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LETTERATURA E FASCISMO NEL CARTEGGIO D’ANNUNZIO-MUSSOLINI Il Movimento di liberazione in Italia, proseguendo nell’opera di arric- chimento della sua tematica intrapresa negli ultimi anni, intende ospitare anche lavori di storia della letteratura collegati all’asse centrale dei propri interessi. Non si tratta tanto di un omaggio di maniera alla interdiscipli- narietà — in Italia assai più proclamata che praticata — quanto della av- vertita necessità di un confronto ravvicinato con un campo di ricerca il cui rapporto con la storiografia si è venuto alterando senza che gli stu- diosi di storia ne abbiano sempre presa chiara coscienza. La storia lette- raria come « storia civile » — che è il modello più familiare alla tradi- zione storiografica italiana — è entrata infatti da tempo in crisi, contestata da varie e opposte posizioni; e la distanza fra gli addetti ai lavori di storia generale e politica e gli addetti ai lavori di storia, e di sociologia, della letteratura è venuta progressivamente aumentando. Ospitando il sag- gio di Alessandra Briganti sul carteggio D’Annunzio-Mussolini — cui do- vrebbero seguirne altri anche di diversa ispirazione metodologica — il Movimento di liberazione in Italia vuole offrire pertanto un contributo a un tema storiografico di indubbio interesse — i rapporti appunto fra fascismo e dannunzianesimo — e insieme stimolare l’apertura di un discorso di carattere generale e metodologico. La fortuna critica di alcuni scrittori italiani la cui attività ebbe ini- zio tra Ottocento e Novecento è stata fortemente condizionata dall’in- crociarsi della loro biografia con l’avvento del fascismo, nonostante il periodo successivo agli anni venti non abbia determinato generalmente spostamenti sostanziali nella loro esperienza artistica e culturale. È avvenuto cioè che il giudizio su questi autori, pronunciato e ra- pidamente codificato nella stessa epoca fascista, è stato poi ripreso nel periodo successivo con la variante di un segno solo apparentemente ro- vesciato. Le coordinate critiche, oggi come cinquanta anni fa, sono in- fatti costituite in questi casi più a partire dal dato biografico, dallo stereotipo semplificato dell’homo politicus, che su un’analisi dell’opera, interna oppure esterna che sia. Manca ancora oggi un serio tentativo di avvicinamento a questi scrittori, se non ispirato alla concezione del- l’opera come costituzione, almeno legata ai metodi della sociologia del- la letteratura. Prendiamo ad esempio il caso di D’Annunzio, che sotto

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LETTERATURA E FASCISMO NEL CARTEGGIO D ’ANNUNZIO-MUSSOLINI

Il Movimento di liberazione in Italia, proseguendo nell’opera di arric­chimento della sua tematica intrapresa negli ultimi anni, intende ospitare anche lavori di storia della letteratura collegati all’asse centrale dei propri interessi. Non si tratta tanto di un omaggio di maniera alla interdiscipli- narietà — in Italia assai più proclamata che praticata — quanto della av­vertita necessità di un confronto ravvicinato con un campo di ricerca il cui rapporto con la storiografia si è venuto alterando senza che gli stu­diosi di storia ne abbiano sempre presa chiara coscienza. La storia lette­raria come « storia civile » — che è il modello più familiare alla tradi­zione storiografica italiana — è entrata infatti da tempo in crisi, contestata da varie e opposte posizioni; e la distanza fra gli addetti ai lavori di storia generale e politica e gli addetti ai lavori di storia, e di sociologia, della letteratura è venuta progressivamente aumentando. Ospitando il sag­gio di Alessandra Briganti sul carteggio D’Annunzio-Mussolini — cui do­vrebbero seguirne altri anche di diversa ispirazione metodologica — il Movimento di liberazione in Italia vuole offrire pertanto un contributo a un tema storiografico di indubbio interesse — i rapporti appunto fra fascismo e dannunzianesimo — e insieme stimolare l’apertura di un discorso di carattere generale e metodologico.

La fortuna critica di alcuni scrittori italiani la cui attività ebbe ini­zio tra Ottocento e Novecento è stata fortemente condizionata dall’in- crociarsi della loro biografia con l’avvento del fascismo, nonostante il periodo successivo agli anni venti non abbia determinato generalmente spostamenti sostanziali nella loro esperienza artistica e culturale.

È avvenuto cioè che il giudizio su questi autori, pronunciato e ra­pidamente codificato nella stessa epoca fascista, è stato poi ripreso nel periodo successivo con la variante di un segno solo apparentemente ro­vesciato. Le coordinate critiche, oggi come cinquanta anni fa, sono in­fatti costituite in questi casi più a partire dal dato biografico, dallo stereotipo semplificato dell’homo politicus, che su un’analisi dell’opera, interna oppure esterna che sia. Manca ancora oggi un serio tentativo di avvicinamento a questi scrittori, se non ispirato alla concezione del­l’opera come costituzione, almeno legata ai metodi della sociologia del­la letteratura. Prendiamo ad esempio il caso di D ’Annunzio, che sotto

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questo aspetto è forse il più clamoroso: mentre il D ’Annunzio poeta ha conosciuto una certa fortuna critica (ne è stata largamente ricono­sciuta ad esempio l’influenza determinante sulla posteriore poesia italiana, anche se ancora insufficiente appare l’individuazione di un più com­plesso tessuto di azioni e reazioni nell’ambito di una precisazione della sua fisionomia « europea »), la sua prosa è stata per lo più bollata dal­l’accusa di farraginosa artificiosità che ha conosciuto in seguito scarse revisioni sostanziali

Non è questo il luogo per addentrarsi in un’analisi di questa pro­sa, vista appunto nella sua irriducibile dimensione di « artificio »; ma va avvertito che se, come è vero, esistono in D ’Annunzio vera inven­zione fantastica e sfrenata creatività linguistica, queste vanno cercate nella prosa assai più che nella poesia, e al tempo stesso per un altro verso che proprio nella prosa è contenuta la spia più ricca e complessa dell’ideologia dannunziana. In questa seconda direzione acquista un si­gnificato marginale ma illuminante una recente edizione del Carteggio D’Annunzio-Mussolini1 2 3 alla quale è premessa un’analisi dei rapporti po­litici tra i due personaggi e del linguaggio impiegato dallo scrittore nel­l’epistolario. Anche in questo caso tuttavia, mentre appare più chiara­mente precisata la posizione dell’uomo D ’Annunzio, nessuna luce viene fatta sulla sua posizione di intellettuale nel complesso giuoco dei rap­porti con la trionfante civiltà industriale.

Un problema analogo, nonostante la distanza tra i due scrittori, nasce di fronte a indagini sul tipo di quella recentemente apparsa su Pirandello fascista3 che, pur volendo utilizzare gli strumenti di una certa sociologia letteraria, prescinde poi completamente dal contesto storico-sociale. Gli errori di impostazione (la violenza fatta ai testi, la riduzione del campo di ricerca alla sola narrativa, la mancanza di una corretta conoscenza del significato storico del fenomeno del fascismo e del concetto di alienazione, pur largamente utilizzato) renderebbero que­

1 Rilievo alla prosa dannunziana danno invece C. Salinari (nel capitolo II supe­ruomo in Miti e coscienza del decadentismo italiano, Milano, 1960) e E. Raimondi (nel capitolo su Gabriele D’Annunzio in Storia della letteratura italiana, vol. IX, Il Novecento, Milano, 1969) facendone occasione per due letture diversissime, tutta ideologica e sostanzialmente anti-decadente la prima, molto attenta ai rapporti con la mass-cultura la seconda, ma anche ricca di spunti e suggestioni assai originali in tutt’altre direzioni. Rappresenta poi un tentativo di analisi complessiva della prosa dannunziana il volume di M. R icciardi, Coscienza e struttura nella prosa di D’An­nunzio, Torino, 1970.2 Carteggio D’Annunzio-Mussolini 1919-1938, a cura di R. D e Felice e E. Mariano, Milano, 1971. Si tratta, come avverte la Nota, dell’edizione finora più completa di questo carteggio. Sull’argomento vedi anche il precedente saggio di R. D e Felice, D’Annunzio e la vita politica italiana dal 1918 al 1936, in Atti della Tavola Rotonda per il X X X anniversario della morte di Gabriele D’Annunzio, su Quaderni Dan­nunziani, XXXVIII - XXXIX, 1969, pp. 84-113.3 G. F. Vene, Pirandello fascista, Milano, 1971.

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sto Pirandello fascista uno dei più chiari esempi di « libri da non leg­gere » se in esso non fossero anche rappresentate, nella loro forma più evidente, certe costanti (il pregiudizio oggettivistico, il rifiuto del « pessimismo », l’apologià dell’ottimismo e della visione collettivistica del mondo, e così via) della più recente critica letteraria « impegnata » che la riallacciano poi, curiosamente, alla critica « borghese » del primo Novecento e, meglio ancora, a quella esplicitamente fascista del ven­tennio. Strettamente collegata a un analogo ordine di problemi appare poi la questione del futurismo che sta conoscendo in questi anni un mo­mento di fortuna critica senza precedenti, legato soprattutto al recente tentativo di definizione del fenomeno dell’Avanguardia. Anche in questo caso i numerosi interventi critici hanno scelto come esclusivo campo d ’indagine il versante poetico del futurismo: il risultato di questa ope­razione è il riconoscimento di una continuità-identità con la tradizione- contemporaneità (linea simbolisti-crepuscolari) che, se determina un chia­rimento esauriente dei limiti innovatori del movimento4, non offre poi che contributi generici ad una definizione dei rapporti tra innovazione- tradizione, tra futurismo italiano e futurismo europeo; mentre poi non risulta affatto chiarita la questione dell’effettiva colorazione ideologica -del futurismo, cioè la sua posizione nei confronti dell’assetto economico- politico contemporaneo (giolittismo-fascismo), vale a dire nei confronti della civiltà industriale, della mercificazione dell’arte, della massifica­zione della società ecc. In questo senso la recente pubblicazione di una parte dei più significativi scritti in prosa di M arinetti5 riveste un par­ticolare interesse; purtroppo però l ’introduzione al primo dei due vo­lumi, pur dichiarandosi in favore di una ricognizione ideologico-politica, non riesce a coordinare il ricco materiale raccolto in una coerente ipo­tesi di lettura complessiva di tipo sociologico-letteraria.

