L’emergere del negativo nella filosofia giovanile di Hegel

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L’emergere del negativo nella filosofia giovanile di Hegel Francesca Brencio Per Ilir «A chi mi domanda che cosa abbia fatto Hegel, io rispondo che ha redento il mondo dal male perché ha giustificato questo nel suo ufficio di elemento vitale» * Benedetto Croce «Il fatto che l’accidentale in quanto tale, separato dalla propria sfera, il fatto che ciò che è legato ad altro ed è reale solo in connessione ad altro ottenga un’esistenza propria e una libertà separata, tutto ciò costituisce l’immane potenza del negativo: tutto ciò è l’energia del pensiero, dell’io puro. La morte, se così vogliamo chiamare quella irrealtà, è la cosa più terribile, e per tener fermo ciò che è morto è necessaria la massima forza. Se infatti la bellezza impotente odia l’intelletto, ciò avviene perché si vede richiamata da questo a compiti che essa non è in grado di assolvere. La vita dello Spirito, invece, non è quella che si riempie d’orrore dinanzi alla morte e si preserva integra dal disfacimento e dalla devastazione, ma è quella vita che sopporta la morte e si mantiene in essa. Lo Spirito conquista la propria verità solo a condizione di ritrovare se stesso nella disgregazione assoluta. Lo Spirito è questa potenza, ma non nel senso del positivo che distoglie lo sguardo dal negativo come quando ci sbarazziamo in fretta di qualcosa dicendo che non è o che è falso, per passare subito a qualcos’altro. Lo Spirito è invece questa potenza solo quando guarda in faccia il negativo e soggiorna presso di esso. Tale soggiorno è il potere magico che converte il negativo nell’essere» 1 . Questa pagina della Fenomenologia dello spirito rappresenta il massimo vertice del pensiero hegeliano sul negativo, meditazione questa che ha impegnato il filosofo di Stoccarda in modo costante in tutto il corso della sua riflessione. Proprio questa pagina dell’opera del 1807 narra la “potenza del negativo” in modo insuperabile rispetto agli altri scritti del filosofo. L’interesse riservato da Hegel al tema del negativo non è semplicemente un interesse intellettuale, iscritto all’interno delle esigenze che la costruzione del sistema 1 1

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L’emergere del negativo nella filosofia giovanile di Hegel

Francesca Brencio

Per Ilir

«A chi mi domanda che cosa abbia fatto Hegel, io rispondo che ha redento il mondo dal male

perché ha giustificato questo nel suo ufficio di elemento vitale»∗

Benedetto Croce

«Il fatto che l’accidentale in quanto tale, separato dalla propria sfera, il fatto che ciò che è legato ad altro ed è reale solo in connessione ad altro ottenga un’esistenza propria e una libertà separata, tutto ciò costituisce l’immane potenza del negativo: tutto ciò è l’energia del pensiero, dell’io puro. La morte, se così vogliamo chiamare quella irrealtà, è la cosa più terribile, e per tener fermo ciò che è morto è necessaria la massima forza. Se infatti la bellezza impotente odia l’intelletto, ciò avviene perché si vede richiamata da questo a compiti che essa non è in grado di assolvere. La vita dello Spirito, invece, non è quella che si riempie d’orrore dinanzi alla morte e si preserva integra dal disfacimento e dalla devastazione, ma è quella vita che sopporta la morte e si mantiene in essa. Lo Spirito conquista la propria verità solo a condizione di ritrovare se stesso nella disgregazione assoluta. Lo Spirito è questa potenza, ma non nel senso del positivo che distoglie lo sguardo dal negativo come quando ci sbarazziamo in fretta di qualcosa dicendo che non è o che è falso, per passare subito a qualcos’altro. Lo Spirito è invece questa potenza solo quando guarda in faccia il negativo e soggiorna presso di esso. Tale soggiorno è il potere magico che converte il negativo nell’essere»1.

Questa pagina della Fenomenologia dello spirito rappresenta il massimo vertice del pensiero hegeliano sul negativo, meditazione questa che ha impegnato il filosofo di Stoccarda in modo costante in tutto il corso della sua riflessione. Proprio questa pagina dell’opera del 1807 narra la “potenza del negativo” in modo insuperabile rispetto agli altri scritti del filosofo. L’interesse riservato da Hegel al tema del negativo non è semplicemente un interesse intellettuale, iscritto all’interno delle esigenze che la costruzione del sistema

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impone; piuttosto, lo spessore che questa problematica investe nel corso della sua speculazione è riconducibile ad esigenze di più ampio respiro, radicate non solo nell’impostazione filosofica di Hegel ma anche nell’anima dell’uomo, corroborate nel momento della sua formazione, degli ideali degli anni giovanili che hanno segnato profondamente l’evoluzione del suo pensiero. Al fondo della filosofia hegeliana, della stessa filosofia dell’età più matura, emerge in modo costante e a più riprese declinato un elemento permanente che disegna l’itinerario filosofico di Hegel: l’elemento tragico, romantico e religioso coltivato negli anni dello Stift, un elemento che prende le mosse dall’interesse verso i problemi morali e religiosi degli scritti giovanili e che perdura nel corso della sua speculazione successiva.

Queste prime istanze teoretiche si fondono con quelle di altri pensatori, che nel periodo di Tubinga sono amici e compagni. Nel periodo del Bund2, egli è vicino ad Hölderlin3 ed a Schelling per il comune sentimento del dolore dell’opposizione che sorregge il reale, per l’agognata tensione al modello metafisico dell’en kai pan per l’avvento del “Regno di Dio”, per la figura di Cristo come declinazione dell’Uno-Tutto4, per l’ideale della realizzazione di un’umanità libera5 – così come la rivoluzione francese stava insegnando6. Il giovane Hegel in questo periodo avverte come l’infelicità sia separazione, non solo dal resto del mondo ma anche da se stessi, avverte il “No” eterno dell’Iperione hölderliniano e, «più schilleriano di Schiller, Hegel non sopporta l’infelicità che è nella scissione, nella rottura dell’armonia, quell’armonia che la Grecia esemplarmente seppe possedere e che il mondo moderno ha irrimediabilmente perduto, come l’ambizione e l’inquietudine dell’illuminismo dimostrano»7. Come l’eroe hölderliniano, anche Hegel diventa la coscienza che il mondo ha della propria infelicità e del proprio movimento dialettico. È “coscienza infelice”, scissa, lacerata: «Nella coscienza infelice […] viene già rappresentato lo struggimento romantico e la lacerazione, che, nell’estraniazione dello spirito, ancora una volta ritorna come fede, più avanti come anima bella e alla fine come trapasso dalla religione disvelata al sapere assoluto»8.

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L’interesse verso il negativo quindi, si potrebbe dire, è un interesse esistenziale, il quale tuttavia assume la veste della necessità logico-dialettica propria del sistema; ma non solo: il negativo è il vero tema che percorre tutta la filosofia di Hegel9. Esso inizialmente rimanda ad uno squilibrio profondo che caratterizza tutta l’umanità e di cui il filosofo prende coscienza, ad una lacerazione autentica dell’anima, per diventare poi termine di mediazione attraverso cui sanare questa stessa lacerazione. Certamente esso viene ricompreso in un momento superiore e successivo, ricondotto ad una sintesi all’interno della quale trova collocazione. Ma questo soggiornare del negativo nella sintesi si trasforma di fatto in un costante riproporsi del medesimo, in un costante incedere del negativo stesso in nuovi momenti dialettici. Lo spirito soggiorna presso il negativo, non distoglie lo sguardo da esso per additare soluzioni eudaimonistiche tali da sbarazzarsi del negativo, di ogni sua singola manifestazione in vista di altro10; lo spirito ha in sé la potenza di essere nel negativo e permanere nel suo stato. Il negativo è la porta d’accesso che conduce alla sintesi, alla felicità, passando attraverso la lacerazione. Come afferma Jean Wahl, «la filosofia di Hegel non può essere ridotta ad alcune forme logiche. O piuttosto tali formule dissimulano qualcosa che non è d’origine puramente logica. La dialettica, prima di essere un metodo, è un’esperienza attraverso cui Hegel passa da un’idea all’altra. La negatività è il movimento stesso attraverso cui uno spirito procede continuamente al di là di ciò che è» 11. Il negativo e la negazione diventano gli strumenti del movimento dialettico, sono «il movimento stesso»12.

