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È assolutamente vietata la riproduzione totale o parziale di questo libro, così come l’inserimento in circuiti informatici, la trasmissione sotto qualsiasi for-ma e con qualunque mezzo elettronico, meccanico, attraverso fotocopie, re-gistrazione o altri metodi, senza il permesso scritto dei titolari del copyright.

Editing: Elena OrlandiImpaginazione e redazione: Noesis

I Edizione 2014

© 2014 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milano www.battelloavapore.it - www.edizpiemme.it

Anno 2014-2015-2016 Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

Stampato presso ELCOGRAF S.p.A. - Stabilimento di Cles (TN)

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Massimo Polidoro

Il tesoro diLeonardo

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A Margherita e Sofiai miei tesori più grandi.

Con amore

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PROLOGO

L’ULTIMA NOTTEDI MILANO

Milano, 2 settembre 1499

Nella notte afosa, l’uomo avanzava cau-to accarezzando l’asinello che tirava il carretto. Non temeva che il rumore de-gli zoccoli o il cigolio delle ruote che

risuonavano sulla pavimentazione stradale potessero svegliare qualcuno: il rombo costante dei tuoni che anticipavano l’arrivo di un temporale provvedeva a coprire ogni rumore. Piuttosto, era la paura di incon-trare un soldato o un rivoltoso che lo faceva rimanere sul chi va là.

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Il vociare poco lontano delle truppe francesi, ormai giunte alle porte della città, lasciava presagire un’inva-sione imminente.

Il Duca Ludovico, vistosi perduto, aveva prima messo in salvo la famiglia e poi, quella stessa mattina, era partito anche lui verso Como per raggiungere infine Innsbruck.

«Mio caro amico» gli aveva detto il Duca prima di partire. «Ora gli eventi mi costringono a fuggire, ma presto tornerò e ti giuro che mi batterò per riprendere la città.»

L’uomo, che da diciotto anni viveva e lavorava a corte, aveva sorriso con comprensione, pur sapendo che pro-babilmente non l’avrebbe più rivisto. I francesi erano troppi e con alleanze troppo forti per poterli scacciare, Ludovico non aveva speranze.

L’esercito era allo sbando e ormai anche la popolazio-ne, vessata da tasse opprimenti, si era rivoltata contro il Duca, pronta ad accogliere gli invasori come si farebbe con un salvatore. Era solo questione di ore, poi Milano sarebbe diventata un dominio francese.

L’uomo allungò una carota all’asino e gli accarezzò il capo, per incoraggiarlo ad affrettare il passo. Il carretto

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era pesante e il suo carico, nascosto da un telo, era stato legato saldamente. Non c’era il rischio che cadesse, ma che finisse nelle mani sbagliate sì.

Ormai la meta era vicina, ma finché tutto non fosse stato compiuto, il pericolo di perdere ogni cosa gli met-teva addosso un’ansia che non aveva mai provato prima.

Non temeva per sé. Un uomo di ingegno come lui difficilmente rischiava di essere fatto prigioniero o pas-sato per le armi: qualunque regnante avrebbe fatto a gara pur di assicurarsi un artista del suo livello a corte. A spaventarlo era la possibilità concreta di perdere ciò che trasportava sul carretto.

Non un minuto andava sprecato, tutto doveva essere fatto prima del sorgere del sole. Solamente dopo, l’uomo avrebbe potuto riposare e attendere di scoprire che cosa il destino aveva in serbo per lui.

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FURTO AL CASTELLO

Milano, martedì 23 dicembre 2014

&i sono quasi – mormorò Leo Sawyer mentre le sue dita correvano frenetiche sulla tastiera del computer portatile.

Sul monitor, schermate di numeri e dati si susseguivano incomprensibili per chiunque non avesse almeno una laurea in ingegneria informatica, ma Leo, che si muoveva tra codici e algoritmi con destrezza invidiabile, aveva solo tredici anni. Per il suo docente di informatica era un piccolo fenomeno.

– Manca ancora poco… – disse ad alta voce mentre sempre nuove finestre si aprivano davanti ai suoi occhi.

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Era solo nella stanza degli ospiti dei nonni, ma l’abi-tudine di borbottare ce l’aveva sempre avuta.