Se dunque è ancora oggi necessario assumere come esteriore e su­perficiale termine unificante di questi tre grossi eventi letterari (D’An- nunzio-Pirandello-Marinetti e il futurismo) la comune, anche se tanto diversa, « compromissione » con il fascismo, il problema non è quello di stabilire i reciproci rapporti biografici tra il singolo scrittore e il fascismo, cioè i limiti e la consistenza di un’« adesione » più o meno dichiarata; si tratta piuttosto di arrivare al perché di un atteggiamento che in diversi modi fu comune alla totalità della cultura italiana, si

4 Vedi tra i contributi stranieri P. Bergman, ’Moàernolatria! et ’Simultaneità’, Upsala, 1962; tra quelli, ancora scarsi, italiani: G. Mariani, Il primo Marinetti, Fi­renze, 1970. Importante per i rapporti teorici tra futurismo italiano e avanguardie •europee: G. G oriély, Le avanguardie letterarie in Europa, Milano, 1967._3 F. T. Marinetti, Teoria e invenzione futuristica, a cura di L. De Maria, Milano, 1968; F. T. Marinetti, La grande Milano tradizionale e futurista, a cura di L. De Maria, Milano, 1969.

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tratta di cogliere le sfumature, spesso sostanziali, e di mettere in luce i nessi strutturali sui quali si costruì l ’edificio di questa universale « con­sensualità ». Per affrontare il problema dell’atteggiamento della cultura italiana durante il fascismo (problema che, e teniamo a sottolinearlo, appartiene unicamente al campo della storia della cultura, o al mas­simo ad una sociologia della letteratura, e non ha nulla a che vedere con la letteratura come attività per sua natura « asociale ») il punto di partenza obbligato appare la precisazione della dinamica dei rap­porti degli intellettuali con la civiltà industriale.

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento lo schema dei rapporti tra cultura e nuova civiltà industriale comincia a differenziarsi in una serie di posizioni spesso violentemente contrapposte tra le quali emerge, come dominante al livello di diffusione propagandistica, un atteggiamento legato ad una visione degli intellettuali come gruppo au­tonomo. È necessario chiarire che questo atteggiamento trova la propria giustificazione nei mutamenti avvenuti nella situazione degli intellet­tuali durante il quarantennio iniziato con l ’unificazione della penisola. Nei primi anni del nuovo regno gli intellettuali appaiono ancora pro­fondamente legati al gruppo sociale da cui provengono, in prevalenza una piccola borghesia rurale le cui basi economiche poggiano su una modesta rendita fondiaria. Dopo l ’Unità questo ceto, colpito accanto ad altre classi e gruppi sociali (contadini, artigiani e proletari urbani, piccola borghesia urbana) dalle trasformazioni strutturali avviate dalla classe dirigente, appare in piena decadenza. L ’arte, la letteratura, il lavoro intellettuale cessano di presentarsi come campo di libera attività, regolati unicamente da leggi autonome ed intrinseche, ma tendono a configurarsi come professione: l ’arte e la letteratura si trasformano in apprendimento di tecniche specifiche, commerciabili al pari di merci sottoposte alle quotazioni del mercato. Il concetto di intellettuale na­sce in Italia in questi anni per indicare appunto il professionista della cultura.

In una prima fase gli intellettuali accettano questo nuovo ruolo: la loro critica sociale riflette ancora i problemi e le esigenze del gruppo sociale d ’origine al quale restano legati e di cui riflettono anche le aspi­razioni, le nostalgie e le alleanze. Il punto nodale di questa critica è rappresentato dall’opposizione alla classe dirigente e dall’esaltazione del­la civiltà contadina in contrapposizione a quella urbana. Sui problemi del gruppo « professionale » (il tema della mercificazione dell’arte) pre­vale ancora, nel primo ventennio di unità, la forza aggregante del grup­po sociale. Questa unicità di posizioni si spezza intorno alTultimo quin­dicennio del secolo quando, accanto al persistere di questa versione, cominciano ad affermarsi altre versioni dell’ideologia d’opposizione degli intellettuali. Non è possibile più tracciare un quadro completo delle

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diverse modalità in cui si frammentò la precedente visione unitaria dei « professionisti della cultura », ma ci limiteremo a mettere in evidenza i temi principali di una nuova versione della loro critica sociale basata su un vero e proprio rovesciamento dei presupposti originari. In primo luogo prevale nei nuovi intellettuali la coscienza di gruppo « profes­sionale » su quella di gruppo sociale: il distacco dal ceto d ’origine è pressoché totale, mentre i ceti dirigenti, prima osteggiati, diventano il prevalente punto di riferimento ideale. Il nucleo di questa nuova ideo­logia si concentra però nell’autocoscienza che l ’artista ha di sè come parte di un gruppo la cui unità è fondata, non più su comuni interessi e valori di classe, ma su una comune funzione. L’idea di una « classe intellettuale », come questa si autodefiniva attraverso i propri teorici, ripetendo un processo già compiuto in altre nazioni di più antica in­dustrializzazione come l ’Inghilterra e la Francia (e allora la « classe in­tellettuale » è il corrispettivo della « clerisy » di Coleridge e dell’« or­ganica classe di letterati » di Carlyle), nasceva e faceva perno sulle av­visaglie delle prossime conseguenze della nascente civiltà di massa-

in particolare, attraverso il reciso rifiuto della mercificazione dell’ar­te, essa individuava un nesso organico con la classe dirigente: alla fine dell’Ottocento dunque l ’atteggiamento prevalente della cultura italiana più sprovincializzata è caratterizzato da un netto distacco dal ceto di origine e da un ambiguo e contraddittorio tentativo di alleanza con le classi dominanti. Scambiando l’effetto con la causa i teorici della « clas­se intellettuale » attribuivano alla civiltà di massa la responsabilità della riduzione dell’arte a merce: il nemico non veniva dunque ravvisato, a differenza di molti teorici francesi e inglesi, nel nuovo modo di pro­duzione, con tutte le conseguenze ad esso connesse, ma nel simulacro di mobilità sociale che si accompagna necessariamente all’industriali­smo. La dislocazione dei ceti rurali (contadini, piccoli proprietari colti­vatori), la pressione degli strati popolari dei ceti urbani (proletariato urbano, artigiani, piccola borghesia declassata) depressi dalle nuove strut­ture economiche, e in particolare il massiccio fenomeno dell’urbanesi­mo, illuminavano la situazione sociale dell’Italia contemporanea dei ri­flessi di un’oscura minaccia che si condensava nel mito, per ora nega­tivo, della Folla, sentita come collettività anonima e indifferenziata che- suscita insieme disprezzo e paura.

Proprio in questo nodo capitale delle nuova società la « classe intel­lettuale » individuava il punto d’incontro con la classe dirigente: è la massa infatti che minaccia in pari modo l ’artista e la borghesia. La sop­pressione crescente del valore dell’individuo operata dalla civiltà in­dustriale viene dunque attribuita alla pressione quantitativa (e cioè spesso, come immagine figurata, alla semplice muta presenza) o organiz­zativa delle masse operaie e contadine. La massa, opponendo la forza

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livellatrice del numero alla volontà di autoaflermazione dell’individuo, attentava alla libera creatività dell’artista sottoponendola alle quotazioni del mercato. Alla Bellezza, all’opera unica, si sostituiva, come solo va­lore riconosciuto, la quantità, l ’opera riproducibile in molteplici copie. Allo stesso modo la massa attentava, attraverso l ’uso delle istituzioni rappresentative e poi con le organizzazioni di classe, al monopolio bor­ghese del potere. Come contro la mercificazione dell’arte gli intellet­tuali individuavano quale scopo precipuo del proprio gruppo la difesa della causa della Bellezza, così il compito della borghesia doveva con­sistere nella difesa del proprio diritto alla gestione del potere. Quello che interessa notare in questa fase è la particolare qualità della co­scienza di gruppo che caratterizzava la critica sociale di questi intellet­tuali e che regolava teoricamente i loro rapporti con le altre compo­nenti della società. Essi cioè rivendicano ora un ruolo non subordinato ma autonomo, anzi in certo modo di guida ideale. L’artista è colui che intuisce e rivela i valori essenziali e superiori ai quali deve adeguarsi lo sviluppo della società:

Spetta ora agli artisti i quali, nutriti di scienza, possono abbracciare e fondere i termini che sembrano escludersi: analisi e sintesi, sentimento e pensiero, imitazione e invenzione. Spetta ora agli artisti la ricomposizione dell’unità. Essi soltanto possono essere uomini rappresentativi, per adoperare la parola dell’Emerson, nelle società moderne; essi soltanto possono essere gli esemplari, gli interpreti e i messaggeri di questo tem po...6.