L’affermarsi della radicalità del negativo, quale elemento fondamentale della riflessione di Hegel, avviene negli anni successivi al 1797, agli anni cioè solitamente considerati anni della “crisi” dell’itinerario speculativo ed esistenziale di Hegel. È questo il periodo di Francoforte. Egli giunge nell’ “infelice” Francoforte da Berna, dove già nell’autunno del 1797 era apparso alla sorella in uno stato di visibile chiusura verso il mondo e verso se stesso13. Su incoraggiamento dell’amico Hölderlin, anch’egli preoccupato per l’improvviso cambiamento dell’animo di Hegel14, avviene il trasferimento; proprio Hölderlin riesce a procurargli un posto come precettore in una famiglia da lui conosciuta e stimata. Il trasferimento non lenisce la malinconia che Hegel ha in sé. Nella lettera a

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Nanette Endel del 9 febbraio 1997 egli scrive: «Mi sono deciso, dopo matura riflessione, […] a ululare con i lupi»15 ed un mese dopo confessa alla sua interlocutrice di sforzarsi per diventare simile al mondo in cui è ospite16. La malinconia del giovane Hegel è quasi una malinconia metafisica: non c’è alcun luogo o alcun oggetto che possano lenirla, che possano contribuire a rasserenare e conciliare l’animo turbato del filosofo. La frattura con il mondo, che ora è rappresentato da Francoforte, è sempre più evidente; ancora in una lettera a Nanette del 2 luglio 1797 egli scrive: «Il ricordo di questi giorni vissuti in campagna ora mi spinge di continuo a uscire da Frankfurt; e come là mi conciliavo sempre con me stesso e con gli uomini in braccio alla natura, qui spesso mi rifugio presso questa madre fedele, per riaprire i dissidi con gli uomini con i quali vivo in pace, per premunirmi sotto la sua egida dal loro influsso e impedirmi di dover accettare un patto con loro»17.

La lacerazione è palpabile nell’anima di Hegel ed egli ne ha consapevolezza; come sottolinea Franz Rosenzweig, «i rapporti umani di Berna per Hegel sono ormai cosa passata. Li ha lasciati alle sue spalle. Permane però la frattura fra lui e l’ambiente, che solo ora è divenuta realmente profonda, insanabile […]. Egli sdegna tuttavia la riconciliazione […] e si rifugia sotto l’egida della solitudine, fuggendo il mondo amico – “vuole la sofferenza”: ecco le parole che in seguito esprimeranno il suo stato d’animo […], una sofferenza però contro la quale non esiste e non deve esistere nessun rimedio e neppure lotta, proprio perché l’uomo vuole la sofferenza; tenta di salvaguardarsi dal mondo, di conservare la sua estraneità ad esso»18. La solitudine, la sofferenza, la scissione con il mondo che lo circonda sono i segni dell’insanabile lacerazione che l’uomo Hegel – prima che il filosofo – avverte.

È in questa fase della sua riflessione che egli esperisce un negativo inerziale, passivo, autodistruttivo; eppur in questa esperienza egli «fissa gli occhi della mente sull’iperuranio indisponibile, com’è noto, a ospitare l’ eidòs del negativo. Nelle pagine dello Spirito del cristianesimo e il suo destino Hegel ha realmente portato alla luce, alla piena visibilità, il negativo ipertrofico cresciuto all’ombra di quella coscienza occidentale che ha destituito di consistenza il male, opponendogli l’altrove»19.

Il passaggio da Berna a Francoforte è denso di significative svolte nel percorso intellettuale del giovane Hegel; egli si scioglie progressivamente dalla dipendenza della filosofia di Kant, approfondendola20, per avvicinarsi all’idealismo che il pensiero tedesco

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stava inaugurando: «In questo periodo francofortese si compiva la completa trasformazione del suo spirito che, iniziatasi a Berna, si era sviluppata con l’approfondimento degli studi storici e sotto l’influsso ancora dominate del più precoce Schelling»21. In una prima fase della sua attività speculativa, Hegel si confronta con lo studio della politica e della storia contemporanea in generale22. Tuttavia, tra il 1799 e il 1800 gli studi politici cedono il passo a quelli dedicati alla religione, riprendendo un tema a cui egli si era interessato sin da Tubinga, cioè la critica alla religione positiva.

Questa si muove di pari passo con l’approfondirsi dell’interesse verso la religione intesa come ultima manifestazione dello spirito. Proprio nel frammento di sistema programmatico Hegel trascrive: «La filosofia deve terminare con la religione appunto perché la filosofia è un pensare, e dunque ha l’opposizione da una parte del non-pensare e dall’altra parte del pensante e del pensato: essa ha il compito di mostrare in ogni finito la finità, e di promuoverne per mezzo della ragione il compimento, [specialmente riconoscendo, attraverso l’infinito di sua competenza, le illusioni e ponendo così il vero infinito fuori dalla sua sfera]. L’innalzamento del finito ad infinito si caratterizza appunto per ciò come innalzamento della vita finita a infinita, a religione»23. La religione è la forma più universale della rappresentazione che lo spirito, storicamente, ha della propria essenza.

È questo il momento di confrontarsi con la lacerazione che egli stava esperendo e di verificare una possibilità di conciliazione. Nello Spirito del cristianesimo e il suo destino Hegel compie un primo tentativo di conciliazione attraverso la figura di Gesù, secondo un ritmo dialettico, di derivazione schellinghiana, di unità-scissione-riconciliazione. Qui, Gesù è lontano dall’immagine che egli aveva pennellato nella Vita di Gesù, durante il soggiorno a Berna del 1795; non più il profeta della morale kantiana, ma simbolo dell’amore e della vita, unico termine in grado di risolvere il dualismo tra soggetto ed oggetto, tra inclinazione personale e legge morale; come scrive Jean Wahl, «il Gesù di Hegel è il fratello di Antigone proclamante idee non scritte al di sopra di leggi scritte. Come Antigone sarà preso nei ceppi del destino, ma come lei li domina»24. Cristo è l’unificazione degli opposti, toglimento della differenza, di tutte le differenze: idea e realtà, umano e divino, singolo e molteplice, soggettivo ed oggettivo. Cristo diventa così l’unione dell’unione e della non unione, esso è la riconciliazione, l’accordo tra lo spirito e la natura.

Tuttavia, l’interpretazione hegeliana di Cristo intesa nei termini di amore e di vita si pone di contro alla tradizione veterotestamentaria e neotestamentaria. In questa prospettiva, Cristo sta solo sia contro la credenza del suo popolo sia contro il

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fraintendimento dei suoi discepoli. Gesù non porta a compimento la fede d’Israele ma la supera, oltrepassa l’alienazione espressa dal Dio trascendente, da quel Dio che è idea separata dalla realtà. La religione mosaica, nell’intendimento del giovane Hegel, viene così concepita come una religione della scissione: essa vive nell’infelicità ed il Dio degli ebrei è la rappresentazione massima di questa scissione. Davanti a questo Dio, persino l’ebreo è separato da esso e non solo dagli altri popoli. Il rapporto che lega l’ebreo al suo Dio è simile alla dialettica di signore e servo: l’ebreo «non poteva unirsi agli oggetti; doveva essere il loro schiavo o il loro padrone. Il Dio degli ebrei, conclude Hegel, è la massima separazione; esso esclude ogni unione. Il loro motto è: servire – ma nel servizio l’anima loro non fa dono di sé. Il loro motto è: dovere – ma il dovere non può essere pienamente realizzato e resta dovere»25. La religione ebraica conosce un Dio che è il Dio del bisogno; essa, pur attendendo il Messia che liberi il popolo d’Israele dalla schiavitù e che lo guidi nella storia e nel regno di Dio, tuttavia non riconosce a questo Messia il significato dell’amore, relegando la venuta di Cristo alla stessa estraneità con cui Israele conosce Dio ed adora Dio. In questo servaggio infelice riposa «la grande tragedia del popolo ebraico», la quale «non è una tragedia greca; non può suscitare né terrore né compassione»26, ma destare orrore. «Il destino del popolo ebraico è il destino di Macbeth, che si staccò dalla natura stessa, si legò ad essenze estranee, e per servirle dovette uccidere e disperdere ogni cosa sacra della natura umana, dovette alla fine essere abbandonato dai suoi propri dei (giacché questi erano oggetti, ed egli il loro servo) ed essere nella sua fede stritolato»27.

È sullo sfondo del suo radicale antigiudaismo, non di origine cristiana né razziale ma di derivazione illuminista, che Hegel pone la figura di Cristo, la quale si staglia in questo sfondo come unico ed autentico messaggero dell’amore. Gesù si contrappone alla dialettica ebraica di idea e realtà, di soggettività ed oggettività, di signoria e servitù, di Dio e l’uomo. Il toglimento delle opposizioni avviene solo in nome dell’amore: «La potenza dell’oggettivo è infranta solo dall’amore»28; la «riconciliazione nell’amore, in luogo del ritorno ebraico all’obbedienza, è liberazione, in luogo del riconoscimento di una signoria è il toglimento di questa nella ricostruzione di un vivo legame»29. La ricostruzione di questo “vivo legame” come lo chiama Hegel, di ciò che altrimenti sarebbe scisso, è possibile solo nel superamento del dissidio. Per rendere effettivo tale superamento, Hegel opera un’inversione di rotta rispetto alla predicazione di Cristo della Leben Jesu: non più moralità contrapposta alla legalità, ma «virtù senza dominio e senza sottomissione, modificazioni

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dell’amore»30; Cristo chiede che si abbandoni il diritto ed il dovere per accedere all’amore, in cui il particolare e l’universale sono ricongiunti. «Come l’Empedocle di Hölderlin, Gesù predica il ritorno all’intero, alla totalità dell’uomo, all’unione con la natura. L’uomo non deve più porsi al di fuori e al di sopra delle sue azioni per averne coscienza, per compiacersi o biasimarsi. Deve agire in una sorta di spontaneità incosciente. Non presta più attenzione all’approvazione propria o degli altri, l’una e l’altra restanti nella sfera delle false generalità del fariseismo e della divisione. Non c’è più nulla cui si desideri comandare. Se l’amore si presenta sotto forma di un precetto, è a causa delle necessità del linguaggio; in se stesso è al di sopra di ogni precetto. C’è ormai solo una vita uguale, identica in noi e nel nostro prossimo»31. Il messaggio di Cristo fa del cristianesimo una religione della speranza che si contrappone alla religione della disperazione degli ebrei.