Osservava la pagina che più gli interessava del sito della sua scuola, una pagina superprotetta da password di ogni tipo. La chiuse e aprì l’home del sito, a cui ogni studente poteva accedere con i dati con cui si era regi-strato al momento dell’iscrizione. Pochi se ne servivano, ma una volta registrati era possibile accedere a un’area per i dati anagrafici, dove sbrigare semplici faccende come l’aggiornamento del proprio indirizzo o della situazione famigliare.

Diede un’occhiata distratta ai soli due nomi che com-parivano nella sua scheda, il suo e quello di sua madre. Papà se n’era andato tanti anni prima, al punto che lui ne conservava solo pochi ricordi.

Non volle fermarsi a rimuginare sul suo poco allegro passato, c’era altro che gli interessava sullo schermo. Fece scorrere verso il basso la pagina e giù, in un angolino, trovò il link che conduceva alla pagina dell’ammini-stratore del sito. Lo cliccò e si aprì una schermata poco invitante, fatta di codici e numeri. Iniziò a digitare parole e simboli grafici finché, con un’ultima combinazione di tasti, tutte le finestre si richiusero di colpo come per magia, tranne una.

– Ce l’ho fatta! – esclamò soddisfatto Leo sgranando

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i profondi occhi scuri. Davanti a lui, la pagina super-protetta lo attendeva ora libera e indifesa. Aveva infatti scoperto che l’amministratore del sito, probabilmente qualche nerd sfaccendato che lavorava per la scuola, aveva pubblicato sulla sua pagina tutti i dati di accesso. Certo, erano cifrati, ma non gli ci era voluto nulla per craccarli.

Tante volte si era accorto che per accedere a una pagina superprotetta, non era necessario conoscere le password. Bastava trovare un ingresso alternativo. E in tutti i siti, qualche punto debole c’era sempre. Conosceva bene il modo di ragionare dei programma-tori. Era come se volessero proteggere casa loro con una porta blindata dotata di serrature complicatissi-me, ma poi lasciassero sempre aperta la porticina del gatto sul retro.

Volendo fare i disonesti, avrebbe potuto modificare i suoi voti scolastici. La cosa gli avrebbe fatto comodo: in Storia e Geografia non se la cavava proprio benissimo. Leo, però, era lì per ben altro e ora scrutava la pagina tanto ambita: quella delle votazioni per Miss Happy New Year, la reginetta di fine anno della scuola, che tutti gli studenti dovevano votare durante le vacanze natalizie.

– Interessante… – osservò Leo. Prevedibilmente,

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ai primi due posti c’erano le gemelle Simmons, due ragazzine che erano tanto bionde quanto antipatiche. Leo non le sopportava.

Scorse la lista e solo verso la centocinquantesima posizione trovò il nome della sua amica Jenny Raw-lings. D’accordo, Jenny non era uno schianto di ragazza, portava gli occhiali spessi e pesava come un vitellino in carne, ma era molto sveglia e quanto a simpatia dava la polvere a tanti maschi. E poi, forse aveva un debole per lui, visto che lo aiutava sempre durante le verifiche in classe. Se all’ultima prova sulla battaglia di Trafalgar non ne era uscito con le ossa rotte lo doveva solo a lei. In definitiva, era merito suo se ora non si trovava confinato a Londra sui libri, ma a Milano, in vacanza premio dai nonni. Jenny si meritava proprio un bel regalo.

Leo ci mise solo pochi minuti per scalzare le due Simmons dal vertice e spostarle oltre quota cento. Jenny si ritrovò al primo posto, con 48 voti di vantaggio sulla nuova numero due, l’attraente ma svampita Cissy Black.

In fondo, ragionò Leo, chi aveva stabilito che il cri-terio per eleggere una Miss dovesse essere unicamente quello della bellezza?

Radioso per la missione compiuta, uscì dal server della scuola cancellando ogni traccia del suo passaggio. Quindi chiuse il computer e recuperò l’ultimo libro del re del

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cyberpunk, William Gibson, in cui non vedeva l’ora di immergersi. Sentì suonare il campanello. Pochi istanti dopo, la casa fu invasa dalle voci squillanti e ridanciane di quelle che dovevano essere le amiche della nonna.

– Pensate… – stava dicendo nonna Sandra dopo che furono entrate – abbiamo una compagnia speciale, per questo Natale. È venuto a trovarci il nostro nipotino inglese, Leo. Ora lo chiamo, così ve lo presento…

– Oh, no! – esclamò Leo balzando subito in piedi. Una mattinata a base di cioccolatini e strizzate di guance come se avesse ancora cinque anni non l’avrebbe sopportata.