Ma questo attivismo, generato da un netto rifiuto delle conseguenze •della civiltà industriale, conteneva anche il proprio opposto, cioè il ripie­gamento su posizioni di rifiuto passivo comunemente etichettate sotto il termine di « estetismo ». Infatti il potenziale alleato, la borghesia al potere, appariva a questi intellettuali dominato dalla viltà, dal vizio, dal •culto del « positivo » e per questo, i « guadagni », gli « affari », si mo­strava dimentico delle « mete eroiche ». Allora se il corso della storia appariva fatale, se si manifestava vano ogni sforzo di scuotere la borghesia imbelle, la Bellezza si trasformava da « fine » in « mezzo »: il recupero del sogno proprio attraverso quella Bellezza, vagheggiata come meta, sim­boleggiava l’abbandono all’oblio, il rifugio dalla volgarità, l ’estrema sal­vezza dell’individuo nella dilagante civiltà di massa. Questa formulazione della critica sociale dei giovani intellettuali dell’ultimo quindicennio del se­colo, trovandosi sostanzialmente all’opposizione rispetto all’inarrestabile dinamica dello sviluppo delle nuove strutture economiche, e rifiutando •dunque il ruolo subordinato assegnato dalla borghesia agli intellettuali, era

6 Si tratta della risposta di G. D’Annunzio ad una inchiesta di U. Ojetti sulla letteratura e l’arte contemporanee svolta nel 1894 (U. O jetti, Alla scoperta dei let­terati, Firenze, 1946, pp. 359-60; I ed. Milano, 1895).

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destinata a trovare nel suo stesso seno gli oppositori in grado di fornire alle classi dirigenti una teorizzazione funzionale alle sue esigenze. Saranno questi, i vari Morasso e i Corradini, nati sul tronco dell’estetismo dan­nunziano, i formulatori più coerenti del decalogo artistico della civiltà industriale, decalogo che poi rimarrà immutato, attraverso il fascismo e il realismo socialista, fino all’arte di consumo dei nostri giorni. Il distacco dalla « vita moderna », interpretato nelle sue reali dimensioni di critica sociale ostile alla civiltà industriale, appare in questa nuova precettistica il termine di misura negativo dell’arte contemporanea. Al cosiddetto « di­simpegno » dell’arte « decadente » si oppone la necessità dell’« impegno », quale unica giustificazione dell’arte come forma di attività umana; all’idea di arte come Bellezza, cioè come costruzione, artificio regolato da leggi specifiche, si sostituisce l ’importanza esclusiva del contenuto (la tesi); alla libertà di sperimentazione espressiva, l ’univocità del modello oggetti­vistico. L ’arte realista, estranea anzi intimamente contrastante con l’arte fondata sull’anarchia dello stile, si accampava come unica forma immedia­tamente funzionale al mito collettivo del Progresso. Così l’arte non appare più meta, scopo, ma mezzo e, alla concezione « estetizzante » della poesia, si sostituisce l ’idea di una poesia eroica ed oratoria che ai temi della delu­sione, della sconfitta, della morte oppone i nuovi miti della Nazione, dell’Impero, della Stirpe e della Macchina, i miti tipici della civiltà indu­striale nella sua versione monopolistica. Dal gruppo decadente (gli este­tizzanti sospesi tra sogni di restaurazione dell’ordine e delle modalità di vita antiche e anarchica disperazione), si stacca un nuovo gruppo che capovolge rapidamente la posizione dei primi nei confronti della civiltà industriale. Il recupero dell’alleanza con la classe dirigente, decisamente impegnata nel processo dell’industrializzazione del paese, implicava neces­sariamente l ’accettazione delle nuove strutture della « vita moderna ». Al tempo stesso si modificavano, anche teoricamente (e si vedano ad esempio le idee esposte dal Morasso sul Marzocco alla fine del 1897(7)) i rapporti di forza con i gruppi dirigenti: questi intellettuali giovani infatti non si presentavano più come gruppo con finalità autonome ma piuttosto come gruppo intermedio, finalizzato alla difesa del mito del Progresso e cioè al servizio del predominio della borghesia e dello sviluppo illimitato delle nuove forze produttive. Perciò il mandato sociale rivendicato dagli intel­lettuali nell’ultimo quindicennio dell’Ottocento si rovesciava, all’inizio del Novecento, nell’accettazione di un ruolo subordinato, in qualità di apo­logeti dell’industrialismo e in funzione di managers dell’opinione pubblica inquadrati nell’industria culturale. In armonia con una fase di espansione dello sviluppo industriale in Italia l ’attivismo sarà il tratto distintivo di 7

7 M. Morasso, Ai nati dopo il ’70. La Terza reazione letteraria, in Marzocco, 1897, n. 1, p. 3.

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questo gruppo di intellettuali durante il primo quindicennio del Nove­cento: così l’obbiettivo polemico più duramente osteggiato sarà natu­ralmente l’arte decadente alla quale essi opporranno, come si è detto, da un lato la necessità di recuperare il realismo come esclusiva moda­lità di espressione, dall’altro la necessità di affermare il mito del col­lettivo al di sopra del tema, intimamente anarchico e potenzialmente ri­belle, dell’individuo. Decadentismo, estetismo, individualismo divente­ranno allora i termini negativi della nuova visione dell’arte e della funzione dell’intellettuale nella società; e negativi proprio in quanto visioni del mondo estranee, anzi ostili alla civiltà industriale e ai suoi miti, l’ottimismo, la fede nel Progresso, la produttività come unico va­lore, il concetto della comunità come massa, divenuti ormai i tabù della nuova arte. Una conseguenza particolarmente importante che sca­turiva da queste premesse stava nel nuovo rapporto che veniva ad isti­tuirsi tra intellettuale e masse: all’opposizione si sostituiva ora l’idea della collaborazione; al mito della Folla come nemico quello della mol­titudine come strumento di dominio. La visione della civiltà di massa non appariva più allora come angosciosa minaccia ma come meta ideale, in cui le volontà individuali, unificate in un ideale collettivo, si sareb­bero docilmente sottomesse al naturale impero delle élites. Si trattava insomma di rivendicare un ruolo funzionale per un’attività come quella artistica che, se fedele alle sue leggi specifiche, si andava progressiva­mente rivelando come vana e inutilizzabile: la necessità fondamentale alla sopravvivenza e allo sviluppo della civiltà industriale, cioè il com­pito di conquistare alla classe dirigente un consenso di massa in dire­zione interclassista, appariva l ’unica giustificazione realmente funzionale di questa attività. La propaganda dei nuovi miti interclassisti (l’idea di Nazione, di stirpe, il miraggio del self-made-man, l’esaltazione del Progresso simboleggiato dal tema della macchina, e della massa simbo­leggiata dal motivo della metropoli) veniva ora a costituire l’ossatura tematica dell’arte nuova:

All’arte non resta che una duplice manifestazione; o fornire un mezzo di più alla realizzazione del dominio, e cioè porgendo rappresentazioni e vi­sioni atte a celebrare il dominatore e le virtù che in lui si adunano, a in­citare, ad ammaestrare, ad afforzare la volontà, a magnificare la forza e la vita, a persuadere alla dominazione; o valere come dilettazione e sollievo ai dominanti dopo le ardue fatiche della conquista8.

Tuttavia, come si vedrà a proposito di D ’Annunzio, il tema della Folla quale potenziale alleato, supporto e strumento di dominio, era entrato in una seconda fase anche nella problematica degli intellettuali ancora legati ad una coscienza di sè come gruppo autonomo e ostili

8 M. Morasso, L’Imperialismo artistico, Torino, 1903, p. 337.

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dunque alla mercificazione dell’arte e al ruolo subordinato ad essi ri­servato dalla civiltà industriale.

Queste coordinate, qui sommariamente riassunte, determinano la di­mensione culturale entro cui va chiarita, nella sola direzione di una sociologia letteraria, la dinamica della prosa dannunziana, dal Piacere fino al Carteggio con Mussolini che ha dato occasione a queste osser­vazioni. Evidentemente nella corrispondenza le tappe di questo iter si ritrovano esemplificate assai più rozzamente e univocamente, del tutto prive di quell’ampiezza di implicazioni che determinavano la ricchezza e l ’ambiguità della prosa narrativa. Tuttavia la coscienza di sè che D ’An­nunzio manifesta nel corso del carteggio riproduce puntualmente gli at­teggiamenti e la mitologia che costituivano i materiali della sua prece­dente prosa. Intanto vediamo che l ’epistolario dannunziano è dominato da un mito che lo percorre interamente: si tratta del rapporto arte-vita ■che non riesce a trovare in queste pagine una formulazione definita come invece si era verificato ad esempio molti anni prima nel Fuoco. In realtà si trattava della riproposizione di un problema già apparso con il Romanticismo che, nei suoi momenti più consapevoli, aveva op­posto al sapere enciclopedico, codificato, universale dell’Illuminismo una idea di cultura come globalità di sapere e vita, una cultura originaria riferibile all’uomo e alla comunità nella sua interezza psichica e cor­porea. Il recupero di questa nozione relativa ad epoche mitiche della civiltà umana era determinato dalla volontà dell’artista di salvare e difendere il proprio ruolo « autonomo », vale a dire il valore sia pure limitatamente comunitario dell’arte, dal rapido processo che nella nuova civiltà industriale lo veniva progressivamente riducendo a merce, sotto­ponendo opera e autore alle quotazioni di un mercato regolato dalla popolarità, cioè dal pubblico. Quando ad esempio Wordsworth oppone­va alla nozione di pubblico il concetto di popolo:

Ancora più deplorevole è l’errore di colui che può credere che vi è qualcosa dell’infallibilità divina nel clamore di quella piccola anche se ru­morosa parte della comunità, sempre diretta da false influenze, che sotto il nome di pubblico, si fa passare presso la gente ignorante per il popolo. Verso il pubblico, lo scrittore spera di sentire tutta la diferenza che questo merita; ma verso il popolo definito in termini filosofici, e verso lo spirito incarnato del suo sapere... egli deve il suo devoto rispetto, la sua reve­renza 9

egli, come tanti altri artisti romantici, si volgeva nostalgicamente alla impossibile restaurazione del ruolo originario dell’arte nella società, co­me azione diretta, come sintesi ritualistica di umano e divino. Questo problema, che percorre tutto il primo secolo dell’industrialismo, non