In questa nuova visione di Cristo e, più in generale, visione del mondo, la stessa natura recupera la sua ingenuità, non si presenta più come «diluvio, come deserto, o devastazione delle alture»32; essa viene restaurata nella sua integrità. «Nell’amore la vita ha ritrovato la vita. Fra i peccati e la loro remissione non s’intromette un elemento estraneo come fra peccato e punizione. La vita si è inimicata con se stessa e si è riunificata» 33. La vita può sanare questa inimicizia, questa lacerazione e Cristo è il simbolo di questa vita che sana, che unifica. Proprio perché Cristo è riconciliazione, è amore e vita che riconcilia, ciò doveva scontrarsi con la coscienza del popolo ebreo: «Nello spirito degli ebrei però c’era un incolmabile abisso, un tribunale estraneo, tra impulso e azione, tra desiderio e fatto, tra vita e colpa, tra colpa e perdono; così quando essi furono indirizzati al legame che l’amore stabilisce nell’uomo tra peccato e riconciliazione, la loro natura priva di amore dovette ribellarsi, e quando il loro odio prese la forma di un giudizio, il pensiero di un simile legame dovette apparire loro come pensiero di un pazzo. Infatti, essi avevano affidato ogni armonia fra gli esseri, ogni amore, spirito e vita, ad un oggetto estraneo»34.

Ciò che attendevano gli ebrei era che la riconciliazione passasse attraverso la Grazia, non attraverso l’uomo. Dinanzi al Dio oggettivo degli ebrei, Cristo si richiama alla sua natura divina: «Nella sua opposizione egli si presentò ai loro occhi solo come un individuo. Per rimuovere il pensiero di questa individualità Gesù si richiamò sempre, specialmente nel vangelo di Giovanni, alla sua unità con Dio»35. Cristo è l’unione dell’uomo e del Dio, è egli stesso Dio e uomo, figlio di Dio e figlio dell’uomo: «Il figlio di

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Dio è anche figlio dell’uomo: il divino appare in una figura particolare, come uomo; la connessione del finito con l’infinito è certamente un sacro mistero, poiché questa connessione è la vita stessa»36. Questa potenza dell’amore che riconcilia ed unifica, l’unità con Dio mediante il toglimento della differenza con esso non vennero riconosciute dagli ebrei: «Come avrebbero potuto riconoscere in un uomo qualcosa di divino, essi, i poveri, che portavano con sé soltanto la coscienza della loro miseria, della loro profonda servitù, della loro opposizione al divino, la coscienza di un incolmabile abisso tra umano e divino? […] Essi vedevano in Gesù soltanto l’uomo, il nazareno, il figlio del falegname […]. Nella turba degli ebrei doveva naufragare il suo tentativo di dare loro la coscienza di qualcosa di divino, perché la fede in qualcosa di divino, di grande, non può albergare nel fango»37.

Tuttavia, pur essendo Cristo la riconciliazione, egli stesso si rassegna a portare in sé la sofferenza di una conciliazione che sarebbe altrimenti impossibile. Nel suo amore, essendo egli stesso amore, c’è il segno di un destino infelice. La separazione, la lacerazione che caratterizza il popolo ebraico è da Cristo stessa esperita, subita tragicamente: «Annunziatore dell’unione, Gesù doveva preparare proprio per questo una separazione profonda quant’altra mai […]. Gesù è la coscienza infelice, la più essenziale […] egli porta una croce più pesante di quanto non fosse il suo simbolo temporale»38. In tal senso, nella figura di Cristo emerge il negativo, si fa strada cioè il senso della morte e del sacrificio, negativo ultimo a cui tutta la sua esistenza è chiamata a rispondere. Pur essendo unione che unifica e toglie le differenze, nel Cristo è presente l’Ebreo, in lui è presente la lacerazione che caratterizza il giudaismo; «come nel “processo” trinitario Cristo deve “togliersi” in quanto individuo, poiché la pienezza della riconciliazione di ha solo mediante lo Spirito, così, nella sua avventura storica, la figura di Gesù con la sua dottrina dell’amore è destinata al fallimento»39. Il suo destino è infelice al pari di quello di Empedocle: ma mentre quest’ultimo accetta il vuoto in cui sprofonda per insoddisfazione del mancato raggiungimento con l’Uno-Tutto a cui Hölderlin consegna la propria poetica, Cristo accetta il vuoto ed il dolore del mondo a lui contemporaneo ed ostile attraverso l’assoluta certezza della conciliazione nella consapevolezza di essere una sola cosa con Dio. «Attraverso la morte, e proprio questa morte doveva giustificare il disprezzo del mondo e fare di ogni essa un punto fisso»40. Affinché la conciliazione tra umano e divino possa davvero essere compiuta, Cristo deve togliersi: «L’avvento dello “spirito” richiede il sacrificio dell’essere

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individuale, il venir meno di ogni mediatore singolo tra uomo e Dio, di ogni figura che si affermi come via, verità, vita […]. Cristo deve morire. Ciò significa, per Hegel, che la mediazione singolare, individuale, tra finito e infinito non può che essere transitoria»41.

Il principio che soggiace alla figura di Cristo è il dolore infinito, la lacerazione assoluta della natura: «Senza questo dolore la conciliazione non ha alcun significato ed alcuna verità. Poiché questa è la potenza della religione, essa deve eternamente produrre questo dolore per poterlo eternamente conciliare. […] Il pensiero che Dio stesso era morto sulla terra esprime da solo il sentimento di questo dolore infinito, così come la sua conciliazione viene espressa dal fatto che egli è resuscitato dalla tomba. Attraverso la sua vita e la sua morte la divinità è umiliata, attraverso la sua resurrezione l’uomo è diventato divino»42. Così, «se l’Ebreo è la prima personificazione della coscienza infelice, Gesù, nel momento stesso in cui impersona la coscienza felice, è ancora la coscienza infelice. Niente del resto di più conforme all’hegelismo di quest’idea. Per operare un’unione infinita la religione presuppone una separazione infinita; la riconciliazione presuppone un dolore anteriore; la restaurazione dell’armonia, una differenza profonda»43. Con la morte di Cristo muore l’idea del Dio astratto, poiché la morte restaura l’universalità dello Spirito.

La morte di Cristo si collega strettamente al tema della morte di Dio e anche a quello della morte dell’uomo, del singolo, del finito. Questa triade (la morte dell’uomo, la morte di Cristo e la morte di Dio) rappresenta un argomento di indagine caro non solo ad Hegel ma anche a buona parte dei romantici. Il vero perno teoretico attorno il quale il filosofo indaga il problema della morte è la contraddizione. La morte è contraddizione: sia essa intesa come morte di Dio, sia come morte dell’uomo. Per comprendere quindi il senso della riflessione hegeliana attorno al problema della morte occorre rifarsi all’indagine che l’autore attua partendo dalla contraddizione.

Sin nel Primo sistema Hegel sottolinea la necessità di indagare le contraddizioni che animano il finito, contraddizioni che fanno del finito stesso un infinito. La mobilità del finito, il suo proprio poter trapassare dall’oggettivo al soggettivo e viceversa, mostra come la verità del finito sia l’infinito. La morte del finito è il paradigma per il quale il finito trapassa nell’infinito; essa rappresenta questo scivolare dell’uno verso l’altro. Nel percepire la morte, l’uomo avverte il negativo portato alla sua estrema manifestazione ed in ciò avverte altresì la propria soggettività nei termini di negazione della ragione. Nella morte si nega il finito, la vita, ma in questo negarsi la morte si comporta negativamente solo riguardo a ciò che nega, alla vita, al cui fondo essa mostra di essere nulla, puro e semplice perire del finito. Negando il negativo, cioè negando il finito, la morte afferma l’assoluto. Questo assoluto negativo, cioè la morte, appare nella forma della pura libertà. La libertà è manifestazione e realizzazione della negatività, della negazione del reale, cioè della morte.

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Questa libertà è la negatività che caratterizza in modo fondamentale l’uomo. Se dunque, la morte è negatività, cioè espressione della negazione ultima del finito, e se la negatività è essenzialmente la manifestazione della libertà, allora può essere libero solo ciò che è destinato a perire, che è votato alla morte. La morte diviene la manifestazione più autentica della libertà.