– Leo? – chiamò la nonna dal corridoio mentre si avvicinava. – Vieni, abbiamo ospiti.

Leo si guardò intorno in preda al panico cercando una via di fuga poi, non trovando niente di meglio, si gettò a terra. Rotolò sotto il letto un istante prima che la porta si aprisse.

– Leo, vuoi… Oh, ma qui non c’è nessuno –. Una nota di delusione nella voce. – Guarda che disordine… – sospirò la nonna. Entrò, quasi volesse mettersi a rasset-tare, spostò una seggiola, raccolse una maglia da terra, poi forse si ricordò che aveva ospiti e uscì dalla stanza.

– Ragazze, mi dispiace – disse rivolta alle amiche. – Leo dev’essere uscito con Giulio senza che me ne accorgessi.

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In effetti, avrebbe dovuto approfittare dell’offerta che a colazione gli aveva fatto nonno Giulio di accompagnar-lo a fare due passi per la città, ma ormai era tardi. Leo allungò la testa oltre il bordo del letto e guardò il cielo fuori dalla finestra. Quei nuvoloni non promettevano niente di buono, ma anche una tempesta di neve sarebbe stata meglio del “trattamento nonnine”.

Sgusciò silenzioso da sotto il letto, quindi si infilò il giaccone e afferrò lo zaino. Raggiunse a quattro zampe l’ingresso e sbirciò oltre lo stipite. Nella sala accanto, chiome imbiancate dondolavano ridacchiando oltre la spalliera dei divani. Come un marine in territorio nemico, Leo si accucciò di nuovo e sgattaiolò infine accanto alla porta, la aprì e senza fare rumori uscì sul pianerottolo. La richiuse con ogni cautela e sospirò. Ora era libero, anche se non aveva la minima idea di dove andare.

Come ogni giorno, da quando erano iniziate le vacanze natalizie, Cecilia Galli entrò nella saletta e si sedette in terra, a gambe incrociate, davanti al muro. Si sistemò gli occhiali con la montatura rossa e guardò dritta davanti a sé. La targa di marmo era sempre al suo posto, là in alto, e il testo che vi era inciso non era minimamente cambiato. Sarebbe stato ridicolo anche solo pensare il

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contrario, visto che era lì identico da secoli, ma ormai Cecilia era pronta a immaginare qualunque cosa pur di trovare una soluzione a quell’enigma.

Nel Castello il riscaldamento funzionava a tratti e in quelle sale faceva più freddo che altrove. Si sfilò comunque il cappotto e tolse dalla cartella il suo diario fitto di appunti e ritagli. Ne scorse le pagine e giunse a quella in cui aveva trascritto il testo della targa. Era in latino e diceva:

ATRA IN FINE SUO FIUNT OMNIA QUAE INTRA MORTALES

FELICITATEM HABUISSEVIDENTUR

Anche se faceva solo la terza media, seguiva un corso

facoltativo di latino e non le era stato difficile tradurre quelle parole. Significavano: “Triste diventa infine ogni cosa che fu creduta dai mortali felice”.

Era una riflessione sulla precarietà della vita: tutto prima o poi finisce, anche la felicità.

Cecilia sapeva che se quella frase si trovava in quella saletta del Castello Sforzesco c’era un motivo ben preciso. Proprio lì, infatti, il Duca di Milano Ludovico Sforza detto “il Moro”, così chiamato forse per il colorito della

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sua carnagione, aveva pianto nel 1497 la morte della giovane moglie Beatrice d’Este, deceduta a soli ventidue anni mentre cercava di dare alla luce il suo bambino. Le salette stesse erano definite “Negre” nei documenti dell’epoca, come a dire tristi, funeree.

Tutto chiaro e tutto logico. Ma Cecilia sapeva che c’era dell’altro. Quelle parole nascondevano un segreto e lei si stava scervellando da un paio di settimane per venirne a capo. Era stato il ritrovamento fortuito di un volumetto dedicato a Leonardo Da Vinci, dove era riprodotto un curioso foglio autografo mai segnalato da altri autori, a farle intuire che il genio toscano aveva inserito proprio lì un messaggio in codice di sorpren-dente importanza.

