo si può evincere che nella classifica
che va da 0 (F) a 100 (A+), solo un’azienda ha raggiunto il margine di 70 (C+), mentre la
maggior parte delle aziende, tre su cinque, hanno totalizzato voti inferiori al 50 ovvero al
di sotto della sufficienza. Mentre LVMH ottiene un buon punteggio poiché, oltre a
stipulare report completi in ambito di sostenibilità, negli anni dimostra miglioramenti
nella gestione delle problematiche ambientali, la stessa cosa non si può dire della nota
azienda italiana Tod’s, che si dimostra la peggiore in ambito di performance sostenibili,
poiché, come enunciato nell’articolo, si evidenziano mancanze di volontà nel rispondere
adeguatamente ai questionari EIRIS.
In questo articolo pubblicato dal WWF nel 2007, si esortavano le aziende della moda a
porre il tema della sostenibilità al centro della strategia commerciale, poiché solo
attraverso politiche sostenibili e migliorando i processi interni, si possono generare
benefici nei confronti di tutti i partner coinvolti lungo la catena di fornitura; attraverso
una maggior tutela dei diritti umani e una migliore salvaguardia dell’ambiente, si
possono migliorare l’efficienza produttiva e ridurre gli sprechi, così da avere più risorse
da investire all’interno dell’azienda, e utilizzando come driver la responsabilizzazione e
la sostenibilità, le aziende possono creare innovazioni e avere maggiori possibilità di
creare valore.
Col passare degli anni e con la crescente consapevolezza delle persone dell’importanza
della sostenibilità, molte aziende hanno introdotto o migliorato tale concetto all’interno
delle proprie aziende. Hermes per esempio nel 2013, ha realizzato un nuovo progetto di
up-‐cycling ovvero, con l’intento di ridurre gli sprechi di materie prime, in particolare di
tessuto, ha introdotto una nuova linea di abbigliamento ecologica denominata
“PetititH”171, composta esclusivamente da scarti di produzione che, mentre una volta
venivano eliminati aumentando i costi come quelli di smaltimento dei rifiuti, ora
vengono riutilizzati per generare nuovi capi di abbigliamento e oggettistiche che come
afferma Pascale Mussard172 Artistic Director della nuova linea: “coniugando i diversi
171PetitH, linea di abbigliamento della casa Hermès, Available at http://lesailes.hermes.com/petith 172 Ibidem
118
materiali scartarti si cerca di nobilitarli e sublimarli” e nello stesso tempo si migliora
l’ambiente riducendo l’inquinamento e gli sprechi.
Anche la nota azienda italiana Tod’s, che nella ricerca promossa dal WWF aveva
totalizzato il punteggio più basso finendo all’ultimo posto della classifica delle aziende
meno sostenibili, ha rimediato alla sua mancanza in ambito di sostenibilità ambientale
promuovendo nuovi progetti a riguardo; come la creazione di edifici passivi dal punto di
vista energetico che si basano sull’utilizzo di fonti rinnovabili, come gli impianti
geotermici per l’efficientamento dei sistemi di condizionamento e di impianti
fotovoltaici per la produzione di energia elettrica.
Come conferma una ricerca condotta da RGA173, società di consulenza che propone idee
e realizza soluzioni in tema di ambiente, sicurezza e responsabilità sociale, la visione
sostenibile contribuisce al successo dell’impresa nel lungo periodo perché, oltre a creare
un vantaggio competitivo nei confronti dei competitors, genera anche un maggior
profitto174 alle imprese, come si può evincere nell’equazione del profitto:
G=R-‐C
Indicando con G il profitto R i ricavi e C i costi, al diminuire dei costi (C), che sono dovuti
dalla riduzione degli sprechi e dei costi di produzione, il profitto (G) aumenta.
Grazie ad azioni come la tutela dell’ambiente e il rispetto dei diritti umani dei lavoratori
lungo tutta la supply chain, un altro vantaggio che potrebbe influire positivamente sul
profitto di un’ azienda sostenibile è il rapporto che si insatura con il consumatore. La
maggiore attenzione del consumatore porta le aziende sostenibili a fidelizzare i propri
consumatori, aiuta a sollevare l’immagine del brand e la sua reputazione aziendale. Col
miglioramento dell’immagine dell’azienda possono aumentare le quote di mercato che
generano maggiori entrate economiche che creano un miglior profitto.
Un’azienda che adotta strategie responsabili ha la possibilità di incrementare i propri
profitti, riducendo i costi di produzione, gli sprechi di energia e di materie prime; riesce
a migliorare i rapporti dei consumatori, soddisfando le esigenze di prodotti sostenibili;
evita danni di immagine che rovinano la reputazione dell’azienda , incrinando i rapporti
con i consumatori e diminuendo drasticamente i profitti. La green economy è una
possibilità per le imprese di migliorare sotto tanti punti di vista e, grazie alle teorie di
173 RGA Sustainability Matters, Available at http://www.rgassociati.it 174 Sostenibilità competitiva, RGA, 2012
119
economisti come Porter e Kramer e all’aiuto di associazioni che tutelano i diritti e
l’ambiente, le aziende che abbracciano la teoria della sostenibilità, attuando azioni
sostenibili riescono sia a portare vantaggi all’interno dell’azienda stessa, ma riescono
anche a migliorare l’ambiente, diminuendo l’impatto ambientale, creando una maggior
tutela dei lavoratori e collaboratori dell’impresa lungo tutta la catena di fornitura,
migliorando così il tenore di vita delle persone.
120
121
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