Come commenta Alexandre Kojève, «la morte – ben s’intenda, la morte volontaria e accettata con piena consapevolezza – è dunque la suprema manifestazione della libertà, per lo meno della libertà “astratta” dell’individuo isolato. Se non fosse essenzialmente e volontariamente mortale, l’Uomo non potrebbe essere libero. La libertà è l’autonomia nei confronti del dato, ossia la possibilità di negarlo come tale; e solo per mezzo della morte volontaria un uomo si può sottrarre all’imperio di qualsivoglia condizione data (= imposta) dall’esistenza. Se non fosse mortale e non potesse darsi la morte senza “necessità”, l’Uomo non sfuggirebbe alla determinazione rigorosa da parte della totalità dell’Essere, la quale in questo caso meriterebbe di essere chiamata “Dio”»44.

Essendo la morte la realizzazione suprema dell’universale nell’esistenza empirica, la facoltà di scegliere la morte è condizione necessaria e sufficiente non solo della libertà e della storicità dell’uomo, ma della sua stessa individualità. Usando le parole di Kojève, la realtà umana è la realtà della morte45, la realtà del negativo, della negatività che apre e fonda la possibilità della libertà. Arrischiato nel proprio essere mortale e nel proprio avere vita, rilkianamente teso verso l’Aperto, l’uomo sperimenta la portata del negativo, la possibilità di fondazione ultima che il negativo ha nei confronti della propria trascendenza. La libertà come ultima figura autentica del finito si può realizzare solo nella misura in cui essa incontri il negativo che la rivela, la morte46.

E’ con l’opera del 1802, Fede e sapere, momento centrale della maturazione hegeliana, e con la dura critica che egli muove all’illuminismo, che Hegel affronta il problema della morte di Dio a partire dalla finitezza e dalla nullificazione della finitezza. Hegel dichiara esplicitamente che «il primo compito della filosofia è conoscere il nulla assoluto»47, e cioè il nulla della finitezza, nella misura in cui essa si chiude in se stessa senza tuttavia negarsi nell’eterno. Solo dalla coscienza del nulla del finito in generale, del mondo e delle cose «la verità si innalza come da un abisso misterioso, che è il suo luogo di nascita»48. Sebbene egli, alla fine del suo scritto, tragga una sorta di bilancio delle filosofie dell’illuminismo e individui due possibili modi di fare filosofia, cioè da un lato al filosofia

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del finito e dall’altro la filosofia dell’infinitezza, tuttavia proprio quest’ultima è ancora lontana dal configurarsi come una filosofia dell’Assoluto, poiché essa deve ancora sfociare, prima di giungere presso l’Assoluto, nel nulla e nel suo abisso: «Il soggetto, posto come infinito, deve cogliere la sua impossibilità di essere il fondamento , deve riconoscersi come non in grado di decidere del vero. Deve alla fine ritrovarsi molto più vicino al nulla. Da qui il suo dolore infinito»49. Citando Pascal, Hegel adopera la famosa espressione “Gott ist tot”, anticipando la celebre sentenza di Nietzsche: «Il puro concetto, ossia l’infinitezza come abisso del nulla, in cui ogni essere sprofonda, deve designare il dolore infinito – dolore che esisteva in precedenza nella cultura solo storicamente e come quel sentimento cu sui riposa la religione dei tempi moderni, il sentimento: Dio stesso è morto, quello stesso sentimento che era stato, per così dire, espresso solo empiricamente nella frase di Pascal: la nature est tell, qu’elle marque partout un Dieu perdu, et dans l’homme, et hors de l’homme»50. Essa definisce il dolore infinito della soggettività moderna che di fronte al mondo ed alla storia coglie solo l’abisso del nulla, ricevendo dalla filosofia di Kant e di Fichte solo una piatta risposta ai suoi interrogativi. La morte di Dio è in realtà la morte dell’uomo, del soggetto inteso quale copula mundi: «Ciò che muore è la posizione del soggetto che dall’angolo limitato del suo cuore pretende di giudicare e definire il tutto, o in termini di perfetta razionalità del cosmo e della storia o in quelli di devastazione. Questa posizione, così come porta alla morte della filosofia, porta al sentimento della morte di Dio»51.

Se la filosofia dell’infinitezza deve pensare la morte di Dio e la conseguente morte dell’uomo, con l’avvicinarsi del soggetto al nulla, la filosofia dell’Assoluto deve invece proclamare la vita di Dio, pensare la vita dell’assoluto, cogliendo la forza del dolore infinito solo come un momento della storia dell’Assoluto, perché solo nella successione dei singoli momenti l’Intero trova la propria vita. Solo quando il dolore infinito avrà acquistato un’esistenza filosofica senza essere più valutato solo come arbitrio o irrazionalità allora la filosofia avrà raggiunto l’idea della libertà assoluta identificata con la stessa necessità assoluta52. Ecco che lo sforzo della filosofia deve concentrarsi su «questo dolore infinito, sul mistero del male, nella sua portata etica e, ben più in profondità, ontologica […]. È qui che si impone la considerazione del negativo in Dio stesso, e quel Gott selbst ist tot, che in prima battuta era solo una proclamazione polemica, acquista una straordinaria densità teologica. Ora Hegel ricorre direttamente al cristianesimo, al venerdì santo. Di esso afferma che “fu già storico”: non si tratta di un mito, ma di un evento reale. Questo dato storico però va pensato nella sua portata, nella sua pretesa assoluta: deve diventare “spekulativen Karfreitag: venerdì santo speculativo”. La passione deve diventare “assoluta”. Il particolare

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storico […] deve trasformarsi in chiave di interpretazione di tutto il dolore infinito, di quell’abisso del nulla di cui la soggettività soffre»53. Il dolore infinito del soggetto non si configura sic et simpliciter come il tappeto su cui si compie la marcia dell’Idea assoluta; piuttosto esso deve attestare la durezza dell’evento della morte di Dio, deve essere, insieme alla pazienza, alla serietà ed al travaglio del negativo uno degli elementi su cui si fonda la realizzazione dell’Assoluto54: «E’ solo da questa durezza – poiché il carattere più sereno, più superficiale e più singolare delle filosofie dommatiche sia della religione naturale deve scomparire – che la suprema totalità in tutta la sua serietà e dal suo più alto riposto fondamento, abbracciando tutto contemporaneamente, e nella più serena libertà della sua figura, può e deve risuscitare»55.

Seguendo Rosenkranz, si può convenire con lui quando afferma che «l’uomo viene portato al dolore della morte di Dio e del morire di ogni vita e di qui nuovamente al suo divenir uno con l’uomo-Dio in cui la specie è conciliata»56. Come scriverà più tardi Hegel nella Fenomenologia, «la coscienza di vivere, la coscienza della propria esistenza ed attività, è soltanto dolore, perché in questa vita essa è consapevole di avere per essenza il suo contrario, e, di conseguenza, è consapevole della propria nullità»57. Solo nella misura in cui si celebri il venerdì santo speculativo «in tutto il suo strazio, in tutto il suo abbandono, nella durezza di questa morte di Dio, non lo si vedrà più – al pari dei discepoli di Kant e Fichte – come il sacrificio dell’esistenza sensibile, ma si vedrà allora sorgere da questa durezza la più profonda dolcezza, la suprema totalità, la più alta idea in tutta la sua serietà e nella sua più serena libertà»58.

Ancora una volta emerge come Hegel abbia dinanzi a sé il negativo e lo intenda pensare con un alto sforzo speculativo, al fine di cogliere al di là del suo valore di dolore e morte, il messaggio di speranza e di necessità insieme per la realizzazione dell’Assoluto. Pensare filosoficamente la morte di Dio significa porsi al di là della “coscienza infelice” di questa stessa morte. L’esperienza del nulla e dell’abisso sono necessarie al pari della «ineludibilità della tragica esperienza della scissione, in cui la coscienza stessa di dà come capacità di differenziazione e di autodistinzione dell’uomo, che non resta testimonianza di una frattura, quanto segno di una rinnovata relazione attraversata dalla consapevolezza, e non solo impregnata dal sentimento della libertà del soggettivo»59.

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Tuttavia, precisa Hegel, con il cristianesimo la morte ha assunto un nuovo significato: essa diventa il termine necessario attraverso il quale approfondire l’idea di dolore religioso che trova nella morte di Dio la sua manifestazione assoluta. La morte dell’uomo è quindi non solo morte del finito, ma anche morte di Dio; ma la morte del finito è altresì la vita del finito e quindi anche la vita di Dio. Questo tema, caro a molti romantici, per il quale l’elemento soggettivo viene esacerbato, permette il salto dalla soggettività assoluta al sacrificio della stessa soggettività assoluta, quindi alla negatività assoluta. Per questo la dura parola che narra della morte di Dio è al medesimo tempo anche la parola più dolce, poiché si assiste ad una reciproca conversione dei termini: la morte di Dio diventa la vita di Dio. Con la morte di Dio, il sensibile cessa di essere tale per divenire universale, permettendo la restaurazione dello Spirito.