Immaginando dunque che il testo nascondesse qual-che significato segreto, aveva provato ogni sistema pos-sibile per decifrarlo. Aveva cercato di leggere una parola sì e una no, senza però ottenere nulla. Allora lo aveva letto partendo dal fondo per arrivare all’inizio: RUTNE-DIV ESSIUBAH METAT… Niente da fare, non aveva nessun senso. Aveva cercato di anagrammare le lettere all’interno delle singole parole, ma ancora niente.

Capovolse allora il diario, lo voltò e osservò il foglio in trasparenza alla luce fioca che filtrava dalle finestrelle della stanza.

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Lesse ad alta voce, ma nemmeno così sembrava fun-zionare.

Sbuffò e le venne un’altra idea. Tolse dalla cartella uno specchietto che si portava sempre appresso. Non lo aveva perché amasse particolarmente rimirarsi, ma poiché aveva spesso la testa tra le nuvole, e a volte si dimenticava persino di pettinarsi, la mamma le aveva suggerito di tenerlo in borsa per darsi un’occhiata ogni tanto e verificare se era almeno presentabile. Ora, però, le serviva per un altro motivo.

Prese il diario e lo mise davanti allo specchio, lesse così il messaggio che compariva:

No, decisamente non pareva più chiaro di prima. Aveva sperato che con qualcuno di quei sistemi potesse spuntare il messaggio nascosto, ma non e aveva cavato un ragno dal buco.

Ogni tentativo di decodificare quello che lei era con-vinta fosse un codice cifrato falliva e quella mattina, dopo

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FELICITATEM HABUISSEVIDENTUR

FELICITATEM HABUISSE VIDENTUR

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che anche i tentativi elaborati a casa la sera prima avevano fatto fiasco, sentiva che stava per venirle il mal di testa dalla frustrazione. Non sapeva più che pesci pigliare.

Sollevò gli occhi dalla pagina per cercare di snebbiarsi la mente.

Era sola, i turisti amavano visitare il Castello, ma pochi lo facevano a quell’ora del mattino. Solo il solito guardiano, un tipo alto e burbero, con tanti ciuffet-ti disubbidienti di capelli sul cranio che lo facevano somigliare a un gambo di sedano e che rispondeva al suo buongiorno con un grugnito, buttava ogni tanto lo sguardo verso di lei per accertarsi che fosse tutto a posto. Chissà che cosa pensava di una stramba ragazzina che preferiva trascorrere le vacanze di Natale seduta davanti a un muro piuttosto che a divertirsi o a fare shopping con le amiche.

Pensasse quel che voleva, a lei non importava. Ciò che contava era solamente…

– Scusa, ma ti sei accorta che le opere d’arte sono quelle cosette disposte nella sala e non il mattone che stai fissando da un’ora?

Una voce con un leggero accento straniero alle sue spalle la fece trasalire. Si voltò di scatto e vide in faccia lo stupido che l’aveva fatta spaventare. Era un ragazzotto con una frangia di capelli biondi che spuntava dal berretto

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e che sorrideva compiaciuto per la sua battuta idiota.Di solito Cecilia non aveva nessuna difficoltà a ri-

battere pan per focaccia a chi la provocava, ma quella volta rimase interdetta e non trovò nulla di meglio che fargli una linguaccia. Quindi si girò di nuovo a fissare le sue carte, mentre sentiva che il volto le andava a fuoco.

«Che tipa assurda!» pensò Leo mentre scrutava le spalle della ragazzina seduta in terra.

Era entrato al Castello dopo avere bighellonato un poco su via Dante. Lo aveva visto in fondo al viale, in tutta la sua imponenza, e aveva deciso di farci un salto. Ne aveva sentito così tanto parlare che non avrebbe potuto tornarsene a Londra senza dargli nemmeno un’occhiata. Le stanzone gli parevano interessanti, tut-te affrescate e piene di statue e fregi, ma lui di arte e di storia non capiva proprio un fico secco. Avrebbe sbrigato in fretta quel “dovere”. Pensava di farsi una rapida passeggiata tra le sale e poi se ne sarebbe andato a cercare un negozio di computer quando, infilando il naso nell’ennesima camera, aveva notato quella strana ragazza con gli occhiali rossi seduta in terra.

Doveva essere sua coetanea e, visto che non era pro-prio da buttare via, per un po’ l’aveva scrutata da lontano,

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immaginando che stesse studiando un dipinto famoso. Lei, tutta assorta, non si era nemmeno accorta che lui si era avvicinato. Ma quando aveva scoperto che l’oggetto del suo studio era un pezzo di marmo sporco, con sopra scritto qualcosa in qualche lingua morta e sepolta, non aveva resistito e le aveva fatto una battuta.

