Lettura di giorgio orelli a un mascalzone

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Titolo: Lettura di Giorgio Orelli, A un mascalzone. Autore: Fabio Pusterla

Edizione a cura di: In realtà, la poesia

Anno: 2013

Vol.: 6

Il presente documento non è un prodotto editoriale ed è da intendersi a scopo

illustrativo e senza fini di lucro. Tutti i diritti riservati all’autore.

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Lettura di Giorgio Orelli

A un mascalzone

di Fabio Pusterla

In realtà, la poesia

2013

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A un mascalzone

No, caro, non farò

come il cane del Zigra, che, levata

sul Motto di Dalpe invece

d’una lepre una volpe, giù

da Trentavalli e Rio Maggiore 5

per la conca di Prato la cacciò

sopra Mascengo, oltre il torrente, non

per un quieto sentiero di destra in discesa

ma a sinistra, fin su

verso l’amena radura di Àmar, 10

fino all’alpe di Casoréi dove è troppo più bello,

d’estate, con un ridere

d’acqua, sostare,

che andarsene subito al lago

Tremorgio, figurarsi 15

correre col cuore in gola

e dopo il primo ultimo giro intorno

alla perla precipitare

per le stesse pendici maledette

e in un amen lunghissimo infilare 20

lo stesso ponticello, rimbucare

nella conca falciata, ormai

stremati, e solo

per tornare a salire, per morire

con la volpe, un po’ sotto. 25

No, grazie,

non farò come il cane del Zigra.

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La poesia è tratta dalla raccolta Sinopie, del 1977; cioè dal

libro che, dopo l’importante fase giovanile raccolta e

ordinata con equilibrio e cautela dall’autore ne L’ora del

tempo (1962), inaugura una nuova stagione della poesia di

Giorgio Orelli, che si protrarrà per molti aspetti anche

nei decenni a venire, con Spiracoli (1989) prima e con Il

collo dell’anitra (2001) poi.

Per chi, come me, aveva una ventina d’anni all’apparizione

di Sinopie, quello fu appunto il primo e principale portale

d’accesso all’opera di Orelli; tanto più che in quel libro, e

nella poesia in questione in modo eccezionalmente

pregnante, appariva ad ogni livello, micro o macroscopico,

stilistico o tematico, un rapporto complesso e conflittuale

con la realtà e con il linguaggio della realtà, un dissidio, si

potrebbe dire, tra le ragioni della poesia e le irragioni del

mondo contemporaneo, che conferiva all’intera raccolta

una musica ad un tempo struggente, ironica e stridente,

capace di accogliere in sé l’attrito metallico del reale e la

nostalgia di una segreta bellezza, di una segreta armonia

non ancora del tutto vinta o dimenticata.

A un mascalzone è il secondo (e il più lungo, con i suoi 27

versi) dei testi racchiusi della seconda sezione di Sinopie;

sezione come le altre priva di titolo, ma che costituisce la

prova generale, si potrebbe dire, e la prima apparizione in

volume, di una modalità di scrittura che d’ora in avanti

apparirà regolarmente in tutti libri di Orelli, da Spiracoli in

poi con l’urticante titoletto di Cardi (che Il collo dell’anitra

conoscerà come Altri cardi). Scrittura suscitata, lo si

capisce subito, da un piccolo o grande sussulto di sdegno,

da un urto tra l’io, che si sforza di perseguire attraverso

l’esercizio della poesia una sua forma di decenza e di

equilibrio etico, e uno dei tanti volti dell’ipocrisia, della

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falsità, della cupidigia, lungo una breve, pariniana parata di

mediocri figure a cui il poeta concede appena

un’insinuazione sarcastica, non certo l’onore del nome che

identifica: A un filologo, A un mascalzone, A un cattolico,

Quell’uomo che prega il Signore, A un avvocato, A un piccolo

borghese, A una signora di squisito sentire.

