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525 PASQUALE RUSSO* L’ESAME PRELIMINARE DEL RICORSO E LO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO SOMMARIO: SEZIONE PRIMA – L’esame preliminare del ricorso 1. Premessa: inquadramento dell’esame preliminare all’interno del procedimento giurisdizionale tributario – 2. Il conte- nuto dell’esame preliminare del ricorso e i requisiti formali del decreto presidenziale – 3. Il reclamo contro il decreto presidenziale – SEZIONE SECONDA – Lo svolgimento del processo 1. Premessa – 2. L’ordinario svolgimento del giudizio di primo grado – 3. Le vicende suscettibili di incidere sull’ordinario corso del giudizio – 3.1 La sospensione – 3.2 L’interruzione – 3.3 L’estinzione – 3.3.1 L’estinzione per rinuncia agli atti del processo – 3.3.2 L’estinzione per inattività delle parti –3.3.3 L’estinzione per cessazione della materia del contendere – 4. Le misure cautelari – 4.1 La sospensione dell’esecuzione dell’atto im- pugnato – 4.2 Le misure cautelari a favore dell’ente impositore: l’ipoteca ed il sequestro conservativo – 5. La conciliazione giudiziale – 5.1 I procedimenti conciliativi: a) i tratti comuni – 5.1.1 segue b) le differenze fra la conciliazione “abbreviata” e quella “ordinaria” – 5.2 Gli effetti della conciliazione e la sentenza che definisce il giudizio. SEZIONE PRIMA: L’ESAME PRELIMINARE DEL RICORSO 1. Premessa: inquadramento dell’esame preliminare all’interno del procedimento giurisdizionale tributario L’esame preliminare del ricorso identifica l’istituto, del tutto peculiare del pro- cesso tributario, recato e disciplinato dal titolo II, capo I, sezione II del D.Lgs. n. 546/92 e in forza del quale, giusta la proposizione di un ricorso innanzi agli organi della giurisdizione tributaria e dopo che sia decorso il termine fissato per la costituzione della parte resistente, il presidente della sezione cui la controversia sia stata assegnata viene investito del compito di verificare la regolarità formale del ricorso de quo e della successiva costituzione in giudizio da parte del ricorrente, nonché l’eventuale esistenza di cause di sospensione, interruzione o estinzione. Questa fase del processo, ove abbia esito positivo, si chiude con la fissazione della data di discussione (art. 30, D.Lgs. n. 546/92); diversamente, il presidente della sezione dichiarerà con decreto l’inammissibilità del ricorso ovvero la so- spensione, l’interruzione o l’estinzione del giudizio (art. 27). È evidente, già prima facie, la razionalità di economia processuale sottesa all’istituto in parola; onde comprendere, invece, i contenuti e l’effettiva portata dello stesso, giova dapprima ricordare – sia pur in estrema sintesi – l’iter pro- cedimentale che precede questa particolare fase del processo tributario, nonché i caratteri strutturalmente caratterizzanti quest’ultimo. In proposito e anzitutto, è essenziale tenere alla mente come il giudizio tribu- (*) Università degli Studi di Firenze.

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Pasquale Russo*

L’esame preLiminare deL ricorso e Lo svoLgimento deL processo

Sommario: seZIoNe PRIMa – l’esame preliminare del ricorso 1. Premessa: inquadramento dell’esame preliminare all’interno del procedimento giurisdizionale tributario – 2. Il conte-nuto dell’esame preliminare del ricorso e i requisiti formali del decreto presidenziale – 3. Il reclamo contro il decreto presidenziale – seZIoNe seCoNDa – lo svolgimento del processo 1. Premessa – 2. l’ordinario svolgimento del giudizio di primo grado – 3. le vicende suscettibili di incidere sull’ordinario corso del giudizio – 3.1 la sospensione – 3.2 l’interruzione – 3.3 l’estinzione – 3.3.1 l’estinzione per rinuncia agli atti del processo – 3.3.2 l’estinzione per inattività delle parti –3.3.3 l’estinzione per cessazione della materia del contendere – 4. le misure cautelari – 4.1 la sospensione dell’esecuzione dell’atto im-pugnato – 4.2 le misure cautelari a favore dell’ente impositore: l’ipoteca ed il sequestro conservativo – 5. la conciliazione giudiziale – 5.1 I procedimenti conciliativi: a) i tratti comuni – 5.1.1 segue b) le differenze fra la conciliazione “abbreviata” e quella “ordinaria” – 5.2 Gli effetti della conciliazione e la sentenza che definisce il giudizio.

SEZioNE Prima: L’ESamE PrELimiNarE DEL riCorSo

1. Premessa: inquadramento dell’esame preliminare all’interno del procedimento giurisdizionale tributario

l’esame preliminare del ricorso identifica l’istituto, del tutto peculiare del pro-cesso tributario, recato e disciplinato dal titolo II, capo I, sezione II del D.lgs. n. 546/92 e in forza del quale, giusta la proposizione di un ricorso innanzi agli organi della giurisdizione tributaria e dopo che sia decorso il termine fissato per la costituzione della parte resistente, il presidente della sezione cui la controversia sia stata assegnata viene investito del compito di verificare la regolarità formale del ricorso de quo e della successiva costituzione in giudizio da parte del ricorrente, nonché l’eventuale esistenza di cause di sospensione, interruzione o estinzione.

questa fase del processo, ove abbia esito positivo, si chiude con la fissazione della data di discussione (art. 30, D.lgs. n. 546/92); diversamente, il presidente della sezione dichiarerà con decreto l’inammissibilità del ricorso ovvero la so-spensione, l’interruzione o l’estinzione del giudizio (art. 27).

È evidente, già prima facie, la razionalità di economia processuale sottesa all’istituto in parola; onde comprendere, invece, i contenuti e l’effettiva portata dello stesso, giova dapprima ricordare – sia pur in estrema sintesi – l’iter pro-cedimentale che precede questa particolare fase del processo tributario, nonché i caratteri strutturalmente caratterizzanti quest’ultimo.

In proposito e anzitutto, è essenziale tenere alla mente come il giudizio tribu-

(*) Università degli Studi di Firenze.

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tario si connoti alla stregua di un giudizio “da ricorso”, potendo l’attore proporre la propria domanda solo nelle forme dell’impugnazione; ciò ancorché – lo si os-serva per inciso e senza possibilità di precisare meglio, in questa sede, l’estrema rilevanza della questione – a tali forme non corrisponda l’effettivo contenuto dell’azione, al riguardo essendo appena il caso di osservare che:

- in taluni casi (qual è quello del diniego tacito di restituzione dei tributi) l’impugnazione non è affatto diretta contro un vero atto;

- peraltro e a ben vedere, pure negli altri casi, a ben vedere, essa mira non già all’annullamento del provvedimento impugnato bensì ad accertare la fonda-tezza di una pretesa costituente oggetto di controversia tra le parti.

la sopraddetta struttura impugnatoria, com’è noto, trova fondamento nell’art. 19, comma primo del D.lgs. n. 546/92, il quale, con elencazione tassativa (seb-bene la tassatività de qua vada intesa in termini che non escludono un certo margine di “tolleranza”, anche sub specie – a certe condizioni – di estensione per via d’interpretazione analogica), individua gli atti suscettibili di essere impugnati innanzi agli organi giurisdizionali tributari.

quindi, posto che si versi entro i confini della giurisdizione tributaria (art. 2, D.lgs. n. 546/92) e che venga in rilievo un atto suscettibile d’impugnazione, è senz’altro dato proporre ricorso contro quest’ultimo innanzi alla commissione tributaria territorialmente competente.

al proposito e più in particolare, dal combinato disposto degli artt. 16 e 20 del più volte citato D.lgs. n. 546 si ricava che la proposizione del ricorso deve avvenire mediante notifica, la quale può essere effettuata: a) secondo le dispo-sizioni contenute negli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile (salvo quanto previsto dall’art. 17 circa il luogo della notificazione); b) a mezzo del servizio postale mediante spedizione del ricorso in plico raccomandato sen-za busta con avviso di ricevimento; c) nei confronti degli uffici del Ministero delle finanze (oggi delle agenzie) e degli enti locali, mediante consegna dell’atto all’impiegato addetto che ne rilascia ricevuta sulla copia.

l’art. 22 del medesimo decreto, poi, dispone che, entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso, il ricorrente, a pena d’inammissibilità, debba deposita-re presso la segreteria della commissione tributaria adita l’originale del ricorso notificato ai sensi degli artt. 137 ss. c.p.c. ovvero copia del ricorso consegnato o spedito per posta, con fotocopia della ricevuta di deposito o della spedizione della raccomandata a mezzo del servizio postale; nel contempo, altresì, lo stesso è tenuto a depositare il proprio fascicolo contenente l’originale o la fotocopia dell’atto impugnato, nonché gli eventuali documenti prodotti anch’essi in origi-nale o in fotocopia.

Giova sottolineare che l’inammissibilità del ricorso per omessa rituale costitu-zione in giudizio è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo e non è sanata dalla costituzione di parte resistente. Identica inammissibilità, d’altronde, è comminata per l’ipotesi di ricorso proposto mediante consegna o spedizione postale allorquando, nonostante l’attestazione di conformità cui il ricorrente è tenuto in tali casi, l’atto depositato nella segreteria della commissione risulti dif-forme – a mio avviso, pur nel silenzio della legge, in termini sostanziali e non formali o marginali – rispetto a quello consegnato o spedito alla controparte.

quanto ai requisiti di contenuto, l’art. 18, comma secondo del D.lgs. n. 546/92 esige che il ricorso indichi:

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a) la commissione cui è diretto;b) il ricorrente e il suo legale rappresentante, la relativa residenza o sede

legale o il domicilio eventualmente eletto nel territorio dello stato, nonché il codice fiscale;

c) l’ufficio del Ministero dell’economia e delle finanze (oggi dell’agenzia) o l’ente locale o il concessionario del servizio della riscossione nei cui confronti il ricorso è proposto;

d) l’atto impugnato e l’oggetto della domanda;e) i motivi d’impugnazione.Giusta il disposto del comma 3 dello stesso articolo, inoltre, tanto l’originale

quanto la copia del ricorso debbono recare la sottoscrizione del difensore di par-te ricorrente nonché l’indicazione dell’incarico conferito a quest’ultimo a norma dell’art. 12, terzo comma, salvo che il ricorso non sia sottoscritto personalmente dalla parte (s’intende: nelle ipotesi in cui il contribuente è legittimato ad agire senza l’assistenza tecnica).

a tenore dell’art. 18, quarto comma, il ricorso è inammissibile qualora manchi o sia assolutamente incerta una delle indicazioni precedentemente esaminate, a eccezione di quelle concernenti il codice fiscale e l’elezione di domicilio o la di-chiarazione della residenza (nel qual ultimo caso, le notificazioni e comunicazioni degli atti processuali avvengono presso la segreteria della commissione adita).

analoga sanzione d’inammissibilità, peraltro, è prevista con riguardo al ricor-so privo della prescritta sottoscrizione. Merita precisare che la mancata sottoscri-zione da parte del difensore – là dove il conferimento dell’incarico sia obbligato-rio – configura un’ipotesi d’invalidità insanabile dell’atto introduttivo del giudizio e determina la conseguente inammissibilità del ricorso (di talché, non può non rilevarsi, anche qui e necessariamente solo per inciso, come si disveli del tutto disarmonica rispetto alla disciplina positiva la tesi – inspiegabilmente elaborata dalla Corte Costituzionale e dalla suprema Corte facendo leva sulla previsione della possibilità di conferire l’incarico oralmente in udienza e/o su istanza del giudice – secondo cui il ricorso sottoscritto personalmente dalla parte, là dove essa sia obbligata a farsi assistere da un difensore abilitato, possa essere rego-larizzato mediante l’attribuzione della rappresentanza in una fase successiva e, eventualmente, su impulso dell’organo giudicante).

Con la notifica e il successivo deposito del fascicolo di parte presso la segre-teria della commissione, quindi, il ricorrente esaurisce gli adempimenti necessari ai fini della propria costituzione.

È l’art. 23 del D.lgs. n. 546, invece, a disciplinare la costituzione in giudizio del resistente, prescrivendo che essa deve:

- avvenire entro il termine di sessanta giorni da quello in cui il ricorso sia stato notificato dall’ufficiale giudiziario, ovvero consegnato, ovvero ricevuto per il tramite del servizio postale;

- essere effettuata mediante deposito, presso la segreteria della commissione, del fascicolo contenente le controdeduzioni (in tante copie quante sono le parti del giudizio) e i documenti offerti in comunicazione; in questa sede, in partico-lare, la parte resistente provvede a esporre le proprie difese, prendendo posizione sui motivi dedotti dal ricorrente, e a indicare le prove delle quali intende valersi, proponendo anche le eventuali eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio e instando, se del caso, per la chiamata di terzi in causa.

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Nonostante il sopra ricordato termine di 60 giorni dalla notifica del ricorso, la costituzione del resistente (quantomeno ai fini della partecipazione al processo e salva la diversa questione delle preclusioni che possono discendere in funzione della tardività con cui si provveda a costituirsi) resta possibile, anche decorsi gli anzidetti 60 giorni, fino alla scadenza del termine per il deposito delle memorie, se la trattazione è prevista in camera di consiglio, ovvero fino all’inizio della discussione, se la trattazione si svolge in pubblica udienza.

Infine, vi è solo da rammentare che, ai sensi dell’art. 25 del decreto n. 546, in conseguenza della costituzione del ricorrente, la segreteria della commissione:

- provvede ad iscrivere il ricorso nel registro generale,- forma il fascicolo d’ufficio del processo- e sottopone quest’ultimo al presidente della commissione tributaria.Dopodiché e da ultimo, il presidente della commissione, giusta la previsione

del successivo art. 26, “assegna il ricorso ad una delle sezioni”.

2. Il contenuto dell’esame preliminare del ricorso e i requisiti formali del decreto presidenziale

l’art. 27 del D.lgs. n. 546, al comma primo, dispone: “il presidente della sezio-ne [cui il ricorso è stato assegnato], scaduti i termini per la costituzione in giu-dizio delle parti, esamina preliminarmente il ricorso e ne dichiara l’inammissibilità nei casi espressamente previsti, se manifesta”; ai sensi del comma secondo, poi, lo stesso “presidente, ove ne sussistano i presupposti, dichiara … la sospensione, l’interruzione e l’estinzione del processo”; infine, il comma terzo prescrive che “i provvedimenti di cui ai commi precedenti hanno forma di decreto e sono soggetti a reclamo innanzi alla commissione”.

anzitutto, dunque, l’esame preliminare del ricorso, da parte del presidente della sezione cui il medesimo sia stato assegnato, si dirige alla verifica circa la presenza di cause d’inammissibilità espressamente previste e manifeste.

orbene, sul punto la prima notazione che s’impone non può che risolversi nel rilievo per cui, alla stregua di quanto statuisce la disposizione sopra citata, l’esame preliminare de quo costituisce fase del processo tributario suscettibile di concludersi con una pronuncia (di mero rito) astrattamente idonea a definire il giudizio; e ciò, a ben guardare, induce una considerazione essenziale, ossia che, in esito a tale esame, può pervenirsi all’anzidetta definizione sulla base di un provvedimento emanato inaudita altera parte e in forma monocratica.