9 Cit. da R. W illiam s, Cultura e rivoluzione industriale, Torino, 1968, p. 62.

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trova evidentemente soluzione altro che nell’alternativa, egualmente alie­nante, tra estetismo (recupero del rapporto profetico-visionario con l ’ope­ra, ma perdita del rapporto con la comunità) e mercificazione (recupero del rapporto comunitario, ma perdita del rapporto profetico-visionario con l ’opera). Evidentemente in ambedue i casi la realtà stava nella per­dita di ogni rapporto, sia con la comunità, sia con l’opera, dal momento che nella funzione originaria dell’arte l’uno non era concepibile senzal’altro. In D ’Annunzio questo problema appare, è vero, in formulazioni scarsamente originali ma finisce per dilatarsi fino al punto da costituire forse il più importante motivo ispiratore della sua opera. Per quarantan­ni la sua visione del ruolo dell’artista nella società oscillò da un ideale recupero del rapporto originario, quale gli veniva in particolare da una superficiale lettura del Nietzsche dell’Origine della tragedia, ad una pro­posta di aspettazione millenaristica desunta dai teorici inglesi dell’anti- industrialismo tipo Carlyle. Già nel Piacere, accanto ad alcune tra le più estetizzanti affermazioni di D ’Annunzio (« L’Arte! L’Arte! Eccol’Amante fedele, sempre giovane, immortale; ecco la Fonte della gioia pura, vietata alle moltitudini, concessa agli eletti... ») appare l’intui­zione del rapporto originario tra arte e vita, il recupero del concettoprimario di poesia come azione contrapposto a quello moderno, este­tizzante, di contemplazione:

Il verso è tutto. Nella imitazion della Natura nessuno istrumento d ’arte è più vivo, agile, acuto, vario, moltiforme, plastico, obediente, sensi­bile, fedele. Più compatto del marmo, più malleabile della cera, più sottile d’un fluido, più vibrante di una corda, più luminoso d ’una gemma, più fra­grante d ’un fiore, più tagliente d ’una spada, più flessibile d ’un virgulto, più carezzevole d ’un murmure, più terribile d ’un tuono, il verso è tu tto e può tutto. Può rendere i minimi moti del sentimento e i minimi moti della sensazione; può definire l’indefinibile e dire l’ineffabile; può abbracciare l’illimitato e penetrare l’abisso; può avere dimensioni d ’eternità; può rap­presentare il sopraumano, il soprannaturale, l ’oltramirabile; può inebriare come un vino, rapire come un’estasi; può nel tempo medesimo possedere il nostro intelletto, il nostro spirito, il nostro corpo; può infine raggiungere l ’Assoluto. Un verso perfetto è assoluto, immutabile, immortale; tiene in sè le parole con la coerenza d ’un diamante; chiude il pensiero come in un cerchio preciso che nessuna forza mai riuscirà a rompere; diviene indipen­dente da ogni legame e da ogni dominio; non appartiene più all’artefice, ma è di tu tti e di nessuno, come lo spazio, come la luce, come le cose imma­nenti e perpetue. Un pensiero esattamente espresso in un verso perfetto è un pensiero che già esisteva preformato nella oscura profondità della lingua. Estratto dal poeta, séguita ad esistere nella coscienza degli uomini. Mag­gior poeta è dunque colui che sa discoprire, disviluppare, estrarre un mag­gior numero di codeste preformazioni idea li10.

10 G. D ’Annunzio, Il Piacere, Milano, 1966, p. 147.

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Più tardi D ’Annunzio verrà attratto prevalentemente dal mito del­l ’Atteso, dell’Eroe, del Superuomo, di derivazione come si è detto tra carlyliana e pseudo-nietzschiana. È interessante notare che nello scrit­tore la formulazione di questo mito comincerà proprio in quegli anni ad oscillare tra una visione autonoma e una visione subordinata del ruo­lo dell’artista. Da un lato la figura dell’Atteso è esteriorizzata; egli è colui che guiderà anche violentemente la società fuori dal disordine della civiltà industriale ristabilendo la pratica dei valori eterni dell’uomo: « Noi tendiamo l’orecchio alla voce del magnanimo Zarathustra, e Ce- nobiarca; e prepariamo nell’arte con sicura fede l ’avvento dell’Ueber- mensch, del Superuomo » 11.

Oppure più chiaramente, per quanto piu encomiasticamente, nella poesia:

Or chi sarà l’eroe che attendiamo, / il pastor della stirpe ferace? / Ten­di l’arco, accendi la face / o tu che chiamato dalla Morte / venisti dal Mare, / Giovine, che assunto dalla Morte / fosti Re nel Mare! / T’elesse il Destino / all’alta impresa combattuta. / Guai se tu gli manchi12.

O anche:

[...] Ascolta l’anima mia se non giunga / un messaggio. Deh fate / o Montagne immortali, che scenda dai vostri misteri / cinto di luce il Vate! / La speranza e la gioia fuggirono lungi dai cuori / umani; e tutti i sogni / del­la bellezza e tutti i sogni dell’arte felice / vanirono; e stringe ogni / cuore un’arida angoscia; e rugge d’intorno la guerra / degli atroci bisogni. / Chi finalmente, sceso a noi dalle alture inaccesse, / ricondurrà la gioia? / Chi su la vasta fronte avrà, mai veduta possanza, / una luce di gioia? / O tu dalle Montagne purissime, Spirito ignoto, / scendi con la tua gioia 13.

Ma già da queste formulazioni è difficile dedurre nettamente la fi­sionomia dell’Atteso, cioè i rapporti e la distanza tra l’Eroe e il Poeta: in una delle versioni si potrebbe rintracciare, se proprio si vuole, una sorta di metafora eroica del capitano d ’industria che detiene, solitario, la forza e la volontà di esercitarla. Al poeta, votato all’inazione, sembra allora spettare il compito di magnificarne le gesta per indicare al cor­po sociale i valori effettivi a cui tendere:

Cagni, colui che a te negli anni eguale / patì l’ignavia delle vane carte, / morso il cuore dall’aquila immortale, / e vendicò nello stridor del­l’arte / la forza che sognar faceagli il fato / e il pallore del giovin Bonaparte / quando credea nel suo silenzio armato / essere il messo della nova vita / e della nova gloria il primo nato, / colui t ’onora come la scolpita / imma­

11 G. D ’Annunzio, Il Trionfo della morte, « I romanzi della rosa », Roma, 1933, p. XV.12 G. D ’Annunzio, Al Re giovine, in Elettra, Milano, 1950.13 G. D ’Annunzio, Alle Montagne, in Elettra, cit.

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gine del sogno suo più forte / sì ch’ei disdegna l’opera fornita / e, gittando sul volto della sorte / le sfrondate corone, or solo spera / nell’ultima bellezza della morte / ... E la man mi trema, / quasi eternassi la mia smania ignava / celebrandoti, eroe, nel mio poema 14.

In effetti questa modalità, tendente a bipartire la gestione del cor­pus sociale, secondo il modello di Carlyle, tra aristocrazia del potere e « aristocrazia spirituale », si ritrova abbastanza raramente in D ’Annun­zio, molto più incline a identificare direttamente Eroe e Poeta, facendo sfumare la nozione di derivazione romantica e nietzschiana dell’artista- veggente (« Solo in quanto nell’atto della produzione artistica il genio si fonde con l ’artista primigenio del mondo, egli sa qualcosa dell’eter­na essenza dell’arte; giacché solo in quell’istante egli somiglia in modo meraviglioso all’arcana immagine della favola, che può rivolgere gli occhi su sè e contemplare se stessa: allora egli è al tempo stesso sog­getto e oggetto, è insieme poeta e attore e spettatore » ) 15 in quella, rammodernata ma riduttiva, dell’artista quale capo carismatico delle masse. Già in questa direzione si muove ad esempio la rielaborazione del mito nietzschiano di Socrate (« Socrate, esercitati nella musica! »), ripreso all’inizio delle V ergin i delle rocce ma trasformato, da emblema dei « limiti della natura logica », dell’« uomo teoretico », in simbolo del Superuomo secondo un modello di vita « ascendente ». Un vero pastic­cio se non si potesse intravedere, già in questo « Maestro che sapeva con un’arte così profonda e così nascosta risvegliare ed eccitare tutte le energie dell’intelletto e dell’animo in quanti gli s’accostavano per ascoltarlo » 16, la prefigurazione di quel ruolo di capo carismatico che D ’Annunzio avrebbe a poco a poco attribuito all’artista in una pro­gressiva identificazione di arte e vita, nel senso tutto particolare di un’utilizzazione dell’arte per la vita. Nelle V ergin i l’immagine del poeta- veggente e del poeta-capo si mescolano continuamente; ora è la so­cietà che con la sua moderna struttura preclude all’artista il suo vero ruolo di guida politica e lo confina nell’inattività della pratica artistica: «. . . talvolta dalle radici stesse della mia sostanza — là dove dorme l’anima indistruttibile degli avi — sorgevano all’improvviso getti di ener­gia così veementi e diritti ch’io pur mi rattristavo riconoscendo la loro inutilità in un’epoca in cui la vita pubblica non è se non uno spettacolo miserabile di bassezza e di disonore ». « Certo è meraviglioso » — mi diceva il demònico — « che queste antiche forze barbare si sieno con­servate in te con tanta freschezza. Esse sono ancor belle, se bene im­portune. In un altro tempo ti varrebbero a riprendere quell’officio che

14 G. D’Annunzio, La canzone di Umberto Cagni, in Merope.15 F. N ietzsche, La nascita della tragedia, Bari, 1969, p. 72.,6 G. D’Annunzio, Le Vergini delle Rocce, « I romanzi del giglio », Roma, 1934,p. 21.

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si conviene ai tuoi pari; ciò è l ’officio di colui che indica una meta e guida i seguaci a quella. Poiché un tal giorno sembra lontano, tu cer­ca per ora, condensandole, di trasformarle in viva poesia » 17.