All’interno del percorso del giovane Hegel, il vero termine di unione che permette la ricomprensione del dualismo morte di Dio e vita di Dio è la resurrezione di Cristo60; l’opposizione si unifica sotto l’idea di un Dio che è amore: «La realtà sensibile non è più qualcosa di transeunte; il velo sensibile è risorto nella tomba e rimane congiunto a Dio»61. Resurrezione che tuttavia, pur configurandosi come il termine necessario per l’abbattimento dei residui soggettivistici e per l’apparizione dello spirito, secondo l’interpretazione di Hegel viene dai discepoli di Cristo non compresa nella sua effettiva portata. Questi, dopo la sua morte, si trovarono smarriti tra ciò che era visibile e ciò che era invisibile, tra lo spirito e la materia. Essi restarono prigionieri della materia e di ciò che essa custodiva; non furono in grado di ergersi al di sopra di questa per abbracciare l’avvento imminente dello spirito: «Indubbiamente il loro stato era superiore a quello in cui versavano prima dell’avvento di Gesù, poiché avevano visto che l’assoluto può incarnarsi e Dio morire. Il loro torto è quello di prestare troppa attenzione all’ora, al luogo della sua morte, di confondere l’apparizione storica originale con la nozione, di rivolgere il loro pensiero ad un essere affatto particolare ed esteriore […]. Vedere nella storia solo la storia stessa e nella positività solo la positività è restare prigionieri del male»62.

Se l’emergere del negativo negli scritti giovanili trova la sua flessione nella parabola che va dal finito alla resurrezione, passando attraverso la morte di Dio e la morte dell’uomo, del soggetto, tuttavia è nella Fenomenologia dello spirito, “opera-sorella” del Faust di Goethe come suggerisce Ernst Bloch63, che esso riceve una dimensione interna all’assoluto, una dimensione cioè che si caratterizza come la via che conduce all’assoluto: la dialettica.

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La negatività è il nerbo stesso della dialettica, la dialettica medesima. La negatività assume ora la veste della negazione determinata, della negazione di ogni figura e di ogni forma che sa consapevolemente di non essere presso la verità. Infatti, «per la coscienza impegnata nell’esperienza, ciò che la colpisce è sopra tutto il carattere negativo del suo risultato. All’inizio essa poneva una certa verità che aveva per lei un valore assoluto, e durante il viaggio la perde […]. Il duplice significato del verbo aufheben costantemente impiegato da Hegel ci rivela tuttavia che tale appercezione puramente negativa del risultato costituisce solo la meta della verità. Proprio questo significato della negatività permette a Hegel di affermare che “il ciclo completo delle forme (Formen) della coscienza non reale risulterà dalla necessità stessa del processo e della connessione”»64. Sembrano corrette, a tal proposito le riflessioni formulate da Adorno, quando scrive che «il nerbo della Dialettica, come metodo, è la negazione determinata. Essa si fonda sull’esperienza dell’impotenza della critica; sino a che questa si tiene nel generale, si sbriga dell’oggetto criticato sussumendolo dall’alto sotto un concetto quale suo mero rappresentante. Fecondo è solo il pensiero critico che libera l’energia accumulata nel suo proprio oggetto, promuovendolo, in quanto lo porta ad essere per se stesso; ma nello stesso tempo contrastandolo in quanto l’ammonisce che ancora non è se stesso. La sterilità di ogni cosiddetto lavoro spirituale, che si assesta nella sfera del generale senza sprecarsi con ciò che è specifico, è avvertita da Hegel, non per recriminarla, quanto piuttosto per una finalità critico-produttiva. La Dialettica significa che la conoscenza filosofica non dimora là dove la sua provenienza l’ha fatta approdare, dove essa prospera troppo facilmente, alleggerita dal peso e dalla resistenza dell’essente; ma che essa comincia autenticamente nel punto in cui rompe ciò che al pensiero abituale sembra opaco, impenetrabile, mera individuazione»65.

Come evidenzia Rosenkranz, «per Hegel il carattere arido delle comuni trattazioni della logica consiste principalmente in ciò: che le determinazioni valgon fissate nella loro immobilità e vengon messe fra loro solo in una relazione estrinseca […]. Egli mostra […] che solo la coscienza della forma dell’intimo automovimento del contenuto […] può superare la mancanza di vita della logica formale. L’unico punto per raggiungere il procedimento scientifico […] è la conoscenza di questa proposizione logica, che il negativo è insieme anche positivo, ossia che quello che si contraddice non si risolve nello zero, nel nulla astratto, ma essenzialmente solo nella negazione del suo contenuto particolare, vale a dire che una tale negazione non è una negazione qualunque, ma la negazione di quella cosa determinata; nel risultato è quindi essenzialmente contenuto quello da cui risulta […]. Quel che risulta, la negazione, in quanto è negazione determinata, ha un contenuto. Cotesta negazione è un nuovo concetto, ma un concetto che è superiore e più ricco che non il precedente. Essa è infatti divenuta più ricca di quel tanto che è costituito dalla negazione, o dall’opposto di quel concetto. Contiene dunque il concetto precedente, ma contiene anche di più, ed è l’unità di quel concetto e del suo opposto»66.

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La negazione è sempre una negazione determinata, essa «non è né questo né quello ma è un non-questo»67. L’oggetto della coscienza sensibile, attraverso la negazione, è posto «come non questo, come rimosso. Ciò significa che non è un mero nulla, ma un nulla determinato, il nulla del contenuto, cioè, appunto, il nulla del Questo. […] La rimozione presenta qui il suo vero, duplice significato che abbiamo visto nel negativo: essa è, a un tempo, un negare e un conservare»68. Proprio perchè essa, cioè la negazione, permette a seguito del suo atto negatore, la negazione e la conservazione del contenuto negato, essa muove il divenire, la mediazione, la dialettica. «In quanto soggetto, la sostanza è la negatività pura e semplice, e proprio per questo è lo sdoppiamento del semplice, è la duplicazione opponente che a sua volta costituisce la negazione di questa diversità indifferente e della sua opposizione: solo questa uguaglianza restauratesi […] è il vero»69. E poco oltre continua Hegel: «La mediazione, infatti, non è altro che l’autouguaglianza che si muove da se stessa, è la riflessione entro sé, il momento dell’Io essente-per-sé, è la negatività pura: abbassata alla sua astrazione pura, la mediazione è il puro e semplice divenire»70. La negatività è ciò che muove il divenire, è ciò che permette lo scarto della disuguaglianza: «La disuguaglianza, che ha luogo nella coscienza, tra l’Io e la sostanza che ne è l’oggetto, è propriamente la loro differenza, il negativo in generale. Il negativo può essere considerato come l’insufficienza i tutti e due, ma è comunque la loro anima, ciò che li muove entrambi. Per questa ragione gli antichi concepirono il vuoto come motore, intendendo con ciò appunto il negativo, anche se non giunsero a determinare il negativo stesso come Sè»71. Essendo la negazione mediazione, essa è «momento essenziale dell’universale, e nell’universale essa è dunque differenza universale»72.

Nel duplice movimento dell’essente, cioè sia in quello del divenire altro da sé divenendo tuttavia suo proprio contenuto, sua propria sostanza, sia in quello del tornare entro sé riprendendo la manifestazione del proprio contenuto immanente, la negatività conosce la sua manifestazione come negatività determinata e il suo superamento nella determinatezza: «Nel primo movimento, la negatività è l’attività di differenziare e di porre

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l’esistenza; nel ritorno entro sé, invece, la negatività è il divenire della semplicità determinata»73. Attraverso questo procedere la determinatezza del contenuto non viene da fuori o da qualcosa di estraneo a sé, quanto è lo stesso contenuto a rendersi determinato, a configurarsi come un momento all’interno della manifestazione del Tutto.

Il negativo, dunque, assume la prima veste della disuguaglianza dell’Io con la sua propria sostanza; ma non solo: esso è anche la disuguaglianza della sostanza con se stessa, poiché «è essa stessa essenzialmente il negativo, sia come differenziazione e determinazione del contenuto, sia come semplice atto del differenziare, cioè come Sé e sapere in generale»74. Solo in questo senso il procedere dello spirito che giunge alla verità può contenere in sé il negativo, inteso come la determinazione più propria del movimento dialettico e della successione dei momenti che in esso trovano la loro verità: «La verità include dunque al proprio interno anche il negativo […]. Il vero è il delirio bacchico in cui non c’è membro che non sia ebbro; e poiché ciascun momento, mentre tende a separarsi dal Tutto, altrettanto immediatamente si dissolve, questo delirio è anche la quiete trasparente e semplice. Nel tribunale di quel movimento, né le singole figure dello Spirito né i pensieri determinati hanno sussistenza propria; ma, nella misura in cui sono momenti negativi e dileguanti, essi costituiscono altrettanti momenti positivi e necessari. Nella totalità del movimento, intesa come quiete, ciò che si differenzia e si dà un’esistenza particolare è conservato come qualcosa che ha memoria di sé, come qualcosa la cui esistenza è il sapere di se stesso, e a sua volta questo autosapere è, non meno immediatamente, un’esistenza»75.