Del nostro mascalzone, in effetti, come di tutti gli altri volti

richiamati in queste poesie, non sapremo quasi nulla; la

sua esistenza nella realtà è purtroppo assodata, ma non

merita nulla di più: né un ritratto a tutto campo, né

tantomeno una vera risposta. E appunto l’inutilità della

risposta è il tema della poesia, che, allontanandosi subito

dal mascalzone come da un punto di partenza inutile e

meschino (e schiaffeggiato linguisticamente

dall’antifrastico caro che apre e chiude il testo; e chissà che

nello schiaffo non risuoni l’eco del cari con cui, pochi anni

prima, Giorgio Bassani teneva a bada Gli ex-fascistoni di

Ferrara), si affida allo scatto di un’analogia, di

un’invenzione prodigiosa: quella che richiama sulla pagina,

insieme al cane del Zigra (un cane da caccia, evidentemente,

vittima di una furia accecante – come i diavoli di Inf.,

XXIII, che ne verranno dietro più crudeli / che ‘l cane a quella

lieve ch’elli acceffa – e a tal punto ossessionato da una preda

sbagliata, invece / d’una lepre una volpe (vv.3-4), da

sprofondare in una sarabanda autodistruttiva: la stessa che

attenderebbe chi si provasse a replicare qualcosa al

mascalzone, mettendosi così al suo infame livello), un

antichissimo paesaggio alpestre. Lo stesso paesaggio, sa

bene il lettore attento di Orelli, ampiamente percorso e

ritratto ne L’ora del tempo, e ora sapientemente richiamato,

come da un altro mondo da contrapporre all’orrore

dell’oggi. La conca di Prato (v.6), che più in basso (v.22)

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diventerà conca falciata, non sarà forse la stessa, nel

linguaggio se non nell’esatta geografia, di Estate, dove i

gridi delle rondini cadono / in una dolce conca dove l’erba /

s’arrende al taglio netto della falce / e più verde s’adagia? Ma le

valli e i boschi, la perla del Tremorgio e le radure,

insomma il paesaggio contemporaneamente realissimo

eppure già distante nel mito e nella fissità di un antico

passato, sono anche il luogo stesso della poesia, della

verità profonda che la poesia può scoprire e riportare alla

luce, come splendente gemma da opporre alla cupezza del

presente, scoppiettìo di parole e di suoni che il mascalzone

ignora e non sa cogliere; sicché tutto il testo è anche

giocato sull’opposizione tra quel paesaggio rievocato e il

presente appena accennato, appena alluso. Una

lunghissima colata sintattica riproduce la corsa affannosa

ed inutile del misero cane; poi, dopo l’unico punto fermo e

la spezzatura del verso, la conclusione può sigillare con

una bolla di superiore silenzio lo sdegno: No, grazie, / non

farò come il cane del Zigra. E il mascalzone è liquidato per

sempre, può tornare al mutismo che gli compete, come

un’anonima ombra degli inferi.

Ma è poi nel cuore del linguaggio poetico che s’invera la

folle corsa del cane abbagliato dalla foga: nella sintassi e

nel ritmo, intanto, agitati da brusche accelerazioni e

improvvise frenate a fine corsa, con le inarcature che

squassano quasi ogni verso della poesia, ulteriormente

potenziate dai numerosi e violenti ossitoni farò (v. 1 e v.

27), giù (v.4), cacciò (v.6), non (v.7), fin su (v.9), cui si

opporranno i fremiti sdruccioli di ridere (v. 12), andarsene

subito (v. 14), correre (v.16), amen lunghissimo (v.20), e tutta

vorticante di connettivi e deittici, come per disegnare il

frenetico tragitto animale (giù, per, sopra, in discesa, fin su,

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verso, fino a, dove, intorno, e molti altri ancora, fino ai due

martellanti per di v. 24, e al definitivo un po’ sotto di v. 25).

Tra un incipit e un explicit che chiudono in una cornice

sarcastica l’apologo del cane sciagurato, una insistita

antitesi contrappone la serena, superna immobilità del

paesaggio alpestre (colto già nei suoi evocativi toponimi:

Motto di Dalpe, venti versi più giù richiamato in rima

dall’estremo più sotto, Rio Maggiore, Prato, Mascengo, Àmar,

Casoréi, lago / Tremorgio, nome in cui già tremola perfetto il

chiarore di perla che pervade ogni cosa, insieme all’ombra

delle morte) alla corsa impazzita del cane, che in un amen

lunghissimo si dirige ignaro verso la propria fine, per le stesse

pendici maledette. Equilibrio di un paesaggio, da un lato, in

cui ogni cosa può adagiarsi in brevi balze orizzontali,

aperture o ripari della montagna, della selva o della lingua;

scomposto andare dell’animale, per diagonali e verticali

improvvide, sorde alla perfezione modesta, alla pace.