Ora invece torna a balenare il sogno romantico del poeta-veggente ■dotato di un potere di diversa natura ma al tempo stesso più necessa­rio e illimitato:

[...] il Rivelatore deve estendere oltre ogni lim ite l’orizzonte della sua ■coscienza abbracciando e i giorni e gli anni e i secoli e i millennii perché la sua verità, emanante dalla somma della vita vissuta dagli uomini fino al­l’ora presente, sembri un foco in cui possano raccogliersi armonizzarsi e moltiplicarsi le energie ascensionali del più gran numero di generazioni per proseguire più direttamente e più concordemente verso idealità sempre più pure 18.

L’incontro pieno tra le due modalità avviene però nel Fuoco dove D ’Annunzio costruisce, più compiutamente e insieme contraddittoriamen­te, il mito del poeta-guida-veggente:

Di nuovo l’anima della moltitudine era in signoria del poeta, senza contrasto, tesa e vibrante come una sola corda fatta di mille corde, in cui -ogni risonanza aveva un prolungamento incalcolabile. Risvegliavasi in lui il sentimento confuso di una verità ch’ella portava dentro oscurata e che il poeta le rivelava a un tratto in forma d ’un messaggio inaudito... O ra nella magica tregua che le davano le virtù della poesia e del sogno, ella sembrava ritrovare in se stessa i segni indistruttibili delle primitive generazioni, quasi una vaga effige dell’ascendenza remota, e riconoscere il suo diritto a un antico retaggio di cui fosse stata dispogliata: a quel retaggio che il mes­saggero le annunciava essere ancora intatto e recuperabile. Ella provava l’analisi di chi sia per ripossedere una ricchezza p erd u ta19.

Come si vede il mitico artista dannunziano conserva, del poeta- veggente, il legame archetipico con la comunità; tuttavia due elementi fondamentali lo allontanano definitivamente da quello. In primo luogo egli « utilizza » questo legame, lo finalizza (ad esempio ad altri miti, ■come quello del dominio o della Nazione); in secondo luogo il nesso arte-vita, presente in ambedue, si manifesta nel mito dannunziano se­condo diverse modalità a seconda che riguardi il poeta o la comunità, il soggetto o l’oggetto, mentre nel mito dell’artista-profeta, non essen­doci distinzione ma totale identità tra i due, tale nesso si manifesta unitariamente come rito collettivo magico-religioso. È proprio qui che è possibile cogliere pienamente le implicazioni « moderne » e insieme ■anacronistiche della visione dannunziana del ruolo dell’artista nella ci­

17 G. D ’Annunzio, Le Vergini delle Rocce, cit., pp. 29-30.18 G. D ’Annunzio, Le Vergini delle Rocce, cit., pp. 38-39.19 G. D ’Annunzio, Il Fuoco, Milano, 1967, p. 61.

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viltà industriale: nel Fuoco infatti egli abbandona il rifiuto decadente della « moltitudine », presente in tutta la sua prosa precedente, e in­dica anzi nella Folla « la preda preferibile ». Sulla linea che abbiamo indicata, cioè di un recupero interclassista delle classi lavoratrici ope­rato in quegli anni da certi gruppi di intellettuali legati ai settori chia­ve dell’economia nazionale, è anche la precisazione della composizione sociale di questa Folla, messa in bocca a Stelio Effrena:

« O h miseria! » esclamò rivolgendosi agli amici che lo accompagnavano- « Nella Sala del Gran Consiglio, dal palco del Doge, trovare qualche meta­fora per commuovere mille petti inamidati! Torniamo indietro; andiamo a sentir l ’odore dell’altra folla, della folla vera f . . . ] » 20.

Come per gli intellettuali attivisti, anche per D ’Annunzio, le classi subalterne e non la borghesia diventano l ’oggetto da conquistare: ma mentre per i primi la conquista della Folla consiste nella persuasione ai miti del Progresso, della Produttività, dell’industria, delle macchine,, dettati dalle classi dirigenti, per D ’Annunzio la conquista della Folla si identifica con il recupero di una possibilità di azione finalizzata unica­mente all’autoaffermazione dell’artista come unità di vita e opera. L’ope­ra d’arte più ambita diventa allora la parola che persuade all’azione: così arte e vita si identificano nell’azione della moltitudine mossa dal poeta per virtù dei miti da lui espressi:

[...] mi sembra che la parola orale, rivolta in modo diretto a una molti­tudine, non debba avere per fine se non l’azione, e sia pure un ’azione vio­lenta. A questo solo patto uno spirito un po’ fiero può, senza diminuirsi, comunicare con la folla per le virtù sensuali della voce e del gesto21.

Anche per D ’Annunzio, come per gli intellettuali legati ad un ruolo- manageriale, la Folla non è piu comunità ma collettività indifferenziata; e allo stesso modo il rapporto che la lega al poeta è un rapporto non di parità ma di subordinazione; ma ciò che allontana nettamente le due posizioni è la diversa finalizzazione dell’atto di persuasione operato- sulle masse. Alla univoca apologia del mitico interclassismo della civiltà:, industriale operata dai managers della borghesia dirigente, si sostitui­sce in D ’Annunzio l’indeterminatezza delle mete, il sogno irreale di vita ascendente:

Né soltanto verso quella moltitudine ma verso infinite moltitudini an­dò il suo pensiero; e le evocò addensate in profondi teatri, dominate det: un’idea di verità e di bellezza, mute e intente dinanzi al grande arco sce­

20 G. D ’Annunzio, Il Fuoco, cit., p. 31.21 G. D ’Annunzio, Il Fuoco, cit., p. 31.

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nico aperto su una meravigliosa trasformazione della vita, o frenetiche sotto il repentino splendore irradiato da una parola im m ortale22.

In definitiva, come si vede, D ’Annunzio pur accogliendo il tema del­la scoperta delle masse e il ribaltamento del mito negativo della Folla, restava poi legato alla vecchia concezione della « classe intellettuale » come gruppo autonomo, e rifiutava nettamente il ruolo subordinato del­l ’artista e la mercificazione dell’arte. In questo senso determinante è l ’atteggiamento che D ’Annunzio manifestò costantemente nei confronti dell’industrialismo e delle conseguenze ad esso connesse, a cominciare dalle considerazioni sulla distruzione della vecchia Roma ad opera dei piemontesi, cioè sul primo rilevante episodio di speculazione edilizia le­gato al fenomeno dell’urbanesimo, sparse in tutta la sua opera in pro­sa, dal Piacere in poi. Ma di particolare rilievo appare la presa di po­sizione dichiaratamente ostile alla civiltà industriale che troviamo nel Fuoco, come a riprova che per D ’Annunzio l ’appello interclassistico alle masse non implicava affatto l ’apologià del nuovo modo di produzione, del collettivismo, dell’urbanesimo, ma che anzi restava parte integrante di una particolare risposta, legata sempre all’area decadente, alla situa­zione dell’artista nella moderna società di massa:

L’immagine della città brutale, nera di carbone, irta di armature, oc­cupò l’isola mite; il fragore dei magli, lo stridore degli argani, l ’ansare delle macchine, l’immenso gemito del ferro, coprirono la melodia primave­rile. E ciascuna di quelle semplici cose, all’erba, alle sabbie, alle acque, alle alghe, a quella piuma soave che scendeva di lassù caduta forse da una piccola gola canora, si contrapposero le strade inondate dalle fiumane uma­ne, le case dai mille occhi difformi piene di febbri nemiche del sonno, i teatri occupati dall’anelito o dallo stupore degli uomini che per un’ora al­lentavano le loro volontà protese ferocemente nella guerra dei lucri. Ed ella rivide la sua effigie e il suo nome su per le mura infette dalla lebbra degli affissi, su le tabelle portate in giro dai facchini inebetiti, sui ponti giganteschi delle fabbriche, sugli sportelli dei veicoli veloci, in alto, in basso, in ogni dove 23.

Anche il tema della macchina (automobile, aereoplano) e della ve­locità appare tardivamente in D ’Annunzio, persino dopo la chiassosa propaganda di questa immagine contenuta nel primo manifesto futu­rista; esso inoltre rimane strettamente legato ad un valore metaforico d i liberazione individuale. La macchina è mezzo, la velocità è rischio, azione, impresa, è volontà di dominio sugli elementi, riservate all’arti­sta-eroe. In D ’Annunzio infatti la macchina non rappresenta automa­ticamente la vittoria dell’uomo sulla natura, non è un nuovo ordine

22 G. D ’Annunzio, Il Fuoco, cit. p. 50.23 G. D ’Annunzio, Il Fuoco, dt., pp. 289-90.

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imposto al cosmo, non è il nuovo volto del mondo, non è ordine, ritmo, disciplina ma è invece il mezzo per una sfida alla morte, nuova e in­sieme antica nel riallacciarsi senza soluzione di continuità all’archetipo- del volo di Icaro:

Gli elementi asserviti, le forze naturali sottomesse, le divinità constrette erano pronti sempre a insorgere per lacerare, per annientare il fragile tiranno come quelle belve prigioni che si scagliano contro il domatore se a- pena egli batta le palpebre o distolga la punta dello sguardo. La lotta era incessante, il pericolo era onnipresente. Come l ’O rda sanguinaria dell’antica Tauride, l ’Ignoto non stava assiso ma ritto in piedi su l’ara esigendo i sacrifizii umani 24.

La sfida è comunque solitaria e, come avviene per la parola del poeta, il suo legame con la moltitudine è un legame spirituale, è « spet­tacolo » che eccita ed esalta, suggerisce insieme frenesia e sgomento:

La folla era protesa in ascolto, con l’anima nelle pupille, trattenendo­li respiro. E la diminuzione graduale del suono creava in lei un sentimento della lontananza così profondo, che la sua vista n ’era illusa. L ’uomo sem­brava già assunto in un’altezza incalcolabile, interamente disgiunto dalla sua specie, solo come nessuno mai fu solo, fragile come nessuno mai fu fra­gile, di là dalla vita come il trapassato. Lo spavento dell’ignoto incavò tu tti i petti 25.