Nell’economia del Tutto, il porsi dell’esistenza particolare comporta la stessa posizione del negativo, il quale emerge come dissoluzione, come momento necessario in cui questa medesima esistenza trapassa. L’esistenza concreta della figura deve assumere la forma dell’esistenza logica, dello speculativo. Solo nella veste del concetto il pensiero riesce a formulare un’adeguata comprensione del negativo. A differenza del pensiero raziocinante, che «si comporta negativamente verso il suo contenuto appreso, sa cioè di confutarlo e ridurlo a nullità»76, ponendo in essere una riflessione nell’Io tale da renderlo vuoto e vano, senza rendere ragione del negativo che investe il contenuto del pensiero, comprendendolo come qualcosa di altro rispetto alla specificità del suo proprio oggetto, nel pensiero concettuale invece «il negativo appartiene al contenuto stesso, ed è a un tempo il positivo, sia come movimento e determinazione immanente del contenuto, sia come totalità di entrambi. Ciò che sorge da questo movimento, preso come risultato, è il negativo determinato, e pertanto è, al tempo stesso, un contenuto positivo»77. La negatività del

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negativo, cioè la non conoscenza della sua positività all’interno dell’economia del procedere dello spirito, appare tale solo dal punto dell’unilateralità della coscienza naturale e non dal punto di vista del concetto, il quale è per la coscienza stessa, il proprio contenuto. Scrive Hegel: «Il positivo, infatti, è solo rapporto a un negativo, cioè: il positivo, come negativo, è in se stesso la differenza da se stesso»78. E nella Scienza della Logica scrive: «Positivo e negativo son lo stesso. Questa espressione appartiene alla riflessione esterna, in quanto con queste due determinazioni essa stabilisce un confronto. Non è però un confronto esterno, quello che bisogna stabilire tra coteste determinazioni, come nemmeno fra le altre categorie, ma esse devono esser considerate in loro stesse, vale a dire, bisogna considerare che cos’è la lor propria riflessione. Ora in questa si è mostrato che ciascuno è essenzialmente il suo parere nell’altro ed addirittura il suo proprio porsi come l’altro […]. Anche per la riflessione esterna è però facile il considerare che, in primo luogo, il positivo non è un immediato identico, ma da un lato è un contrapposto del negativo, mentre solo in questa relazione ha un significato, cosicché il negativo sta appunto nel suo concetto, e che dall’altro lato poi il positivo ha in lui stesso la negazione riferentesi a sé del semplice esser posto ossia del negativo, però è esso stesso l’assoluta negazione in sé. – In egual maniera il negativo, che sta di contro al positivo, ha un significato solamente in questa relazione a questo suo altro; lo contiene dunque nel suo concetto. Ma il negativo ha anche senza riferimento al positivo una sua propria sussistenza; è identico on sé. Ma così è appunto quello che doveva essere il positivo»79.

L’idea della negatività rimanda ad una pienezza del movimento dialettico: essa non è solo la molla della passione del finito, ma anche la molla del procedere logico. Solo in virtù del negativo si può compiere la liberazione del finito e solo attraverso il ritorno del negativo in se stesso lo spirito, l’idea giungono alla propria pienezza, alla propria autoconsapevolezza.

Se la speculazione di Hegel conosce fino alla Fenomenologia un uso della negazione che renda ragione del procedere dialettico del vero, dello spirito, è soprattutto nelle opere successive, in particolar modo nella Scienza della Logica e nell’Enciclopedia, che la negazione ed il negativo mostrano la loro potenza dinamica all’interno dell’economia del sistema, rivelando come la negazione sia davvero il termine ultimo per mezzo del quale il reale diviene, e divenendo si pone, esiste, è manifestazione dell’assoluto, includendo in sé la differenza. Proprio sulla scia della funzione fondativa che Hegel ha assegnato al negativo ed alla negatività che, come riconosce Nietzsche, è stata la prima a portare la contraddizione nel cuore stesso della filosofia e della storia, il pensiero contemporaneo non ha potuto non subire in modo evidente la seduzione del negativo: seduzione che, per certi aspetti, ha assunto le sembianze di una valorizzazione. In tal senso, Hegel è stato il primo a portare la filosofia verso un confronto radicale e necessario con il negativo, senza

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prospettare alcuna possibilità di fuga di fronte ad esso.

NOTE

∗ B. CROCE, Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Laterza, Bari 1952, p. 36. G. W. F. HEGEL, Phänomenologie des Geistes, in Gesammelte Werke, Bd. 9, hrsg. von W. Bonsiepen und R. Heede, F. Meiner; Hamburg 1980; Fenomenologia dello spirito, trad. it. a cura di V. Cicero, Rusconi, Milano 1995, p. 85 s. 2 Sul periodo di Tubinga di Hegel si rimanda a K. ROSENKRANZ, Hegels Leben, Berlin 1844; Vita di Hegel, trad. it. a cura di R. Bodei, Vallecchi, Firenze 1966, pp. 46 ss. Per il contenuto del patto di Tubinga si ricordi il frammento di sistema redatto probabilmente nei primi mesi del 1797 da Hegel a Francoforte. Cfr. F. HÖLDERLIN, Il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco, in Scritti di estetica, trad. it. a cura di R. Ruschi, Mondatori, Milano 1987, pp. 161 ss. 3 L’amicizia che legò Hölderlin – definito da Mittner come «il più grande lirico tedesco dopo Goethe, un romantico che visse fuori dei confini del romanticismo vero e proprio» (L. MITTNER, Storia della letteratura tedesca, Einaudi, Torino 1971, vol. II, tomo III, p. 707 s.) – Schelling ed Hegel trovò forma nel famoso patto di Tubinga. La comunanza di studi, di idee, di aspirazioni politiche, il motto spinoziano dell’ en kai pan avrebbero dovuto unire i tre fino alla fine della loro vita. Ma ciò non accadde. Schelling ed Hölderlin rimasero quasi sempre in contatto, ma non così Hölderlin ed Hegel. Nella lettera dell’11 luglio 1809 Schelling scriveva ad Hegel dicendo: «La vista più triste che mi è toccata di vedere durante il mio soggiorno qui, è stata quella di Hölderlin. Dopo un viaggio in Francia, dove era andato dietro raccomandazione del Prof. Ströhlin, con delle immagini completamente false su ciò che avrebbe dovuto fare nel suo nuovo incarico, e da dove egli ritornò subito, perché sembra che si siano pretese da lui cose che in parte non era in grado di compiere, e in parte non potevano conciliarsi con la sua sensibilità - dopo questo fatale viaggio, dicevo, egli è stato completamente stravolto nello spirito, e sebbene fino a un certo punto sia ancora in grado di fare certi lavori, ad esempio tradurre dal greco, per il resto è però in una completa assenza di spirito. La sua vista è stata per me sconvolgente: egli trascura il suo sembiante esteriore al punto da essere ripugnante, e mentre i suoi discorsi rivelano solo in parte l’alienazione mentale [Verrückung], egli ha assunto ormai nelle maniere esteriori il comportamento di coloro che si trovano in tale situazione. Qui non vi è alcuna speranza di farlo ristabilire. Pensavo di chiederti se tu avessi voluto prenderti cura di lui, nel caso in cui egli venisse a Jena, cosa di cui aveva piacere. Egli ha bisogno di un ambiente tranquillo, e possibilmente potrebbe essere ricondotto alla ragione con un trattamento appropriato. Chi volesse incaricarsi di lui, dovrebbe senz’altro fargli da precettore, e ricostituirlo dalla testa ai piedi. Se soltanto si potesse sopportare il suo aspetto esteriore, egli non rappresenterebbe affatto alcun peso, perché egli è silenzioso e raccolto in se stesso» (G. W. F. HEGEL, Epistolario, a cura di P. Manganaro, Guida, Napoli 1983, vol. I, p. 178). Hegel non accetterà la proposta di Schelling e non vedrà mai più l’amico folle.4 A tal proposito si ricorda brevemente la posizione di fondo della teologia hölderliniana. La figura centrale di tutta la produzione lirica di Hölderlin è quella di Cristo, a cui egli rimase sempre disperatamente attaccato. Cristo è l’ultimo dio, il dio a venire, «colui che visse presentemente in mezzo agli uomini, lasciò a coloro che sono abbandonati nella notte la consolazione e la promessa del ritorno» (H. G. GADAMER, Oleine Schriften 2: *Interpretationen, Tübingen, Mohr 1979; Interpretazioni di poeti, trad. it. dei cap. I e II a cura di M. Bonola, dei cap. III e IV a cura di G. Bonola, Marietti, Casale Monferrato 1980, p. 17). Come Dioniso, anche Cristo è l’ultimo dio, il signore dell’epoca futura, la seconda potenza schellinghiana che permette il ritorno alla pienezza dell’unione tra il Padre e lo Spirito. Nella terza stesura de L’Unico, Hölderlin scrive: «Cristo però si destina da solo. / Ercole è come i prìncipi, Bacco è spirito di comunione. Cristo però è / la fine» (F. HÖLDERLIN, L’Unico, in Le liriche, trad. it. a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano 1993, p. 965). Cristo è il momento di passaggio, è presenza nel destino storico dell’Occidente. Cristo entra nella poesia di Hölderlin sotto le sembianze di Dioniso e, come lui, lascia agli uomini la promessa del ritorno attraverso il pane ed il vino, i simboli dell’eucarestia cristiana e della tradizione bacchica. Dioniso, dio dell’ebbrezza, è colui che muore e risorge e risorgendo promette agli uomini, come Cristo, la sua venuta. Ma Cristo, come dio a venire, è presente nell’epoca della povertà nella sua assenza; in tale assenza del Dio, nasce il ricordo della promessa del ritorno a venire. Su questo tema si rimanda a