Per quanto la deroga al principio della collegialità della decisione e del con-traddittorio sia, ovviamente, non assoluta – essendo il decreto in parola suscet-tibile di reclamo e, quindi, di un esame, nello stesso grado di giudizio, da parte del collegio e in contraddittorio fra le parti –, l’indicata peculiarità impone ne-cessariamente d’interpretare in termini restrittivi le condizioni che legittimano la dichiarazione d’inammissibilità del ricorso; in particolare – lo si ricorda per l’en-nesima volta –, è richiesto che si versi in ipotesi di inammissibilità che siano:

- espressamente previste;- manifeste.Tanto posto, così, pare senz’altro condivisibile l’avviso fatto proprio da ampia

parte della dottrina nel senso di ritenere che il requisito dell’espressa previsio-

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ne valga a rendere passibili di fondare il provvedimento presidenziale di cui al primo comma dell’art. 27 cit. solo le cause d’inammissibilità testualmente qua-lificate come tali dal decreto del processo tributario, e dunque, per quanto si è ricordato brevemente supra, quelle dovute a:

- mancanza o assoluta incertezza di una delle indicazioni di cui all’art. 18, comma 2;

- mancanza della sottoscrizione della parte o del legale rappresentante;- mancato rispetto dei termini per la proposizione del ricorso e per la costi-

tuzione in giudizio ai sensi degli artt. 21 e 22.D’altra parte, l’esame preliminare concerne anche il riscontro sull’esistenza di

eventuali ragioni di sospensione (si pensi all’ipotesi della proposizione di una querela di falso), ovvero d’interruzione (come nel caso di perdita della capacità di stare in giudizio da parte del contribuente) ovvero d’estinzione del giudizio (ad esempio, in conseguenza di un’intervenuta rinuncia al ricorso). su queste avremo modo di tornare più approfonditamente oltre, trattando dell’ulteriore svolgimento del processo di primo grado; per intanto, tuttavia, merita osserva-re che le cause d’interruzione, sospensione ed estinzione possono insorgere nel corso dell’intero giudizio e che, ove siano rilevate in sede di esame preliminare, esse saranno dichiarate sempre con decreto del presidente di sezione, reclama-bile innanzi al collegio.

Problemi peculiari sono rinvenibili, poi, in ordine alla forma del provvedi-mento presidenziale. Infatti, anche se l’art. 135, comma 4 c.p.c. dispone, con previsione generale, che i decreti presidenziali non debbono essere motivati, nel caso in esame la necessità di una motivazione, ancorché succinta, del provve-dimento assunto in sede di esame preliminare del ricorso discende dalla natu-ra «decisoria» dello stesso e, anzi, si rende indispensabile sol che se ne tenga presente la reclamabilità. e ciò, evidentemente, tanto nei casi in cui venga di-chiarata l’inammissibilità, quanto in quelli nei quali sia disposta la sospensione, l’interruzione o l’estinzione del processo.

3. Il reclamo contro il decreto presidenziale

Posto che il decreto col quale può concludersi l’esame preliminare è sempre suscettibile di reclamo ai sensi del sopra richiamato comma terzo dell’art. 27, è il seguente art. 28 a disciplinare le forme e le modalità di tale reclamo. Più nel dettaglio, così, viene stabilito che:

- il reclamo si propone mediante notifica alle altre parti costituite da eseguirsi nelle forme di cui all’art. 20, commi 1 e 2, entro il termine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione ad opera della segreteria (comma 1);

- il reclamante, nel termine perentorio di quindici giorni dall’ultima notifi-cazione e a pena d’inammissibilità rilevabile d’ufficio, deve depositare l’atto di reclamo secondo le stesse modalità che regolano il deposito dei ricorsi (comma 2);

- nei quindici giorni successivi alla notifica del reclamo le altre parti possono presentare memorie (comma 3);

- scaduti i termini, la commissione decide immediatamente in camera di consiglio (comma 4): con sentenza, se dichiara l’inammissibilità del ricorso o

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l’estinzione del processo; con ordinanza non impugnabile (nella quale debbono essere dati i provvedimenti per la prosecuzione del processo), negli altri casi.

SEZioNE SECoNDa: Lo SVoLGimENTo DEL ProCESSo

1. Premessa

s’intende, adesso, trattare lo sviluppo del giudizio di primo grado. al riguar-do, per maggiore chiarezza espositiva, si considererà, dapprima, l’iter – per così dire – “ordinario” di questo; a seguire, poi, affronteremo le ulteriori ed eventuali vicende suscettibili di collegarsi o d’innestarsi sul medesimo (ad esempio e ri-spettivamente, in funzione della presenza di esigenze cautelari, ovvero a cagione del verificarsi di cause interruttive, sospensive o estintive).

2. L’ordinario svolgimento del giudizio di primo grado

Cominciamo, dunque, col prendere in considerazione quello che, per como-dità di linguaggio, abbiamo indicato come l’iter “ordinario” di svolgimento del processo di primo grado.

si sono già viste le regole che presiedono all’instaurazione del giudizio me-diante la notifica del ricorso e la successiva costituzione di parte ricorrente; del pari, si è già richiamata la disciplina che regolamenta i termini e le modalità di costituzione del resistente, per poi rilevare, da ultimo, come, scaduti i termini per la costituzione delle parti, il presidente della sezione è investito del compito di svolgere una delibazione preliminare del ricorso; ove non rilevi la presenza di cause d’inammissibilità, ovvero di estinzione, sospensione o interruzione, lo stesso provvede – a norma dell’art. 30 del D.lgs. n. 546 – alla fissazione della data di trattazione della controversia nonché alla nomina del relatore.

a tale punto, la segreteria della commissione deve dare comunicazione alle sole parti costituite della data di trattazione almeno trenta giorni liberi prima; analogo avviso deve essere comunicato quando la trattazione sia stata rinviata dal presidente in caso di giustificato impedimento del relatore, che non possa es-sere sostituito, o di alcuna delle parti o per esigenze del servizio (cfr. art. 31).

Prima di considerare le regole che disciplinano la trattazione, debbono af-frontarsi le norme relative alle ulteriori (rispetto al ricorso introduttivo e alle controdeduzioni) attività difensive delle parti.

ebbene, anzitutto, a queste ultime è consentito il deposito di documenti fino a venti giorni liberi prima della data di trattazione del ricorso. Tali documenti, più nel dettaglio, debbono essere elencati negli atti di parte cui sono allegati ovvero, se prodotti separatamente, in apposita nota sottoscritta da depositare in originale e in un numero di copie in carta semplice pari a quello delle altre parti (art. 24, comma primo, e art. 32, comma primo).

Tanto il ricorrente quanto il resistente, inoltre e fino a dieci giorni liberi pri-ma della data di cui sopra, possono depositare memorie illustrative dei propri

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argomenti difensivi con le copie per le altre parti (art. 32, comma secondo). In caso di trattazione della controversia in camera di consiglio, peraltro, sono consentite brevi repliche scritte fino a cinque giorni liberi prima della data della camera di consiglio (art. 32, comma terzo).

assai più ristretta rispetto alla previgente disciplina è la facoltà riconosciuta al ricorrente di integrare i motivi dedotti nell’atto introduttivo del giudizio, me-diante la proposizione dei c.d. motivi aggiunti.

ai sensi del comma secondo dell’art. 24, infatti, tale integrazione è ammessa (analogamente a quanto previsto nell’ambito del processo amministrativo) soltan-to se resa necessaria dal deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine del giudice. essa (integrazione) deve avvenire entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla data in cui l’interessato ha notizia di detto deposito. qualora sia stata già fissata la trattazione della controversia, il ricorrente deve dichiarare, a pena d’inammissibilità e non oltre la trattazione in camera di consiglio o la discussione in pubblica udienza, che intende proporre motivi aggiunti; in tal caso, la trattazione o l’udienza devono essere rinviate ad altra data per consentire siffatta integrazione.

sul piano procedurale, l’ultimo comma dell’art. 24 stabilisce che i motivi aggiunti devono essere proposti mediante la notifica di apposito atto, recante, in quanto compatibile, lo stesso contenuto del ricorso; con riguardo all’ulteriore attività, vengono poi richiamati gli artt. 22 e 23 sulla costituzione in giudizio del ricorrente e della parte resistente, la quale ultima può presentare controde-duzioni onde esporre le proprie difese in ordine ai motivi aggiunti.

Incidentalmente – e per quanto la questione rischi di esondare rispetto all’og-getto di questa lezione –, è opportuno che sia rimarcata la peculiarità del giu-dizio tributario che si è appena esposta.

anzitutto, merita ricordare che nel nostro processo i c.d. motivi del ricor-so identificano concettualmente un elemento a se stante rispetto alla domanda. abbiamo visto, in effetti, come l’art. 18 del decreto n. 546, al comma secondo, individui tra gli elementi che costituiscono contenuto necessario dell’atto intro-duttivo del giudizio tanto l’oggetto della domanda quanto i motivi; e la circo-stanza che tali elementi siano menzionati separatamente dalla norma fornisce, già di per sé, un’indicazione inequivoca circa la necessità di considerare distin-tamente le due nozioni.

orbene, quanto alla domanda (individuata dai consueti elementi del petitum, della causa petendi e dei soggetti), la fissazione di essa spetta in via esclusiva al ricorrente; di talché, si suole dire che il giudizio tributario non solo è ispirato al principio dispositivo per quanto riguarda la determinazione del relativo ogget-to ma, altresì, soggiace anche, sotto tale profilo, ad un rigoroso monopolio del ricorrente, essendo precluso al resistente alcun allargamento dell’oggetto stesso. e in effetti, al riguardo, vi è solo da rammentare che: da un lato, la giurispru-denza è unanime nell’escludere la proponibilità, nel nostro giudizio, di doman-de riconvenzionali; dall’altro lato, poi, è anche preclusa all’ente impositore ogni integrazione o modifica dell’atto impugnato.

Passando a considerare i motivi, essi comprendono ogni genere di allegazio-ni difensive volte a contestare la fondatezza della pretesa dell’ente impositore e possono risolversi in mere argomentazioni di diritto circa la più corretta inter-pretazione di una norma, ovvero contenere anche l’allegazione di fatti costitutivi,

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modificativi, estintivi o impeditivi di un effetto giuridico. Nell’uno, come negli altri casi, la presenza di siffatte contestazioni è sufficiente a rendere il ricorso “motivato” e, quindi, ammissibile alla stregua della disciplina in esame.

Come può desumersi agevolmente dal sopra considerato art. 24, comma se-condo, si vede bene che il nostro giudizio soggiace ad un divieto assai rigoroso (pur con la deroga considerata antea) anche in tema di ampliamento dei motivi indicati nell’atto introduttivo, restando assolutamente preclusa l’integrazione dei motivi in generale, ossia indipendentemente dal fatto che, per effetto di essa, si produca pure modificazione della domanda.

Tale configurazione costituisce un tratto distintivo assai rilevante del nostro processo rispetto agli altri settori del diritto processuale, nei quali, in effetti e in genere, non sussiste una rigida predeterminazione delle questioni oggetto di cognizione fin dall’atto introduttivo.

la ragione di questa diversità deve rinvenirsi senz’altro, in primo luogo, sul piano della concreta esperienza processuale e intendersi alla stregua della de-bita reazione, delineatasi fin dagli anni ’80 del secolo XX, all’abuso dei cosid-detti ricorsi meramente interruttivi, ossia degli atti, proposti entro il termine d’impugnazione, contenenti una contestazione del tutto generica della pretesa dell’ente impositore con l’apposizione di una riserva di successive integrazioni e argomentazioni difensive.

Tuttavia, la differenza in esame ha anche una ragione più profonda che si col-loca sul piano dei principi e che deve essere adeguatamente valorizzata anche al fine di un corretto inquadramento della complessiva disciplina dei motivi. a mio giudizio, infatti, la necessità di una completa e non ulteriormente modificabile predeterminazione di questi ultimi costituisce il necessario pendant dell’obbligo di motivazione degli atti impugnabili e del divieto imposto all’ente impositore di integrare la motivazione mediante l’allegazione di nuovi fatti costitutivi della pretesa. Detto altrimenti, i due divieti (quello d’integrazione della motivazione e quello d’allargamento dei motivi) sono reciprocamente complementari e con-corrono a realizzare un’effettiva parità del ricorrente e del resistente nella fase processuale sotto il profilo del principio del contraddittorio.

Chiusa questa breve digressione, e per completare l’iter del primo grado di giudizio, affrontiamo ora la fase della trattazione della causa.

orbene, con norma della cui legittimità costituzionale non si è mancato di dubitare (peraltro, la Corte Costituzionale ha escluso, con sentenza n. 141 del 23 aprile 1998, che essa contrasti, in specie, con l’art. 101 Cost.), l’art. 33 stabilisce che, di regola, la trattazione avviene in camera di consiglio. In particolare, è previsto che il relatore esponga al collegio, senza la presenza delle parti, i fatti e le questioni della controversia; e che di tale trattazione venga redatto processo verbale dal segretario.

Tuttavia, le parti, fino a dieci giorni liberi prima della data di trattazione del ricorso, possono richiedere la discussione in pubblica udienza con apposi-ta istanza da depositare in segreteria e da notificare alle altre parti costituite; istanza che, a parer mio, può essere contenuta anche nel ricorso, non ostando a ciò, come invece ritiene parte della dottrina, l’aggettivo “apposita” adoperato dall’art. 33, che non si presta ad essere inteso nel senso di “autonoma” e quindi come espressivo della necessità che l’istanza predetta debba costituire oggetto

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di un atto formalmente a se stante. In tal caso, il relatore espone in pubblica udienza i fatti e le questioni della controversia e, quindi, il presidente ammet-te alla discussione le parti presenti; dell’udienza è redatto processo verbale dal segretario.

la commissione può disporre il differimento della discussione a udienza fis-sa, su istanza della parte interessata, qualora la sua difesa tempestiva, scritta o orale, sia resa particolarmente difficile a causa dei documenti prodotti o delle questioni sollevate dalle altre parti; ove detto rinvio venga concesso, è previsto che non sia data comunicazione dell’avviso di trattazione quando il differimento è disposto in udienza alla presenza di tutte le parti costituite.

esaurita la trattazione della controversia, infine e naturalmente, il giudice deciderà.

3. Le vicende suscettibili di incidere sull’ordinario corso del giudizio

Prima che la causa pervenga al suo naturale epilogo, con la pronuncia della propria decisione da parte della commissione provinciale adita, possono verifi-carsi alcune vicende suscettibili d’incidere sull’ordinario corso del giudizio

a tal proposito, vengono in considerazione gli istituti della sospensione, dell’interruzione e dell’estinzione del processo, ai quali è dedicata la sezione terza del titolo secondo del decreto delegato sul contenzioso tributario. Val la pena ricordare che l’espressa previsione e disciplina delle vicende menzionate co-stituisce un’incisiva e radicale innovazione rispetto al regime previgente, giacché il D.P.R. n. 636 del 1972 conosceva soltanto una specifica ipotesi di estinzione e non riservava alcuna disposizione all’interruzione e alla sospensione.

3.1. La sospensione

Prendendo le mosse dalla sospensione, va anzitutto chiarito che essa consiste in un momentaneo arresto dello svolgimento del processo, che determina una sorta di stato di quiescenza del medesimo durante il quale è precluso il compi-mento di qualsiasi attività e, al contempo, è annullato ad ogni effetto il decorso del tempo, dal momento in cui la sospensione è disposta dal giudice a quello nel quale la medesima viene a cessare.

l’art. 39 del decreto legislativo n. 546 individua le circostanze che impongono al giudice tributario di disporre la sospensione: trattasi, in specie, delle ipotesi nelle quali è presentata querela di falso – alla quale è equiparato per estensione analogica, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, il discono-scimento della scrittura privata – o deve essere decisa in via pregiudiziale una questione sullo stato o sula capacità delle persone, esclusa peraltro la capacità di stare in giudizio.

Il legislatore delegato, quindi, si è uniformato alla disciplina dettata per il contenzioso amministrativo (cfr. art. 8, secondo comma della l. 6 dicembre 1971, n. 1034 sul giudizio dinanzi ai tribunali amministrativi regionali e art. 28, ultimo comma del R.D. 26 giugno 1924, n. 1054 sul giudizio dinanzi al Consiglio di stato). e in effetti, l’art. 39 sopra citato, nel momento in cui esclude l’obbligo per la commissione di sospendere il processo allorché si tratti di questioni, da un lato, diverse rispetto a quelle da esso espressamente menzionate e, dall’al-

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tro, del pari pendenti davanti ad un giudice diverso, qual è per l’appunto ed in specie il giudice ordinario, reca in sé implicito l’ampliamento della sfera della giurisdizione del giudice tributario, la quale viene ad essere estesa alla cognizio-ne, seppure in via meramente incidentale, di dette ultime questioni; ciò che è quanto oggi dispone in termini espliciti l’art. 2 del decreto 546, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 448 del 2001.