Doveva averla colta di sorpresa perché quella era stata in grado di fargli solo una smorfia. Trattenne una risatina e si avvicinò silenzioso.

Buttò gli occhi sul diario che lei teneva tra le mani, poi vide i libri che le spuntavano dalla cartella e quando si accorse di chi parlavano sbuffò sonoramente.

– Leonardo Da Vinci? Ma che noia! Di questo Leo- nardo non se ne può davvero più, tra un po’ ce lo tro-viamo pure nell’insalata!

Non l’avesse mai detto. La ragazzina si voltò verso di lui incenerendolo con lo sguardo.

– Come ti permetti di parlare così di Leonardo?– Ma io…– Leonardo è un genio! – esclamò lei alzandosi in

piedi. – E tu chi sei per parlare di lui in questo modo? Non vali nemmeno l’unghia del suo piede sinistro, se vuoi proprio saperlo.

Leo alzò le mani quasi a volersi difendere da quell’ag-gressione verbale. – Aspetta, forse non…

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Ma la ragazzina continuava senza sosta la sua filippica e avanzava verso di lui minacciosa agitando un dito. – Ti lamenti che ancora oggi si parli di Leonardo e magari non sai un’acca di lui! Sono passati cinquecento anni dalla sua morte, ma ancora lo studiamo e ancora riesce a sorprenderci, e sai perché?

– No, io veramente…– Perché quell’uomo è pieno di misteri e io – disse in-

dicando la lastra di marmo fissata al muro – sto cercando di risolvere uno di questi, anche se sembra impossibile. E tu mi vieni a parlare di mattoni e insalata? Bah!

Senza volerlo, Leo era arrossito. – Ehm… ti chiedo scusa, non volevo sembrarti maleducato.

La ragazzina, che forse si era accorta di avere esage-rato, si ritrovò a sua volta con le guance colorate di por-pora e si portò la mano alla bocca. – Ecco… – mormorò – l’ho fatto di nuovo. Mi sono lasciata trasportare e chissà quante te ne ho dette. Sono io a dovermi scusare, temo.

Leo si tolse il berretto. – Senti, facciamo che non è successo nulla –. Poi allungò la mano. – Tu come ti chiami? Io Leonardo.

L’espressione della ragazzina si tramutò all’istante da imbarazzata a furiosa. – Ma allora lo fai apposta! Non hai proprio niente di meglio da fare che stare qui a prenderti gioco di me?

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Leo rimase spiazzato, poi capì. – No, ti giuro. Leo-nardo è il mio vero nome, ma tutti mi chiamano Leo.

Lei lo scrutò sospettosa. – Ti chiami Leonardo… e non sopporti Leonardo Da Vinci?

– Forse è proprio perché ogni volta che dico il mio nome tutti mi paragonano a lui.

Finalmente, lei sembrò convincersi e gli prese la mano. – Piacere Leo, io mi chiamo Cecilia.

Aveva la mano calda e la pelle liscia come quella di una bambina. Era piacevole tenerla, ma quando lei alzò un sopracciglio Leo si accorse di avere indugiato un po’ troppo e la lasciò andare come fosse stato un ferro rovente.

– Dicevi che c’è un mistero impossibile? – chiese Leo cercando di riportare il discorso su binari meno imbarazzanti.

Lei lo guardò incuriosita per qualche istante. Stava sorridendo? Poi rispose alla sua domanda: – Sì, ma è qual-cosa di troppo complesso per spiegarlo in poche parole. Ti basti sapere che in quella targa credo sia nascosto un messaggio in codice. Solo che è impossibile decifrarlo.

– Impossibile, dici? Mah, vediamo. Io sono bravo a craccare i codici – sorrise Leo.

Cecilia gli rivolse uno sguardo di sufficienza. – Guarda, ho lavorato con quelle parole in ogni modo immaginabile. Le ho trascritte, capovolte, sostituite,

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anagrammate… dinne una e io l’ho fatta. Dubito tu riesca a proporre qualcosa di nuovo.

Punto nell’orgoglio, Leo scrutò la targa. Aveva capito che quel testo era in latino, ma avrebbe potuto pure essere aramaico antico, tanto non conosceva né l’uno né l’altro.