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A. GIANNATIEMPO QUINZIO, Influssi pietistici e istanze escatologiche nella poesia di Friedrich Hölderlin, in “Baillame”, n°. 14, 1993, pp. 143 ss. Sulla centralità della figura di Cristo nel pensiero del giovane Hegel, tema studiato sotto più riguardi dalla critica filosofica, si rimanda a C. FABRO, Hegel e il cristianesimo, in “Ethica”, III, 1970, pp. 161 ss.; A. CARACCIOLO, La religione e il cristianesimo nell’interpretazione di Hegel, in AA. VV., L’opera e l’eredità di Hegel, Laterza, Bari 1972, pp. 49 ss.; C. ANGELINO, Religione e filosofia. Temi e problemi della filosofia della religione, Il Melangolo, Genova 1983, pp. 47 ss.; M. BORGHESI, La figura di Cristo in Hegel, Studium, Roma 1983; M. BORGHESI, L’età dello spirito. Dal Vangelo “storico” al Vangelo “eterno”, Studium, Roma 1995, pp. 145 ss.; S. SEMPLICI, Socrate e Gesù. Hegel della grecità al problema dell’Uomo-Dio, CEDAM, Padova 1987; P. CODA, Il negativo e la Trinità. Ipotesi su Hegel. Indagine storico-sistematica sulla “Denkeform” hegeliana alla luce dell’ermeneutica del cristianesimo. Un contributo al dibattito contemporaneo sul Cristo crocifisso come rivelazione del Dio trinitario nella storia, Città Nuova, Roma 1987. 5 Nell’agosto del 1796 Hegel invia ad Hölderlin una poesia dal titolo Eleusi, in cui egli esprime «la gioia della certezza di trovar ancora più salda e matura la fedeltà dell’antico patto, al patto che nessun giuramento sigillò, di vivere unicamente per la verità e mai, proprio mai, tener pace col dogma che governa opinione e sentimento» (G. W. F. HEGEL, Epistolario, cit., vol. I, p. 134). Il patto di Tubinga afferma la lotta contro il dogma e ruota attorno alla critica al cristianesimo ortodosso ed istituzionale. L’ideale unificante era dato dalle nozioni di “Regno di Dio” e di “Chiesa invisibile”, l’ultima intesa come attuazione della prima, esito della diffusione della libertà. Il “Regno di Dio”, afferma Hegel in una predica del 1793 al seminario teologico, «non è uno stato mondano, come i suoi discepoli e i suoi contemporanei hanno a lungo sperato […]. Non è nemmeno la chiesa visibile […]. Non si mostra in cerimonie esteriori» ma è qualcosa di interiore (G. W. F. HEGEL, Scritti giovanili, trad. it. a cura di E. Mirri, Guida, Napoli 1993, vol. I, p. 132 s.). Nella Vita di Gesù scrive: «Il regno di Dio non si mostra con sfarzo o con avvenimenti esteriori: non si può mai dire “eccolo, è qua o là”, poiché il regno di Dio deve essere edificato dentro di voi […]. Non sperate di vedere il regno di Dio in un’esteriore e splendente unificazione di uomini, nella forma esteriore di uno stato, di una società, di una chiesa retta da leggi pubbliche» (G. W. F. HEGEL, Scritti giovanili, cit., vol. I, p. 376). Colui che sa attendere e riconoscere il regno di Dio è un membro della Chiesa invisibile, è cittadino del regno della moralità ed i suoi doveri sono quelli che egli impone a se stesso. Come afferma Rosenkranz, «poiché dunque Hegel racchiudeva la religione nell’interiorità e voleva saperla sottratta all’ispezione poliziesca di un’autorità ecclesiastica, dovette porsi per lui il problema di confrontare gli ordinamenti di una religione positiva nella dottrina, nella morale e nel cerimoniale, con il concetto di una Chiesa invisibile» (K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel, cit., p. 66 s.). Sulla ricezione e derivazione del concetto di Chiesa invisibile di Hegel da parte del pensiero filosofico a lui precedente si rimanda a M. BORGHESI, L’età dello spirito. Dal Vangelo “storico” al Vangelo “eterno”,cit. , pp. 24 ss. 6 Sull’influenza della rivoluzione francese nel clima culturale tedesco si rimanda a V. VERRA, La rivoluzione francese nel pensiero tedesco dell’epoca, in “Filosofia”, 1969, pp. 411 ss.; G. BAIONI, Classicismo e rivoluzione. Goethe e la rivoluzione francese, Guida, Napoli 1969; R. BODEI, Le dissonanze del mondo. Rivoluzione francese e filosofia tedesca tra Kant e Hegel, in AA. VV., L’eredità della rivoluzione francese, a cura di F. Furet, Laterza, Bari 1989, pp. 103 ss. Per l’interesse di Hegel nei confronti della rivoluzione francese si rimanda a J. RITTER, Hegel und die Französische Revolution, Köln und Opladen 1957; Hegel e la rivoluzione francese, trad. it. a cura di A. Calcagni, Guida, Napoli 1970; O. PÖGGELER, Hegels Idee einer “Phänomenologie des Geistes”, Freiburg – München 1973; Hegel. L’idea di una fenomenologia dello spirito, trad. it. a cura di A. De Cieri, Guida, Napoli 1986, pp. 59 ss. 7 P. PIOVANI, Incidenza di Hegel, in AA. VV., Incidenza di Hegel. Studi raccolti nel secondo centenario della nascita del filosofo, a cura di F. Tessitore, Morano, Napoli 1970, p. 13.8 K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel, cit., p. 221.Scrive Jean Wahl: «Alla piatta teoria della felicità dell’Aufklärung verrà contrapposta una concezione più profonda in cui la felicità sarà sentita nel suo carattere intenso e delicato, in cui ci sarà, come dice l’eroe di Hölderlin, una serenità nella sofferenza. Ora, la storia della coscienza infelice, perché la si possa veramente ripercorrere e vivere, dovrà risolversi nel ricordo, nell’interiorizzazione (Erinnerung) della coscienza infelice stessa; si tratterà di viverla per descriverla. Ciò è tanto più necessario in quanto il Siegfried filosofico, non-siegfriediano, non potrà raggiungere la coscienza veramente felice che dopo aver conosciuto il dolore. “Attraverso l’afflizione dell’amore, l’intima sofferenza mi aprì gli occhi”. Parsifal conosce la gioia perfetta solo dopo aver udito il pianto di Amfortas e il gemito universale. La dialettica stessa, presa nel suo insieme e soprattutto considerata fenomenologicamente,