E poi ancora, più fitto dentro le parole, un continuo

movimento di suoni e di sillabe, come se adesso fosse il

linguaggio stesso della poesia a tramutarsi in paesaggio e

corsa, in continua metamorfosi, oscillazione tra mitezza e

frenesia. Di questo metamorfismo fonico-timbrico la

poesia A un mascalzone offre esempi d’ogni tipo, tanto che

una precisa mappatura dei suoi territori sonori

richiederebbe uno sforzo e uno spazio non indifferenti, da

catasto teresiano. Basterà osservare che, anche da questo

punto di osservazione, il linguaggio poetico procede per

stratificazioni e venature. In alto, come la punta più

visibile di un palazzo sommerso, stanno forse gli

anagrammi, il vibrante domino fonetico che spostando

una tessera trapassa da una parola ad un’altra: Zigra, il

padrone del cane (vv. 1 e 27), si ribalta nell’ironia di un

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grazie (v.26), Dalpe (v. 3) fa scattare la fuga della volpe

(v.4), il lago (v.l4) riappare poco dopo in forma di gola

(v.16), ormai (v. 22) preannuncia mesto il già prossimo

morire (v. 24), la perla (v.18, ma già introdotta di soppiatto

dalla lepre di v. 4) si scinde nel diffuso baluginare di per le

(v. 19) e va a spegnersi nei due per quasi finali (v. 24),

mentre l’intero decimo verso, con la sua dolcezza

tremante da Inf. V (Amor ch’a null’amato amar perdona), pone

il lettore di fronte a una vibrazione quasi miracolosa, fatta

di poche sillabe costantemente rimescolate verso l’amena

radura di Àmar, da cui come un dardo l’aggettivo scocca

verso il basso del testo, duplicandosi nell’amen lunghissimo

di v. 20. E si potrebbe continuare a lungo, considerando il

diffondersi a raggera dei tre quattro strumenti essenziali

messi in campo dall’autore sin dall’inizio, e sapientemente

alternati lungo tutto il concerto: il rintocco bisillabo e

gutturale di CARo-fARÒ-Come-Cane, la dolcezza delle

liquide e delle nasali implicate di daLPe-vOLpe- coNCa-

mascENGo-torrENTE, la vibrazione costante che dal

nomen-omen ZIGRa si disperde un po’ ovunque come lo

stridore di un destino assurdo. Ma segua il lettore la pista

dei suoni, si lasci catturare dalla felicità espressiva di un

linguaggio che, e anche in questo senso A un mascalzone

può essere considerato un testo esemplare, dissimula le

sue ricchezze avventurose sotto le sembianze di una

bonaria comprensibilità, capace di accostare la vena

narrativa, l’ironia, il gioco di parole, il ricorso a parole o

toponimi quotidiani, quasi dialettali o familiari (Casoréi, in

un amen, troppo più bello), senza tuttavia rimanerne

imprigionato, come se ogni volta il verso o l’immagine ci

portasse un po’ più in là, ci sfuggisse, ci invitasse ad

andare oltre.

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Persino la nota d’autore a fine libro (di nuovo: una trovata

espressiva che si manifesta pienamente appunto con

Sinopie, benché fosse stata già arieggiata nelle Poesie del

19531, e che l’autore continuerà a praticare con

controllatissima ironia e parchezza di spiegazioni nei libri

successivi) è motivo di dubbio e riflessione: «Zigra» è un

soprannome, tedeschismo per «ricotta», spiega Orelli.

Tutto qui? Laddove la maggior parte delle altre note

suggeriscono una fonte, un accostamento, da Dante a

Hölderlin, da Virgilio a Francesco Chiesa, da Ariosto a un

Hopkins montalizzato, questa volta l’autore si accontenta

di una spiegazione linguistica tutto sommato inessenziale?

O sta dicendo altro al suo lettore, forse invitandolo a

continuare da solo il gioco della scomposizione

anagrammatica, a decifrare il nome non detto dentro un

grumo di formaggio semigrasso? Chissà…

1 Su questo argomento si vedano le osservazioni di Pietro De Marchi, Per una tipologia dell’autocommento in Giorgio Orelli, in AA.VV, L’autocommento nella poesia del Novecento: Italia e Svizzera italiana, a c. di Massimo Gezzi e Thomas Stein, Pacini, Pisa 2010, in particolare pp. 28-9.

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