Tanto premesso e precisato, si deve far presente che sull’interpretazione della norma in esame si è manifestato un contrasto netto tra dottrina e giurispruden-za. la prima, invero e salvo poche eccezioni, ritiene che con essa (norma) il le-gislatore abbia inteso escludere l’operatività, nel processo tributario, dell’art. 295 c.p.c., in forza del quale il giudice dispone che il giudizio sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice debba risolvere una controversia dalla cui definizione dipenda la decisione della causa (cosiddetta sospensione necessaria per pregiudizialità); mentre la seconda, nelle sue massime istanze, ha espresso ripetutamente l’avviso che il divieto di sospensione di cui all’art. 39 del decreto n. 546 concerne soltanto i casi di pregiudizialità esterna, e quindi di controver-sie pendenti davanti a giurisdizioni diverse; non, invece, quelli di pregiudizialità interna, ossia in cui sia la causa pregiudiziale sia la causa dipendente pendono entrambe davanti al giudice tributario.

Volendo prendere posizione sulla disputa, occorre rammentare che il sistema delineato in sede di disciplina del processo civile tende a salvaguardare al massi-mo il valore dell’armonia delle decisioni, evitando il rischio di giudicati contrad-dittori. Tale finalità risulta perseguita dal legislatore, in prima battuta, favorendo per quanto possibile il simultaneus processus in ordine alle cause connesse, ivi comprese quelle fra le quali sussiste un rapporto di pregiudizialità-dipendenza (artt. 34 e 40 c.p.c.); quando, poi, la trattazione congiunta non è possibile, per la sussistenza di “competenze forti” o perché le cause connesse pendono in gra-di diversi del giudizio, entra in azione l’art. 295 c.p.c., il quale, per garantire il raggiungimento dell’obbiettivo suddetto, contempla la sospensione necessaria del processo sulla causa dipendente fino al passaggio in giudicato della sentenza emessa in ordine alla causa pregiudiziale. alla luce di siffatto quadro normativo, è dunque certamente condivisibile l’affermazione di autorevole dottrina secondo cui nell’ordinamento processuale civile il giudice della situazione dipendente ha il potere di conoscere incidentalmente della situazione pregiudiziale, tranne allor-quando quest’ultima è dedotta in giudizio in via principale; onde, deve ritenersi che detto ordinamento non ammette una cognizione incidenter tantum della si-tuazione pregiudiziale formante oggetto di separata controversia.

questi rilievi possono essere di grande aiuto per risolvere il nostro problema. quali che siano state le intenzioni sottese alla formulazione dell’art. 39 del decre-to n. 546, tale disposizione non si presta a essere intesa in modo certo e univoco nel senso della non applicabilità al processo tributario dell’art. 295 c.p.c.. D’altra parte, l’art. 39 non resta privato di qualunque portata ove si aderisca alla tesi giurisprudenziale, poiché, da un lato, esso è servito a fondare fin dall’emanazione del decreto delegato il potere di cognizione incidentale del giudice tributario in ordine alle questione rientranti nella giurisdizione del giudice ordinario; e, dall’al-tro, ha consentito l’esplicazione di tale potere pur quando tali ultime questioni formino oggetto di controversia in via principale davanti al giudice loro proprio. In più, e alla fine, l’interpretazione di cui sopra è l’unica in grado di garantire in

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seno al nostro processo, almeno in una qualche misura, l’armonia dei giudicati, che può anche essere considerato un bene non assoluto, da perseguire a tutti i costi, ma che è sicuramente un bene meritevole di tutela; ciò tanto più se si ha presente che in tale processo non operano i meccanismi predisposti dai citati artt. 34 e 40 c.p.c., essendo per l’appunto quella delle commissioni tributarie una competenza forte, come tale in nessun caso derogabile.

Passando ora agli aspetti procedurali, occorre in primo luogo segnalare che la sospensione è disposta dal presidente della sezione con decreto o dalla com-missione con ordinanza, a seconda del momento in cui l’evento suscettibile di determinarla viene rilevato (in specie, sarà demandato al presidente di pronun-ciarsi al riguardo – come si è visto – in sede di esame preliminare del ricorso, ai sensi dell’art. 27, secondo comma del decreto n. 546). Peraltro, quando la sospensione sia disposta a seguito della presentazione della querela di falso, sembra necessario applicare in via analogica le norme che regolano i casi in cui la querela deve essere proposta dinanzi ad un giudice diverso da quello presso il quale pende il giudizio a quo, cosicché il giudice che dichiara la sospensione dovrà anche fissare un termine entro il quale la querela sia proposta dinanzi al giudice civile.

avverso il decreto del presidente è ammesso reclamo a norma dell’art. 28 (vd. supra), mentre l’ordinanza, in conformità all’orientamento formatosi con riguardo all’analogo provvedimento assunto nell’ambito del processo civile, deve reputarsi non suscettibile d’impugnazione.

In secondo luogo, va ricordato che, ai sensi dell’art. 42 del decreto n. 546, il quale riproduce sostanzialmente l’art. 298 c.p.c., durante la sospensione non possono essere compiuti atti del procedimento, pena la loro nullità; può tuttavia essere chiesta la misura cautelare consistente nella sospensione dell’esecuzio-ne dell’atto impugnato (su cui si tornerà nel prosieguo), com’è dato desumere dall’art. 669 quater c.p.c. (applicabile al processo tributario in virtù del rinvio operato dall’art. 1 del decreto legislativo suddetto), con la sola peculiarità che, ove la sospensione sia concessa, non potrà rendersi operante l’obbligo per la commissione di fissare la trattazione della controversia non oltre il termine di novanta giorni dalla pronuncia, che potrà cominciare a decorrere soltanto dopo che il giudizio ha potuto riprendere il suo corso.

una volta cessata la causa che ne ha comportato la sospensione, il processo deve essere riassunto entro il termine perentorio di sei mesi decorrenti dal mo-mento in cui è venuta meno la causa anzidetta; pena, altrimenti, la sua estinzio-ne. Così prevede l’art. 43 del decreto delegato; ma, volendo prestare ossequio a quanto statuito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 34 del 1970, occorre addivenire a un’interpretazione adeguatrice della norma in questione onde sot-trarla altrimenti a inevitabili censure d’illegittimità, ritenendo che il dies a quo del termine per la riassunzione sia da individuare nel momento in cui le parti del processo sospeso hanno acquisito legale conoscenza (mediante comunicazione o notificazione) della cessazione della causa di sospensione.

la riassunzione del giudizio sospeso avviene per il tramite di un’istanza di trattazione diretta al presidente della sezione davanti alla quale pende il ricorso, che adotta i provvedimenti necessari per la ripresa del cammino del processo. a tenore dell’art. 42, dalla presentazione di tale istanza ricominciano a decor-rere i termini in corso alla data dell’avvenuta sospensione, interrotti per effetto

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della stessa; sennonché, anche questa disposizione suscita seri dubbi d’illegit-timità costituzionale, dal momento che la ripresa del decorso di detti termini avviene anche nei confronti della parte che non ha provveduto alla presenta-zione dell’istanza di trattazione e che, pertanto, può ignorarne l’esistenza (per una diversa disciplina si veda l’art. 298 c.p.c., il quale stabilisce che i termini interrotti ricominciano a decorrere dal giorno della nuova udienza fissata nel provvedimento di sospensione o nel decreto all’uopo emesso dal giudice).

Prima di concludere, si rendono opportuni ancora due rilievi. Il primo è che la presenza di un norma come quella contenuta nell’art. 39 induce ad esclude-re che possa ammettersi nel processo tributario la sospensione su istanza delle parti o concordata.

Il secondo è che, viceversa, ben si attagliano a tale processo le ipotesi di cosiddetta sospensione impropria, le quali si differenziano da quella propria per ciò che esse non presuppongono la presenza di due processi bensì di un pro-cesso unico in corso, su cui s’innesta un altro processo concernente una que-stione relativa alla domanda oggetto del primo, che resta sospeso in pendenza del secondo. Ci riferiamo, in particolare e senza pretesa di completezza: a) alla sospensione disposta con l’ordinanza con cui il giudice solleva una questione di legittimità costituzionale rilevante ai fini della decisione e trasmette gli atti del procedimento alla Corte Costituzionale; b) a quella che può verificarsi allorché sia stato proposto regolamento preventivo di giurisdizione ed il giudice non ri-tenga il ricorso manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdi-zione manifestamente infondata; c) a quella per pregiudizialità comunitaria; d) a quella che discende dalla presentazione dell’istanza di ricusazione del giudice; e) a quella, infine, del giudizio di cassazione quando contro la stessa sentenza sono proposti tanto il relativo ricorso quanto la revocazione.

3.2 L’interruzione

Passando all’interruzione, conviene anzitutto ricordare che essa, al pari del-la sospensione, determina una paralisi del processo, talché in costanza della medesima non possono essere compiuti atti processuali ed i termini in corso risultano interrotti fino alla presentazione dell’istanza prevista dall’art. 43 del decreto 546; tuttavia, così come si verifica allorquando opera la sospensione, si rende applicabile, sempre alla stregua dell’art. 669 quater, la misura cautelare della sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato (su cui avremo modo di soffermarci oltre).

Diverso è peraltro il fondamento dell’interruzione, che è dato in specie ravvi-sare nella necessità di assicurare l’effettività del contraddittorio, talché il giudizio s’interrompe quando la parte, il suo legale rappresentante o il suo difensore so-no colpiti da eventi tali da comprometterne l’attiva partecipazione alla dialettica processuale.

Prima di concentrare l’attenzione sulla disciplina introdotta al riguardo con il decreto 546, la quale ricalca in massima parte quella del codice di procedura civile, vale la pena ricordare che il fenomeno dell’interruzione era concordemen-te ritenuto inoperante nel contenzioso tributario regolato dal D.P.R. n. 636 del 1972, dal momento che l’esplicita previsione ad opera di quest’ultimo di una proroga dei termini processuali pendenti alla data del verificarsi di determinate circostanze concernenti la parte ricorrente o il suo rappresentante escludeva in

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radice la possibilità che l’istituto in questione potesse spiegare i suoi effetti.orbene, le cause d’interruzione del nostro processo, indicate in via tassativa

dall’art. 40 del decreto n. 546 consistono:a) nel venir meno della capacità di stare in giudizio, per morte o per altre

ragioni (si pensi alla dichiarazione di fallimento, all’interdizione, all’inabilitazio-ne, ecc.) di una delle parti, diversa dall’ufficio finanziario, o del suo legale rap-presentante o ancora nella cessazione del rapporto di rappresentanza;

b) nella morte, radiazione o sospensione dall’albo o dall’elenco di uno dei difensori incaricati ai sensi dell’art. 12; in tali ipotesi deve ritenersi compresa anche quella della volontaria cancellazione dall’albo, ma non quella della revoca o della rinuncia al mandato, le quali entrambe non producono effetti fino alla nomina del nuovo difensore.

al fine di stabilire se ed in qual modo il fenomeno interruttivo si determina, occorre distinguere a seconda del momento in cui gli eventi di cui sopra si ve-rificano e della tipologia dei medesimi.

se uno di questi eventi si verifica prima della proposizione del ricorso ma in pendenza del relativo termine, il fenomeno non rientra tra quelli contemplati dall’art. 40 citato e dunque non si ha interruzione. Tuttavia, in proposito, sov-viene la norma contenuta nel quarto comma di tale articolo, in forza del quale il termine per la proposizione del ricorso è prorogato di sei mesi a decorrere dalla data dell’evento.

Viceversa, l’interruzione opera quando le suddette circostanze si avverano nel periodo che va dalla proposizione del ricorso all’ultimo giorno per il deposito di memorie in caso di trattazione della controversia in camera di consiglio, o alla chiusura della discussione, in caso di pubblica udienza; dopo tale momento, pertanto, le circostanze medesime non producono effetto a meno che non sia pronunciata sentenza e il processo prosegua davanti al giudice adito. a quest’ul-timo proposito, non è del tutto chiaro a quale ipotesi abbia inteso riferirsi il le-gislatore delegato, non essendo ammesse nel processo tributario le sentenze non definitive o limitate solo a talune delle domande proposte; sembra ragionevole ritenere che simile eventualità possa ricorrere quando la commissione rilevi con sentenza la propria incompetenza territoriale, ai sensi dell’art. 5, e indichi nel contempo quella che è legittimata a conoscere della causa e dinanzi alla quale è appunto consentito alle parti riassumere il processo.

Fermo ciò, occorre ulteriormente distinguere. In particolare, l’interruzione opera automaticamente fin dal momento in cui ricorre una delle circostanze so-pra menzionate allorché la parte sta in giudizio personalmente, nonché nell’ipo-tesi in cui la circostanza riguarda il soggetto incaricato dell’assistenza tecnica del contribuente; mentre in tutti gli altri casi, e quindi senza la distinzione introdotta dall’art. 299 c.p.c., il fenomeno decorre da quando del fatto interruttivo viene resa dichiarazione dal difensore in pubblica udienza o questi ne fa comunica-zione per iscritto alla commissione adita.

In ordina a detta dichiarazione, merita precisare che non occorre, contra-riamente a quanto previsto dall’art. 300 c.p.c., la sua notificazione alle altre parti. Ciò in considerazione della norma contenuta nell’art. 41 del decreto n. 546, secondo cui l’interruzione, analogamente alla sospensione, viene dichiarata dal presidente della sezione con decreto reclamabile dinanzi al collegio ai sensi dell’art. 28 (e questo già si è visto), oppure dalla commissione con ordinanza;

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e si deve opinare, onde evitare seri dubbi d’illegittimità costituzionale, che non solo il decreto presidenziale ma anche l’ordinanza della commissione debba es-sere notificata a tutte le parti interessate, posto che, come vedremo, è da tale dichiarazione che comincia a decorrere il termine perentorio entro il quale oc-corre provvedere, a pena d’estinzione del processo, alla ripresa dello stesso.

Venendo ora ai meccanismi per il cui tramite si addiviene alla ripresa del processo, è noto che il codice di procedura civile ne prevede due: la prosecu-zione, la quale si verifica quando l’iniziativa per rimettere in moto il giudizio proviene dalla parte interessata dall’evento interruttivo; e la riassunzione che si ha quando viceversa l’iniziativa è presa dalla controparte.