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che altro non è se non il racconto delle afflizioni della coscienza, mai appagata, poiché mai completa? Solo quando avrà preso coscienza del suo capovolgimento, di questo lungo vagabondaggio, quando Ulisse potrà, reincarnandosi in Omero, cantare la propria Odissea, essa conseguirà la felicità» (J. WAHL, Le malheur de la coscience dans le philosophie de Hegel, Presses Universitaires de France, Paris 1951; La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, trad. it. a cura di F. Occhetto, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 26 s.).9 Si ricordino le parole di Heidegger a proposito del tema del dolore che percorre tutta la speculazione hegeliana: «Il tratto fondamentale della metafisica di Hegel, ossia quell’unità che unisce la Fenomenologia dello Spirito e la Scienza della logica […] è l’ “assoluta negatività” intesa come “forza infinita” della realtà, cioè del “concetto esistente”. Nella stessa (e non identica) appartenenza alla negazione della negazione, lavoro e dolore rivelano la più intima parentela metafisica» (M. HEIDEGGER, La questione dell’essere, in Segnavia, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 253 s.).10 Emblematiche suonano le parole d’apertura della Stella della redenzione di Franz Rosenzweig, con cui egli formula una dura critica alla filosofia, dalla Jonia a Jena, ed in particolar modo all’idealismo, partendo dal presupposto che la filosofia non sappia soggiornare presso il negativo, non sappia cioè rendere ragione dell’effettiva esistenza del negativo all’interno dell’ordine reale del tutto. In questa dura critica Hegel assurge a paradigma di sommo rappresentante della consolatio philosophiae ad animam, cfr F. ROSENZWEIG, Der Stern des Erlösung, Nijhoff, The Hague 1981; La stella della redenzione, trad. it. a cura di M. Bonola, Marietti, Casale Monferrato 1985, pp. 3 ss.11J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 3.Scrive sempre Wahl: «Se è vero che il problema di Nietzsche è stato quello di rendere, con la disperazione più profonda, sommamente invincibile la speranza, si può dire che il problema di Nietzsche e quello di Hegel sono un solo medesimo problema. Ma anziché vedere nel metodo della contraddizione un antirazionalismo, come Pascal e Nietzsche, egli ha tentato di enunciare con l’aiuto di questo stesso metodo una teoria della ragione; non si serve dei processi del suo pensiero come d’un’apologia, né li assume come momenti attraverso cui passa la vita soggettiva del suo spirito, tenta bensì di farne dei momenti della vita dello spirito in generale» (J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 16).12 A. MASSOLO, Ricerche sulla logica hegeliana, Marzocco, Firenze 1950, p. 26.13 Cfr. K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel, cit., p. 100.14 Cfr. G. W. F. HEGEL, Epistolario, cit., vol. I, pp. 141 ss.; p. 138; p. 140.15 G. W. F. HEGEL, Epistolario, cit., vol. I, p. 145.16 Cfr. G. W. F. HEGEL, Epistolario, cit., vol. I, p. 148.17 G. W. F. HEGEL, Epistolario, cit., vol. I, p. 149. 18 F. ROSENZWEIG, Hegel und der Staat, München-Berlin 1920; Hegel e lo stato, trad. it. a cura di A. L. Künkler Giavotto e R. Curino Cerrato, Il Mulino, Bologna 1976, pp. 88 ss.19 E. D’ANTUONO, L’eidòs del negativo. Hegel e l’ “oscuro enigma” ebraico, in R. BONITO OLIVA, G. CANTILLO (a cura di), Fede e sapere. La genesi del pensiero del giovane Hegel, Guerini, Milano 1998, p. 377 s.20 Cfr. W. DILTHEY, Die Jugendgeschichte Hegels, in Gesammelte Schriften, Bd. IV, Teubner, Stuttgart und Vandenhoeck u. Ruprecht, Göttingen, 4. unveränderte Auflage 1968; Storia della giovinezza di Hegel, trad. it. a cura di G. Cavallo Guzzo, Guida, Napoli 1986, p. 63.21 W. DILTHEY, Storia della giovinezza di Hegel, cit., p. 74.22 Cfr. K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel, cit., pp. 105 ss.23 G. W. F. HEGEL, Systemfragment von 1800, in K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel, cit., p. 116.24 J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 43.25 J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 40.26 G. W. F. HEGEL, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, trad. it. a cura di N. Vaccaro e E. Mirri, Guida, Napoli 1972, p. 372. 27 G. W. F. HEGEL, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, cit., p. 372.28 G. W. F. HEGEL, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, cit., p. 409. 29 G. W. F. HEGEL, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, cit., p. 404.30 G. W. F. HEGEL, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, cit., p. 406.31 J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 44.32 J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 39.33 G. W. F. HEGEL, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, cit., p. 401.34 G. W. F. HEGEL, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, cit., p. 403.35 G. W. F. HEGEL, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, cit., p. 421.

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36 G. W. F. HEGEL, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, cit., p. 422. 37 G. W. F. HEGEL, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, cit., p. 424. 38 J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 47 s.39 M. BORGHESI, La figura di Cristo in Hegel, cit., p. 29.40 K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel, cit., p. 155.41 M. BORGHESI, L’età dello spirito. Dal Vangelo “storico” al Vangelo “eterno”, cit., p. 182 s. 42 K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel, cit., p. 156.43 J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 50.Come sottolinea Vito Mancuso, il procedere hegeliano, «volto alla sintesi ed all’armonia che provengono dall’unificazione, opera nella religione cristiana in senso opposto, ossia dissociando, dividendo, distinguendo. Il dato storico, il significante, viene dissociato dal suo concetto, il significato. Il destino del cristianesimo viene individuato nel morire, per far nascere da sé la pienezza della vita e dell’amore» (V. MANCUSO, Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del “Principe di questo mondo”, Piemme, Casale Monferrato 1996, p. 73). 44 A. KOJÈVE, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, trad. it. a cura di P. Serini, Einaudi, Torino 1991, p. 181 s.45 Cfr. A. KOJÈVE, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, cit., p. 196.46 Per un’interessante lettura della morte e del negativo in Hegel cfr. G. BATAILLE, Hegel, la morte e il sacrificio, in AA. VV., Sulla fine della storia, a cura di M. Ciampa e F. Di Stefano, Liguori, Napoli 1985, pp. 71 ss. 47 G. W. F. HEGEL, Fede e sapere, in Primi scritti critici, trad. it. a cura di R. Bodei, Mursia, Milano 1971, p. 251.48 G. W. F. HEGEL, Fede e sapere, in Primi scritti critici, cit., p. 252.49 V. MANCUSO, Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del “Principe di questo mondo”, cit., p. 120.50 G. W. F. HEGEL, Fede e sapere, in Primi scritti critici, cit., p. 252.51 V. MANCUSO, Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del “Principe di questo mondo”, cit., p. 121.52 Cfr. G. W. F. HEGEL, Fede e sapere, in Primi scritti critici, cit., p. 253.53 V. MANCUSO, Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del “Principe di questo mondo”, cit., p. 121 s.54 Cfr. G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 69.55 G. W. F. HEGEL, Fede e sapere, in Primi scritti critici, cit., p. 253.56 K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel, cit., p. 157.57 G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 309.58 J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 128.59 R. BONITO OLIVA, La questione del nichilismo e la questione del soggettivo, in R. BONITO OLIVA, G. CANTILLO (a cura di), Fede e sapere. La genesi del pensiero del giovane Hegel, cit., p. 276.60 «Il pensare e ripensare di Hegel, in ogni periodo, con frequenza diversa ma costante interesse, al valore della “figura tragica” del Cristo è attrazione verso la tragicità irrisolubile» (P. PIOVANI, Incidenza di Hegel, in AA. VV., Incidenza di Hegel. Studi raccolti nel secondo centenario della nascita del filosofo, cit., p. 13).61 J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 99. 62 J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 102 s.63 «Per quanto remota sia la strada tracciata dalla Fenomenologia, esiste un’opera-sorella relativamente più accessibile, mediante la quale si può chiarire continuamente il suo movimento e la meta del suo viaggio. Quest’opera, come è orami chiaro, è il Faust di Goethe, un’opera poetica sorta, sotto molti aspetti, dalla stessa situazione spirituale da cui è nata la Fenomenologia […]. L’introduzione alla Fenomenologia chiarisce la struttura del Faust quasi come quella della Fenomenologia; entrambe sono unite nel motivo del viaggio, nella compenetrazione, dialetticamente autoplasmantesi, di soggetto-oggetto e di oggetto-soggetto» (E. BLOCH, Subjekt-Object. Erläuterungen zu Hegel, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1962; Soggetto-Oggetto. Commento a Hegel, trad. it. a cura di R. Bodei, Il Mulino, Bologna 1975, p. 74 s.).Alle parole di Bloch fanno eco quelle di Jean Wahl: «L’intera Fenomenologia è, si può dire, un movimento di disincarnazione del particolare, che si spiega con il movimento inverso per cui l’universale s’è incarnato, ed è divenuto veramente universale solo divenendo particolare, incarnandosi. Essa è riflessione sopra una transustanziazione; è lo studio del travaglio dello spirito che nasce a se stesso, che si rivela a se stesso. Il dolore del parto, il fumo nero dell’incendio donde rinascerà la Fenice, è il dolore e l’aspirazione che penetrano tutte queste figure» (J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 110 s.).64 J. HYPPOLITE, Genèse et structure de la “Phénomenologie de l’Esprit” de Hegel, Montagne, Paris 1946; Genesi e struttura della “Fenomenologia dello Spirito” di Hegel, trad. it. a cura di G. A. De Toni, La Nuova Italia, Firenze 1972, p. 19.

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65 TH. W. ADORNO, Drei Studien zu Hegel, Frankfurt a. M. 1963; Tre studi su Hegel, trad. it. a cura di F. Serra, Il Mulino, Bologna 1971, p. 103 s.66 K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel, cit., p. 305 s.67 G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p.173.68 G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 189.69 G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 69.70 G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 71.71 G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 91.72 G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 233.73 G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 113.74 G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 95.75 G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 105.76 G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 123.77 G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 123.78 G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 237 s.79 G. W. F. HEGEL, Wissenschaft der Logik, Duncker und Humblot, Berlin 1841; Scienza della logica, trad. it. a cura di A. Moni, Laterza, Bari 1981, vol. II, p. 486 s.

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