– Sai – disse poi tornando con lo sguardo sulla ragazza – a volte gli enigmi si risolvono più facilmente quando non li si affronta di petto.

Aveva bene in mente come quella mattina fosse ri-uscito a entrare nel sito della scuola, aggirandolo per l’appunto da un “ingresso” secondario.

– A volte – continuò – può addirittura essere utile partire da quello che sembra il verso sbagliato.

Cecilia sembrava interdetta, lo guardava come se fosse stato uno sciocco completo. Poi, di colpo, si riscosse come illuminata. – Ma certo! – esclamò tutta infervo-rata. – Come ho fatto a non arrivarci prima?

Leo non capiva che cosa stesse succedendo, aprì la bocca per fare una domanda, ma la frase successiva della ragazzina lo impietrì.

– Avanti – disse – fammi salire sulle tue spalle, così provo a staccare la targa dal muro.

– Sei impazzita?Cecilia ricambiò lo sguardo di Leo come se non avesse

capito le sue parole.

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– Che vuoi dire?Leo trasecolò. – Ti vuoi arrampicare sul muro per

staccare una targa che avrà centinaia d’anni?– Ma certo – rispose lei come se fosse la cosa più

naturale del mondo. – Ciò che hai detto mi ha fatto capire il mio errore. Confondevo il messaggio con il messaggero, Leonardo è stato così chiaro. A volte mi vergogno di essere tanto lenta di comprendonio!

– Frena, frena. Non ci sto capendo nulla.La ragazzina sospirò. – Senti, non ho tempo ora di

spiegarti tutto. C’è una guardia che gira per le sale e dobbiamo muoverci prima che torni. Ero convinta che il messaggio da decifrare fosse quello scritto sulla lastra, ma mi sbagliavo. Probabilmente il messaggio che mi interessa sta scritto sul retro.

– Il retro?Cecilia alzò gli occhi al cielo. – Ma sì, non l’hai detto

tu che per risolvere un enigma a volte conviene partire da quello che sembra il verso sbagliato? E dunque, mi gioco la camicia che quello che sto cercando si trova proprio sul retro della lastra. E ora, ti dispiace aiutarmi?

Leo si slacciò il giaccone. Forse era colpa del riscal-damento, ma gli sembrava che la temperatura in quella saletta fosse salita di dieci gradi. – Tu sei sicura di quello che fai, vero?

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Lei scrollò le spalle. – Nessuno può mai essere sicuro di niente a questo mondo.

Leo scosse la testa. – Non dirmi che sei pure fi-losofa.

– Dai – lo esortò lei. – Per quanto mi diverta il tuo strano accento e la conversazione con te si stia dimostran-do un autentico spasso, il tempo è prezioso. Controlla se la sala accanto è vuota.

Divertito, seppure poco convinto, Leo si trovò a obbedirle. C’era qualcosa in quella ragazzina che lo incuriosiva. All’inizio gli era sembrata solo una noiosa secchiona e non ci aveva pensato due volte a punzec-chiarla, poi però si era rivelata un tipetto più intrigante di quanto pensasse e ora era persino pronta a passare all’azione. L’avventura gli era sempre piaciuta, così sen-za fare altre domande si ritrovò a sbirciare nell’ampio salone adiacente.

Le pareti e il soffitto erano decorati con alberi e rami carichi di foglie e tralicci che si incrociavano sulla volta a creare una sorta di graticcio artificiale. Chissà, magari un tempo gli inquilini del Castello facevano i loro picnic in quella stanza quando fuori pioveva.

– Ti sei incantato? – lo richiamò Cecilia.– Cosa? No, eccomi. C’è solo un tizio mezzo addor-

mentato seduto su una seggiola là in fondo.

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– Sì, ho presente. Secondo me abbiamo ancora qual-che minuto, prima che il guardiano decida di alzarsi per il solito sopralluogo. Avanti, fatti sotto.

Leo avanzò verso Cecilia, incerto. Lei gli appoggiò le mani sulle spalle e lui si sentì di nuovo avvampare.

– Guarda che non voglio ballare con te – lo gelò su-bito Cecilia. – Sto aspettando che ti abbassi, così posso salirti sulle spalle.

– Ah, certo! – esclamò imbarazzato Leo e si chinò per farla salire.

Lei gli girò attorno e si sedette a cavalcioni sulle sue spalle. – Al galoppo, Tornado!