Per contro, l’art. 43 del decreto delegato contempla un unico meccanismo, prescrivendo che la parte colpita dall’evento o i suoi successori o qualsiasi altra parte del processo è tenuta, per consentire a quest’ultimo di riprendere il suo corso, a presentare istanza di trattazione al presidente di sezione della commis-sione entro il termine perentorio di sei mesi dalla dichiarazione dell’interruzione. si deve ritenere tuttavia che l’istanza in questione possa essere presentata anche al presidente della commissione in tutti i casi in cui quest’ultimo non abbia an-cora provveduto ad assegnare la causa ad una delle sezioni.

una volta prodotta tale istanza, il presidente della sezione cui il ricorso è stato assegnato adotta, a norma dell’art. 30, i relativi provvedimenti opportuni. al fine poi di garantire che ciascuna parte sia realmente edotta della ripresa del processo interrotto, il terzo comma dell’art. 43 impone che la segreteria della commissione comunichi l’avviso di trattazione contemplato dall’art. 31 alla parte interessata dal fatto interruttivo o ai suoi successori personalmente; a tale sco-po, entro un anno dal decesso della parte, la comunicazione di detto avviso può essere fatta agli eredi collettivamente ed impersonalmente nel domicilio eletto o, in mancanza, nella residenza indicata dal defunto negli atti processuali. Per completezza, va ricordato che ad avviso di una parte della dottrina siffatta disci-plina può creare dei problemi qualora l’evento interruttivo si sia verificato prima della scadenza del termine per la costituzione della parte resistente, finendo per impedire che quest’ultima sia validamente operata a tenore del disposto dell’art. 42; onde si è ritenuto che in tal caso la comunicazione debba essere effettuata anche nei confronti di tale parte sebbene non costituita.

avvenuta la ripresa del processo secondo il meccanismo appena descritto, la parte colpita dall’evento o i suoi successori possono costituirsi in giudizio anche solo mediante la presentazione di documenti o memorie o ancora partecipando alla discussione in pubblica udienza assistiti da un difensore incaricato nelle forme prescritte.

la mancata tempestiva presentazione dell’istanza di trattazione comporta, ai sensi del successivo art. 45, l’estinzione del processo interrotto.

occorre, infine, precisare che, come si è già detto, non si ha interruzione allorquando vi sia il decesso di una delle parti dopo la scadenza del termine per il deposito delle memorie o dopo l’udienza di discussione e, quindi e a mag-gior ragione, dopo la pronuncia della sentenza. In queste ipotesi, tenuto anche conto del fatto che la morte estingue il mandato del procuratore nominato dal de cuius, si pone il problema del soggetto cui la controparte deve notificare la sentenza, al fine di far decorrere il termine breve per l’impugnazione, ovvero l’atto di impugnazione. secondo una consolidata giurisprudenza, tale questione

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è risolta applicando estensivamente l’art. 303, comma secondo c.p.c. e, quindi, consentendo la notifica agli eredi collettivamente ed impersonalmente nel domi-cilio del defunto.

3.3 L’estinzione.

Il decreto legislativo n. 546 dedica tre articoli all’estinzione del processo tri-butario: l’art. 44, relativo alla rinuncia al ricorso, che ricalca in buona parte il dettato dell’art. 306 c.p.c.; l’art. 45, concernente l’inattività delle parti, il quale – sotto certi aspetti – richiama alla mente il disposto dell’art. 307 c.p.c.; e infine, l’art. 46 in tema di cessazione della materia del contendere. a tali disposizioni si aggiungono poi quelle, di cui non merita qui dar conto, contenute nel titolo terzo del medesimo decreto, in tema di disciplina transitoria.

3.3.1. L’estinzione per rinuncia agli atti del processo.Muovendo dal disposto dell’art. 44, che si occupa dell’estinzione per rinuncia

agli atti del giudizio, va anzitutto segnalato che, analogamente a quanto previsto dall’art. 306 c.p.c., detta rinuncia non rientra nel novero degli atti che il difen-sore all’uopo abilitato è legittimato a compiere in virtù del mandato alle liti conferitogli dal cliente. Ciò significa, pertanto, che la rinuncia al ricorso dovrà provenire direttamente dalla parte o da un suo procuratore speciale (il quale, ovviamente, potrà essere lo stesso difensore).

Inoltre, ai sensi del quarto comma dell’art. 44 in commento, la rinuncia va fatta con atto scritto, che deve essere firmato anche dal difensore e depositato presso la segreteria della commissione adita. Peraltro, posto che secondo l’art. 306 c.p.c. (il quale, come detto, rappresenta il modello cui ha avuto riguardo il legislatore tributario nel redigere la disposizione in esame) la rinuncia può effettuarsi verbalmente con dichiarazione resa dal legittimato in udienza, si è indotti a ritenere che anche nel nostro processo l’atto in questione possa altre-sì perfezionarsi per il tramite di una dichiarazione orale della parte o del suo procuratore speciale all’udienza di discussione, riprodotta nel processo verbale dell’udienza medesima e debitamente sottoscritta dal dichiarante e dal difensore di quest’ultimo.

Conviene poi segnalare che la rinuncia di cui si discorre non produce effetto se non è accettata dalle parti costituite che abbiano effettivo interesse alla prose-cuzione del processo, analogamente a quanto disposto dal più volte menzionato art. 306 c.p.c. (il quale, peraltro, impone – diversamente dall’art. 44 del decreto 546 – che l’accettazione non contenga riserve o condizioni: è dato comunque rite-nere che anche nel nostro processo l’accettazione debba essere incondizionata).

l’accettazione della rinuncia ha però una diversa portata nel processo civile rispetto a quello tributario. Nel primo, infatti, dottrina e giurisprudenza hanno escluso la necessità dell’accettazione soltanto quando l’altra parte non si sia co-stituita in giudizio, oppure quando il convenuto non miri ad ottenere una pro-nuncia di merito, ovvero, ancora, quando egli non potrebbe conseguire, in sede di decisione di merito, un risultato più favorevole di quello che si determina per effetto dell’estinzione. l’accettazione, dunque, non sarà necessaria ogniqual-volta il convenuto abbia eccepito l’incompetenza del giudice adito o il difetto di giurisdizione del medesimo o ancora abbia richiesto l’estromissione dal giudizio o infine la conferma della sentenza di primo grado; per converso, l’accettazione suddetta dovrà intervenire quando vi sia un litisconsorte necessario, ovvero sia

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stata proposta una domanda riconvenzionale o l’appello incidentale, o ancora sia stato richiesto il risarcimento del danno per lite temeraria ai sensi dell’art. 96 c.p.c., o, più in generale, sussista il comprovato interesse all’accertamento della situazione giuridica controversa.

Nell’ambito del processo tributario, viceversa, l’interesse alla prosecuzione del-la lite in capo all’ente impositore resistente di regola non sussiste, giacché nella fase di primo grado la rinuncia al ricorso da parte del contribuente determina l’incontestabilità della pretesa recata dall’atto avverso il quale lo stesso è diret-to; mentre nelle fasi successive la non necessità dell’accettazione (a meno che, ovviamente, non sia stata proposta impugnazione in via incidentale) discende dal fatto che l’estinzione del procedimento fa passare in giudicato la sentenza impugnata o determina ancora una volta la definitività dell’atto impugnato, co-me avviene allorché, estinguendosi il giudizio di rinvio, l’intero processo viene meno in ossequio a quanto espressamente disposto dall’art. 63, secondo comma del decreto delegato.

occorre tuttavia far presente che si potrebbe configurare l’esistenza dell’inte-resse dell’ente impositore allo svolgimento del giudizio quando il contribuente abbia proposto un’azione di rimborso e, in specie, nell’ipotesi in cui si sia in presenza di un rifiuto tacito ad eseguire il rimborso medesimo da parte dell’uf-ficio finanziario competente. Più precisamente, dato che la rinuncia al ricorso non comporta la rinuncia all’azione ed al diritto sostanziale che con quest’ultima si intende far valere, potrebbe ritenersi che anche dopo la rinuncia al ricorso sia consentito all’interessato adire nuovamente il giudice speciale tributario onde ottenere la condanna dell’ente impositore alla restituzione di quanto dalla me-desima indebitamente conseguito, entro il termine decennale di prescrizione del diritto al rimborso vantato. In buona sostanza, posto che la proposizione del ricorso poi abbandonato avrebbe efficacia interruttiva del termine di prescrizione suddetto, sarebbe conseguentemente ravvisabile, in tal caso, un interesse dell’ente impositore ad esprimere l’accettazione alla rinuncia agli atti del giudizio, giacché il medesimo potrebbe risultare nuovamente soggetto all’esercizio dell’azione di condanna in parola.

Passando, infine, a considerare la posizione dei terzi chiamati o intervenuti nel giudizio, è indubbio che occorre senz’altro il consenso alla rinuncia da par-te del litisconsorte necessario e dell’interveniente litisconsortile che abbia con-testualmente proposto ricorso avverso un provvedimento impugnabile ed atto di intervento in un giudizio già esistente, sorto a seguito della presentazione di ricorso (cui si intende successivamente rinunciare) da parte di altro litiscon-sorte contro il medesimo atto; mentre non è necessaria l’accettazione dell’inter-veniente adesivo (ove si ritenga esperibile tale tipo di intervento nel processo tributario).

Ciò chiarito, si deve adesso rammentare che l’estinzione del processo per rinuncia agli atti è dichiarata dal presidente della sezione con decreto o dalla commissione con sentenza, a seconda del momento in cui l’evento estintivo si verifica (in specie, sarà demandato al presidente pronunciarsi al riguardo in sede di esame preliminare del ricorso, ai sensi dell’art. 27, secondo comma del decreto 546). sembra, inoltre, opportuno che l’estinzione sia comunque dichia-rata dal collegio ogniqualvolta sorga contrasto tra le parti in ordine all’esisten-za dell’interesse alla prosecuzione del giudizio e, conseguentemente, del diritto

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ad accettare la rinuncia agli atti ovvero in ordine alla validità della rinuncia e/o dell’accettazione, in conformità a quanto avviene nell’esperienza del proces-so civile. avverso il decreto del presidente, come visto, è ammesso reclamo al collegio da notificare alle altre parti costituite entro il termine perentorio di trenta giorni dalla sua comunicazione ad opera della segreteria, secondo quanto previsto dall’art. 28, cui rinviano gli artt. 44 e 45 in esame. una volta investito del reclamo – e qui si richiamano le considerazioni già svolte –, il collegio, se lo ritiene fondato, pronuncia ordinanza tramite la quale adotta i provvedimenti necessari per la prosecuzione del giudizio; viceversa, qualora confermi la pro-nuncia di estinzione del presidente, emana sentenza, contro la quale si rendono esperibili gli ordinari mezzi d’impugnazione.

Per concludere, giova poi ricordare che nella fase del giudizio davanti alla Corte di cassazione non occorre accettazione della rinuncia, in ossequio al di-sposto dell’art. 390 c.p.c., senz’altro applicabile anche alle controversie di natura tributaria sottoposte a tale organo in virtù del rinvio operato dall’art. 62, ultimo comma del decreto 546.

quanto, infine, al regime delle spese di lite, l’art. 44, secondo comma, con formulazione pressoché identica all’art. 306, ultimo comma c.p.c., prevede che il rinunciante deve rimborsare i costi processuali sostenuti dalle altre parti, salvo diverso accordo tra di loro. la liquidazione delle spese è compiuta dal presiden-te della sezione o dalla commissione con ordinanza non impugnabile, la quale costituisce titolo esecutivo.

3.3.2. L’estinzione per inattività delle partiPassiamo ora ad occuparci dell’art. 45, concernente l’estinzione del proces-

so per inattività delle parti. anche questa disposizione è stata formulata aven-do riguardo alla corrispondente norma processualcivilistica (trattasi dell’art. 307 c.p.c.), ancorché quest’ultima non sia stata recepita integralmente. Ciò, d’altron-de, risulta agevolmente comprensibile, poiché il processo civile è in ogni momen-to contraddistinto dall’impulso di parte, mentre nell’ambito del processo tributa-rio, una volta notificato e depositato l’atto introduttivo del giudizio, il ricorrente non è tenuto ad eseguire ulteriori adempimenti, salvo chiedere la trattazione in pubblica udienza qualora non intenda che la controversia sia decisa in camera di consiglio.

Ne discende che l’estinzione per inattività delle parti è limitata alle ipotesi in cui ad esse spetti di proseguire, riassumere o integrare il giudizio (come, ad esempio, dopo la sospensione o l’interruzione dello stesso o quando si sia in presenza di una fattispecie di litisconsorzio necessario) e sia inutilmente decor-so il termine perentorio all’uopo determinato dalla legge o fissato dal giudice in ossequio a quest’ultima.

Diversamente da quanto previsto dall’ultimo comma dell’art. 307 c.p.c., l’estin-zione per inattività delle parti è rilevabile nel processo tributario anche d’uffi-cio, seppure nel solo grado di giudizio in cui si è verificata. Inoltre, nell’art. 45 non si rinviene la distinzione sistematica dei fatti estintivi in due categorie, che viceversa contraddistingue la rammentata disposizione processualcivilistica, a seconda che determinino l’estinzione del processo solo a seguito di omessa o intempestiva riassunzione del medesimo dopo la cancellazione della causa dal ruolo, ovvero la producano in via immediata. Ciò, peraltro, ben si capisce ove si abbiano presenti la peculiare struttura del nostro processo e l’apprezzabile

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intento del legislatore di offrire una regolamentazione dell’istituto, per quanto possibile, unitaria e semplificata.

l’estinzione del processo è pronunciata dal presidente della sezione o dalla commissione, analogamente a quanto statuito dall’art. 44 con riferimento all’ipo-tesi di rinuncia agli atti del giudizio.

Infine, a seguito dell’estinzione per inattività delle parti, le spese processuali restano a carico delle parti che le hanno anticipate, come disposto dal secondo comma dell’art. 45.

3.3.3. L’estinzione per cessazione della materia del contendere.l’art. 46 del decreto legislativo n. 546 annovera la fattispecie della cessazione

della materia del contendere tra le ipotesi di estinzione del giudizio; e ciò im-propriamente, stante la peculiarità di questo istituto sotto il profilo ontologico. Invero, ove si tenga presente che il fenomeno della cessazione della materia del contendere si collega necessariamente al verificarsi di fatti ed eventi nel corso del processo la cui portata sia tale da rendere superflua la prosecuzione di quest’ul-timo verso il suo epilogo naturale, appare evidente che è netta la differenza tra l’istituto in esame e l’estinzione del processo, la quale viceversa discende, tanto nel processo civile quanto in quello amministrativo, dalla rinuncia agli atti del giudizio o dall’inattività delle parti.

Risulta condivisibile, dunque, quell’orientamento dottrinale secondo cui l’ar-ticolo in questione avrebbe inteso assimilare la cessazione della materia del contendere all’estinzione semplicemente quoad effectum: il provvedimento che dichiara la prima, cioè, avrebbe la stessa forma e sarebbe soggetto agli stessi rimedi previsti per le pronunce d’estinzione del processo, ferma la sua autono-mia ontologica per le ragioni sopra accennate.

Ciò premesso, la norma che ci interessa da vicino e sulla quale occorre soffer-mare l’attenzione è quella contenuta nel terzo e ultimo comma del suddetto art. 46, secondo cui le spese del giudizio estinto in caso di cessazione della materia del contendere restano a carico della parte che le ha anticipate a meno che la legge non disponga diversamente.

al riguardo, occorre ricordare che la giurisprudenza, nel comprensibile intento di neutralizzare gli effetti pregiudizievoli passibili di essere prodotti a carico del contribuente in conseguenza di una pronuncia ex art. 46, comma 3, ha soven-te finito per applicare in modo scorretto tale disposizione. In effetti, in più di un’occasione, le commissioni tributarie, dichiarata con sentenza la cessazione della materia del contendere e la conseguente estinzione del giudizio, hanno comunque condannato l’amministrazione finanziaria alla refusione delle spese di lite, a tal fine avvalendosi di almeno tre differenti percorsi argomentativi. Più in particolare:

a) in taluni casi, la suddetta condanna è conseguita ad un giudizio di non effettiva e sostanziale cessazione della materia del contendere, come quando l’amministrazione finanziaria, annullato in via di autotutela l’atto viziato, lo ab-bia di poi sostituito con altro atto formalmente legittimo;

b) altre pronunce hanno interpretato l’art. 46, terzo comma come riferito alle sole ipotesi di sopravvenienze che modifichino il modo di essere del diritto oggetto del contendere, così ritenendo di poter disporre la condanna alle spese in tutte quelle ipotesi nelle quali la dichiarazione della cessazione della materia del contendere consegua all’annullamento dell’atto impugnato ad opera dell’am-ministrazione finanziaria;

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c) in altre occasioni, infine, si è tentato di circoscrivere l’impatto delle per-verse conseguenze scaturenti dalla disposizione in esame offrendo di essa un’in-terpretazione – per così dire – adeguatrice, fondata proprio sulla relazione di accompagnamento al decreto legislativo n. 546 del 1992; secondo questa, infatti, la previsione normativa recata dall’art. 46 si giustificherebbe in funzione della finalità di non danneggiare il contribuente nel caso di annullamento degli atti impugnati disposto dall’ufficio anche in avanzato stato del processo; sulla scorta di tali argomentazioni, cioè, è stato ritenuto che la statuizione di cui trattasi non impedisce affatto al giudice l’indagine in ordine alla soccombenza virtuale, la quale, anzi, dovrebbe essere in ogni caso condotta; e qualora dalla delibazione sommaria sul merito della controversia dovesse risultare fondato il ricorso, la compensazione delle spese di lite non dovrebbe operare.