Se ora si esamina la corrispondenza di D ’Annunzio con Mussolini si vede che il tema del rapporto arte-vita che domina tutto l’epistolario- si pone in termini molto vicini a quelli che abbiamo sommariamente- indicati in questa rapida ricognizione. Il motivo di base del dissenso tra D ’Annunzio e Mussolini si chiarisce subito come scontro tra due op­poste ideologie l ’una, quella mussoliniana, portatrice dei valori fonda- mentali della civiltà industriale e dunque tesa all’utilizzazione dell’arte in un ruolo subordinato; l ’altra, quella dannunziana, anacronisticamente legata a certi moduli di vita tipici della civiltà preindustriale, irriduci­bilmente ostile ad un ruolo di manager dell’opinione pubblica, tesa alla rivendicazione della funzione autonoma degli intellettuali. Avviene così che quello che D ’Annunzio tende decadentisticamente a riunire, il bi­nomio arte-vita, Mussolini vuole disgiungere sotto la formula tradizio­nale, di matrice borghese-liberale, della separazione tra spirito e ma­teria, tra arte e politica, attraverso l ’affermazione reiterata di un ideale primato dei primi sui secondi.

Già all’inizio dei rapporti epistolari tra i due, quando ancora D ’An­nunzio aveva un peso politico e una capacità d’iniziativa nettamente

24 G. D ’Annunzio, Forse che sì forse che no, Milano, 1966, p. 81.25 G. D ’Annunzio, Forse che sì forse che no, cit. p. 85.

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superiori sul piano dell’azione, Mussolini inseriva, tra le espressioni di ossequio e le proteste di devota subordinazione (« Contate ancora e sempre su di me. Io mi considero il più devoto e disciplinato dei vostri legionari. E non pongo limiti alla mia disciplina. È perdutissima » 26 gli scriveva Mussolini nel febbraio del 1920), continui inviti a trasferire l ’azione sul piano della parola, a trasformarsi da combattente in per­suasore, in manager dell’opinione pubblica:

Intanto — si legge nella prima lettera dell’epistolario diretta a D ’An­nunzio — io credo che il suo riserbo, bellissimo e oserei quasi scrivere sacro, non debba durare all’infinito. Bisogna dire la grande parola della pace, come fu detta la grande parola della guerra. Lo scoglio di Quarto può es­sere ancora una volta la tribuna e l’altare del Poeta e del Capitano 27

Mussolini insomma si muoveva su quel binario, già sfruttato am­piamente negli anni precedenti dalle ideologie attivistiche, e dal nazio­nalismo in particolare, cui si accennava precedentemente. Egli, il po­litico, si faceva perciò portatore nei confronti di D ’Annunzio, il let­terato, della visione « industriale » del ruolo degli intellettuali e della cultura. Compito dei primi appariva, come si è visto, quello di fungere da managers dell’opinione pubblica (tutta la storia delle riviste del pri­mo Novecento non consiste, in fondo, che in questa accettazione da parte degli intellettuali del ruolo subordinato, in qualità di apologeti dei miti dell’industrialismo, ad essi assegnato dalle nuove strutture eco­nomiche affermatesi negli ultimi anni dell’Ottocento); compito della se­conda era di fornire un tramite, una mediazione indiretta alle nuove ideologie, ai nuovi miti, funzionali alle scelte della civiltà industriale in quegli anni, nei confronti delle « masse ». In questo senso Mussolini aveva ben chiaro il concetto dell’utilizzazione che era possibile fare della letteratura:

Mio caro D ’Annunzio, — scriveva ancora nel 1919 — verso la fine del mese il Popolo d’Italia lancierà in tutta Italia una rivista mensile, dal titolo simbolico di Ardita. Lo sarà, io spero, anche nel contenuto, pre­valentemente letterario. Mandatemi, vi prego, un vostro saluto, un vostro grido di raccolta o di audacia, una pagina vostra28.

In questa direzione il tono di Mussolini nell’Epistolario si fa sem­pre più deciso a mano a mano che la figura di D ’Annunzio perde, con l ’insabbiamento dell’impresa fiumana, credibilità politica:

Riporto sul Popolo il messaggio che avete mandato ai bersaglieri del­

26 Carteggio, cit., p. 20.27 Carteggio, cit., pp. 3-4 (lettera del 1 gennaio 1919).28 Carteggio, cit., p. 5 (lettera del 10 marzo 1919).

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l’l l° (il mio reggimento) ma un vostro articolo o messaggio più ampio con­tro questa crisi di avachissement, sarebbe opportuno29

fino ai toni perentori, prima ancora in certa misura guardinghi, nel- l ’annunciare il compimento della marcia:

Siamo padroni di gran parte d’Italia, completamente e in altre parti abbiamo occupato i nervi essenziali della nazione. Non vi chiedo di schie­rarvi al nostro fianco — il che ci gioverebbe infinitamente: ma siamo sicuri che non vi metterete contro questa meravigliosa gioventù che si batte per la vostra e nostra Italia. Leggete il proclama! In un secondo tempo, Voi avrete certamente una grande parola da dire30

in seguito senza mezze misure nel richiedere ed imporre a D ’Annunzio il ruolo di manager, sia pur prestigioso, a lui assegnato dal fascismo:

Poiché tutti i giornali francesi che non amano l’Italia rinnovata hanno inscenato una campagna tendente a dimostrare che tu saresti una specie di avversario del mio governo non sarebbe inopportuno che tu dicessi una pa­rola secca e precisa che sventasse una volta e per sempre queste manovre? ... Attendo i tuoi libri e ti ricordo che gli italiani attendono da te la poesia31.

In una prima fase dopo l ’avvento al potere del fascismo gli sforzi di Mussolini per imporre a D ’Annunzio un ruolo subordinato di intel­lettuale al servizio della classe dirigente implicano anche una volontà di arginare ogni potenziale opposizione, anche interna, che potesse ri­chiamarsi a un ruolo politicamente autonomo del poeta:

Io non ti chiedo attestazioni pubbliche di solidarietà, specie in periodo elettorale quando tutto può essere interpretato obliquamente, ma sarebbe ora che tu dicessi coram populo che tu fai parte da te stesso e che tutto il mucchio degli spirituali, dei ’rossettiani’ più o meno ’italiberisti’ e ana­loga zoologia ribellista senza idee e senza coraggio, non ti interpretano, non ti rappresentano e soltanto ti sfruttano. Altrimenti si perpetua l’equivoco, per cui le impotenze antifasciste più o meno associate, si richiamano al tuo nome 32.

Più tardi, svanita ogni potenzialità di una fronda dannunziana, Mus­solini teorizzerà più volte nell’Epistolario il principio della separazione tra poesia e politica, tra arte e vita affermando al tempo stesso come si diceva la superiorità della prima sulla seconda e applicando in tal modo senza mezzi termini anche a D ’Annunzio la formula imposta dalla

29 Carteggio, cit., p. 20 (lettera del 30 giugno 1920).30 Carteggio, cit., p. 27 (lettera del 28 ottobre 1922).31 Carteggio, cit., pp. 36-37 (lettera del 6 gennaio 1923).32 Carteggio, cit., p. 102 (lettera del 29 febbraio 1924).

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civiltà industriale dell’intellettuale come manager dell’opinione pubblica:

Appunto da quattro anni, ho apprezzato al suo giusto grande valore la tua silenziosa ma non meno efficace collaborazione. Tu mi hai aiutato nel­la mia fatica ingrata e di ciò ti serbo sincera gratitudine. So benissimo che tu non hai bisogno di ’potere’ — specie volgare o politico. Il tuo potere è nel tuo genio e nella tua opera e questo potere non soffre le ingiurie del tempo e quelle non meno odiose della volubilità umana33.

E vediamo ora invece la posizione di D ’Annunzio nei confronti di queste sollecitazioni ad agire da intellettuale al servizio dell’industriali­smo. Nel momento di maggiore successo dell’impresa di Fiume egli si rivolgeva a Mussolini secondo schemi non diversi da quelli che carat­terizzavano l ’agire degli eroi dei suoi romanzi: egli attribuiva infatti alla propria azione politica un valore profetico e si definiva nel rap­porto con le masse ( « questo popolo adorabile » ) quale interprete fatale delle necessità e del destino di queste:

Il Governo è ormai convinto di non poter niente contro la mia fer­mezza. Se la città non sarà restituita alle sue condizioni di vita normali, fra -dieci giorni getterò il ’dado’ un’altra volta. Se la città martire sarà ancora martirizzata la vendicherò con una rappresaglia enorme. Il Governo non ha il diritto di immiserire e di angariare questo popolo adorabile. Quando le •condizioni siano divenute intollerabili, mi muoverò con lo stile fulmineo di Ronchi. Nessuno immagina per dove e come. Nessuno lo sa. Nessuno lo saprà 34.

In questa veste D ’Annunzio si opponeva ai politici e alla classe di­rigente visti, secondo i moduli della vecchia ideologia d’opposizione de­gli intellettuali di fine secolo, come vili, materialisti e corrotti:

Gli Armatori, venuti qui a leccarmi i piedi in un primo tempo, ora cercano di addentarmi le calcagna. Per riconoscere la mia forza sagace hanno bisogno di essere calpestati. Li calpesterò. La loro coperta audacia giunse perfino ad offerirmi il lor bottino di guerra, il lor denaro giudaico maculato di sangue divoto! Converrebbe fondere l’oro atroce romanamente, e romana­mente colarlo a ciascuno nella strozza che da troppo tempo sembra eguagliare al vomito osceno la parola bugiarda 35.

Riecheggiano nelle pagine dell’Epistolario i miti polemici contro una classe dirigente che non viene intesa da D ’Annunzio, a differenza dai giovani intellettuali legati alle ideologie attivistiche e nazionaliste del primo Novecento, nella sua reale collocazione nell’ambito delle nuove strutture economiche. I termini in cui il poeta contrappone il mito della

33 Carteggio, cit., p. 202 (lettera del 29 agosto 1926).34 Carteggio, cit., p. 13 (lettera del 5 ottobre 1919).35 Carteggio, cit., p. 71 (lettera del 28 settembre 1923).