A Leo scappò una risatina, poi fece forza sulle gambe e si rialzò senza troppa fatica. Quella ragazzina sembrava una piuma, al confronto di Jenny.

– Ci sei? – le domandò in un sussurro.– Aspetta, sembra fissata al muro.Rimase là sopra per quella che gli sembrò un’eternità

e, ben presto, il suo peso, per quanto lieve, iniziò a farsi sentire.

– Senti bella, vorrei ricordarti che io sono qua sotto.– Ci sono… quasi – disse lei con voce affaticata. Leo non poteva alzare lo sguardo e non sapeva che

cosa stesse combinando lassù, ma da come Cecilia on-deggiava sembrava fosse necessaria molta più forza.

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– Cerca solo di non farmela cadere sulla testa, intesi?In quel momento risuonarono dei passi nel salone.– Muoviti, sta arrivando qualcuno!– Ancora… un… momento… – furono le parole

di Cecilia, prima che Leo sentisse un rumore che gli ricordò una forchetta trascinata su una lavagna. Poi, d’improvviso, la ragazzina ondeggiò forte e Leo riuscì a farla scendere dalle spalle evitando di finire entrambi lunghi distesi sul pavimento.

– Avevi… – fece solo in tempo a dire. Cecilia, tutta spettinata e con gli occhi spiritati, reg-

geva tra le mani la targa di marmo. Poi il suono acuto di una sirena d’allarme esplose in tutto il Castello.

– Per la miseriaccia! – esclamò Leo.– E ora, che facciamo? – gridò Cecilia per sovrastare

il baccano.Senza pensarci due volte, Leo afferrò la targa dalle

mani e se la infilò nello zaino. Poi raccolse al volo la cartella e il cappotto di Cecilia, prese la ragazza per mano e con lei infilò di corsa la porta.

Subito oltre l’uscio incrociarono un turista giappo-nese, confuso da tutto quel rumore. Del guardiano non c’era traccia. Cercando di non farsi troppo notare, acce-lerarono il passo verso l’uscita e nel giro di pochi minuti furono fuori. Due ladri di opere d’arte! Sconsolato, Leo

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si domandò quanti anni di galera stava rischiando per un reato del genere.

– Sì, è andata così le dico.Tazio Bindi, custode della Sala delle Asse al Castello

Sforzesco parlava con qualcuno al telefonino.– Glielo ripeto. Erano due ragazzini. La femmina

gironzolava qui da qualche giorno, ma pensavo fosse solo una fanatica di arte rinascimentale. Il maschio invece è la prima volta che lo vedo.

Tazio ascoltò il suo interlocutore con un’espressione perplessa. – Sì, si era già messa seduta a studiare nei giorni passati proprio nelle salette che dice lei, ma non mi sembrava così importante…

Poi la sua espressione si fece più preoccupata. – È vero, ha ragione, ho sbagliato. Avrei dovuto essere più attento… No, non lo so che cosa abbiano scoperto. Ero andato un attimo a… be’, insomma, ero andato al bagno quando d’improvviso si è messo a suonare l’allarme. Sono corso fuori a controllare e ho visto che i ragazzini non c’erano più. Solo che, entrato nelle Salette Negre, ho scoperto che la targa era sparita.

L’interlocutore parlava ancora, imbufalito, e Tazio allontanò il telefono dall’orecchio per attutire le urla.

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– Senta, che cosa vuole che ne sappia, sono spariti! Certo, ho disattivato io l’allarme e ho rassicurato le altre guardie. Ho detto che c’era stato un cortocircuito, ma presto o tardi qualcuno si accorgerà che manca la targa –. Tazio si grattò la testa scompigliando ancora di più i pochi capelli che aveva. – No, sono sicuro che saranno qua fuori. Ora andrò io stesso a controllare e… come dice? –. Tazio deglutì. – Come preferisce, ma io… No, certo che no. Farò come dice lei. Uscirò a cercarli e mi limiterò a tenerli d’occhio. Non farò nulla finché non arriverà la sua… ehm, squadra. Glielo prometto e… pronto? Pronto?

L’interlocutore all’altro capo della linea aveva riattac-cato. Tazio Bindi si allargò il colletto della camicia e si passò una mano sulla faccia sudata. Quindi assicuratosi di essere solo, si mise a correre come un pazzo verso l’uscita: doveva ritrovare subito quei ragazzi, ne andava della sua stessa incolumità.

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