Giova mettere in debita luce, da subito, come il punto critico nell’applicazione della norma di cui si discorre, da sempre e correttamente, sia stato individuato nella fattispecie dell’annullamento d’ufficio, da parte dell’amministrazione finan-ziaria in via di autotutela, dell’atto impositivo oggetto di ricorso.

orbene e anzitutto, non può non osservarsi come le argomentazioni sopra ricordate, in verità, abbiano rappresentato soltanto dei tentativi d’aggiramento di una disposizione – quella dell’art. 46, terzo comma – indubbiamente censurabi-le ma pur tuttavia esistente ed inequivoca nel suo contenuto, risolvendosi così, a ben vedere, in manifeste violazioni della stessa. In realtà, le soluzioni inter-pretative autenticamente praticabili – prima del recente intervento della Corte Costituzionale, sul quale ci si soffermerà tra breve – erano, nella sostanza, solo due: quella di ritenere la fattispecie dell’auto annullamento dell’atto impugnato giammai riconducibile al fenomeno della cessazione della materia del contendere, con la conseguente e radicale inapplicabilità della norma in discussione al caso di specie; quella di muovere dal presupposto esattamente contrario al precedente – posizione, questa, assai più condivisibile –, con l’ineluttabile impossibilità di sfuggire alla logica, sia pur perversa, della norma in parola.

sennonché, la Consulta – dopo aver per lungo tempo rigettato le ripetute censure d’incostituzionalità sollevate al riguardo da più parti – ha da ultimo riconosciuto, con sentenza n. 274/2005, l’illegittimità costituzionale dell’art. 46, comma terzo, per violazione del principio di ragionevolezza, “nella parte in cui si riferisce alle ipotesi di cessazione della materia del contendere diverse dai casi di definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge”.

Nella sostanza, dunque, la Corte ha distinto tali ultime e specifiche ipotesi di cessazione della materia del contendere dalle altre, e in special modo da quella che fa seguito all’annullamento dell’atto impositivo impugnato nell’ambito dell’esercizio dell’autotutela amministrativa.

Invero, è indubbio che nessuna censura d’illegittimità costituzionale può muo-versi alla norma de qua rispetto ad ipotesi di cessazione della materia del con-tendere che conseguono ad assetti del rapporto obbligatorio d’imposta fondati sull’utilizzo volontario, da parte del contribuente, di strumenti quali i condoni, posto che questi, in definitiva, configurano una sorta di transazione ope legis; in detti casi, invero, pure in mancanza dell’art. 46, il giudice non avrebbe comun-que alternativa, con riguardo al regime delle spese di lite, rispetto a quella di pronunciarne la compensazione fra le parti del rapporto medesimo.

le cose, invece, stanno diversamente allorquando l’amministrazione procede

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ad annullare in via d’autotutela il proprio atto impositivo, sull’inevitabile presup-posto dell’illegittimità di questo; in siffatto caso, per vero, è certo che il ricorso al principio della soccombenza virtuale non necessita di alcuna ulteriore attività del giudice, essendo lo stesso ente impositore, con il ritiro del proprio atto, a riconoscere l’infondatezza della pretesa impositiva avanzata tramite quest’ultimo. qui, nella sostanza, la situazione non differisce da quella in cui è il contribuen-te a riconoscere le buone ragioni della finanza per il tramite della rinuncia al ricorso in precedenza proposto, rinuncia che – come si è visto – espone il contribuente stesso all’obbligo di rifusione delle spese di lite nei confronti delle altre parti, salvo diverso accordo tra di loro (cfr. art. 44, secondo comma del decreto legislativo n. 546).

Da ultimo (e, pure qui, richiamando considerazioni in parte già svolte), ri-cordiamo che anche l’estinzione per cessazione della materia del contendere è dichiarata, salvo quanto diversamente disposto da singole norme di legge, con decreto del presidente, reclamabile ai sensi dell’art. 28 del decreto 546, o con sentenza della commissione.

4. Le misure cautelari

Come per ogni processo, anche per quello tributario sorge il problema di neutralizzare i danni suscettibili di derivare “a carico della parte che ha ragio-ne” in conseguenza della durata del giudizio, e dunque, in termini più espliciti, sorge l’esigenza di una tutela di tipo cautelare.

ecco, quindi, che nel trattare dello svolgimento del processo di primo grado, non può non riservarsi una considerazione autonoma ai rimedi che il legislatore ha predisposto in funzione della sopraddetta necessità, la quale – ma il rilievo è fin troppo evidente – può porsi tanto dal lato del contribuente quanto da quello dell’amministrazione.

e in effetti, dal primo punto di vista, il legislatore ha approfittato della rifor-ma del contenzioso tributario per risolvere positivamente il delicato e dibattuto problema concernente l’ammissibilità o meno della tutela cautelare a favore del contribuente allorché insorgano le controversie devolute alla giurisdizione del-le commissioni, nonché quello connesso della sede in cui questa possa essere esperita. Così, l’art. 30, lett. h) della legge n. 413 del 1991, tra i criteri direttivi ivi indicati in sede di delega per la revisione della disciplina del suddetto con-tenzioso, recava quello attinente alla previsione di un procedimento incidentale ai fini della sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato disposta mediante provvedimento motivato e con efficacia limitata a non oltre la decisione di pri-mo grado.

uniformandosi in pieno a tale criterio, l’art. 47 del decreto delegato n. 546 ha stabilito che il ricorrente, se dall’atto impugnato può derivargli un danno grave e irreparabile, può chiedere alla commissione provinciale competente la sospensione dell’atto stesso con istanza motivata proposta nel ricorso o con atto separato notificato alle altre parti e depositato in segreteria.

Volendosi considerare, poi, il secondo punto di vista sopra specificato (cioè quello dell’amministrazione), occorre rammentare che il decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, recante le disposizioni generali in materia di sanzio-

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ni amministrative per la violazione di norme tributarie, contempla due misure cautelari, questa volta, appunto, a favore dell’ente impositore. Invero, l’art. 22 di tale decreto prevede che in base all’atto di contestazione, al provvedimento di irrogazione della sanzione o al processo verbale di constatazione, e dopo la loro notifica, l’ufficio (dell’amministrazione finanziaria) o l’ente, quando ha fon-dato timore di perdere la garanzia del proprio credito, può chiedere, con istanza motivata, al Presidente della commissione tributaria provinciale l’iscrizione di ipoteca sui beni del trasgressore e dei soggetti obbligati in solido e l’autorizza-zione a procedere, a mezzo di ufficiale giudiziario, al sequestro conservativo dei loro beni, compresa l’azienda.

sennonché, quelle ora richiamate, sono solo le disposizioni espresse in punto di tutela cautelare previste per il nostro processo. In verità, tuttavia, le proble-matiche della tutela cautelare esperibile nell’ambito di quest’ultimo non possono ritenersi ancora esaurite, dovendosi in particolare verificare se il contribuente abbia a propria disposizione altre misure aventi la stessa finalità ed applicabili nella sede predetta in via d’integrazione della disciplina di tale processo con quella che si rinviene al riguardo in seno al codice di procedura civile.

In primo luogo, ci si è chiesto se possano trovare ingresso nel nostro processo l’accertamento tecnico preventivo e l’ispezione giudiziale di cui all’art. 696 c.p.c. Già in passato la soluzione negativa al riguardo aveva trovato largo credito, es-sendo apparsa la possibilità di esperire i mezzi suddetti in contrasto con la disci-plina del processo medesimo e, soprattutto, con la configurazione di esso quale giudizio almeno formalmente impugnatorio di atti tassativamente individuati; e non vi è motivo di discostarsi da siffatta conclusione, nonostante la contraria ma isolata opinione espressa da parte di autorevole dottrina.

Più complesso si presenta il discorso per quanto concerne l’applicabilità dell’art. 700 c.p.c.: ciò sia perché la relativa tutela si presta ad essere esperita nel corso di un giudizio già pendente, onde non sussistono in proposito gli osta-coli insormontabili che si frappongono in via decisiva ed assoluta all’operatività dell’art. 696 c.p.c. appena richiamato; sia perché lo spazio che può essere coperto dai provvedimenti atipici di urgenza presi in considerazione dalla suddetta nor-ma viene a dipendere da quello più o meno ampio che deve riconoscersi come proprio della misura cautelare introdotta dall’art. 47 del decreto n. 546.

a quest’ultimo proposito, e rinviando al prosieguo una compiuta disamina della norma che qui interessa, si è posta la questione se l’istituto della sospen-sione dell’esecuzione dell’atto impugnato sia in grado di coprire tutti i bisogni di tutela cautelare configurabili e, in specie, se esso sia utilizzabile nei giudizi d’impugnazione di atti che rifiutano la restituzione di tributi.

orbene, se non si perde di vista il dato incontestabile che la misura cautelare qui considerata ha ad oggetto non l’efficacia in sé dell’atto impositivo impugna-to, bensì l’efficacia esecutiva del medesimo, si deve poi coerentemente ritenere che essa s’appalesa inidonea a soddisfare l’interesse del ricorrente che agisca in ripetizione dell’indebito avverso l’atto con il quale la restituzione sia negata: in tal caso, infatti, al fine di impedire l’eventuale pregiudizio che ne possa discen-dere in capo all’interessato, occorre un provvedimento del giudice che ingiunga all’ente impositore di corrispondere provvisoriamente, in tutto o in parte, la somma oggetto della domanda di condanna al rimborso; provvedimento che l’art. 47 non contempla né legittima, talché occorrerebbe invocare una norma

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diversa ed a spettro più ampio, quale quella contenuta nell’art. 700 c.p.c., della quale ci occuperemo più avanti.

Tale posizione trova conforto e conferma nelle vicende che hanno contrasse-gnato l’evoluzione dell’art. 21 della legge istitutiva dei T.a.R n. 1034 del 1971. Come è noto, tale disposizione, in termini del tutto omologhi rispetto all’art. 47 dettato con riguardo al processo tributario, consentiva al giudice amministrativo di pronunciare la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato ove il ricorren-te ne avesse fatto richiesta allegando danni gravi ed irreparabili derivanti dalla stessa; ed è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con sentenza n. 190 del 1985 nella parte in cui, limitando l’intervento di urgenza del predetto giudice alla sospensione dell’esecutività dell’atto impugnato, non consentiva al giudice stesso di adottare nelle controversie patrimoniali in materia di pubblico impiego i provvedimenti di urgenza secondo le circostanze più idonei (tale è, per l’appunto, l’ingiunzione di provvedere al pagamento totale o parziale delle somme oggetto della pretesa del ricorrente) ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito. In tale contesto, appare significativa la modifica apportata sul punto dalla legge n. 205 del 2000 al testo di detto art. 21, il quale oggi espressamente prevede, da un lato, il ricorso alla tutela cautelare anche in caso di comportamento inerte dell’amministrazione e, dall’altro, annovera, tra le misure cautelari che possono essere richieste dal ricorrente, anche l’emanazione dell’ingiunzione a pagare una somma. Va da sé che, così correttamente impo-stato il problema in esame, appare privo di rilevanza, allo scopo di propugnare la soluzione opposta a quella da noi accolta, il richiamo ai recenti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali che hanno con sempre maggior ampiezza ammes-so la sospendibilità in sede cautelare degli atti negativi emessi dalla pubblica amministrazione.

si aggiunga che vi è un altro argomento decisivo a favore della nostra tesi, fondato sull’art. 69 del decreto n. 546, in forza del quale le sentenze di condan-na emesse dalle commissioni tributarie nei confronti dell’ente impositore sono esecutive soltanto se passate in giudicato. Val quanto dire che, se si ritenesse consentito al giudice tributario di ampliare l’ambito applicativo dell’art. 47 fi-no a comprendervi l’ordine di corrispondere nelle more del giudizio le somme o parte di esse oggetto della domanda di ripetizione dell’indebito proposta dal contribuente, si perverrebbe al risultato, palesemente contrastante con i princi-pi, per cui la commissione provinciale sarebbe legittimata ad adottare in sede cautelare provvedimenti dotati di efficacia superiore a quella riconosciuta, nel vigente assetto del processo che si svolge davanti ad essa, alle sue decisioni sul merito del ricorso; e l’incongruenza risulterebbe ancora maggiore in considera-zione del fatto che, a tenore del settimo comma dello stesso art. 47, gli effetti della misura cautelare dal medesimo prevista cessano alla data di pubblicazione della sentenza di primo grado.

ora, proprio la consapevolezza delle limitazioni che affliggono la tutela cau-telare offerta dall’art. 47 ha indotto taluni a sopperirvi affermando, anche allo scopo di preservare il sistema da fondate censure di illegittimità costituzionale, l’applicabilità al processo tributario dell’art. 700 c.p.c., il quale consentirebbe in specie di estendere detta tutela altresì alle ipotesi di esercizio delle azioni di condanna da parte del contribuente; e ciò sul presupposto incontestato e in-contestabile che in tali situazioni, durante il tempo occorrente per far valere il

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relativo diritto in via ordinaria, questo possa essere minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile.

l’assunto non può peraltro essere condiviso, e non soltanto perché esso presta il fianco all’obbiezione insuperabile, appena formulata, per cui non può comun-que ritenersi consentito al giudice di attribuire all’interessato in sede cautelare più di quanto egli possa fare in sede decisoria. In effetti, l’ostacolo che al me-desimo si frappone è ancora più radicale: la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato è essa stessa un misura riconducibile al novero dei provvedimenti di urgenza che possono essere emanati dal giudice in forza dell’art. 700; e se, dunque, il legislatore del processo tributario ha enucleato dal complesso di ta-li misure quella sola che ha poi espressamente e compiutamente disciplinato, questo sta a significare, in maniera implicita ma non meno inequivocabile, che egli ha inteso circoscrivere entro questi limiti l’ampio spettro applicativo che la stessa norma presenta in seno al processo civile. Né in contrario vale opporre che siffatti limiti sono troppo angusti e come tali suscettibili di porsi in con-trasto con la pienezza del diritto alla tutela giurisdizionale costituzionalmente garantito; e ciò in quanto, se è vero che le norme vanno interpretate magis ut valeant quam ut pereant, è altrettanto vero che l’interprete non può in alcun modo forzarne il significato oltre misura e neppure, e tanto meno, prescindere dall’armonia e coerenza del sistema nel quale esse sono inserite.

4.1. La sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato

Nel trattare delle forme di tutela davanti al giudice speciale tributario, ed in specie di quella cautelare, allora, giova muovere dall’art. 47 del decreto n. 546, il quale – come accennato – prevede che il ricorrente possa chiedere alla com-missione provinciale la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato.

I presupposti di siffatta tutela cautelare sono quelli normalmente richiesti in questi casi, ossia il fumus boni iuris, di cui fa menzione espressa il quarto comma dell’articolo in esame parlando di previa delibazione del merito; ed il periculum in mora, concretantesi in un danno grave e irreparabile che potreb-be verificarsi a carico del ricorrente in pendenza del giudizio e nell’attesa che quest’ultimo sia definito con l’emanazione della sentenza.

Facendo ricorso alle elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali in tema di misure cautelari, è dato affermare, quanto al primo dei presupposti suddetti, che esso impone al giudice, senza anticipare la soluzione di merito, di valutare in via prognostica l’attendibilità del ricorso e, quindi, la possibilità se non la probabilità che esso trovi accoglimento; onde, e correlativamente, la sospensio-ne dell’esecuzione dell’atto impugnato non può essere sicuramente accordata in presenza di un ricorso ictu oculi inammissibile e/o infondato.