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Patria all’uso spregiudicato delle istituzioni compiuto dalla borghesia in­dustriale sono gli stessi utilizzati oltre trent’anni prima nel Piacere, nel­le Vergini ecc.:

Conduceva gli avversari del Patto un bastardo che per anni e anni ha disonorato l’Istria intera, un barattiere che — tra gli altri suoi delitti bene o mal dissimulati — frodò d’una trentina di piroscafi e di circa tre- centomila sterline (posso anche determinar precisamente le cifre e addurre i documenti) lo Stato italiano confiscatore. Erano così, per sibilante ironia, l’un contro l’altro, colui che combattette a Monfalcone e colui che trafficò senza pudore col nemico a Monfalcone... Come in guerra gli Armatori mer- catavano l’onore della Patria, così oggi mercano l’onore dello Stato36.

Insomma in D ’Annunzio appare decisa e scevra da compromessi la volontà di riaffermare il ruolo autonomo delPintellettuale, in primo luo­go rivendicando il primato dell’intuizione politica sulle successive rea­lizzazioni del fascismo:

Mio caro compagno, il tuo telegramma ha quel tono singolare che for­se è fondamentale nel ’fascismo’ ma che resta interamente estraneo alla mia vita interiore. Anche tu ignori fino a qual punto sia affinata la mia saga- cità, e fino a quale altezza sia giunta la mia libertà mentale... Nessuno può influire — di alcun sesso — sopra la minima delle mie opinioni e del­le mie risoluzioni. Fin dalla nascita, io sono il solo conduttore di me stesso. Un esempio eroico della mia volontà invincibile e indecomponibile porta la data del dicembre 1919, quando solo salvai il confine giulio... E oggi sono più lucido e più fermo che mai... Ma, nel movimento detto ’fascista’, il meglio non è generato dal mio spirito? La riscossa nazionale di oggi non fu annunziata da me or è — ahimè! — quarant’anni, e non fu promossa dal condottiero di Ronchi? 37.

E più tardi:

Ora mi chiedo con qual cuore tu possa favorire l’apparente smemo- ratezza degli Italiani verso quel che io ho compiuto. L’unanimità di certi silenzii stupefacenti rivela l’obbedienza a un ordine preciso. In Africa, non esiste il poeta profetico della Gesta d’Oltremare, per esempio. In patria- non esiste il creatore fiumano delle Corporazioni; non esiste il rinnovatore del grido, del gesto, d’ogni maschio rito [ , . . ]38.

Inoltre D ’Annunzio non cessò di attribuirsi una parte attiva nella politica nazionale, in un primo momento proprio nelle vesti di interprete delle esigenze « popolari » secondo quel disegno di unità interclassista

36 Carteggio, cit., pp. 80-81 (lettera del 24 gennaio 1924).37 Carteggio, cit., p. 38 (lettera del 9 gennaio 1923).38 Carteggio, cit., p. 200 (lettera del 27 agosto 1926).

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che, come si è visto, costituiva un elemento fondamentale del mito dan­nunziano dell’identificazione dell’arte con la vita:

Io, in perfetta purità di cuore, come sai, sono pronto a dare l’opera mia, il mio colpo di spalla risoluto e robusto, se bene — dopo otto anni di azione dura — sia ripreso da un glorioso amore delle belle idee e della mia arte. Prima di ritirarmi, vorrei offrire alla Patria l’unione vasta e di­vota di tutti i lavoratori. La voce divina diceva al Serafico intento a rac­cattare innumerevoli briciole disperse (te ne ricordi?): ’Di tutte queste bri­ciole fa un’ostia sola’39.

È il mito del Fuoco, il mito del poeta-guida-veggente, che risuona ancora nelle pagine del Carteggio:

Mio caro compagno, mentre infuria a Genova e altrove bestialmente la reazione di quegli Italiani bastardi che fanno pesare nella bilancia il soz­zo oro dei frodatori contro il puro sangue dei martiri (e di questi io son uno), ecco che una piccola maestranza di umili soldati rotola penosamente sul mio fratello i massi delle nostre montagne eroiche a me offerti dai miei compagni d’arme superstiti (e di questi sei tu uno). A questi soldati io par­lo con tanta passione e con tanta semplicità ch’essi non osano più toccare le rozze pietre se non con infinita cautela e quasi direi con pia carità di con­sanguinei, ché attraverso di me sentono che ognuna di queste pietre è so­stanza della nostra sostanza e dentro di noi sanguina tuttora40.

Il recupero di motivi topici dell’ideologia d’opposizione degli intel­lettuali di fine Ottocento caratterizza in questa fase l’interclassismo dan­nunziano che si volge, non casualmente, verso settori del lavoro italiano in diverso modo mitici. La condanna dell’emigrazione aveva rappre­sentato infatti per decenni un caposaldo della critica sociale degli scrit­tori borghesi dell’ultimo Ottocento, mentre più tardi i rappresentanti dell’attivismo e del nazionalismo avevano esaltato questo fenomeno come l ’espressione di un espansionismo di marca tipicamente nazionale. Evi­dentemente nella contrapposizione si confrontavano due diverse propo­ste per lo sviluppo economico del paese, legata la prima al mondo agri­colo preindustriale, la seconda allo sviluppo del nuovo modo di pro­duzione.

Tu non puoi — scrive D’Annunzio a Mussolini poco dopo la marcia su Roma — lasciar partire ventimila famiglie italiane, un grosso carico di carne italiana, verso la più crudele e la più tenebrosa delle servitù. Io posseggo documenti terribili; e non potrò non gridare l’atrocissima verità41.

Né mancano accenni diretti ad un programma « agricolo », addirit­

Letteratura e fascismo nel carteggio D'Annunzio-Mussolini 99

39 Carteggio, cit., pp. 30-31 (lettera del 1 dicembre 1922).40 Carteggio, cit., pp. 69-70 (lettera del 28 settembre 1923).41 Carteggio, cit., p. 34 (lettera del 2 gennaio 1923).

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tura nei termini della vecchia « questione meridionale » tipo Giustino Fortunato; evidentemente cioè il problema che stava a cuore a D ’An­nunzio non era nella constatazione dello scarto di sviluppo delle forze produttive tra nord e sud, ma piuttosto, preindustrialmente, nella ana­cronistica volontà di dare rinnovato incremento ad una civiltà contadina nettamente perdente nell’ambito delle scelte della nuova società indu­striale:

In questi ultimi tempi io ho dovuto piegarmi sul travaglio della mia terra d ’Abruzzi, e della Basilicata. Ti risparmio le considerazioni più o men ver- giliane. Tu anche sei ’uomo della terra’ e, più d ’ogni altro italiano, comprendi e ti sforzi d ’illustrare quel mio emistichio d ’una volante ode: 'con L’Aratro e la Prora’... Ora io penso, con te, che sia necessario creare un potente organo centrale, atto a risollevare e ad affinare tutte le energie agricole nelle regioni del Mezzogiorno 42.

D ’altra parte è interessante notare come Mussolini tentasse, sin dal periodo fiumano, di sfruttare propagandisticamente anche il risvolto in­terclassista del mito del Poeta-guida:

Occorre — scrive Mussolini nel novembre del 1919 — lanciare un mes­saggio ai lavoratori, per ciò che riguarda le loro specifiche rivendicazioni di classe. Questo è necessario per sventare l’imbecille speculazione pussista che continua a dipingerci come cani di guardia del capitalismo parassita43.

Di maggiore interesse, da ogni punto di vista, sia come serio tenta­tivo di rivendicare l’effettivo e autonomo ruolo politico dell’intel­lettuale, sia come progetto interclassista, è la parte del Carteggio riguar­dante la Federazione italiana dei lavoratori del mare. Riappare qui un tipico mito dannunziano (il mare come elemento in cui si saldano il destino personale e quello della Patria: « Non ti adontare di questa mia insistenza. Sono marinaio nato: nato nell’Adriatico ma rinforzato nel Tirreno » 44 ) e insieme, secondo i consueti moduli dell’ideologia d’op­posizione degli intellettuali di fine Ottocento, la polemica contro la classe dirigente avida, maneggiona, egoista, incurante dei destini della nazione e strumento di cospirazione internazionale. La natura mitolo­gica della visione dannunziana della politica appare chiaramente in que­sto episodio da cui D ’Annunzio sarebbe uscito definitivamente sconfitto. I miti sui cui fanno perno i suoi tentativi di persuasione non sono più funzionali ad una classe dirigente che ha trovato nel fascismo la formula per imporre violentemente la pace sociale:

Cosa fatta capo ha per quanto riguarda la Federmarina e che partito

42 Carteggio, cit., p. 164 (lettera del 4 settembre 1925).43 Carteggio, cit., p. 16 (lettera di fine novembre 1919).44 Carteggio, cit., p. 56 (lettera del 15 maggio 1923).

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Letteratura e fascismo nel carteggio D‘Annunzio-Mussolini 101

andrà innanzi per sua strada sicuro che com’è accaduto per i ferrovieri anche marinai fascisti diventeranno forza imponente e disciplinata

telegrafava Mussolini al questore Rizzo ordinandogli di « evitare qualsiasi intervento Comandante in senso disturbatore » 45 46.

Ma D ’Annunzio continua a muoversi sul binario del mito inter­classista dell’unione del lavoro italiano in « un’ostia sola », della fra­terna pacificazione:

E ricordati che gli Armatori soppressero ad arbitrio la clausola generosa se non ledendo la Patria con una cruda ’agitazione di classe’. Io ottenni dai miei compagni, come credo che otterrò sempre, la prevalenza dello ’spirito di sacrifizio’ 4é.