Più complesso si presenta il discorso con riguardo all’esistenza dell’altro pre-supposto, che il ricorrente deve darsi carico di provare. Invero, trattandosi di controversie aventi ad oggetto prestazioni patrimoniali, può risultare non agevole l’individuazione di un danno avente la duplice caratteristica della gravità e della irreparabilità, tenuto altresì conto che, soprattutto su tale terreno, la commis-sione deve compiere la necessaria comparazione tra l’interesse del ricorrente a non essere depauperato delle somme di cui gli viene chiesto il pagamento e quello opposto (e non meno rilevante) dell’ente impositore in punto di concreto soddisfacimento della sua pretesa.

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Per parte nostra, riteniamo che la gravità del danno concernente l’entità del pregiudizio sia da valutare, come si è esattamente rilevato anche alla luce di consolidati orientamenti giurisprudenziali, avendo riguardo alle condizioni sog-gettive del ricorrente, nonché operando una comparazione tra i contrapposti interessi in gioco.

Venendo all’altro requisito, quello cioè dell’irreparabilità del danno, questo deve essere apprezzato e misurato assumendo come parametro di riferimen-to soprattutto l’eventualità che l’esecuzione della prestazione sia suscettibile di comportare il sacrificio definitivo, e quindi non risarcibile, di esigenze primarie del ricorrente: ciò in quanto essa (esecuzione) potrebbe incidere negativamente su diritti fondamentali della sua persona e/o dei suoi familiari (non, dunque, di terzi estranei) e, in specie, sulla prosecuzione della sua attività lavorativa finalizzata al procacciamento dei mezzi finanziari con i quali far fronte ai biso-gni vitali propri o dei soggetti di cui sopra. Merita ricordare, a conferma delle difficoltà insite nella individuazione delle situazioni suscettibili di configurare il requisito suddetto, che parte della giurisprudenza ha allargato, non senza susci-tare qualche perplessità, le maglie della misura cautelare in esame, riconoscendo la sussistenza del presupposto in questione allorquando il soggetto passivo della prestazione tributaria, per soddisfare la pretesa avanzata nei suoi confronti, sa-rebbe costretto a svendere beni del suo patrimonio.

Buona parte della dottrina si è, per un verso, pronunciata a favore della sospendibilità degli atti impositivi che di per sé non sono suscettibili di essere portati ad esecuzione e, in particolare, dell’avviso di accertamento e dell’avviso di liquidazione dell’imposta, muovendo dalla premessa che l’art. 47 richiede il pericolo di un danno grave ed irreparabile ma non imminente; ed ha, per l’al-tro, ritenuto che la misura cautelare de qua si renda applicabile anche agli atti negativi posti in essere dall’ente impositore, dal momento che il legislatore fa generico riferimento in tale norma all’atto impugnato, con ciò manifestando im-plicitamente l’intenzione di non apportare, sotto il profilo in esame, alcun limite all’interno della gamma degli atti che possono formare oggetto di ricorso ai sensi dell’art. 19 del decreto legislativo n. 546.

Né l’uno né l’altro assunto possono peraltro essere condivisi. In primo luogo, sembra a noi che un danno non imminente e quindi non attuale ben difficil-mente può configurarsi come irreparabile; sicché non si stenta a rendersi conto che il vero motivo sul quale fa leva l’opinione qui criticata è in effetti un altro, e cioè che il danno tutelabile in sede cautelare possa essere anche solo indiret-to, come ad esempio l’impossibilità di ottenere finanziamenti bancari a seguito dell’intervenuta notifica dell’atto di accertamento oggetto di impugnativa davanti alla commissione provinciale. stando così le cose, è dato obbiettare che la so-spensione di quest’ultimo non è di per sé misura idonea a soddisfare un simile interesse del ricorrente, anche perché essa implica, come si è visto, una deliba-zione soltanto sommaria della fondatezza del ricorso e, per contro, dell’infonda-tezza della pretesa impositiva; onde alla (sospensione) medesima non possono comunque riconoscersi rilevanza e valenza decisive ai fini del comportamento che, nell’esempio fatto, la banca riterrà in concreto di assumere in ordine alla concessione o meno dell’apertura di credito richiesta dal ricorrente. Con ciò, tuttavia, non intendiamo affermare che ad atti come l’avviso di accertamento e l’avviso di liquidazione non si attagli la misura cautelare in questione, dal

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momento che entrambi legittimano l’ente impositore a pretendere l’adempimen-to, totale o parziale, volontario o coattivo, della propria pretesa per il tramite dell’emanazione del ruolo, in tal modo assurgendo a presupposti dell’esecuzione della stessa in concreto; vogliamo semplicemente sostenere, piuttosto, che il ri-corrente, per chiederne ed ottenerne se del caso la sospensione, dovrà attendere, affinché possa manifestarsi il periculum in mora, l’iscrizione a ruolo, pur senza bisogno di proporre avverso quest’ultimo atto un’ulteriore ed autonoma impugna-zione, oltretutto inammissibile dal punto di vista qui considerato non essendo configurabile, al riguardo, un vizio proprio del ruolo deducibile in quanto tale dinanzi al giudice tributario. In altri termini, allorché intervenga detta iscrizione, si concretizza l’efficacia esecutiva sia pure indiretta che deve riconoscersi all’avvi-so di accertamento o di liquidazione, onde se ne rende possibile la sospensione, la quale è idonea a paralizzare in via strettamente consequenziale anche l’esecu-zione dell’atto, per l’appunto il ruolo, che viene dopo nella serie procedurale.

In secondo luogo, e per quanto concerne la possibilità per la commissione di procedere alla sospensione anche degli atti negativi, abbiamo già avuto occasione di esporre i motivi per cui la misura cautelare della quale ci stiamo occupando non si attaglia alle ipotesi di diniego opposto dall’ente impositore a fronte di un’istanza di rimborso presentata dal soggetto interessato.

Trattandosi, invece, di altri atti negativi, quali possono essere ad esempio il diniego di un’agevolazione o di un condono, delle due l’una: o il contribuente ha già pagato, talché si potrà porre eventualmente un problema di rimborso, con le conseguenze che conosciamo in tema di tutela cautelare esperibile; oppure egli non ha ancora pagato, e allora lo sbocco inevitabile della situazione non potrà che essere l’emanazione da parte dell’ente impositore di un atto di accertamento o della riscossione, in sede d’impugnazione dei quali il ricorrente sarà legittimato a chiedere l’inibitoria contemplata e disciplinata dall’art. 47.

Passando ora ad occuparsi degli aspetti procedurali, ricordiamo, innanzitut-to, che la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato può essere chiesta dal ricorrente con istanza motivata contenuta nel ricorso o in atto separato, che deve essere notificato alle altri parti e depositato nella segreteria della commis-sione adita.

Il presidente della sezione alla quale il ricorso è stato assegnato fissa con de-creto la trattazione dell’istanza di sospensione per la prima camera di consiglio utile, disponendo che ne sia data comunicazione alle parti almeno dieci giorni liberi prima; il medesimo organo, in caso di eccezionale urgenza e previa deli-bazione del merito, può con il suddetto decreto disporre motivatamente ed in via provvisoria la sospensione dell’esecuzione fino alla pronuncia collegiale.

Il collegio, sentite le parti in camera di consiglio e delibato il merito, provvede sull’istanza di sospensione con ordinanza non impugnabile. Val quanto dire che avverso quest’ultima non è ammesso alcun tipo di rimedio: né il reclamo con-templato dall’art. 669 terdecies c.p.c.; né il ricorso per cassazione di cui all’art. 111 Cost., essendosi esattamente rilevato che la decisione cautelare è priva del carattere della definitività in quanto suscettibile di essere rimossa o sostituita dalla sentenza che definisce il giudizio. Ciò ha indotto talvolta ad avanzare in proposito dubbi di illegittimità costituzionale, che peraltro sono da ritenere in-fondati.

qualora, poi, sia accordata la sospensione, che può essere anche parziale e

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subordinata alla prestazione di idonea garanzia o fideiussione bancaria o assi-curativa nei modi e nei termini fissati nell’ordinanza, la trattazione della contro-versia deve essere fissata entro novanta giorni dalla pronuncia. Insomma, emer-ge all’evidenza, dal quadro complessivo appena tracciato, che il legislatore del processo tributario ha inteso delineare un procedimento per un verso snello, escludendo qualsiasi controllo sull’atto cui esso mette capo, e per l’altro dotato di un elevato grado di provvisorietà, in quanto destinato ad essere sostituito in termini assai rapidi dalla pronuncia di merito di primo grado, la cui pubblica-zione determina la cessazione dell’efficacia del provvedimento cautelare emesso dalla commissione provinciale; e non vi è dubbio che a ciò egli è stato indotto avendo di mira l’obbiettivo di non sacrificare oltre misura il contrapposto e non meno meritevole di tutela interesse dell’ente impositore a che il soddisfacimento delle sue pretese, se fondate, non sia procrastinato troppo a lungo.

ai sensi dell’ottavo comma dell’art. 47, in caso di sopravvenuto mutamento delle circostanze, la commissione, su istanza motivata di parte, può revocare o modificare il provvedimento cautelare, osservando per quanto possibile le for-me di cui ai commi primo, secondo e quarto di detto articolo. la dottrina più attenta non ha mancato di osservare che la norma, sia in quanto adopera i concetti di revoca e di modifica, sia per ciò che omette di richiamare i commi terzo e quinto dell’articolo medesimo, sembra far riferimento, come possibile oggetto di rimozione, alla sola ordinanza che ha disposto la sospensione; ma si può convenire con la stessa nel ritenere ragionevole il ricorso all’analogia per ammettere che, in presenza di un mutamento delle circostanze, anche al ricorrente sia consentito reiterare l’istanza di sospensione dell’atto impugnato in precedenza negata. qualche dubbio, invece, può nutrirsi in ordine alla possibilità di allargare ulteriormente la portata della norma in questione, come fa la stessa dottrina, fino a ritenere consentito al ricorrente medesimo di riproporre l’istanza cautelare adducendo ragioni di fatto o di diritto nuove ma non sopravvenute, in quanto già esistenti al momento della primitiva istanza.

4.2. Le misure cautelari a favore dell’ente impositore: l’ipoteca ed il sequestro con-servativo.

Passiamo, adesso, a considerare le misure cautelari predisposte a tutela dell’en-te impositore, cominciando da quella di cui all’art. 22 del D.lgs. n. 472/1997.

questa si caratterizza, in primo luogo, perché l’azione è promossa dall’ente impositore ed ha ad oggetto la tutela del credito sanzionatorio dello stesso. In-vero, in dottrina non è pacifico se le misure cautelari previste dalla disposizione in esame possano riguardare anche il credito per l’imposta, ma la connessione prevista dal primo e dal settimo comma dell’art. 22 fra gli atti relativi al proce-dimento d’irrogazione delle sanzioni e le relative vicende processuali, da un lato, e l’adozione nonché l’efficacia dei provvedimenti cautelari, dall’altro, inducono a preferire la tesi secondo cui le misure cautelari attengono al solo credito per la sanzione.

la seconda caratteristica estremamente rilevante di questo istituto è data dalla sua differenza strutturale rispetto alle azioni di analogo contenuto disciplinate dal codice di procedura civile.

Infatti, nel processo civile è possibile, come noto, richiedere il sequestro con-servativo (art. 671 c.p.c.) quando il creditore abbia fondato timore di perdere la

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garanzia del proprio credito. l’azione a tal fine prevista, come per tutti i provve-dimenti cautelari previsti dagli art. 669-bis e ss. c.p.c., si caratterizza, però, per la sua stretta dipendenza dal processo relativo al diritto per la cui tutela essa è promossa. Cosicché, quando l’azione venga proposta ante causam, l’efficacia del provvedimento cautelare si estingue se non è promosso il giudizio di merito e, tanto per il caso della azione proposta anteriormente al processo, quanto per la misura cautelare richiesta in corso di causa, la competenza all’adozione dei provvedimenti spetta al giudice del merito.

Nel processo tributario, invece, l’azione per la concessione del sequestro con-servativo o dell’ipoteca è solo parzialmente dipendente dal giudizio di merito, nel senso che, sebbene l’efficacia del provvedimento sia collegata all’esito del giudizio di merito, tuttavia i due procedimenti sono destinanti a restare separati.

In terzo luogo, le misure cautelari previste dall’art. 22 cit. hanno un conte-nuto più ampio di quelle disciplinate nel processo civile comprendendo, oltre al sequestro conservativo, l’ipoteca (giudiziale), ossia una misura rivolta non tanto e non solo alla conservazione della garanzia patrimoniale, ma anche alla pre costituzione di una legittima causa di prelazione.

Fissati questi primi caratteri essenziali, occorre peraltro ribadire che l’azione in esame appartiene comunque al novero dei procedimenti cautelari e, quindi, il suo oggetto non riguarda mai il merito della controversia. Cosicché, il prov-vedimento con il quale il giudice si pronuncia sull’istanza dell’ente, quand’anche abbia la forma della sentenza (ai sensi di quanto previsto dall’art. 22, comma 3, cit.), non è mai suscettibile di passare in cosa giudicata. anzi, tale provvedi-mento è per sua natura necessariamente provvisorio, secondo quanto si vedrà meglio fra breve.

l’istanza per il sequestro conservativo e l’ipoteca può essere proposta, come si è detto, solo dall’ente impositore e, in particolare, dall’ufficio titolare della potestà sanzionatoria ed è diretta nei confronti dei soggetti obbligati, in via principale ovvero in virtù di un rapporto di coobligazione solidale dipendente, al pagamento delle sanzioni.

In dottrina si discute se, ottenuto il provvedimento nei confronti di uno dei coobbligati, lo stesso possa essere richiesto anche nei confronti degli altri; per quanto ci riguarda sembra preferibile la tesi che nega l’esistenza di una preclu-sione generale e in linea di principio. Infatti, l’opinione secondo cui, una volta che l’ente abbia ottenuto la garanzia del proprio credito con la concessione del provvedimento cautelare nei confronti di uno dei coobbligati, verrebbero in assoluto meno i presupposti per richiedere analoga misura a carico degli altri, non tiene conto del fatto che, comunque, il valore dei beni sequestrati o ipo-tecati potrebbe non coprire l’intero credito, sia perché il loro valore è, in sé, insufficiente, sia perché potrebbero intervenire in sede di azione esecutiva altri creditori le cui ragioni siano assistite da un privilegio di grado superiore. Vero è solo, quindi, che la concessione del provvedimento cautelare nei confronti di uno dei coobbligati influisce, in concreto, sui presupposti per la concessione di analoga misura a carico degli altri, ma si tratta di una valutazione che dovrà essere fatta caso per caso.

I presupposti processuali in senso stretto che condizionano l’ammissibilità stessa dell’istanza. si tratta, in particolare, della previa notificazione o consegna alle parti contro le quali è richiesta la misura cautelare di un atto di contesta-

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zione dell’illecito, ovvero del provvedimento d’irrogazione della sanzioni, ovvero ancora di un processo verbale di contestazione.

sotto il profilo del merito, ossia ai fini dell’accoglimento della domanda, i presupposti sono costituiti dal timore di perdere la garanzia del credito (ossia dal periculum in mora) nonché, secondo una giurisprudenza costante, dal fumus boni iuris (ancorché questo elemento non sia espressamente menzionato dalla norma).

secondo l’opinione prevalente, poi, l’istanza potrebbe riguardare, attesa la diversità degli effetti delle due misure cautelari, sia l’ipoteca che il sequestro conservativo.

Il procedimento si apre, come si diceva, con un’istanza motivata, rivolta al presidente della commissione tributaria provinciale (la cui competenza deve es-sere determinata in ragione della circoscrizione in cui ha sede l’ufficio istante) notificata anche tramite servizio postale (seguendo però le disposizioni del codice di procedura civile) alle parti nei cui confronti è richiesta la misura cautelare.

le parti che ricevono l’istanza possono presentare, entro i venti giorni dalla notifica, memorie e documenti.

sotto tale profilo la norma contiene una lacuna in senso tecnico, in quan-to non prevede nulla in merito alla costituzione in giudizio dell’istante e delle controparti.

Per quanto riguarda queste ultime, l’omissione non riveste alcuna importanza potendosi ritenere che la mancata costituzione non pregiudichi il loro diritto a ricevere la comunicazione della data fissata per la camera di consiglio in cui ver-rà in discussione l’istanza, né quello di intervenire direttamente in tale sede.

Del tutto diverso è il caso dell’istante, dovendosi ritenere che la notifica alle controparti dell’istanza sia l’atto iniziale del procedimento al quale deve però necessariamente seguire il deposito dell’istanza presso la segreteria della commis-sione adita entro un termine decadenziale prefissato. In mancanza di qualsiasi riferimento testuale, sembra che la soluzione preferibile sia quella di far coinci-dere questo termine con quello previsto per il deposito degli atti difensivi delle controparti come, del resto, avviene in materia di reclamo ai sensi dell’art. 28 del D.lgs. n. 546/92 (anche se l’estensione dei termini è, in questo caso, diversa).

Il presidente della commissione, decorsi i termini di cui sopra, fisserà con decreto la trattazione dell’istanza nella prima camera di consiglio utile, disponen-do che alle parti (ancorché non costituite) sia data comunicazione con almeno dieci giorni di preavviso.

Come si è anticipato, la commissione in camera di consiglio, sentite le parti, provvede con sentenza. Tuttavia, ove vi sia particolare urgenza o pericolo nel ritardo, il presidente può decidere in merito all’istanza con decreto motivato contro il quale è ammesso reclamo entro trenta giorni dalla sua comunicazione. anche in questo caso il collegio, sentite le parti in camera di consiglio, provvede sul reclamo con sentenza.

sebbene, secondo l’opinione preferibile, la sentenza possa costituire oggetto delle impugnazioni previste dalla disciplina del processo tributario, deve esclu-dersi che l’esaurimento dei mezzi di gravame, ovvero la mancata impugnazione determini la definitività dei provvedimenti cautelari. Più specificamente, come si è già detto, tanto se il provvedimento ha la forma della sentenza, quanto se ha la forma del decreto, i relativi effetti sono sempre provvisori.

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Conseguentemente, e per un primo verso, ove l’istanza venga rigettata, l’ente impositore è sempre legittimato a riproporla ove ritenga che si siano modificate le condizioni di fatto che hanno determinato il rigetto.

Per un secondo verso, ai sensi di quanto dispone l’art. 22, comma 7, cit., in caso di concessione delle misure cautelari, queste sono suscettibili di perdere efficacia:

a) se nel termine di centoventi giorni dalla pronuncia non sia notificato l’atto di contestazione, ove l’istanza trovi fondamento in un processo verbale di con stazione, ovvero l’avviso di irrogazione delle sanzioni, ove l’istanza abbia quale presupposto un atto di contestazione. anche se la norma non lo specifica, si deve ritenere che, qualora nel termine di centoventi giorni sia stato notificato l’atto di contestazione e questo non sia stato impugnato immediatamente, la misura cautelare perderà efficacia se, nei successivi centoventi giorni, non venga ema-nato l’avviso di irrogazione delle sanzioni;

b) a seguito di sentenza che accoglie il ricorso, ancorché non passata in giudicato; ove la sentenza accolga parzialmente il ricorso, la misura cautelare è ridotta proporzionalmente.

Nei casi in cui il decreto o la sentenza che dispone il sequestro o l’ipoteca perda, in tutto o in parte, efficacia, la cancellazione dell’ipoteca è disposta dal presidente della commissione tributaria provinciale se l’inefficacia dipende dalla mancanza di un provvedimento di irrogazione di sanzioni.

se l’inefficacia dipende dall’esito del giudizio, sarà la sentenza di merito a costituire titolo per la cancellazione dell’ipoteca ove la sentenza abbia accolto integralmente il ricorso. In caso di accoglimento parziale, la riduzione dell’im-porto per il quale è iscritta l’ipoteca sarà disposta, su istanza dell’interessato, dalla commissione che ha pronunciato la sentenza, ovvero, nel caso in cui si tratti di sentenza della Corte di cassazione, dal giudice che ha pronunciato la sentenza oggetto di ricorso per cassazione.

5. La conciliazione giudiziale

altro istituto previsto nel processo tributario e suscettibile d’incidere sul “nor-male” corso del giudizio di primo grado, poi, è quello della conciliazione giudi-ziale, oggi disciplinato dall’art. 48 del decreto n. 546.

Può osservarsi fin da ora come questo istituto, nella sostanza, si risolva in una forma di definizione della pretesa dell’amministrazione del tutto equipara-bile, per struttura, funzione ed effetti, all’accertamento con adesione, dal quale ultimo, tuttavia – come si chiarirà meglio nel prosieguo –, si distingue per il fatto di collocarsi in una fase successiva all’impugnazione dell’atto.

5.1. I procedimenti conciliativi: a) i tratti comuni.

l’art. 48 cit. prevede i tempi ed i modi della conciliazione giudiziale nonché i relativi effetti.

Tale disciplina, pur essendo del tutto unitaria sotto il profilo degli effetti, evi-denzia, dal punto di vista procedimentale, l’esistenza di un nucleo comune sul quale s’innestano due diverse articolazioni che possono essere definite, a meri fini classificatori, “conciliazione ordinaria” e “conciliazione abbreviata”. questa plura-

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lità di forme merita di essere posta adeguatamente in risalto perché deve essere tenuta presente là dove si tratterà di risolvere un ulteriore problema dibattuto in dottrina, concernente i poteri del giudice nell’ambito dell’istituto in esame.

Pertanto, ai fini espositivi, illustreremo dapprima i tratti disciplinari comuni, per volgere, poi, l’attenzione a quelli specifici che caratterizzano le due artico-lazioni prima menzionate.

a) si deve ricordare, in primo luogo, che la conciliazione giudiziale può es-sere perfezionata solo in primo grado e non dopo che sia iniziata la discussione del merito della controversia. In realtà, l’art. 48, secondo comma sembrerebbe porre un limite ancora più rigido, là dove espressamente indica il termine finale per la definizione conciliativa nella “prima udienza”. Tuttavia, tale previsione – oltre a non risultare coerente con la disciplina della conciliazione c.d. ordinaria, dove, come si vedrà, le udienze sono almeno due – non sembra funzionale alla tutela di alcun interesse sostanziale chiaramente individuabile e, pertanto, non pare idonea a precludere la conciliabilità della controversia in un’udienza succes-siva alla prima se a tale udienza si sia pervenuti a seguito di una serie di rinvii disposti per motivi puramente formali (si pensi alla necessità di riunire ricorsi pendenti dinanzi a sezioni diverse, specie là dove la riunione possa, appunto, agevolare la definizione in via conciliativa). Risulta, quindi, più corretto riferire il limite all’inizio della trattazione del ricorso in senso proprio.

B) un secondo e fondamentale carattere comune a tutte le forme di conci-liazione è la realizzazione della stessa per effetto di un atto volontario bilaterale che intercorre fra la parte resistente e quella ricorrente (lasciando impregiudi-cato, per il momento, se i relativi effetti discendano dal consenso in ordine a quanto forma oggetto dell’atto, ovvero se gli stessi siano voluti da una sola parte e l’altrui volontà – unita, se del caso, al pagamento – operi solo come condicio iuris per l’esplicarsi degli effetti medesimi). a tale atto, come evidenzieremo meglio oltre, resta estranea la commissione tributaria, tanto che nella concilia-zione “abbreviata” esso è formato fuori dall’udienza e prima che le parti siano entrate in contatto con il giudice; nel rito “ordinario”, invece, l’atto può essere confezionato tanto in udienza, quanto al di fuori della stessa. Diversa è, però, la forma di documentazione dell’atto: ove esso sia formato in udienza, risulterà da “apposito” processo verbale; ove sia posto in essere fuori udienza, risulterà da un documento contenente la proposta dell’ufficio e la dichiarazione del pri-vato di volervi aderire.

C) In entrambe le ipotesi di conciliazione sopra indicate, l’accordo deve essere idoneo a definire la lite. Tuttavia, poiché è ammessa la conciliazione parziale, dovrà considerarsi valido anche l’accordo su una parte della lite, con i limiti di cui si dirà, purché ciò comporti, comunque e almeno, la definizione dell’an e/o del quantum della pretesa o di parte di essa.

D) In tutti i casi, ove per effetto della conciliazione risultino dovute l’imposta e le sanzioni, questa si perfeziona solo con il pagamento di tali somme.

si deve però notare che la conciliazione deve considerarsi ammessa anche con riguardo alle liti scaturenti da accertamenti relativi (nelle imposte dirette) ai periodi d’imposta in perdita, ovvero (nell’I.V.a. e nelle imposte dirette) ai periodi d’imposta “a credito”. In tali ipotesi, poiché la definizione può comportare una riduzione della perdita o del credito senza, però, l’emersione di un’imposta da pagare, il perfezionarsi della conciliazione prescinderà dal pagamento dell’impo-

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sta nonché, per il caso di periodi d’imposta in perdita, anche delle sanzioni (che, essendo parametrate all’imposta dovuta, risultano in ogni caso non applicabili).

Deve essere altresì ricordato che l’avviso di accertamento potrebbe non conte-nere l’irrogazione delle sanzioni, essendo queste state contestate e, poi, irrogate con un atto separato.

ove tale atto sia stato impugnato, ovvero penda ancora il termine per l’im-pugnazione, la conciliazione giudiziale raggiunta nel giudizio relativo all’avviso d’accertamento non potrà non riverberare i propri effetti sull’atto d’irrogazione delle sanzioni e sulla lite ad esso, eventualmente, relativa. Più in particolare, deve ritenersi, anche in assenza di un’espressa previsione normativa, che l’atto con cui si definisce la lite in via conciliativa conterrà, oltre alla liquidazione dell’impo-sta dovuta, anche la rideterminazione delle sanzioni; cosicché, esso varrà altresì come atto di annullamento dell’avviso d’irrogazione delle sanzioni e determinerà un conseguente effetto estintivo, ove pendente, della lite relativa.

Più complessa, invece, si presenta l’ipotesi in cui, a seguito dell’autonomo svolgimento del procedimento di contestazione e irrogazione delle sanzioni, que-ste siano state definite con il relativo pagamento. ovviamente, se il pagamento è avvenuto nella misura ridotta prevista dall’art. 16, comma terzo del D.lgs. n. 472 del 1973, nessuna conseguenza deriverà dalla conciliazione.

Viceversa se, per qualsiasi ragione, le sanzioni fossero state pagate in misu-ra integrale, si potrebbe ipotizzare che la conciliazione costituisca titolo per la richiesta del rimborso di quanto risulti pagato in eccesso.

sebbene questa conclusione non sia del tutto certa (e non sia possibile trovare conforto nell’esperienza giurisprudenziale che pare ignorare tale evenienza), deve rilevarsi come la possibilità di fondare un’azione di indebito sulla conciliazione giudiziale (rectius sulla sentenza che dichiara estinto il giudizio per cessata ma-teria del contendere) non costituisca affatto un’anomalia. questa sarà, invece, una vicenda del tutto normale nelle ipotesi in cui, essendovi stata l’iscrizione a ruolo a titolo provvisorio e il relativo pagamento, la misura del debito definito in via conciliativa risulti inferiore a quanto già pagato. In tale situazione, fermo restando che le somme da pagare in base alla conciliazione saranno compensate con quelle già pagate in base al ruolo, è evidente che l’ente impositore dovrà procedere al rimborso dell’eccedenza.

Il pagamento dell’imposta e delle sanzioni può essere eventualmente rateizzato in un massimo di dodici rate trimestrali previa prestazione di idonea garanzia. In tal caso il perfezionamento della conciliazione avviene con il pagamento, nel termine previsto, della prima rata e il deposito della garanzia.

Merita segnalare, infine, che – sebbene il pagamento dell’imposta e delle sanzio-ni può risultare, di fatto, non dovuto – allorquando dalla conciliazione emerga un debito fondato su tali titoli il relativo pagamento nel termine suddetto costituisce senz’altro una condicio iuris per la produzione degli effetti di cui si dirà fra breve. Deve ritenersi, pertanto – e contrariamente a quanto sostenuto da una giurispru-denza minoritaria –, che il mancato pagamento dell’intero importo (o della prima rata in caso di rateazione) non attribuisca al creditore il potere-dovere di proce-dere alla riscossione coattiva a mezzo ruolo, quanto, piuttosto, escluda l’efficacia della conciliazione. si procederà all’iscrizione a ruolo, invece, se, perfezionata la conciliazione con il pagamento della prima rata, il contribuente non paghi le suc-cessive (salvo, ovviamente, lo spontaneo adempimento del fideiussore).

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5.1.1. Segue: b) le differenze fra la conciliazione “abbreviata” e quella “ordinaria”.Fissati, dunque, i tratti comuni alle due forme di conciliazione prima indi-

viduate, possiamo prendere in esame le caratteristiche peculiari di ciascuna di esse.

In primo luogo, occorre rilevare come possa essere denominata conciliazio-ne “abbreviata” quella che ha luogo fuori e prima dell’udienza o, addirittura, anteriormente alla stessa fissazione della data prevista per la trattazione della controversia. Tale ipotesi si caratterizza, quindi, per il fatto che la conciliazione costituisce una vicenda stragiudiziale, della quale il giudice conosce – alla stre-gua di ogni altra allegazione processuale – ai soli fini di verificarne l’incidenza sul processo.

la conseguenza è che, essendo la conciliazione idonea, secondo quanto si dirà più avanti, a definire la controversia, il giudice non dovrà fare altro che verificare la sussistenza dei requisiti formali della stessa e la sua congruenza rispetto alla materia del contendere (essendo ovviamente irrilevante una conciliazione, pur formalmente perfetta, che attenga a fatti e questioni diverse da quelle controverse in giudizio). se tali verifiche forniscono esito positivo, l’esistenza dei presupposti affinché la conciliazione produca l’effetto estintivo verrà dichiarata con decreto (atto sulla cui reale portata effettuale ci soffermeremo tra breve).

quanto alla conciliazione “ordinaria”, essa può aversi in due situazioni di-verse. o la conciliazione è raggiunta in udienza, e allora essa risulta da appo-sito verbale (art. 48, comma 3), oppure il giudice assegna un termine alle parti affinché esse, al di fuori dell’udienza, verifichino l’esistenza di presupposti per la definizione della controversia in via conciliativa; nel qual ultimo caso esse, ove raggiungano l’accordo, depositeranno una proposta di conciliazione da cui risulti l’adesione del ricorrente (art. 48, comma 4). Nel primo caso, l’idoneità della conciliazione a definire in tutto o in parte il giudizio (per la presenza dei relativi presupposti) sarà attestata dallo stesso verbale secondo quanto espres-samente previsto dall’art. 48, comma 3; nella seconda ipotesi deve ritenersi, nel silenzio della norma e salvo le precisazioni che saranno svolte fra breve, che tale accertamento risulterà sempre o da un processo verbale ovvero da un de-creto presidenziale in applicazione del modello procedimentale previsto per il caso in cui la conciliazione sia raggiunta e formalizzata in un atto predisposto fuori dall’udienza.