Ma è sempre il mito dell’identificazione arte-vita che è al centro dell’ideologia dannunziana che si esprime nel Carteggio. Quando D ’An­nunzio, dopo la marcia su Roma si vedrà costretto a rinunciare alla pra­tica dell’azione eroica, tenterà di salvare almeno in parte, e sempre in opposizione latente all’intenzione mussoliniana di confinarlo nel ruolo- di poeta-manager, proprio questo mito fondamentale. Scarse sono infatti nell’Epistolario le dichiarazioni che vanno nel senso di un recupero del­l’estetismo:

10 ho risoluto — oggi 16 dicembre (1922) — di ritrarmi nel mio silenzio e di ridarmi intero alla mia arte, che forse mi consolerà. Il meglio di me, offerto alla Patria, in tanti anni di pena volonterosa, oggi è falsato o rinnegato- o calpestato. Le testimonianze d’amore e di fede non m’illudono. L’Italia d’oggi non m’ama e non crede in me. L’esilio sarà. il castigo della mia lunga e intiera devozione. Lo so. Accetto il fatto, e gli sono pari47.

11 mito della identificazione tra arte e vita si manifestava infatti, già prima della sconfitta sulla questione della Federmarina, nel tentativo di attribuirsi, da parte di D ’Annunzio, almeno un ruolo di consigliere ed ispiratore:

E ascoltami. Io sono veramente ’profeta in patria’. Echi remoti risuonano- in me, a ogni evento contemporaneo... Ma ricordati, nel tuo giusto cuore di fratello minore, ricordati (e fu palese per tutta la guerra, e oltre) che il mio nome dice ’Annunzio'-, non dice e non dirà mai, davanti a una bella impresa italiana, davanti a una bella impresa umana, 'Rinunzio’48.

Questo ruolo rappresentò la difesa che il poeta continuò ad oppor­re, quasi fino alla fine, alla volontà mussoliniana sempre più esplicita

45 Carteggio, cit., pp. 159-160 (telegramma del 22 agosto 1925).46 Carteggio, cit., p. 45 (lettera del 18 febbraio 1923).47 Carteggio, cit., p. 32 (lettera del 16 dicembre 1922).

Carteggio, cit., pp. 72-73 (lettera del 28 settembre 1923).48

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ed imperiosa di piegarlo ad una funzione di manager dell’opinione pub­blica per conto del regime:

Nel secondo libro de’ miei discorsi fiumani venuto in luce oggi tu leg­gerai alcune parole di proposito audace e non incerto ch’io ti scrissi sul punto di partire per Ronchi e ch’io volli riferire alle mie poche genti adu­nate dichiarandole scritte ’ad un compagno di fede e di violenza’ e consi­derandole come un impegno da adempiere senza fallo. Il fiero accordo di allora si rinnova nella tua parola di oggi. Entrambi abbiamo tuttora due compiti diversi ma corrispondenti: interno ed esterno. So che nessuno di noi mancherà di dominare o di forzare l’evento ignoto49.

L’incomprensione della reale natura del fascismo e la sostanziale ade­sione ideale ad un modello di società preindustriale aperto ad una piena realizzazione dell’intellettuale nella vita, appaiono evidenti, nel Carteg­gio, anche attraverso la ripresa di altri motivi topici della mitologia decadente, e dannunziana in particolare. Il tema della superiorità del modo di produzione artigianale, ad esempio, come attività assai vicina a quella artistica, che aveva caratterizzato molti eroi dannunziani a co­minciare da Andrea Sperelli, riappare nella corrispondenza con Musso­lini come un motivo di rivendicazione politica (« Io ti parlai, e ti scris­si, delle nuove Botteghe che sto edificando nel Vittoriale, per ritrovare e dimostrare l ’essenza vera di tutte le arti, per dare esempi numerosi — in ogni opera di vetro o di ferro o di telaio o d ’intaglio — della ’utile bellezza’ che i vecchi nostri servivano con tanto onesta e pos­sente mano. E tu sai come io sia precursore, non soltanto in parole ma in atti, del movimento recente che cerca di risollevare l ’artigiano di là dalla macchina » )50 e al tempo stesso come nuovo e raffinato esercizio di espressione della propria arte (« Io sento nuovi mestieri. Ho tro­vato il modo di dipingere a mano velluti e sete e veli abolendo — non •senza prodigio — la grossezza del colore » )51.

Quanto al mito del mondo meccanico, che riappare largamente nel 'Carteggio, esso si configura in modo sostanzialmente analogo al Forse che sì forse che no. D ’Annunzio si è sostituito al suo eroe e il suo rap­porto con la macchina ricalca punto per punto quello di Paolo Tarsis. Come per quello infatti la macchina è il mezzo per una sfida, per un gesto di autoaffermazione:

Non so dirti quanto io sia consolato dal MAS di Buccari, e dall’idro- volante. Forza elementare, mi ricongiungo finalmente alle forze elementari; e costringo, per virtù d’incanto, il quieto lago a doventarmi oceano irto52.

49 Carteggio, cit., p. 303 (lettera del 12 settembre 1931).50 Carteggio, cit., p. 194 (lettera del 26 maggio 1926).51 Carteggio, cit., p. 283 (lettera del 3 aprile 1930).52 Carteggio, cit., p. 133 (lettera del 25 marzo 1925).

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Letteratura e fascismo nel carteggio D ’Annunzio-Mussolini 103

Il culto della velocità non fa riferimento ad una alterazione, in senso funzionale all’economia, dei ritmi sociali di vita, non implica una con­trazione del tempo e dello spazio, ma è rischio e avventura individuali:

Ti mando il messaggero nella mia grande macchina gialla, ch’io ho ri­serbata fino a oggi per me solo nell’amore della velocità e del rischio 53.

Il mondo meccanico, visto come un nuovo meraviglioso giocattolo, serve infine a realizzare in istanti eccezionali quel sogno lungamente perseguito dell’identificazione arte-vita:

Né ti nascondo la mia folle voglia di andare, dopo aver dato un calcio a questa mia tavola di scribacchino54.

Come si è visto D ’Annunzio rimase sostanzialmente fedele all’ideo­logia anti-industriale elaborata dagli intellettuali tra Ottocento e Nove­cento, e continuò ad utilizzare anacronisticamente, ancora molto dopo che la nuova civiltà aveva stabilito rigidamente i compiti e il ruolo del­l ’arte e della letteratura, il vecchio armamentario mitologico che con­sacrava l ’unità di arte e vita. Anche quando, negli ultimissimi mesi, le lettere di D ’Annunzio sembrano testimoniare un tardivo cedimento al­l ’ideologia artistica della civiltà industriale, una sottomissione del poeta al ruolo di manager dell’opinione pubblica, si tratterà invece, ancora una volta, di un recupero, della ripresa di un vecchio mito, quello alla Carlyle dell’Atteso, dell’Eroe che deve venire, cioè di un mito più an­tico di quello, dannunziano, del Poeta-guida:

Dopo tante battaglie, dopo tante vittorie, dopo tanti contrasti, dopo tanta volontà, tu hai veramente compiuto quel che nella storia dei grandi uomini non è quasi mai compiuto. Tu hai creato il tuo Mito. Io ti avevo mandato una parola insulsa: ’Non odi nella tua scia ricantare le Canzoni d’Oltremare?’ Perdonami. La tua conquistatrice e divoratrice corsa equestre •è di là da ogni Impresa d’oltremare. In tutta la Storia dei Conquistatori non s’era mai veduto alcuno creare co’ suoi mezzi umani il suo Mito eter­no... Io ho avuto da te, fra tanti altri benefizii portentosi, quel di vedere un uomo vivo creare il suo Mito sempiterno5S.

La ripresa del mito del Capo determina un rovesciamento dell’ot­tica storica di D ’Annunzio, che si trasforma da ispiratore in ispirato:

Mio Capo e Maestro, molto mi piace che nel proteggere ogni mio be­ne tu ti sia ricordato del Cinque Maggio — ove già noi due eravamo un solo animo, una sola Fede intatta. Ricordati che a Quarto io avevo meco cento sessanta volontarii solamente: 160. Ma tu già mi comunicavi la tua forza e

33 Carteggio, cit., p. 313 (lettera del 1932).54 Carteggio, cit., p. 136 (lettera del 25 marzo 1925).35 Carteggio, cit., pp. 369-370 (lettera del 15 aprile 1937).

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il tuo assenso: Robur inclytum. Il Cinque Maggio è nel tuo Mito, da te creato, ch’io solo conosco K.

A pochi mesi dalla morte Mussolini appare a D ’Annunzio nella luce mitica di un Claudio Cantelmo o di un Paolo Tarsis realizzati, depurati cioè dalle venature decadenti che facevano di tu tti i suoi eroi degli scon­fitti. Eppure anche in questa fase D ’Annunzio non rinunzierà a riven­dicare il proprio ruolo di intellettuale autonomo; il recupero del mito carlyliano è completo; accanto al Capo, a colui che agisce, sta colui che sa, colui che possiede « un’ispirata saggezza », l ’immagine giovanile e ro­mantica dell’artista-veggente:

Tu hai soggiogato tutte le incertezze del fato e vinto tutte le esitazioni umane. Non hai nulla da temere, non hai più nulla da temere. Non vi fu mai una vittoria così piena. Lasciami orgoglioso di averla preveduta oltre ogni limite, e di avertela annunziata 56 57.

A differenza di quasi tutti gli intellettuali italiani del suo tempo, D ’Annunzio rimase dunque fedele ad una irrecuperabile immagine di civiltà preindustriale, non facendosi mai, per usare una formula cara a molti moderni esegeti sottilmente oggettivistici, « contemporaneo della realtà industriale »; e proprio in questa irriducibile opposizione va cercato il significato della natura dei suoi contraddittorii e conflittuali rapporti con il fascismo.

A lessa n d ra Briganti

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56 Carteggio, cit., p. 372 (lettera del 5 maggio 1937).57 Carteggio, cit., p. 376 (lettera del 13 dicembre 1937).