Il tratto che più marcatamente distingue la conciliazione “ordinaria” da quella “abbreviata” è l’esistenza di un, sia pur minimo, ruolo affidato alla commissio-ne. Mentre, come si è visto, nella conciliazione “abbreviata” il giudice conosce della conciliazione alla stregua di un qualsiasi fatto estintivo della pretesa (non diversamente, cioè, da quanto farebbe, ad es., ove fosse allegato l’avvenuto pa-gamento dell’imposta), nel caso della conciliazione “ordinaria” è possibile che la commissione svolga un ruolo di stimolo, inducendo le parti ad addivenire ad una soluzione conciliativa o, secondo l’espressione adoperata dall’art. 48, secondo comma, esperendo d’ufficio il tentativo di conciliazione.

se la conciliazione è raggiunta in udienza, il termine di venti giorni per il pagamento dell’imposta e delle sanzioni decorre dalla data del processo verbale di conciliazione.

se la conciliazione è raggiunta fuori dall’udienza (tanto con rito ordinario, quanto con rito abbreviato) il termine (sempre di venti giorni) per il pagamen-

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to decorre dalla comunicazione del decreto (o del processo verbale) di cui si è detto.

occorre, a questo punto, soffermarsi sulla funzione e sugli effetti del pro-cesso verbale e del decreto presidenziale anche al fine di spiegare perché tali atti debbano essere adottati, a mio avviso, anche nelle ipotesi in cui non siano espressamente contemplati.

Per quanto riguarda il processo verbale – il quale, alla stregua di quanto previsto dall’art. 88 disp. att. c.p.c. per la conciliazione nel processo civile, deve essere “apposito”, ossia distinto dal verbale d’udienza –, non sembra in primo luogo dubbio che esso contiene la documentazione dell’accordo. al riguardo si deve rilevare che la conciliazione, costituendo atto dispositivo per il quale non è richiesta la forma scritta ad substantiam, può risultare solo dalle dichiarazioni rese dalle parti e documentate dal giudice come pubblico ufficiale, senza neces-sità che il processo verbale sia dalle stesse sottoscritto.

In secondo luogo, il processo verbale ha funzione di titolo esecutivo. ov-viamente, un simile titolo non ha ragion d’essere se le somme dovute in base alla conciliazione devono essere versate in un’unica soluzione, perché in caso di mancato pagamento il giudizio prosegue per essere deciso nel merito. Diver-samente, in caso di rateazione, poiché l’effetto estintivo si produce con il paga-mento della sola prima rata, la necessità di un titolo esecutivo appare evidente al fine di procedere coattivamente, in base a ruolo, nei confronti del debitore principale e del coobbligato dipendente (ossia del fideiussore) ove anche questo risultasse inadempiente. Val solo la pena di segnalare che il comma 419 della l. n. 311 del 2004 ha aggiunto all’art. 48 il comma 3-bis, ai sensi del quale in caso di mancato pagamento anche di una sola delle rate successive, se il ga-rante non versa l’importo garantito entro la notificazione di apposito invito, il competente ufficio dell’agenzia delle entrate provvede all’iscrizione a ruolo delle predette somme a carico del contribuente e dello stesso garante. Poiché, già in via interpretativa, poteva pacificamente giungersi alla conclusione che il mancato adempimento da parte del contribuente o del garante consentisse all’ufficio di procedere alla riscossione mediante ruolo, il vero significato innovativo di tale disposizione dovrebbe farsi consistere nella previsione che il mancato pagamento anche di una sola delle rate comporta la decadenza dal beneficio del termine e, quindi, anche l’iscrizione a ruolo di tutte le ulteriori rate il cui pagamento avrebbe dovuto avvenire successivamente.

Infine, come in parte già rilevato, il processo verbale contiene un’anticipata valutazione dell’esistenza dei presupposti per la conciliazione. sarebbe, infatti, incongruo prevedere un obbligo di pagamento a carico del contribuente prima di un accertamento dell’idoneità della conciliazione a definire il giudizio, ed è appunto tale funzione preventiva che è assolta dall’atto summenzionato.

Per quanto attiene al decreto previsto dall’art. 48, comma quinto, si deve par-tire dalla considerazione che, secondo quanto stabilito dalla disposizione mede-sima, per un verso, il decreto e la proposta tengono luogo del processo verbale di cui al comma terzo, e, per l’altro verso, con il decreto il presidente della commissione dovrebbe dichiarare l’estinzione del giudizio.

Tuttavia, emerge con evidenza come queste indicazioni risultino estremamente imprecise per una pluralità di ragioni.

In primo luogo, deve escludersi che la funzione di documentazione dell’ac-

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cordo sia affidata (anche) al decreto presidenziale, risultando evidente che a tal fine è del tutto sufficiente la proposta scritta formulata dall’ufficio e l’adesione del contribuente che risulta dalla proposta medesima.

In secondo luogo, deve escludersi che il decreto presidenziale abbia anche la funzione di definire il giudizio nelle ipotesi in cui dalla proposta risulti un’im-posta da pagare – circostanza che, come si è detto, non ricorre necessariamente nelle ipotesi di conciliazione – e questa non sia stata pagata per intero, ovvero, comunque, non risulti al momento della pronuncia del decreto tanto il paga-mento della prima rata quanto la prestazione delle garanzie previste dal comma terzo dell’art. 48. Ciò impone all’interprete di ricostruire la disciplina forzando in ogni caso il dato letterale; ed in questa prospettiva, due sono le soluzioni ipotizzabili.

secondo la prima, si deve tener fermo che l’estinzione va pronunciata sempre e solo con decreto, il quale sarà anche l’unico atto della commissione a valle del deposito della proposta da cui risulta l’adesione del contribuente nelle ipo-tesi in cui non sia dovuta l’imposta ovvero allorquando il contribuente decida di pagare comunque quanto dovuto sulla base della proposta e provi l’avvenuto pagamento (ovvero il pagamento della prima rata e l’esistenza delle garanzie) contestualmente al deposito della proposta di conciliazione; viceversa, nell’ipotesi in cui dalla conciliazione risulti un’imposta dovuta, ed il contribuente non l’abbia pagata, l’accertamento della sussistenza dei presupposti per la conciliazione (la quale, nel caso precedente era contenuto nel processo verbale) avverrà con un atto intermedio – che potremmo, per omogeneità, continuare a chiamare proces-so verbale – emesso il quale il contribuente potrà, nel termine di venti giorni, procedere al pagamento dell’intero importo o della prima rata dello stesso. Il presidente della commissione, constatato quindi il perfezionamento dell’accordo conciliativo, pronuncerà l’estinzione del giudizio con il già ricordato decreto.

secondo l’altra soluzione, invece, il decreto svolge la funzione di dichiarare l’estinzione del giudizio solo nelle ipotesi in cui non sia dovuta alcuna impo-sta in base alla conciliazione raggiunta fuori udienza, ovvero consti, insieme al deposito della proposta, anche il pagamento delle somme che risultano dovute in base alla stessa (ovvero il pagamento della prima rata e la prestazione della garanzia). Nel caso in cui, invece, l’imposta (pur dovuta) non sia stata pagata, l’accertamento dei presupposti per la definizione in via conciliativa risulterà dal decreto (senza, quindi, necessità di alcun atto intermedio) dalla cui comunica-zione decorrono i termini per il versamento della prima o unica rata e per la prestazione delle eventuali garanzie. seguendo questa diversa prospettazione, tut-tavia, la dichiarazione dell’estinzione del giudizio dovrà risultare da una sentenza pronunciata dalla commissione a seguito del riscontro dell’avvenuta verificazione dell’evento (pagamento ed eventuale costituzione di garanzie) cui è subordinato il perfezionamento della conciliazione.

In tutte e due le ipotesi prospettate, tuttavia, il decreto continua ad assolvere la funzione di titolo per la riscossione delle ulteriori rate (con applicazione della disposizione di cui al già citato comma 3 bis).

5.2 Gli effetti della conciliazione e la sentenza che definisce il giudizio

la conciliazione produce due distinti effetti, dei quali l’uno è necessario e l’altro eventuale.

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l’effetto costante derivante dal perfezionamento della conciliazione è la defi-nizione della lite con conseguente cessazione della materia del contendere (ove la definizione sia totale). In realtà, l’art. 48 afferma che la conciliazione estingue il processo, ma tale affermazione deve ritenersi errata sotto due distinti profili.

In primo luogo, perché, come si è già rilevato trattando dell’estinzione in ge-nerale, il legislatore tributario ha impropriamente accomunato alle vere e proprie ipotesi di estinzione anche vicende caratterizzate per il fatto che il processo si chiude con una decisione, qual è quella di cessazione della materia del conten-dere, che è pur sempre di merito, sebbene connessa a un evento successivo alla proposizione dell’azione.

In secondo luogo, l’estinzione – nel senso appena precisato – si verifica solo se la conciliazione è totale, altrimenti la sentenza che accerta la parziale defini-zione del giudizio dovrà anche pronunciarsi sulla parte di merito non interessa-ta dalla stessa, non essendo ammesse nel processo tributario sentenze parziali. Ne consegue che, sempre con riguardo alle ipotesi in cui la conciliazione si sia formata fuori udienza, ove questa abbia idoneità a definire solo parzialmente la lite, il decreto si limiterà, necessariamente, ad accertare l’esistenza dei presuppo-sti per la conciliazione (e, in specie, la sua idoneità a definire le questioni che ne costituiscono oggetto) e a disporre la prosecuzione del giudizio per la sua decisione nel merito nel senso di cui sopra.

Con specifico riguardo alla conciliazione parziale, si deve ancora notare come essa possa aversi non solo allorquando la definizione investa alcune soltanto delle plurime controversie cumulativamente portate alla cognizione del giudice tributa-rio, ma anche ove vengano conciliate una o più fra le molteplici questioni oggetto di una singola lite. e infatti, ciò risulta coerente con la tesi, più volte ribadita, secondo cui il processo tributario ha ad oggetto l’accertamento negativo della fon-datezza della pretesa, espressa nell’atto impugnato, in ordine al modo di essere del rapporto o di un segmento dello stesso. Proprio l’attitudine della pretesa di cui gli atti impugnabili costituiscono espressione ad investire specifici profili del rapporto tributario consente di affermarne la tendenziale scindibilità e, quindi, la possibilità di raggiungere la conciliazione rispetto ad una o più parti della stessa.

Né questa conclusione trova ostacolo nel fatto che, secondo tale ordine di idee, potrebbe anche mancare un’imposta dovuta (si pensi al caso in cui si rag-giunga una conciliazione in ordine alla misura delle perdite degli esercizi prece-denti riportabili a nuovo e non rispetto all’entità del reddito d’impresa dell’eser-cizio oggetto d’accertamento); giacché, come si è detto, la debenza di imposte e sanzioni non costituisce carattere necessario della conciliazione giudiziale.

Il raggiungimento della conciliazione consente, inoltre, alla parte di benefi-ciare di una riduzione delle sanzioni a un terzo di quelle effettivamente irrogate e, comunque, in misura non inferiore a un terzo del minimo edittale. Tuttavia, come si è ampiamente anticipato, tale effetto – che caratterizza in senso premiale la conciliazione giudiziale – non è sempre presente, potendo esso mancare in tutti i casi – ad alcuni dei quali si è fatto prima cenno – in cui la definizione non comporti la debenza di alcuna imposta.

avendo chiaro il descritto quadro d’insieme, è agevole a questo punto stabi-lire come, sotto il profilo procedimentale, si articola l’ultima fase del giudizio conciliativo.

se il giudice nega l’esistenza dei presupposti per la conciliazione, il processo

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proseguirà per l’accertamento del merito e si chiuderà con sentenza. questa, ovviamente, potrà essere appellata anche con riferimento alla questione deci-sa in primo grado circa l’esistenza dei presupposti per la conciliazione, con la conseguenza che, ove il giudice di secondo grado dovesse ritenere sussistenti i presupposti, dichiarerà l’estinzione del giudizio (dopo aver concesso termine, se del caso, per il pagamento necessario al perfezionamento della stessa). se, peraltro, si ammette che, in talune ipotesi, l’accertamento dell’(in)esistenza dei presupposti per la conciliazione possa risultare dal decreto presidenziale, questo sarà reclamabile ai sensi dell’art. 28.

ove, invece, il giudice ritenga ammissibile la conciliazione, occorre distinguere fra le ipotesi in cui la conciliazione è parziale e quelle in cui la conciliazione è totale.

Nel primo caso, con tutta evidenza, non potrà aversi estinzione del giudizio e, quindi, anche in tutte le ipotesi in cui l’accertamento della esistenza dei ri-chiamati presupposti sia contenuto nel decreto presidenziale, quest’ultimo non avrà attitudine a definire la lite. Cosicché, il giudizio riprenderà affinché la com-missione decida il merito, su istanza dalla parte più diligente ovvero per ordine del giudice contenuto nel decreto, successivamente al pagamento ovvero decorso inutilmente il termine per lo stesso. In questa ipotesi, in particolare, la decisione riguarderà l’intero merito se non vi è stato il pagamento (e quindi manchi to-talmente l’effetto estintivo); mentre, se vi è stato il pagamento, la sentenza che conclude il giudizio riguarderà il merito delle questioni non conciliate e dichia-rerà la cessazione della materia del contendere per il resto.

se la conciliazione è totale, invece, l’estinzione del giudizio è dichiarata con decreto o con sentenza a seconda che la conciliazione sia raggiunta, rispetti-vamente, fuori udienza (con le possibili varianti dipendenti da quale delle tesi prima illustrate si sposi per il caso della conciliazione raggiunta fuori udienza, ma senza previo pagamento dell’imposta) ovvero durante la stessa.

In tutte le ipotesi in cui l’estinzione è dichiarata con sentenza, la pronuncia di primo grado potrà essere impugnata, oltre che per motivi attinenti al merito, anche per profili riguardanti il corretto apprezzamento dell’effetto estintivo.

quanto al decreto di cui all’art. 48, quinto comma, abbiamo visto, peraltro, che esso può avere ad oggetto solo l’accertamento dell’idoneità della conciliazione a definire la lite (e non a dichiarare l’estinzione del giudizio). Più in particolare, ciò avviene sicuramente là dove l’accordo conciliativo sia idoneo a definire solo parzialmente la lite, nonché, se si segue la seconda delle soluzioni alternative prima proposte, in tutti i casi in cui la definizione sia totale e vi siano comunque somme da pagare. In simili ipotesi, il decreto è, in linea di principio, reclama-bile, ma, poiché non ha attitudine a definire il giudizio, nessuna conseguenza deriverà dalla mancata proposizione del reclamo.

Vi sono, però, altre ipotesi in cui, invece, il decreto suddetto produce anche l’effetto estintivo; in particolare ciò avviene sempre, seguendo la prima delle due soluzioni prima esaminate, se la definizione raggiunta fuori udienza è idonea a definire totalmente la lite, ovvero, se si segue la soluzione alternativa, nei soli casi in cui la definizione sia totale e, al tempo stesso, da questa non emerga alcuna somma dovuta ovvero quanto dovuto sia pagato contestualmente al de-posito della proposta di conciliazione. In simili ipotesi, l’unico rimedio per far valere l’inesistenza dell’effetto estintivo sarà costituito dal reclamo.

Pasquale Russo

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si deve però notare che entrambe le soluzioni proposte consentono di esclu-dere la possibilità, paventata da una parte delle dottrina, di una riduzione dei termini effettivi per la proposizione del reclamo a soli dieci giorni. Infatti, si è da alcuni ritenuto che il decreto possa avere efficacia estintiva anche nelle ipo-tesi in cui dalla conciliazione emerga una somma da pagare e, al tempo stesso, che anche in tali casi il decreto debba essere emesso prima del pagamento. Con la conseguenza che l’effetto estintivo potrebbe essere rimosso solo proponendo reclamo ove sia decorso inutilmente il termine di venti giorni per il pagamento e, quindi, quando residuano solo dieci giorni rispetto al termine fissato dall’art. 28. secondo la soluzione da noi prospettata, invece, insuperabili motivi logico-sistematici impediscono di ritenere che l’estinzione del giudizio possa essere dichiarata quando la conciliazione non si è perfezionata (per mancanza del pa-gamento), cosicché il decreto che eventualmente accerti l’estinzione del giudizio sarà sempre posteriore al pagamento (se dovuto) ed il termine per il reclamo non subisce alcuna riduzione, sia pure solo de facto.